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landscapes of urbanism

a cura di Viviana Ferrario, Angelo Sampieri, Paola Viganò

officina edizioni
Contents

8 Introduzione
Paola Viganò

PAESAGGIO NELL’URBANISTICA / Landscape in Urbanism

20 Paesaggio. Una questione politica


conversazione con Giusa Marcialis
28 Contrassegni e ricorrenze. Il riarticolarsi di problemi morali nel progetto urbanistico
e in quello di paesaggio
Cristina Bianchetti
41 Le paysage comme projet: quelles connaissances pour quel projet?
Yves Luginbühl
53 Trois générations de projets de territoire et leur rapport aux sciences
Thomas Sieverts
67 Oggetto o strumento? Il paesaggio nel progetto di territorio
Viviana Ferrario

LANDSCAPES OF URBANISM, 2005


78 Il vuoto come dispositivo topologico
Ruben Baiocco, Giuseppe Biasi, Martino Tattara
88 100km | exploring section
Cristina Renzoni

URBANISTICA + PAESAGGIO / Urbanism + Landscape

96 On “Landscape Urbanism”
conversazione con Alan Berger
109 Return to Landscape Urbanism
Kelly Shannon
125 Tra città e paesaggio: il caso di Maputo
Fabio Vanin
137 Paesaggi sonori dalla città
Stefania Giametta
147 Nuovi paesaggi dell’urbanistica?
Angelo Sampieri

WATER & ASPHALT, 2006


158 Processes of rationalization
Tullia Lombardo
168 Isotropy vs. hierarchy
Bernardo Secchi
172 The project of isotropy
Paola Viganò
178 New rules
Giambattista Zaccariotto

URBANISTICA DI PAESAGGI / Urbanism of Landscapes

183 Urban landscape design in the Interbellum. P. Verhagen (1882-1950). The forgotten modernity
of a design approach
Marinke Steenhuis
197 Verso la Cidade parque. Territorio e paesaggio nel progetto di Brasilia
Martino Tattara
214 Gardens of Situations. Learning from the Modern Danish Landscape
Stefan Darlan Boris
231 Forma urbana e concetto di environment in ambiente anglosassone. Il caso delle New Towns
Ruben Baiocco
247 La ville à plat. Los Angeles et les quatre écologies
Luc Baboulet
255 La ville-paysage: un concept de projet dans le contexte de crise
Panos Mantziaras
275 Vuoto, dimensione attiva
Giuseppe Biasi

286 Postfazione
Bernardo Secchi
“Constable” in R. Banham, P.
Barker, P. Hall, C. Price, “Non
Plan: An Experiment in Freedom”,
New Society, 20 (1969): “che cosa
succederebbe se lasciassimo alle
persone la libertà di dare forma al
loro ambiente?”

230
Forma urbana e concetto di environment
in ambiente anglosassone: il caso delle New Towns
Ruben Baiocco

PROLOGO
CONCETTO = GEOGRAFIA. “Ambiente” è concetto costitutivo dell’epistemologia del progetto urbanistico
231
contemporaneo. Questo articolo intende affermare che esiste un “ambiente anglosassone” in cui

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germina e prolifera. Così come la filosofia nasce in un ambiente greco, secondo la celebre massima
deleuziana, allo stesso modo potremmo dire che environment diviene un concetto operativo in un
“ambiente anglosassone”, di cui è possibile redigere mappe e tragitti. Di questo “ambiente” e di
tale geografia proponiamo qui, alcune ipotesi mettendo a fuoco il caso delle New Towns britanniche.
Dall’articolata vicenda si estrapolano due esperienze che restituiscono la parabola evolutiva di
tale concetto. S’individuano inoltre alcune traiettorie, fornendo interpretazioni circa le figure e i
dispositivi progettuali che chiamano in causa il termine environment e che ne hanno fornito una
precipua declinazione tanto dal punto di vista delle proposizioni discorsive quanto in vere e proprie
disposizioni spaziali.
AMBIENTISMO VS. AMBIENTE. Si potrebbe a ragione obiettare che l’architettura e l’urbanistica da
sempre siano lo specchio di determinanti di natura ambientale, in cui si riconoscono specificità
tecniche in relazione a singolari profili sociali, economici, politici di un contesto. Pertanto, l’orizzonte
disciplinare è stato costantemente attraversato nel tempo e nello spazio dal tentativo di codificazione
di un sapere informale che atteggiamenti progettuali, detti tradizionalisti, neo-tradizionalisti
e regionalisti, hanno tentato e tentano di cristallizzare in dettami operanti. Tali atteggiamenti
riconducono all’oggetto architettonico e urbano, o al “dettaglio”, anche la funzione di dare luogo a
specifiche ambientazioni urbane, riferibili a modelli desunti dal passato e da una certa tradizione
costruttiva. Viceversa, riconoscere un contesto già determinato ambientalmente invoca la necessità
di selezionare materiali architettonici o urbani e forme da immettervi. Non a caso si è parlato di
ambientismo per alcune correnti architettonico-urbanistiche; in tal senso, si trattava di assumere un
ambiente di riferimento già configurato in cui collocare oggetti e materiali architettonici e urbani.
La strategia complessiva dell’ambientismo, che non necessariamente è tradizionalista, è quella di
collocare (e selezionare). Nel caso del concetto di environment qui discusso, la strategia attiene
piuttosto al configurare (e strutturare). La breve parabola delle New Towns inglesi restituisce il senso
di questa polarizzazione, fra ambientismo e ambiente, anche per il dibattito cui ha dato luogo, come
vedremo in seguito dalle vicende prese in esame.
PROGETTO VS. CONFIGURAZIONE. Dal punto di vista dell’epistemologia del progetto, con il concetto
di environment siamo di fronte ad una vera e propria frattura fra ciò che può essere inteso come
progettare uno spazio, anche quando si tratta di una parte di città, e configurare un ambiente.
Ad esempio, ritornando a ciò che abbiamo detto circa l’atteggiamento ambientista, il progetto è
sostanzialmente (anche se dopo accurate selezioni) un’iscrizione sullo spazio (e nell’ambiente). Nel
caso del concetto operativo di environment non è più possibile parlare di progetto, nel suo senso
etimologico di proiecto – proiettare sullo spazio e sul futuro– ma di configurazione di un processo
di interdipendenza e di apprendimento reciproco tra fattori determinabili e indeterminabili, siano
essi materiali, forme e comportamenti – anche nel senso di pratiche. In questo caso la città è una
configurazione urbana a mezzo di ambienti. Pertanto ambiente è allo stesso tempo la modalità di
una configurazione e l’effetto spaziale della configurazione stessa.
SEMANTICHE. L’ambiente, dal punto di vista etimologico, rimanda a ciò che circonda qualcosa o
qualcuno1, tanto nella lingua inglese quanto in quella italiana. Al di là degli etimi (dal latino ambire,
nel senso di andare intorno; en-viron = in-torno) sembra interessante richiamare qui una breve
cronologia dell’uso secondo i suoi differenti significati e referenze di campo. L’arco dei significati del
termine ambiente non deve sorprendere. L’uso “positivista” ottocentesco rimanda alle condizioni –
232 naturali – in cui una persona, o cosa, vive ed è usato per restituire il termine tedesco Umgebung.
A partire dagli anni Cinquanta del Novecento il termine diviene specifico degli studi ecologici; dagli
anni venti va consolidandosi l’accezione psicologica, psicanalitica e cognitiva; dagli anni Settanta
quella legata al consumo di risorse naturali non rinnovabili. L’urbanistica acquisisce la coscienza di
disciplina dell’“ambiente costruito”, focalizzando sulle sue qualità formali e spaziali, selezionandone
gli elementi costitutivi e immettendo un numero sempre maggiore di variabili. L’assunzione del
concetto di environment nel campo delle discipline urbanistiche diviene cifra della capacità di una
disposizione spaziale ad accogliere e restituire le dimensioni delle interrelazioni fra individuo e
ambiente, inteso quest’ultimo come intorno spaziale multidimensionale: il complesso dei processi
biologico-chimici, percettivi, relazionali e simbolici.
BIOSFERA. Oggi siamo abituati ad utilizzare categorie ecologiche riferibili ai processi naturali
della biosfera che comprendono e significano ogni azione umana, fra le quali anche quella della
pianificazione e degli insediamenti, facendo riferimento ad alcuni parametri quali la qualità dell’aria,
dell’acqua e della composizione fisico-chimica della crosta terrestre. Tale accezione di ambiente,
anche a riguardo delle discipline quali la pianificazione e l’urbanistica deve essere considerata
problem-oriented. In tal senso il concetto operativo di ambiente comprende anche la sua dimensione
prettamente “ecologista”.
DIVENIRE. Da quanto detto, il concetto di ambiente, così come ne parleremo, assume una dimensione
operativa che abbraccia e comprende anche quella ecologica. Si tratta, infatti, secondo questa
prospettiva, dell’inversione di una concatenazione concettuale: se l’ambiente è l’orizzonte complessivo
delle relazioni fra individuo e il suo intorno, esso non può che essere il risultato di queste relazioni, le
quali non possono essere mai definite in modo aprioristico, neppure secondo parametri riconducibili
agli elementi chimici della biosfera. L’ambiente è il risultato piuttosto di un divenire.
ENVIRONMENT/FORMA URBANA. L’indagine qui condotta si snoda attraverso alcune vicende comprese in
un arco temporale piuttosto breve dal punto di vista dell’elaborazione progettuale, ma significativo
sia dello slittamento semantico del termine che della sua accezione concettuale. La domanda che
sottende questa trattazione è: che relazione c’è fra il concetto di environment e quello di forma degli
insediamenti o della forma urbana?

L’AMBIENTE, CLICHÉ DELL’URBANISTICA


Nel 1971, in un articolo pubblicato su Architectural Review, lo pseudonimo editoriale Ivor de
Wolfe – nella realtà Hubert de Croning Hastings - si appresta ad ipotizzare quale potrebbe essere il
cliché dell’urbanistica negli anni a venire. Egli esordisce con un’affermazione piuttosto perentoria:
“planning has never achieved a basic cliché”; per esplicitarne il senso ricorre al confronto con una
disciplina prossima, “half-sister”, come l’economia. Un’invenzione come il rapporto fra “domanda
e offerta”, che Malthus definisce il primo, il più grandioso e il più universale principio di questa
“dismal science”, costituisce il suo inoppugnabile cliché. Hastings sembra dirci che, quando parliamo
di saperi, vi è una relazione precipua fra la capacità di incidere sulla realtà e quella di disporre di un
proprio cliché. L’economia, infatti, si è ancorata, stabilmente nel tempo e senza più dubbi di sorta,
al cliché della domanda e offerta. Hastings chiama in causa Wittgenstein quando afferma che “niente
è ovvio sino a quando qualcuno non ci dice che lo è”. Se il cliché spesso si nutre di una prossimità
imbarazzante con il luogo comune ciò non deve preoccupare eccessivamente: al contrario proprio a
partire dal necessario ed inevitabile cliché le discipline si nutrono di evidenza. Si pensi ancora alla 233
domanda e offerta e a quanto proficuo sia stato riflettere da parte di cultori della disciplina attorno

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a questa coppia di termini dando luogo a sempre più sofisticate e intricate relazioni a cui tutte le
parti della società sono costrette, anche involontariamente, a dare una risposta. Cliché e luogo
comune sono legati più di quanto non si creda alla questione dell’auto-evidenza di un’asserzione
disciplinare.
Ma qual è allora secondo Hastings il cliché sul quale dovrebbe investire l’urbanistica? Si tratta di
individuare e di nominare una parola chiave che accompagni tanto la speculazione teorica quanto la
sperimentazione pratica, che esista a prescindere, come qualcosa di ovvio che aspetti solo di essere
rilevato, massimamente semplice, ma che dia adito a continui interrogativi e a molteplici risposte.
Il titolo dell’articolo, “Towards a Philosophy of the Environment”, non lascia dubbi e restituisce
chiaramente l’intenzione dell’autore: che il planning si costituisca come la disciplina che riflette
e propone risposte concrete circa il fatto che l’ambiente di vita dell’uomo possa consistere in una
costruzione; che l’environment possa essere individuato come il cliché a partire dal quale il planning
possa istituirsi come un sapere in grado di decidere dell’“ambiente costruito o da costruirsi”2.

ONTOLOGIA DELL’AMBIENTE
L’ontologia dell’ambiente riguarda il suo statuto e la sua definizione in termini concettuali e operativi
nel campo dell’urbanistica. La proposta di questo studio è quello di assumere tale termine come
un possibile orizzonte ontologico dell’urbanistica, che Hastings riconduceva al ruolo funzionale di
cliché disciplinare. In questa prospettiva l’urbanistica è la disciplina che risponde a cos’è e come
possiamo definire l’ambiente di vita degli individui da costruirsi; e ancora l’ambiente è il fine ma
anche il mezzo attraverso il quale l’urbanistica si legittima come disciplina. In tal senso, ambiente,
o environment, è termine che assume un ruolo operativo prima che concettuale. Di che cosa tengo
conto quando penso il fare urbanistica come un modo di costruire un ambiente? Che cosa significa
costruire un ambiente o riconoscere una costruzione come ambiente?
Se si assume una prospettiva ontologica l’ambiente è sì gli oggetti che lo compongono ma anche
la realtà delle relazioni che significano tali oggetti, gli eventi che li legano e le parole attraverso
cui enunciamo gli uni e gli altri3. La cosa più difficile spesso è dire perché questo è un ambiente
riconoscendo ad un contesto spaziale uno statuto unitario. In questa prospettiva l’ambiente è sia un
oggetto che un evento ed è anche quella che Searle ha chiamato l’“immensa ontologia invisibile”4 e
cioè quel tessuto di regole, obblighi, sanzioni che costituiscono la trama dell’esistenza degli individui.

AMBIENTE È MOVIMENTO
La relazione fra individuo e ambiente può essere solamente una relazione dinamica. “Il bambino
dice in continuazione quel che fa o tenta di fare”, cioè esplorare ambienti attraverso tragitti dinamici
e redigerne le mappe. “Le mappe dei tragitti sono essenziali all’attività psichica”. Se l’ambiente è
qualità, sostanze, potenze ed eventi, “il tragitto non si confonde esclusivamente con la soggettività
di chi percorre un ambiente, ma con la soggettività dell’ambiente stesso in quanto si riflette in
coloro che lo percorrono. La mappa esprime l’identità fra il percorso e il percorso che è stato fatto.
Si confonde con il proprio oggetto [l’ambiente], quando l’oggetto stesso è il movimento”5. Da queste
premesse, l’ambiente è movimento, fisico e psichico. Ambiente come visione, cioè sdoppiamento,
raddoppiamento e coalescenza fra reale e immaginario. Dal dizionario deleuziano, ambiente è
234
“costellazione di affetti” e, pertanto “tutti si definiscono in relazione ad un ambiente”.

IL CONCETTO DI AMBIENTE APPARTIENE AL DOMINIO DEL LINGUAGGIO


Se si assume la prospettiva epistemologica formulata da Maturana e Varela in cui ogni essere
vivente per sostenere il proprio processo evolutivo ha bisogno di apprendere continuamente la
relazione con l’ambiente in cui è inserito, si riconosce a quest’ultimo uno statuto processuale e
comunicativo appartenente al dominio del linguaggio6. L’autopoiesi, come processo autoregolativo
dell’apprendimento di un organismo in relazione all’ambiente può essere trasferito per riconsiderare
la relazione fra forma urbana-ambiente costruito e individui.
Quand’è che un ambiente costruito può dirsi in apprendimento? La saturazione da un punto di vista
delle relazioni possibili fra un ambiente e gli individui che lo abitano si esemplifica nella gamma
dei comportamenti cui dà luogo con una progressiva riduzione delle pratiche e della possibilità di
trasformazione dei comportamenti. Quando un ambiente non permette la sua trasformabilità anche
dal punto di vista delle sue cifre funzionali e/o qualitative in termini di salute personale e collettiva,
di riconoscibilità valoriale dei suoi spazi in termini di significati culturali e politici, possiamo dire che
si è interrotto un ciclo di apprendimento fra individui e ambiente.
La relazione fra persone e ambiente dal punto di vista della configurazione sarà una relazione
metaforica, che esprime la possibilità di abilitare le persone ad apprendere e ad agire nuovi
comportamenti, verso la cura del proprio ambiente e della sostenibilità del proprio sistema vivente.
Entro questa accezione, la metafora attiva negli individui il senso – o la coscienza – di una politica
locale. I materiali urbani o naturali non costituiscono più un fatto tecnico o non solo questo. In
tal senso, la metafora applicata ai materiali urbani e ai costrutti naturali costituisce una sorta di
implementazione del design, verso un altro livello di pensiero. La metafora, infatti, è medium fra
design e comportamenti degli agenti, perché attiva un processo di trasformazione sulle modalità di
pensare degli individui. La metafora può anche essere pensata come un’estetica del linguaggio, dove:
linguaggio vs. marketing, metafora vs. immagine, estetica vs. abbellimento.
L’estetica abilita al processo d’identificazione delle persone; la metafora a quello di apprendimento;
il linguaggio a quello di soggettivazione, che si agisce nella libera scelta, non indotta e non arbitraria
degli individui.

NEW TOWNS ED ALTRI AMBIENTI ANGLOSASSONI


IN-BETWEEN NEW TOWNS. Tra i progetti per le New Towns cosiddette di prima generazione e le ultime,
che taluni definiscono di seconda, altri di terza7, passano poco più di venti anni. In un arco temporale
assai breve dal punto di vista delle elaborazioni progettuali per così numerosi insediamenti di
nuova fondazione (anche se la loro costruzione si protrae sino degli anni Novanta) si alternano e
si confrontano posizioni assai differenti circa le modalità per l’architettura e per l’urbanistica di
continuare a fornire il loro apporto nella definizione dell’ambiente costruito della nuova società
urbana post-bellica. Non solo le New Towns sono esse stesse un’occasione di confronto dal punto di
vista della prassi e delle realizzazioni, ma divengono inoltre uno schermo dove proiettare critiche,
soluzioni alternative e persino inversioni dal punto di vista degli indirizzi delle politiche urbane e di
welfare del governo britannico. La vicenda delle New Towns è, in tal caso, funzionale a rileggere il
ruolo di un concetto operativo come quello di ambiente nello slittamento metonimico che sostiene 235
l’ipotesi di una frattura epistemologica fra modalità del progetto e quelle della configurazione

Urbanism of Landscapes
urbana. Si propone qui, in tal senso, un confronto fra la “prima” New Towns e l’“ultima”, e le altre
esperienze e teorizzazioni che sostengono l’ipotesi di una cifra ambientale – environmental – del
planning, del town design e dell’urban desing, in cui configurare diviene preponderante rispetto alla
definizione spaziale e formale dei contesti insediativi.
PRELUDI DEL “WELL-BALANCED-ENVIRONMENT”. Le New Towns di prima generazione, sulla scorta del
modello e delle precedenti sperimentazioni non soltanto britanniche della Garden City howardiana,
perseguono l’obiettivo del well-balanced environment. Lasciando da parte le argomentazioni circa le
retoriche dell’ideologia antiurbana che in quel caso sostengono le visioni howardiane di una società
fondata su rapporti economici cooperativi e su sostegni sociali caratterizzati da una dimensione locale
del welfare di grande interesse per l’attualità, che Peter Hall ed altri ribadiscono8, si assume qui come
rilevante per la successiva formulazione di un well-balanced environment, la serie di diagrammi che
illustrano il testo Garden City of To-morrow.
Prendendo in considerazione quello relativo al settore urbano, denominato “Ward”, è possibile
facilmente individuare quali sono gli elementi che compongono quella che può essere definita l’unità
insediativa di base di un well-balanced environment. Il “Ward”, definito da due radiali indicate come
“Boulevard” contiene in sé tutti gli elementi costitutivi dell’intero organismo urbano e ne ripropone
il medesimo ritmo di giustapposizione sequenziale dei differenti materiali urbani e delle rispettive
funzioni. Procedendo dall’esterno verso l’interno s’incontrano: lo spazio destinato alla produzione
agricola attraversato dalle principali linee di comunicazione ferroviaria, quello agricolo destinato
alla produzione di beni di approvvigionamento giornaliero, la linea ferroviaria o tramviaria urbana,
l’arco destinato alla produzione industriale
manifatturiera, la “prima Avenue”, tra questa e la
terza (denominata “Grand Avenue”) si distende la
prima zona desinata alla residenza, sulla “Grand
Avenue” (sorta di spazio aperto definito da due
strade di distribuzione i cui fronti dovrebbero
essere definiti da insediamenti residenziali dal
carattere più urbano quali i “Crescents”) trovano
posto la scuola e altri servizi, a questa fa seguito
la seconda zona residenziale sino alla “quinta
Avenue” dove sul fronte opposto si affacciano le
gallerie commerciali del “Crystal Palace”; oltre,
si distende lo spazio aperto del “Central Park”
sul quale guardano le istituzioni pubbliche e
civiche che, insieme agli otto ettari del “garden”
centrale, costituiscono il fulcro da cui si dipana
il “Ward” e la Garden City. In tal senso, la
figurazione più vivida della città giardino si
raggiunge con il semplice montaggio in sequenza
– re-mixage – di materiali urbani dati, che in
sé restituiscono metaforicamente sia la serie
completa di funzioni giornaliere tipiche di una
città che le possibili forme dell’ambiente di vita
236
della città. La potenzialità di tale diagramma
si esprime però nella dimensione fortemente
egualitaria delle condizioni ambientali: in
prospettiva dell’omogeneità fra i settori, dei
rapporti certi fra funzioni e dell’isotropia.
In questo senso, il diagramma del “Ward” ci
dice che la città giardino è isotropa in modo
“direzionato” e cioè dalla residenza verso il
centro incontrando le istituzioni civiche e i
servizi (commerciali, comunitari, pubblici, quali
ad esempio i parchi e giardini) e dalla residenza
verso le aree produttive manifatturiere e agricole,
inframmezzate da open spaces. La vera isotropia
si sarebbe raggiunta con il modello territoriale
delle Social Cities. La direzionalità e il ritmo della
giustapposizione di materiali urbani selezionati
dalla cultura urbana coeva sono le operazioni
sintattiche della formula argomentativa di una fra
The Neighborhood Unit Concept le più persistenti metafore sociali: un ambiente
applicato nel piano della New di vita, equilibrato e armonioso, capace di
Town di Stevenage. Con le aree
stimolare la cooperazione entro un ordinamento
residenziali separate dalla Green
Belt e connesse direttamente al liberista, al fine di sostenere la dimensione etica
Town Centre e all’area produttiva e civica dello scambio economico.
Nel caso del modello urbano howardiano, well-
balanced environment significa anche “self-
sufficient” e “self-contained”. Ogni “Ward”,
infatti, è espressione di un rapporto certo fra la
quantità di suolo complessivo e abitanti, e fra
lo spazio aperto e quello edificato, in questo
caso a netto vantaggio del primo. Forse è
opportuno ricordare che i “Wards” non possono
dirsi, come abbiamo visto, propriamente dei
settori residenziali. Ossessione successiva circa
la “dimensione conforme” ai nuclei residenziali
dalla Garden City Association sino al primo
New Towns Act, è un aspetto che ha di molto
limitato le implicazioni concettuali del modello
di Howard. L’eredità raccolta dal cosiddetto
community planning è insita nell’origine del
termine “Ward”, dal nome di una tradizionale
cellula amministrativa britannica. Il “Ward”
viene interpretato come un settore residenziale,
circoscritto dalla vie principali e contenenti
differenti soluzioni abitative, raccolto intorno
a un edificio scolastico e con una popolazione
di 5.000 abitanti. Non è difficile riconoscervi la
matrice di quello che diverrà un concetto assai 237
pervasivo della cultura urbanistica moderna

Urbanism of Landscapes
e contemporanea della neighbourhood unit9,
anche se rispetto al concetto di well-balanced
environment opera una sostanziale riduzione in
termini di contenuti, esasperando l’operatività
di un dispositivo selettivo dal punto di vista
sociale e prescrittivo. Siamo, nel caso della
neighbourhood unit, nel proiecto come iscrizione
sullo spazio.
NEIGHBOURHOOD UNIT, AN ENVIRONMENT FOR
LIVING. Le prime concrete sperimentazioni del
modello howardiano risalgono come noto al
1903 nel progetto di Letchworth, prima Garden
City, e nella declinazione di quartiere suburbano
di Hampstead Garden Suburb del 1905, sempre
ad opera di Parker e Unwin. Come Howard
aveva potuto attingere alla propria memoria Planimetria e diagramma delle
figurativa per la Garden City dalla visita di Environmental Areas di Colin
Riverside a Chicago, su “layout” di Olmsted, così Buchanan, definite come settori
dalla struttura gerarchica viaria ad
Hampstead diviene per le successive esperienze accesso selettivo, 1960 circa. Da
di progettazione urbana americane un vero e Traffic in Towns, 1963
proprio catalogo di innumerevoli composizioni per un contesto urbano residenziale, caratterizzato
da una certa tonalità “ambientale” e da continue variazioni spaziali planimetriche. Clarence Perry
nel testo dedicato alla Neighbourhood Unit, settimo ed ultimo dei volumi che compongono The
Regional Plan of New York and its Environs, richiama l’esperienza di Hampstead. Gli stessi Clarence
Stein e Henry Wright, autori degli interventi di Sunnyside (1924) e di Radburn (1928-29) in cui
trova una prima e sistematica applicazione il dispositivo della neighbourhood unit (n.u.), i quali,
rispetto a Perry, svolgono un ruolo simile a quello che Parker e Unwin avevano avuto nei confronti
di Howard, ricordano un viaggio di formazione nel quartiere londinese10. Come riconosce Panerai e
i coautori della ristampa ampliata di Urban Form. The Death and Life of the Urban Block, si tratta
di una vera e propria lobby culturale anglosassone che si consolida attorno all’uso, più o meno
implicito, del dispositivo della n.u. A conferma di ciò, il dispositivo della n.u. di Perry è frutto di due
significative esperienze formative: la prima riguarda le ricerche condotte dallo studioso nel campo
dei centri comunitari newyorkesi di matrice filantropica per conto della Russel Sage Foundation, che
poi promuoverà e finanzierà il piano regionale di New York; l’altra va fatta risalire alla sua esperienza
quotidiana, in qualità di abitante, del Forest Hill Garden, “quartiere giardino” suburbano nel Queens
(New York), costruito nel 1910 su layout di Frederick Olmested, promosso e realizzato dalla Sage
Foundation Home Company, braccio operativo nel campo immobiliare dell’omonima fondazione.
A Forest Hill Garden Perry dedica una parte del suo testo. Qui di seguito si elencano i sei punti
della n.u., sinteticamente formulati nel testo e accompagnati dal ben noto diagramma di Perry:
1. Dimensione – Un intervento di unità residenziale dovrebbe fornire abitazioni per la quantità
di popolazione che richiede d’abitudine una scuola elementare, con l’esatta superficie dipendente
dalla densità di abitanti. 2. Confini – L’unità dovrebbe essere delimitata su tutti i lati da strade
di comunicazione principali, larghe abbastanza da facilitare il suo aggiramento da parte di tutto
238 il traffico di passaggio. 3. Spazi aperti – Deve essere previsto un sistema di piccoli parchi e spazi
di ricreazione, progettato in modo da soddisfare i bisogni specifici di quel vicinato. 4. Spazi per
i servizi – Le aree per la scuola e altre istituzioni fornitrici di servizi con ambito coincidente coi
limiti dell’unità, devono essere raggruppate adeguatamente in un punto piuttosto centrale, o in
uno spazio aperto comunitario. 5. Negozi di quartiere – Uno o più distretti di negozi, adeguati alla
popolazione da servire, devono essere localizzati attorno all’unità, preferibilmente agli incroci di
traffico e adiacenti ad altri distretti simili di vicinati attigui. 6. Sistema stradale di quartiere – L’unità
deve essere provvista di un particolare sistema stradale, con ogni strada proporzionata al probabile
carico di traffico, e l’intera rete pensata come un tutto, progettata per facilitare la circolazione
interna e scoraggiare l’uso da parte del traffico di passaggio. Tali prescrizioni dovrebbero orientare e
favorire la costruzione di ambienti adatti a crescere più serenamente i figli delle famiglie americane
di un ceto medio in crescita e alla ricerca di standard qualitativi ambientali e di benessere individuale
e collettivo sempre maggiori, da consolidare dentro e fuori la città. Emerge con forza negli Stati Uniti,
già nei primissimi decenni del Novecento, in largo anticipo sull’Europa, la questione imponderabile
della sicurezza stradale, che coinvolge principalmente adolescenti e bambini. Come cita lo stesso
Clarence Stein, il super-block di Radburn è stato anticipato dal cosiddetto Emmerich Scheme. Si tratta
dello schizzo di un amministratore che aveva partecipato a molte riunioni preparatorie e conosceva
l’esperienza di Sunnyside, dal medesimo così commentato: il pre-superisolato veniva definito “collina
della sicurezza; un quartiere residenziale libero dal traffico e dalla congestione – che verrà costruito
quando un giorno ci stancheremo dei pericoli dell’automobile”11.
La questione di un “environment for living” da quel momento sarà sempre più legata alla presenza
dell’automobile, così come i successivi dispositivi ambientali di natura urbana europei, secondo quello
che David Mangin ha definito il modello occulto dell’urbanistica: la crescita o la trasformazione della
città contemporanea avviene per “settori” definiti dalle maggiori vie di comunicazione e il settore
è un’invenzione dell’urbanistica, la cui origine terminologica è riconducibile a Le Corbusier, ma che
risiede nella n.u. di Perry ed altri12.
Nel caso della n.u., le qualità fisico ambientali, finalizzate ad un’idea di benessere restituibili
dallo spazio residenziale, vengono intese come substrato delle relazioni sociali interne al quartiere.
Pertanto, inventare il quartiere significava inventare il vicinato. E inventare il vicinato era per
inventare la comunità.
PERVASIVITÀ DEL DISPOSITIVO AMBIENTALE DELLA N.U. Dopo la sua applicazione nelle Greenbelt Cities
americane, tra le due guerre, il dispositivo della n.u. rientra in Europa, con il piano della Grande
Londra (1944) di Abercrombie e quindi con le prime New Towns, con la Grande Copenaghen di
Rasmussen e con l’arcipelago delle città satelliti di Stoccolma di Markelius. In Italia, l’eco della
n.u., divenuta “unità di vicinato”, s’insinua, grazie ad alcuni suoi sostenitori, fra i quali Samonà e
Astengo, in qualche esperienza di progetto – e non sempre di realizzazione - di quartieri, nell’ambito
del “piano Ina Casa” nel corso degli anni Cinquanta. Si tratta di un dispositivo chiamato in causa
principalmente per agire in ambito suburbano13 e per costruire un pezzo di città ex-novo, mentre la
sua formulazione originaria faceva leva su esperienze concrete di trasformazione urbana collocate
e collocabili sia dentro che fuori la città (così come il richiamarsi ad esso ha sostenuto, in seguito,
tanto il progetto di insediamenti di nuova fondazione quanto azioni di based-community assistite
dai city planners che si opponevano ai grandi progetti di infrastrutturazione o di massivi ri-sviluppi
residenziali di parti della città consolidata). In anni più vicini, in cui di certo più difficile risulta dire
che cos’è dentro o fuori la città, si è fatto esplicito riferimento alla n.u. in opposizione al processo
di urbanizzazione cui si è dato il nome sprawl, sino alle recenti ri-proposizioni del diagramma di 239
Perry in chiave New Urbanism14. O ancora nella versione di rinnovo urbano - Urban Renaissance,

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ambientalmente orientato, da parte della Urban Task Force guidata da Rogers e sostenuta dal governo
labourista di Blair. Ma al di là delle versioni illustri della sua applicazione, la n.u. è divenuta una
sorta di immaginario inconscio del planning, difficile da decostruire. Se si assumono come contesti
di indagine le città post-coloniali in quelli che venivano chiamati “paesi terzi”, la sua applicazione
è stata pura prassi. Alla n.u. s’ispirano, non nei presupposti riformisti, anche i layout delle gated
communities.
Quasi un secolo di neighbourhood unit quindi, che può, a tutti gli effetti, essere considerata uno dei
più pervasivi e persistenti dispositivi dell’urbanistica.
1946, PRESCRIVERE L’AMBIENTE, STEVENAGE PRIMA NEW TOWN. Osservando la forma urbana e i diagrammi
di piano delle New Towns di prima generazione, e fra queste Stevenage, risulta piuttosto evidente
che la n.u. è il principio costitutivo sia dell’impianto planimetrico complessivo, sia dell’articolazione
interna dei diversi neighbourhoods. Si tratta sempre di una struttura ad albero di un sistema di
collegamenti che mettono in diretta relazione ogni n.u., omogenea e ben distanziata l’una dall’altra,
con il nucleo centrale denominato town center – centro civico urbano. La singola città nel suo
complesso è concepita come un intero in cui si dispongono per mezzo di azioni pubbliche tutte
le componenti fisiche e sociali necessarie per un well-balanced environment, di cui la sua cellula
costitutiva è rappresentata da un annucleamento residenziale. Nel caso di Stevenage la città si sarebbe
dovuta comporre di 6 neighbourhoods di circa 10.000 abitanti ciascuno, ognuno provvisto dei servizi
pubblici adeguatamene disposti al suo interno. La versione britannica di n.u. è un riadattamento
di quella di Perry e del cosiddetto Radburn principle, che prevede la netta separazione dei percorsi
carrabili da quelli pedonali. Se si assume come oggetto di analisi il neighbourhood di Pin Green a
Stevenage, s’individuano i suoi limiti nella strada che conduce al centro urbano, un passante esterno
alla città che conduce all’area destinata agli insediamenti industriali e due vie comprese fra queste.
Tre piccoli gruppi di negozi sono distribuiti lungo i margini segnati dai collegamenti principali di
cui sopra. Uno di questi si dispone insieme ad una chiesa, un community centre e un estate office a
formare un district centre. Un centro giovanile e centro ricreativo per adulti si dispongono intorno
ad uno spazio aperto al centro del neighbourhood. Ai margini o al centro dei diversi raggruppamenti
residenziali si distribuiscono tre primary and nursery school e tre secondary school. Gli interventi
residenziali sono abitazioni a schiera di due piani con accessi alle abitazioni dalle strade locali a cul-
de-sac per piccoli raggruppamenti. Il retro delle abitazioni si affaccia su uno spazio aperto, spesso
percorso da un sentiero pedonale – foothpath.
La dimensione strategica di tale dispositivo si esplica nella capacità di dar luogo a contesti insediativi
caratterizzati dalla bassa densità, sufficientemente ameni per l’ampia disponibilità di spazi aperti
in cui fosse però garantita una relazione di prossimità con i servizi e le public utilities, restituendo
una sorta di autosufficienza del neighbourhood e una conseguente attivazione delle relazioni
sociali: prossimità da una parte e raggiungibilità del posto di lavoro dall’altra, secondo le forme
prescritte di precipua declinazione dal punto di vista del planning dei programmi di welfare state.
La configurazione è ad un livello basico di figurazione. La strutturazione è bassa e la prospettiva di
apprendimento del sistema è ancora prescrittiva.
FIRST GENERATION NEW TOWN’S LANDSCAPES: STRUTTURANDO AMBIENTI. Con le New Towns, utilizzando
le parole di Frederick Gibberd, muore l’idea di landscape inteso come un suolo non edificato o
un mero spazio aperto, in sostanza come un elemento in negativo rispetto alla città. Nel 1972,
Gibberd scrive un articolo che reca un titolo in forma di lista: The Master Design; Landscape; Housing;
240 The Town Center15. Si tratta di una selezione che individua non tanto oggetti fisici o parti di città
quando piuttosto differenti ed autonome, ma strettamente interrelate, dimensioni del progetto di
città nuova. Nella parte del suo testo relativa al landscape, parla del master plan di Welwyn Garden
City (1917) ad opera di Louis de Soissons come il primo contributo di progetto di città inglese in cui
il disegno del paesaggio assume le dimensioni di una vera e propria politica, giocando un ruolo
prioritario nella intera configurazione urbana; è tale nella misura in cui il progetto di landscape
diviene principio generatore per definire la natura degli spazi e degli ambienti delle aree urbane: le
aree agricole definiscono le aree fabbricabili, con significative incursioni all’interno di quest’ultime,
coinvolgendone significantemente il disegno. Una sorta di logica inversa dell’urbanizzazione, nella
forma di una frattalica “paesaggizzazione” della città. In Welwyn Garden City, pertanto, la stessa
categoria di urbanità trova una nuova formulazione, attraverso lo strumento della sezione stradale,
in cui la presenza di tipi arborei e di suoli permeabili concorre insieme alle infrastrutture per la
mobilità, pedonale e meccanizzata, a definire i caratteri urbano, sub-urbano e di centro cittadino
dell’intera città. Gli elementi naturali sono utilizzati per qualificare i differenti ambienti urbanizzati.
Cosicché, il cuore della città è subordinato al disegno di un grande asse-giardino costituito da lawns,
macchie arboree, e filari di alberi, che sono raddoppiati ad ombreggiare le fermate del tram nelle
aree urbane, diminuiscono o vengono sostituiti da siepi, dove il carattere suburbano è definito da
ampi backyards “confusi” – in osmosi - con gli ambienti agricoli circostanti.
Perché Gibberd parla di Welwyn Garden City? Ne parla per dirci del suo master plan per Harlow New
Towns, dove la valle del fiume, percorsa dalla ferrovia e dalla motorway diviene la linea di base di
un disegno a semicerchio della città. I cunei agricoli che s’insinuano nella città ad est e a ovest sono
tenuti insieme in sequenza dagli ambienti naturali della valle e da spazi aperti, alcuni dei quali
241

The Plan for Milton Keynes, Interim Report, 1969. “Configurare ambienti indeterminati”
destinati a funzioni ricreative, a formare un eterogeneo ma unitario pattern landscape, al quale si
accostano in posizione mediana nella parte più elevata il Town Center e, lateralmente a questo, i vari
Residential Districts - Housing. Dice Gibberd: “il landscape e le aree edificate sono state disegnate
per reagire l’uno con le altre”16. Allora il landscape – sia come oggetto fisico unitario che come
dimensione del progetto della forma urbana – è non compensativo ma strutturante dei differenti
ambienti e funzionale alla configurazione urbana.
BUCHANAN ENVIRONMENTAL AREAS. L’interesse per la mobilità veicolare e per il suo potere
“performante” nei confronti della forma urbana degli insediamenti vecchi e nuovi raggiunge il suo
apice in Europa con il cosiddetto Rapporto Buchanan del 196317. In Traffic in Towns, Colin Buchanan,
propone una classificazione funzionale delle strade volta ad una pragmatica semplificazione dei
rapporti gerarchici: strade primarie alla scala delle reti di collegamento nazionale fra città; vie
secondarie di ordine regionale di collegamento fra la città; strade locali, con accessi limitati alle
strade secondarie che sono le sole ad avere accesso a quelle primarie. Ben noto è che lo studio
di Buchanan riguarda l’adeguamento della città esistente ai nuovi flussi di traffico motorizzato,
ma diviene anche l’occasione per sperimentare modalità innovative di predisporre lo sviluppo di
nuovi insediamenti. La semplificazione prima rammentata è però uno dei due volti della ricerca di
Buchanan: all’elementarismo delle gerarchie e dei tipi stradali corrisponde l’estrema complessità
delle possibili relazioni fra strade e usi del suolo da queste compreso, intesa come una pragmatica
working theory per la definizione di un buon ambiente di vita.
Se tali principi vengono applicati all’intera città si produce una serie di aree dove le considerazioni
rispetto al tipo di ambiente che esse circoscrivono diviene predominante: “The relationship between
the network and the enviromental areas would therefore be essentially a service relationship: the
242 function of the network would be to serve the environmental areas and not vice versa. [...] The traffic
and roads are not the end [...] the end is the environment for living and working”18. In tal caso,
configurare l’ambiente è riduttivamente conseguente alla strutturazione di un network gerarchico ad
eccesso selettivo e predefinito, pertanto destinato alla saturazione delle sue potenzialità trasformative
e di apprendimento. Il sistema una volta raggiunta la sua piena funzionalità – nella relazione strade/
uso del suolo – non prevede alcuna riconfigurazione possibile.
1969, VERSO LA CONFIGURAZIONE, NON-PLAN ENVIRONMENTS. L’articolo pubblicato su New Society nel
marzo del ’69, per mano di Reyner Banham, Paul Barker, Peter Hall, Cedric Price e intitolato Non-
plan: an experiment on freedom19, in assonanza con le riflessioni da Melvyn Webber sul cosiddetto
Permessive Planning20, è una pregnante argomentazione sull’aspetto coercitivo e supponente del
planning e dell’architettura, e sul fantasma disciplinare tanto dibattuto della dicotomia città-
campagna. Reyner Banham, in un articolo intitolato Stocktaking21 pubblicato su Architectural Review
nel 1960 affermava: “exurbia is more inclusive than urbia and therefore more urban”. “City should
be compact is to commit a tautology - we cannot conceive of a diffusive city, and have invented other
words, such as conurbation, subtopia, to underline an inability to conceive it”.
Gli esperimenti proposti di non-plan riflettono sul potere auto-configurante di contesti territoriali
extra urbani, elaborando scenari di trasformazione in cui l’elemento dinamico sia la libera scelta degli
individui, come soggetti in apprendimento rispetto ad alcune condizioni ambientali. Il riferimento di
Banham all’inclusività di un sistema richiama una caratteristica fondamentale della configurazione
in opposizione al progetto come processo selettivo di determinanti e quindi esclusivo rispetto a ciò
che non può essere determinato a priori.
1970, CONFIGURARE L’INDETERMINATO, MILTON KEYNES ULTIMA NEW TOWN. Milton Keynes differisce dalle
precedenti New Towns per dimensione (250 mila abitanti, all’oggi quasi raggiunti) e concezione.
Tralasciando qui le motivazioni della sua designazione (1967), sostenuta e anticipata dal primo
South-East Regional Plan, Milton Keynes è venuta caratterizzandosi, da subito, come un’interessante
laboratorio di sperimentazione, prima di planning theory di natura concettuale, e poi di urban
environment practices, sostanziata dalla messa in opera di dispositivi spaziali. Le determinanti
ambientali sono desunte da spinte dinamiche di trasformazione sociale ed economica che riguardano
un contesto regionale e si sostanziano in processi ri-localizzativi di persone e insediamenti in
relazione ai canali di flusso materiali e immateriali. Gli assunti teorici dal punto di vista del planning
riguardano, secondo la prospettiva suggerita dalla consulenza di Melvin Webber, l’indeterminabilità
della relazione fra dimensione sociale e forma spaziale di un contesto (vs. n.u. theory). La sfera
urbana individuale, per usare la terminologia di Webber, non può essere identificata in uno spazio
circoscrivibile22. Liberato da tale proiezione, lo spazio funge principalmente da supporto a quante
più possibili forme – eterogenee – di relazioni sociali non pre-determinabili e in trasformazione,
sulla base della capacità di sostenere e attivare differenti gradi di mobilità e di comunicazione non
esclusivamente fisica23. Lo spazio fisico quindi, come supporto inclusivo e non esclusivo, non deve
opporre resistenze ai processi di apprendimento fra individui e ambiente. Se la dimensione urbana
è sia concettuale che fisica, l’urban design si articolerà nella dimensione del linguaggio, in virtù
dell’apprendimento. Dal punto di vista della retorica argomentativa, l’obiettivo principale del piano è
incoraggiare quanto possibile la “libertà di scelta” dei newcomers, così come vengono chiamati coloro
che s’insediano in una città di nuova fondazione.
Dal punto di vista della prassi, metafore argomentative e presupposti concettuali, si sostanziano nella
configurazione urbana basata sul dispositivo spaziale della polyfocal grid as a mesh. Quando parliamo
di polyfocal grid (as a mesh) facciamo riferimento ad una rete principale di strade (main roads grid) 243
distanziate un chilometro l’una dall’altra simile ad una rete da pesca (fishnet) e sovrapposta all’intero

Urbanism of Landscapes
territorio di Milton Keynes (9.000 ettari all’oggi). Dal punto di vista terminologico, polyfocal grid
individua lo statuto fisico del dispositivo, facendo riferimento alla natura geometrica dell’impianto
(grid, reticolo) che diviene polyfocal (polifocale), a partire da una volontà specifica di adagiarla al
contesto topografico-geologico. Dal punto di vista dello statuto concettuale, as a mesh, rimanda alla
potenzialità di un dispositivo fisico (ma che non è mai solo fisico) di dare luogo a delle topologie24.
Mesh è, infatti, l’insieme delle caratteristiche della rete ed il suo rovescio, ciò che essa contiene. Negli
studi di “network topology”, mesh è sistema di relazioni incrociate, e fra i vari significati del termine
vi è anche quello di qualsiasi nodo di un intreccio che produce una tessitura aperta - open texture.
Le ordinarie caratteristiche di tale dispositivo sono indifferenza localizzativa e massima accessibilità.
Tali caratteristiche sono finalizzate a sostenere l’autonoma definizione di urban environments
eterogenei compresi dalla polyfocal grid. Essi sono in comunicazione, ma non confluenti, con una
dotazione di servizi non pre-determinata spazialmente e per tipo (dissemination by utilities) e
un’articolazione dell’uso del suolo indeterminata.
Per quanto riguarda il ruolo di supporto della polyfocal grid, come un’opera aperta e isotropa, per lo
sviluppo indeterminato della città si è parlato di Plug-in. Si tratta di una metafora usata per descrivere
il fatto che la città della “libertà di scelta” non esiste mai nella sua forma urbana complessiva ma
meglio si rappresenta se intesa come “an open matrix for selection”25, attuata da ogni individuo, di
percorsi, ambienti e temporalità eterogenei, in relazione ad eventi quotidiani o straordinari.
L’altro dispositivo strutturante della configurazione urbana è quello del Parks System Layers. Può
essere considerato come un sistema interconnesso ma dislocato allo stesso tempo, di spazi, diversi
per ruolo, funzioni e materiali, cui si destina la definizione dell’“armatura verde” dell’intera città.
Si tratta di una geografia continua e discontinua allo stesso tempo. L’elemento strutturale che
caratterizza dal punto di vista della continuità fisica il sistema è il Linear Park, vero e proprio “parco
passante” territoriale che taglia in modo longitudinale, e poi trasversalmente lungo le rive dei due
fiumi principali, l’intera città. Sovrapponendosi e intersecandosi con la polyfocal grid partecipa alla
configurazione ambientale di alcuni settori e entra in relazione con il vasto sistema di spazi aperti.
Il Parks System Layers si compone inoltre di ulteriori elementi dislocati a formare un sotto-sistema
indeterminato di spazi aperti emersi progressivamente dalla configurazione ambientale dei differenti
settori, e denominati, a seconda delle dimensioni e ruolo, rispettivamente District Parks e Local
Open Spaces.

CONCLUSIONI, O DELL’INIZIO SUL CONFIGURARE L’AMBIENTE


In questo saggio è stata tracciata una possibile traiettoria del concetto di environment in “ambiente
anglosassone” con l’obiettivo di intercettare sia il progressivo ampliamento del campo semantico del
termine, sia la linea lungo la quale matura una frattura epistemologica del progetto urbanistico. Sono
stati selezionati alcuni casi, rappresentativi della cifra progettuale che environment ha acquisito, senza
pretendere che questi esauriscano l’orizzonte operativo del termine, ma piuttosto con l’intenzione
di restituire il progressivo passaggio dall’epistemologia del progetto a quella della configurazione.
Sono stati individuati quattro frangenti della cultura urbanistica, focalizzando sulla vicenda delle
New Towns britanniche, in cui tale passaggio riformula il concetto di ambiente in modo sempre più
inclusivo rispetto alla dimensione ambientista del design e rispetto a quella prettamente ecologista.
La nozione di learning environment è stata utilizzata per includere la prospettiva del landscape,
244 inteso come strumento nella formulazione di metafore linguistiche capaci di sostenere la relazione
fra design e individui, finalizzate ad innestare nuovi comportamenti.
Secondo la proposta formulata in questo saggio, il termine ambiente, con i suoi rispettivi campi
semantici di volta in volta evocati, gioca un ruolo determinante nel produrre la frattura epistemologica
fra progettare e configurare. Inoltre, tale termine diventa pertinente per una interpretazione non
riduttiva del concetto di sostenibilità, sempre più spesso invece ricondotto, nel campo del design,
a soluzioni meramente tecniche. In qualche misura un ambiente include la sostenibilità se la
intendiamo come autoregolazione di un sistema e, richiamando il concetto di autopoiesi, come
autogenerazione di un ambiente in apprendimento anche e non solo rispetto all’uso sempre più
attento delle risorse naturali non rinnovabili. In questo senso la prossimità fra forma urbana ed
environment ridimensiona il ruolo delle tecniche a favore di comportamenti attivi sollecitati da
evoluzioni sistemiche.
Infine, l’accostamento tra forma urbana ed environment richiama i concetti di isotropia e di
indeterminazione come metafore attive dei margini di potenzialità di riconfigurazione di un ambiente,
affinché non raggiunga mai la saturazione e affinché sia predisposto ad assimilare le trasformazioni.
Pertanto, environment è il concetto operativo che sostiene la pratica del configurare quando si pensa
alla forma urbana come altamente perdurante e strutturante, ma anche predisposta al cambiamento
e alla trasformazione fisica e di significato.
Note

1
“Enviroment: The aggregate of surrounding things, conditions, in Freedom”, in New Society, 20 (1969), pp. 435-443.
or influences; surroundings; milieu. locale, environs”. Sono 20
M. Webber, “Planning in an Envirnment Change. Part II:
considerati sinonimi: milieu, ambiance, setting, surroundings. Permessive Planning”, in The Town Planning Review, vol. 39,
“All refer to what makes up the atmosphere or background n. 4 (1969), pp.277-295.
against which someone or something is seen. Environment
may refer either to actual physical surroundings or to social or
21
R. Banham, “Stocktaking” in Architectural Review, vol. 127,
cultural background factors”. C. Soanes, A. Stevenson, Oxford n. 756 (1960), p. 93.
Dictionary of English, 2005. 22
M. Webber, The Urban Place and Nonplace Urban Realm, in
2
I. de Wolf, “Toward Philosophy of of the Environment”, in Exploration into Urban Structure, University of Pennsylvania,
Architectural Review, n. 892, pp. 327-334. Philadelphia 1964 (Trad. it. Indagini sulla struttura urbana, Il
Saggiatore, Milano 1968).
3
A. C. Varzi, Ontologia, Laterza, Roma-Bari 2005. 23
Id., Order in diversity: community without propinquity, in L.
4
J. R. Searle, La costruzione della realtà sociale, Edizioni di Wingo (ed.), Cities and Space, John Hopkins Press, Baltimore
Comunità, Milano 1996. 1963.
5
G. Deleuze, Critica e clinica, Cortina, Milano 1996, p. 85. 24
R. Baiocco, Urbanistica e mitologie della scelta individuale,
6
H. R. Maturana, F. J. Varela, Autopoiesi e cognizione. La cit., 2007.
realizzazione del vivente, Marsilio, Venezia 2001. 25
D. Walker, The Architecture and Planning of Milton Keynes,
7
R. Baiocco, Urbanistica e mitologie della scelta individuale. Il The Architectural Press, London 1982.
caso di studio di Milton Keynes, Tesi di Dottorato in Urbanistica,
IUAV, Venezia 2007.
8
P. Hall, Cities of Tomorrow, Blackwell, London 1996. P. Hall, D.
Hardy, C. Ward, Ebenezer Howard, To-morrow: a peaceful path
to real reform, original edition with commentary, Routledge,
London 2003.
9
C. B. Purdom, The Building of Satellite Cities, London 1949. 245
10
K. C. Parsons (ed.), The writings of Clarence S. Stein: architect

Urbanism of Landscapes
of the planned community, Johns Hopkins University Press,
Baltimore 1998.
11
C. Stein, Toward New Towns for America, Liverpool University
press, Chicago 1951 (trad. it. Verso nuove città per l’America, Il
Saggiatore, Milano 1969).
12
D. Mangin, La ville franchisée, Formes et structure de la ville
contemporaine, Edition de La Villette, Paris 2004.
13
C. A. Perry, The Neighbourhood Unit, Regional Survey of
New York and Its Environ, Volume VI, Routledge, London 1998
(1929).
14
P. Calthorpe, W. Fulton, The Regional City. Planning for the
End of the Sprawl, Island, Washington D.C 2001.
15
F. Gibberd, The Master Design; Landscape; Housing; The Town
Center, in H. Evans, New Towns. The British Experience, Halsted
press, London 1972, pp. 88-101.
16
Ibid., p. 96.
17
C. Buchanan, Traffic in Towns. A study of the long term
proplems of traffic in urban areas, Report of the Steering Group
and Working Group appointed by the Minister of Trasport,
HMSO, London 1963.
18
Ibid., p. 182.
19
R. Banham, P. Barker, P. Hall, C. Price, “Non-Plan: An Experiment

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