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5) Le controversi collettive del lavoro che sorgono tra le associazioni sindacali sono
decise dalla Magistratura del Lavoro, la quale è chiamata non soltanto ad interpretare i
patti già esistenti, bensì anche a regolare essa medesima i rapporti di lavoro. quando
le associazioni non abbiano raggiunto l'accordo per la formazione dei nuovi patti.
Quanto si è esposto vale a far scorgere l'intimo nesso e la stretta armonia da cui sono
legati gli istituti creati dalla legge fascista.
Organizzate giuridicamente le forze del lavoro e del capitale, su un piano di perfetta
parità, lo Stato Fascista ha eliminato la lotta di classe ed ha assicurato un ordine
giuridico nella vita economica del Paese. A ragione, quindi, la legge del 3 aprile 1926,
che affonda le sue radici nella rinnovata coscienza nazionale, fu definita la legge della
pace e della giustizia fra le classi.
L'inquadramento sindacale delle categorie professionali nelle associazioni
giuridicamente riconosciute ha richiesto alcuni anni di lavoro arduo e paziente. Esso si
è andato via via perfezionando, attraverso gli insegnamenti forniti dall'esperienza, fino
a raggiungere l'attuale assetto che ha fornito le basi sicure per la costituzione delle
Corporazioni.
Sul piano nazionale, le categorie sono inquadrate nelle Federazioni Nazionali costituite
per i diversi rami dell'attività economica. Le federazioni aderiscono a più ampi
organismi di carattere nazionale e cioè alle Confederazioni, costituite in
corrispondenza delle grandi branche della produzione ed aventi il compito di
coordinare l'attività sindacale delle varie federazioni e di esprimere integralmente gli
interessi generali delle categorie in esse organizzate.
Le Confederazioni sono le seguenti:
Confederazione Fascista degli Agricoltori cui aderiscono 4 Federazioni Nazionali;
Confederazione Fascista dei lavoratori Agricoltura, cui aderiscono 4 federazioni
Nazionali.
Confederazione Fascista degli Industriali con 45 Federazioni
Confederazione Fascista dei Lavoratori dell'industria con 20 federazioni di cui una,
quello dello Spettacolo, comprende 9 Sindacati Nazionali;
Confederazione Fascista dei Commercianti con 37 Federazioni
Confederazione Fascista dei lavoratori del Commercio, con 5 Federazioni
Confederazione Fascista delle Aziende Credito Assicurazione, con 13 Federazioni
Confederazione Fascista dei Lavoratori del Credito e Assicurazioni con 4 Federazioni
Confederazione Fascista dei Professionisti e Artisti con 22 Sindacati Nazionali.
Esistono inoltre speciali Federazioni Nazionali di Cooperative che aderiscono all'Ente
Nazionale Fascista della Cooperazione ed alle Confederazioni di imprese similari. Alla
periferia, le categorie sono organizzate in Sindacati ed eventualmente in nuclei minori.
Dalle Confederazioni dipendono localmente le Unioni dei datori di lavoro e dei
lavoratori, che coordinano l'attività degli organi locali delle Federazioni Nazionali; per i
professionisti e gli artisti sono invece costituiti appositi Sindacati Provinciali.
Al 31 dicembre 1934, le forze della organizzazione sindacale erano indicate dalle
seguenti cifre:
Industriali: 157.596 rappresentanti, compresi i dirigenti di azienda;
Artigiani: 723.605; Proprietari di fabbricati: 3.520.000;
Agricoltori: 2.658.266; Commercianti 724.574;
Aziende del credito e Assicurazione 15.560;
Lavoratori dell'Industria: 3.313.382; Lavoratori dell'Agricoltura: 2.744.072:
Lavoratori del Commercio: 868.196; Lavoratori del Credito e Assic: 54.573
Esercenti una libera professione o attività artistica: 170.564.
In complesso, le persone fisiche e giuridiche rappresentate dalle associazioni sindacali
ammontavano a 7.150.787.
Circa l'attività svolta dalle organizzazioni sindacali per la disciplina dei rapporti di
lavoro, si rileva che i contratti ad efficacia provinciale raggiungessero nel 1934 il
numero di 1367, mentre quelli nazionali e ultraprovinciali furono 117; altri 98 contratti
erano, al principio del 1935, in corso di esame e di pubblicazione.
Sulla base di tali dati, si può affermare che attualmente la quasi generalità delle
categorie è disciplinata dal contratto collettivo. Occorre altresì ricordare la preziosa
opera di assistenza sociale ed economica di assistenza sociale ed economica che le
associazioni svolgono nella loro azione quotidiana, ed i preziosi risultati conseguiti per
l'allevamento morale e culturale dei loro rappresentanti.
Sul finire dell'anno 1933, dopo oltre sette anni dalla emanazione della legge sindacale,
il Regime ritenne bastevole la esperienza e maturi i tempi per passare decisamente
dalla fase sindacale a quella corporativa. Sulla base dei tre punti fondamentali fissati
dal Duce - quali dovessero essere i compiti delle Corporazioni, quante se ne dovessero
creare, come costituirle- il problema formò oggetto di approfondito esame e di
appassionati dibattiti in seno al Consiglio Nazionale delle Corporazioni, organismo
funzionante sin dal 1930 e che già aveva reso eminenti servigi al Paese. Le discussioni
svoltesi intorno alla nuova costruzione da imprendere si conclusero con il memorabile
discorso che il Duce pronunciò il 14 novembre 1934 per illustrare la Sua mozione sulle
Corporazioni: Lo storico discorso, che ebbe vastissima eco nel mondo intero, gettò un
fascio di luce sulla realtà economica dei nostri tempi e, attraverso una critica definitiva
del liberalismo economico colpevole di molti errori e di gravi sciagure, segnò l'avvento
di una nuova economia, più rispondente alle esigenze della vita moderna e più atta a
garantire l'ordine e la giustizia nei fatti economici: la economia corporativa.
La dottrina economica fascista muove da un principio diametralmente opposto a
quello della scuola liberale che per più di un secolo ha imperato nel mondo e che si
riassume nella vecchia e nota formula del "lasciar fare, lasciar passare".
Questa formula vuol significare che i singoli individui, sebbene spinti dai propri
impulsi egoistici, agiscono nel modo più rispondente alla utilità collettiva, che
l'interesse di ciascuno coincide felicemente con l'interesse di tutti. Per il fallace
ottimismo di quella scuola, gli uomini ed i governi dovrebbero cullarsi nella illusione
che il moto spontaneo ed automatico delle cose garantisce il benessere e conduce alla
prosperità. Ogni intervento dello Stato nel campo economico sarebbe dannoso perché
devierebbe il corso dei fatti economici ed altererebbe le loro conduzioni naturali. La
vita economica, abbandonata a se stessa, si svolgerebbe nel migliore dei modi
possibili. Le crisi avrebbero un carattere ciclico, ma si risolverebbero spontaneamente;
ogni intervento le aggraverebbe o ne ritarderebbe la soluzione. Il liberalismo
economico, dunque, non conosce altra legge che quella dell'egoismo individuale ed
opina che i popoli siano impotenti a piegare il corso degli eventi e a dirigerli verso fini
collettivi.
L'ultima terribile crisi, come disse il Duce con frase incisiva, è penetrata così
profondamente nel sistema che si è rivelata una crisi del sistema. La dottrina
corporativa afferma che è possibile e necessario intervenire nell'ordine economico ed
introdurvi una disciplina intesa ad armonizzare gli interessi contrastanti, tutelando
sovra ogni altro, l'interesse superiore della economia nazionale. All'abulia ed al
determinismo liberale, essa oppone la ferma volontà di piegare e governare la realtà
economica; al principio individualistico ed alla legge del più forte essa oppone gli
imperativi morali della solidarietà e della collaborazione; all'anarchia cui
inevitabilmente conduce la lotta sfrenata e disordinata degli egoismi individuali essa
vuole sostituire un ordine ed una disciplina.
éur respingendo e superando l'individualismo liberale, il corporativismo rispetta la
iniziativa e la proprietà privata e riconosce che in esse risiedono la forza e lo slancio
dell'attività economica. Sotto tale aspetto, esso si differenzia nettamente dalle teorie
socialiste che propugnano la statalizzazione della produzione. Da queste ultime esso si
distacca altresì perché riposa sul concetto della solidarietà economica nazionale e fa
dipendere dall'accrescimento della produzione nazionale la prosperità collettiva e la
effettiva giustizia sociale.
Le Corporazioni sono state costituite con Decreti del Capo del Governo del 29 maggio,
del 9 e del 23 giugno 1934. Esse sono 22, e si distinguono nei seguenti tre gruppi.
1) Corporazioni a ciclo produttivo, agricolo, industriale e commerciale: dei Cereali;
della Orto-floro-frutticoltura; Vitavinicola; Olearia; delle Bietole e dello Zucchero; della
Zootecnia e della Pesca; del Legno; dei Prodotti Tessili.
2) Corporazioni a ciclo produttivo industriale e commerciale della Metallurgia e della
Meccanica; della Chimica; dell'Abbigliamento; della Carta e della Stampa; delle
Costruzioni Edili; dell'Acqua, del Gas e dell'Elettricità; delle industrie Estrattive; del
Vetro e della Ceramica;
3) Corporazioni per le attività produttrici di Servizi: della Previdenza e del Credito; delle
Professioni e delle Arti; del Mare e dell'Aria; delle Comunicazioni Interne; dello
Spettacolo, dell'Ospitalità.
Le Corporazioni sono costituite per grandi rami di produzione e, salvo quelle delle
attività produttrici di servizi, in base al criterio del ciclo produttivo. Tale criterio implica
che in ciascuna Corporazione sono rappresentate tutte le attività interessate al ciclo
economico per cui essa è costituita e che vanno dalla produzione della materia prima
alle sue successive trasformazioni fino al prodotto finito e pronto per il consumo.
IL CROLLO COMMERCIALE
Infatti, la crisi attuale ha frenato il movimento commerciale di tutto il mondo. La
Società delle Nazioni ha compiuto una statistica del commercio internazionale nel
quinquennio 1929-1933, e ha ottenuto questi risultati, valutati in milioni di dollari-oro.
Import Export Totale
1929 35.601 33.040 68.641
1930 29.087 26.495 55.582
1931 20.818 18.908 39.726
1932 13.996 12.902 26.898
1933 12.485 11.694 24.179
Ne risulta che il 1929 si manteneva ancora una situazione relativamente elevata, perché la crisi
scoppiò sulla fine di esso, ma nel 1930 abbiamo avuto il primo crollo della crisi economica con
una diminuzione di 6514 milioni di dollari nelle importazioni dei vari Stati del mondo, di 6545
milioni di dollari nelle esportazioni complessivamente una diminuzione di 13 miliardi 59 milioni
di dollari nel commercio totale; il che corrisponderebbe a una diminuzione complessiva di 248
miliardi 121 milioni di lire italiane.
Nel 1931 la caduta è stata notevolmente più forte, con un'altra diminuzione di 8 miliardi 269
milioni di dollari nelle importazioni e di 7 miliardi 587 milioni nelle esportazioni,
complessivamente di 15 miliardi 856 milioni di dollari che corrispondevano allora a 301 miliardi
264 milioni di lire italiane. Nel 1932 continua la discesa con un'altra diminuzione complessiva di
12 miliardi 829 milioni di dollari; nel 1933 la discesa si sarebbe sensibilmente frenata: il valore
delle importazioni calcolato in dollari-oro per l'opportunità e il rigore dei confronti - giacché
nell'aprile del 1933 anche il dollaro si è distaccato dalla parità aurea - si è diminuito di 1511
milioni,quello delle esportazioni di 1208, per cui, complessivamente, avremmo avuto una
diminuzione di 2 miliardi 719 milioni di dollari-oro corrispondenti a 51 miliardi 661 milione di
lire nostre. Che sia questo un primo sintomo di avviamento alla risoluzione economica? Non
dobbiamo dimenticare, però, che siamo ridotti al minimo del movimento commerciale, e che il
miglioramento si misura da elementi positivi, non da elementi negativi.
Facendo il confronto fra il valore del commercio mondiale del 1929 con quello del 1933 si
avrebbe una diminuzione di 23 miliardi 116 milioni di dollari-oro all'importazione e di 21
miliardi 346 milioni all'esportazione, il che rappresenta una diminuzione complessiva nel
movimento commerciale di tutto il mondo di 44 miliardi 462 milioni di dollari-oro, una somma
che, in moneta italiana, si avvicina agli 845 miliardi di lire.
Non solamente assistiamo a una diminuzione continua, ma ad un ritmo accelerato di discesa nei
primi tre anni di crisi; il valore totale del 1930 risulta inferiore del 19 per cento a quello del 1929,
degrada ancora del 23 per cento nel 1931, e del 19 per cento nel 1932: il 1933 segnerebbe un
regresso del 65 per cento rispetto al commercio mondiale del 1929.
fra la crisi del 1920-21 e quella attuale abbiamo avuto un periodo di relativo benessere, turbato
però da crisi localizzate, come quella del 1923 negli Stati Uniti e l'altra del 1925 in Germania. Nel
1926 si ebbe a lamentare il gravissimo sciopero dei minatori inglesi; nell'Europa continentale si
rilevò una produzione aumentata in Germania, nel Belgio, nella Svezia, e una produzione
diminuita in Francia, nella Spagna, in Italia; nel 1927 Italia e Francia superano il disagio della
deflazione e nel 1928 si afferma dovunque un movimento di espansione industriale e
commerciale.
La crisi del 1929 s presenta con un carattere che si è riscontrato in altre precedenti: è una crisi di
sovrapproduzione. La statistica documenta che tra il 1921 e il 1929 l'indice mensile della
produzione industriale è raddoppiato negli Stati Uniti; e in tutti gli altri Paesi si sono avuti,
tranne poche eccezioni di qualche saltuario arresto, aumenti continui nella produzione di molte
materie prime, derrate alimentari o prodotti fabbricati. Generale il fenomeno del cumulo di
merci presso i produttori, generale la richiesta proporzionalmente scarsa dei consumatori,
generale doveva diventare la crisi. Non diciamo che questa abbia colpito nella stessa misura tutti
gli Stati e che tutti i prodotti ne abbiamo risentito la eguale ripercussione, ma la scossa si è
universalizzata:
La crisi spaventosa attuale si differenzia dalle precedenti per alcune caratteristiche proprie.
Anzitutto, la durata e l'intensità. Quando finirà questa crisi, che è già al sesto anno della sua
morbosa esistenza? Non abbiamo ancora gli elementi concreti per dare una risposta risolutiva.
La crisi attuale è la più complessa e anche la più diffusa fra quante la statistica ne abbia
registrate: nessuna attività umana sfugge al suo tormento, nessun paese del mondo può isolarsi
da essa; vi sono fattori politici che s'intrecciano con quelli economici e che danno alla crisi una
fisionomia speciale, che assume atteggiamenti nuovi e insospettati da Stato a Stato. Nella
Confederazione nord-americana abbiamo due restrizioni, che sono in aperto contrasto con tutta
la storia di quel popolo, una demografica e l'altra economica: una legge del 1925 ha limitato
l'immigrazione, mentre fino allora la corrente migratoria poteva portare milioni di lavoratori
nella Repubblica stellata, e ora l'immigrazione è addirittura annullata per la disoccupazione che
la crisi ha generato in quel paese; nel 1930 si è elevata una muraglia doganale quasi
insormontabile, con tariffe proibitive che frenano l'importazione delle merci.
In Inghilterra, la gravità della crisi economica è misurata dalla cifra dei disoccupati; è diminuito
il movimento commerciale e la politica economica si va ispirando al protezionismo, che urta con
quelle tradizioni classiche del libero scambio che hanno segnato pagine gloriose della storia
inglese; ha abbandonato la parità aurea, svalutando la propria moneta; si è trovata nella dura
necessità di ridurre i salari reali che irrigidivano i costi di produzione.
In Francia si è preteso fino a tre anni or sono che non vi era crisi economica in quel paese, e si
dava all'afflusso d'oro alla banca nazionale il significato che i crediti francesi all'estero sono in
misura superiore ai debiti; ma in quest'ultimo triennio la Francia ha visto aumentare la
disoccupazione, peggiorare la bilancia commerciale, è stata assillata dagli scioperi e non ha
pagato la quota semestrale dei debiti di guerra agli Stato Uniti.
Dell'Italia ne parleremo fra breve.
ORIGINI DELLA CRISI
La determinazione delle cause di una crisi ha fornito materia a diverse teorie e ha dato origine a
contestazioni vivaci. Anche la crisi attuale è stata molto discussa fra gli studiosi, perché non tutti
si trovano d'accordo nel fissare la causa:
Nei paesi anglo-sassoni prevale il principio della spiegazione monetaria e si fa risalire l'origine
della crisi presente all'aumento del saggio di sconto, a quella politica di restrizione dei crediti,
applicata dalle banche degli Stati Uniti fino dall'inizio del 1928, politica che andò poi
diffondendosi in altri paesi delle due Americhe e della Europa. E' stato però osservato che gli
Stato Uniti hanno goduto di una grande prosperità durante tutto il 1928 e nei primi nove mesi del
1929, malgrado l'aumento verificatosi nel saggio di sconto, e non sarebbero caduti nella crisi, se
non fosse sopravvenuta la catastrofe di borsa dell'ottobre 1929. E si rileva che il saggio di sconto
aumenta normalmente nei periodi floridi per la notevole richiesta di credito che moltiplicata
attività economica genera, mentre il malessere economico rallenta le domande di credito e fa
abbassare il saggio di sconto.
Qualche scrittore francese ha formulato una nuova teoria monetaria della crisi, e la scorge nella
ineguale distribuzione dell'oro nel mondo; ma qui sorge un'altra obbiezione: perché la crisi è
scoppiata negli Stati Uniti, che avevano esuberanza di riserve auree e si è diffusa rapidamente e
con intensità nei paesi poveri d'oro, mentre è stata in origine meno acuta in Francia, che ha
cumulato tanto oro? Sono indubbiamente dei contrasti che non facilitano la risoluzione del
problema.
Nel 1930 si attribuiva la crisi che cominciava allora a imperversare nel mondo, alla politica delle
tariffe doganali eccessive; nell'aumento del 1931 alle direttive della banca d'Inghilterra; nel
giugno del 1932 alle riparazioni tedesche; all'inizio del 1933 ai debiti di guerra, e nell'autunno di
quell'anno alla politica monetaria americana; attualmente si fa risalire il perdurare della crisi
agli armamenti dei grandi Stati e alla persistente minaccia di una nuova guerra. Possiamo dire
che tutte queste cause hanno agito, qua e là in misura diversa, e sono tuttora operanti.
E' sempre il malessere che conduce alla crisi. C'è un disordine nel mercato? una parte del
capitale limita la produzione nella fiducia di realizzare un reddito maggiore, un'altra parte si
arrischia in nuove imprese con l'illusione di soddisfare nuovi bisogni, ma l'una e l'altra possono
trovarsi insoddisfatte, ed ecco la crisi. A volte ci sono dei finanzieri improvvisati che credono di
poter sfruttare le incertezze d'un momento e gettano il loro capitale sul mercato con
l'intendimento di soffocare i piccoli imprenditori, che vivacchiavano appoggiandosi a vicenda, ma
una raffica impetuosa travolge anche quegli ingordi speculatori.
La iperproduzione ha avuto un tracollo perché si è visto innalzare davanti a sé le formidabili
barriere doganali; poteva essere esuberante rispetto alle richieste locali, ma calcolava sui mercati
aperti di altri paesi; i fenomeni economici non hanno più la vitalità isolata e chiusa di una volta,
ma sono diventati universali; se si pongono degli ostacoli insormontabili a questo movimento
commerciale la merce rimane ferma, va perduta, il capitale non si rinnova, la vita economica si
spegne. Ecco perché, fra i tratti notevoli dello squilibrio economico, si é rilevata la coesistenza di
una produzione che non trova sbocchi e di bisogni che non possono essere soddisfatti: il mondo
soffre piuttosto di sottoconsumo che di sottoproduzione.
Durante la guerra abbiamo avuto un arresto notevole della natalità e una mortalità eccezionale
degli uomini validi al lavoro; si sono dovute utilizzare le forze femminili e si sono verificati,
quindi, degli spostamenti in varie manifestazioni dell'attività economica, che richiedevano un
riassetto nel dopoguerra.
Si sono generati nuovi bisogni, create nuove esigenze,; la guerra ha irrigidito la domanda di
alcuni beni e ha limitato l'offerta di altri, conducendo a una nuova struttura economica. Si
dovevano, quindi, verificare fluttuazioni negli affari: nuove tariffe doganali adottate dagli Stati,
nuove invenzioni industriali per la maggior utilizzazione delle forze motrici, nuovi gusti nelle
diverse classi sociali, hanno esercitato nell'organismo economico un'influenza isterica.
L'Ufficio di studi economici della Società delle Nazioni, in una monografia sulla situazione
economica mondiale del 1931-32, dimostra che la guerra ha distrutto l'equilibrio che esisteva nel
mondo economico dell'anteguerra; essa ha veramente sovvertito il modo di vivere e il modo di
pensare dei popoli.
Da ADAMO SMITH in poi tutti gli economisti si sono occupati di questo rapporto fra la guerra e
la depressione economica. E' stato, però, anche osservato che subito dopo le guerre si manifesta
sempre una forte attività per riparare il materiale, ma qualche anno più tardi questa attività
subisce un rilassamento.
Ecco perchè la Francia non dimostrò sofferenza subito dopo la guerra del 1870-71, ma tutta
l'Europa fu colpita dalla crisi del 1873-74; ecco perchè dopo la guerra mondiale del 1914-18 si è
avuta una crisi parziale nel 1920-21, un tentativo di ricostruzione negli anni successivi, la crisi
immane e universale del 1929 in poi.
In verità, dopo la grande guerra tutti gli studiosi hanno formulato nettamente il problema della
ricostruzione economica, dall'intensa preparazione ad un ritorno graduale dell'ordinamento
normale, ma gli uomini di governo, turbati da altre preoccupazioni, perchè in altri Paesi alla
guerra militare aveva fatto seguito la guerriglia civile, trascurarono i fondamentali rapporti che
devono sussistere tra la produzione e la distribuzione e il consumo. Abbiamo assistito
inizialmente ad un'attività febbrile, che sembrava volesse riprare i danni causati dal flagello, ma
questa speranza degenerò nei disordini del 1920-21; si ebbe l'illusione di un miglòioramento nel
1923.24 per ritornare a una tendenza regressiva nel 1925 anno in cui l'economia di vari paesi
risentì il contraccolpo della deflazione, della stabilizzazione della moneta; nel 1927 Italia e
Francia superarono la crisi deflazione e nel 1928 si affermò dovunque un movimento di
espansione industriale e commerciale.
Dobbiamo riconoscere che non era facile riparare ai danni causati da quella guerra: 60 milioni di
mobilitati, tre quarti dei quali furono combattenti, 10 milioni di morti sul campo, 10 milioni di
invalidi e mutilati, diversi milioni di borghesi uomini e donne e fanciulli, deceduti a causa delle
armi o delle epidemie.
Le spese dirette della guerra si sono valutate 200 miliardi di dollari, il che vuol dire mille miliardi
di lire-oro e le perdite inflitte alla produzione si sono calcolate in una cifra doppia: cifre
fantastiche, misurate a trilioni di lire, che spiegano benissimo la tragica situazione mondiale del
dopoguerra: crisi, disordine, fame. E ben faticosa doveva riuscire un'opera di risanamento.
L'Europa spendeva, per la difesa nazionale, 163 milioni di sterline nel 1883, avendo una
popolazione di 335 milioni di abitanti; nel 1908 la spesa era salita a 300 milioni di sterline con
una popolazione di 436 milioni; nel 1928 le spese militari raggiunsero i 524 milioni di sterline
mentre la popolazione era di 480 milini; alla distanza di 45 anni la popolazione europea è
aumentata di 145 milioni di abitanti e le spese si sono accresciute di 361 milioni di sterline.
Se questi 13 miliardi di lire-oro che l'Europa spende annualmente nell'esercito e in armamenti, li
sapesse per una buona metà risparmiare per devolvere l'altra metà in opere produttive, sarebbe
un sollievo per tutti: quei sei o sette miliardi risparmiati andrebbero ad alleggerire le imposte,
quegli altri sei miliardi darebbero lavoro ai disoccupati, diffondendo il benessere: ecco una
superba via aperta per risolvere la crisi economica. Siamo pienamente d'accordo che il disarmo
dev'essere universale; non è concepibile che uno Stato disarmi se altri si mantengono armati.
Questa interferenza dei fenomeni politici su quelli economici si è andata intensificando in questi
ultimi anni negli Stati Uniti d’America e doveva avere le sue ripercussioni in Europa. Una legge
del 1925 limitò le immigrazioni e nel 1930 si frenò l’importazione delle merci. Il nuovo Presidente
Roosevelt, assunto al potere il 4 marzo 1933, ebbe a rilevare che le alte tariffe doganali sono state
una delle cause effettive della crisi e si propose di porvi rimedio; in sulla fine del 1933 iniziò il
National Recovery Act, l’atto che doveva risolvere la crisi: ha mutato, infatti, lo spirito dominante
dell’industria negli affari, ha sostituito l’interesse della gran massa del popolo alle ingorde
speculazioni dei banchieri; ma il new deal, il nuovo patto, è ancora lungi dalla risoluzione della
crisi.
In Itala si è sentito il bisogno di creare strumenti adeguati per appoggiare una politica economica
espansionistica. Il 15 dicembre 1924 si costituì l’Istituto nazionale di credito per il lavoro italiano
all’estero, con la finalità di finanziare imprese condotte da emigrati italiani, sottraendoli allo
sfruttamento straniero e aggiungendo alla loro nuda forza di lavoro anche quella del capitale:
una legge del 7 aprile 1925 creò l’Istituto di credito per le imprese di pubblica utilità, per la
concessione di prestiti a imprese private aventi lo scopo di costruire impianti, ultimare lavori,
sfruttare concessioni di riconosciuta pubblica utilità; un decreto-legge del 13 febbraio 1927
riordinò l’Istituto nazionale per i cambi, che agisce sotto la vigilanza del Ministero delle finanze e
ha per scopo di acquistare e vendere a pronti e a termine divise estere, agevolando il commercio
dell’Italia con l’estero.
Questi provvedimenti, adottati nel periodo di incremento della nostra attività economica, sono
stati integrati, durante il periodo della depressione. con la creazione di due nuovi istituti:
L’Istituto mobiliare italiano (IMI) e l’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI), dei quali
parleremo fra breve.
L’intervento dello Stato per attenuare la crisi avrebbe dovuto essere regolato con criteri
internazionali di reciproco scambio; invece alla guerra militare, che aveva provocato il disordine
mondiale, si è venuta sostituendo la guerra doganale, che ha aggravato la crisi. In tutti gli Stati
del mondo si sono introdotti nel biennio 1931-32, aumenti generali della tariffa dei dazi
d’importazione o si sono adottate misure restrittive delle importazioni. I 22 Paesi che hanno
aumentato le loro tariffe generali concorrono per una percentuale del 40-42 al commercio globale
del mondo; o 55 paesi che hanno comunque aumentato i dazi vi concorrono per una percentuale
dell’ 89-90.
Se, come è stato rilevato dai cultori severi della Statistica, al giganteggiare della grande ricchezza
ha fatto riscontro il dilagare dell’eterna miseria, e se la crisi del 1929 ha costituito lo sbocco fatale
di un periodo di follia collettiva, nel corso del quale si assiste al contrasto di un aumento di
produzione e di un’azione persistente di diminuzione di consumo, noi riteniamo superfluo
insistere nella ricerca delle cause quando ci assilla una cruda domanda: quali possono essere i
rimedi a questa crisi tormentosa?
Possiamo rispondere subito che se essa è mondiale non si può risolvere con la cooperazione di
tutti gli Stati. Ecco perché la Conferenza di Losanna, dopo aver firmato l’accordo per le
riparazioni di guerra, subordinandolo al regolamento generale di debiti di guerra dell’Europa
verso l’America, iniziò l’altro studio per far rinascere la fiducia indispensabile allo sviluppo delle
relazioni economiche e finanziarie normali fra i popoli.
Ma dobbiamo, purtroppo, constatare che l’umanità non sa usare della propria capacità
produttiva, si lamenta dell’abbondanza, non sa distribuire i mezzi di sussistenza di cui dispone.
Se la capacità di produzione del mondo potesse essere realizzata e, insieme con essa, la
riparazione dei prodotti tra gli uomini, nessuna tavola rimarrebbe senza pane, nessun uomo
senza indumenti, nessuna famiglia senza tetto. E invece ci sono milioni e milioni di uomini che,
non trovando lavoro, sono stati ridotti alla disperazione della fame. Perché? L’industriale frena
la produzione perché il prezzo di vendita dei suoi prodotti risulterebbe inferiore al costo da lui
sopportato, e la legge del tornaconto, che è l’applicazione economica della grande legge
universale del minimo mezzo, verrebbe violata; l’imprenditore ha i magazzini pieni e non può
mettere le merci sul mercato perché il consumatore, che pur ne sentirebbe vivo il bisogno, non ha
moneta sufficiente per l’acquisto: la legge della domanda e dell’offerta risponde a un principio di
correlazione, giacché non si può domandare economicamente una cosa senza offrirne
un’altra;l’agricoltore chiude da quattro anni la sua azienda con una passività progressiva, e
l’eccessivo costo delle spese culturali assorbe tutta la possibilità produttiva della terra e fa
consumare i vecchi risparmi o costringe a nuovi debiti; e la svalutazione della terra porta
all’abbandono della proprietà.
Agricoltori, industriali e commercianti limitano l’impiego della manodopera, perché la loro
resistenza si va ultimando, e in tutti gli Stati i disoccupati hanno toccato cifre insolite, si contano
a decine di milioni e chiedono aiuto e hanno minacciato moti rivoluzionari.
Ecco la realtà della crisi economica: crisi dell’abbondanza perché difettano i compratori; crisi
della povertà perché i consumatori, nella stragrande maggioranza, non hanno la possibilità d’
acquisto. Ed è questo disequilibrio stridente che bisogna risolvere con un orientamento fattivo
della politica economica e finanziaria.
In tutti gli Stati le entrate pubbliche sono aumentate notevolmente, sono divenute quasi favolose
rispetto all’anteguerra; e sono entrate derivate, che si prelevano dalle ricchezze dei privati con
grave loro sacrificio. Queste entrate pubbliche dovrebbero trasformarsi in funzioni e servigi atti
alla soddisfazione dei bisogni collettivi: ci dovrebbe essere un compenso adeguato tra il sacrificio
sopportato nel pagamento dei tributi e il beneficio risentito nella soddisfazione dei bisogni. Ma
fino a che le spese militari assorbiranno buona parte di queste entrate tale compenso non potrà
verificarsi.
La Conferenza di Ginevra, riprendendo i lavori nel 1932 dopo l’accordo di Losanna, arrivò a
questa conclusione: è giunta l’ora di adottare delle misure sostanziali più ampie per quanto
concerne il disarmo, onde consolidare la pace nel mondo.Ma altri avvenimenti hanno costretto gli
Stati ad aumentare le forze armate, hanno fatto uscire la Germania dalla Società delle Nazioni,
hanno raffreddato i rapporti di amicizia fra l’Italia e l’Inghilterra, hanno oscurato l’orizzonte
della pace mondiale, affievolendo il programma della ripresa economica.
Insieme alle spese militari gli interessi del debito pubblico gravano enormemente nei bilanci di
tutti gli Stati. Gli Stati Uniti hanno complessivamente, all’interno e all’estero, un debito di 27
miliardi di dollari; e venendo agli Stati d’Europa, l’Italia figura per 105 miliardi di lire, senza
tener conto dei debiti di guerra, la Francia per 460 miliardi di franchi, l’Inghilterra per 7
miliardi 860 milioni di sterline, senza tener conto anche per questi due Stati dei debiti di guerra:
la Germania segnerebbe 11 miliardi 706 milioni di marchi, ma il dato è incompleto, perché non vi
figurano né i debiti di guerra né i prestiti fatti all’estero nel 1924.
Riducendo a lire italiane i debiti dei cinque Stati si arriverebbe coi corsi medi attuali, ad una
somma di un trilione 233 miliardi; e non ci occupiamo di tutti gli altri Stati del mondo, grandi e
piccoli, che sono tutti, in varia misura, colpiti da debiti pubblici.
Il 30 giugno 1932 il Governo inglese decise la conversione del prestito di guerra 5 per cento in un
nuovo prestito del 3,5 per cento, risparmiando 23 milioni di sterline all’anno, cioè 575 milioni di
franchi-oro; nel settembre 1932 la Francia ne seguì l’esempio, e nel febbraio 1934 anche l’Italia
convertì il suo consolidato dal 5 al 3,50 per cento.
Con la riduzione delle spese militari e con l’attenuazione dei debiti pubblici arriveremmo più
facilmente a quella pace mondiale che è nell’augurio di tutti e potremmo riprendere i rapporti di
scambio economico.
RISPARMI E INVESTIMENTI
ECONOMIE NELLE SPESE PUBBLICHE
Se gli studiosi si sono trovati in disaccordo nella determinazione delle cause della crisi economica,
più notevole il disaccordo si riscontra nelle proposte per la risoluzione della crisi..
Una lettera aperta di alcuni economisti inglesi al Times, che la pubblicò il 1° novembre 1932,
dava questa ricetta pratica per risolvere la crisi: consumare di più, risparmiare di meno, denaro
a buon mercato, operazioni a mercato aperto.
Ci permettiamo qualche osservazione e qualche constatazione. L’aumento del consumo è
indubbiamente un indice di benessere, ma è stato giustamente rilevato che esistono tre classi di
consumatori: imprenditori, risparmiatori, lavoratori; i primi difettano ora di profitto, i secondi
hanno limitato di poco il loro consumo, i terzi soffrono della riduzione di lavoro e di salario.
Il risparmio è aumentato progressivamente in questi ultimi anni. In Italia, le casse di risparmio
ordinarie e le casse postali di risparmio avevano 26 miliardi 333 milioni di lire in deposito alla
fine del 1928, ma siamo saliti a 39 miliardi alla fine del 1934; tenendo conto dei depositi degli altri
istituti di credito si arriverebbe vicino ai 50 miliardi di lire. Ma buona parte del risparmio è
sottratta agli investimenti; si risparmia di più perché si ha un’ossessione opprimente del rischio
dell’impresa. Non è la diminuzione del risparmio che contribuirà a risolvere la crisi, ma è la crisi
risolta, cioè debellata, che porterà alla diminuzione del risparmio per investire il capitale in
imprese fiduciose.
Il Presidente della Società italiana per azioni, ALBERTO PIRELLI, nella relazione annuale letta
il 27 novembre 1932 alla presenza del capo del Governo, pronunciò queste parole: “ Essenziale
per la ripresa di tutte le attività economiche del nostro Paese è che s’intensifichi la formazione del
risparmio, fondamento della vita economica e civile di tutti i paesi, e che esso si convogli sempre
più abbondantemente verso gli impieghi produttivi”. Non basta, dunque, cumulare il risparmio,
bisogna saperlo rivolgere ad impieghi produttivi, giacché gli economisti insegnano che il denaro
stagnante produce miseria nei paesi che ne difettano e danneggia i paesi che lo detengono. La
ricchezza è portata non tanto dall’abbondanza del denaro quanto dalla rapidità della sua
circolazione: uno scudo che passa da una in altre mani cento volte in un mese -come scriveva
Sallustio Bandini nel ‘700- farà figura di cento scudi, provvedendo ai bisogni di cento persone. Il
denaro circola quando c’è fiducia nel mercato, si nasconde quando c’è diffidenza; non può dare
animazione di vita all’industria e al commercio là dove l’organismo sociale langue nella
depressine.
Il risparmio è un consumo differito, è una riserva per un ulteriore bisogno: investire può voler
significare la rinunzia al potere di consumo, ma, nell’economia moderna, l’investimento è un atto
di produzione. Bisogna, pero, essere molto cauti nella scelta dell’impiego: una volta si diceva che
ogni cassa di risparmio deve tener presente la natura della clientela, le condizioni di ambiente, i
bisogni che sogliono manifestarsi in epoche diverse, che deve saper frazionare gli investimenti in
larga misura tanto per specie che per persone, limitando i ricchi e portando il maggior numero di
persone a godere dei benefici del credito. Ma oggi, che abbiamo istituti di credito agrario, istituti
di credito mobiliare, istituti di credito fondiario, istituti specializzati per ogni forma di attività
economica, le casse di risparmio possono essere largamente e sicuramente adoperate dal Governo
per le opere di pubblica utilità, particolarmente per quelle opere di bonifica che risanano le
campagne e fanno creare nuove città, opere economiche e civili al tempo stesso. Lo Stato è un
buon cliente, perché può attendere a lunga scadenza il rimborso del denaro speso in grandi e
provvidenziali opere di bonifica, ed è sempre pronto a rispondere a una richiesta dei depositanti
alle casse, valendosi del proprio Tesoro o della cassa d’ammortamento o della banca di emissione.
In Italia le spese pubbliche ammontavano a 2 miliardi 688 milioni di lire nel 1913-14, e si
conteggiarono a 20 miliardi e mezzo nel 1934-35, che corrispondono a 5 miliardi 600 milioni di
lire-oro. Passiamo ad uno Stato piccolo, la Svizzera, e troveremo una spesa di 122 milioni di
franchi nel 1914, salita a 444 milioni nel 1932 e a 431 nel 1934. Se dall’Europa andiamo in
America, gli Stati Uniti ci danno una spesa di 524 milioni di dollari nel 1913, che si protende a 5
miliardi di dollari nel 1931-32 e a 7 miliardi nel 1933-34, ma con una previsione di 4 miliardi 639
milioni di dollari nel 1934-35.
In tutti i bilanci, di tutti gli Stati, due voci di spese sono notevolmente aumentate: gli interessi del
debito pubblico e le spese militari; la generazione attuale sopporta le spese della guerra, che ha
travagliato il mondo, e le spese di una tormentosa difesa contro eventuali minacce di un’altra
guerra.
Inaugurando la XVIII Conferenza interparlamentare del commercio, tenuta a Roma il 19 marzo
1933, il Capo del Governo italiano ebbe a dire che la soluzione dei vari problemi economici è
condizionata dal raggiungimento di una migliore atmosfera politica e di una profonda
comprensione della realtà. E in una discorso precedente, tenuto a Torino il 23 ottobre 1931,
aveva espresso il pensiero che “se la realizzassero le premesse necessarie e sufficienti per una
collaborazione delle quattro grandi potenze occidentali, l’Europa sarebbe tranquilla da punto di
vista politico e forse la crisi che ci attanaglia andrebbe verso la fine”.
Si rende, dunque, necessaria una collaborazione spirituale fra le grandi Potenze, e dell’accordo di
queste trionferà la pace universale. Ma questa collaborazione internazionale,fiduciosa e fattiva,
richiede a sua volta una organizzazione unitaria nei singoli Stati, un ordinamento disciplinato
obbiettivo e cosciente, che sappia conciliare gli interessi singoli con quelli collettivi. Uno scrittore
tedesco, dopo aver constatato che la crisi attuale è una crisi di struttura e che i presupposti del
capitalismo non sussistono più nella società moderna, conclude che per superare questa crisi
bisogna trovare una sutura fra iniziativa e l’interesse collettivo; e si compiace di avvertire che ciò
che si propone di fare in Germania il nuovo Governo nazionale. Avrebbe potuto aggiungere, a
titolo di storia, che quanto ha saputo realizzare in Italia l’economia corporativa.
Subito dopo, per un fenomeno suggestivo, i cambi discesero con una continuità
ininterrotta, e così pure l’indice dei prezzi: il corso dell’oro che era salito fino a un
massimo di 610 alla fine di luglio 1926, cadde a 421 il 13 dicembre e si mantenne
intorno a 427 alla fine dell’anno. E nel 1927 l’Italia entrò nel novero delle Nazioni a
valuta risanata e a moneta avente per base l’oro: un decreto-legge del 5 agosto istituì
la Cassa per l’ammortamento del debito interno; e un decreto-legge del 21 dicembre
1927 restaurò la convertibilità del biglietto di banca e fissò la nuova parità della lira
italiana, che portò a questa misura: 19 lire per il dollaro, 92,46 per la sterlina, 3,666 per
ogni antica lira-oro, o franco svizzero.
Dal secondo semestre del 1926 al secondo semestre del 1928 si riscontra una
riduzione del 14 per cento nella circolazione cartacea, ma il corso dell’oro è diminuito
del 29 per cento, il livello dei prezzi all’ingrosso è disceso del 26 per cento, il costo
della vita ha subito una riduzione del 19 per cento e anche la misura dei salari si è
ridotta del 15 per cento. La stabilizzazione monetaria ha fatto cessare anche quelle
oscillazioni dei prezzi delle merci e dei servizi che avevano assunto forme violente nel
periodo di stabilita.
POI ARRIVA L’ANNO FATALE : IL 1929
Siamo così arrivati all’anno fatale. Nel 1929 l’Italia aveva condotto, ad un punto augurale
l’assestamento della sua economia, stava superando tutti gli ostacoli che la rivalutazione della lira
aveva frapposto al suo progressivo sviluppo industriale, ma, alla fine di quell’anno e all’inizio del
1930, fattori di carattere internazionale la turbarono profondamente.
Il ribasso dei corsi dei titoli fiduciari e dei prezzi all’ingrosso delle merci fu anche da noi il primo
segno della crisi: il miglioramento verificatosi nel 1927-29 aveva consentito prospettive di
estensione in diversi impianti industriali, e di bonifiche agrarie, ma se ne dovette sospendere
l’esecuzione. Diamo alcuni indici sintomatici.
Il carbon fossile e l’energia elettrica sono elementi base di tutta l’attività industriale e
commerciale; il loro consumo fu di 190 nel 1929 rispetto all’indice 100 del 1913, discese a 180 nel
1930, e questa diminuzione misura l’arresto del movimento economico di tutto il Paese. L’acciaio
ha acquistato un’importanza grandiosa in tutte le sue applicazioni; facendo sempre il confronto
coll’indice 100 del 1913 si ha una produzione di 217 nel 1929, di 179 nel 1930, e anche questa
sensibile diminuita produzione che si verifica nel primo anno di crisi è indice manifesto di
depressione economica. Il cotono greggio è la materia prima di tutta l’industria manifatturiera, e
l’Italia, come tutti gli Stati d’Europa, non produce cotone greggio, ma lo deve importare per dare
lavoro ai cinque milioni e mezzo dei fusi di filatura dei suoi opifici; l’importazione del 1929 che
ebbe un indice di 127, che discese a 107 nel 1930; la sua diminuita importazione si traduce in un
freno all’industria cotoniera.
Prendiamo un’altra serie di indici riferendoci sempre alla stessa base dell’anteguerra; e
troveremo ancora un’eccedenza delle entrate sulle spese nel bilancio dello Stato per il 1929: ,a
essa diminuisce nel 1930, come pure si attenua il rapporto fra l’esportazione e l’importazione,
perché tutto il movimento commerciale comincia ad affievolirsi. Il debito pubblico interno che
segnava nel 1929 un indice di 576 rispetto al 100 del 1913, sale a 582 nel 1930, e questo costituisce
un peso; la circolazione bancaria diminuisce a 726 a 701, seguendo il programma di governo; i
prezzi all’ingrosso risentono una riduzione sensibilissima, passando da 418 a 411, e questo
aggraverà la depressione della proprietà agricola e delle grandi imprese industriali.
La violenta perturbazione dell’economia mondiale assottiglia in Italia le correnti del traffico
turistico, indebolisce notevolmente le rimesse degli emigranti, riduce l’ammontare dei noli
percepiti dai nostri armatori per trasporti marittimi internazionali, tende a restringere la
domanda di merci italiane all’estero.
Il risparmio italiano si accresce, perché il denaro si è impaurito di ogni investimento rischioso, e
questo ostacola l’afflusso del capitale straniero, non solo, ma i titoli italiani, che erano stati emessi
o venduti all’estero, ritornano in patria.
A questi disagi, che si possono considerare come elementi d’importazione dall’estero, se ne
aggiungono altri di carattere interno. Comincia a manifestarsi, specie nel secondo semestre del
1930, una contrazione dei consumi; in ogni forma di attività economica la difficoltà di
proporzionare i prezzi di vendita ai costi di produzione riduce i profitti; il saggio d’interesse del
denaro si è elevato, i fidi e finanziamenti a lunga scadenza si sono ridotti, e ne abbiamo la
ripercussione in notevoli dissesti commerciali; il peso degli oneri fiscali genera sofferenze in tutte
le categorie, in tutti i rami.
Ci è grato, però, rilevare che, fin dal primo anno della depressione, l’Italia a differenza di altri
Stati, ha qualche raggio di sole nelle tenebre dell’orizzonte economico: il 1930 ebbe un
andamento proficuo nell’industria saccarifera e una produzione abbondante. Un quello stesso
anno la Banca d’Italia, ritenendo pletorico il numero delle aziende di credito che funzionavano
nel regno, assecondo i concentramenti, favorendo la riduzione delle spese generali e attenuando
la concorrenza per l’accaparramento dei depositi; e la Cassa d’ammortamento, che era stata
istituita nel 1927, annullò al 31 dicembre 1930 ben 789 milioni di lire in titoli pubblici, 649 dei
quali in consolidato.
Malgrado tutti i provvedimenti del Governo, concreatati in opere di vigilanza, di tutela , di
assistenza alla produzione industriale e all’attività commerciale del Paese, la depressione si rese
acuta; e ne abbiamo una manifestazione specifica nell’alta frequenza dei dissesti. Nel 1930 furono
dichiarati 13.610 fallimenti: è stato calcolato che giornalmente, in media, nel 1930 si sono avuti 7
fallimenti e 290 protesti cambiari in più dell’anno precedente:
Dalla statistica del commercio speciale, pubblicata mensilmente dal Ministero delle Finanze,
ricaviamo che l’importazione italiana fu valutata 21 miliardi 907 milioni nel 1929 e discese a 17
miliardi 432 milioni nel 1930: una diminuzione di quasi 4 miliardi e mezzo di lire; l’esportazione
fu di 15 miliardi 246 milioni di lire nel 1929 e discese a 12 miliardi 123 milioni nel 1930; abbiamo
qui una diminuzione di oltre 3 miliardi di lire. Si nota, cioè, complessivamente, un movimento
commerciale di 37 miliardi 153 milioni di lire nel 1929, che discende a 29 miliardi 555 milioni nel
1930.
I primi mesi del 1931 sembravano avere portata la depressione allo stadio acuto di
gravità, tanto che le aziende male amministrate si sono poste in liquidazione e anche le
bene amministrate hanno risentito il peso delle difficoltà finanziarie. La produzione si è
mantenuta discretamente buona e la restrizione del consumo si è affermata in misura
meno forte che altrove.
In agricoltura - Il raccolto del grano, che era stato di quasi 71 milioni di quintali nel 1929,
era disceso a 57 nel 1930, per elevarsi a 66 milioni nel 1931, risalire a 75 milioni nel 1932, e
toccare il massimo di 81 milioni nel 1933; è disceso a 63 milioni 328 mila quintali nel 1934
per risalire a oltre 76 milioni nel 1935. Costatiamo, con legittimo conforto che il
miglioramento alimentare verificatosi in tutte le classi sociali in questi ultimi anni ha quasi
annientato la pellagra che tormentava l’Italia settentrionale. Nel 1925 fu iniziata in Italia,
per volontà del Capo del Governo, la battaglia del grano; e non a caso si volle dare alla
grande impresa una denominazione che è tutto un programma denso di significato;
battaglia, non per i fini da raggiungere per la qualità dei messi, ma per il prestigio e la
santità della causa, per la disciplina che rigidamente richiede. Il risultato è stato così
soddisfacente, che noi possiamo affermare tecnicamente dimostrato questo principio:
l’Italia può e deve ritrarre dalle sue terre tutto il suo pane. Non è necessario aumentare la
superficie coltivata, anzi può diminuirla notevolmente; è necessario invece aumentare il
rendimento medio per ettaro. E risparmiare la superficie coltivata a grano vuol dire
destinare terremo ad altre colture, ai foraggi, alla canapa, al lino, al tabacco, alla bietola,
al riso, secondo la natura del suolo e le attitudini della popolazione e le richieste del
mercato.
Dal grano al vino: la produzione del 1931 è stata eccezionalmente scarsa, ma la restrizione
verificatasi nel consumo ha fatto discendere i prezzi molto bassi; nel 1932 s’è avuta una
produzione relativamente abbondante: 45 ,4 milioni di ettolitri: Il consumo si mantiene
fiacco e le condizioni del mercato si sono peggiorate; rimane alta la quota dei gravami
fiscali, che supera in varie regioni, e per il grado normale del vino da pasto, il prezzo di
vendita all’ingrosso del vino; la crisi diventa penosa. La produzione del 1933 è stata di 33
milioni di ettolitri, nel 1934 di 31 milioni.
La produzione dell’olio d’oliva, che era di 3 milioni di quintali nel 1929, fu minima nel
1930 con 1 milione 344 mila quintali; risali a quasi 2 milioni e mezzo nel biennio 1931-32,
a 1 milione 761 mila nel 1933, a 2 milioni 332 mila nel 1934; malgrado i prezzi abbassati,
la domanda permane limitata e si fanno abbondanti scorte esportabili. La
Confragricoltori in una riunione del febbraio 1933, emise dei voti per conseguire
l’intervento dello Stato al fine di migliorare le condizioni del mercato.
L’industria del cotone: prima della guerra aveva saputo conquistare molti mercati, li
perdette fatalmente in quella parentesi tragica della vita, ma li ha aveva ripresi subito
dopo, poi le difficoltà hanno cominciato a tormentarla. La depressione ha creato dissesti
che hanno portato alla chiusura di vari stabilimenti e hanno stimolato al concentramento
delle imprese. L’industria cotoniera occupava 250 mila operai prima della crisi, li ha
risotti ora a 150 mila: la domanda del prodotto si è ristretta all’interno e all’estero, e i
prezzi si sono abbassati a un tale livello da far scomparire il profitto unitario. Le
esportazioni hanno dato questi risultati: 1 miliardo nel 1931, 735 nel 1932, 610 milioni nel
1933, fino a scendere a 492 milioni nel 1934.
Il complessivo movimento d’importazione e d’esportazione che superava i 4 miliardi nel
1929, si è ridotto a 1 miliardo 293 milioni di lire nel 1934. Un tracollo considerevole.
Un indice sintomatico del progresso industriale di un Paese, potremmo anche dire della sua
importanza economica, è dato dalla produzione del ferro; è il metallo più utile che si conosca, e se
ne hanno, a seconda del contenuto in carbonio, tre varietà: la ghisa, che è il ferro meno puro,
l’acciaio , che si ottiene per decarburazione della ghisa, il ferro dolce, che è il più puro. La
produzione siderurgica mondiale si calcola ora, approssimativamente, attorno ai 200 milioni di
tonnellate, ma erano 300 milioni dieci anni or sono. Quale ne è il contributo dell’Italia? Nel 1929
si produssero 2 milioni 143 mila tonnellate di acciaio greggio e 678 mila tonnellate di ghisa
greggia; nei tre anni successivi la produzione è andata continuamente diminuendo, riducendosi a
1 milione 391 tonnellate di acciaio e a 461 mila di ghisa nel 1932; si è ripresa nel 1933 e nel 1934
risalendo a 1 milione 850 mila di acciaio e a 521 di ghisa.
Per regolare la produzione e l’utilizzazione di questo metallo, fino dal 1929 si costituì un
sindacato fra produttori di laminati, ma non tutti vi aderirono; e siccome questi dissidenti
ostacolavano la finalità per la quale il sindacato era sorto, così un provvedimento legislativo del
gennaio 1932 ha autorizzato il ministero delle corporazioni a disporre la costituzione di consorzi
obbligatori fra gli esercenti dei vari rami dell’industria siderurgica “allo scopo di disciplinare la
fabbricazione e la vendita dei prodotti dell’industria stessa”.
Le industri meccaniche che si differenziano in molteplici imprese, occupavano 227.543 operai alla
fine del 1929; ma questa massa lavoratrice si è ridotta a 127.692 alla fine del 1934: alla distanza
di cinque anni (da quel famoso 1929) troviamo 100 mila occupati in meno, abbiamo, cioè, una
riduzione del 44 per cento. E la depressione, pur così forte, sarebbe stata ancora maggiore, se lo
Stato non fosse intervenuto a sostegno di numerosi stabilimenti.
Un altro metallo, usatissimo nelle industrie per impianti elettrici, essendo buon conduttore, e per
la fabbricazione di numerosi utensili per uso domestico, è il rame; ma la diminuita attività delle
industrie elettriche ne ha ristretto il consumo, che, normalmente, oscillava fra i 65 e 70 mila
tonnellate all’anno.
COMMERCI E TRAFFICI - Tutti gli elementi che abbiamo ricordato fin qui, e che danno
alimento alle svariate forme di produzione economica, li ritroviamo anche nel movimento
commerciale, che si afferma e concreata nei trasporti terrestri e marittimi. Esaminiamoli
_artitamene.
Il traffico dei viaggiatori e delle merci nei trasporti terrestri si è andato indebolendo in misura
opprimente in questi ultimi anni, con una conseguente limitazione di entrate. L’esercizio
ferroviario statale del 1930-31 si è potuto ancora chiudere in pareggio, perché la riduzione delle
entrate si è fronteggiata con un oculato e previdente risparmio nelle spese e con altri
provvedimenti: si è diminuito il personale, si sono lievemente abbassati i salari, si è abolita la
prima classe in servizi per linee secondarie; si sono istituiti dei treni popolari festivi con tariffe
bassissime e si sono fatte larghe concessioni eccezionali per aumentare il traffico in determinati
periodi dell’anno. I veicoli su gomma (auto e autocarri) fanno una concorrenza non trascurabile
al servizio ferroviario, specialmente per i trasporti a piccole distanze. Gli esercizi 1933-34 e 1934-
35 si sono chiusi con disavanzi di oltre 800 milioni di lire.
I trasporti marittimi hanno risentito in misura anche più forte la ripercussione della crisi. Nel
1931 si sentì il bisogno di riunire tre grandi Società di navigazione: la Navigazione Generale, il
Lloyd Sabaudo, la Cosulich; si venne a formare una società unitaria, cui si è dato il nome fatidico
e augurale di Società Italia. Con queste fusioni si sono ridotte le spese amministrative, si sono
eliminate le spese di concorrenza. Anche le maggiori imprese, che esercitavano servizi
sovvenzionati, hanno seguito l’iniziativa della fusione: il Lloyd triestino, la Sitmar. la Marittima
Italiana si sono raccolte in una unica impresa, che ha conservato il nome della prima del gruppo,
costituendo un blocco di naviglio di 320 mila tonnellate.
Poi le due fusioni si sono armonizzate: la Società Italia controlla il nuovo Lloyd per cu tutto il
naviglio italiano agisce sotto una direzione unica, con il concorso provvidenziale dello Stato.
Prima della crisi avevamo assistito ad uno sviluppo eccessivo dei trasporti marittimi; ed era stato
favorito da incoraggiamenti statali non pienamente giustificati. Il ribasso dei noli, inatteso ed
esagerato, la contrazione dei traffici, che ha assunto un aspetto disastroso, hanno smorzato le
speranze del concentramento operato nel 1931; già l’anno successivo ha dovuto registrare un
peggioramento delle condizioni finanziarie della navigazione libera di linea e una sofferenza della
navigazione sovvenzionata. Le svalutazioni della sterlina e delle monete di altri paesi marinari
dovevano congiungersi al ribasso dei noli e alla restrizione del traffico per aggravare la
situazione economica della marina mercantile italiana.
Nel quinquennio 1930-34 sono stati stipulati dagli istituti di credito fondiario 10.841 mutui su
beni rustici per un ammontare di 1 miliardo 875 milioni, e 18 miliardi 949 milioni su beni urbani
per un ammontare di 3 miliardi 268 milioni; complessivamente, i mutui di credito fondiario in
questo quinquennio di depressione hanno avuto un ammontare di 5 miliardi 143 milioni di lire.
Gli istituti di credito agrario, a loro volta, nello stesso quinquennio 1930-34, hanno concesso
1.124.061 mutui d’esercizio per un ammontare di 4 miliardi 251 milioni di lire, e 29.766 mutui di
miglioramento per 884 milioni 496 mila lire. In cinque anni la proprietà fondiaria si è aggravata
di mutui per una somma di oltre 10 miliardi di lire.
I proprietari fondiari, così gravemente colpiti dalla depressione, si caricano di debiti e si trovano
imbarazzati a pagare le rate semestrali di ammortamento. Nei primi quindici giorni di gennaio e
di luglio le sale del credito fondiario, dove si fanno i pagamenti rateali, erano affollate fino a
pochi anni or sono; oggi si trovano deserte; e tutti sono in arretrato. Basterebbe l’arretrato di un
semestre per mandare all’asta il fondo, ma l’istituto pazienta due tre semestri e ora passano
anche questi e le espropriazioni fondiarie sono dovunque numerose: la situazione è preoccupante.
I consorzi agrari, disseminati in tutta Italia, sono gli enti adatti per dare attuazione a questo
provvedimento: come forniscono gli agricoltori di concimi e di strumenti agrari, possono
ricoverare il grano in locali appositi, anticipare al produttore i nove decimi del prezzo di
mercato, venderlo al momento opportuno e al prezzo conveniente, utilizzando i magazzini propri
e quelli dei comuni o di altri enti e degli stessi proprietari fino a che non si siano costruiti in ogni
provincia i silos adatti per questo servizio. Per preparare con la maggior efficacia questa attività
provvidenziale e per assicurare il suo progressivo e vitale sviluppo, si ritiene utile compiere una
serie di operazioni preliminari: una statistica dei produttori, che ci consenta di avere una
indicazione esatta dei granai e locali adatti alla conservazione del prodotto; un accordo con i
grandi mulini per la concessione dei silos e dei magazzini di loro proprietà; una statistica
rigorosa dei consumi della provincia per la distribuzione del prodotto e per l’offerta della
quantità esuberante a quelle province che ne abbiano bisogno.
E allora, perché si assiste alla realtà angustiante di una improvvisa e sensibile svalutazione della
terra, quando la battaglia del grano ha trionfato con un aumento della produzione nazionale e
con esempi mirabili di produzioni che si elevano ai 50, ai 60 quintali per ettaro? E’ stato
osservato dai tecnici che il deprezzamento della terra non può avere che tre cause: l’ignoranza, la
mancanza di capitale per l’esercizio dell’industria agricola, la libidine del possesso. Ebbene,
abbiamo vinto l’ignoranza con l’opera assidua e illuminata delle cattedre ambulanti e dei
sindacati degli agricoltori; ma il capitale difetta e, come abbiamo detto, tutti gli agricoltori
ricorrono al credito, vincolando i prodotti futuri; la libidine del possesso era divenuta,
nell’immediato dopoguerra un gioco di borsa fatto col miraggio abbagliante d’una ricchezza
privilegiata, ma coloro che avevano fatto gli acquisti a prezzi fantastici si trovano ora morosi con
l’esattore delle imposte e col credito fondiario.
Eppure, noi riteniamo che la proprietà fondiaria, percorsa da una malattia fulminea, sia dotata
di tali energie di resistenza da poter evitare il tracollo per entrare in uno stato di convalescenza
risanatrice. Avverranno anche qui le epurazioni e la terra sarà lasciata a quei saggi agricoltori
che ne sanno adeguatamente valutare la potenzialità produttiva e la sanno utilizzate per la
soddisfazione dei bisogni nazionali.
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ALBERTO BENEDUCE
Geniale conoscitore e manovratore dei meccanismi finanziari,
pur non essendo fascista,
lavorò nell'ombra per lunghi anni accanto al dittatore
Fece anche parte del Comitato dell'associazione della Croce Rossa per il soccorso ai
malati e ai feriti in guerra. Fu, infine, presidente della Cassa nazionale di previdenza per
l'invalidità e la vecchiaia degli operai. Se non sapessimo che tutti questi incarichi, per
tacere di quelli secondari, furono una quasi naturale conseguenza del prestigio goduto da
Beneduce, saremmo tentati di sospettare una certa qual mania di protagonismo. Al
contrario, Beneduce fu sempre maestro di discrezione. In pochi anni egli era riuscito a
costruirsi una solida reputazione di uomo al di sopra delle parti, e proprio su questa
immagine di imparzialità e di discrezione (nonché, ovviamente, sulle sue grandi capacità
professionali) che costruì la sua brillante carriera.
È strano constatare quanta poca letteratura esista su una figura così importante per la
storia dell'economia italiana, degna, per il ruolo centrale che ha avuto, di figurare
accanto a personaggi come Einaudi, Vanoni o Mattei, che in effetti godono di ben altra
fama. Poco ha giovato a Beneduce, molto probabilmente, proprio questa vocazione
all'understatement.
Nel 1922, al momento del colpo di stato fascista, Beneduce abbandonò la vita politica e
non si presentò alle successive elezioni del 1924, ma continuò sempre a schierarsi con i
gruppi democratici in tutte le più importanti occasioni di opposizione al fascismo al
quale - inizialmente - sosteneva si dovesse resistere anche con l'uso della forza.
Fu sempre al fianco dei più importanti esponenti progressisti, da Bonomi a Turati ad
Amendola, sia prima sia dopo il delitto Matteotti. A proposito del delitto Matteotti,
considerato come il vero inizio della dittatura fascista, ricordiamo che fu proprio grazie a
Beneduce e al gran maestro della massoneria, Domizio Torrigiani, che l'opposizione
antifascista entrò in possesso del noto memoriale di Cesare Rossi e lo stesso Beneduce si
prodigò perché questo pervenisse al Re Vittorio Emanuele III, e con esso anche il
memoriale Filippelli.
Quella che possiamo senza alcun dubbio osservare in questo caso è una radicale
opposizione al fascismo. Nel maggio 1925, tuttavia, Beneduce fu tra quelli che
premettero per un ritorno in aula degli Aventiniani affinché l'opposizione al governo
fascista si svolgesse all'interno del Parlamento. Non solo, si faceva strada in Beneduce
l'idea che un eventuale collaborazione con i fascisti fosse da prendere in considerazione.
Egli in realtà non fu l'unico in quegli anni a sostenere questa possibilità: come molti altri
esponenti democratici oscillò spesso tra un giudizio completamente negativo sul
fascismo e la speranza che esso rientrasse nei confini della legalità e che dunque fosse
opportuno sperimentare con esso una qualche forma di collaborazione.
Nella seconda metà del 1925, col rafforzarsi del nuovo regime e il frantumarsi
dell'opposizione antifascista, Beneduce si distaccò dagli amici noti per antifascismo e
con un probabilmente molto ben calcolato silenzio sul nuovo corso della vita politica si
dedicò interamente a quelle iniziative pubbliche e private che lo porteranno, di lì a poco,
a una stretta collaborazione col regime fascista. Un silenzio, quello di Beneduce, che
lascia molto spazio alle libere interpretazioni, o meglio che non ne lascia alcuno, perché
nessuno può provare con certezza quali considerazioni abbiano prevalso nelle sue
decisioni.
Forse solo una grande ambizione personale, condita da una ben ponderata dose di
cinismo politico; forse invece un realismo spinto alle estreme conseguenze di accettare
la collaborazione con un regime che altrimenti sentiva di dover decisamente rifiutare,
nella speranza di ricavare uno spazio di libertà e di azione il più ampio possibile. Quali
che fossero le sue motivazioni, dobbiamo dire che i suoi scopi li raggiunse in pieno, se è
vero come è vero che proprio il fascismo lo lanciò in una dimensione ancora più grande
( tanto da diventare, come abbiamo già più volte ripetuto, figura di prima grandezza
della storia economica nazionale), e se è vero anche che il suo rapporto con il regime
non richiese mai riconoscimenti ufficiali, risolvendosi come vedremo in un rapporto
diretto e personale con Mussolini.
Già dal 1926 dunque Beneduce assunse la presidenza della cosiddetta "Bastogi", che
conservava il nome di Società per le strade ferrate meridionali, ma che era in realtà una
società di primissima importanza nel settore elettrico. Evidentemente Beneduce non
partiva da zero, ma si giovava di una solida esperienza sui problemi finanziari sia interni
sia internazionali e soprattutto su una rete di contatti importanti intrecciata negli anni
precedenti. Fin dagli inizi egli poté contare sulla amicizia e sull'appoggio di Stringher e
del potente Volpi, ministro delle Finanze molto ben introdotto nel mondo bancario.
Nel 1927 Volpi stesso lo incaricò di appoggiare il lavoro dello Stringher per la
predisposizione di tutte le lunghe e complicate manovre finanziarie necessarie per
attuare la riforma monetaria. Con il famoso "discorso di Pesaro" dell'estate del 1926
Mussolini si era impegnato - per evidenti questioni di prestigio politico - a difendere il
cambio della lira. In particolare si volle difendere la cosiddetta "quota 90" rispetto alle
sterlina (con grande dispendio di retorica nazionalista, per difendere un cambio che in
realtà sopravvalutava il vero valore di mercato della nostra moneta), e ciò costrinse le
istituzioni monetarie del Paese a un duro lavoro di adeguamento. Anche in questo caso
l'apporto di Beneduce all'elaborazione del provvedimento che fissava a 92,46 il cambio
lira-sterlina (21 dicembre 1927) fu decisivo, e lo fu anche per quanto concerne tutte le
operazioni collaterali tra le quali la sistemazione del debito fluttuante dello Stato e la
definizione degli accordi con le autorità monetarie inglesi e americane.
Comincia dunque in sordina l'ascesa di Beneduce e senza bisogno che questi si esponga
mai dal punto di vista politico: con molta probabilità possiamo credere che egli mai fu
fascista, tanto è vero che più volte Mussolini resistette alle insistenti pressioni di certi
ambienti fascisti che mal tolleravano la persona di Beneduce in così elevati posti di
comando. La forza (e quindi il potere) di Beneduce stava nella grande stima che il duce
in persona aveva in lui.
La documentazione storica su questo strano rapporto personale che legava Mussolini a
Beneduce è piuttosto carente: non si sa molto sulla natura di questo rapporto ma è certo
che la condotta di Beneduce, del resto volutamente circoscritta in ambito puramente
tecnico, era improntata ad una lealtà che non lasciava indifferente Mussolini.
Ovviamente non è il caso di ricamare troppo attorno alla relazione Mussolini -
Beneduce: l'ascesa di quest'ultimo trovava appoggio nel primo ma è altrettanto evidente
che essa è determinata dal modo con il quale Beneduce si seppe muovere nel mare
turbolento dell'economia italiana, in particolare in occasione della crisi bancaria degli
anni Trenta,
alla cui soluzione egli contribuì in modo a dir poco fondamentale.
Lo sguardo va qui allargato su un orizzonte più ampio: nell'autunno del 1929 il crollo
di Wall Street, la borsa più importante del mondo, fa deflagrare una crisi latente, che è
crisi dell'economia reale e crisi finanziaria assieme. Tra il 1929 e il 1932 in tutto il
mondo si assisterà a un drammatica crollo della produzione industriale (il che, sia detto
per inciso, porterà a una progressiva chiusura di stampo autarchico delle singole
economie nazionali, e dunque ad un aumento della conflittualità che avrà il suo ruolo
nello scoppio della successiva guerra mondiale). Ebbene: nemmeno l'Italia sfuggì alla
grande depressione, ma la crisi assunse una forma particolare. Il sistema industriale
italiano infatti aveva subìto una forte accelerazione - soprattutto in alcuni settori - con la
Prima guerra mondiale grazie alle commesse statali.
Questo sistema, comunemente definito di banca mista, aveva in Toepliz, presidente della
Banca Commerciale, il più acceso sostenitore. Esso in effetti aveva dato un contributo
più che notevole al processo di industrializzazione del Paese, ma già fin nel 1921 il crak
della importante Banca Italiana di Sconto (BIS) aveva reso evidente a molti, tra i quali
Beneduce, che la banca mista era troppo esposta al rischio di venire coinvolta
dall'eventuale crisi dell'industria. Una tale commistione di interessi si rifletteva poi nella
composizione dei consigli di amministrazione delle banche e delle imprese controllate (o
viceversa): i dirigenti finivano per essere gli stessi e ciò donava una sfumatura ancora
più ambigua al quadro generale. Durante tutti gli anni Venti il sistema bancario soffrì
visibilmente di questa anomala commistione: oltre alla BIS crollò la Banca Agricola
Italiana (1923) e i fallimenti non si contarono. Il Banco di Roma fu invece salvato,
sempre nel 1923, per motivi di opportunità politica: era appena caduta la BIS e con essa
l'Ansaldo, e inoltre il Banco di Roma avrebbe trascinato con sé moltissimi altri piccoli
istituti di credito.
Non ultimo, esso rappresentava gli interessi di molti gerarchi fascisti e dello stesso
Vaticano. Le prime risposte alla crisi arrivarono concretamente attorno al 1926,
orchestrate dall'attenta regia del solito Beneduce. Dal 1919 egli era presidente del
Consorzio di credito per le opere pubbliche (CREDIOP) e dal 1924 dell'Istituto di
credito per le opere pubbliche (ICIPU), di cui era stato ispiratore e fondatore. Questi due
importanti enti gli avevano consentito di farsi una incomparabile esperienza nel campo
del credito industriale. Egli li aveva gestiti entrambi con una filosofia diametralmente
opposta a quella di Toepliz, il che, come vedremo, lo porterà in seguito ad un inevitabile
conflitto con quest'ultimo.
Nel 1926 la "sezione speciale autonoma" del Consorzio per sovvenzioni su valori
industriali venne organizzata nella forma voluta da Beneduce per una gestione autonoma
delle operazioni di salvataggio. L'istituto venne così in possesso di numerose
partecipazioni azionarie rilevate dalle banche in difficoltà: queste in parte furono
nuovamente cedute ai privati, in parte mantenute sino a quando non le passò all' IRI, la
grande invenzione di Beneduce che diventerà realtà qualche anno più tardi. Nel 1929
infatti, la caduta dei corsi azionari aveva danneggiato soprattutto quelle banche - la
Commerciale, il Credito Italiano, il Banco di Roma - che più di altre partecipavano della
proprietà di imprese industriali da loro stesse finanziate coi depositi.
Dal 1930 al 1933 la crisi andò progressivamente peggiorando, dimostrando una volta
per tutte che il sistema della banca mista era giunto all'epilogo. Inoltre, nel tentativo di
sostenere le imprese in difficoltà, le banche invece di smobilizzare i propri capitali,
intervenivano ancora più pesantemente con l'acquisto di nuove partecipazioni azionarie,
innescando un circolo vizioso pericolosissimo. Le immissioni di liquidità della Banca
d'Italia (che solo dal 1926 era l'unica titolare del diritto di emissione e di controllo dello
stock monetario, nonché di controllo sul resto del sistema creditizio) evitarono il crollo
dell'intero sistema bancario ma non poterono risolvere una crisi che era strutturale. A
questo proposito la maggiore lungimiranza di Beneduce, convinto assertore della
separazione tra credito ordinario e credito industriale, ebbe la meglio sulla ostinata
convinzione di Toepliz, per il quale il salvataggio dello Stato avrebbe dovuto permettere
alla Commerciale (e così alle altre banche) di riprendere la politica sino ad allora
adottata.
Presieduto dallo stesso Beneduce e costituito per regio decreto il 23 gennaio 1933, l'IRI
fu finanziato dalla Banca d'Italia e dal Tesoro e si assunse l'immane compito di
smobilizzare le partecipazioni delle banche miste nelle aziende industriali, operazione
quanto mai complessa anche a causa dell'intricatissimo sistema delle partecipazioni
incrociate. Questo portò l'IRI a possedere azioni in un numero assai notevole di aziende
nei più disparati settori: dalla telefonia alle armi, dalla chimica all'agricoltura, dal tessile
alla meccanica. Caso particolare quello del settore bancario, dove la quasi totalità delle
azioni era costituita dai capitali sociali di Banca Commerciale, Banca di Roma e Credito
Italiano, che si vennero così a trovare sotto controllo pubblico. Dal 1936 esse assunsero
la qualifica di Banche di Interesse Nazionale (le cosiddette BIN), che hanno
conservato fino alle privatizzazioni avvenute in questi anni Novanta.
Tutto ciò fece dell'IRI un mastodonte economico, dalle proporzioni esagerate rispetto a
quasi tutti gli altri gruppi di imprese operanti allora in Italia. Il suo bilancio presentava
dimensioni fuori dall'usuale: all'attivo erano iscritte partecipazioni per circa 8 miliardi di
allora. Una cifra esorbitante, basti pensare che il capitale sociale dell'IMI ammontava a
551 milioni. L'IRI era stato pensato da Beneduce come un ente temporaneo per gli
smobilizzi e per il finanziamento a medio-lungo termine delle piccole e medie imprese.
Esso finì invece per diventare permanente perché le risorse di capitale del mercato
risultarono insufficienti a riassorbire tutte le partecipazioni. Queste difficoltà possono
dare l'idea di come l'azione di Beneduce andasse a toccare l'intero sistema economico
nazionale. Dal giugno 1937 un provvedimento governativo rese l'IRI un ente
permanente e se in un certo senso questa fu una piccola sconfitta per Beneduce è lecito
immaginare che egli si sia adeguato con il suo usuale realismo alla situazione
contingente, sfruttando al meglio le risorse che questa gli metteva a disposizione. Tra
l'altro la ripresa economica del 1935 se da un lato era essa stessa un ostacolo al
riacquisto delle partecipazioni IRI, in quanto gli investimenti del settore privato erano
già impegnati in una fase di espansione, dall'altro aumentò il valore delle azioni a
allontanò il pericolo di nuovi collassi finanziari.
Ciò che però allontanò davvero il timore di nuove crisi fu la normalizzazione dell'attività
creditizia che seguì la legge bancaria del 1936, l'ultimo capolavoro di Beneduce, di cui
la costituzione dell'IRI era stata la premessa indispensabile. Datata 12 marzo 1936 (ed
emendata nel 1937 e nel 1938), la riforma bancaria fu ispirata da Beneduce e suddivise il
credito a breve da quello a lungo termine. Il primo fu assegnato agli istituti di credito
ordinario tra cui le tre banche pubbliche (chiuse all'azionariato estero), le casse rurali e
di risparmio, le banche popolari, le ex banche di emissione (che avevano fino a pochi
anni prima il diritto di stampare lire: tre queste San Paolo, Monte dei Paschi, i Banchi di
Napoli e Sicilia).
Quanto all'IRI, esso venne gestito da Beneduce con criteri privatistici e con la perenne
cautela di mantenere l'intervento statale nei limiti del controllo finanziario, senza
sconfinare nell'ambito della gestione e della programmazione. Egli fu in questo senso un
riformista illuminato: dotato di un senso dello Stato che pochi in Italia prima e dopo di
lui hanno dimostrato, per principio percepì sempre compensi ed emolumenti solo dalle
sue partecipazioni in società private e mai dall'amministrazione pubblica. La sua
impronta sulla forma dell'economia italiana si è conservata praticamente fino ad oggi: gli
ordinamenti finanziari e l'assetto della proprietà dei capitali qualificarono da allora, in
Italia, un tipo di economia "mista" di iniziative pubbliche e private.
LA NASCITA DELLE PARTECIPAZIONI STATALI
Dall'esperienza dell'IRI nacque il sistema delle partecipazioni statali, unico in Europa e
forse nel mondo, una sorta di "terza via" tra liberalismo e socialismo che ha avuto le ben
note degenerazioni di corruzione partitocratica ma che ha anche avuto nel nostro paese
una notevole importanza storica, essendo stato tra l'altro uno dei più importanti terreni di
incontro tra la cultura di sinistra e quella cattolica.
Verso la fine del luglio 1936 Beneduce fu colpito, a Milano, da una grave malattia da cui
guarì solo dopo qualche mese e che lasciò le sue capacità lavorative molto
compromesse. Mantenne la presidenza dell'IRI fino al 1939 nonostante che dopo la
malattia si fossero moltiplicate le pressioni su Mussolini per un suo esonero dalla carica.
Il 4 aprile 1939 venne nominato senatore in quanto ex-ministro e solo allora gli venne
conferita la tessera del partito nazionale fascista (PNF) al quale tuttavia, egli non volle
mai formalmente aderire, limitandosi, come per il passato a manifestazioni di personale
devozione e solidarietà al duce. Poco dopo questa nomina lasciò ogni incarico nella
pubblica amministrazione, comprese tutte le cariche minori. Ripresosi, almeno in parte
dalla malattia, dedicò tutte le restanti energie al governo della Bastogi.
Le "Partecipazioni Statali": un sistema unico in Europa e forse nel mondo, una sorta
di "terza via" tra liberalismo e socialismo. Tanti effetti benèfici ma anche le ben note
degenerazioni che trasformarono le "partecipazioni" nel dopoguerra in un "campo dei
miracoli" tutto italiano, anche questo "unico al mondo". Del resto Pinocchio è nato in
Italia, e di "Pinocchi" nel dopoguerra ne spuntarono fuori un reggimento, sotto la regia
di alcuni singolari personaggi con la vocazione a fare il "gatto e la volpe".
Questa è la pagina del più grande mistero d'Italia. Un mistero su milioni di miliardi.
Ma che cosa hanno lasciato Mussolini e Beneduce? In
quali mani è andato a finire tutto quel ben di Dio che si chiamava IRI ecc.
? E chi ha preso soldi (banche e privati) dove si è cacciato? Ha creato
un'azienda sua o degli italiani? RISPOSTE Dopo la guerra lo
slogan fu uno solo su ogni cosa: "Chi ha avuto ha
avuto, e chi ha dato ha dato"
A tutte queste 4 domande rispose con una famosa inchiesta UGO ZATTERIN nel 1950,
svelandoci molti retroscena. La prima domanda è - cosa ha lasciato?- la singolare e
inquietante risposta è "...nessuno ne sa niente", anche se molti su quel "Ben di Dio" ci
hanno messo le mani, e molti vanno affermando con disinvoltura "...si ho ricevuto
qualcosa, ma non ricordo quanto, come e quando".
Infatti l'Ente che aveva erogato i finanziamenti, o non possiede una lista, oppure se ne
aveva una, quest'anno (1950), prima ancora di fare verifiche e chiedere i rimborsi,
improvvisamente viene sciolto. Da chi è perchè? un mistero !
I soliti "poteri forti" nell'ombra di qualche "salotto buono" zitti zitti, si spartirono il
"malloppo".
Reciproco patto:
"Io non so nulla cosa hai tu ricevuto, e tu non sai nulla cosa ho ricevuto io;
chiaro?".
Un vago accenno su certi traditori che "hanno solo improntitudine e gola di guadagno"
Mussolini lo fa nella sua ultima intervista, cinque giorni prima di essere catturato a
Dongo, ma già lo aveva fatto con molto anticipo in quel 25 ottobre del 1938 quando in
modo sprezzante si rivolse a "quel mezzo milione di vigliacchi borghesi che si annidano
nel nostro Paese". Ai quali negli anni precedenti aveva offerto tutto, denari, onori,
prestigio e in molti settori il bastone di comando.
Infatti, finita la guerra questa grande labirinto finanziario è diventato tortuoso per tutti.
Ma a muoversi dentro con disinvoltura qualcuno è però rimasto. Le "eminenze grigie"
del "potere forte" e delle "regie occulte" il filo di Arianna loro lo hanno bel saldo in
mano. "L'uomo che sapeva tutto" ed agiva nella massima discrezione i degni eredi li
aveva lasciati, ma erano altrettanto silenziosi e discreti quanto lui. Mai, il primo
(Beneduce) rilasciò in tanti anni una sola intervista, come poi suo genero (Cuccia) nel
complessivo arco di un intero secolo. Cioè 100 anni di imprenditoria italiana avvolta nel
mistero.
Ugo Zatterin inizia così la sua inchiesta, uscita nel marzo del 1950, su Oggi:
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Una terza categoria, la più vasta e più complessa, raccoglie invece imprese finanziarie o
industriali, con personalità giuridica, bilancio, patrimonio e dipendenti propri, nelle quali
lo stato interviene alla pari con i cittadini, partecipa alla fondazione apportando capitali
liquidi o in natura (es. Agip), Banca Nazionale del Lavoro, Istituto Mobiliare Italiano,
IRI ecc.); o acquista direttamente delle azioni (esempio Monte Amiata, Cogne,
Cinecittà); o diventa azionista indiretto, quando il pacchetto azionario sia in possesso di
un ente creato sostenuto con capitale statale (es. tutte quelle imprese dipendenti
direttamente o indirettamente dall'IRI, che sono centinaia, ma che ognuna ne controllano
a loro volta altre centinaia - che spesso prosperano perchè sono fornitrici delle prime).
E' una massa fluida e caotica, di estensione imprecisata un intreccio aggrovigliato, una
tela di ragno di nomi, sigle, cifre. Per tutti inestricabile. Perchè sottratte alla vista, o
perchè dissimulate, o perchè mascherate, o perchè messe con noncuranza nel mucchio.
Ognuna di queste entità, nel suo piccolo o nel suo immenso sforzo di espansione,
partecipa a sua volta alla vita di altri enti e organismi, come fondatrice o come azionista,
direttamente o indirettamente, così i tentacoli dello Stato si allungano e si moltiplicano
forse suo malgrado nel sottobosco parastatale, penetrando nella finanza e nell'industria
privata, aumentando oneri, doveri, responsabilità e pericoli per il pubblico denaro.
L'intreccio divenne in certi casi miracolistico. L'industria veniva finanziata da una banca
sottraendogli azioni e mettendo i propri funzionari nei consigli d'amministrazione,
oppure la stessa industria sottraeva azioni alla banca ed entrava nei consigli
d'amministrazione della stessa con i propri manager o gli stessi proprietari, così
attingeva al credito facile con il risparmio. Questo dopo che lo Stato aveva finanziato sia
la banca che l'industria medesima. (E chi era questo Stato? Ma la "fata turchina!")
Questo gigante dai piedi di argilla che è l'Iri, può così vantare (allora, nell'immediato
dopoguerra e ancora oggi (anno 1950 Ndr.) il suo dominio su un quarto (!) di tutta la
"raccolta" bancaria italiana, un quarto (!) della produzione elettrica nazionale, il 57 (!)
per cento dei telefoni attivi, il 43 (!) per cento della produzione siderurgica, l'80 (!!!) per
cento delle costruzioni navali, oltre che su notevoli quote nell'industria meccanica
minore. Nei suoi registri di impersonale e caleidoscopico padrone, sono segnati i nomi
della Banca Commerciale, del Credito Italiano, del Banco di Roma, del banco di Santo
Spirito (le altre banche, Il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia, la banca del Lavoro, il
Monte dei Paschi e la banca Popolare di Novara sono istituti di diritto pubblico, onde lo
Stato complessivamente ha in sua mano più che il 95 (!!!!) per cento dell'attività
creditizia), tra le sue aziende elettriche è presente il gruppo SIP, con la RAI, la Cetra, la
Sipra, e la casa editrice che li difende; tra le telefoniche figura la STET, con la TELVE e
la TIMO; attraverso la "holding" FINSIDER si fanno avanti la TERNI, l'ILVA, le
acciaierie di Conegliano, e di Dalmine; nella FINMARE confluiscono la società di
navigazione Italia, il Lloyd Triestino, l'Adriatica e la Tirrena; la FINMECCANICA
raccoglie i cantieri Ansaldo, i cantieri riuniti dell'Adriatico, il cantiere di Trieste, la
Odero-Terni-Orlando e la Navalmeccanica; in appendice seguono anche la San Giorgio,
la Metalmeccanica, l'Alfa Romeo, la Motomeccanica, la Filotecnica Salmoiraghi, l'ex
silurificio di Napoli.
Ma lo Stato attualmente non solo non è riuscito ad organizzare con un unico piano tutte
le sue "partecipazioni", ma neppure a coordinare la gestione di ciascuna azienda dove il
mosaico dei funzionari designati dal tesoro, dalle finanze, dall'industria, dal commercio
estero, dall'agricoltura, e da altri ancora, fa sì che ogni amministratore agisca
indipendentemente dagli altri, come se il proprio ministero soltanto abbia vera
importanza, e il resto siano degli inutili intrusi.
Vien subito da riflettere che un governo capace di manovrare l'IRI come si usa uno
strumento organico ed articolato, potrebbe controllare senza fatica tutta (!!!) l'economia
nazionale, imprimerle i più utili indirizzi, dirigerla (!!!) secondo l'interesse economico e
sociale del Paese.
Il controllo c'è, viene fatto puntualmente, con una monotona meccanicità, ma con dubbia
armonia, dalla direzione del demanio e dalla ragioneria centrale, cioè dal ministero del
Tesoro e dal ministero delle Finanze da cui rispettivamente esse dipendono. Uno non sa
cosa fa l'altro. (sembra un vero e proprio "patto di ferro" reciproco. Ndr.)
Meticolosi controlli, nessun calcolo sbagliato, nessuna virgola fuori posto, nulla sfugge
all'occhio vigile dei vari Ispettorati. Il riscontro è perfetto, meticoloso, la legge può
riposare tranquilla. Ma è sufficiente questa pulizia formale perchè il Paese possa
anch'esso riposare tra due guanciali?.
Nel complesso dell'IRI, l'insufficienza del controllo statale è ancora più palese.
Organismi di grande impegno economico e politico come l'Ansaldo o la banca
Commerciale, rendono conto della loro vita una volta all'anno in un'assemblea dove lo
Stato è rappresentato da un timido delegato IRI , il quale a sua volta riceve istruzioni da
un mastodontico istituto che, per recenti disposizioni fa capo assai genericamente al
Consiglio dei Ministri e si limita a presentare alle Camere un altrettanto generico
bilancio annuale. Chi dunque potrà giudicare obbiettivamente quali imprese meritino il
danaro dello Stato? Chi potrà valutare a nome dello Stato l'economicità delle singole
gestioni? Chi si preoccupa di inquadrare l'attività di ogni "partecipazione" nella politica
generale del governo? Chi deciderà l'eliminazione degli Enti superflui? Chi si prenderà
la briga di portare a termine le liquidazioni, alcune delle quali durano da lustri (es. il
Credito Marittimo è in liquidazione dal 1925) e che dureranno probabilmente fin che un
liquidatore e alcuni impiegati non rinunceranno al proprio stipendio e fin quando
andranno in pensione.
Apatia, abulia, forse una vena abile di corruzione, hanno finora ridicolizzato le
"partecipazioni finanziarie" dello Stato. Una successione di interventi massicci, che
costituisce già lo schema formale di una autentica nazionalizzazione, è praticamente
manovrata da una ventina di famiglie, cui appartengono le chiavi dei principali consigli
di amministrazione. Ogni azienda procede infatti per suo conto e per suo conto succhia
quattrini all'erario. Un consigliere delegato o un direttore generale sono i veri padroni
che di solito rammentano l'esistenza di una "partecipazione" dello Stato al momento di
pagare i salari alle esuberanti maestranze. Un principio è stato solennemente canonizzato
nella vita dell'IRI: più un'azienda è pesante e malata, tanto minore in proporzione è la
presenza del capitale e del rischio privato. Una conclusione è stata accettata senza
ribellione: che le società IRI rappresentino un curiosissimo tipo di impresa, in cui la
minoranza privata trova quasi sempre i mezzi per imporsi alla maggioranza statale.
Il nostro governo ha seguito finora la strada peggiore per un vero capitano d'industria.
S'è lasciato guidare dalla piazza e dalla demagogia, ha fatto la politica di Di Vittorio e
quella delle clientele. Ha garantito obbligazioni industriali per centinaia di miliardi e non
è stato capace nemmeno di segnarsele tutte su un pezzo di carta, come farebbe uno
strozzino qualunque, così da sapere il totale dei rischi a cui si è esposto. O almeno dove
mandare una lettera di sollecito quando ne pretende la legittima restituzione.
I suoi uomini di fiducia il FIM li sceglie con criteri che esulano quasi sempre
dall'economia e dal buon senso. Es. alla Ducati di Bologna, estromessi i fondatori
(ovviamente tecnici), la direzione è stata affidata ad un ex direttore di banca
(ovviamente non tecnico). Alla Breda viene nominato commissario governativo il
presidente di una associazione calcistica romana, che si desiderava sostituire nella sua
carica sportiva. Dai campi di calcio alle locomotive.
Adesso all'IRI, il più importante organismo della ricostruzione italiana, in testa alla lista
dei possibili presidenti è il senatore Corbellini. Nell'accettare la candidatura senza
esitazione, si è spiegato chiaramente: "Se D'Aragona ha potuto prendere il mio posto alle
ferrovie, io posso benissimo diventare presidente dell'IRI".
Guidare le aziende certi funzionari lo hanno preso per uno sport, da praticare
dilettantisticamente nel tempo libero, un giorno quì e un giorno là.
Al FIM ora faranno il funerale dopo aver in due anni e mezzo prestato, con risultati
modesti, 65+15+10 miliardi (pari a 2500 di oggi anno 2000) alle industrie meccaniche;
lo accompagneranno al cimitero critiche e minacce e una polemica mai finita. Il compito
cui doveva far fronte era arduo: intervenire in quella "crisi di riconversione" in quelle
aziende attrezzate soprattutto per la guerra, per sostituire macchinari, riconquistare i
mercati perduti, diminuire i costi, migliorare i prodotti.
Qualcosa si è ottenuto, alcune aziende non grandissime (Marelli, Tosi, Macchi, Galilei,
Piaggio, Borletti, Siemens, Siai e altre) hanno preso prestiti e li hanno restituiti fino
all'ultima lira compresi gli interessi e hanno ripreso a vivere di vita propria.
Quelle invece dove le commesse di guerra nel passato incidevano per una buona metà
della produzione normale, dopo nutrite e ripetute iniezioni di miliardi che hanno
permesso di sostituire i macchinari vecchi con i nuovi, sono state poste in liquidazione
per quattro soldi (aziende "buttate via come ciabatte", è l'espressione di un ministro
competente). Poi dopo aver messa in liquidazione la stessa FIM i grandi complessi che
le hanno assorbite quelle aziende ora non pagheranno nemmeno una lira. Saranno
doppiamente premiate. Hanno speso quattro soldi e si sono liberate di fastidiose
concorrenti.
Tutto a spese del contribuente.
E dunque morto il FIM. Liquidato. L'ultimo espediente con cui si era cercato di dare
ossigeno all'economia italiana. Ma l'intervento disordinato e incompetente si è rivelato
alla fine in un'opera di beneficenza sproporzionata con risultati raggiunti molto modesti.
Vogliamo pensare che sia accaduto solo per i primi due motivi - ma allora è giusto che
l'economia sia libera e non più controllata dallo Stato con commissari governativi,
magari stimatissimi, ma inidonei, perché sommersi dai problemi tecnici, dalle camarille
e dal gioco sotterraneo degli interessi che si svolgono intorno alle grandi aziende.
La lezione può servire, per le sorti dell'industria italiana, che dipendono da ben altre cose
che dalle raccomandazioni di De Gasperi, dall'intransigenza di Pella, dalle minacce di
Togni e tanti altri. E' mille volte allora più giusto credere nella libertà e continuare a dare
fiducia all'iniziativa privata, anche dentro le piccole aziende, dove un industriale
intelligente può escogitare mille soluzioni per rendere prospera la propria azienda, senza
dover ripetere - come fanno invece i grandi complessi- il monotono ritornello
dell'inflazione, minacce di licenziamenti, fisco esoso, o chiedere svalutazioni della
moneta per le proprie esportazioni. Altrettanto di monotona vacuità il "piano" che
sbandiera la CGIL, panacea universale di tutti i mali. Il risultato di entrambi è la solita
minaccia di questa serrata o di quello sciopero, che fa spegnere i sogni del più capace
pianificatore costretto a rompere sempre l'equilibrio di intelligenti programmi.
Ma non ci illudiamo. Le "partecipazioni" ci sono ancora; tanti enti come il FIM ci sono
ancora; e a Roma esiste ancora la inveterata consuetudine di spedire nelle fabbriche
lombarde, emiliane, piemontesi, degli ottimi -non lo mettiamo in dubbio- professionisti
romani, forse stimatissimi a palazzo di Giustizia, ma troppo facili a restare sommersi da
problemi che non capiranno mai. I loro piani andranno sempre a catafascio, i miliardi
arriveranno sempre non nel posto giusto oppure fuori tempo, e il disordine invece di
diminuire aumenterà; ovviamente a spese del contribuente.
A "lungo termine". Significa tanti anni. Quanto costerà al Paese quest'altro carrozzone,
lo sapranno forse solo i nostri figli o addirittura i nostri nipoti".
UGO ZATTERIN, Oggi, marzo 1950