L’apprendista
S O C I E TÀ E D I T R I C E M I L A N E S E
ISBN 978-88-93-90240-3
Zitto io, mi sto zitto, non sono affari miei, pensa Tilio men-
tre conta le candele, le poggia una vicina all’altra, finisce la
prima riga, tra sé ripete non sono affari miei, occhio che va
a finire come quell’altra volta. Una sola, un’unica volta ha
detto la sua, ha dato l’idea, ma vedi poi, dice tra sé, come è
andata. Attento che, se cade, la candela si rompe. Ha con-
cluso la seconda riga. Adesso la terza, una sopra l’altra. A
quest’ora c’è luce fuori, mica granché, con queste giornate
che non fa che piovere. Da settimane. Pure un gran freddo.
Maggio sembra novembre.
Come hanno fatto sempre va bene – dice Tilio dentro di
sé, come parlando a qualcuno –, se continuano è perché va
bene. Poi non importa se non va bene a nessuno, perché non
ci sarà neanche un cane alle sette, con una giornata così,
come domenica scorsa. Però, allora, la finisci di chiedermi:
“Tilio, lo vedi?”, “Tilio, è possibile?”. Benissimo così. A me
va bene, dice senza un soffio, solo muovendo le labbra.
Adesso conta i soldi. Tante monete, tante candele. Qual-
cosa in più, a volte, non tutti sono così ragionieri. C’è scritto
Offerta. Lasciamo stare. D’accordo anche 1 euro c’è scritto
– vedi tu perché, se è un’offerta... – ma insomma, se hai
una moneta da due, cosa fai, torni fuori a cambiare? A Por-
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Parla bene Tilio, far andare la caldaia dalla sera prima, certo,
pensa Fredi. E dove si trovano i soldi? Il Don fa le messe di
suffragio la domenica mattina perché negli altri giorni sono
tutti impegnati. Tutti sono sempre impegnati, se è per que-
sto. La domenica viene la vedova, un fratello anziano. Gli
altri, i figli, i parenti, i vicini di casa sono impegnati anche
la domenica. Macché vicini, chi vuoi che venga? Non si sa
più chi sono i vicini di casa, buongiorno e buonasera, se va
bene, che trovi quello educato. Fredi vorrebbe sapere a che
cosa sta pensando Tilio, fisso a guardare in su, quel poco di
luce che vortica in mezzo a un flagello di gocce. Guardaci
qui, dice tra sé, provando un po’ di pena, due fagotti scuri
nella penombra. Poi Tilio attacca a voce alta: «Lo sai che vo-
gliono aggiungere una gara di donne? Era sulla “Tribuna”
di ieri. Il ciclismo delle donne va forte. Anche il calcio delle
donne, più ancora: tra poco fanno vedere i Mondiali in te-
levisione». Fredi ha sentito, ma quando non vuole sentire
diventa sordo. Spinge in avanti le labbra, come per dare un
bacio, lentamente, poi le ritira. Lo fa due, tre volte. È quello
che pensa del calcio femminile. Tilio ci prova gusto. Insi-
ste, parla più forte: «Diventano meglio degli uomini, vedrai,
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Per il secondo suffragio c’è don Luigi. Don Livio non può
dire messa quattro volte in una mattina, non è più un giova-
notto. Prima il defunto Mario e la defunta Augusta, e adesso
i defunti Gildo e Lucia. Quando li dici separati, ripetendo
la parola defunto, vuol dire che sono due messe in una, per
due famiglie diverse; quando li congiungi, come Gildo e Lu-
cia, sono parenti. Fredi serve don Luigi nervoso, ci mette
una premura che per Livio non serve, dice lui, perché il no-
stro Don ha maniera. È più simpatico don Luigi, non proprio
simpatico, sarebbe meglio dire “alla mano”. Per Fredi, dritto
per dritto, un prete di campagna. Viene da un paesetto che
non ha niente, si sono tenuti la parrocchia perché le frazioni
in collina sono di gente che non viene giù da noi per campa-
nilismo. Si fa per dire, campanilismo, non hanno un vero cam-
panile, solo un coso vuoto che sarà alto tre metri e mezzo.
Per suonare le campane hanno messo gli altoparlanti. Il no-
stro paese ha due ville venete, il parco, e la chiesa è ancora
concattedrale. Fredi lo dice spesso, con-cat-te-dra-le, con
soddisfazione. Ci sono storie sul come e perché don Livio
è venuto qui. È stato a Roma. Si dice che dovevano farlo ve-
scovo. Non pare neanche un prete, a Tilio, troppo elegante,
troppo chiuso, dritto sul busto come di preti non ne ha visti
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Fredi gli dice: «Hai visto che è come la penso io, si sente
quando la chiesa è curata, se ne accorge anche chi non vede
la differenza».
«Mi è venuta in mente la casa di via Nespoledo,» gli dice
Tilio, ancora sopra pensiero «prima che parlavamo delle erbe
matte. Sarà seppellita. Ti ho detto, no, che Paolo voleva ven-
derla? Non valeva più niente, che cosa vuoi vendere, dico io,
la terra resta, e se vuoi ci puoi costruire. Anche adesso che la
metà è andata giù.»
Fredi sporge le labbra e le ritira. Tilio sa che vuole an-
dare a casa, non ha voglia di restare in sacrestia dopo che la
messa grande è finita e sono andati via tutti. Ha bisogno di
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«Ma sai che faccio fatica a credere che Fredi sia stato in Giap-
pone tutti quegli anni?» dice quasi a voce alta Tilio tra sé,
mentre si va a sedere sul suo solito scanno. Tra poco entrerà
il prete, Fredi lo aspetta sulla porta della sacrestia. In Giap-
pone, a fare il missionario, lui. Mi ha anche spiegato come
mai c’era andato ma non è quello, a quello ci credo, continua
Tilio, non riesce a mollare il pensiero pure se don Luigi è en-
trato e va verso l’altare.
Era ancora giovane, la rabbia, il tradimento, almeno come
lo aveva visto lui, tutto giusto. Ma il Giappone! Fredi in
Giappone proprio non riesco a figurarmelo. Poi lui ha detto
che non andava mica in giro, faceva servizio interno, in uffi-
cio. Però in Giappone come fai a mettercelo, Fredi che parla
giapponese! Ha detto che i giapponesi li prendevano per so-
litudine. Non si convertivano come pensiamo noi, si avvici-
navano per partecipare, erano molto fedeli, se la si vede così.
Non esiste un popolo che vive in solitudine come i giappo-
nesi, ha insistito Fredi, gli anziani soprattutto, ha detto che lì
si diventa anziani presto.
Tilio si perde nei pensieri. Si figura Fredi con una specie
di kimono come quelli dei film, però tutto nero, i capelli rac-
colti in un codino, una stanza di casa giapponese che pare
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A Tilio, pensa Fredi, era meglio dirgli così, dritto per dritto:
la guerra era finita e noi siamo stati dai nonni in Abruzzo
ancora due anni. A Lu Casale, come lo chiamavano loro, Ca-
salbordino, non c’era giorno che qualcuno non mi chiedesse
perché stavamo ancora lì. Mio padre non era stato ucciso, lo
dovevo ripetere sempre.
Cinque anni avevo quando siamo partiti all’inizio della
guerra.
Ne avevo dodici quando ho rivisto mio padre.
Io non ero più un bambino, lui non era più lui. Un vec-
chio. Invece me lo ricordavo la vitalità in persona, la forza,
l’allegria. Siamo partiti noi in treno, io mia madre e mia so-
rella per arrivare quassù nel Veneto, dritti in caserma, lui
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Adesso però il Don deve venire fuori. Che cosa può... Ec-
colo. Ecco, adesso così, bene. Fredi fa un cenno a Sergio, l’or-
ganista, che rifà la marcia nuziale. Si sono messi seduti, un
giorno, Fredi e Sergio, e hanno concordato la scelta delle
musiche, i segni necessari per gli attacchi e per le conclu-
sioni. Sergio si è sempre creduto un grande artista, sceglieva
le musiche a estro, e poi quando si lasciava prendere andava
avanti a suonare e non la finiva più. La ragione di Sergio è
che l’organo c’è solo in chiesa e allora come fa a farsi ascol-
tare? A volte viene di pomeriggio. Quando ha finito si affac-
cia, è chiaro però che i battimano di Fredi e Tilio gli danno
poca soddisfazione.
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Tutto come già scritto. Raffaele era tra gli invitati al matri-
monio. Presidente della squadra di pallone, benefattore della
sagra, sostenitore di tutti i sindaci eletti, aveva per diritto il
posto vicino al padre della sposa. Nelle prime file gli amici
degli sposi e i parenti più stretti erano vestiti tutti uguali
come nei film americani. Gli uomini proprio uguali, le donne
no, ma cambiava solo il colorino pallido dell’abito o la forma
della scollatura. Il risultato era che quelli dietro di loro, an-
che i più attenti a darsi da fare per apparire eleganti, sem-
bravano fuori posto. È venuto il momento che Tilio ha messo
davanti agli occhi di Raffaele la borsa delle offerte. Il consuo-
cero lo ha guardato con una curiosità esagerata, comica, fa-
cendo finta di trovarsi davanti agli occhi qualcosa che non
aveva mai immaginato. «Te fa ’l nònsol?» gli ha sussurrato.
Tilio si è avvicinato a una spanna dall’orecchio: «Apprendi-
sta, apprendista nònsol».
Come fosse stato già scritto, ma scritto da così tanto
tempo che a Tilio non aveva fatto né caldo né freddo. Anzi,
mentre gli era già capitato di ripensare a una frase detta da
qualcuno e alla risposta che aveva dato, e si era ritrovato,
scontento, a correggere, a migliorare, a cercare la frase giusta
quando era troppo tardi e l’altro era già andato via, questa
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«Certo che se uno gli resta una forbice in pancia non è uno
scherzo,» riprende Fredi «ma qui da noi è difficile, ti dico
una volta in dieci anni, no?»
Tilio non risponde. Con Irma erano stati efficienti, pun-
tuali, crudeli: avevano lasciato tutte le possibilità aperte,
nessuna condanna e nessuna speranza. Intanto Irma si fa-
ceva forza, combatteva. Poi quando non è riuscita più a farsi
forza, hanno detto che si poteva solo aspettare la fine. Sei
mesi al massimo. Sono stati tredici. Tilio non si è mai la-
mentato dei dottori, dell’ospedale, di niente, ma quello che
ha conosciuto è quanto ha sofferto Irma per poter morire,
non l’hanno guarita, l’hanno stremata, umiliata, torturata
con le cure. Sa che hanno fatto tutto quello che potevano
fare. Non sa se è giusto. Non lo ha mai detto a nessuno,
anzi, non ha mai messo in parole precise il pensiero, ma sa
bene, Tilio, che lui l’avrebbe aiutata a morire prima. Adesso
è contento di non averlo fatto, ma è una povera soddisfa-
zione, era lei che inarcava la schiena in cerca di un sorso
d’aria, era lei che vomitava, che aveva la nausea per ore, è
lei che è morta.
E lui, Tilio, non ci pensa a morire? Il fatto è che non
c’è nulla da pensare. Puoi anche concentrarti, fare come se
non ci sei più. Un lampo buio. Un momento che è già pas-
sato quando lo vuoi afferrare. Prepararsi alla morte, sì, va’
là, è una cazzata. Finché sei vivo sei costretto a continuare
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«Hai visto chi c’era all’ultima, ieri?» Fredi gli sta appicci-
cato, oggi, vuole parlare. Tilio è passato a prendere le vesti
in tintoria, e adesso vanno riposte con l’ordine che sa Fredi.
A Tilio dice soltanto: «Passami il camice, passami la planeta,
adesso il cingolo». Fredi li segna con l’indice, così Tilio ri-
passa i nomi. Fredi gli chiede se ieri sera in chiesa ha ricono-
sciuto il primario del reparto di Medicina, l’ex primario, po-
vero, il migliore, venivano da mezza Italia per farsi operare
da lui. «Visto che c’era una signora che lo accompagnava? È
ridotto che dimentica tutto, se va da solo al bar continua a
voler pagare il caffè cinque, dieci volte. Passa un secondo e
si dimentica tutto. Lo vedi e ti pare quello di prima. Ti fermi
a parlare, è simpatico, due battute, e poi capisci che non c’è,
non ci sta con la testa. La sai la storia, no?»
Fredi tira gli angoli delle vesti, perché restino più tesi, ha
cura di pareggiare la pila ogni volta che aggiunge qualcosa.
«Una sciocchezza, un foruncolo, una cosetta su per il
naso. Russava. Russava, capisci? Allora ha chiesto al suo vice
di fargli un favore e tirargliela via. Complicazioni, dicono
così. E a lui le complicazioni l’hanno lasciato in coma per
quasi un anno, e poi è rimasto un deficiente. Il suo amico, il
vice, è in causa con i parenti. Se lo vedi non è più lui. Non si
sa chi sta peggio» commenta Fredi.
Tilio tace. Passa le vesti con attenzione, sa che deve man-
tenere perfetta la piega. Poi commenta che per tutti basta
un niente, non ci si pensa mai, anzi, ci si pensa sempre ma
non serve a nulla. A volte considera che non se l’è meritato
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«E adesso che si fa, finisco io?» chiede Tilio. «Tu metti via le
vesti.» Le tovaglie vanno una sopra l’altra, altare per altare,
non è così complicato. Fredi vorrebbe andare via, adesso, re-
stare solo con i suoi pensieri. Mormora che va bene, finisca
pure.
Intanto pensa che la decenza, l’onore, la patria erano di-
ventati un credito che non si poteva più riscuotere. Il debitore
se n’era scappato nel silenzio, nell’invalidità, nel bisogno to-
tale di cura, e lui non aveva potuto costringerlo a cancellare
l’obbligo estorto in malafede. Sì, aveva contratto per la vita
un credito di decenza, onore e amor di patria verso un uomo
che aveva tradito due volte, due volte aveva buttato via una
divisa e ne aveva indossata un’altra. «Questa non è un’uni-
forme come quella di un autista, o di un cuoco,» aveva detto
quello stesso uomo a Fredi quando aveva preso i gradi di te-
nente «questa è la tua faccia, il tuo orgoglio.» E adesso Fredi
può pensare che il padre parlava del suo orgoglio ferito,
dell’uomo che aveva voluto essere ma non era stato. Com-
plicazioni, anche in questo caso? Pare normale continuare
a fare il soldato, a uno che è nato ufficiale, e magari è con-
vinto di agire per coerenza. Una decisione che pare giusta,
anzi, non è neanche una decisione, ti sembra l’unica cosa da
fare, e invece un istante dopo tutto precipita senza rimedio.
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