Il legame
devastante tra inquinamento atmosferico e coronavirus
21 marzo 2020, 18:29 100INWEB | DI VITO BARRESI
Pioggia Gialla in Lombardia, commentava Loris Fortuna nella
prefazione del libro denuncia di Sterling Seagrave, dove si leggeva
in fondo alle pagine che “il nemico siamo noi, senza l’impegno civile
alla difesa degli equilibri ecologici minacciati”. Una battaglia,
evidentemente, tutta da combattere che inquietantemente si svela
direttamente connessa e intricata con la tragedia in atto nella
Lombardia e nell’intera Pianura Padana.
di Vito Barresi
A confermarlo sono le prime evidenze scientifiche sulla correlazione tra Covid e CO2. Se ne parla in un breve quanto
significativo position paper redatto e sottoscritto da numerosi professori universitari (Leonardo Setti e Fabrizio
Passarinidell’Università di Bologna; Gianluigi de Gennaro, Alessia Di Gilio, Jolanda Palmisani, Paolo Buono,
Gianna Fornari dell’Università di Bari; Maria Grazia Perrone dell’Università di Milano; Andrea Piazzalunga,
Esperto Milano; Pierluigi Barbieri, Università di Trieste; Emanuele Rizzo e Alessandro Miani della Società Italiana
Medicina Ambientale) dal titolo “Relazione circa l’effetto dell’inquinamento da particolato atmosferico e la diffusione di
virus nella popolazione”.
La domanda è semplice: si poteva evitare la tragica escalation del contagio se si fosse dato
immediatamente l’allarme sull’inquinamento ambientale e sul tasso di CO2 che come una cappa ormai da quasi un
decennio grava nella stagione invernalesui cieli e la terra della Lombardia e dell’intera Pianura Padana?
La risposta potrebbe essere, purtroppo, enfaticamente affermativa: sì. Perché, dice lo studio contrassegnato dai timbri e
dagli stemmi dell’Università di Bologna, dell’Ateneo di Bari e dalla Società Italina di Medicina Ambientale, vi sono
evidenti elementi di conoscenza scientifica in proposito.
Anzi gli accademici e ricercatori che ci mettono la faccia a sostenerlo scrivono con asciutta determinazione e chiarezza
che:
“riguardo agli studi sulla diffusione dei virus nella popolazione vi è una solida letteratura scientifica che correla
l’incidenza dei casi di infezione virale con le concentrazioni di particolato atmosferico (es. PM10 e PM2,5) (1, 2). È
noto che il particolato atmosferico funziona da carrier, ovvero da vettore di trasporto, per molti contaminanti
chimici e biologici, inclusi i virus. I virus si “attaccano” (con un processo di coagulazione) al particolato atmosferico,
costituito da particelle solide e/o liquide in grado di rimanere in atmosfera anche per ore, giorni o settimane, e che
possono diffondere ed essere trasportate anche per lunghe distanze.”
Sull’ipotesi di un legame diretto tra covid e crisi climatica, un rapporto interattivo tra coronavirus e
sfruttamento senza limiti degli ecosistemi, gli autorevoli studiosi italiani non hanno dubbi, poiché il particolato
atmosferico non solo è un carrier ma si struttura come un substrato che permetterebbe
“al virus di rimanere nell’aria in condizioni vitali per un certo tempo, nell’ordine di ore o giorni. Il tasso di
inattivazione dei virus nel particolato atmosferico dipende dalle condizioni ambientali: mentre un aumento delle
temperature e di radiazione solare influisce positivamente sulla velocità di inattivazione del virus, un’umidità
relativa elevata può favorire un più elevato tasso diffusione del virus cioè di virulenza.”
Perché se è ormai consolidato il fatto che la SARS sia partita da un “wet market”, e se al contempo è molto meno certo
che l’innesco dell’epidemia di coronovirus sia dovuto alle leccornie di chi mangia pipistrelli cotti, in quanto quei
pipistrelli, sostengono due esperti cinesi, potrebbero provenire da due centri di ricerca situati a Wuhan o nelle
vicinanze, di cui uno, il Wuhan Center for Disease Control & Prevention, è a circa a 300 metri dal mercato di
Wuhan, e l’altro è il Wuhan Institute of Virology, amministrato dall’Accademia cinese delle scienze, distante 12
chilometri dal mercato, fino ad oggi appariva discutibile la connessione stretta, quasi una concausa efficiente, tra
velocità di propagazione dell’infezione e condizioni ambientali pesantemente inquinate.
Per attestare e valutare la possibile correlazione tra i livelli di inquinamento di particolato atmosferico e la
diffusione del Covid-19 in Italia, si è provveduto ad analizzati per ciascuna Provincia:
“i dati di concentrazione giornaliera di PM10 rilevati dalle Agenzie Regionali per la Protezione Ambientale (ARPA) di
tutta Italia, pubblicati sui siti delle ARPA relativi a tutte le centraline di rilevamento attive sul territorio,
considerando il numero degli eventi di superamento del limite di legge (50 μg m-3) per la concentrazione giornaliera
di PM10, rapportato al numero di centraline attive per Provincia (n° superamenti limite PM10 giornaliero/n°
centraline Provincia), incrociandoli con i dati sul numero di casi infetti da COVID-19 riportati sul sito della
Protezione Civile (COVID-19 ITALIA)”.
Conclusioni estremamente allarmanti che aprono un varco nella cortina fumogena degli anti “climate chance”, i
nemici per partito preso di Greta Thumberg, che hanno innalzato uno sbarramento mediatico sull’evidenza e
cercato di scollegare e negare un nesso tra crisi climatica, livelli inquinanti di Co2 e flagello di massa targato
Covid19.