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Simone Galluccio IIIA 13/03/2020

Un buco nel cielo di carta: Realtà e finzione nel teatro pirandelliano

“Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco
nel cielo di carta”. Così il signor Paleari, tanto pazzo quanto saggio, riassume al povero fu Mattia Pascal i
secoli di storia del teatro e della letteratura che separano un Oreste da un Amleto, e soli impediscono
all’uno di diventare l’altro. Quando, dal 1910, Pirandello si dedicherà in maniera continuativa all’attività
drammaturgica, davvero sarà sempre fedele alle parole del suo stesso personaggio. Se, infatti, una
caratteristica unitaria si può trovare nella varia e ampia produzione teatrale dell’agrigentino, questa è
proprio lo scorcio inaspettato e violento che, improvvisamente, distrae il personaggio dalla sua finta realtà
e lo proietta nell’altra, in cui essa è contenuta insieme a tutti i suoi spettatori.

Le tre fasi in cui si è soliti dividere la produzione teatrale pirandelliana, pur penetrandosi vicendevolmente
di continuo, tuttavia ben rispondono a delle tendenze più o meno consolidate della poetica dell’autore, che,
da filosofo quale era, lascia nei suoi scritti il testamento di una certa evoluzione teoretica dalle più ingenue
premesse fino alle sue conclusioni mature. In generale, nella querelle tra teatro naturalista-borghese e
teatro estetizzante-dannunziano, Pirandello propone una propria terza via che prende le distanze da
entrambe le alternative verso un teatro scarno e marcatamente teorico che pare anticipare le esperienze
postmoderne di autori quali Beckett e Dürrenmatt.

Un processo dalla portata così rivoluzionaria richiede, per sua stessa natura, una pars destruens che invalidi
le strutture consolidate per far spazio a quelle più recenti. A questo concorrono le opere del periodo
grottesco, che rappresenta situazioni dal sapore tipicamente borghese deformandole, secondo il criterio
della paradossalità e dell’ipocrisia di fondo dell’uomo, con lo scopo di sovvertire l’ordine deterministico e
verosimile del teatro verista. In assurde parodie della realtà, lo spettatore vede muoversi burattini irrigiditi
e contraddittori, la cui psicologia pare tenersi insieme come per un gioco di entropia tesissima. Le sue
commedie sono, per dirla con Gramsci, delle “bombe a mano” che “producono crolli di banalità, rovine (…)
di pensiero”: un linguaggio spezzato, perennemente dubbioso di se stesso, circola nell’etere di un mondo
astratto, surreale, in cui lo spettatore trova, semmai, la negazione dell’essenza del reale. A un simile effetto
si giunge esasperando fino all’assurdo i tipi del teatro borghese; e cosa sono, d’altro canto, tali tipi, se non
trasposizioni sceniche delle convenzioni reali? Così, in “Pensaci, Giacomino!” (1910), a dirigere l’azione del
protagonista professor Toti, è unicamente l’adesione al modello tipizzato del marito, rispetto al quale sente
il suo interiore sdoppiamento tra forma e sostanza; ne “Il giuoco delle parti” (1918) sono, da titolo, le
caratteristiche degli archetipi sociali a definire il comportamento del marito. di sua moglie, dell’amante di
lei. A risolvere l’intrigo, in questo caso, è la tensione interna dei singoli personaggi, e in particolare del
marito Leone Gala, in cui la crisi tra individuo reale e forma sociale si risolve in uno sdoppiamento
insanabile, per cui sarà l’amante a supplire alla sua mancanza quando, dopo un’offesa arrecata alla donna,
serve proprio un marito che difenda il suo onore.

Il contrasto tra sostanza e forma tende, per sua stessa natura, verso quello tra realtà e finzione, scena della
vita e scena teatrale: perché anche la vita, a suo modo, è una rappresentazione che noi tutti mettiamo in
atto, secondo i ruoli stabiliti dalle stesse convenzioni che determinano la tipizzazione drammaturgica. Nasce
così la trilogia del “teatro nel teatro”: in tre testi, dal 1921 al 1929, Pirandello dimostra in maniera
esemplare la sostanziale identità tra scena e realtà ricorrendo ad espedienti – come già abbiamo
menzionato – di sapore astrattamente postmoderno. In “Sei personaggi in cerca d’autore” (1921), quasi
pare materialmente che il teatro di Pirandello si stia ribellando al suo autore. Protagonisti sono i membri di
una famiglia-tipo del teatro borghese (con padre, madre, figlio, figliastra, bambina, giovinetto) che,
abbandonati dal loro autore alla massa informe degli intrighi complicati e degli scontati colpi di scena a
quali lui li ha relegati, pretendono ora che al loro dramma venga data una giusta forma scritta e una degna
rappresentazione: occupano dunque un palco su cui degli attori provano una commedia ed esigono che
questi mettano invece in scena il loro intreccio. Solo nell’esplicazione di parti recitate, ben definite, trova
dunque un senso l’esistenza stessa dei Personaggi. La situazione è in qualche modo rovesciata in “Questa
Simone Galluccio IIIA 13/03/2020

sera si recita a soggetto” (1929): gli attori, vessati da un regista sempre insoddisfatto e troppo autoritario, si
risolvono infine ad allontanarlo dal palco così da poter mettere in scena i drammi dei loro stessi ruoli,
identificandosi completamente con le proprie parti al punto da confondervisi e da sembrare, essi stessi, dei
“Personaggi” che preferiscono vivere da sé anziché sottostare alla tirannia di un autore. In “Ciascuno a suo
modo” (1924), un’imponente e ingegnosa orchestrazione teatrale riesce persino a rendere personaggio
teatrale il pubblico stesso della commedia: i contrasti privati fra due attori provocano l’improvvisa
sospensione della messa in scena durante il secondo intermezzo (sicchè Pirandello non ha mai scritto,
com’è ovvio, il terzo atto), tra lo sgomento degli spettatori che, fuori dalla sala del teatro, assistono al
violento litigio tra i due. Afferente allo stesso periodo, anche l’ “Enrico IV” (che Pirandello definiva una
“tragedia”) si basa sul meccanismo della recita in scena. Un uomo, impazzito per una caduta da cavallo
durante una mascherata, crede ora di essere il personaggio che stava impersonando; in realtà, però, egli sa
bene di non essere il re inglese, né poteva lasciarsi sfuggire una simile occasione per rifuggire la meschinità
della vita e trovare, nella dissimulata pazzia, il rimedio a una società corrotta e vile. Dopo aver costretto
tutti i personaggi a recitare una parte nel tentativo di riportarlo a quel giorno e farlo rinsavire, capisce ora di
non aver vissuto gran parte della sua propria vita: vuole allora possedere la giovane figlia della donna che
amava allora, e arriva al punto di trafiggere con la sua spada l’uomo che cerca di difenderla, finendo così
per chiudersi ancora una volta, definitivamente, nella sua pazzia.

L’ultima produzione di Pirandello è quella dei “miti” teatrali: la riflessione sul reale e sulla sua assurdità
arriva ad una forma esasperata, in cui l’arte diventa uno strumento di conoscenza delle arcane verità
essenziali delle cose, attraverso forme mistiche, simboliche, meravigliose; a dominare la scena non è il
grigiore borghese, ma mondi fantastici dai caratteri spesso utopistici, come in “Nuova colonia” (1928) e
“Lazzaro” (1929). Tra i testi di questa fase è il testamento spirituale di Pirandello, “I giganti della
montagna”, in cui l’autore si interroga sul valore dell’arte e sulla sua esistenza nel regime capitalista
contemporaneo. L’attrice Ilse si ostina a recitare davanti a un pubblico rozzo e volgare, finchè il mago
Cotrone, che crede nell’autosufficienza dell’arte in se stessa, le consiglia di andare a chiedere aiuto ai
Giganti che vivono su una montagna (simbolo del potere economico e politico). Alla morte dell’autore, il
testo ancora mancava di conclusione; ma uno dei figli di Pirandello, Stefano, ne ha scritta una attenendosi
ai progetti del padre, per cui Ilse finiva sbranata dai servi dei Giganti, poiché a forza aveva voluto recitare
davanti a loro la sua opera. L’arte dunque, per essere espressa agli altri, deve sottostare a delle leggi di
mercato e compiacere gli organi di potere; può, altrimenti, trovare piena soddisfazione in sé e nella mente
dell’autore. A queste desolanti conclusioni giunge un Pirandello ormai estenuato e disilluso, in un momento
perdipiù incredibilmente travagliato nella storia d’Italia.

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