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Federico

Battistutta
Assalto al cielo. La teologia politica di Mario Tronti

“Per preghiera, dovete intendere qualcos’altro rispetto al canto nella Chiesa
cristiana: pregando si grida, si geme, si prende d’assalto il cielo”.
Jacob Taubes, La teologia politica di san Paolo, Milano, Adelphi, 1997


Per il conflitto sociale
Pensare la politica come una pratica di trasformazione sociale e agita fino in
fondo come espressione, non di un’astratta volontà generale, ma scegliendo
deliberatamente la parzialità, il collocarsi da una ben precisa parte: quella del
punto di vista degli ultimi. Ecco, queste poche, scarne righe possono forse
sintetizzare tutto il lavoro intellettuale di Mario Tronti che si dipana ormai da
oltre mezzo secolo. Una recente raccolta di suoi testi (Il demone della politica.
Antologia di scritti 1958-2015, Bologna, Il mulino, 2017, a cura di Matteo
Cavalleri, Michele Filippini e Jamila M. H. Mascat, a cui vanno riferite, salvo
diversa indicazione, le citazioni che seguono) testimonia questa lunga militanza
intellettuale.
La sua vicenda prende avvio nei primi anni Sessanta quando, insieme a Raniero
Panzieri (un dissidente del Partito Socialista), darà vita alla rivista “Quaderni
Rossi” e con essa alla corrente del marxismo operaista. In quegli anni le
organizzazioni storiche (partiti e sindacati) della classe operaia erano legate
all'idea di un progressivo sviluppo delle forze produttive, motore del cammino
dell'umanità verso una società migliore, ma ostacolato dall'anarchia del mercato
e distorto dall'iniqua distribuzione della ricchezza sociale, entrambe causate
dall’economia capitalista. Tale visione, che leggeva il capitalismo come proprietà
privata e mercato, contrapponendogli un socialismo inteso come proprietà
pubblica e pianificazione, finiva per accettare sostanzialmente l'organizzazione
capitalistica della produzione. Ma in quegli stessi anni l'irruzione nel mercato del
lavoro di una nuova figura sociale, quella dell’operaio non specializzato (che gli
operaisti chiameranno operaio-massa), scompaginerà le carte. Tronti, insieme
agli altri operaisti, analizzando quei mutamenti, propose una differente analisi
delle relazioni di classe, ponendo in particolare l’attenzione sull’elemento
soggettivo, rivendicando la centralità politica della classe e non delle
organizzazioni politiche e sindacali che all’epoca lo rappresentavano,
costituendo in buona parte la matrice da cui successivamente si sarebbero
originati i movimenti sociali e politici lungo tutto il periodo 68-77. A
testimonianza di quella fase resta l’opera senz’altro più importante di Tronti,
Operai e capitale (uscita nel 1966 nei saggi einaudiani). Il titolo stesso del libro
compendia bene l’intero metodo operaista, vale a dire la dichiarazione di un
conflitto irriducibile fra classe operaia e sviluppo capitalistico, un conflitto tale
da assumere una vera e propria portata ontologica tra l’irriducibilità della vita,
da una parte, e le dinamiche di sfruttamento di questa, dall’altra.
Ma da quel periodo ben presto lo stesso Tronti prenderà le distanze,
considerandolo esaurito e scegliendo di rientrare nelle fila del Partito Comunista
(facendo anche più volte parte del comitato centrale), intraprendendo a quel
punto una riflessione sulle categorie del politico, alla ricerca di strumenti utili a
colmare i limiti delle pratiche della soggettività sociale.

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Fertili contaminazioni
Ma in queste righe l’attenzione sarà rivolta alla terza fase del pensiero di Tronti,
avviata negli anni Ottanta e che segna il suo avvicinamento al filone teologico-
politico. Tutto prende avvio dalla vittoria neoliberista a livello planetario, da una
parte, e dall’esperienza fallimentare del “socialismo reale”, dall’altra. E’ una fase
contraddistinta dal disincanto nei confronti delle potenzialità dell’agire politico
(viviamo un’epoca su cui grava ciò che Tronti chiama il “silenzio della
rivoluzione”) e da una generalizzata sfiducia verso la stessa democrazia politica
(“le democrazie occidentali sono le più perfette dittature del denaro”, scriverà),
la quale ormai si dispiega in servitù volontaria e in una tirannica “biopolitica di
massa”, dove - attraverso la massificazione e l’omologazione dei pensieri e dei
comportamenti, costretti nel circuito produzione-circolazione-consumo - “la
singolarità è concessa nel privato ma è negata nel pubblico”. Il panorama globale
è pertanto desolante, ma – qui è la svolta di Tronti - il politico non esaurisce
l’ambito dei rapporti umani: accanto ad esso, al di là di esso, si dà una
dimensione ulteriore, che può insistere sul politico, determinandolo e forzandolo
dall’esterno. E’ la dimensione spirituale.
Attraverso tale dispositivo lo studioso romano rileggerà, teologizzandolo, anche
il suo stesso passato prossimo, come nel caso della rottura avvenuta con Toni
Negri all’interno dell’esperienza operaista, riconducendola all’opposizione
eschaton/katechon: “La differenza tra me e Toni Negri non è tanto riconducibile a
Spinoza o Hobbes, è piuttosto di altro tipo. Toni mantiene il paradigma
escatologico, io invece assumo il paradigma katecontico” (Mario Tronti, Noi
operaisti, Roma, DeriveApprodi, 2009. Dove eschaton sta a significare l’evento
ultimo, la venuta del Regno e katechon, invece, la forza che trattiene la venuta
dell’Anticristo. Ovviamente qui i concetti vanno secolarizzati: nel primo caso sta
a indicare un’accelerazione del corso della storia in senso rivoluzionario; nel
secondo, al contrario, un rallentamento di tale processo per ricomporre e
organizzare nuove soggettività).
Va detto subito che Tronti non è l’unico, fra i contemporanei, a essersi misurato
con questo genere di contaminazioni; diversi contributi, provenienti un po’ da
tutti i continenti, provano o hanno provato a coniugare Marx e la teologia (ad
esempio, per citare un lavoro non europeo, si veda il saggio, recentemente
tradotto in italiano, di Enrique Dussel, Metafore teologiche di Marx, Roma,
Inschibboleth, 2018). Nel caso di Tronti, la sua teologia-politica attinge a figure di
enorme spessore della filosofia contemporanea, si pensi, ad esempio, ai nomi di
Walter Benjamin, Ernst Bloch o Jacob Taubes, i quali hanno fatto di questo corpo
a corpo tra pensiero politico rivoluzionario e tensione teologica la ragion
d’essere della loro ricerca come della loro stessa esistenza (un confronto diretto
fra Tronti e alcuni di questi autori lo troviamo in: Mario Tronti, Il nano e il
manichino. La teologia come lingua della politica, Roma, Castelvecchi, 2015).

Lo spirito che disordina il mondo
Teologia-politica significa misurarsi con l’utopia e non è un caso se oggi la
letteratura utopica è in crisi, laddove prevalgono e abbondano le distopie, i futuri
catastrofici sull’onda di Orwell, Huxley o, più recentemente, di Ballard. Insomma,
per i tempi cupi che stiamo attraversando va senz’altro riscoperta una
dimensione utopica della politica, quella che sogna una trasformazione radicale

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dell’esistente, tale da non lasciare nulla al di fuori. Ma non basta: affinché non
scada in mero esercizio consolatorio va ricalibrata e pensata nei termini di
un’utopia teologico-politica, in quanto solo collocandosi su questo piano è
possibile tendere a “quel non-ancora realistico che andiamo cercando”; poiché
utopia vuol dire (e qui Tronti cita lo Spirito dell’utopia di Bloch) “nominare del
tutto diversamente il nome di Dio, quel nome insieme perduto e non mai
trovato”. E questo incontro tra il politico e il teologico - due saperi che per
troppo tempo si sono bellamente ignorati – alla fine potrà risultare fertile a
entrambi, perché non c’è solo crisi della politica, ma è anche ben tangibile una
crisi della teologia: “ricongiungerle – aggiunge Tronti - è il compito messianico
attuale”.
Certo il cammino lungo il piano teologico-politico è tutt’altro che facile, presenta
rischi non indifferenti. Il primo, più evidente, è quello del fondamentalismo,
laddove politica e religione si sovrappongono, imponendo all’intero corpo
sociale, senza possibilità alcuna di approccio critico o di dialogo, un insieme di
valori considerati non negoziabili. Qui il legame religioso vuole sostituire con la
forza il legame sociale e, i nostri tempi, in ogni continente, ci mostrano
ampiamente esempi del genere. A ben vedere ciò accade quando la politica è
sofferente, non sa stare all’altezza delle richieste e va alla ricerca di supplenze o
surrogati di ogni sorta. Ma non è certo questo il cammino teologico-politico che
interessa a Tronti e a noi. Sotto questo punto di vista la cesura con il passato è
netta: il teologico-politico contemporaneo segue una via sotterranea, più lenta,
assai meno spettacolare, è l’incontro in una terra di nessuno tra la sfera sociale
della politica e quella interiore della spiritualità. Forse, seppur di sfuggita, è bene
chiarire il fatto che spiritualità e religione non sono da intendere come sinonimi,
in quanto la spiritualità è qualcosa di più ampio della religione, la quale è
soltanto una forma tra le molte in cui si può esprimere quel campo di esperienze
che è la spiritualità, la quale alberga e può manifestarsi in ogni essere umano,
prima di una sua eventuale adesione a una confessione religiosa.
Scrive Tronti: “C’è una zona di mistero da coltivare con cura come una risorsa, di
fronte alla quale conviene fermarsi a contemplare”. E ancora: “Questo mondo
interiore è un mondo vasto – più vasto del mondo esterno – e tendenzialmente
infinito. (…) Ma infinito è anche da intendersi come indefinito, e quindi non
traducibile in numeri, in leggi, in codici, e soprattutto non traducibile, per
fortuna, in immagini, dal momento che viviamo nella società dell’immagine”. Di
più: oggigiorno la spiritualità possiede un valore aggiunto dal momento in cui “il
capitalismo ha fatto deserto all’interno dell’uomo (…) ha reciso le radici
dell’anima all’interno della persona”. Per questo, aggiunge Tronti, questa
dimensione possiede “una forte e profonda carica antagonistica nei confronti
dell’attuale organizzazione della vita e confesso che a volte mi sembra questa
l’ultima e definitiva frontiera della resistenza nei confronti dell’aggressione
proveniente dal mondo esterno”. Non è un caso, infatti, se oggi si assiste a un
vero e proprio processo di colonizzazione delle coscienze così come
dell’inconscio, un processo studiato e pianificato, attraverso i media, i social, la
pubblicità e le campagne politiche volte a seminare paura e odio nella società.
Definita così la sfera della spiritualità come luogo privilegiato dell’interiorità,
potrebbe affacciarsi a questo punto la prospettiva della spiritualità intesa come
ricerca del proprio benessere personale, una sorta di nuova fuga mundi, un
accantucciarsi interiore dinanzi allo sfacelo planetario per coltivare e proteggere

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il proprio piccolo io. Se si vuole è questo, in estrema sintesi, l’esito di buona parte
della spiritualità new age che ha mietuto successi nei decenni trascorsi e che oggi
comincia finalmente a mostrare segni di crisi. No, su questo Tronti non ci sta,
anzi rivendica in modo lapidario il potenziale conflittuale della spiritualità come
vero e proprio valore: “stare in pace con sé, oggi, vuol dire entrare in guerra con
il mondo”. La pace interiore a cui si può aspirare è proporzionale alla capacità di
costruire conflitto in seno alla società per disordinare il mondo. A chi critica una
simile affermazione, sostenendo che questo mondo è già abbastanza disordinato,
Tronti replica osservando che l’attuale disordine altro non è se non la
conseguenza del nuovo ordine globale: “è un ordine che dall’alto provoca questo
disordine. Noi abbiamo bisogno di disordinare il mondo dal basso”. E conclude:
“Io credo che dovremmo ripartire da qui, da quando Gesù risorto sta per lasciare
i discepoli e dice loro: ricevete lo Spirito. Ecco il lascito inutilizzato che abbiamo
tra le mani. Veramente diceva: ricevete lo Spirito Santo. Ma qui sorge un’altra
domanda: è necessario che sia Santo questo spirito, non basta che sia – appunto
– Spirito?”.

Profezia, critica del presente e tempo che viene
Fin qui la spiritualità come esperienza sorgiva. Ma a un certo punto, come si è
detto, la spiritualità deve uscire dalla dimensione interiore per articolarsi nel
sociale e coniugarsi nel politico. Scrive Tronti: “Nel Magnificat leggiamo:
abbattere i potenti, innalzare gli umili. Ecco il teologico. Come abbattere i potenti,
come innalzare gli umili. Ecco il politico” (Mario Tronti, Disperate speranze, in
“Infiniti mondi”, n.11/2019). E fra tutti i linguaggi quello profetico è quello che
meglio si presta, secondo Tronti, a esprimere la prospettiva teologico-politica:
“Dire oggi politica e profezia vuol dire richiamare la politica a una tensione
profetica”. Ma questa parola viene assunta in un significato circoscritto, finanche
limitato, rispetto al senso letterale (profezia come predizione di un evento futuro
per ambasceria divina). Profezia oggi per Tronti non è predire e neppure
prevedere, la parola profetica non annuncia il futuro, non prefigura l’isola che
non c’è, ma si limita a vedere con chiarezza il presente, mostrare quello che gli
altri non vedono o non vogliono vedere. Questo è il massimo a cui si può aspirare
in questi tempi: profezia come critica radicale del presente (Per la critica del
presente è anche il titolo di un volumetto trontiano uscito nel 2013 per Ediesse).
La politica volge al tramonto e la profezia appare muta, sembra questo lo
scenario finale che emerge dalla riflessione teologico-politica del pensatore
romano. Ma non si può seguire Tronti fino in fondo lungo questa strada,
l’apertura che il teologico-politico consente, delinea, deve delineare altri
orizzonti che meritano il rischio dell’esplorazione. Se è vero che profezia è, e
dev’essere, critica del presente, ciò è possibile perché al contempo riesce a
cogliere, per quanto fugaci, bagliori di futuro dentro l’insistenza opprimente
dell’esistente. In fondo a criticare il presente sono bravi anche i peggiori
reazionari e conservatori, ma quello che loro non potranno mai fare è denunciare
il presente alla luce di ciò che sta venendo, di un futuro - sia beninteso una volta
per tutte - che non è il prolungamento dell’esistente, ma rottura e discontinuità
con tutto quello che c’è.
Se è vero, come sottolinea lo stesso Tronti, che il Novecento ha visto all’opera
una forma di profezia inedita, laica, collettiva, incarnata dal movimento operaio -
“un soggetto sociale, una potenza politica, capace del grande gesto, la guida di un

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processo rivoluzionario” (Mario Tronti, Dello spirito libero, Milano, Il Saggiatore,
2015) – allo stesso modo oggi va ripensata la profezia alla luce della storia
presente. Nel nostro tempo occorrono occhi in grado di vederla e orecchie in
grado di sentirla, perché non ci sono più profeti permanenti e dichiarati;
possiamo imbatterci in soggetti, aggregazioni di soggettività, che possono
svolgere una funzione profetica per un determinato arco di tempo per venire
successivamente sostituiti da altri. Oggi la profezia, quando c’è, si muove
orizzontalmente, è, fra l’altro, fino in fondo espressione di quel “sapere sociale
generale” intravisto da Marx nel suo celebre Frammento sulle macchine in cui
prefigura la crisi dell’accumulazione di valore a causa dell’emergere di quello che
chiama general intellect (si tratta di un testo marxiano peraltro amato da Tronti).
Allora è da ripensare la profezia proprio alla luce della contemporaneità, della
mobilità, della provvisorietà e della contingenza. Penso a figure come Greta
Thunberg e all’indiscutibile impatto che sta dimostrando, soprattutto verso i più
giovani. Penso alle donne latinoamericane di “Ni una menos”, al loro programma
e alla loro capacità, partendo dal basso, di costruire mobilitazioni a livello
mondiale. Penso alla denuncia da parte dei popoli nativi di tutta la Terra della
distruzione sistematica di interi ecosistemi a opera delle imprese multinazionali.
E si potrebbe proseguire ancora.
In breve: l’immagine di una classe sociale egemonica e di un partito in grado di
organizzarla politicamente appartiene al nobile repertorio del Novecento, non a
questo nuovo secolo. Anzi è urgente ripensare, dentro la quarta rivoluzione
industriale che stiamo vivendo, sia le nuove forme di composizione sociale in
atto, sia le nuove forme organizzative di opposizione e di relazione con le
dinamiche di potere, sia le profonde trasformazioni in corso a livello globale che
coinvolgono tutti gli ambiti, in primis le procedure cognitive e comunicative.
Tutto ciò sta producendo delle ricadute non solo sul piano politico ma anche su
quello religioso e spirituale.
Si parlava poco sopra di nuove forme di profezia, ma non è sufficiente limitarsi a
ciò, le tecnologie comunicative e il sapere sociale stanno producendo enormi
mutamenti sotto i nostri occhi. Si pensi al fatto che il successo delle religioni
monoteiste sarebbe stato impensabile senza il passaggio dall’oralità alla
scrittura, poiché con la scrittura tipologie di discorso orale, fino allora separate e
distinte, sono confluite in un unico corpus monopolizzato e gestito da una classe
di scribi e di sacerdoti, a garanzia del mantenimento della gerarchia, dell’ordine e
dell’ortodossia. Si consideri pure l’apporto che l’invenzione della stampa a
caratteri mobili ha offerto al successo della riforma protestante e alla diffusione
delle numerose correnti al suo interno, dal momento che il testo a stampa sottrae
le scritture ai vertici ecclesiastici per consegnarle a moltitudini di fedeli e alla
loro libera interpretazione. Oggi la rivoluzione informatica, accanto agli aspetti
oscuri e inquietanti che contiene, offre la possibilità di un accesso libero a ogni
frammento di sapere, unitamente a una condivisione e a una circolazione sempre
più allargata, socializzando sempre più le conoscenze, aprendo così scenari
inediti (c’è anche chi legge la rete come una manifestazione della noosfera
annunciata da Teilhard de Chardin) in cui ogni aspetto della società si trova
toccato e coinvolto, incluse la politica, le religioni e la spiritualità. Su questo
piano è bene fin d’ora collocarsi e lavorare. L’assalto al cielo non è concluso.

“Adista - Documenti”, n.11 – 21.03.2020

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