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Il
ruolo del gioco nella storia del computer. Comunicazioni Sociali, vol. 2, 317-329.
Abstract.
This essay investigates the historical role of play in computer history drawing from the
main studies on play conceived as an essential feature for human culture. The analysis
of the relationship between ludicity and forms of interaction between humans and
computers is divided in two main phases: phase 1, between the 1950 and the 1970,
when computers were conceived by scientists as the main tool for the empowerment of
research and as an alternative intelligence to be educated, and phase 2 between the 1970
and the 1990, when the appropriation and domestication of computers took place thanks
to hacker cultures. The analysis of the historical role of playing as essential in the
exploration and appropriation of computational technology is interpreted here as a
crucial step to fully understand the contemporary gamification of everyday life.
1
Ludus ex machina
1. Introduzione
La parola gioco è entrata a far parte del nome di una branca di studi specifica, quella dei
cosiddetti game studies, solamente a partire dalla fine del Novecento. Fatta eccezione di
alcuni casi particolari, considerati ormai dei classici per la materia 1, gli studi sulla
ludicità sono stati per la maggior parte del secolo scorso campo elettivo di studi
filosofici, psicologici e pedagogici. Questa apparente lacuna delle scienze sociali nei
confronti di una delle attività universali dell’essere umano, «l’uomo è completamente
uomo solo quando gioca» sosteneva Friedrich Schiller, è riconducibile principalmente a
due fattori. Da un lato la parola gioco e il significato stesso del verbo giocare sono
difficilmente identificabili con una definizione assoluta, sia per la dimensione
puramente soggettiva dell’attività ludica sia perché, come sosteneva Eugen Fink,
«quanto più ci si sforza di riflettere sul gioco, tanto più questo sembra diventare
1
Le due opere principali a cui si fa riferimento sono: R. Caillois [1958] I giochi e gli uomini. La maschera e
la vertigine. Bologna: Bompiani, 2010 e J. Huizinga, Homo ludens [1938], Torino: Einaudi, 2002.
2
enigmatico e problematico»2. In secondo luogo i game studies si sono diffusi non a caso
in concomitanza con la diffusione su scala globale dei computer e dei prodotti ludici, su
tutti i videogiochi, che hanno accompagnato il processo di addomesticamento delle
macchine pensanti. La nascita e la diffusione del personal computer, e di tutte quelle
tecnologie che ne stanno ereditando progressivamente il ruolo, dagli smartphone ai
tablet, sono andate di pari passo con un progressivo processo di ludicizzazione
dell’esperienza quotidiana, fenomeno sintetizzato da alcuni studiosi italiani per mezzo
di tipi antropologici come l’Homo-Game descritto da Gianfranco Pecchinenda3 e
l’Homo Ludicus di Peppino Ortoleva4. Gli studi sul gioco sembrano quindi attrarre
un’attenzione particolare dal momento in cui l’attività ludica sembra perdere quella che
potremmo definire la sua dimensione auto esclusiva. Prima che le macchine pensanti
abitassero quotidianamente la sfera sociale e materiale in cui viviamo il giocare era
considerato un’attività separata, un’isola felice, un’oasi, uno spazio in cui la normatività
del quotidiano viene sovvertita da una normatività altra nella quale è possibile
sperimentare le proprie inclinazioni e mettere alla prova peculiarità fisiche, mentali ed
emotive. Questo terreno di prova, che nel bambino corrisponde alla vita stessa e
nell’adulto a una fuga temporanea dal mondo reale, sembra oggi perdere i propri
confini; la crescita degli studi sul fenomeno della gamification è la dimostrazione di
questa sfocatura che il campo ludico ha subito negli ultimi decenni.
Scopo di questo lavoro è analizzare l’influenza reciproca tra tecnologia e ludicità da
una prospettiva storico culturale di lungo periodo che evidenzi la relazione profonda tra
il ruolo dei computer intesi come mezzi ludogeni5 per natura e il ruolo del gioco umano
inteso come mezzo di appropriazione, trasformazione e riconfigurazione dei significati
socio-culturali attribuiti alla tecnologia stessa. In primo luogo verrà analizzato come il
gioco ha caratterizzato l’interazione con il computer a metà Novecento a partire dalle
prime riflessioni sul rapporto tra mente umana e mente artificiale e dal ruolo del gioco
2
E. Fink Oasi del gioco [1968], Milano: Raffaello Cortina, 2008, 27.
3
G. Pecchinenda Videogiochi e cultura della simulazione: la nascita dell'homo game, Roma: Laterza,
2003
4
P. Ortoleva Dal sesso al gioco, Torino: Espress, 2012.
5
Cfr. S. Vial, L’être et l’écran, Paris : Press Universitaire Français, 2013.
3
degli scacchi nello sviluppo dei computer. La ludicità, nello sviluppo di macchine
sempre più sofisticate, verrà vista nel suo ruolo di mezzo di confronto tra menti e in
quanto strumento proiettivo dei possibili progressi futuri all’interno dell’immaginario
dei padri dell’informatica. Un secondo periodo di analisi in oggetto sarà quello dei
movimenti hacker e dei gruppi hobbistici degli anni settanta-ottanta. A partire dal
contesto storico verrà concentrata l’attenzione su come la ludicità abbia favorito il
processo di addomesticamento dei computer rendendo una tecnologia precedentemente
inimmaginabile in campo domestico, per ruolo e per dimensioni, uno strumento
essenziale per la vita di tutti.6
Per comprendere la traiettoria storica e la rilevanza del gioco nell’addomesticamento
e nell’uso delle macchine pensanti le riflessioni e la storia di alcune figure chiave del
mondo informatico verranno fatte dialogare con gli studi classici, di natura sociologica,
psicologica e filosofica, sul tema della ludicità. Tale intersezione disciplinare ci
permetterà di tracciare le trasformazioni semantiche e paradigmatiche che lo stesso
concetto di gioco ha subito in seguito alla diffusione del personal computer.
Un filo conduttore tra gli oggetti di analisi proposti è rintracciabile in quella che
potremmo definire un'ipotesi-paradosso di partenza: la diffusione di dinamiche ludiche
all'interno di sfere che trascendono il gioco in senso stretto sarebbe dovuta in gran parte
allo sviluppo di tecnologie che ne hanno stimolato in qualche modo l'emergenza. Allo
stesso tempo lo sviluppo della tecnologia computazionale, così come la conosciamo
oggi, non sarebbe stato possibile senza un approccio ludico alla fase di progettazione dei
computer e al progressivo processo di addomesticamento delle macchine pensanti in
ambito privato. In parole semplici, secondo l’ipotesi iniziale di questo lavoro, la
tecnologia informatica sarebbe fonte generatrice di pratiche ludiche nella misura in cui
la società genera a sua volta pratiche tecno-ludiche coerenti con il contesto storico-
culturale che la contraddistingue. Questa recente esplosione di cultura ludica,
parafrasando un concetto caro a Jurij Lotman7, ha attraversato diverse fasi che hanno
6
Celebre è la frase di Kenneth Harry Olsen, fondatore della Digital Equipment, che alla convention della
World Future Society del 1977 disse: «non c’è alcuna ragione per cui una persona debba tenere un
computer in casa propria ».
7
J. M. Lotman La cultura e l'esplosione: prevedibilità e imprevedibilità. Milano: Feltrinelli, 1993.
4
portato al mescolamento di alcune caratteristiche proprie del gioco con le attività del
quotidiano, se non addirittura a vere e proprie visioni ludo-utopiche8 che trovano sempre
maggior spazio nel dibattito attuale. Il giocare con le macchine deriva quindi da un
processo complesso e articolato per cui non solo il gioco si presenta come elemento
centrale del rapporto tra mente umana e mente artificiale ma si impone come fattore
decisivo nel mutamento sociale tout court.9
Traendo spunto dalla categorizzazione classica delle tipologie di gioco così come
formulata da Roger Caillois, l’Agon, il gioco di competizione, ha svolto un ruolo
essenziale per lo sviluppo tecnico e per la familiarizzazione con le nuove tecnologie del
Novecento; i computer sono da sempre stati dei giocatori e soprattutto dei giocatori
resistenti, dei compagni di gioco con cui il confronto intellettivo e mentale si è rivelato
estremamente produttivo e stimolante. Questa modalità d’interazione ha però origini
ben più antiche dei moderni computer. Le prime partite di scacchi, il gioco per
eccellenza, tra esseri umani e macchine artificiali risalgono alla fine del Settecento
quando Leonardo Maezel, il fratello dell’inventore del metronomo, acquisì dal barone
Von Kemplen una macchina molto speciale. Maezel portò per decenni in tour nelle città
europee un automa scacchistico denominato Il Turco, chiamato così per i suoi caratteri e
per l’abbigliamento che riproducevano gli stereotipi ottomani del tempo. Il Turco
muoveva i pezzi della scacchiera seduto dietro una scrivania di legno, chiusa sul davanti
da tre sportelli apribili. Questa invincibile macchina scacchistica ebbe un incredibile
successo finché a metà Ottocento il geniale nano che manovrava la macchina da dentro
gli ingranaggi venne scoperto da Federico II di Prussia. Il primo vero programma per
8
J. McGonigal La realtà in gioco. Milano: Apogeo, 2011.
9
Una delle mancanze che potrebbero saltare all’occhio del lettore è l’assenza di riferimenti al mondo dei
videogiochi. I videogiochi hanno avuto un ruolo essenziale nella socializzazione tra umani e macchine, in
questo lavoro si tenta però di mettere in risalto il ruolo della ludicità nell’analisi dell’interazione con i
computer al di fuori del contesto videoludico.
5
computer è stato scritto nel 1948 proprio per giocare a scacchi. Alan Turing, uno dei
padri del computer, scrisse il programma su carta non essendoci al tempo una macchina
capace di elaborare tutti i dati necessari alla sua applicazione. Da Turing in avanti il
dialogo tra mente umana e mente artificiale è stato giocato sulla scacchiera, fino
all’epocale sconfitta umana avvenuta nel 1997 nella partita tra l’allora campione del
mondo Garry Kasparov e il super-computer del IBM Deep Blue. Il match Kasparov-
Deep Blue è l’evento apice della battaglia intellettiva tra intelligenza umana e
intelligenza artificiale anche se Kasparov continua a sostenere che dietro la macchina,
proprio come nel Turco di Maezel, c’era una mente umana. La paura e la curiosità nei
confronti di una mente uguale e superiore all’essere umano sono state magnificamente
sintetizzate nei manifesti pubblicitari dell’incontro; l’immagine di un occhio meccanico
simile all’HAL2000 di 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, era associata al
testo «How to make a computer blink?», proprio per sottolineare la potenziale
umanizzazione delle macchine.
La competizione tra umani e macchine non è stata però portata avanti unicamente sul
piano dei cosiddetti boardgame. Il dialogo tra menti diverse, tuttora oggetto di studio
privilegiato per alcune discipline come le neuroscienze, è stato oggetto di interesse per
studiosi e scienziati sin dagli albori della scienza computazionale. In un famoso saggio
dello stesso Turing10 questo dialogo venne immaginato a partire da un gioco. Nell’ormai
noto Test di Turing l’utente deve riuscire a distinguere l’identità del computer da quella
di un essere umano interrogando gli altri due giocatori con una serie di domande scritte,
alle quali la macchina deve tentare di rispondere come se fosse un umano. Nel momento
in cui i volontari non fossero più stati in grado di distinguere la macchina dall’essere
umano il computer avrebbe raggiunto un tipo di intelligenza equiparabile a quello degli
esseri umani11. Il frame di quello che lo stesso Turing definì il Gioco dell’imitazione
corrisponde perfettamente alla cornice meta-comunicativa del gioco proposta da
10
A. M. Turing Computing machinery and intelligence, 1950. Reperibile a:
http://www.loebner.net/Prizef/TuringArticle.html (Ultimo accesso 17 Luglio 2015)
11
Turing sosteneva che dopo cinquant’anni le macchine avrebbe avuto una potenza di calcolo tale da
superare il test, oggi la maggioranza dei giocatori è ancora capace di distinguere la macchina dall’essere
umano.
6
Gregory Bateson12. Secondo Bateson, uno dei primi autori ad affrontare il tema della
ludicità intesa come metalinguaggio, il gioco è tale in quanto inscritto in un meta-
messaggio per cui i giocatori, nell’esempio riportato da Bateson si trattava di due
scimpanzé che giocano alla lotta, interagiscono sulla base di una finzione, di un come se
che permette di traslare la realtà in un terreno puramente sperimentale. Se gli scacchi
sono la metafora di una guerra tra menti, il gioco dell’imitazione rappresenta il primo
passo verso un confronto e un dialogo tra macchina e umano. L’imitazione della realtà e
dell’altro è secondo la teoria ludica uno degli strumenti fondamentali del gioco, inteso
come mezzo di esplorazione e invenzione della realtà stessa e del proprio ruolo
all’interno della sfera sociale. La stessa parola illusione (in-lusio, nel gioco), rende
chiaro il legame tra la ludicità e l’inganno di cui il gioco di mascheramento, la mimicry
di Caillois così come la mimeisthai aristotelica, è l’attività idealtipica.
Nel test di Turing la macchina ha preso subito parte, addirittura prima della sua
nascita digitale, a questa finzione. A prescindere dalle finalità del Test questi esempi
mostrano come il computer sia stato visto sin dall’inizio da uno dei suoi padri come una
mente con la quale interagire ludicamente. Peppino Ortoleva fa notare come questo tipo
di interazione sia oggi parte integrante del nostro quotidiano, con un’aggiunta però
determinante per il nostro discorso:
12
G. Bateson [1972] Verso un'ecologia della mente, Milano: Adelphi, 2001.
13
Ortoleva, Dal sesso al gioco, 107.
7
quali dovevano essere considerate come delle menti infantili alle quali insegnare l’uso
della ragione. Per Turing costruire in futuro delle menti adulte significava innanzitutto
costruire delle macchine-bambino capaci di apprendere come gli esseri umani:
14
A. Turing, [1950] Macchine calcolatrici e intelligenza, in V. Somenzi, R. Cordeschi (a cura di) La
filosofia degli automi. Torino: Bollati Boringhieri, 1996, 189.
15
G. H. Mead, Mind, Self and Society. Chicago, University of Chicago Pres, 1972, p. 12.
8
Nonostante la notorietà raggiunta, il Gioco dell’imitazione di Turing è stato un unicum
nel panorama informatico di metà Novecento. Fino alla svolta contro-culturale e
commerciale degli anni settanta-ottanta, il computer veniva considerato una macchina
prettamente funzionale, un calcolatore predisposto al lavoro all’interno di contesti
estremamente seri come quello scientifico-militare16. La stessa programmazione di
giochi come gli scacchi era considerata nell’immaginario del tempo un’attività
puramente strumentale, con precise finalità scientifico-produttive; si trattava di un’idea
di gioco che nulla aveva a che vedere con l’aspetto improduttivo, gioioso e anti
utilitaristico del gioco sostenuto dalla teoria classica ma che proprio nel suo essere
ludica nella pratica e apparentemente a-ludica nelle intenzioni, preparava il terreno per
nuove modalità di interazione. Arthur Samuel, uno dei ricercatori maggiormente
rinomati nello studio del rapporto tra intelligenza artificiale e programmi di giochi degli
anni cinquanta, sosteneva che il gioco al computer sarebbe diventato del tutto inutile nel
momento in cui le macchine sarebbero state abbastanza intelligenti da poter svolgere i
compiti più tediosi del nostro quotidiano. Insegnare al computer gli scacchi significava
quindi insegnargli a svolgere dei processi complessi da utilizzare in ambiti del tutto
estranei al gioco più che mirare a un dialogo paritario tra umani e macchine, scriveva
Samuel:
16
Per una rielaborazione delle diverse fasi della storia del computer Cfr. G. Balbi, P. Magaudda, Storia
dei media digitali. Rivoluzioni e continuità. Roma e Bari: Laterza, 2014.
9
dei compiti mentali più tediosi, che ora assorbono tanto del nostro
tempo, saranno eseguiti da macchine.17
Di certo Samuel non poteva prevedere che sessant’anni dopo il mercato del gaming
avrebbe superato il valore del mercato cinematografico. Infatti il passaggio da una
chiusa cultura del calcolo a una diffusa cultura della simulazione18 non si sarebbe
potuto verificare prima che il processo di miniaturizzazione dell’hardware e
l’addomesticamento delle macchine prendessero luogo prima in ambito hobbistico, poi
nel mondo aziendale e successivamente in ambito privato.
Se negli anni cinquanta il gioco aveva assunto il ruolo di attività educatrice per i
computer, gli amatori degli anni settanta vedevano la macchina come un compagno alla
pari con il quale testare i propri limiti e le proprie possibilità espressive. A differenza
degli informatici del ventennio precedente la macchina non era considerata un elemento
puramente sostitutivo dell’essere umano ma un interlocutore capace di dare libero sfogo
all’immaginazione, uno specchio capace di far emergere possibilità inesplorate. Questo
passaggio del computer come macchina da lavoro a macchina da intrattenimento è
andato di pari passo con due dinamiche legate allo spazio messe in moto a partire dagli
anni settanta. In primo luogo il computer è stato trainato da uno spazio chiuso
ermeticamente, come i centri di ricerca militare e i laboratori scientifici, verso uno
spazio pubblico. È il caso del computer comunitario in cui i computer venivano portati
nelle associazioni e nelle librerie per permettere alle persone di interagire col nuovo
mezzo. È stato questo spostamento dal chiuso all’aperto ad aver permesso agli amatori
di esplorare il mezzo computazionale ma anche ai comuni cittadini di interagire con una
tecnologia fino ad allora estranea19. In secondo luogo si è verificato un processo di ri-
territorializzazione dallo spazio della produzione scientifica ai luoghi della domesticità e
17
A. L. Samuel, [1960] La programmazione dei giochi al computer, in V. Somenzi, R. Cordeschi (a cura di)
La filosofia degli automi. Torino: Bollati Boringhieri, 1996, 297.
18
S. Turkle [1995], La vita sullo schermo. Milano: Apogeo, 1997.
19
Il primo esempio di questo spostamento della macchina avvenne alla Leopold's Records di Berkeley in
California dove l’associazione Community Memory mise a disposizione dei frequentatori della biblioteca
una Teletype 33 collegata a un computer SDS 940 con cui gli utenti potevano interagire a loro
piacimento.
10
della familiarità come la casa e la famiglia. Questo secondo passaggio, da uno spazio
chiuso-privato allo spazio domestico, è dipeso fortemente dall’apertura pubblica
precedente. Contrariamente a quanto avvenuto per il broadcasting, soprattutto per il
mezzo televisivo che ha da subito trovato la sua collocazione ideale nello spazio
domestico, il computer ha quindi avuto un lungo periodo di nomadismo in cui ha abitato
spazi diversi prima di trovare una posizione nelle case degli individui20.
Contemporaneamente a questo processo di adattamento spaziale l’addomesticamento
del computer è stato reso possibile da due correnti di pensiero che inizialmente
confluivano all’interno delle stesse cerchie di appassionati ma che con il passare del
tempo hanno preso direzioni spesso opposte e di natura conflittuale: l’ambiente
hobbistico si è infatti progressivamente scisso in una divisione tra forme ideologiche
appartenente ad alcuni movimenti controculturali e una cultura imprenditoriale nel
momento in cui la dimensione micro-comunitaria ha posto le basi per la diffusione su
scala globale del personal computer. Il processo di democratizzazione delle macchine
pensanti ha quindi legittimato il ruolo dei computer club comportando però la
dissoluzione dell’ambiente informale e puramente ludico che li contraddistingueva.
Nonostante l’interazione ludica con i computer abbia raggiunto il suo apice nell’ultimo
trentennio del Novecento è però possibile rintracciare i primi segnali dell’uso puramente
ludico dei computer all’interno dei grandi centri di ricerca degli anni sessanta. I primi
processi di appropriazione indebita delle macchine da calcolo si possono far risalire ai
giganteschi calcolatori capaci di occupare intere stanze nei laboratori americani di quel
periodo. Un esempio calzante in proposito viene fornito da Steven Levy 21. Levy
descrive un episodio verificatosi agli inizi degli anni sessanta quando il MIT possedeva
un modello di calcolatore dalle dimensioni mastodontiche: l'IBM 704. Gli amatori della
Midnight Computer Wiring Society, un piccolo laboratorio formato da alcuni studenti
dell’istituto, non riuscirono a resistere alla tentazione di giocare con la grande macchina
programmandola di nascosto per gestire le manovre dei treni elettrici del Tech Model
20
Oggi con la mobiltà dei dispositivi di comunicazione la dimensione nomade dei computer è invece da
considerare del tutto stabile e radicata.
21
S. Levy, Hackers: Heroes of the computer revolution. New York: Penguin Books, 2001.
11
Railroad Club, il circolo di appassionati di modellismo ferroviario. Una delle macchine
più potenti in circolazione venne sfruttata di nascosto per giocare con i treni elettrici,
per un hobby di cui di lì a poco il computer stesso sarebbe diventato oggetto
privilegiato. Il giocare in questo caso assumeva un valore altamente simbolico. Il gioco
era strettamente legato al desiderio di riconfigurare il significato del mezzo e al bisogno
di portare la macchina fuori dall'ambiente chiuso e restrittivo in cui era relegata:
Gli amatori degli anni settanta hanno avuto una simile «rivincita sulla realtà»
modificando il ruolo e il senso degli stessi oggetti di gioco all’interno della società;
parafrasando Caillois impossessandosi ludicamente delle macchine hobbisti e hacker
22
L. Paccagnella, Open Access. Bologna: Il Mulino, 40.
23
Caillois, I giochi e gli uomini, 51.
12
sono diventati i nuovi artigiani dell’informatica. Attraverso il gioco essi sono infatti
riusciti a strappare la tecnologia informatica dall'ambito industriale e militare in cui
veniva costretta facendo evadere il computer da un destino basato sul calcolo funzionale
e sull'automazione, l’organizzazione e la gestione economico-produttiva del lavoro; la
ludicità, nel suo essere unapologetically useless24 divenne mezzo di liberazione dai
limiti imposti da una gestione autoritaria e gerarchica della tecnologia sostituita da un
approccio libero e creativo alla programmazione dei computer. Il giocare con la
macchina si presenta in questo passaggio storico come un’attività orientata
all’imprevedibile piuttosto che a un obiettivo precostituito:
L’immagine dell'amatore alle prese con il suo computer ricorda sotto diversi aspetti i
bambini di cui parla lo psicologo Donald Winnicott:
Un altro aspetto interessante delle prime forme di hacking dei computer risiede nel fatto
che le modifiche basate sulla proprietà immaginativa del gioco descritta da Winnicott si
sono sviluppate sia sul piano immateriale, quello del codice e del software, sia sul piano
materiale, quello dei componenti fisici e dell’hardware. Le macchine venivano
24
Per un’analisi più approfondita si rimanda a A. Sey, P. Ortoleva, “All Work and No Play? Judging the
Uses of Mobile Phones in Developing Countries”. Information Technologies and International
Development, 10 (3), 2014. Ultimo accesso 14 Luglio 2015 da
http://itidjournal.org/index.php/itid/article/view/1280
25
C. M. Kelty, "Outlaw, hackers, victorian amateurs: diagnosing public participation in the life sciences
today." Journal of science communication, 9.1,2010. Ultimo accesso 14 Luglio 2015 da
http://jcom.sissa.it/sites/default/files/documents/Jcom0901%282010%29C03.pdf
26
D. Winnicott [1971], Gioco e realtà. Roma: Armando Editore, 1979, 99.
13
manipolate e ricomposte in primo luogo nella fisicità dei loro componenti, il gioco
elettronico era anche legato alla materialità del gioco meccanico, alla struttura e
all'incastro dei componenti fisici. Questo tipo di approccio richiama fortemente un altro
dei paradossi alla base dell’attività ludica; la graduale familiarizzazione col mezzo è
infatti riconducibile a quella duplice attività di montaggio/smontaggio o
composizione/scomposizione che viene messa in atto fin da bambini per conoscere e
prendere possesso del mondo che ci circonda. Questo paradosso applicato al giocare con
i computer è condizionato da una precisa libertà di movimento all'interno di regole
rigide, dalle stesse regole che vengono dettate dal funzionamento di un qualsiasi
meccanismo; la libertà, in questo caso, può essere intesa come la potenzialità espressiva
concessa nei limiti imposti dal gioco, come i possibili movimenti, che si tratti di
scacchi, di una partita di calcio o di un programma di disegno, che lo spazio ludico
permette di compiere. In fondo stiamo parlando della stessa forza attrattiva e
affascinante che ha permesso a una serie di giochi di costruzione, Lego su tutti, di essere
annoverati tra gli evergreen del mercato ludico. La libertà di costruzione è dettata dai
limiti che questo ci impone. Una delle prime metafore del gioco proposte da Roger
Caillois riguarda proprio la libertà d’azione nei limiti delle macchine:
Gioco significa dunque libertà all'interno del rigore stesso, affinché questo
acquisisca o conservi la sua efficacia. D'altronde, l'intero meccanismo può
essere considerato come una sorta di gioco... Una macchina infatti, è un
puzzle di elementi concepiti per corrispondere gli uni agli altri e funzionare
di concerto. Ma all'interno di questo gioco, essenzialmente di precisione,
interviene, a dargli vita, un gioco d'altra specie. Il primo è rigido
assemblaggio e perfetta orologeria, il secondo elasticità e margine di
movimento.27
27
Caillois, I giochi e gli uomini, 9.
14
motto più ricorrente nella retorica sull’hacking è hands on! traducibile in italiano con
metterci le mani!. Hands on! invita chiunque lo desideri a mettere le mani sull'oggetto e
dentro l'oggetto, scomporlo e ricomporlo per esplorarne e reinventarne la forma e il
contenuto, una vero e proprio invito alla ludicità intesa come infinita risorsa esplorativa
e inventiva. Già dalla prima metà degli anni settanta prodotti come l'Altair 8800,
considerato il primo personal computer della storia, venivano venduti in scatole chiuse
con i componenti da montare personalmente, spesso in compagnia di altri appassionati.
La curiosità e il gioco deregolato, un gioco che fa dell’abbattimento dei limiti imposti
dalle regole del codice di programmazione la prima regola del gioco stesso, sono alla
base di questo movimento culturale che dagli anni settanta in poi ha modificato
profondamente la concezione e l’uso dei computer. Secondo Luciano Paccagnella il
principio basilare dell’etica hacker è infatti la creatività:
L’etica hacker si fonda su valori come quello della passione e della libertà,
che non ammettono una rigida separazione tra tempo lavorativo e tempo
libero […] l’etica hacker si basa soprattutto sul valore supremo della
creatività come caratteristica e dono peculiare dell’essere umano. 28
I giovani che si riunivano nei computer club per smontare e montare i computer
cercavano di ottenere risultati innovativi lasciandosi trascinare dall'ebbrezza della
creatività inventiva che solo all’interno del gioco trovo piena espressione. Il rapporto tra
informatica e ludicità era per i primi hacker un diritto e un dovere, una necessità e un
piacere allo stesso tempo. Un valore di questo tipo costruisce le basi per l'ibridazione tra
ludicità e serietà sintetizzata da Robert Stebbins con il concetto di serious leisure
relativo alla ludicizzazione delle pratiche lavorative in ambito informatico, e non solo29.
Il punto critico dell’adesione a un sistema valoriale basato sulla ludicità risiede
principalmente nell’alto tasso di coinvolgimento e di specializzazione che comporta:
secondo alcuni dei più noti volti dell’hacking americano, un hacker deve giocare con la
28
Paccagnella, Open Access, 44-45.
29
Per il concetto di serious leisure si rimanda a R. A. Stebbins, Serious Leisure: A Perspective for Our
Time, New Brunswick: Transaction, 2007.
15
macchina, deve sfidarla ripetutamente, deve continuamente mettersi alla prova. Linus
Torvalds, hacker e padre del Kernel del sistema operativo Linux sostiene che «per un
hacker il computer in sé è intrattenimento» 30. Richard Stallmann, fondatore della Free
Software e inventore del Copyleft rende ancora più chiara l’idea:
Un hacker, secondo Stallmann, deve quindi credere, avere fede nella propria missione,
giocare ed esplorare le possibilità date dalla macchina. La cultura di cui parla Stallman
richiede un'adesione ideologica e di conseguenza un impegno costante per cui tutti
dovrebbero imparare a usare e trasformare il codice e la macchina in modo giocoso. Se
le aziende proprietarie come Microsoft e a Apple limitano la libertà di fare della
macchina un gioco personale nascondendo il codice sorgente dei programmi, l’etica
hacker descritta da Stalmann richiede una volontarietà assoluta a giocare, a competere, a
impegnarsi nel costante superamento dei limiti imposti dal codice.
Se da un lato questa attitudine è stata il motore creativo per gli appassionati del tempo,
l’adesione a forme ideologiche egualitarie e libere non è stata però sufficiente a rendere
la tecnologia realmente democratica e disponibile all’utenza generica. Il dover giocare
con le macchine contiene infatti al suo interno una contraddizione storica del gioco:
quella tra un’attività che richiede un’adesione del tutto volontaria e libera da costrizioni
da parte del giocatore e il senso del dovere ludico intrinseco a un’appartenenza
comunitaria dove il gioco è una prassi quotidiana. In un classico della letteratura
sull’hacking Gabriella Coleman ha inoltre sottolineato come non si debba parlare di una
singola “cultura” quanto piuttosto di diverse culture hacker, caratterizzate da contesti
geografici e politici differenziati e da molteplici ideali come la trasparenza, la militanza
30
P. Himmanen [2001], L'etica Hacker e lo spirito dell'età dell'informazione. Milano: Feltrinelli, 2003, 12.
31
Himmanen, L’etica hacker e lo spirito dell’informazione, 16.
16
politica ma anche la spettacolarizzazione e l’espressione artistica fine a se stessa. 32
Questa frammentazione culturale contiene però al suo interno secondo Coleman un
costante richiamo alla playfulness come valore centrale:
Questo riempire l’ordinario di un’attività che per propria natura è extra-ordinaria come
il gioco crea il primo presupposto per una sfocatura di campo del gioco. Secondo Johan
Huizinga infatti:
32
E. G. Coleman, Coding freedom the ethics and aesthetics of hacking. Princeton: Princeton University
Press, 2013.
33
E. G. Coleman, Hacker, in M. Ryan, L. Emerson, B. J. Robertson (eds), The Johns Hopkins Guide to
Digital Media. Baltimore: The Johns Hopkins University Press, 2014.
34
Huzinga, Homo ludens, 34.
35
Per una revisione dell’argomento si rimanda a T. Veblen [1899], La teoria della classe agiata. Torino:
Einaudi, 2007. P. Ortoleva, Il secolo dei media. Riti, abitudini, mitologie. Milano: Saggiatore, 2009.
17
ideologizzazione del gioco compiuto dalle divere culture hacker. La ludicizzazione delle
macchine pensanti ha portato oggi a mettere in discussione la validità stessa di queste
forme di separazione andando a creare una nuova area incerta (Ortoleva 2012) a cavallo
tra il principio di serietà comunemente associato all’attività lavorativa e il principio di
libertà e divertimento associato all’attività ludica. È proprio nella transizione tra il gioco
funzionale allo sviluppo potenziale dei mezzi informatici (195-1970) al gioco
funzionale alla libertà espressiva del soggetto e delle comunità di amatori (1970-1980)
che i primi sintomi della ludicizzazione del quotidiano si sono manifestati con forza.
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panorama mediatico del nuovo millennio così come quelle che l’archeologo dei media
Erkki Huhtamo definisce amusement machines, dalle slot machines ai flipper, sono nate
con la rivoluzione industriale.36
Nel saggio L’être et l’écran il designer e filosofo francese Stephane Vial ha coniato un
neologismo per descrivere la capacità distintiva del digitale di attrarre magneticamente
l’utente verso una forma d’interazione ludica. Il digitale è infatti per Vial
tutti gli sforzi degli ingegneri e dei designer per rendere i computer più
semplici non rappresenti altro che un immenso processo di ludicizzazione
finalizzato a farli passare dalla status di macchine programmabili a macchine
giocabili.38
36
E. Huhtamo, Slots of Fun, Slots of Trouble: An Archaeology of Arcade Gaming, in Handbook of
Computer Game Studies. Cambridge: MIT press, 2005, 3-21.
37
Vial, L’être et l’écran, 139.
38
Vial, L’être et l’écran, 137.
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della società che ne fa uso. Prima ancora che una caratteristica del digitale infatti il
gioco è un mezzo strategico per l’essere umano per possedere e dare significato a ciò
che è inesplorato, a ciò che può essere reinventato e reinterpretato a seconda dei bisogni
contingenti.39 La nascita di interfacce grafiche semplici e divertenti, della gestione dei
propri profili online attraverso bricolage di immagini e testi, l’uso ormai consueto di
software e piattaforme social che misurano, classificano e comparano le nostre
prestazioni, la ludicizzazione e la sintetizzazione del linguaggio nelle comunicazioni
testuali: tutti questi mutamenti derivano da una matrice comune, da un periodo in cui la
società occidentale era attraversata da un bisogno collettivo di appropriazione e
addomesticamento del mezzo computazionale, e con quel mezzo ha giocato fino a
modificarne le caratteristiche e moltiplicarne le funzionalità.
Precedentemente a questo periodo di reinterpetazione del mezzo la ludogeneité
dei computer aveva assunto una funzione del tutto diversa, quella di mezzo di
implementazione delle macchine e strumento di proiezione immaginaria del futuribile
dell’intelligenza artificiale. L’interazione ludica con i computer, che oggi grazie alla
connettività si presenta più come un’interazione mediata umani-macchine-umani, deve
essere considerata un processo inter-attivo in cui il gioco può essere interpretato in
maniera diversa a seconda del ruolo che gli è stato assegnato nei differenti contesti
storici. Il risultato di questa interazione si manifesta oggi in una potenziale nuova
ludicità per cui il gioco non si presenta più unicamente in ambienti separati e delimitati
da uno spazio e un tempo predeterminato. La playfulness come valore così come
l’apologia della craziness Jobsiana sono tra i fattori alla base dell’intermittenza del
gioco nell’età contemporanea. L’intermittenza è da intendersi proprio come il frapporsi,
il mettersi in mezzo dei media digitali tra noi e il mondo, un’intermediazione che rende
la ludicità implicita e prodotta dalle macchine elemento potenzialmente onnipresente nel
quotidiano di ognuno. Se oggi «dal ludico e nel ludico si entra e si esce senza cerimonie
39
Questa definizione di gioco non è ovviamente esaustiva. In un altro classico della letteratura sul gioco
Brian Sutton Smith ha sottolineato come il discorso sul gioco come imaginary sia solo una delle sette
retoriche adottate per descrivere l’attività ludica. Riteniamo però questa retorica essenziale per l’analisi
dei processi di addomesticamento e di adattamento alla tecnologia analizzati in questo lavoro. Cfr B.
Sutton Smith, The ambiguity of play. Cambridge, Harvard University Press, 1997.
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di passaggio»40 lo si deve alla convivenza tra umani e macchine che sembra abbattere il
confine tra sfera ludica e sfera reale creando una nuova area grigia, ancora tutta da
interpretare, di quella che solo provvisoriamente possiamo definire semi-ludicità.
Comprendere a fondo quale sia il ruolo del gioco nella nostra interazione con e
attraverso i computer oggi è una sfida decisiva per le scienze umane, una sfida che può
trovare un prezioso aiuto nella storia e nel confronto ormai quasi centenario tra due
soggetti ludici, umani e macchine, in continua interazione tra loro.
40
S. Bartezzaghi, Il gioco infinito. Forme, linguaggi, sconfinamenti, patologie. Aut Aut. Indagine sul gioco,
25 (337), 2008, 54.
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