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di Lilian Truchon
Prima di affrontare la problematica di questa antropologia nel suo rapporto col marxismo, è
importante vedere in cosa consiste l’«effetto reversivo dell’evoluzione», nozione mai
nominata nell’opera di Darwin e, tuttavia, operante in diversi rilevanti capitoli del suo volume
del 1871. Darwin osserva che, grazie alla selezione degli istinti sociali e al correlato
accrescimento delle capacità mentali, nonché delle tecnologie razionali (igiene, medicina,
esercizio fisico), ciò che per comodità viene definito «cultura» (o civilizzazione) prevale sulla
«natura»: l’altro, in quanto essere umano, è riconosciuto come simile, dunque il sentimento di
simpatia si estende, così come la solidarietà e il soccorso agli «inadatti». Questa tendenza
evolutiva oggettiva e di recente egemonica (in relazione al precedente corso evolutivo
eliminatorio) si è imposto progressivamente alla tribù, alla nazione e poi all’umanità intera. In
altre parole, «la selezione naturale seleziona la civilizzazione, la quale si oppone alla
selezione naturale» [4]. Nessuno specialista e commentatore ha dimostrato, in modo serio, la
falsità o il carattere forzato della rigorosa analisi fornita da Patrick Tort, in particolare nel suo
studio delle sequenze testuali del discorso darwiniano circa l’uomo, così come proposto in
particolare in un articolo fondamentale: «Darwinismo ed evoluzionismo filosofico» [5].
Darwin quindi non è responsabile del «darwinismo sociale» [6], sociologia evoluzionista il
cui vero padre fondatore è il filosofo-ingegnere inglese Herbert Spencer (1820-1903), così
come altri autori immediatamente successivi, tra i quali Ernst Haeckel, padre del Sozial-
Darwinismus tedesco, nonché Francis Galton, cugino di Darwin e teorico dell’eugenismo
moderno. Sebbene le rispettive ideologie biologizzanti di tali «evoluzionismi» comportino
notevoli differenze, esse hanno avuto in comune il fatto di parlare abusivamente a nome di
Darwin sulle questioni di sociologia ed etica, inaugurando in questo modo la confusione
perenne tra «darwinismo» e selezionismo sociale. Mentre Darwin promuoveva
l’assimilazione dei deboli e degli inabili, costoro raccomandavano l’esatto opposto:
l’eliminazione naturale dei meno adatti nella lotta sociale o l’esclusione pianificata dei deboli
di corpo e di spirito.
Ormai, è comunemente accettato che Darwin e Spencer non sono fondamentalmente la stessa
cosa. Il primo opera nel campo della scienza, il secondo in quello dell’ideologia. Eppure, si
tratta di una sorta di riconoscimento a metà dell’antropologia darwiniana, poiché non ne
evoca necessariamente il contenuto positivo; come nel caso in cui, una volta approvata e
accolta la confutazione delle accuse di razzismo, schiavismo, eugenismo e sessismo delle
quali Darwin fino a poco tempo fa era oggetto, ci si rifiuta ancora oggi di considerare
l’esistenza, nel naturalista inglese, di un pensiero ateo (e non semplicemente «agnostico») [7],
materialista (eppure effettivo nella sua genealogia naturalista della morale) e dialettico
(rovesciamento senza rottura dalla «natura» alla «cultura»), incompatibile con le diverse
filosofie spiritualiste e religiose relative ai problemi dell’evoluzione e della morale. Dunque,
Patrick Tort ha sottolineato che l’effetto reversivo non deriva da una qualsivoglia filosofia
personale di Darwin, ma dipende interamente dalla logica della scienza darwiniana, al fine di
pensare l’articolazione natura/civilizzazione e l’emergere evolutivo del fattore morale [8]. Al
contrario di un attitudine di indecisione e riserva, si tratta quindi di stimare pienamente un
gesto teorico meritevole, in sommo grado, della definizione di dialettica: quello di concepire il
superamento sotto la forma di una continuità reversiva, così da essere «in grado di pensare ciò
che, tanto all’interno delle strutture quanto dei processi, lavora alla loro stessa
trasformazione» [9].
I diversi aspetti brevemente accennati di questa «seconda rivoluzione darwiniana» [10] del
1871 (dopo quella di L’origine delle specie nel 1859), a lungo misconosciuta e che consente
la reintegrazione della coerenza tra la biologia evolutiva e la teoria della civilizzazione del
naturalista inglese, dovrebbero favorire un interesse costante da parte dei marxisti o dei vari
pensatori «marxisteggianti», «marxiani» o «di sinistra». Tuttavia, spesso non è stato così,
poiché anche qui si può constatare un conservatorismo del pensiero, in particolare per fedeltà
a certe esternazioni di Marx ed Engels che accostano la teoria darwiniana all’ideologia
malthusiana, oltreché alla «guerra di tutti contro tutti» evocata da Thomas Hobes [11]. Tutto
ciò ha come conseguenza paradossale che persone di sinistra si trovano a essere d’accordo coi
loro avversari naturali: i «darwinisti borghesi» (definizione coniata da Marx per i difensori del
«darwinismo sociale»), quando affermano che Darwin stesso sostiene la selezione, la
concorrenza e l’ineguaglianza sociali. Si tratta in realtà dell’ammissione di
un’incomprensione fondamentale della logica e del modello darwiniani di variazione
vantaggiosa selezionata, divergenza innovante e «deperimento delle forme antiche», il quale
aveva permesso a Darwin di giungere alla conclusione di una
tendenziale eliminazione dell’eliminazione, nonché dell’emergere di un
vantaggio direttamente sociale nell’evoluzione.
Prendiamo un caso complesso, concernente quello che possiamo definire il «pensiero sociale»
del naturalista, che dimostrerà la falsità dei giudizi affrettati sul «darwinismo sociale di
Darwin» espressi dai darwinisti-borghesi e da alcuni marxisti, giudizi divenuti col tempo veri
e propri luoghi comuni: quando, in una lettera [12], Darwin lamenta che la lotta sindacale a
favore del salario minimo legale livella i talenti e nuoce alle possibilità di ascesa sociale per
gli operai migliori, ciò non si inscrive in una prospettiva atta a promuovere l’eliminazione
sociale dei meno adatti (cfr. la posizione di Spencer sulla stessa tematica [13]), bensì a favore
di una concorrenza interindividuale pacifica di cui beneficeranno i più meritevoli. È pur vero
che qui, Darwin, è cieco di fronte al costituirsi del proletariato operaio in classe, ridotta al
lavoro e alla ricostituzione della propria forza-lavoro, oltreché alla resistenza sindacale attuata
da questa stessa classe a difesa dei suoi interessi collettivi. Come chiaramente spiegato da
Patrick Tort:
[…] la posizione di Darwin riguardo alla società […] rimane essenzialmente riformista, etica,
paternalista e, in quest’otica medesima, non ci si sorprenderà, «borghese». Non mi è mai
venuto in mente di dimostrare il contrario […] A tal proposito, sarà facile per un teorico
marxista cogliere retrospettivamente la «mancanza» propria a Darwin, consistente nel non
aver effettivamente pensato la strutturazione in classi della società inglese durante l’ascesa
dell’industrializzazione, così come, a fortiori, il contrapporsi dei gruppi umani all’interno di
essa: ciò che compete, per l’appunto, a Marx [14].
Ma, precisa sempre Tort, «a essere radicalmente escluso, come mostrato dall’insieme di
analisi che ho condotto in merito sin dal 1983, è che si possa parlare di un ‘darwinismo
sociale di Darwin’» [15].
Vale altrettanto, in una certa misura, per quanto concerne il ruolo del lavoro. Eppure, i
marxisti su questo tema devono tanto al naturalista inglese. In effetti, Engels si ispira
direttamente a L’origine dell’uomo (in particolare al capitolo II, «Il modo di sviluppo
dell’uomo da alcune forme inferiori»), allorquando nel 1876 parla di «azione congiunta della
mano, degli organi vocali e del cervello» al fine di spiegare la fabbricazione di utensili come
«passo decisivo» nell’emergere della civilizzazione umana e nel suo «dominio sulla natura»
[16]. Del resto, nessun marxista potrebbe rinnegare la seguente frase di Darwin: «L’uomo non
potrebbe aver raggiunto la sua attuale posizione di dominio nel modo senza l’uso delle mani
che sono così meravigliosamente adatte ad agire secondo il suo volere» [17]. Ciò nondimeno,
a differenza di Engels, che ne fa un momento di rottura rispetto al mondo animale, quello
descritto da Darwin è un processo lento e progressivo nel cambiamento della struttura
corporale, il quale ha consentito all’uomo di divenire l’animale dominante in seno alla natura.
E tale «successo nella battaglia per la vita» [18] è appunto concepito in termini di «selezione
naturale» e di «vantaggio» biologico. Dunque, a questo livello di esplicazione dello sviluppo
originario dell’uomo, Darwin da naturalista si interessa innanzitutto alle «modificazioni nella
struttura» [19] dell’individuo, non quindi ai «benefici alla comunità» che porta l’uso dello
strumento [20]. Ma il naturalista inglese non manca di annunciare, nei capitoli successivi della
sua opera (in particolare il quinto, «Sviluppo delle facoltà intellettive e morali durante l’età
primitiva e quella civilizzata» [21]), che affronterà le «facoltà mentali», le quali, a differenza
delle modificazioni della struttura corporale, «si sono ottenute principalmente o quasi
esclusivamente per il bene della comunità» (nonostante il fatto che «gli individui ne hanno
ottenuto un vantaggio indiretto» [22]). Il nuovo vantaggio ormai non è più biologico, ma
sociale. Resta il fatto che il riferimento alle modificazioni evolutive delle facoltà «mentali»,
«morali» e «intellettive» si dimostra dominato, in Darwin, dall’esame del divenire etico
dell’uomo avanzante nella civilizzazione. Anche qui, Darwin «inciampa sul sociale» [23]:
egli non pensa il lavoro socializzato come produzione (creazione di valore d’uso).
Il darwinismo ci insegna che ogni animale è egualmente adatto ed anche perfetto nella sua
forma per adattarsi al suo particolare ambiente naturale. Allo stesso modo, il marxismo ci
insegna che ogni sistema sociale è adatto particolarmente alle sue condizioni e che, in questo
senso, può essere qualificato buono e perfetto [38].
UN RITORNO A KANT?
È vero che l’interesse costante dimostrato da alcuni «marxisti» odierni per l’antropologia
darwiniana scoperta da Patrick Tort è discutibile, allorché non rispetta i presupposti
fondamentali del marxismo e, di conseguenza, rende problematica la conciliazione di una
comprensione della logica dialettica del rovesciamento continuo, difesa da Darwin, col
materialismo storico di Marx. È il caso dell’approccio di Yvon Quiniou, il quale in primo
luogo rivede il marxismo secondo modalità che ricordano fortemente il «ritorno a Kant» di
Bernstein. Secondo Quiniou, il capitalismo è senza dubbio un modo di produzione distruttivo,
ma il suo rovesciamento non dipende da un processo storico oggettivo e inevitabile: bensì
risulta solo desiderabile e moralmente necessario [46]. Del marxismo originale, a quanto pare,
non resta altro che un insieme di «imperativi categorici» debitori sopratutto all’idealismo
trascendentale di Kant e ben poco al materialismo storico, così come esposto in maniera
rappresentativa da Marx nella «prefazione» a Per la critica dell’economia politica (1959).
Per quanto concerne l’apporto dell’antropologia darwiniana, l’approccio di Quiniou non è
meno problematico, poiché vede nell’effetto reversivo dell’evoluzione la spiegazione,
finalmente materialista, del discorso kantiano sulla legge morale [47]. Tuttavia, Darwin non
fissa in partenza delle prescrizioni morali dal valore universale, ma descrive anzitutto dei
processi evolutivi. Che Marx (in «Per la critica della filosofia del diritto di Hegel» [48]) o
Darwin (in L’origine dell’uomo [49]) abbiano occasionalmente fatto riferimento al discorso
kantiano sull’ideale normativo non sminuisce il dato di fatto più essenziale, ovvero che,
quando forzato, tale riavvicinamento al trascendentalismo contraddice quanto affermato da
Marx: «Noi conosciamo un’unica scienza, la scienza della storia» [50], naturale e sociale. Il
progetto materialista non implica il ritorno alla filosofia, fosse anche la pur nobile filosofia
classica tedesca, al fine di rintracciarvi l’esito ideale delle verità del marxismo e del
darwinismo, bensì, al contrario, «[…] uscire dalla filosofia per asserire la verità dei processi»
[51].
Si tratta di preoccupazioni legittime, anche dopo aver ristabilito l’autentico tenore materialista
del messaggio di Darwin sull’uomo, nonché averne ricordato l’impensato sociale. In effetti, si
pone un problema non facile da schivare, poiché la risposta data determina invero la
condizione stessa di possibilità di un avvenire teorico comune a Marx e Darwin, in particolare
per quanto riguarda il ricorso al concetto di effetto reversivo dell’evoluzione quale chiave di
unificazione del materialismo moderno.
La questione è la seguente: le raccomandazioni sociali e morali di Darwin – che egli trae dal
fatto che i valori dell’educazione, dell’altruismo e della solidarietà sono divenuti degli
obiettivi della selezione ultimamente egemonica – sono conciliabili col fatto osservato da
Marx per cui le società evolvono verso contrapposizioni di classe? Perché in termini
paradigmatici molto generali, l’uno (Marx) presenta il conflitto delle classi e l’antagonismo
sociale come forze motrici della storia, mentre l’altro (Darwin) sostiene in qualche modo il
contrario: la destituzione progressiva di ogni forma di lotta antagonistica, tramite l’estensione
indefinita della «simpatia» istintiva individuata dal naturalista quale «parte più nobile della
nostra natura».
Fondandosi sul «tipo di programma» [55] elaborato da Patrick Tort, un responso positivo a
tale dilemma è possibile e tutto sommato rispettoso della specificità dei rispettivi
materialismi, quello del marxismo e quello del darwinismo. Ciò nondimeno, per arrivarvi,
bisognerà rendere conto dell’esistenza di un paradosso, il quale reclama di essere
dialeticizzato e ordinato alla contingenza storica, poiché sarà necessario pensare al
contempo contro la lotta e con la lotta. Prenderemo dunque dal programma succitato (al quale
rinviamo espressamente) l’idea che la distinzione delle due realtà, vale a dire, la breve
«dinamica degli avvenimenti storici» e la lunga «dinamica degli avvenimenti evolutivi», si
sovrappongono anziché costituire due esteriorità radicalmente distinte, l’una successiva
all’altra, come il pensiero marxista ha avuto tendenza a considerarle. «L’evoluzione ingloba o
include la storia» [56]. Così, riguardo la questione dei rapporti tra natura e società, ciò che
deve prevalere a livello concettuale non sono le nozioni di successione e stadializzazione, le
quali favoriscono fortemente una visione dualista e discontinuista, ma semmai l’inglobamento
e la torsione (la continuità reversiva [57]) che, pur derivando da un monismo materialista,
rendono conto dell’autonomizzazione del fatto sociale da parte degli uomini. Significa
comprendere che l’obiettivo di «dare alla società un’organizzazione comunista» [58]
partecipa di questo effetto reversivo dell’evoluzione: il «rovesciamento» continuo della
necessità «naturale», e della contingenza delle condizioni di esistenza imposte agli uomini,
nel suo contrario: la libertà con la quale questi stessi uomini impongono le proprie leggi
sociali alla natura in correlazione al dominio razionale (dunque pianificato e giudizioso) delle
condizioni di esistenza [59]. Ricondotta alle problematiche anticapitaliste della nostra epoca,
la lotta di classe come battaglia per rovesciare materialmente tutti i rapporti sociali che
degradano fisicamente e moralmente gli sfruttati, «nei quali l’uomo è un essere degradato,
assoggettato, abbandonato, spregevole» [60], è congruente, se vi si presta attenzione, con il
divenire etico descritto da Darwin [61].
Ma affinché questo riconoscimento della possibilità di un avvenire comune tra Marx e Darwin
sia effettivo, è necessario i marxisti tengano a mente che: 1) il marxismo, così come il
darwinismo, è u pensiero universalista (umanista). Il proletariato, nell’emancipare se stesso,
deve emancipare tutta l’umanità e «non può abolire le sue proprie condizioni di vita senza
abolire tutte le inumane condizioni di vita della società moderna» [62]; 2) la lotta di classe è
il modo di transizione verso l’abolizione di tutte le classi e, quindi, una società senza classi,
vale a dire verso la fine della lotta (antagonistica) [63]. Nello stesso Darwin esiste una
dialettica simile per quanto concerne «l’estinzione della lotta all’orizzonte della lotta» [64],
come testimoniato da L’origine dell’uomo nel suo complesso; 3) il comunismo, perché si
compia, deve essere «trasferito e tradotto nel cervello degli uomini» [65] in un movimento
politico, e ciò anche in termini etici [66]. Su questo, anche i marxisti preoccupati di
individuare gli elementi obiettivi del comunismo come «movimento reale che abolisce lo stato
di cose presente» [67], possono convenire. Non è forse lo stesso Engels a presentare il
comunismo come l’avvento finale di una «morale veramente umana» [68]? Ma tutto ciò a
condizione, in cambio, di non considerare tale processo storico, reale ancor prima che ideale,
«inscritto in una materia storico-sociale concreta», come «un’ipostasi» [69] fortemente
dannosa. Per Marx, l’individuazione delle condizioni di produzione e scambio di una società
senza classi, «nascoste» proprio in seno alla società capitalistica, è la garanzia materialista che
il tentativo politico, nonché l’esigenza morale e rivoluzionaria, di far «esplodere» le
contraddizioni della società così com’è, non siano «donchisciotteschi» [70] come potrebbe
esserlo, a suo modo, l’imposizione di postulati morali di tipo kantiano, dei quali è stato spesso
sottolineato nella storia della filosofia il carattere impraticabile.
Note
https://traduzionimarxiste.wordpress.com/2019/05/31/marxismo-e-darwinismo/#more-41689