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ph – Journal of Philosophy – ISSN 2420-9775


N. II, 4, 2016 – Gilles Deleuze and the Resistance of the Arts

Alessandro Lattuada

Gilles Deleuze e il rovesciamento del platonismo

Peer-reviewed Article. Received: September, 09, 2015; Accepted: February 03, 2016

Nel primo saggio in appendice alla Logica del senso, dal titolo Platone e il simulacro1,
Deleuze si misura con il platonismo al fine di attuarne il sovvertimento. Qui viene messo in
risalto il problema del simulacro in rapporto alla gerarchia platonica, notoriamente
costituita dai Modelli (o Idee) e dalle copie-icone (o rappresentazioni). Tuttavia, Deleuze
annuncia l’esistenza di un terzo elemento situato in un fondo indistinto in cui il filosofo greco
relega le copie che non sono ‘ben fondate’, quelle cioè che non condividono la somiglianza
con il Modello. Si tratta del simulacro. Esso è definito infatti un falso pretendente
(contrariamente alle copie), una deviazione, una perversione che incarna una
dissimilitudine. Il vero problema della filosofia platonica, secondo Deleuze, non è
rappresentato dal rapporto delle copie-icone con il Modello, ma dal ruolo del simulacro. La
preoccupazione più grande di Platone sarebbe in effetti quella di «assicurare il trionfo delle
copie sui simulacri, di rimuovere i simulacri, di mantenerli incatenati proprio in fondo,
impedire ad essi di risalire alla superficie e di ‘insinuarsi’ ovunque»2. La filosofia platonica
tende dunque ad assicurare il buon pretendente al Modello attraverso due movimenti: far
salire alla superficie le copie-icone ben fondate e relegare sul fondo i simulacri-fantasmi.
La somiglianza (l’attributo che garantisce la fondatezza) della copia al modello è da
intendersi non in rapporto ‘esteriore’ (una cosa rispetto a una cosa), ma ‘interiore’ o
‘spirituale’ (una cosa rispetto a un’idea). Dunque la copia si conforma al Modello in virtù di
una somiglianza interna. I simulacri invece vi si rapportano attraverso una sovversione, una
violenza che proviene dal basso; il movimento del simulacro è inverso rispetto a quello della
copia. Quella del simulacro, afferma l’autore, è «una pretesa infondata che copre una
dissomiglianza come pure uno squilibrio interno»3. Per la ricerca del giusto pretendente,
Platone adotta un metodo di divisione che si basa sulla selezione dell’autentico pretendente
alla rappresentazione del modello e sulla simultanea distinzione di questo dall’inautentico;
si tratta di distinguere il «puro dall’impuro»4. Il metodo che Deleuze attribuisce a Platone
deriva da una precisa interpretazione del concetto di differenza in Bergson. Per
comprendere appieno la lettura deleuziana della filosofia platonica occorre dunque
accennare all’incidenza del bergsonismo sul suo pensiero.
La deleuziana ‘metafisica del caos’ si basa su un processo dialettico ben diverso da quello
platonico o hegeliano. Non è questo il luogo per approfondire i punti di contrasto fra il
pensiero di Deleuze e quello di Hegel; ci limiteremo pertanto a osservare che Deleuze esclude
il negativo dal movimento dialettico. Il negativo è assorbito e superato dal concetto
bergsoniano di differenza. Applicando il metodo della differenza (secondo cui solo il
‘semplice’, o il ‘puro’, è indivisibile e per ciò stesso si differenzia in sé, cioè differenziandosi
cambia natura) alla filosofia platonica, Deleuze giunge a considerare il simulacro come
l’oggetto della filosofia dell’avvenire. Nel contesto bergsoniano il simulacro è chiamato
virtuale: esso è il soggetto del movimento differenziante, ossia ciò che si attualizza nel
differenziarsi del semplice e che comprende i due termini opposti che si differenziano in
natura.

1 G. Deleuze, Logica del senso [1969], tr. it. di M. De Stefanis, Feltrinelli, Milano, 2011, pp. 223-234.
2 Ivi, p. 226.
3 Ibid.
4 Ivi, p. 224 (corsivo nostro).

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In un saggio del 1957, Deleuze afferma che Bergson concepisce l’essere come alterazione5;
in questa prospettiva ontologica occorre concepire la ‘cosa’ come qualcosa di non puro, un
misto che deve essere scomposto. Da questa scomposizione derivano due tendenze: una
tendenza pura che rappresenta la sostanza e una tendenza inautentica, cioè impura, che si
oppone alla prima. Dalla metodica scomposizione dell’impuro e dalla differenziazione del
puro derivano, secondo Deleuze, le serie che presiedono alla genesi del tutto.
La cosa si dissocia in materia e durata: la durata è la tendenza pura, la sostanza della
cosa; la materia è ciò che si ripete nelle serie senza cambiare natura. La durata, semplice ed
indivisibile, non si può scomporre e si differenzia in sé in due direzioni: materia e spazio.
Quest’ultimo si scompone nuovamente in materia e durata, la quale stavolta si differenzia in
contrazione e distensione (principio della materia). Nella serie creatasi è possibile notare
che la durata è ciò che, differenziandosi, cambia natura e la materia è ciò che si ripete senza
cambiare natura. La durata dunque rappresenta la sostanza del movimento differenziante,
quel movimento che realizza e attualizza il virtuale. Lo Slancio Vitale, il movimento che in
Bergson dà origine alle specie, è inteso da Deleuze come il movimento della differenziazione,
che dà luogo alle serie. In breve, la durata è la virtualità e lo Slancio Vitale il movimento
che ne determina l’attualizzazione. Nella misura in cui l’essenza del virtuale risiede nella
sua realizzazione, Slancio Vitale e durata sono la stessa cosa. Occorre in questo senso
concepire lo Slancio Vitale come una direzione della durata, mentre la direzione ‘differente’
di quest’ultima è la memoria. Nella memoria si presentano passato e presente in un unico
momento, ma non si tratta di un movimento di regressione. Il passato e il presente vanno
piuttosto considerati come due gradi in certo modo coesistenti della durata-memoria. La
durata in sé consta dunque di due gradi di cui la materia rappresenta quello più disteso e la
memoria quello più contratto.
Il tempo in Bergson è considerato dunque come possibile coesistenza di tutto con tutto,
pura virtualità di cui la durata rappresenta la sostanza, una sostanza a sua volta virtuale, in
continuo mutamento, che si differenzia in sé. Se ne deduce una concezione del tempo
peculiare in cui il presente è considerato semplicemente come il grado più contratto del
passato coesistente, ma anche «il punto in cui il passato si lancia verso l’avvenire» 6; il
presente, mancando di sostanza ontologica, è perenne ‘novità’. Sembrerebbe dunque che la
durata sia la sostanza del movimento, ma poiché si differenzia ad ogni istante in passato e
futuro essa non può più essere considerata una sostanza, ma un virtuale. Questa concezione
del tempo corrisponde a ciò che gli Stoici chiamavano Aiôn e che in Deleuze rappresenta il
tempo dell’evento.
Si tratta di considerazioni nodali in vista di ciò che Deleuze chiama rovesciamento del
platonismo. L’autore intende attuare una rivoluzione ontologica: porre al vertice della scala
gerarchica ciò che Platone colloca nel gradino più basso — i simulacri o gli eventi. Nella sua
espressione linguistica l’evento corrisponde al senso; la Logica del senso fonda la filosofia
dell’evento. Gli stoici sono i precursori di questo capovolgimento, in quanto ricollocano in
superficie quegli elementi che Platone aveva relegato nel fondo:

Infatti, in Platone, un oscuro conflitto avveniva nella profondità delle cose, nella profondità della terra, tra
ciò che si sottometteva all’azione dell’Idea e ciò che si sottraeva a tale azione (le copie e i simulacri) […]; vi
è qualcosa che sempre e ostinatamente schiva l’Idea? 7

Per Deleuze questo ‘qualcosa’ appartiene al mondo dei simulacri, cioè alla superficie. La
rivalutazione della superficie implica una critica della metafisica verticalistica, ma anche alla
psicologia del profondo. Se l’intento platonico è quello di delimitare una realtà intelligibile

5 G. Deleuze, Bergson [1859-1941], in Id., L’isola deserta e altri scritti [2002], tr. it. di D. Borca, Einaudi,
Torino, 2007, p. 24.
6 Ivi, p. 31.
7 G. Deleuze, Logica del senso, cit., pp. 14-15.

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e di incatenare i simulacri sul ‘Fondo’, Deleuze intende dotare il simulacro di valore


ontologico. Contestualmente, Deleuze critica alcune linee della filosofia moderna, che a suo
dire avrebbe perseguito un intento iconologico mantenendo intatto l’ordine platonico. In
particolare, Leibniz e Hegel hanno escluso il simulacro dai loro sistemi, restando ancorati al
campo della rappresentazione; l’uno attraverso la definizione degli incompossibili, l’altro nel
monocentramento dei cerchi dialettici e nella convergenza delle serie8. Torneremo sulla
questione più avanti. Se dunque quella di Platone è la filosofia del Pretendente e se il
pensiero moderno si misura con le copie-icone, la filosofia di Deleuze lavora invece
sull’ontologia del simulacro, il quale non rappresenta (come in Platone) una «copia
degradata», ma un ente a sé stante capace di contenere «una potenza positiva che nega sia
l’originale sia la copia, sia il modello sia la riproduzione»9. La potenza positiva di cui parla
l’autore è quella della disgiunzione e del paradosso, cioè di quegli elementi attivi nel
dispositivo linguistico che fa convergere le serie divergenti e che il romanzo di Lewis Carroll,
Alice, ha portato alle sue estreme conseguenze.
A questo punto si rende necessario approfondire la differenza fra i due modi di concepire
il tempo: Kronos e Aiôn. Abbiamo detto che Deleuze predilige il tempo dell’Aiôn; ma che
cosa significa? Abbiamo inoltre osservato che nell’Aiôn il passato e il futuro coesistono e
formano, attraverso i movimenti di distensione e contrazione, un presente ‘virtuale’. In
Kronos, viceversa, passato e futuro sono tempi relativi a un presente indefinitamente
prolungato. Possiamo dire, con Deleuze, che mentre Kronos è infinito ma limitato dal
concetto stesso di presente o dall’Istante, Aiôn è di per sé finito ma «infinitamente
suddivisibile»10, in quanto continuamente frammentato dai movimenti di contrazione e
distensione di un passato e di un futuro che coesistono.
Da ciò derivano alcune importanti conseguenze. Kronos è limitato, ciclico, eternamente
presente e dipendente dalla materia dei corpi che lo riempiono; Aiôn è infinito, neutro,
indipendente dalla materia e illimitatamente prolungato su una linea retta che solca la
superficie11. Kronos è il tempo del concatenamento delle cause corporee, Aiôn il tempo degli
eventi-effetti incorporei. L’evento «indietreggia e avanza nei due sensi
contemporaneamente»12, mai nel presente cronico, ma nella retta temporale dell’Aiôn, la
cui frammentazione è frutto dei continui movimenti del passato e del futuro. L’evento è
simultaneamente nel passato e nel futuro; esso è stato, sarà, ma non è mai: «Quando dico
‘Alice cresce’, voglio dire che diventa più grande di quanto non fosse. Ma voglio anche dire
che diventa più piccola di quanto non sia ora. Senza dubbio, non è nello stesso tempo che
Alice sia più grande e più piccola. Ma è nello stesso tempo che lo diventa» 13. La natura
dell’evento è di essere un oggetto diveniente, un virtuale, un simulacro o un fantasma.
Platone si serve del mito per presentare il Modello e allo stesso tempo ‘braccare’ il
simulacro; nel Sofista si presenta un caso eclatante14. In questo dialogo, secondo Deleuze, è
Platone stesso a indicare la direzione per il rovesciamento del platonismo. Il Sofista
rappresenta «l’essere del simulacro», in quanto «s’immischia e s’insinua ovunque»
schivando sempre il modello15. Platone si affaccia nell’abisso per braccare il falso
pretendente, ma nello stesso tempo, insinua Deleuze, egli indovina la potenza del simulacro:
si tratta di quel “divenire-folle” che gli permette di sfuggire all’incatenamento statico
dell’idea.

8 Ivi, p. 229.
9 Ivi, pp. 230-231.
10 Ivi, p. 60.
11 Ivi, p. 61.
12 Ivi, p. 62.
13 Ivi, p. 9.
14 Ivi, p. 225.
15 Ibid.

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Vi è nel simulacro, insomma, un divenire-folle, un divenire illimitato come quello del Filebo in cui “il ‘più’
e il ‘meno’ avanzano sempre”, un divenire sempre altro, un divenire sovversivo delle profondità, abile a
schivare l’uguale, il limite, il Medesimo e il Simile: sempre il più e il meno a un tempo, ma mai uguale.
Imporre un limite a tale divenire, ordinarlo verso il medesimo, renderlo simile – e, per la parte che
resterebbe ribelle, rimuoverla nel più profondo possibile, rinchiuderla in una caverna nel fondo
dell’Oceano: tale è lo scopo del platonismo nella sua volontà di far trionfare le icone sui simulacri 16.

L’uguale rappresenta con ciò la dimensione ontologica — lo spazio — del modello; sotto
questo rispetto, il simulacro sovverte l’ordine spaziale nella misura in cui è ‘sempre il più e
il meno a un tempo’. Il limite rappresenta la dimensione temporale del mutevole, che pone
un freno al ‘divenire-folle’ caratteristico del simulacro. Il Medesimo è l’idea o il modello e il
Simile la rappresentazione o la copia ‘ben fondata’.
Dalla prospettiva del platonismo, cioè del Medesimo, discende l’eredità della filosofia
moderna, anzitutto il campo della rappresentazione o del Simile. La filosofia moderna, la cui
ascendenza è aristotelica, è improntata al principio rappresentazionale e conosce una
radicalizzazione con l’avvento del Cristianesimo, che determinerà la necessità non solo di
«fondare la rappresentazione […], bensì di renderla infinita»17. Così Leibniz definisce il
migliore dei mondi possibili come luogo delle serie convergenti e relega le serie divergenti
nel dominio degli ‘incompossibili’; analogamente, i cerchi hegeliani ruotano intorno ad un
solo centro, imponendo una coerenza alla realtà nella convergenza delle serie. Scrive
Deleuze:
Leibniz si serve di questa regola d’incompossibilità per escludere gli eventi gli uni dagli altri: fa un uso
negativo o di esclusione della divergenza o della disgiunzione. Ora, questo è giustificato soltanto nella
misura in cui gli eventi sono già colti sotto l’ipotesi di un Dio che calcola e sceglie, dal punto di vista della
loro effettuazione, in mondi o in individui distinti. Ma non è lo stesso se consideriamo gli eventi puri e il
gioco ideale di cui Leibniz non ha potuto afferrare il principio, impedito com’era dalle esigenze della
teologia. Da quest’altro punto di vista infatti la divergenza delle serie e la disgiunzione dei membri (membra
disjuncta) cessano di essere regole negative di esclusione, secondo cui gli eventi sono incompossibili,
incompatibili18.

Mentre in Kronos il centro rappresenta il punto di convergenza delle serie, nell’Aiôn, cioè
sul terreno del simulacro, il centro è sempre decentrato, dunque non è più un ‘centro’ ma un
punto aleatorio. Questo azzera ogni possibilità di determinare un ordine prestabilito e
semmai permette di affermare il negativo e di comprendere il divergente.
La svolta, secondo Deleuze, è appannaggio di Nietzsche, vero erede dell’impostazione
sovversiva stoica. Egli per primo destituisce l’individuo dal ruolo di soggetto e vi sostituisce
un fondo indifferenziato, personificato metaforicamente in Dioniso, il dio greco
dell’ebbrezza. La svolta nietzscheana è funzionale alla determinazione di un campo
trascendentale alternativo a quello della metafisica verticalistica e della psicologia del
profondo. Le due impostazioni precedenti, l’una tendente all’individuazione o
personificazione e idonea all’analisi della ‘profondità’, l’altra solidale all’erezione di un
Modello o di un dio ordinatore, avrebbero posto in secondo piano la superficie su cui si
proietta — né persona né individuo — il ‘singolo’; la sua designazione linguistica risponde
alla logica della ‘quarta persona singolare’: il si.
Alla base di ogni ‘io’ risiedono le ‘singolarità’, vale a dire gli eventi trascendentali che si
attualizzano sulla superficie e «presiedono alla genesi degli individui e delle persone» 19. Le
singolarità deleuziane sono simili alle monadi leibniziane, ma fino a un certo punto, giacché
esse costituiscono serie eterogenee e divergenti e allo stesso tempo convergenti, prive di un
ordine stabilito da un’autorità superiore (Modello o Dio). Non si tratta del migliore dei

16 Ivi, p. 227.
17 Ivi, p. 228.
18 Ivi, p. 153.
19 Ivi, p. 96.

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mondi possibili, ma di infinite possibilità di mondi, le cui serie, formate dai punti singolari
posti sulla retta temporale dell’Aiôn, convergono e divergono simultaneamente.
Aiôn, serie divergenti, decentramento del punto aleatorio, affermazione dell’evento come
effetto di concatenamento di cause corporee e strutturazione degli effetti in rapporti di
quasi-cause – tutti questi elementi concorrono alla formazione non di un ‘mondo’, ma di un
‘caosmos’20. Qui l’io appare dissolto nella frammentazione e distribuzione delle singolarità
pre-individuali e Dio è privato di ogni significazione possibile. Dalla Monadologia
leibniziana, che prevedeva infiniti punti di vista, ma di una sola cosa, di una sola città, siamo
giunti al prospettivismo nietzschano, in cui tutte le serie divergenti si concentrano su un
punto aleatorio sempre decentrato e approdano a una Nomadologia21, cioè a una teoria del
pensiero nomade, in cui non esistono più limiti, ‘città’ e Modelli. Linguisticamente parlando,
ci troviamo di fronte alla fondazione dell’istanza del paradosso, che è l’espressione di tale
punto aleatorio. Questa impostazione decreta la fine di ogni individuazione sostanziale e,
con essa, di ogni principio immutabile:
La divergenza delle serie affermate forma un ‘caosmos”’ e non più un mondo; il punto aleatorio che le
percorre forma un contro-io e non più l’io; la disgiunzione, posta come sintesi, baratta il proprio principio
teologico con un principio diabolico. Questo centro decentrato, traccia tra le serie e per tutte le disgiunzioni
l’impietosa linea retta dell’Aiôn, cioè la distanza in cui si allineano le spoglie del’io, del mondo e di Dio […].
Così vi è sulla linea retta un eterno ritorno […] molto diverso dal ritorno circolare o monocentrato di
Kronos: eterno ritorno che non è più quello degli individui, delle persone e dei mondi, bensì quello degli
eventi puri che l’istante spostato sulla linea non cessa di dividere in già passati e ancora futuri. Non sussiste
nient’altro che l’Evento, l’Evento soltanto, Eventum tantum per tutti i contrari che comunicano con sé per
la propria distanza, che risuonano attraverso tutte le disgiunzioni 22.

Questa prospettiva rovescia la gerarchia platonica: ‘il simulacro sale in superficie’, in


quanto esso, a differenza delle copie di un Modello che non ha più diritto di cittadinanza, «è
costruito su una disparità, su una differenza»23 e la differenza è il carattere determinante del
divenire. Del resto si potrebbe anche concepire un modello, a condizione, però, che sia un
«modello dell’Altro»24, un’inversione diabolica del «buon modello del Medesimo»25. Si può
allora ipotizzare un dio, purché non sia un dio ordinatore, ma un dio che ‘gioca a dadi’.
Deleuze invita a un ragionamento sovversivo del senso comune non meno che del buon
senso. Egli afferma la coesistenza simultanea di senso e non-senso. Il buon senso
rappresenta per Deleuze un «aspetto della doxa», in quanto muove «dal passato al futuro»
e sempre «rispetto al presente»26. Il senso comune «sussume facoltà diverse dell’anima o
organi differenziati del corpo, e li riferisce a un’unità capace di dire io»27; in termini
metafisici, il senso comune riduce il molteplice ad unità, affermando logicamente il
principium individuationis. Questa è per Deleuze una pura semplificazione. La potenza del
paradosso precede e capovolge buon senso e senso comune proiettandosi non sull’individuo
e il presente, ma sul già passato e ancora futuro dell’identità perduta e mai ritrovata delle
singolarità preindividuali. Siamo nel campo dell’imprevedibile, del ‘divenire-folle’, dell’anti-
stasi, del simulacro-fantasma. Il luogo naturale dell’‘eventuarsi’ del paradosso è la
superficie, vero tempio del senso e della nuova profondità, perché «il più profondo è la
pelle». La linea-frontiera dell’Aiôn fa convergere le serie divergenti non rispetto a sé stesse,
ma intorno al punto aleatorio sempre decentrato e sempre spostato. La sovversione
deleuziana intacca alle fondamenta tutti i massimi sistemi scientifici e filosofici, i quali

20 Ivi, p. 157.
21 G. Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco [1988], a cura di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2004.
22 Id., Logica del senso, cit., p. 157.
23 Ivi, p. 227.
24 Ibid.
25 Ibid., nota 3.
26 Ivi, p. 73.
27 Ivi, p. 75.

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impongono un ordine prima del disordine, un Mondo che precede il ‘Fuori’, antepongono
l’Uno al molteplice, la causa all’effetto, etc. Il più emblematico di questi sistemi è il
platonismo, poiché impone un Modello da anteporre alle copie-icone e soprattutto ai
simulacri. Si ragiona pertanto sulle possibilità solo dopo aver stabilito un postulato
necessario e unitario che le sostenga, un principio statico che assicuri la salvezza. Contro
tutto ciò si eleva il proposito deleuziano di pensare il caos. Piuttosto che osservare le
regolarità per decidere un ordine e respingere quanto ne rimane fuori nelle eccezioni
(giustificando così l’idea di un mondo), si provi a dare una priorità alle eccezioni e concepire
l’idea di mondo come una pura astrazione semplificativa. Traspare qui l’immagine di un caos
generatore di singolarità che non corrispondono ad alcun modello, regola, ordine o Idea e
che determinano, come effetti, le regolarità. Non si tratta più di stabilire l’esistenza o
dell’Uno o del Molteplice, ma di fondare la loro relazione reciproca. Questo è il compito
della modernità. Come dice Deleuze, infatti, è «la potenza del simulacro a definire la
modernità»28.

28 Ivi, p. 233. Cit. leggermente modificata da G. Deleuze, Logique du sens, Les editions de Minuit, Paris 1969,
p. 306.
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