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Collana

Studi e ricerche
13
Copyright © 2006 by ISTITUTO STORICO DELLA RESISTENZA
E DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
NELLA PROVINCIA DI PISTOIA

Piazza S. Leone, 1 - 51100 Pistoia


Tel e Fax 0573 32578

In copertina: Il Narodni Dom di Trieste dopo l’incendio operato


dalle squadre fasciste il 13 luglio 1920.
ISTITUTO STORICO DELLA RESISTENZA
E DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA NELLA PROVINCIA DI PISTOIA

STEFANO BARTOLINI

Fascismo antislavo
Il tentativo di “bonifica etnica”
al confine nord orientale

Presentazione di

Roberto Barontini

PISTOIA 2006
A mio padre
Indice

Prefazione di Roberto Barontini 4

Premessa 9

I - Il confine nord orientale italiano


Un accenno alla storiografia 13
Un confine mobile 20
La situazione delle nazionalità 26

II - Il fascismo
Il fascismo di confine 31
Il fascismo antislavo e la snazionalizzazione:
cultura, ideologia e politica 36

III - La persecuzione antislava


Tappe e strumenti principali 61
La proibizione delle lingue slave 71
L’italianizzazione di nomi, cognomi e toponimi 80
La liquidazione delle istituzioni culturali: stampa, scuole,
associazioni 92
Il problema del clero slavo 102
La bonifica etnica 115

Carte 135
Bibliografia 145
Prefazione

In questi ultimi tempi il tema della Storia di quanto è avvenuto nelle


aree di confine fra Italia e Jugoslavia nell’arco dei decenni che vanno dalla
Prima guerra mondiale al periodo successivo alla Seconda guerra mondiale,
ha avuto una particolare risonanza sia a livello storiografico che politico ed
istituzionale.
L’istituzione della Giornata del Ricordo del 10 febbraio è la testimonian-
za più evidente di questa particolare attenzione.
Risulta pertanto molto importante pubblicare un contributo di studio e
di ricerca sulle vicende delle aree di confine proprio perché, secondo noi,
occorre approfondire con obbiettività e professionalità e adeguata documen-
tazione uno scenario molto complesso, spesso trascurato, talora demagogi-
camente mistificato. Il lavoro di Stefano Bartolini ha proprio la caratteristica
di un saggio che non consente interpretazioni soggettive ma che si basa su
documentazioni oggettive.
È facile e spesso scontato parlare esclusivamente dell’esodo o dell’atroce
realtà delle foibe senza risalire alle profonde cause di un conflitto tra ideo-
logie radicate nel nazionalismo, senza confrontare i fondamenti culturali e
sociali che stanno alla base delle varie etnie senza dire come, quando e dove
la crudele attività di denazionalizzazione o l’inaccettabile rappresaglia dei
vincitori si sono concretizzate.
Stefano Bartolini contribuisce con il suo lavoro a dare uno spessore al ri-
cordo, a dare una motivazione oggettiva alle varie interpretazioni di parte.
Il nostro Istituto ha una chiara ambizione: quella di contribuire con l’im-
pegno dei nostri giovani ricercatori, e Stefano è uno di questi, a cercare
il più accuratamente possibile la verità storica pur nella convinzione che
se la Storia è maestra di vita, la vita è anche investita dalla consistenza e
dallo spessore dei fondamenti ideali e dei presupposti etici. È naturale ed
incontrovertibile quindi il fatto che, avendo il nostro Istituto, il ruolo statu-
tariamente documentato, di ricercare con diligenza ed impegno le origini,
le vicende storiche, le conseguenze politiche e civili del fascismo e di far
affiorare la grande temperie dell’antifascismo noi non potevamo affrontare
la questione “jugoslava” senza porre il dito nella piaga dai contorni atroci
scavata in una terra complessa per il frammentarsi ed il segmentarsi delle
etnie, dalla azione di pulizia etnica compiuta da chi poneva il nazionalismo
esasperato, l’ideologia della razza e l’aggressività dell’imperialismo alla
base della propria esistenza.

Roberto Barontini
PRESIDENTE DELL’ISTITUTO STORICO DELLA RESISTENZA
SOCIETÀ CONTEMPORANEA NELLA PROVINCIA DI PISTOIA
E DELLA
Premessa

«La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale “giorno del ricordo” al


fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di
tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani
e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine
orientale»

Così recita l’Art. 1 della legge 30 marzo 2004 N° 92. Una legge che ha
senz’altro il merito di decretare la fine di una lunga epoca di silenzi e omis-
sioni da parte dello Stato, il quale, per ragioni squisitamente politiche, stese
un velo di oblio sui tragici fatti sopra menzionati, restituendo dignità alla
memoria delle vittime e di tutti coloro che patirono per quei tragici eventi.
Una legge che però manca, ancora una volta, di riconoscere le responsabi-
lità italiane nel dramma del confine giuliano, limitandosi e rimandare ad
una innocua e fumosa «complessa vicenda del confine orientale», secondo
una linea da sempre seguita da tutta la classe dirigente del nostro paese e
da tutti i suoi governi, impregnata di vittimismo ed intenta a rimuovere dal-
la memoria pubblica le macchie del nostro passato, dipingendo gli italiani
come un popolo di “brava gente”, mai protagonisti di crimini efferati ma
solo vittime.
Nonostante nel 1993 lo Stato italiano si fosse impegnato, di concerto
con la neonata Repubblica slovena, a far luce su tutti gli aspetti controversi
nella più recente storia dei rapporti fra italiani, sloveni e croati, producendo
documenti molto equilibrati, dobbiamo dunque registrare l’ennesima occa-
sione mancata.
Dentro a quella “complessa vicenda” si situa la violenta persecuzione
antislava attuata dal regime fascista, con i suoi accenti razzisti. Una storia
riservata agli addetti ai lavori ma sconosciuta alla gran parte degli italiani.
Una storia rispetto alla quale non possiamo stabilire un nesso di causa-ef-
fetto con quanto avvenne dopo, grossomodo fra il 1943 ed il 1954 quando
Trieste tornò all’Italia, in cui intervennero altri fattori specifici e decisivi,
ma essa ebbe comunque sia un proprio peso determinante nel portare a quei
risultati.

9
Premessa

In questo lavoro ho cercato di illustrare la peculiarità antislava del fa-


scismo tout court e di quello ”di confine” in particolare. Di mettere in luce
l’antislavismo come parte integrante della generale ideologia fascista. Ho
cercato di spiegare la scelta della italianizzazione degli sloveni e dei croati
mettendola in relazione ad aspetti culturali dell’epoca ed alle mire balcani-
che del nazionalismo italiano, passate nell’imperialismo fascista, e come
essa convivesse con un programma, apparentemente di segno opposto, mi-
rante all’espulsione. Vista da quest’angolazione la persecuzione di sloveni e
croati appare come il precedente che guida quanto avverrà dopo l’invasione
della Jugoslavia, nei cui territori si dispiegò un azione che può essere letta
come una sua estensione estremizzata. Ho tentato di vedere il ruolo svolto
dalle idee di nazione italiana, di razza italiana, di civiltà italiana nel guidare
la snazionalizzazione. Ho cercato di descrivere l’immagine dei popoli slavi
circolante nel ventennio. Di rintracciare un modello di razzismo italiano
autonomo nell’atteggiamento tenuto verso queste popolazioni, traendone
spunti comparativi con le politiche verso l’altra minoranza importante, i
tedeschi, e con quelle verso i più noti destinatari delle attenzioni del raz-
zismo fascista, africani ed ebrei. Mi è parso che qui si potessero saggiare
diversi aspetti: l’alleanza fra Chiesa e regime; le aspirazioni totalitarie fa-
sciste; l’esigenza di estromissione delle differenze precipua nella dittatura e
in un nazionalismo esasperato che riduce tutto all’unità; la distruzione delle
opposizioni; l’importanza del “culto della romanità” nel determinare scel-
te concrete; la funzione mobilitante affidata ai miti ed all’agitazione dello
spauracchio del nemico; i rapporti di continuità con l’Italia liberale; i limiti
del fascismo. Ho cercato, infine, di rendere conto di come da questo insieme
eterogeneo si passasse alla realtà concreta della persecuzione, riferendo alle
volte piccoli esempi che riportino ad un vissuto quotidiano, tenendo sempre
fermi gli agganci con quanto, contemporaneamente, avveniva all’esterno, in
connessione con i rapporti con lo stato jugoslavo, e all’interno, nel processo
di costruzione dello stato totalitario, tentando di restare fuori da un ottica
tutta schiacciata sul localismo.
Mi è sembrato che nell’atteggiamento italiano si possano riscontrare gli
elementi propri dell’”etnocentrismo”, categoria di analisi prettamente antro-
pologica, e cioè di un’«atteggiamento valutativo – che può esprimersi sia in
giudizi sia in azioni – secondo il quale i criteri, i principi, i valori, le norme
di un determinato gruppo sociale, etnicamente connotato, sono considerati
dai suoi membri come qualitativamente più appropriati e umanamente au-
tentici rispetto ai costumi di altri gruppi […] esso non consiste di solito in
una valutazione meditata delle differenze culturali tra i vari gruppi umani e

10
Premessa

poi nel previlegiamento conclusivo della propria cultura. Per etnocentrismo


si intende, al contrario, un atteggiamento pregiudiziale caratterizzato da:
una differenziazione qualitativa; una rivendicazione più o meno accentuata,
esplicita e convinta delle qualità autenticamente umane della propria cul-
tura; una classificazione-relegazione degli altri in un’unica categoria […]
a cui non si riconoscono gli attributi che caratterizzano la vera umanità»,1
qui declinato in un italocentrismo, e nell’azione fascista i connotati tipici
dell’”etnocidio”, «la distruzione sistematica di una cultura»,2 tant’è che per
descriverla gli storici hanno coniato il termine di “genocidio culturale”.
Non mi è parso un esercizio inutile. Riflettere e prendere coscienza della
sorte che toccò entro i nostri confini ai croati ed agli sloveni e sull’azione
condotta dal nostro paese in Jugoslavia durante la guerra è senza dubbio
fondamentale in un presente in cui l’Italia svolge un ruolo importante, di
primo piano, e rivendicato, nel processo di traghettamento verso l’Unione
europea degli stati ex-jugoslavi, di ricostruzione dell’economia e, termine
assai in voga, della democrazia in una parte d’Europa devastata da dieci
anni di “guerre jugoslave”. Per di più con una notevole presenza militare in
alcune di quelle aree, come il Kossovo, dove i precedenti della presenza ita-
liana durante il secondo conflitto mondiale sono tutt’altro che rassicuranti,
precedenti che brillarono per la loro mancanza nel dibattito sulla missione
di pace nel 1999. Le recenti affermazioni del nostro Ministro degli esteri,
«L’Italia ha una sua naturale proiezione nei Balcani ed una storica voca-
zione all’impegno in quell’area. E in questa chiave che vanno lette sia la
nostra presenza militare, così autorevole, articolata ed apprezzata, sia la
nostra capillare penetrazione economica. […] Possiamo rallegrarci di es-
sere presenti nei Balcani in posizioni così influenti e tali da consentire un ul-
teriore rafforzamento del nostro ruolo»,3 ci invitano a meditare sul passato.
Oltretutto, in un’epoca in cui è all’ordine del giorno in maniera sempre
più urgente, la questione dell’integrazione nelle nostre società dei numerosi
immigrati provenienti da ogni parte del mondo, con le loro culture, tradizio-
ni e costumi, mentre da più parti si alza la voce di chi sostiene che sia in atto

1
La definizione che usiamo è quella data dall’antropologo italiano Francesco Remotti. Voce Etno-
centrismo, di F. REMOTTI, in Enciclopedia delle scienze sociali, vol. III, Roma, Treccani, 1993. p.
658. Cfr: Voce Etnocentrismo di R. MALIGHETTI, in Dizionario di antropologia, a cura di U. FABIETTI
e F. REMOTTI, Bologna, Zanichelli, 1997, p. 273, che da la stessa definizione.
2
La definizione è tratta da Voce Etnocidio di R. MALIGHETTI, in Dizionario di antropologia…, cit.
p. 274.
3
Intervista a Gianfranco Fini contenuta in I Balcani non sono lontani, Quaderni speciali di Limes,
Roma, Gruppo editoriale l’espresso, 2005, p. 22.

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Premessa

uno “scontro di civiltà”, il ritornare a pensare ai problemi che si misero in


moto quando si procedette ad incaute, sprezzanti ed autoritarie politiche di
assimilazione e nazionalizzazione, propugnando alla loro base la supposta
superiorità di una civiltà su un’altra, e certamente un sano, ed utile, esercizio
mentale.

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I
Il confine nord orientale italiano

UN ACCENNO ALLA STORIOGRAFIA

Tra le due guerre mondiali il nostro paese si rese protagonista di una po-
litica persecutoria su vasta scala di cui furono vittime le minoranze slovene
e croate, alcune centinaia di migliaia di persone, che si trovarono all’interno
dei confini italiani dopo la fine nel primo conflitto mondiale. La persecuzio-
ne mirò all’espulsione e, di pari passo, alla snazionalizzazione, di queste due
popolazioni. Tali pratiche presero il via, in modo incerto e contradditorio,
già sotto gli ultimi governi dell’Italia liberale per poi proseguire, più siste-
matiche, negli anni della dittatura fascista estendendosi, durante la guerra,
ai territori della Jugoslavia annessi al Regno d’Italia dopo l’invasione delle
forze dell’asse nel’41.
La storiografia italiana ha tralasciato di inserire queste vicende all’inter-
no della nostra storia nazionale, relegandole ad aspetti locali, rilevanti ma-
gari nel contesto territoriale in cui si svolsero ma negandone implicitamente
lo status di eventi influenti in una più generale storia italiana, più specifi-
catamente in una storia dell’Italia nel periodo fascista. La persecuzione di
sloveni e croati fu, al contrario, parte integrante della politica del regime,
con risvolti nelle scelte del fascismo tanto verso l’interno quanto all’esterno,
ed ebbe un ruolo ed un posto non da poco nella sua costruzione ideologi-
ca. Così, alle molte pubblicazioni a dimensione regionale, ai tanti studi che
restano però confinati ad una visione complessiva ristretta, localistica, pur
avendo magari una diffusione più ampia come conseguenza dell’essere pub-
blicati da case editrici famose, fa riscontro una mancanza, una trascuratezza,
di questi temi nei lavori che globalmente si occupano della storia italiana,
della storia del fascismo, dove al massimo si possono trovare solo accen-
ni. Queste vicende non sono state semplicemente sottovalutate, sono state
messe da parte, in un processo che ha coinvolto gli altri momenti storici che
riguardano genericamente i rapporti dell’Italia e degli italiani coi popoli e
gli stati balcanici loro vicini. La storiografia italiana si è rivolta, infatti, con

13
I - Il confine nord orientale italiano

ritardo ed in maniera imbarazzata a questo versante, anche per quel che ri-
guarda gli eventi bellici svoltisi in Jugoslavia dal ’41 in poi. Concordo con
Sala nell’affermare che a questo proposito ha operato una sorta di “disa-
gio della memoria”, ci si trova davanti ad un “passato ibernato”. «Manca
[…] una diffusa consapevolezza dei rapporti tra il nostro paese e le società
balcaniche lungo il corso del Novecento» «l’introiezione dell’esperienza
balcanica non era destinata a tramutarsi di necessità in memoria storica
collettivamente consolidata».4 Ed infatti non è solo l’insieme delle misure
antislave prese dal regime a rimanere sconosciuta ad una gran parte degli
italiani, ma è la stessa presenza di minoranze slave all’interno del paese a
costituire un argomento di cui molti non sono a conoscenza.
A questa “difficoltà della memoria” hanno sicuramente contribuito, sia
nella storiografia che nel discorso politico e nella società, gli eventi dram-
matici, veri e propri traumi, a cui andarono incontro le comunità italiane
del confine nord-orientale, cioè gli infoibamenti, sui quali negli ultimi anni
la polemica politica ha molto insistito, ed il tragico esodo degli italiani del-
l’Istria. Ma anche la politica fascista verso le minoranze ed il comporta-
mento tenuto dalle truppe italiane nei Balcani. Nel dopoguerra erano, questi
ultimi, argomenti imbarazzanti per un’Italia democratica impegnata a di-
fendere le proprie rivendicazioni territoriali contro le pretese jugoslave. Si
preferì, allora, evitare di fare i conti con quel passato, chiudendolo veloce-
mente. Agì in questo senso anche la volontà di non consegnare alla Jugosla-
via nemmeno uno dei centinaia di militari e civili italiani richiesti per essere
processati come criminali di guerra. Una vicenda che fa parte integrante
della questione relativa al cosiddetto “armadio della vergogna”, l’insabbia-
mento cioè dei processi a carico dei criminali nazifascisti per gli atti efferati
compiuti durante il biennio ’43-’45. Come la più recente ricerca storica ha
messo in evidenza, accanto al lavoro svolto dalla Commissione parlamen-
tare d’inchiesta sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi ai crimini
nazifascisti, la moneta di scambio fu, da una parte, il rilancio di accuse agli
jugoslavi accusati, giustamente, di essere i responsabili della morte di cen-
tinaia di italiani, in gran parte infoibati, dall’altra la rinuncia a richiedere
l’estradizione di quei tedeschi responsabili di crimini contro la popolazione
italiana per essere processati. Non si poteva negare da un lato per poi chie-
dere, con gli stessi argomenti, dall’altro. Al contempo, si neutralizzavo le

4
T. SALA, Tra Marte e Mercurio. Gli interessi danubiano-balcanici dell’Italia, in Fascismo e poli-
tica di potenza, di E. COLLOTTI, Milano, La Nuova Italia, 2000, pp. 205-208.

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Un accenno alla storiografia

richieste jugoslave con altre accuse. Ovviamente la manovra, per poter fun-
zionare, necessitava che tutto questo cadesse nel silenzio e nell’oblio, non
certo di interesse da parte dell’opinione pubblica né tantomeno di ricerche
indipendenti sulla materia.5
Nella cultura italiana, nella percezione che gli italiani hanno della loro
storia come popolo, ha agito però anche un fattore di altro tipo, e va rilevato.
Si tratta di quel mito del “buon italiano” che ha funzionato da autoassoluzio-
ne collettiva per tutta la nazione, mettendo gli italiani al riparo dai crimini e
dalle tragedie del ‘900, scaricando le responsabilità altrove.6 La mancanza
stessa, fino agli anni ’90 del secolo appena trascorso, di un filone di studi
specifico e largamente diffuso sul razzismo in Italia, carenza anche questa in
gran parte dovuta alla radicata presenza della concezione degli italiani come
“brava gente”, estranei dal pregiudizio razziale, ha favorito questa relega-
zione ai margini, perché, come si legge sul recente Dizionario del fascismo
Einaudi, non si può comprendere storicamente se non alla luce del razzismo
fascista la snazionalizzazione e la discriminazione delle minoranze della Ve-
nezia Giulia.7 In quest’opera, così ricca e puntuale, l’inclusione di una voce
Slavofobia è di per se esplicita sull’atteggiamento guida del fascismo verso
i popoli slavi, ed in molte altre voci, ad esempio in quella Lingua/dialetti,
sono rintracciabili le numerose vessazioni di cui furono oggetto.
Getteremo adesso un rapido sguardo su come e quanto la storiografia,
quella italiana in particolare, si sia soffermata sulla tematica.
Tra i primi ad occuparsi storicamente della persecuzione delle minoran-
ze slave vi fu Salvemini. In una lettera del 1928 al direttore del Manchester
guardian richiamava l’attenzione non solo sulle persecuzioni in atto nel Su-
dtirolo, di cui il giornale si era occupato, ma anche su quelle coeve degli sla-
vi e delle minoranze francesi in Valle D’Aosta. Successivamente Salvemini
tornò ad occuparsi dell’argomento con due interventi nel 1932 e nel ’33,
entrambi pubblicati sui quaderni di “Giustizia e libertà” e poi riprodotti in
forma ampliata nell’appendice all’edizione del ’52 di Mussolini diplomati-

5
Cfr: Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1951), a cura di C. DI
SANTE, Verona, Ombrecorte, 2005. Per i lavori della Commissione tutto il materiale prodotto è di-
sponibile in rete sul sito www.parlamento.it.
6
Su questo argomento Cfr: D. BIDUSSA, Il mito del bravo italiano, Milano, Il Saggiatore, 1994. A.
DEL BOCA, Italiani, brava gente?, Vicenza, Neri Pozza Editore, 2005.
7
Voce Razzismo, di G. GABRIELLI, in Dizionario del fascismo, a cura di V. DE GRAZIA, S. LUZZATTO,
vol. II, Torino, Einaudi, 2003, pp. 470-476. Per gli studi sul razzismo in Italia Cfr: Nel nome della
razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, a cura di A. BURGIO, Bologna, Il Mulino, 20002
pp. 5-29. R. MAIOCCHI, Scienza italiana e razzismo fascista, Firenze, La Nuova Italia, 1999.

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I - Il confine nord orientale italiano

co.8 Sulla base dei suoi lavori, GL stessa nel novembre del 1933 pubblicò,
bilingue (italiano e sloveno), un opuscolo intitolato Il fascismo e il martirio
delle minoranze.9
In Italia la ricerca storica ha prevalentemente interpretato la distruzione
di tutte le espressioni culturali, politiche, economiche delle minoranze come
un aspetto della più generale opera fascista di eliminazione delle opposizio-
ni, il che è senz’altro vero, ed è un ulteriore argomento per trarre fuori dal
localismo questa storia, ma già Salvemini nel ’32 rilevava che c’era dell’al-
tro. «E’ giusto riconoscere che sugli “allogeni” è caduto un flagello sopran-
numerario, di cui non soffrono gli “indigeni”: il flagello delle misure che ha
preso la dittatura per costringere tutti coloro che entro i confini dell’impero
mussoliniano non parlano la lingua dei “dominatori” a parlare, pensare,
sognare solamente nella lingua italiana».10
Nel ’36 vedeva la luce, in inglese, l’importante opera di Lavo Čermelj
con il titolo Life and death struggle of a national minority. The jugoslavs
in Italy. Due anni dopo era tradotta per la prima volta in francese. Contro
il libro si accanirono i fascisti e quando Čermelj fu arrestato e processato
davanti al Tribunale Speciale nel ’41, venne condannato a morte, pena poi
commutata in ergastolo. La pubblicazione fu attaccata anche nel dopoguerra
dall’autorità ecclesiastica. Salvemini fu denunciato per aver usato del mate-
riale tratto da Čermelj nella riedizione ampliata dell’articolo su Pio XI degli
anni ’30. Per avere una prima edizione italiana si dovrà attendere il 1974,
quando uscirà ad opera di un istituto sloveno presso una tipografia triestina
con il titolo Sloveni e croati in Italia tra le due guerre. Il libro presenta un
imponente apparato documentario su tutti gli aspetti della snazionalizza-
zione ed è ancor oggi uno strumento indispensabile in lingua italiana per
qualsiasi studio della materia, ma l’autore è un fisico prestato alla storia ed
il suo è l’impianto di una storia fattuale che vuole dar voce alla minoranza
oppressa, priva però del necessario taglio storiografico. Dopo la guerra in
Jugoslavia vennero pubblicate, anche in francese ed inglese, raccolte docu-
mentarie sulla snazionalizzazione.11 A tutt’oggi non esiste niente di simi-

8
G. SALVEMINI, La politica italiana di denazionalizzazione, p. 349. Il fascismo e le minoranze,
pp. 476-482. Pio XI e gli allogeni, pp. 490-497. Tutti contenuti in Scritti sul fascismo, a cura di N.
VALERI, A. MEROLA, Milano, Feltrinelli, 1966. G. SALVEMINI, Mussolini diplomatico, Bari, Laterza,
1952.
9
L’opuscolo è oggi consultabile nella sua ristampa, corredato da molte foto. Il fascismo e il martirio
delle minoranze, Trieste, Editoriale stampa triestina, 2004.
10
G. SALVEMINI, Il fascismo e le minoranze, cit. pp. 481-482.
11
Si tratta di: Documents sur la denationalisation des yougoslaves de la Marche Julienne, Belgrado,

16
Un accenno alla storiografia

le consultabile in lingua italiana. Sempre nel dopoguerra Sestan si occupò


della questione, ma il suo studio nasceva da un memoriale scritto per De
Gasperi nell’ambito delle trattative per la delimitazione dei confini con la
Jugoslavia, e, pur ammettendo le colpe del fascismo, tendeva ad una let-
tura blanda ed a tirarne fuori l’Italia liberale.12 I lavori di Schiffrer, che fu
l’esperto storico della delegazione giuliana alla conferenza di pace a Parigi
nel 1946, mostrano invece una maggior consapevolezza.13
Nel ’66 esce lo studio di Elio Apih, in una collana Laterza curata dal-
l’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia.
La convergenza tra nazionalisti, capitalisti, militari e fascisti nella regione è
descritta efficacemente, così come molti aspetti della persecuzione. Si parte
però ancora da una storia regionale e lo stesso Apih ammette che a quel-
l’epoca «i motivi profondi di questa politica non appaiono ancora del tutti
chiari», la considera comunque un effetto dell’ideologia totalitaria, del na-
zionalismo dei liberali giuliani e la colloca come una manifestazione locale
di un fenomeno, quello della persecuzione delle minoranze, che tra le due
guerre ebbe dimensioni europee.14 Negli anni ’60 anche i lavori di Pacor si
erano soffermati sulla questione.15
Nei ’70 troviamo importanti contributi storiografici e di ricerca nel Bol-
lettino dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione
nel Friuli-Venezia Giulia anche ad opera di storici di rilievo come Miccoli.16
Ma è soprattutto dagli anni ’80 che le ricerche si fanno più frequenti ed ap-
profondiscono i diversi aspetti della snazionalizzazione nei vari settori e nei
programmi fascisti. Il merito di aver portato avanti quest’attività va ascritto
ai due Istituti per la Storia del Movimento di Liberazione, quello friulano e
quello regionale, con le riviste Qualestoria, prosecuzione del Bollettino, e
Storia contemporanea in Friuli. Non riporto qui un elenco dei tanti autori e

1946. L. ČERMELJ, Italian genocid policy against the slovenes and the croats. A selection of docu-
ments, Belgrado, 1954.
12
E. SESTAN, Venezia Giulia. Lineamenti di una storia etnica e culturale, s.n.t., 1947, Udine, Del
Bianco Editore, 19973.
13
C. SCHIFFRER, La questione etnica ai confini orientali d’Italia, antologia a cura di F. VERANI, Trie-
ste, Edizioni “Italo Svevo”, 1990.
14
E. APIH, Italia. Fascismo e antifascismo nella Venezia Giulia (1918-1943), Bari, Laterza, 1966,
p. 273.
15
M. PACOR, Confine orientale. Questione nazionale e resistenza nel Friuli-Venezia Giulia, Milano,
Feltrinelli, 1964. e Italia e Balcani dal Risorgimento alla Resistenza, Milano, Feltrinelli, 1968.
16
G. MICCOLI, La chiesa di fronte alla politica di snazionalizzazione, in «Bollettino dell’Istituto
Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli-Venezia Giulia», IV, 2-3, Agosto
1976, p. 31.

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I - Il confine nord orientale italiano

dei numerosi contributi che sono del resto ampiamente citati in tutto il mio
lavoro. Mi interessa però rilevare che l’impulso alla ricerca viene ancora
solamente da Istituti locali, non nazionali, che giustamente si interessano di
un momento importante nella storia della propria regione. Vano è un tenta-
tivo di trovare una rispondenza proporzionale, sia pur in una scala numerica
ridotta, nelle riviste di carattere nazionale, mancando una presa di coscienza
della valenza generale del problema nella storiografia italiana.
Da parte slovena vanno segnalati i lavori di Pavel Stranj, ma special-
mente quelli della storica Milica Kacin-Wohinz, sia in articoli nelle riviste
citate che con alcuni libri. Uno di questi è stato scritto assieme a Jože Pirje-
vec. Segnalo in particolare, ai fini di questo studio, l’articolo della storica
slovena I programmi fascisti di snazionalizzazione degli sloveni e dei croati
della Venezia Giulia.17 Il punto di vista di partenza il più delle volte è però
qui rovesciato, si parla degli sloveni e dei croati in Italia. L’obbiettivo, non
potrebbe essere altrimenti, è una storia delle due minoranze e delle persecu-
zioni da esse subite.
Nella prima metà degli anni ’90 da parte italiana si segnala soprattutto
uno studio di settore, ancora una volta però di ambito locale, Scuola e con-
fine di Andri e Mellinato. Nella seconda metà un importante spinta al rinno-
vamento è stata fornita dall’intervento di Enzo Collotti. Il suo Sul razzismo
antislavo parla finalmente e senza mezzi termini di “razzismo” per quel che
riguarda l’atteggiamento tenuto verso gli slavi, fino ad allora tutt’al più si
erano avute timide puntate nell’uso di questo termine. Collotti segnala filoni
di indagine, fra i quali la visione del mondo slavo nell’imperialismo italiano
e chiarisce il salto di qualità apportato dall’avvento del fascismo. L’atra cosa
rilevante è che si colloca all’interno di un lavoro, coordinato da Burgio, che
avvia vari filoni di indagine sul razzismo nella storia italiana, uscendo dun-
que dal localismo, per dar conto della presenza su diversi versanti di un raz-
zismo specificatamente italiano in una storia in gran parte ancora da scrive-
re. Ulteriori chiarimenti sulla circolazione delle tematiche razziali nell’Italia
fascista sono arrivati sempre nel ‘99, con Maiocchi. Scienza italiana e raz-
zismo fascista è una ricognizione ampia su come si articoli l’idea di razza e
nazione italiana e si faciliti un discorso razzista con il contributo del mondo
scientifico, che ha sempre una parte nella definizione dei canoni culturali.

17
P. STRANJ, La questione scolastica delle minoranze slave nella Venezia Giulia tra le due guerre, in
«Storia contemporanea in Friuli», XVII, 18, 1987. M. KACIN WOHINZ, J. PIRJEVEC, Storia degli slove-
ni in Italia (1866-1998), Venezia, Marsilio Editori, 1998. M. KACIN WOHINZ, I programmi fascisti di
snazionalizzazione degli sloveni e croati nella Venezia Giulia, in «Storia contemporanea in Friuli».
XVIII, 19, 1988

18
Un accenno alla storiografia

La visione degli slavi comunque continua a non trovarvi spazio. In generale


questi lavori rientrano in un ampio percorso di rinnovamento storiografico,
avviato negli anni ’90, sugli atteggiamenti e pratiche del fascismo verso gli
altri, che ha privilegiato per ora le parti relative agli africani delle colonie ed
agli ebrei che rivestono un’indubbia e incontestabile importanza. Ritengo
però che un discorso del genere debba prima o poi investire anche il proble-
ma dell’atteggiamento fascista e della reale politica da esso messo in campo
nei confronti degli slavi.
Per finire questa breve rassegna, tutt’altro che esaustiva avendo cercato
di limitarmi a ricordare le opere a mio avviso più importanti ed a delineare
grossomodo le tappe dello sviluppo della ricerca, ricordo alcuni studi usciti
in questo inizio di secolo. In Fascismo e politica di potenza Collotti e Sala
offrono spunti da cui si ricava che la lettura della persecuzione di sloveni e
croati deve essere vista anche alla luce dell’imperialismo fascista, con la sua
propaganda e i suoi obbiettivi. Glenda Sluga nel suo Identità nazionale ita-
liana e fascismo: alieni, allogeni e assimilazione sul confine nord-orientale
italiano, contenuto all’interno di un lavoro a più mani sui nazionalismi di
frontiera curato da Marina Cattaruzza, articola un discorso su come si formi
e si definisca l’identità italiana, giuliana e fascista in contrapposizione agli
“altri”, sulla visione degli slavi e le capacità assimilative italiane, sul peso
dell’idea di un legame con la tradizione romana. Anna Maria Vinci nel sag-
gio Il fascismo al confine orientale contenuto nel primo volume dedicato al
Friuli-Venezia Giulia della Storia d’Italia Einaudi, rende conto dell’impor-
tanza dell’antislavismo per il “fascismo di confine”. L’attività del Tribuna-
le Speciale in relazione all’antislavismo ed alla snazionalizzazione è stata
approfondita da Puppini, Verginella e Verrocchio in Dal processo Zaniboni
al processo Tomažič. Il tribunale di Mussolini e il confine orientale. Sulla
tematica della repressione e del trasferimento di popolazioni, per il periodo
della guerra, I campi del Duce di Capogreco è una ricognizione ampia sul
fenomeno concentrazionario di marca fascista con le sue funzioni antislave
puntualmente analizzate, sia per gli allogeni della Venezia Giulia che per gli
slavi dei territori annessi. Un contributo che inserisce queste vicende in un
quadro di più lungo periodo ma in riferimento ad un’altra problematica è
Foibe di Gianni Oliva. Negli ultimi anni una lettura che prende in esame un
arco cronologico più lungo per spiegare le stragi degli italiani dal ’43 al ’45
sta facilitando l’accesso di un pubblico più vasto a questa tematica.18
Ma il contributo più importante, anche per il suo significato simbolico,
è la relazione prodotta dalla Commissione mista storico-culturale italo-
slovena, istituita nel 1993 per iniziativa dei miniseri degli esteri dei due

19
I - Il confine nord orientale italiano

stati è composta da 14 studiosi, 7 italiani e 7 sloveni. Diffusa a mezzo


stampa nel 2001, riporta un giudizio concorde e ponderato sulle vicende
del confine orientale. Ed in merito alla politica del regime fascista af-
ferma, senza mezzi termini, che «Il regime fascista si impegnò a fondo,
anche per via legislativa, nella snazionalizzazione di tutte le minoranze
nazionali. […] L’impeto snazionalizzatore del fascismo andò però anche
oltre la persecuzione politica, nell’intento di arrivare alla “bonifica etni-
ca” della Venezia Giulia. […] Risultata particolarmente pesante, anche
perché l’intolleranza nazionale, talora venata di vero e proprio razzismo,
si accompagnava alle misure totalitarie del regime. […] Ciò che infatti il
fascismo cercò di realizzare nella Venezia Giulia fu un vero e proprio pro-
gramma di distruzione integrale dell’identità nazionale slovena e croa-
ta». Un giudizio suffragato dai fatti a dai documenti, ma, come scrive Del
Boca, «ciò che sorprende è che questo testo è stato e continua a essere
ignorato».19

UN CONFINE MOBILE

Qualsiasi ricerca che affronti le problematiche della storia dell’Italia del


nord-est e del Friuli-Venezia Giulia, da qualsiasi punto di vista parta, sia esso
prettamente storico, economico o culturale, o, più in generale, che prenda
in considerazione i temi dei rapporti dell’Italia coi suoi vicini a oriente e di
fin dove essa si estenda, con i suoi limiti naturali, linguistici e politico-ter-
ritoriali, non può prescindere da un esame degli sviluppi e delle modifiche
che hanno interessato, dopo l’Unità, il confine nord-orientale, e da una com-
prensione delle sue peculiarità. Tanto più deve farlo un lavoro come questo,
relativo alla presenza nel nostro paese, dopo la prima guerra mondiale, di
consistenti minoranze nazionali slovene e croate ed alla politica attuata nei
loro confronti dal fascismo.

18
In questo senso vanno anche Foibe e deportazioni. Per ristabilire la verità storica, a cura di A. BU-
VOLI, s.n.t., 19982. e Foibe. Oltre i silenzi, le rimozioni, le strumentalizzazioni, numero monografico
di «Storia e memoria», 1, 1994. e la mostra Fascismo foibe esodo. Le tragedie del confine orientale,
realizzata dalla Fondazione Memoria della Deportazione e disponibile sul sito www.deportati.it.
19
A. DEL BOCA, Italiani…, cit. pp. 248-251.

20
Un confine mobile

Il confine propriamente detto, quello che divide due stati, due entità po-
litiche diverse che esercitano il dominio su un dato territorio, è una linea
immaginaria tracciata dagli uomini. Serve, ovviamente, a dividere più che
a unire, e non è detto che questa divisione sancisca sempre una situazione
direttamente riscontrabile nella realtà, anzi a volte la crea. Quando viene
calato in contesti non omogenei, diversificati, raramente rispecchia quelle
diversificazioni a causa del suo essere direttamente legato al territorio, alla
geografia, mentre spesso legami e divisioni sono più afferenti alla cultura
e all’economia, più impalpabili quindi, e si sovrappongono. Se la maggio-
ranza della popolazione di Trieste era, durante il dominio asburgico, legata
all’uso della lingua italiana e si sentiva parte di quella nazione, la sua econo-
mia, la sua funzione di grande porto dell’impero, la legava ad un entroterra
danubiano che si volgeva in direzione opposta, verso terre abitate da tede-
schi, magiari, slavi. Anche quando riesce ad unire, il confine lo fa attraverso
la divisione, la contrapposizione fra quello che sta dentro e quello che sta
fuori. I confini poi, che si propongono la doppia finalità di unire una nazio-
ne e dividerla dalle altre quasi sempre si trovano a dover fare i conti con
minoranze estranee che restano al suo interno. Anzi, tanto più si allargano
i confini per raggiungere tutti i gruppi appartenenti alla nazione dominante
in un dato stato, residenti ai suoi margini, tanto più si incorporano nazioni
diverse. E’ il paradosso, se vogliamo, dello stato-nazione. Le nazionalità
diverse non sono mai nettamente separate, è raro anche quando si tratta di
isole figuriamoci in un continente come quello europeo da secoli attraversa-
to da correnti migratorie e da stanziamenti di popolazioni sempre nuove. Se
esistono nuclei centrali dominanti, che però non è detto che siano la totalità
delle persone abitanti su un dato territorio, via via che ci si allontana dal
centro questa maggioranza sfuma sempre più. Esistono zone dove è difficile
identificare la nazionalità prevalente, spesso non c’è, spesso la situazione
è ulteriormente complicata dalla presenza di più di due nazioni, possono
diventare tre, quattro, cinque… con il risultato che nessuna nazione ha una
prevalenza netta sulle altre. E’ quel che è successo nella Venezia Giulia tra
le due guerre. Per trovare conferme a quanto detto basta dare un’occhiata
alle cartine europee degli ultimi due secoli per avere delle prove lampanti
dell’artificiosità dei confini e dei criteri tutti politici che guidano la loro fis-
sazione. Se poi queste cartine proviamo a sovrapporle ad altre, contenenti
aree linguistiche, insediamenti nazionali, influenze culturali, bacini econo-
mici, raramente riusciremmo a trovare un confine che combaci non solo con
tutti, ma anche con uno solo di questi aspetti.
Altra caratteristica del confine è la sua “porosità”. I confini politici, diver-

21
I - Il confine nord orientale italiano

so è il caso di quelli naturali come catene montuose particolarmente aspre o


degli oceani, non riescono a dividere ed impedire le influenze culturali e lin-
guistiche, le infiltrazioni di popolazioni, il trapasso di idee, gli scambi com-
merciali. Da tutto ciò ne consegue che i confini non sono mai così netti.
Il confine nord-orientale italiano non lo era sicuramente. Non lo era per
motivi geografici, naturali: le alpi qui degradano dolcemente in altipiani,
sono abbastanza transitabili. Per motivi etnici: la presenza di vaste aree a
insediamento misto, sloveni, croati, italiani, friulani, tedeschi ed altre mino-
ranze meno cospicue. Non lo era per motivi storici: gran parte dell’area sui
due lati delle alpi a lungo aveva fatto parte di un’unica entità politica, l’im-
pero asburgico, che favoriva il crearsi e consolidarsi dei legami e lo sposta-
mento e frammischiamento di popolazioni diverse.20 Qua e là si inserivano
i veneziani, con domini, mantenuti fino alla caduta della Serenissima, che
non avevano continuità territoriale, come Grado, le cittadine costiere del-
l’Istria, l’udinese, passati poi anch’essi in mano austriaca. L’affacciarsi di
tutta la zona sull’Adriatico garantiva le comunicazioni, ma insieme ad esse,
con lo sviluppo dei commerci, aumentavano anche le diversità presenti sul
territorio.
Da queste premesse nasce la definizione del Friuli-Venezia Giulia come
una regione “artificiale”, frutto dell’accorpamento, avvenuto dall’esterno,
di «flussi di uomini, di merci e di idee» e di realtà storiche e culturali di-
verse.21 Il confine italiano in quest’area, a causa della tante e tali modifiche
susseguitesi, si è storicamente configurato come “mobile”.
E’ degno di nota il fatto che la questione dei confini naturali dell’Ita-
lia su questo lato fosse stata oggetto di dibattito nel corso dell’800 e del
primo ‘900, una discussione che evidenzia subito il sussistere di difficol-
tà e di opinioni diverse nella loro fissazione. Mazzini ad esempio cambiò
posizione più volte: nel 1831 si pronunciò per un limite che arrivasse fino
a Trieste; nel ’57 lo voleva al cerchio delle alpi con Trieste; nel ’60 al-
l’Isonzo. Non era l’unico a porsi il problema tant’è che furono proposte
molte soluzioni diverse: fino a Fiume; a metà dell’Istria; fino all’Isonzo;
tutta l’Istria; anche la Dalmazia. Ufficiali dello Stato Maggiore di Carlo
Alberto già a quell’epoca lo vogliono vicino a Lubiana e sul litorale croato
al di là di Fiume. Incertezze analoghe ma in direzione inversa esistevano

20
R. FINZI, C. MAGRIS, G. MICCOLI, Una tormentata regione «artificiale», in Storia d’Italia. Le regio-
ni dall’unità a oggi. Il Friuli–Venezia Giulia, Vol. I, Torino, Einaudi, 2002, p. XXIII.
21
Cfr: Ivi pp. XXV-XXVI. Da cui è tratta la citazione.

22
Un confine mobile

anche nelle controparti slave.22 Queste incertezze, nel campo italiano, erano
riconducibili ad approcci politici, ma anche strategici, diversi. In linea di
massima la divisione passava fra chi era più attento a garantire confini che
rispecchiassero il più possibile i reali limiti nazionali riscontrabili in loco,
un approccio come quello dell’irredentismo democratico, e chi guardava
più a garantire esigenze strategiche, militari, ma anche nazionaliste e impe-
rialiste, noncurante dell’eventuale integrazione all’interno dello stato di na-
zionalità diverse pur di affermare esigenze sentite come vitali per la realiz-
zazione di progetti espansionistici. Era il caso di Ruggero Fauro (Timeus),
un teorico dell’imperialismo nazionalista, definito “profeta” del fascismo:
«La questione delle minoranze – o maggioranze slave non è per noi che
accademia, perché, siano gli Slavi pochi o molti, noi le provincie di confine
le dobbiamo conquistare, in ogni caso, per ragioni politiche, economiche e
soprattutto strategiche, indipendenti da ogni questione di diritto nazionale.
Sul quale non abbiamo da dire altro se non che per noi ha, comunque, più
valore l’esistenza di diecimila italiani che quella di cinquanta o centomila
slavi».23
La regione sarà travagliata per oltre un secolo dalla questione nazionale
e dal problema della fissazione dei confini, dagli anni ’60 dell’800 fino a ben
oltre il termine del secondo conflitto mondiale. Queste vicende sono ampia-
mente note per cui qui ci limitiamo a riportarne soltanto le fasi e i momenti
salienti. Nel 1866, dopo la cosiddetta terza guerra d’indipendenza, l’Italia
portò il suo confine a nord-est di Udine, annettendosi il Friuli con quei ter-
ritori definiti “slavia veneta” (slovenska benečija) entrando per la prima
volta in contatto con le comunità slovene lì insediate. Nel 1915 una classe
dirigente che aveva fatto proprie le mire e le proposte di parte nazionalista e
imperialista ottenne con il Patto di Londra la promessa ad ottenere il litora-
le austriaco, senza Fiume, e la Dalmazia, come compenso per l’ingresso in
guerra a fianco delle forze dell’Intesa. Quando si arrivò alla fine delle ostili-
tà le truppe italiane, dopo l’armistizio, occuparono il territorio strabordando
anche al di fuori dei territori previsti dal Patto di Londra e dalla stessa linea
armistiziale, approfittando del collasso dell’impero Austro-Ungarico. Le
cose però non stavano più come nel ’15. Gli Stati Uniti si dichiararono non
vincolati dal Patto, in quanto non erano fra i firmatari, non riconoscendo

22
M. PACOR, Confine orientale…, cit. pp. 9-11.
23
R. TIMEUS (R. FAURO), Scritti politici (1911-1915), Trieste, Tipografia del Lloyd Triestino, 1929,
p. 496. Per la definizione di Timeus come profeta del fascismo Cfr: P. PRIVITERA, Ruggero Timeus-
Fauro «profeta del fascismo», in «Qualestoria», XI, 2, giugno 1983.

23
I - Il confine nord orientale italiano

le pretese italiane. Il neocostituito Regno dei Serbi, Croati e Sloveni riven-


dicava per sé quei territori. Il Presidente U.S.A. tentò una mediazione pro-
ponendo la linea Wilson, che garantiva all’Italia Gorizia, Trieste e la parte
ovest dell’Istria tagliando in due la penisola fino ad Albona. L’Italia da parte
sua non retrocedeva di un metro da quanto considerava nel suo diritto, anzi
aggiunse la richiesta di Fiume non prevista nel Patto del ’15. La situazione
andò avanti così fino a quando i due stati, lasciati a trattare direttamente,
si accordarono, giungendo al Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920.
L’Italia spostava il suo confine est molto alle spalle di Gorizia e Trieste, si
prendeva l’Istria e alcune isole ma lasciava la Dalmazia, dove conservava
solo l’enclave di Zara. Questa rinuncia dette origine allo spauracchio del-
la “vittoria mutilata”. Rimaneva in sospeso la questione di Fiume. La città
dopo l’avventura di D’Annunzio era stata costituita in stato libero ma alla
fine fu riconosciuta all’Italia con l’accordo di Roma del 27 gennaio 1924.
Durante la seconda guerra mondiale la Jugoslavia (nome preso nel ’29 dal
Regno SHS) veniva smembrata fra le potenze dell’Asse. L’Italia incorporò
buona parte della Slovenia, capitale compresa, in quella che fu la Provincia
di Lubiana, e la Dalmazia. La guerra rimetteva in discussione i confini, le-
gandoli, anche quelli stabiliti a Rapallo, all’esito del conflitto. La sua fine
si porterà dietro strascichi tragici. Da una parte i crimini del fascismo e
dell’esercito italiano in Jugoslavia, dall’altra le stragi delle Foibe ad opera
delle “jacquerie” contadine del ’43 e delle truppe di Tito nel ‘45. L’attuale
sistemazione, con la quale l’Italia confina con la Repubblica Slovena, nata
nel ’91 sulle ceneri della Federazione jugoslava, è il risultato dell’annessio-
ne di quasi tutta quella che fu la Venezia Giulia tra le due guerre alla nuova
Jugoslavia comunista nell’immediato dopoguerra. La questione di Trieste e
del capodistriano si protrasse ancora per una decennio con la costituzione
del Territorio Libero di Trieste diviso in due zone, la A sotto controllo allea-
to e la B sotto quello jugoslavo, fino a quando nel ’54, col Memorandum di
Londra, gli alleati cedettero all’Italia il controllo della loro zona. Ma per una
sanzione formale si dovrà attendere il Trattato di Osimo del 1975.
Fin qui le vicende del confine inteso in senso classico. Per il periodo
che a noi interessa si può trovare un’ulteriore conferma, di tipo diverso,
al concetto di “mobilità”, guardando l’intera zona dall’osservatorio della
situazione nazionale. Ci si accorge che non si può mai stabilire una netta e
limpida linea di demarcazione fra le nazionalità che vi coabitano.24 Se è vero

24
Per una attenta descrizione della situazione sul terreno, a cui è annessa anche una carta dettaglia-
ta, C. SCHIFFRER, La Venezia Giulia. Saggio di una carta dei limiti nazionali italo-jugoslavi, Roma,

24
Un confine mobile

che in linea di massima può essere fatta una divisione fra città, soprattutto
costiere, anche se non mancano importanti centri dell’interno come Gorizia
ed insediamenti più piccoli come Pisino, dove è forte l’elemento italiano,
ed un entroterra abitato in prevalenza da sloveni e croati, è vero anche che
comunque il più delle volte si parla di “prevalenze”, che comportano quindi
la presenza di “minoranze”, che cambiano di volta in volta, quando sono gli
italiani quando gli slavi. La contiguità è assoluta. In città come Trieste dove
la prevalenza numerica è italiana esistono quartieri dove la maggioranza è
slovena. All’interno degli stessi quartieri, nei palazzi, nelle strade, italiani e
sloveni convivono accanto. Nelle campagne slave e nei villaggi non man-
cano contadini e funzionari italiani. Siamo in presenza di un vero e proprio
mosaico nazionale. A complicare le cose si aggiungeva il fenomeno del bi-
linguismo, la presenza di parlate ibride italo-slave, l’esistenza di matrimoni
misti con il loro derivato di famiglie miste e di identità in bilico. Inoltre la
popolazione non resta mai ferma, si muove, si sposta, modificando conti-
nuamente gli equilibri. Il concetto di “confine mobile”, usato per l’ambito
politico-territoriale, trova quindi riscontro in quello etnico.
In fine osserviamo che in questo concetto rientrano anche le idee e le
mire dell’espansionismo italiano. Queste lo consideravano per l’appunto
come una punta avanzata, non definitiva, suscettibile di spostamenti futuri
in direzione dell’area danubiano-balcanica. Il confine era destinato a “muo-
versi”. In quest’ottica è stato evidenziato che si lega al concetto di “barrie-
ra”, una barriera che avanza dividendo due mondi, due civiltà, secondo la
coppia superiorità italiana/inferiorità slava.25
I territori ottenuti a Rapallo, entrati a far parte dell’Italia con il nome di
Venezia Giulia proposto nel 1893 dal glottologo Graziadio Ascoli,26 com-
prendevano quindi due grosse minoranze slovene e croate, unite subito sotto
l’unica dicitura di slavi. Il loro possesso era stato giustificato con necessità
strategiche, propugnate dai militari e dai circoli nazionalisti, per i quali era
uno spalto da cui muoversi vero i Balcani, anche se non erano pochi quelli

Stabilimenti tipografici Carlo Colombo, 1946. ora riprodotto, ma senza carta, in C. SCHIFFRER, La
questione etnica…, cit. pp. 19-87. Per diverse rappresentazioni della situazione Cfr: Il confine mobi-
le. Atlante storico dell’ alto adriatico 1866-1992, s.l., Edizioni della Laguna, 19962, dove si trovano
molte cartine, elaborate da autori di diverse nazionalità, sullo sviluppo del confine e la sua compo-
sizione etnica. Vi è riprodotta anche la carta di Schiffrer.
25
A. M. VINCI, Il fascismo al confine orientale, in Storia d’Italia. Le regioni dall’unità a oggi. Il
Friuli–Venezia Giulia, Vol. I, Torino, Einaudi, 2002, p. 378.
26
M. KACIN WOHINZ, J. PIRJEVEC, Storia degli sloveni…, cit. p. 30. M. PACOR, Confine orientale…,
cit. p. 9. L. ČERMELJ, Sloveni e Croati in Italia tra le due guerre, Trieste, Editoriale Stampa Triestina,
1974, p. 8. E. APIH, Italia. Fascismo e antifascismo…, cit. p. 3.

25
I - Il confine nord orientale italiano

convinti di aver a che fare con terre naturalmente italiane, dove la presenza
di altre nazionalità era artificiale e andava rimossa. Di sicuro lo erano i fasci-
sti, a cui spetterà il governo per 21 dei 25 anni del dominio italiano. Le parole
di Mussolini in una circolare riservata del 1925 sono chiarissime su questo
punto e sulla sorte che toccherà agli slavi durante il ventennio: «Il Governo
Nazionale […] considerò che i concetti di giustificare i confini del Brennero
e del Monte Nevoso soltanto con la necessità militare vuotava il fatto del-
l’annessione di gran parte del suo valore morale, togliendoli il carattere di
redenzione di terre nazionali; era contrario alle tradizioni e ai sentimenti
degli italiani che avevano posto l’idea della redenzione come scopo della
guerra; e non corrispondeva neanche al bene inteso concetto della sicurezza
militare la quale non può certo ottenersi quando sui confini abitano popoli
che sono soltanto sudditi dello stato ma non cittadini della Nazione.
Il Governo Nazionale pose a base del suo programma verso le popola-
zioni allogene delle nuove provincie il fatto che per la geografia e per la
storia (come sono gli elementi costitutivi dello Stato Nazionale) tutte le terre
che in seguito alla guerra sono state annesse all’Italia fanno parte dell’Ita-
lia; e che soltanto per un arbitraria e violenta azione di governi stranieri ad
una parte di tali terre venne in vari modi tolto il carattere dell’italianità, il
quale, ora che lo Stato Italiano ha acquistato la forza del suo diritto, deve
essere pienamente reintegrato».27

LA SITUAZIONE DELLE NAZIONALITÀ

Vediamo ora più dettagliatamente quali erano, all’indomani dell’annes-


sione, le condizioni delle tre nazionalità più grandi presenti su un territorio
che tra le due guerre, dal punto di vista amministrativo fu ripartito in cin-
que province, comprendenti tutte popolazioni slave: Udine, Gorizia, Trieste,
Pola e Fiume.
Va detto da subito che non sono facilmente reperibili dati sulla struttura
sociale divisi per nazionalità, carenza riscontrabile in tutti i lavori utilizzati
in questa ricerca. Per la quantificazione numerica delle tre etnie poi, i vari
censimenti, sia quegli austriaci che italiani, presentano diverse difficoltà
come la variazione dei criteri e dei territori esaminati, strumentalizzazioni,

27
Documento riprodotto in R. DE FELICE, Mussolini. Il fascista. Torino, Einaudi, 1969 p. 495

26
La situazione delle nazionalità

falsificazioni, attribuzioni arbitrarie e furono sempre tutti contestati dalle


parti. A ciò si aggiunge una notevole oscillazione dei dati reperibili anche
per lo stesso censimento.
Tutte e tre le nazionalità avevano raggiunto un grado di coscienza na-
zionale molto elevato e si configuravano come nazioni moderne. Fra di loro
era difficile tratteggiare linee di demarcazione nette, ma si possono tuttavia
individuare a grandi linee dei limiti.
Gli italiani erano insediati in maggioranza nelle zone costiere. Li trovia-
mo a Monfalcone e Trieste, su tutto il lato occidentale della penisola istria-
na, Capodistria, Isola, Pirano, Umago, Cittanova, Parenzo, Rovigno, Pola
ed a Fiume. Scarsa era la presenza italiana nell’interno, con le importanti
eccezioni di Gorizia, e di alcune zone dell’Istria: Pisino, i distretti minerari
dell’Arsa e di Albona e i dintorni del Quieto. Nel periodo della dominazio-
ne imperiale avevano potuto guardare all’Italia per mantenere viva la loro
identità nazionale, funzione nell’Istria espletata anche dal ricordo della Re-
pubblica veneziana, anche se non erano molti gli irredentisti, in gran parte
a causa della situazione economica che li legava ai mercati dell’impero, di
cui costituivano una delle nazioni più ricche.28 Trieste era il porto commer-
ciale degli Asburgo, Pola la base della flotta da guerra imperiale e Fiume
inserita nell’economia ungherese dopo il compromesso costituzionale del
1867. Dal punto di vista sociale erano pochissimi gli italiani dediti all’atti-
vità agricola, essendo concentrati nei centri urbani, detenevano la gran parte
del commercio e dell’industria, imprese armatoriali ed assicuratrici dove si
formò un ceto medio che fu il vero custode della coscienza nazionale e non
mancava un combattivo proletariato. C’erano inoltre molti immigrati dalle
altre province italiane che nel periodo asburgico erano chiamati “regnicoli”.
La vita culturale italiana era molto sviluppata con scuole, circoli, giornali
e troviamo molti intellettuali, fra tutti basti ricordare i nomi di Italo Svevo
e Umberto Saba.29 Con l’unione all’Italia, divennero la nazione dominante
non più soltanto in buona parte dell’economia e della politica locale ma an-
che nello stato.
Gli sloveni erano compattamente insediati nelle zone dell’interno lungo
tutta la fascia di confine da Tarvisio fino al Monte Nevoso. Da qui arrivava-
no a ridosso della costa dove in alcune città si mischiavano con gli italiani,

28
E. APIH, Italia. Fascismo e antifascismo…, cit. pp. 6-8. M. WALDENBERG, Le questioni nazionali
nell’Europa centro-orientale, Milano, Il Saggiatore, 1994, pp. 65-67.
29
La vita culturale e intellettuale di Trieste, con i suoi problemi nazionali, è descritta in A. ARA, C.
MAGRIS, Trieste. Un’identità di frontiera, Torino, Einaudi, 1982.

27
I - Il confine nord orientale italiano

anche con una presenza numerica notevole, come a Trieste. Lungo la costa
la zona da Trieste a Monfalcone faceva eccezione essendo abitata preva-
lentemente da sloveni. Erano poi fortemente presenti a Gorizia e nel suo
circondario, che anzi appariva più sloveno che italiano, occupavano tutto
l’alto corso dell’Isonzo arrivando fino al Natisone. Si affacciavano nella
parte orientale della provincia di Udine, nella cosiddetta “slavia veneta” o
“slavia friulana”. A sud, da Pirano al Nevoso cedevano il posto ai croati su
una linea che grossomodo corrisponde all’attuale confine di stato fra la Slo-
venia e la Croazia.
Gli sloveni, una delle nazioni classificate da Engels fra i “popoli sen-
za storia”, avevano partecipato nel corso dell’800 al generale processo di
“risveglio dei popoli slavi” ed in meno di un secolo erano diventati una
nazione moderna, status riconosciuto anche nella denominazione ufficiale
che ebbe fino al ’29 lo stato degli slavi del sud. Erano la nazione più al-
fabetizzata di tutta la Venezia Giulia, seguiti dagli italiani e dai croati. La
loro intellighenzia era costituita principalmente da maestri e sacerdoti, fra i
quali non mancavano esponenti di primo piano della gerarchia ecclesiastica
locale, che avevano dato il contributo più importante alla formazione di una
coscienza nazionale slovena. Numerose erano le scuole, non solo elementa-
ri. A Gorizia potevano vantare un ginnasio-liceo, una scuola magistrale ed
una professionale, cui si aggiungevano un ginnasio-liceo scientifico a Idria
ed una scuola commerciale a Trieste. Notevole l’articolazione della vita cul-
turale con biblioteche, teatri, case editrici, giornali ed altre pubblicazioni di
vario tipo. L’associazionismo spaziava dai circoli sportivi a quelli musicali e
culturali. Nel settore economico gli sloveni avevano dato vita a cooperative
di produzione e consumo, casse di credito fino ad arrivare ad istituti finan-
ziari di grosso peso. Tutto ciò trovava il suo simbolo nel moderno edificio,
situato nel centro di Trieste, del Narodni Dom. La loro struttura sociale era
composta in grande maggioranza da contadini piccoli proprietari, ma si era-
no consolidati un ceto medio borghese urbanizzato e nuclei operai. Nelle
aree dove prevalevano nettamente controllavano l’artigianato, il commercio
ed in piccola misura anche imprese a carattere industriale.30
I croati erano stanziati in Istria dove occupavano tutto l’interno e la co-
sta orientale. Giungevano nelle città della costa occidentale ed erano forti
a Pola. Li troviamo poi nel Carnaro, con una rilevante presenza a Fiume e
nelle isole, la più importante delle quali era quella di Cherso. Popolazione
croata era presente anche a Zara. A nord si incontravano con gli sloveni.

30
M. KACIN WOHINZ, J. PIRJEVEC, Storia degli sloveni…, cit. p. 39.

28
La situazione delle nazionalità

Lo sviluppo della coscienza nazionale croata era ad uno stadio più avan-
zato di quella slovena, come era del resto dimostrato dalla presenza di forti
movimenti indipendentisti croati in Jugoslavia e dal maggior riconoscimen-
to come nazione negli ambienti internazionali. Non differivano dagli slo-
veni né per il tipo di intellighenzia, né per la struttura sociale. Anch’essi
avevano reti associazionistiche ramificate, numerosi Narodni Dom sparsi
sul territorio, le proprie scuole, fra le quali spiccavano due licei e due istituti
magistrali, case editrici, pubblicazioni, anche se era più alta la percentuale
di analfabeti. Come i loro vicini sloveni, i croati potevano contare su strut-
ture economiche ben organizzate.
Una quantificazione certa di quanti fossero gli italiani, gli sloveni ed
i croati risulta ardua. Raramente si trovano autori che riportano le stesse
cifre. Per il censimento austriaco del 1910, svolto con il criterio della lin-
gua d’uso, Milica Kacin-Wohinz e Jože Pirjevec sostengono che c’erano
421.000 persone che usavano la lingua italiana e 480.000 che dichiaravano
di usare le lingue slovena e croata (50,2%).31 Stranj per le quattro province
di Gorizia, Trieste, Pola e Fiume da 351.129 italiani e 484.417 slavi.32
Nel ’21 dopo l’annessione il censimento del Regno d’Italia considerò per
la prima volta la Venezia Giulia, senza Fiume. Il criterio era la lingua d’uso.
Sestan conta 516.960 italiani, 257.038 sloveni e 90.262 croati.33 Schiffrer
493.000 italiani (52%) e 428.000 slavi (43%). Un atlante storico della re-
gione riporta queste cifre, integrate con i dati di Fiume del 1925: nel 1910
237.230 sloveni e 152.500 croati, rispettivamente il 33 e 15 per cento per un
totale di 409.730; per il 1921 271.305 sloveni e 98.214 croati, 28 e 10 per
cento, in tutto 369.519.34
Gli sloveni ed i croati erano due nazioni distinte e ne erano consapevoli,
tant’è che fra loro non mancavano screzi. Questa distinzione nel dopoguer-
ra fu ufficializzata nello stesso nome del Regno slavo dei Karadjordjević.
Quelli che si ritrovarono in Italia furono unificati col nome generico di slavi,
o “allogeni”, e trattati nello steso modo. Questa mancata distinzione vale sia
per i quattro anni di governo liberale che per il ventennio fascista. In questo
lavoro, saranno esaminati quasi sempre come un’unica entità dato che così
venivano percepiti ed alla luce del fatto che le differenze che intercorrevano
tra i due gruppi non influirono affatto sulla politica adottata contro di loro.

31
Ivi p. 30.
32
P. STRANJ, La questione scolastica…, cit. p. 127.
33
E. SESTAN, Venezia Giulia. Lineamenti…, cit. p. 121.
34
Il confine mobile. Atlante storico…, cit. p. 68

29
II
Il fascismo

IL FASCISMO DI CONFINE

La presenza delle comunità slovene e croate portò alla nascita ed allo


sviluppo, qui prima che altrove, di un fascismo aggressivo e intraprendente,
che trovava larghe basi nei ceti medi, soprattutto urbani, ed adesioni e so-
stegno negli ambienti agrari friulani e istriani, fra gli armatori triestini e ne-
gli industriali, che vi vedevano un modo per affermare la propria italianità,
come i Cosulich, ma anche per risolvere a proprio vantaggio, con la forza,
le lotte sociali, spesso unificate con quelle nazionali in considerazione del
fatto che nelle file socialiste militavano molti slavi, in prevalenza sloveni.
Adesioni e sostegno trovava anche negli ambienti militari, in una zona oc-
cupata e per un certo periodo anche amministrata dall’esercito, dove i co-
mandi ponevano notevoli resistenze alla smobilitazione. Questo tipo parti-
colarmente agguerrito di fascismo va sotto il nome di “fascismo di confine”,
o di “frontiera”. Una sua sorta di primogenitura veniva avvallata anche da
Mussolini, appena tornato da un viaggio nella regione, sul Popolo d’Italia
del 24 settembre 1920. «In altre plaghe d’Italia i Fasci di combattimento
sono appena una promessa, nella Venezia Giulia sono l’elemento preponde-
rante e dominante la situazione politica».35
Tralasceremo qui gli altri aspetti che lo caratterizzavano, per prendere in
considerazione soltanto quelli prettamente inerenti al problema slavo. Que-
st’approccio, sicuramente limitativo, ci permette tuttavia di mettere in risal-
to l’aspetto più importante ai fini di questa ricerca, ciò il ruolo che assunse in
esso la funzione antislava di cui era investito, in relazione a quell’ideologia,
radicata e dominante, della “superiore civiltà italiana”, acriticamente accet-
tata e contrapposta all’inferiorità dei popoli slavi dei Balcani. Questo ruolo
porterà il “fascismo di confine” a mettere in atto un processo mitopoietico

35
A. BUVOLI, Il fascismo nella Venezia Giulia e la persecuzione antislava, in «Storia contemporanea
in Friuli» XXVI, 27, 1996, p. 71. F. GIUNTA, Il fascismo nella Venezia Giulia, in «Gerarchia», VII,
9, settembre 1927 p. 796.

31
II - Il fascismo

che lo trasformerà in un vero e proprio “mito”, che si inquadrava in forma


minore, sostenendolo, dentro ad un altro grande mito dell’Italia fascista,
ma le sue origini sono rintracciabili anche più indietro, il “mito di poten-
za”.36 Il mito del “fascismo di confine” si allaccia e si affianca a quello di
un’«”italianità di frontiera” come quintessenza e distillato allo stato della
massima purezza dell’italianità».37 Il “fascismo di confine” ha il compito di
difendere e di espandere quest’italianità, con cui fa tutt’uno, in opposizione
all’espansione dello slavismo, in un ottica di scontro di civiltà, di scontro di
razze. Il mito agisce quindi in forma concreta, modellando l’azione politica
sia nell’ambito locale che nelle grandi scelte nazionali.38 Un aspetto, del re-
sto, comune a tutti i fascismi europei, che si nutrirono di “miti” partendo dai
quali mossero ed operarono scelte che furono anche terribilmente concrete.
Sulla base di questo mito, con tutta la carica di slavofobia che vi stava
dentro, vennero educate anche le nuove generazioni dalla “scuola di confi-
ne”, altra struttura che il regime tentò di creare in quelle terre, a metà strada
fra reale e mitizzazione. In proposito Pasini è illuminante: «Solo il governo
fascista ha saputo infilare la retta via […] per dare all’Italia la “scuola
di confine” […] poiché si tratta di creare in queste regioni una vera “co-
scienza di frontiera”, si tratta di cingere la nazione di una zona protettiva,
che non sia soltanto una testa di ponte […] per la difesa, ma possa anche
servire, a seconda dei casi e del bisogno, come un ponte levatoio per le co-
municazioni pacifiche o come un ponte d’arrembaggio per l’assalto. […] A
quest’ufficio, di creare la nuova “coscienza di frontiera”, è primo strumen-
to la scuola. Dagli asili elementari alle scuole elementari e ai doposcuola,
dalle elementari alle medie, dalle medie all’Università, dev’essere un tutto
compatto e omogeneo, perché i vari scopi cui ha da servire armonizzino fra
di loro e nessuno possa prevalere sugli altri, facendoci trovare l’invasione
là dove dev’essere la tutela, o la degenerazione là dove dev’essere la perfe-
zione, o il bastardume là dove dev’essere la purezza».39
Il “mito” pervade tutto il linguaggio culturale, politico ma anche eco-
nomico, favorendo la percezione di esso come di una realtà effettiva. Pro-
babilmente è pensando in questo modo, sulla base di questo “mito”, ed a

36
Su questo tema Cfr: M. ISNENGHI, il mito di potenza, in Il regime fascista, a cura di A. DEL BOCA,
M. LEGNANI, M.G. ROSSI, Bari, Laterza, 1995, pp. 139-150.
37
E. COLLOTTI, Sul razzismo antislavo, in Nel nome della razza…, cit. p. 54.
38
A. M. VINCI, Il fascismo al confine orientale, cit. p. 398.
39
F. PASINI, Scuole e università, in «Gerarchia», VII, 9, settembre 1927, p. 889.

32
Il fascismo di confine

quella superiorità, che Mussolini a Trieste nel ‘20 pronuncia questa frase:
«Il compito dei fascisti di queste terre è più delicato, più sacro, più difficile,
più necessario. Qui il fascismo ha ragione d’essere: qui il fascismo trova il
suo terreno naturale di sviluppo».40
Il terreno è quello dello scontro di razza, caratterizzante il “fascismo di
confine” come sua ragione stessa. Lo stesso giorno a Pola dice: «di fronte
a una razza come quella slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la
politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone».41
Il “mito” e la funzione che ne deriva è del resto ben introiettato nella
mentalità, nella cultura diffusa, dei settori nazionalisti della società italiana,
ma il discorso può essere esteso, magari in forme meno virulente, anche a
settori non impregnati di fanatismo politico e aderenti alla cultura democra-
tica, liberale e cattolica, che considerano gli slavi in Italia come sudditi, non
cittadini di pari dignità.
Tutto il fascismo della regione, specialmente quello friulano particolar-
mente turbolento e lacerato al suo interno, ritrova sempre l’unità quando
si tratta di andare contro gli allogeni. Sulla necessità di una politica a loro
danno non sussistono mai dubbi, anche se il termine “danno” può apparire
improprio dato che in fin dei conti per i fascisti tutte le vessazioni a cui erano
soggetti erano fatte per il loro bene e non avevano poi tanto da lamentarsi
visto che venivano immessi in una civiltà più evoluta da una condizione di
sottosviluppo. Al massimo si poteva discutere sui metodi, fra chi caldeg-
giava posizioni più moderate e gradualiste, sempre messe ai margini, e chi
soluzioni di forza, rapide e violente. Sull’antislavismo potevano convergere
figure diverse, come un Pisenti a Udine, fautore di un fascismo “moderato”,
normalizzatore, conservatore, vicino ai tradizionali ceti del potere come un
mezzo d’ordine, ed un Giunta a Trieste, più rivoluzionario, organizzatore
delle squadre, che, sostiene Anna Maria Vinci, considerava la violenza un
«ingranaggio indispensabile della macchina da guerra che il fascismo met-
te in moto a Trieste per lanciarla verso più vasti orizzonti».42 L’antislavismo
opera quindi su due fronti: mobilitare le masse, in particolare i ceti medi, a
sostegno della politica fascista; tenere insieme le parti altrimenti sfilacciate
del fascismo friulano e giuliano.

40
B. MUSSOLINI, Discorso di Trieste, in Scritti e discorsi, edizione definitiva, vol. II, Milano, Ulrico
Hoepli Editore, 1934, p. 107.
41
Cit. in S. BON GHERARDI, Politica, regime e amministrazione in Istria, in S. BON GHERARDI, L.
LUBIANA. A. MILLO, L. VANELLO, A. M. VINCI, L’Istria fra le due guerre. Contributi per una storia
sociale, Roma. Ediesse, 1985, p. 30.
42
A. M. VINCI, Il fascismo al confine orientale, cit. p. 406.

33
II - Il fascismo

Francesco Giunta, in un articolo dal titolo Il fascismo nella Venezia Giu-


lia, mette ben in luce l’importanza dell’antislavismo per il fascismo fin dalle
suo origini. «Il pericolo più grave che si presentò ai dirigenti del fascio trie-
stino fu l’atteggiamento degli slavi»,43 «bisognava liberare la regione intera
dall’incubo comunista-slavo, dimostrare a certi subdoli stranieri che Trie-
ste era una città italiana che non teneva affatto alla qualifica di anseatica
e poi marciare su Roma a scacciare i mercanti dal tempio».44 L’importanza
dello stereotipo dello slavo-comunista, neologismo coniato dai fascisti, che
rimandava nell’immaginario ad un oriente barbaro e bolscevico, fu ripresa
anni dopo anche nella Storia del movimento fascista di Gioacchino Volpe,
segno di un ruolo non secondario. «Trieste, che fu la prima città redenta ad
avere un fascio, per lottare contro un nemico che era, lì, uno e duplice: co-
munismo e slavismo associati».45
Le azioni squadriste nella regione assunsero il carattere di una guerra
etnica, all’interno della più generale guerra civile, anche se combattuta da
una parte sola, quella fascista come è stato detto, che imperversò in Italia
in quegli anni. Le squadre erano finanziate dagli armatori locali, dagli in-
dustriali, dagli agrari e rifornite dall’esercito. I Fasci si muovevano coi ca-
mion della Dreher e Giunta, in una spedizione a Fiume, si avvalse addirittu-
ra dell’uso di un cannone.46 Il rilievo della questione slava per il “fascismo
di confine” fu perfettamente espresso, sempre da Giunta, nella risposta che
diede al rifiuto incontrato alla sua richiesta di avere Farinacci nella Venezia
Giulia.
«Se ben si guardi la lotta a Cremona è lotta tra fazioni italiane, laddove
che la lotta di Trieste è combattuta tra italiani e stranieri, tra chi difende
l’integrità della regione e della patria e chi tale integrità insidia con l’aiuto
aperto dello straniero […] Gli slavi premono terribilmente al confine con
tanto sangue da noi conquistato e si valgono come leva della popolazione
allogena che vive nella Venezia Giulia, rappresentando il 50 per cento (di-
ciamo il cinquanta per cento), per tramare a nostro danno e magari creare
d’improvviso il fatto compiuto d’una occupazione parziale del nostro terri-
torio […] La Venezia Giulia ha il posto e il compito che nel medio evo eb-

43
F. GIUNTA, Il fascismo nella Venezia Giulia, cit. p. 798-799.
44
Ivi p. 801
45
G. VOLPE, Storia del movimento fascista, Milano, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale,
1939, p. 30.
46
M. PACOR, Confine orientale…, cit. p. 70 e p. 106. A. APOLLONIO, Dagli Asburgo a Mussolini. Ve-
nezia Giulia 1918-1922, Gorizia, Libreria Editrice Goriziana, 2001, p. 489.

34
Il fascismo di confine

bero le marche di confine contro l’invasione straniera, onde si richiede che


in essa si radunino i migliori campioni».47
Questi caratteri del fascismo delle origini, seguendo la regola che l’azio-
ne, il fatto, precedeva i programmi e le norme, passeranno tutti nel fascismo
regime patrocinando in buona parte, come vedremo, non solo a livello loca-
le, la battaglia della nazione italiana e fascista contro le razze balcaniche e
il mito del “fascismo di confine” come baluardo della nazione, mito che poi
si avvalse della costruzione, come fece il fascismo in altre parti del paese
accordandosi con gli innumerevoli particolarismi e campanilismi italiani, di
altri miti di tipo regionalistico, creati con altri scopi ma che potevano tornare
utili pure in questa direzione, quelli della “friulanità” e della “triestinità”.48
Esponenti del “fascismo di frontiera” assursero a cariche nazionali por-
tandosi dietro questa mentalità. Giunta divenne Vicepresidente della Came-
ra, Segretario Nazionale del P.N.F. dal ’23 al ’25, Segretario del Gran Consi-
glio del fascismo dal ’23 al ’28, Governatore della Dalmazia nel ’43. Pisen-
ti, durante gli anni ’20 emarginato ed espulso dal partito, dove conservava
però la sua influenza, nel crepuscolo fascista di Salò diverrà Ministro della
Giustizia. Grazioli assumerà la carica di Alto Commissario per la Provincia
di Lubiana. Vidussoni, triestino, dal G.U.F. arrivò ad essere Segretario Na-
zionale del P.N.F. dal ’41 al ’43. Fulvio Suvich, Sottosegretario agli esteri
dal ’32 al ’36 e poi ambasciatore a Washington. Negli ambienti diplomatici
trovò spazio anche un fautore del razzismo antislavo come Attilio Tamaro.
Nella pubblicistica nazionale basti ricordare Virgilio Gayda.49
Con loro, e con altri qui non nominati, si formò una vera e propria Lob-
by del “fascismo di frontiera” che porterà con se l’esperienza pratica prima
ancora che le teorizzazioni, trovando ascolto in una classe dirigente ogget-
tivamente e soggettivamente ben disposta verso tesi del genere, sia per quel
che riguardava il comportamento da tenersi con gli allogeni sia nelle formu-
lazioni dell’imperialismo fascista nel settore danubiano-balcanico.50

47
Cit in A. M. VINCI, Il fascismo al confine orientale, cit. p. 404. A. APOLLONIO, Dagli Asburgo…,
cit. p. 290.
48
Quand’erano presenti, anche le rivendicazioni autonomistiche avevano quale giustificazione una
più ravvicinata opera di contenimento e snazionalizzazione degli allogeni. A. M. VINCI, Il fascismo
al confine orientale, cit. p. 439. A. LEONARDUZZI, Storiografia e fascismo in Friuli. Partito, gruppi
dirigenti, società, in «Italia contemporanea», XXXIX, 177, dicembre 1989, p. 39. Per una compara-
zione con altre costruzioni a carattere locale Cfr: M. PALLA, Firenze nel regime fascista (1929-1934),
Firenze, Leo S. Olschki Editore, 1978.
49
T. SALA, Tra Marte e Mercurio…, cit. p. 219. Voce Slavofobia, di E. COLLOTTI, in Dizionario del
fascismo, cit. pp. 637-640. A. APOLLONIO, Dagli Asburgo…, cit. p. 288.
50
T. SALA, Tra Marte e Mercurio…, cit. pp. 218-219. Voce Slavofobia, cit. pp. 637-640.

35
II - Il fascismo

In conclusione, si può affermare che fra i vari aspetti distruttivi e nega-


tivi caratterizzanti l’ideologia fascista, fra i tanti “anti”, antifemminismo,
antiparlamentarismo, antibolscevismo, antiamericanismo, solo per fare al-
cuni esempi, trovò spazio anche un antislavismo, che alla frontiera orientale
costituì l’”anti” specifico di quel fascismo, occupando una larga fetta delle
sue attività.

IL FASCISMO ANTISLAVO E LA SNAZIONALIZZAZIONE:


CULTURA, IDEOLOGIA E POLITICA

L’antislavismo è dunque, abbiamo appena detto, uno dei vari “anti” con
cui il fascismo si definisce in opposizione a qualcosa, ed assurge ad un ruolo
importante sia nell’ideologia che nella politica estera del regime. Cerchere-
mo adesso di capire meglio gli aspetti culturali, ideologici, oltre che politici,
che informarono l’azione ed i programmi fascisti verso gli slavi.
Prima di tutto i precedenti, importanti per la comprensione del retroterra
da cui si partiva. Va rilevato immediatamente come l’opposizione verso l’al-
tro non sia secondaria nella costruzione e definizione di un’identità naziona-
le italiana nella Venezia Giulia. E’ un elemento comune a molte costruzioni
nazionali, più in generale identitarie, una regola a cui abbiamo visto non
sfuggiva nemmeno lo stesso fascismo. Gli stessi nazionalisti come Corra-
dini lo avevano ben presente quando parlavano della funzione di compat-
tamento e coesione su comuni interessi che rivestiva per la nazione la resi-
stenza a forze esterne.51 Quando questo processo investe la creazione di una
coscienza nazionale, non è mai irrilevante il portato razzista che si tira dietro
questa distinzione dal “diverso”, qui associato mentalmente all’avversario,
allo straniero/nemico.
Se la cultura democratica aveva postulato la pacifica convivenza con i
fratelli slavi anche attraverso le opere di Slataper e Vivante, il nazionalismo
imperialista risolveva la “questione adriatica” in termini che non ammette-
vano mediazioni, o noi o loro.52 Un esempio su tutti ci è dato dal già citato
Timeus, definito da Federzoni nel ’29, nella prefazione ai suoi Scritti politi-
ci, «uno dei maggiori antesignani del fascismo» che aveva il merito di aver
posto le basi per un «nuovo irredentismo, non più incoerente stato d’animo,

51
A.GILLETTE, Racial theories in fascist Italy, London, Routledge, 2002, p. 39.
52
E. COLLOTTI, Sul razzismo antislavo, cit. pp. 35-39.

36
Il fascismo antislavo e la snazionalizzazione: cultura, ideologia e politica

non più anacronistica deduzione dal principio astratto di nazionalità, bensì


programma preliminare di integrazione italiana per un fine più ampio e più
complesso di lotta e di potenza nella storia mondiale».53 Scriveva nel 1912
Timeus:
«Abbiamo noi il diritto di sottomettere al nostro stato due o trecentomi-
la slavi? L’irredentismo antico che partiva dal principio dell’indipendenza
nazionale per tutti poteva esser imbarazzato. Noi no. Noi non partiamo da
alcun principio universale, noi vogliamo la grandezza e la sicurezza del-
l’Italia. Se gli Slavi ci pigliano di mezzo, peggio per loro. E’ la sorte dei vin-
ti: anche noi la soffrimmo. E se pensiamo al concetto del progresso umano,
possiamo credere noi che gli Slavi possano portare la fiaccola della civiltà
più in alto che noi, popolo antico e sempre nuovo, nazione di glorie e di
speranze risorgenti sempre? E poi quando si tratta di vita o di morte, per
una fisima di nazioni giovani e di nazioni vecchie, fisima che i fatti d’og-
gi smentiscono, dobbiamo forse incrociar le braccia e lasciarci gettar nel
mare? Per l’avvenire la via è chiaramente tracciata. Da noi continuar senza
tregua e senza quartiere la difesa contro gli avversari nazionali».54
L’esistenza degli slavi, o meglio di un “problema slavo”, non veniva an-
cora negata, al contrario si sbandierava per sensibilizzare l’opinione pubbli-
ca italiana, e si risolveva nei termini di uno scontro di razze. Scontro inevi-
tabile. In Timeus gli elementi razzisti sono evidenti, la sua rivendicazione di
poter portare la civiltà più in alto è una rivendicazione di superiorità, di un
primato, nei confronti dei «bifolchi croati».55 Confina gli slavi ai gradini più
bassi della scala sociale, altro elemento importante nelle tipologie razziste
dove l’inferiorità si associa alla posizione sociale ed alligna nelle classi più
povere. Gli slavi sono «i non abbienti, i non qualificati»56 «relativamente
poveri e poco evoluti»57 «contadini tardigradi, politicamente miopi, profon-
damente clericali». Gli italiani devono continuare nella battaglia combattuta
fino ad allora, «la nostra gente che ha l’istinto della politica nazionale ha
combattuto ed ha odiato fino a ieri gli slavi» mossa dal «naturale disprez-
zo che noi abbiamo per gli slavi», lo scontro era «una fatalità che non può
avere il suo compimento se non nella sparizione completa di una delle due
razze che si combattono».58

53
R. TIMEUS, Scritti politici…, cit. La prefazione non riporta numeri di pagina.
54
Ivi pp. 63-64.
55
Ivi p. 110.
56
Cit in E. COLLOTTI, Sul razzismo…, cit . p. 41
57
R. TIMEUS, Scritti politici…, cit. p. 109-116.
58
Cit in E. COLLOTTI, Sul razzismo…, cit . pp. 39-40.

37
II - Il fascismo

La loro inferiorità rispetto alla superiorità italiana, considerata un dato


evidente, di natura, era il terreno da cui prendeva le mosse anche Gayda nel-
l’opuscolo Gli slavi della Venezia Giulia, del 1915, dove la lotta si risolveva
nella scomparsa degli slavi all’interno della civiltà italiana. «Istintivamente
gli sloveni si sentono attratti verso i focolari italiani della più alta cultura»
perché «lo stato generale di coltura degli sloveni è ancora troppo poco
progredito per dare alla gran massa un moto nazionale spontaneo», «non
c’è veramente ancora neppure una coscienza collettiva unanime, limpida,
in questa razza, che la distingua nazionalmente» per cui «dove ci sono cen-
tri italiani, essi irradiano immediatamente nella campagna, tra gli slavi,
un po’ della loro italianità». «L’irresistibile influenza italiana» porterà ad
una omogeneità frutto della «volontaria sottomissione degli slavi agli ita-
liani». Gli slavi non possono sovrapporsi agli italiani, che sono dominan-
ti, e non costituiscono un problema «per il possesso italiano della Venezia
Giulia».59
Queste idee acquisteranno man mano importanza influenzando i governi
liberali per entrare poi a pieno titolo nell’armamentario ideologico fasci-
sta. Lo stato italiano che prendeva possesso dell’ex Litorale austriaco e
dell’Istria aveva già ceduto con la guerra alle lusinghe del nazionalismo
imperialista, si considerava fondamentalmente uno stato monoetnico e tale
intendeva restare, non era preparato per resistere alle elaborazioni antisla-
ve, spesso introiettate dalla sua stessa classe dirigente. Appena giunto al go-
verno il fascismo, nell’approntare la sua politica verso le minoranze, pose a
base di essa la formulazione di far coincidere unità statale e nazionale. Era
la realizzazione del principio base del nazionalismo che Gellner descrive
efficacemente: «il nazionalismo è anzitutto un principio politico che sostie-
ne che l’unità nazionale e l’unita politica dovrebbero essere perfettamente
coincidenti». La violazione di questo principio dava luogo ad un sentimen-
to di collera,60 collera che i fascisti riversarono sugli slavi fin dal loro primo
apparire. L’esaltazione della nazione, della razza, o stirpe, italiana,61 era del
resto uno dei capisaldi ideologici del fascismo. Nel programma del P.N.F.
del 1921 si legge:
«La Nazione non è la semplice somma degli individui viventi né lo

59
V. GAYDA, Gli slavi della Venezia Giulia, Milano, Rava e C. Editori, 1915, pp. 18-28.
60
E. GELLNER, Nazioni e nazionalismo, Roma, Editori Riuniti, 19973, p. 3.
61
I due termini erano quasi sempre usati come sinonimi.

38
Il fascismo antislavo e la snazionalizzazione: cultura, ideologia e politica

strumento dei partiti pei loro fini, ma un organismo comprendente la se-


rie indefinita delle generazioni di cui i singoli sono elementi transeunti; è
la sintesi suprema di tutti i valori materiali e immateriali della stirpe. Lo
Stato è l’incarnazione giuridica della Nazione. Gli Istituti politici sono
forme efficaci in quanto i valori nazionali vi trovino espressione e tute-
la».62
Era una visione organicista, debitrice al pensiero di Rocco, in cui la na-
zione veniva vista in analogia con un organismo vivente in cui tutte le sue
parti agiscono armonicamente per la realizzazione del bene dell’individuo,
qui declinato nella forma degli interessi supremi della nazione. Questa con-
cezione derivava dal nazionalismo italiano. Per Corradini il nazionalismo
era radicato nella natura stessa. La nazione era un entità spirituale connessa
con i suoi antenati. Un entità fisica, etnica, storica, spirituale e politica, ave-
va un corpo, una razza e un territorio.63 Va da se che in un ottica simile la
presenza di altre nazionalità sul suolo patrio diveniva un corpo estraneo, un
infezione da estirpare per il bene dell’organismo.
Il programma del ’21 andava avanti sostenendo che la società nazionale
era la forma di organizzazione sociale dominante e che la legge essenziale
del mondo fosse la concorrenza tra le nazioni,64 concorrenza che andava
vinta.
«Il Partito Nazionale Fascista intende elevare a piena dignità i costumi
politici così che la morale pubblica e quella privata cessino di trovarsi in
antitesi nella vita della Nazione»,65 per farlo si doveva restaurare «il presti-
gio dello Stato Nazionale e cioè dello Stato che non assista indifferente allo
scatenarsi e al prepotere delle forze che attentino o comunque minaccino
di indebolire materialmente e spiritualmente la compagine, ma sia geloso
custode e difensore e propagatore della tradizione nazionale, del sentimento
nazionale, della volontà nazionale».66 Queste forze erano i comunisti, i so-
cialisti, con la loro ideologia internazionalista e classista, ma erano anche le
nazionalità diverse presenti in Italia. Per il fascismo la libertà del cittadino
trovava un limite «nel diritto sovrano della nazione a vivere e sviluppar-

62
R. DE FELICE, Autobiografia del fascismo. Antologia di testi fascisti 1919-1945, Torino, Einaudi,
2001, pp. 91-92.
63
A.GILLETTE, Racial theories..., cit. p. 38.
64
R. DE FELICE, Autobiografia del fascismo…, cit. p. 92.
65
Ivi p. 93.
66
Ibidem.
67
Ibidem.

39
II - Il fascismo

si».67 Il diritto di sloveni e croati alla loro esistenza in quanto nazione, alla
loro lingua, alle loro tradizioni, ai loro nomi, poteva rientrare fra gli ostacoli
per la vita e lo sviluppo dell’Italia, ed infatti così avvenne. Poco più avanti
il programma affermava l’esigenza imperialista e dava un primo obbiettivo
da raggiungere verso le minoranze. «L’Italia riaffermi il diritto alla sua
completa unità storica e geografica, anche là dove non è ancora raggiunta;
adempia la sua funzione di baluardo della civiltà latina sul Mediterraneo;
affermi sui popoli di nazionalità diversa annessi all’Italia saldo e stabile
impero della sua legge».68
Concretamente, l’Italia fascista adottò il più delle volte un indirizzo na-
zionalista di tipo ”includente”, teso cioè ad assimilare sloveni e croati, defi-
niti spesso allogeni più ancora che slavi. Un termine, quest’ultimo, contrad-
dittorio, ne negava l’appartenenza anche nominale ad un’altra nazionalità,
cancellandone l’esistenza anche quando si parlava di loro, ed al tempo stes-
so ne sottolineava velatamente la differenza dagli italiani, il carattere alieno.
Questa contraddizione la troviamo riflessa nell’operato fascista a proposito
della “bonifica nazionale”, la specifica antislava di quel concetto di “boni-
fica” che Ruth Ben-Ghiat individua come centrale, un «desiderio fascista
di purificare la nazione da ogni patologia sociale e culturale» strappan-
do le erbacce cattive e ripulendo il terreno. “Bonifica agricola”, “bonifica
umana”, “bonifica della cultura”, facce diverse di un progetto teso ad una
trasformazione nazionale totalizzante per rigenerare l’Italia e gli italiani,69
a creare un “uomo nuovo” fascista, vera e propria ossessione di Mussolini.
Nel nostro contesto è una “bonifica etnica”. Essa viene declinata alle volte
nel senso di un’integrazione, una purificazione che libera il terreno dagli
slavi trasformandoli in italiani, ma altre volte è un’espulsione, un program-
ma di colonizzazione italiana che espelle gli allogeni,. Nelle idee di molti le
due cose convivono. L’espulsione libera dal problema trasferendo gli slavi
all’estero, se invece li sposta nelle vecchie province o nelle colonie il loro
destino è l’assimilazione.
La volontà includente, quando è messa in pratica, distingue l’operato
fascista verso gli slavi da quello attuato nelle colonie africane, i cui abitanti
semplicemente non furono accolti nella “nazione”, in un epoca in cui con-
siderare i “negri” come inferiori appariva scontato e non era considerato

68
Ibidem.
69
R. BEN-GHIAT, La cultura fascista, Bologna, Il Mulino, 20042, p. 13.

40
Il fascismo antislavo e la snazionalizzazione: cultura, ideologia e politica

nemmeno un atteggiamento razzista, e contro gli ebrei in patria, guidato da


un nazionalismo ”escludente”, indirizzato a dissimilare.70
Si potrebbe pensare che la ragione di un approccio assimilazionista vada
ricercata in un fattore di tipo pratico, la non opportunità cioè, in una zona di
confine, di enfatizzare le differenze con nazionalità che avevano al di là di
esso il proprio stato. Era senz’altro un problema che i gerarchi del regime
avevano ben presente, anzi si potrebbe dire che ne erano ossessionati, ma
le motivazioni erano soprattutto altre, più profonde e complesse. La scelta
dell’inclusione, della snazionalizzazione/italianizzazione, va letta alla luce
delle sue scansioni temporali, delle teorie razziali circolanti in Italia con i
loro caratteri originali, della cultura dell’epoca, anche politica, di quell’idea
della romanità, vero e proprio culto, che fu più che un semplice mito propa-
gandistico, della visione che si aveva dei popoli slavi, dell’idea di nazione
italiana, delle rivendicazioni espansionistiche, in un intreccio non sempre
lineare e coerente.
Il fascismo si trovò ad affrontare il problema delle minoranze slave prima
ancora di giungere al potere, e lo fece con un virulento squadrismo, utiliz-
zando questa tematica come fattore di adesione e di mobilitazione. L’azione
precedeva i programmi e le norme. Salito al governo, prima di elaborare
proprie linee di azione specifiche proseguì sulla strada dettata dal naziona-
lismo e dai circoli locali, portando a compimento scelte inclusive che erano
già state poste in essere nel periodo precedente, con la sostanziale differenza
che adesso venivano elevate a programma organico di governo ed attuate
in maniera sempre più totalitaria. Fu una scelta quasi obbligata, il fascismo
non poté scegliersi i tempi come fece in altre occasioni. Nondimeno, fu una
scelta che venne mantenuta invariata nelle sue premesse di fondo per tutto il
ventennio fascista, senza che venissero mai messe seriamente in discussio-
ne. La tesi di una assimilazione semplice e rapida, dovuta all’infimo livello
culturale in cui si credeva versassero gli slavi, era largamente presente e
condivisa nella discussione politica ed anche nella società. Questo però può
essere sufficiente per dar ragione di un’opzione iniziale, non del suo man-
tenimento nel tempo, quando emergerà sempre più la sua discrepanza dalla
realtà. Anche quando si metterà mano ai programmi di espulsione, la sna-

70
Voce Razzismo, in Dizionario dei fascismi, a cura di P. MILZA, S. BERSTEIN, N. TRANFAGLIA, B.
MANTELLI, Milano, Bompiani, 2002. Sul termine “allogeni” Cfr: G. SLUGA, Identità nazionale italia-
na e fascismo: alieni, allogeni e assimilazione sul confine nord-orientale italiano, in Nazionalismi
di frontiera. Identità contrapposte sull’Adriatico nord-orientale 1850-1950, a cura di M. CATTARUZ-
ZA, s.l., Rubettino Editore, 2003, pp. 190-191. E. COLLOTTI, Sul razzismo…, cit . p. 53.

41
II - Il fascismo

zionalizzazione resterà un orizzonte a cui guardare. Si deve allora indagare


le ragioni più profonde di questo agire. Cardine attorno a cui ruotava il tutto
era l’impossibilità per il fascismo di venir meno ad una concezione unifi-
cante di stato e nazione, Italia e fascismo, che fondeva tutti questi concetti
insieme, dando il primato all’elemento fascista, non potendo in nessun caso
ammettere l’esistenza di alterità, fossero esse politiche,71 linguistiche o na-
zionali, all’interno della nazione. Le diversità quindi andavano o annullate
o espunte dal corpus della nazione se considerate insolubili, e non di rado
le due cose viaggiavano assieme. La scelta di tentare una politica di integra-
zione, di assimilazione, sia pur a fronte di una lettura razzista dei disprezzati
slavi non deve stupire. Va messa in connessione coi modelli di pensiero
razziali e nazionalisti dominanti nella penisola. L’idea stessa di nazione,
di razza italiana, di stirpe italica, così com’era nel nazionalismo, ma anche
nella cultura e nel mondo scientifico, favorì questa direzione. L’idea di basi
biologiche, e per tanto immutabili, come caratteristica determinante della
nazione, della razza, non trovò mai larga fortuna in Italia, soprattutto a causa
dell’evidente differenziazione degli italiani. L’accettazione dei postulati del
razzismo biologico avrebbe infatti finito per demolire la nazione italiana. Da
ciò però non ne deriva che di un razzismo italiano non si possa parlare, solo
che esso poggiava, in larga parte, su altre teorizzazioni.
Emilio Gentile ha messo in evidenza come nell’Italia liberale il concetto
che associava una razza ad una nazione non trovasse un grande seguito. «Il
fattore volontaristico e spiritualistico appariva assolutamente predominan-
te nella concezione italiana della nazione: esso era il fattore decisivo, quel-
lo che rendeva possibile a tutti gli altri fattori – territorio, lingua, religione,
tradizioni, costumi – di acquistare, per così dire, vitalità nella formazione
di una nazione, fino a completarla nella realtà di uno Stato nazionale. La
preponderanza attribuita alla coscienza di un comune passato nella forma-
zione della moderna concezione della nazione, intesa appunto come forma-
zione storica e non come un dato naturale, escludeva la razza dai fattori
decisivi della nazionalità. Nell’Italia liberale prevalse l’idea della nazione
come realtà spirituale, culturale e storica, nella quale era nettamente de-
cisivo ed essenziale l’elemento volontaristico e, più estesamente, umanisti-
co rispetto a qualsiasi elemento naturalistico. Secondo questa concezione,
nella formazione di una comunità umana definibile come nazione, i fattori
spirituali, culturali, storici sono più decisivi dei fattori naturali, geografici,

71
Basti pensare agli antifascisti, dipinti come non italiani.

42
Il fascismo antislavo e la snazionalizzazione: cultura, ideologia e politica

etnici […] Nella mitologia nazionale dell’Italia liberale […] non ci fu la


teoria di una razza italiana, conservatasi pura ed omogenea attraverso i
secoli».72
Per Corradini la nazione non era formata da una razza pura e naturale,
ma era di tipo storico, mista, e l’Italia poteva coerentemente offrire lo spet-
tacolo, tutt’altro che disdicevole, di numerose e diverse tipologie regionali,
fuse in una splendida sintesi spirituale.73 Certo nel nazionalismo imperiali-
sta italiano si fecero spazio anche concezioni che agganciavano la nazione
alla stirpe, detentrice di qualità superiori, aprendo la strada a concezioni più
naturalistiche e svincolate dalla volontà umana. Ma per i nazionalisti era la
nazione ad essere una dato naturale, indipendente dalla volontà dei singoli,
come scriveva Rocco, per il quale la nazione non era la semplice somma
degli individui viventi ma un’unità che riassumeva in sé la serie indefinita
delle generazioni, ed i suoi fini erano preminenti su quegli degli individui o
dei gruppi implicando la supremazia dello stato inteso come nazione orga-
nizzata ed all’opera.74 Un’idea che come abbiamo visto fu fatta propria alla
lettera dal fascismo col programma del 1921. Un’idea che non parlava di
razze pure, di razze di sangue.
Negli ambienti scientifici, durante il ventennio, dominavano all’incirca
le stesse idee. Per Pende la superiorità del popolo italiano era il risultato di
una sintesi razziale unica ed irripetibile avvenuta nel corso dei secoli. Le
differenze riscontrabili nelle varie regioni italiane non potevano far parlare
di eterogeneità, di non omogeneità degli italiani, perché era dalla loro sintesi
che scaturiva la specificità e la grandezza italiana, sintesi abilmente operata
nell’antichità da Roma. «Da felici mescolanze sono spesso derivate la forza
e la bellezza di una Nazione. Razza: ciò è sentimento, non realtà, io non cre-
derò mai che possano dimostrarsi razze più o meno pure biologicamente».
L’Italia fascista doveva mantenere varietà e polivalenza etnica, fonte di vi-
talità e di grandezza. Pende polemizzava con i fautori di un razzismo biolo-
gico, soprattutto coi tedeschi, riconosceva l’esistenza delle razze, compresa
una razza slava, ma ciò non era un gran problema poiché per lui la forza e

72
E. GENTILE, La grande Italia. Ascesa e declino del mito della nazione nel ventesimo secolo, Mila-
no, Mondatori, 1997, pp. 35-37. Il corsivo è nel testo. Gentile riporta anche una definizione tratta dal
Dizionario di cognizioni utili edito dalla UTET nel 1914 dove si sosteneva che le nazioni moderne
erano il risultato della somma di individui appartenenti a razze diverse, in specie modo le nazioni più
civili, ed altre affermazioni, fra cui quelle dell’antropologo Celso Ferrari e di Napoleone Colajanni,
tutte dello stesso tenore. Ivi pp.34-37.
73
A.GILLETTE, Racial theories..., cit. p. 38.
74
E. GENTILE, La grande Italia…, cit. pp. 109-116.

43
II - Il fascismo

la superiorità di una nazione non risiedevano nella purezza razziale, a cui


peraltro non credeva. Il fatto che Pende figuri tra i firmatari del “Manifesto
degli scienziati razzisti”, basato su un razzismo biologicista, non deve trarre
in inganno. La firma fu messa a sua insaputa, probabilmente a causa della
fama di cui godeva, e non mancò, sia pur in forme attenuate e non troppo
esplicite, di manifestare il suo dissenso.75 Tra l’altro lo stesso “Manifesto” si
rivelava assai contraddittorio, scontando sul tema della nazione tutto il peso
della concezione predominante. Al punto tre affermava che «il concetto di
razza è puramente biologico. Esso quindi è basato su altre considerazioni
che non i concetti di popolo e di nazione, fondati essenzialmente su consi-
derazioni storiche, linguistiche e religiose».76
Nella medicina italiana la discussione razziale era ben presente, si parla-
va di una razza italiana dotata di qualità superiori ma anche delle sue varietà
antropologiche. Questa discussione, per i termini su cui verteva, contribuì
sicuramente ad inserire elementi razzisti, anche di tipo biologico, nella cul-
tura italiana, ma generalmente, almeno finché si guardava all’Europa, non si
discuteva di gerarchia delle razze né di bloccare le mescolanze.77
Su un altro versante lo statista e demografo Gini sosteneva che le grandi
civiltà risultassero da incroci interrazziali senza i quali le razze decadono e
scompaiono, dividendoli fra positivi e negativi, e propugnava l’espansio-
ne italiana a spese di altre razze.78 Per Niceforo «lo spirito di nazionalità
è indipendente dalla diversità delle razze […] la coscienza nazionale, il
sentimento vivissimo di fratellanza patria, scaturisce unico fuori dalla co-
munanza di idee, di aspirazioni, di avvenimenti storici e sociali, attraverso
i quali ebbero a passare, unite, razze diverse».79 La scienza demografica
ebbe grande importanza negli anni del regime, il quale aveva fatto del na-
tivismo una delle sue battaglie principali. Essa elaborò un razzismo italico
che vedeva nella stirpe italiana una razza non pura e che nemmeno voleva

75
A.GILLETTE, Racial theories..., cit. p. 48. R. MAIOCCHI, Scienza italiana…, cit. pp. 41-57 e 229-
238.
76
Documento riportato in Le persecuzioni degli ebrei durante il fascismo. Le leggi del 1938, Roma,
Camera dei Deputati, 1998. Il corsivo è nel testo.
77
R. MAIOCCHI, Scienza italiana…, cit. pp. 61 e 78. Il decimo punto del “Manifesto degli scienziati
razzisti” lo confermava. «I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono
essere alterati in nessun modo. L’unione è ammissibile solo nell’ambito delle razze europee, nel
qual caso non si deve parlare di vero e proprio ibridismo, dato che queste razze appartengono ad un
ceppo comune e differiscono solo per alcuni caratteri, mentre sono uguali per moltissimi altri». Le
persecuzioni degli ebrei…, cit. p. 113. Il corsivo è nel testo.
78
Ivi pp. 94-97.
79
Ivi pp. 113-114.

44
Il fascismo antislavo e la snazionalizzazione: cultura, ideologia e politica

esserlo, ma comunque superiore, destinata ad espandersi sottomettendo po-


poli inferiori.80
In ambito antropologico si lavorò molto su questi temi. Giuseppe Sergi
sosteneva che le idee e la cultura comune avevano un potere unificante inter-
razziale. Per l’antropologia italiana ammettere una connessione fra caratte-
ristiche intellettuali e fisiche significava mettere in discussione l’idea stessa
di nazione italiana, sempre a causa delle sue varietà. Anche qui si parlava di
razza italiana in termini storici e spirituali.81
Le scienze storiche (archeologia, antichistica, studi preistorici) furono
mobilitate dal regime per dimostrare i modi e le forme con cui le antiche
genti italiche, considerate le dirette progenitrici degli italiani del ‘900, ave-
vano imposto la loro civiltà. Concretamente questa superiorità si era espres-
sa in maniera più alta nell’esperienza di Roma e del suo impero, di cui il
fascismo si proclamava erede diretto.82 Come afferma Maiocchi «gli anti-
chisti diedero spessore storico al mito della superiorità delle genti italiche
ancorandolo alla romanità».83 Roma aveva fuso ed amalgamato in sé, in un
processo di omogeneizzazione, i popoli che aveva sottomesso, elevandoli e
traendo forza da questo processo. Mario Attilio Levi nel ‘36 sosteneva che
aveva compiuto «il miracolo di rendere tutte le genti del mondo classico
consapevoli della propria unità morale, dando loro una volontà collettiva
e quindi una reale esistenza quale popolo unitario».84 Bodrero nel ’26 ave-
va scritto «l’impero è un grande fatto morale […] il dono che un popolo fa
dopo un suo travaglio, dopo un suo martirio, a tutti i popoli della terra, il
dono di una grande idea […] è l’esaudimento di un bisogno morale […]
è un verbo che una stirpe da agli altri popoli della terra , i quali allora
porgono volenterosi i polsi alla schiavitù».85 Mussolini stesso nella voce
fascismo dell’Enciclopedia italiana del 1932 avvalorava questa visione «Lo
stato fascista è una volontà di potenza e d’imperio. La tradizione romana è
qui un’idea di forza. Nella dottrina del fascismo l’impero non è soltanto una
espressione territoriale o militare o mercantile, ma spirituale o morale. […]
Per il fascismo la tendenza all’impero, cioè all’espansione delle nazioni, è
una manifestazioni di vitalità».86 Da Roma il regime poteva trarre un’idea

80
Ivi pp. 137-139.
81
Ivi pp. 142-149.
82
Ivi pp. 169-186 dove si trovano molte informazioni sullo studio dell’antichità romana, sul mito
che alimentava e le strumentalizzazioni di cui era fatto oggetto.
83
Ivi p. 183.
84
Ivi p. 184.
85
Ivi p. 183.
86
Fascismo, in Enciclopedia italiana, vol. XIV, Roma, Istituto Treccani, 1951, p. 851.

45
II - Il fascismo

di dominio universale di cui propugnarsi erede e continuatore, un’idea di


nuovo ordine mondiale rappresentata in epoca moderna dall’idea fascista,
un’idea che contemplava una politica pragmatica e gerarchica di afferma-
zione di dominio e discriminazioni sui popoli sottoposti ma anche di assi-
milazione. Sotto di esso si formò un vero e proprio “culto della romanità”,
adattabile a molteplici esigenze e mutabile in funzione dei vari usi. Era un
mito, certamente, ma in uno stato totalitario, o che aspira ad esserlo, i miti
sostanziano la politica e non possono essere liquidati come semplice reto-
rica propagandistica. Ed il mito dell’impero, con tutte le sue componenti di
missione civilizzatrice, di pretese universalistiche, di proposte per la riorga-
nizzazione del Nuovo ordine mediterraneo, fu un aspetto originale e centra-
le dell’ideologia fascista.
Quando si guardava al mondo europeo, o occidentale estendendo la vi-
suale, era diffusa pertanto una scala gerarchica che si basava su una distin-
zione fra civiltà superiori e inferiori, non fra razze biologiche (cosa che in-
vece valeva per i neri, per i gialli… considerate razze diverse ed inferiori a
quelle europee). Non per questo tale scala era meno razzista. Si aggiungeva
un idea diffusa della possibilità di assimilare civiltà inferiori senza con ciò
inficiare la grandezza della propria, anzi in tale capacità includente vi trova-
va conferma e ulteriore propulsione. Su questa strada la visione di nazione
non costituiva un ostacolo, come poteva essere in Germania dove razza, di
sangue, e nazione si saldavano, proprio perché la stessa nazione italiana
era un amalgama storicamente concretizzatasi di razze diverse ed in questo
trovava una delle sue specificità. La matura concezione fascista della nazio-
ne era assai lontana dalle proposizioni dei nazionalsocialisti, ma anche da
quelle più esplicitamente naturaliste del nazionalismo di Rocco e Corradini.
Il fascismo si distaccò dagli elementi più naturalistici per accentuare una
concezione spiritualistica e statalistica.87 Giovanni Gentile nella parte da
lui scritta, ma firmata da Mussolini, della voce fascismo nell’Enciclopedia
italiana, sosteneva che era lo stato a creare la nazione, la quale era compo-
sta da: «tutti coloro che dalla natura e dalla storia, etnicamente, traggono
ragione di formare una nazione, avviati sopra la stessa linea di sviluppo e
formazione spirituale come una coscienza e una volontà sola. Non razza, né
regione geograficamente individuata, ma schiatta storicamente perpetuate-
si, moltitudine unificata da un’idea, che è volontà di esistenza e di potenza:
coscienza di sé, personalità.

87
E. GENTILE, La grande Italia…, cit. p. 161.

46
Il fascismo antislavo e la snazionalizzazione: cultura, ideologia e politica

Questa personalità superiore è bensì nazione in quanto è stato. Non è la


nazione a generare lo stato, secondo il vieto concetto naturalistico che servì
di base alla pubblicistica degli stati nazionali nel sec. XIX. Anzi, la nazione
è creata dallo stato, che dà al popolo, consapevole della propria unità mo-
rale, una volontà e quindi un’effettiva esistenza».88
Nei confronti degli allogeni della Venezia Giulia certe idee potevano
avere un solo risvolto. Felice Battaglia, sempre nell’Enciclopedia italiana,
nella voce nazione, esprimeva una convinzione più che esplicita. «Uno stato
forte nella coscienza della sua missione politica e culturale, fondato su un
centro nazionale sufficientemente omogeneo, incontrando nel suo seno più
piccole unità nazionali o alla periferia minoranze allogene, esercita una
grande efficacia accumunativa e finisce col dissolverle».89
In un contesto in cui dominante era un pensiero che sosteneva che
era lo stato a creare la nazione, non solo venivano a cadere tutte le re-
more aventi a che fare con la razza, la lingua e quant’altro, ma non po-
teva sussistere nemmeno nessun dubbio sui successi di una politica tesa
a nazionalizzare una parte della popolazione da parte di uno stato forte e
monoliticamente teso verso il raggiungimento dei suoi obbiettivi qual’era
lo stato fascista.
Se prendiamo in esame testi che riguardano direttamente gli slavi, pos-
siamo rintracciare elementi afferenti a vari aspetti di quanto abbiamo espo-
sto. E’ il caso di un lavoro del 1929 di Livio Ragusin-Righi, allora reggente
del P.N.F. a Trieste, un vero e proprio trattato dell’antislavismo fascista, dal
titolo Politica di confine. Citeremo più volte da questo testo che in sostanza
si occupa di quasi tutti gli aspetti della politica fascista che esamineremo più
avanti. Adesso ci limiteremo in via preliminare ad evidenziare l’impalca-
tura concettuale che lo sosteneva.90 Già nell’introduzione gli allogeni sono
gente che «insidiava la nostra italianità», torme di barbari che premono sui
confini del mondo civile, e ci si augura di conseguenza che il lavoro possa
essere un «contributo al processo di purificazione ed unificazione linguisti-
ca e spirituale della zona allogena», una frase su cui non può non cadere
l’attenzione sull’uso di quell’aggettivo, spirituale, che sostanziava per i fa-
scisti l’essenza della nazione e dell’impero al di sopra della caratterizzazio-

88
Fascismo, in Enciclopedia italiana, cit. p. 848.
89
Nazione, in Enciclopedia italiana, vol. XXIV, Roma, Istituto Treccani, 1951, p. 471.
90
Fornisco adesso gli estremi editoriali che non citerò ulteriormente in questo paragrafo per non ap-
pesantire la lettura visto che l’opera è costellata dall’inizio alla fine delle affermazioni che espongo.
L. RAGUSIN RIGHI, Politica di confine, Trieste, Società Editrice Mutilati e Combattenti, 1929.

47
II - Il fascismo

ne etnica immediata. Per Righi si tratta di una popolazione «povera e poco


colta», «nella più profonda ignoranza», «gente primitiva» che si sostenta
con una «rude vita di lavoro», «chiusa a qualsiasi idea di progresso o di
emancipazione», «abituata ad obbedire», addirittura «contenta di obbedire
con servilismo medioevale». Una popolazione rurale «misera e di limitate
esigenze» che vive in «miseri gruppi di capanne». Caratteristico dello stato
in cui gli slavi versano è quello «di abbandono, il miserabile tenor di vita,
la nera ignoranza». «Erano rimasti sempre senza una coltura e senza delle
idealità politiche», in uno stato di «inferiorità culturale», mancante di «un
qualsiasi ideale che d’altronde non sarebbe neanche all’altezza di avere».
«Non avevano mai avuto una propria coscienza», nell’«assenza di una clas-
se intellettuale e della più modesta istruzione» avevano «sempre vissuto in
misere condizioni privi di una propria convinzione». Gli allogeni per lui
altro non erano se non «piccoli aggruppamenti etnici politicamente amorfi»
incapaci di sentire un nazionalismo dato che «neanche nella forma esteriore
presentano le caratteristiche che sono proprie ad una minoranza naziona-
le». Gli slavi, risultato di «invasioni barbariche», «gente di nascita differen-
te» costituiscono delle «interferenze di confine» che vanno sanate.
«I nuclei di sloveni della zona di confine, non hanno mai avuto una pro-
pria unità nazionale, né una propria civiltà», «non seppero crearsi una ci-
viltà ne scrivere una pagina di storia quando avrebbero potuto farlo», quin-
di «sarebbe assurdo pensare che dovesse cominciare una loro vita propria,
precisamente nel momento in cui hanno trovato una civiltà che viene loro
incontro ed una grande patria che è costituita da un solo blocco etnico sen-
za minoranze e senza irredentismi interni e per dippiù dotato di un potere di
assimilazione che non ha confronti».
Righi, ritenendo gli allogeni «meno evoluti di noi», pensa alla snaziona-
lizzazione come ad un’ovvietà, «tra un gruppo civile e uno primitivo, resta
assimilato il meno civile», ricavandone che «il processo di assimilazione si
svolgerà automaticamente». Gli slavi dovrebbero essere grati alla «civiltà
italiana la quale ha portato loro delle condizioni di vita ed un elevamento
morale che in passato neanche potevano sognare», «le loro condizioni di
vita e di civiltà sono rimaste indietro di molti anni e soltanto la civiltà italia-
na, e per essa il fascismo, comincerà a far loro ottenere quei beni dai quali
finora erano rimasti esclusi». L’Italia «maestra di civiltà» «deve portare la
sua millenaria civiltà», «il soffio di una superiore civiltà fra queste popola-
zioni meno progredite», per farlo «era necessario essere animati da quella
fierezza di razza e da quella fede nei propri destini, che solo il fascismo ha
ridato all’Italia». La dittatura aveva «dato vita ad un meraviglioso sistema

48
Il fascismo antislavo e la snazionalizzazione: cultura, ideologia e politica

di istituzioni che costituiscono la potente arma di civiltà con la quale il fa-


scismo si apre ogni strada». Come animali o piante dovevano «essere colti-
vati» perché nelle loro condizioni non erano degni nemmeno di accogliere il
fascismo, quella grande idea universale che il regime donava al mondo, «il
fascismo che conquista ed infiamma gli animi col suo contenuto spirituale,
assai a stento può esser compreso da una popolazione rozza ed incolta e
perdippiù priva di un qualsiasi principio politico». In Righi il legame con la
tradizione romana è evidente quando parla della colonizzazione e della bo-
nifica, come vedremo nel prossimo capitolo. Chiara è anche la concezione
organicistica della nazione, che si risolve nell’uso di molti termini di natura
medica. Le minoranze sono «piaghe lasciate dall’Austria» da sanare, una
«cancrena», «scorie», «focolai di infezione antitaliana», l’intellighenzia è
un «veicolo di infezione slava».
Razzismo ed odio verso gli slavi sovrintendevano anche all’opera di At-
tilio Tamaro La lotta delle razze nell’Europa danubiana del 1923, dove i
conflitti di nazionalità si risolvevano sempre e solo nella sopraffazione e mai
nella convivenza. Gli slavi della Venezia Giulia, ma anche della Dalmazia,
considerata “Italia”, non sono autoctoni ma «sono penetrati o sono stati
portati»91 in funzione antitaliana, funzione che per lui era la ragion d’essere
dello stesso stato jugoslavo, facendo eco a Mussolini che aveva detto: «il
regno dei serbo-croati-sloveni è tenuto insieme dal comune denominatore
della più violenta italofobia».92 L’idea che Tamaro ha di sloveni e croati è
ancora quella di popoli posti su un gradino inferiore della scala delle civiltà.
Nei primi «la modestia e la povertà della loro vita e l’assenza di ogni cultu-
ra impedirono di solito i contatti con le genti più colte che li dominavano»,93
i secondi erano «rudi e ignorantissime masse croate».94
C’era tutto un lessico sprezzante e razzista che si metteva in moto quan-
do si parlava di slavi. Mussolini trattando dei croati aveva usato il termine
di «croataglia». Scocchi su La porta orientale, una rivista che contribuirà
molto alla diffusione di questo lessico, polemizzando con una pubblicazione
dell’indipendentismo croato che aveva incluso territori italiani in una ipote-
tica cartina della Croazia, rispondeva così: «nessuno può mettere in dubbio

91
A. TAMARO, La lotta delle razze nell’Europa danubiana, Bologna, Zanichelli, 1923, p. 159. Sal-
vemini definì Tamaro «uno dei più accaniti slavofobi che abbia l’Italia» cit. in R. FAUCCI, Elementi
di imperialismo nell’Italia prefascista, in L’imperialismo italiano e la Jugoslavia. Atti del convegno
italo-jugoslavo. Ancona 14-16 ottobre 1977, Urbino, Argalìa Editore, 1981, p. 65.
92
B. MUSSOLINI, Alle alpi giulie, in Scritti e discorsi, cit. p. 56.
93
A. TAMARO, La lotta delle razze…, cit. p. 160.
94
Ivi p. 209.

49
II - Il fascismo

che la civiltà dell’Istria, ininterrottamente latina per venti secoli, fu brillan-


temente difesa anche al confronto dei paesi finitimi slavi, innegabilmente di
civiltà inferiore».95
Un’altra fonte importante per comprendere la compenetrazione tra men-
talità e politica è il numero monografico di Gerarchia dedicato alla Venezia
Giulia nell’anniversario dell’annessione nel ’27. Anche qui si è sempre sulla
stessa linea. Cobol nell’articolo intitolato Il fascismo e gli allogeni dichiara
subito che nei confronti degli slavi non ci può essere diversità di trattamen-
to, «sono oggi cittadini italiani che non devono differenziarsi dagli altri in
nessun campo né dei doveri né dei diritti», come se il fascismo si facesse pa-
ladino dell’egualitarismo! Subito dopo si comprende meglio cosa intende. «
Il fascismo […] non può ammettere deviazioni e deformazioni. Il fascismo è
uno in tutta Italia», cioè nessuno spazio alle diversità. Di conseguenza nega
l’esistenza di un problema allogeno, coerentemente con altri autori, Righi
compreso, e con tutta la politica fascista, sostenendo che quando esiste «è
creato ad artificio». Gli slavi, non solo quelli giuliani, non hanno le caratte-
ristiche storiche della nazione italiana. «Il popolo slavo dei Balcani non ha
prima della guerra la fisionomia unitaria del popolo italiano». Nella Vene-
zia Giulia sono immigrati e socialmente dei rurali, in essi non si agita «alcun
problema spontaneo di lingua e di coltura». Se un problema esiste è quello
della «penetrazione italiana e fascista», declinato prioritariamente in una
differenziazione «fra fedeli e infedeli», che può assumere le caratteristiche
di un «problema di polizia». Gli slavi sono «ossequienti per attitudine men-
tale» e «non vi ha dubbio che in un non lontano avvenire, attratti dalla no-
stra civiltà, che ha così potente forza di assimilazione, saranno orgogliosi di
essere parte della nazione italiana».96 Il senatore Bombig97 nel suo Le con-
dizioni demografiche della Venezia Giulia e gli allogeni pone la demografia
al servizio della dimostrazione di un’inconsistenza della presenza slava. Per
lui gran parte di coloro che sono considerati slavi sono in realtà italiani sla-
vizzati, altra conferma della visione demografica che considerava la nazio-
ne, anche quella altrui, risultato di mescolanze. Ne nega anche l’importanza
come problema politico. «La migliore politica verso gli allogeni è quella

95
B. MUSSOLINI, Secondo discorso di Trieste, in Scritti e discorsi, cit. p. 147. A. SCOCCHI, Terre italia-
ne in una carta geografica croata, in «La porta orientale», I, 11-12, dicembre 1931. p. 957.
96
G. COBOL, Il fascismo e gli allogeni, in «Gerarchia», VII, 9, settembre 1927, pp. 803-805. Cobol
cambierà il cognome in Cobolli durante la campagna per l’italianizzazione dei cognomi.
97
Repertorio biografico dei senatori dell’Italia fascista, a cura di E. GENTILE e E. CAMPOCHIARO, Na-
poli, Bibliopolis, 2003, vol. I, p. 367. Nel ’29 Bombig italianizzerà il proprio cognomi in Bombi.

50
Il fascismo antislavo e la snazionalizzazione: cultura, ideologia e politica

che si fa e di cui non si parla mai», parlarne faceva correre il «rischio» di


dare a quella popolazione «un’importanza che certamente non merita». So-
stiene Bombig che «avessero pure costituito il 48% della popolazione della
regione, gli slavi erano in linea sociale, politica, economica, morale una
quantità molto inferiore alla asserita loro potenzialità numerica». L’immi-
grazione degli italiani delle vecchie province ha «portato con se la civiltà
occidentale, la civiltà italiana, sbalcanizzando la regione. Perché qui […]
era la Balcania, con le sue peggiori qualità di primitività e di poltroneria,
malgrado i suoi abitanti, per saper scrivere a mala pena il loro nome e co-
gnome, la pretendessero ad alfabeti». Per lui il problema si risolverà da sé,
anche se auspica comunque che rappresentanti del governo e funzionari agi-
scano con spirito missionario.98 Un articolo su Gorizia firmato Osservatore
si pone la domanda su quale sia il metodo più pratico per condurre gli allo-
glotti «sebbene di razza diversa, ad amare e ad apprezzare l’Italia».99
C’era quindi un contesto culturale di riferimento che propugnava un’Ita-
lia come aggregato di razze diverse unitesi in un insieme armonico e supe-
riore, una superiorità dimostrata anche dalla capacità inclusive, assimilative,
della nazione e della civiltà italiana. Una capacità che, è rilevante, funzio-
nava anche verso le culture delle altre civiltà viste come avanzate, dalle
quali, anche se straniere, si potevano assorbire innovazioni senza svilire la
propria cultura. L’Italia poteva ricevere idee dagli altri assimilandole e rie-
laborandole in forma propria e superiore.100 Si univa una visione di sloveni
e croati come popoli e civiltà inferiori che incontrandosi per l’appunto con
la civiltà italiana ne restavano assimilati, cosa che poteva trovare recente
conferma in quella che era stata in effetti, almeno fino alla metà dell’800,
la capacità assimilatoria quasi naturale delle comunità italiane nella regione
giuliana. Messa in questi termini, l’incorporazione degli slavi non inquinava
l’italianità, anzi ne dimostrava la superiorità, e poteva essere coerentemente
messa in opera. Alcuni autori offrono una sintesi di questo modo di pensare
in connessione agli slavi. In una serie di articoli del 1922 intitolati Lingue
straniere e stranieri in Italia Annoni sosteneva che i romani antichi erano la
prova che civiltà superiori possono assorbire le inferiori, l’Italia aveva ere-
ditato questa forza. Gli slavi essendo di civiltà inferiore erano per lui quindi

98
G. BOMBIG, Le condizioni demografiche della Venezia Giulia e gli allogeni, in «Gerarchia», VII,
9, settembre 1927, pp. 807-819.
99
OSSERVATORE, Gorizia, in «Gerarchia», VII, 9, settembre 1927, p. 820.
100
R. BEN-GHIAT, La cultura fascista, cit. pp. 50-51.

51
II - Il fascismo

assimilabili facilmente.101 Sabelli in Nazioni e minoranze etniche, del 1929,


trattava delle minoranze in Italia, considerava le razze ormai miste. Per lui
la forza di una stirpe scaturiva dalla sua capacità espansionistica e assimi-
lativa. Le minoranze non erano un problema, lo diventavano solo là dove
l’assimilazione non era efficace, e non era il caso della nazione italiana.102
Tutto ciò, se spiega molto, deve però ancora essere verificato a fronte del-
la politica che verrà inaugurata nel ’38 a danno degli ebrei. Da quella data
infatti le correnti di razzismo biologico presenti in Italia beneficiano di un
salto di qualità e diventano più influenti, pur non soppiantando l’altro raz-
zismo, quello spiritualista, le due tendenze anzi convivono, si influenzano
a vicenda e danno vita ad un vivace dibattito sulle concezioni del razzismo
italiano e della nazione. Il fascismo comincia a dissimilare, ad escludere,
all’interno stesso del territorio dello stato italiano, non siamo più nelle colo-
nie ma nella stessa Italia dove fino ad allora non si ammetteva la presenza di
differenze. La scelta di colpire gli ebrei, dovuta a svariati fattori e legata an-
che alla tradizione dell’antigiudaismo cattolico, comporta in primis la loro
espulsione mentale dalla nazione italiana, la loro ghettizzazione ed esclusio-
ne. Gli italiani vengono bombardati con una campagna tesa a descrivere la
loro identità nazionale da adesso anche coi canoni del razzismo biologico.
Con gli slavi però il fascismo rimase includente, un dato sottolineato an-
che da Glenda Sluga.103 Che i barbari slavi fossero considerati una presenza
meno inquinante di quella degli ebrei appare difficile da credere. Questa
permanenza va quindi spiegata in altro modo. La campagna razzista ed an-
tisemita del regime non fu un semplice appiattimento sulle posizione del
potente alleato tedesco, non la risultante di una scelta tattica dovuta a mo-
tivazioni contingenti, ma il prodotto di un originale percorso del fascismo.
Anzi, era proprio nel confronto e nella polemica con le concezioni naziste
della razza che meglio si delineava la posizione dei fascisti, riportando in
primo piano i discorsi sulla nazione nell’Ordine nuovo, che negli anni pre-
cedenti erano stati in larga parte soppiantati da quelli sull’impero. Venivano
messe in rilievo le differenze fra le due visioni in quella che si configurò
come una sfida per la supremazia ideologica su tematiche fondamentali per
i due stati fascisti. Il problema, per la cultura fascista, era quello di risolvere
il conflitto fra il presupposto naturalistico della “purezza” della razza e la

101
G. SLUGA, Identità nazionale italiana e fascismo…, cit. pp. 178-180.
102
Ivi p. 188.
103
Ivi p. 195.

52
Il fascismo antislavo e la snazionalizzazione: cultura, ideologia e politica

concezione fascista della nazione, la sua ideologia spiritualista ed il concre-


to problema della evidente “non purezza”della razza italiana. Ne nacque una
distinzione fra razzismo “biologico” e razzismo “spiritualista” che dette vita
ad un groviglio di idee, dal quale spesso questa differenziazione emergeva a
fatica, che aveva come scopo la dimostrazione della superiorità ideologica
dell’impostazione italiana, non giungendo mai a rinnegare i presupposti di
una concezione della nazione che assegnava il maggior valore agli elementi
storici, spirituali, all’azione dello “stato creatore”, relegando su un secondo
piano i fattori etnici, primari nell’ideologia nazista, come originari della co-
scienza e dello stato nazionale.104 Costamagna ribadiva l’importanza della
storia e dello stato come agenti fondativi della nazione, Evola affermava
la superiorità della concezione fascista dello stato rispetto a quella tedesca
che lo poneva come secondario rispetto al Volk, La Via, in Popolo, nazione,
nazionalità, razza, civiltà, sistemava le varie enunciazioni di differenze coi
nazionalsocialisti e precisava che il principio della razza era recepito nella
cultura fascista solo in quanto credenza e mito.105
Mazzei, nel suo Razza e nazione, discuteva ampiamente la problemati-
ca. Fin dall’inizio dichiarava, contrapponendosi ad alcune affermazioni di
Hitler del 1937, che «la dottrina italiana della razza, come del resto tutta la
dottrina fascista, vuole serbare la sua caratteristica continuità con i valo-
ri spirituali del passato, ed in particolare con la teoria italianissima della
nazione […] perché la dottrina italiana della razza, salvo le analogie este-
riori, è nel suo spirito nettamente diversa da quella nazista».106 Polemiz-
zava poi con gli scienziati autori del manifesto del quale metteva in luce le
contraddizioni,107 e definiva «la dottrina italiana della nazione […] sintesi
feconda degli elementi naturalistici, oggettivi, e di quelli spiritualistici, sub-
biettivi»,108 i cui «caratteri peculiari» erano due, «affermazione decisa del-
la nazione come fenomeno prevalentemente storico-sociale ed etico; equa
valutazione degli elementi naturalistici - e della razza in particolar modo

104
E. GENTILE, La grande Italia…, cit. pp. 203-208. E. GENTILE, La nazione del fascismo. Alle origini
del declino dello stato nazionale, in Nazione e nazionalità in Italia. Dall’alba del secolo a giorni
nostri, a cura di G. SPADOLINI, Roma-Bari, Laterza, 1994, pp. 100-107. Cfr: R. BEN-GHIAT, La cultura
fascista, cit. pp.200-201.
105
E. GENTILE, La grande Italia…, cit. pp. 207-208. E. GENTILE, La nazione del fascismo…, cit pp.
85-104.
106
V. MAZZEI, Razza e nazione, Roma, Edizioni italiane, 1942, pp. 5-7. Il libro era il frutto della ri-
pubblicazione di una serie di articoli del 1939.
107
Ivi pp. 10-12.
108
Ivi p. 42.

53
II - Il fascismo

- che, se non sono decisivi, hanno però, presi non singolarmente ma nel
loro complesso, una rilevante efficacia come forze nazionalizzanti», dando
torto dall’altra parte anche a chi, come gli idealisti, dava peso solo al fat-
tore volontaristico.109 Per Mazzei, se la razza non era determinante di per
sé, «non si può disconoscere che possa esservi nazione anche dove non sia
unità di razza»,110 esisteva comunque uno spettro di fattori rintracciabili in
natura che servivano a fare la nazione. Ed in questo contrastava con Genti-
le. «D’accordo che il contenuto del concetto di nazionalità è variabile, in
quanto possono volta a volta mancare l’unità di lingua o l’unità di razza
o la terra patria o la comunanza del costume e degli interessi e via dicen-
do, o due o più di questi elementi. Ma essi non possono mancare tutti in
una volta sola, perché diversamente la nazione non si distinguerebbe da
una qualsiasi altra comunità o società; si avrebbe una inqualificata società
[…] io penso, insomma, che ci sia un residuo naturalistico ineliminabile
nel concetto di nazione».111 Questi fondamenti naturali per lui non compor-
tavano però, come per tutti gli altri, l’esclusione della mescolanza di razze.
«Non intendiamo favoleggiare di inesistenti razze pure, ma ci atteniamo al
sano criterio scientifico della razza mista, o, se si vuole, storica».112 «La
negazione dell’esistenza di razze pure non implica però […] la negazione
totale di qualsiasi idea di razza, perché il fatto della coabitazione di più
schiatte nel medesimo territorio - a parte la considerazione che in generale
c’è sempre una di esse che prevale - conduce, alfine, […] ad unità etnica.
Non pura progenie, ma unica stirpe composta, la quale ha sempre una tale
energia nazionalizzante che un illustre sociologo italiano ne fa addirittura
“il carattere fondamentale ed il principio generatore della nazionalità”».113
Impossibile immaginare un nazista che pensi, se pur soltanto in via teorica,
a frammischiare il Volk germanico con altre razze!
A questa mescolanza esistevano comunque, dei limiti, «evitare gli in-
croci con razze inferiori (leggi contro il meticciato), nonché gli incroci con
elementi appartenenti a razze che alla luce dell’esperienza politica sono
apparse incapaci di amalgamarsi nel nostro complesso razziale in Italia
(ebrei)».114 Mazzei non parla mai di slavi, ma da quanto abbiamo visto essi

109
Ivi pp. 52-53.
110
Ivi p. 79.
111
Ivi p. 56.
112
Ivi p. 61. Il corsivo è nel testo.
113
Ivi p. 62.
114
Ivi p. 63.

54
Il fascismo antislavo e la snazionalizzazione: cultura, ideologia e politica

non rientravano sicuramente né nella prima categoria, i meticci, riservata


agli africani, né, soprattutto, in quella degli elementi che si erano dimostra-
ti impossibili da assimilare, dunque non rappresentavano un pericolo, in
quanto comunque fosse erano europei, appartenenti a una civiltà inferiore,
un popolo senza storia, una non nazione certo, ma proprio per questo passi-
bili di essere inglobati. A differenza degli ebrei, che formavano una nazione
a sé anche se residenti in Italia, «una nazione nel corpo di altre nazioni»,
impossibili da assimilare, una rottura nell’identificazione fascismo nazione
e dunque un ostacolo sulla via totalitaria. Su questo Mazzei era categorico.
«Non possono esistere nel seno della nazione dei gruppi inassimilabili o
quanto meno degli elementi nocivi o renitenti per ragioni fisiche o morali
all’esigenza della coesione, senza che la nazione ne risenta come un orga-
nismo per l’azione di corpi estranei per avventura penetratevi».115 Queste
considerazioni potevano valere sia per gli slavi che per gli ebrei. Per i primi
comportavano l’italianizzazione, la distruzione della loro cultura, o l’espul-
sione, a seconda dei casi, per i secondi, che erano una «coesa compagine
razziale annidata nel corpo della nazione», l’«opportunità di eliminarla o,
comunque, di metterla in condizione di non poter nuocere».116
Ma è anche, se non soprattutto, nelle questioni di politica estera, negli
obbiettivi dell’imperialismo italiano e nell’idea che avevano dell’estensione
dell’Italia i nazionalisti e poi i fascisti, che troviamo ragioni al mantenimen-
to della linea nazionalizzatrice.
Nel numero di Gerarchia vi sono alcuni articoli in cui le esigenze del-
l’imperialismo fascista verso i Balcani sono chiare. Per Mrach l’Istria era
«un fattore non trascurabile ai fini dell’irradiazione della civiltà nazionale
al di là del nostro odierno confine orientale». Le terre al confine nord-orien-
tale costituivano «salde posizioni territoriali situate sulla soglia di quello
scacchiere danubiano-balcanico […] sul quale la nostra politica di potenza
dominante ha oggi la possibilità e il dovere d’affermarsi».117 Suvich conside-
rava Trieste un «punto d’irradiazione verso l’estero di iniziative e di lavoro
italiani».118 Tutta la regione sotto il regime fu considerata come un’immen-
sa trincea di prima linea da cui partire all’assalto. In particolare nelle mire
fasciste vi era la Dalmazia, considerata indispensabile strategicamente per

115
Ivi p. 69.
116
Ivi p. 67.
117
G. MRACH, L’Istria, in «Gerarchia», VII, 9, settembre 1927, pp. 825-826. L’autore italianizzerà
poi il suo cognome in Maracchi.
118
F. SUVICH, L’unione di Trieste alla madre patria, in «Gerarchia», VII, 9, settembre 1927, p. 736.

55
II - Il fascismo

fare dell’adriatico un mare nostrum nonché terra italiana persa con gli ini-
qui trattati di pace. Mussolini nel ’20 parlando delle comunità italiane aveva
detto «gli italiani di Dalmazia sono i più puri, i più santi degli italiani. Sono
gli eletti del popolo italiano. Per essi la razza non è un fatto etnico è un sen-
timento, è una devota, gelosa, intrepida religione»119 affidandogli il compito
di preservare l’italianità dalmata dall’invasione barbarica slava, in attesa di
un ritorno all’Italia. La rivendicazione della Dalmazia italiana, unita ad una
contrapposizione di nazionalità, fu sempre presente nella pubblicistica di
epoca fascista. Riviste specifiche come Adriatico nostro si preoccupavano
di favorire studi storici per dimostrare la sua italianità. Si aggiungeva l’at-
tività di strutture quali i “Comitati d’azione dalmatica” e il “Comitato na-
zionale Dalmazia”.120 Su Gerarchia troviamo un articolo di Dudan ad essa
dedicato. Nell’apertura si dichiarava subito la Dalmazia terra italiana sia per
la geografia che per la storia e l’etnografia. Sosteneva che l’Austria, ma an-
che Francia e Gran Bretagna, avevano organizzato un «opera di falsificazio-
ne della storia, di snaturamento del carattere nazionale» con l’obbiettivo
di «rendere slava la Dalmazia» attraverso un’«invasione barbarica». Ri-
manendo nel quadro di riferimento culturale che abbiamo tracciato, Dudan
rinveniva le origini dell’italianità della regione in epoca romana. L’adriatico
era «più lago che mare» da epoche remotissime, elencava tutta una serie di
autori di epoche diverse, scomodando tra gli altri San Girolamo, Costantino
Porfirogenito, papa Gregorio Magno, per dimostrare l’evoluzione lineare
delle città dalmate da latine in italiane, senza inquinamenti slavi, di cui dava
prova anche l’archeologia. La Dalmazia rimarrebbe terra italiana anche se
«con il ferro e con il fuoco si distruggessero fin l’ultimo italiano», e chiariva
l’esigenza strategica delle rivendicazioni fasciste. «La Dalmazia è come la
Sardegna, indispensabile alla difesa dell’Italia», il Regno S.H.S. non aveva
nessun titolo né storico, né giuridico, al possesso della regione.121 Su Critica
fascista nel 1928 troviamo argomentazioni geografiche dove si sosteneva
che, essendo le alpi dinariche un divisorio, la Dalmazia non faceva parte
della Balcania, la sua unione alla Jugoslavia era antigeografica e antistorica.
La Jugoslavia era poi inconciliabile con l’alta civiltà italiana a causa della

119
B. MUSSOLINI, Ciò che rimane e ciò che verrà, in Scritti e discorsi, cit. 1934, p. 114.
120
Su questa tematica Cfr: M. P. NASO, La questione adriatica nella pubblicistica fra le due guerre,
in L’imperialismo italiano e la Jugoslavia…, cit. pp. 235-279.
121
A. DUDAN, La Dalmazia e la più grande turlupinatura internazionale del secolo, in «Gerarchia»,
VII, 9, settembre 1927, pp. 837-843. Dudan era un “esperto” della questione dalmata Cfr: R. FAUCCI,
Elementi di imperialismo…, cit. pp. 63-69.

56
Il fascismo antislavo e la snazionalizzazione: cultura, ideologia e politica

primitiva psicologia croata.122 Anche uno studio del 1920 intitolato Italia-
nità della Dalmazia di Smirić sosteneva essere la presenza slava il risultato
di un premeditato disegno austriaco antitaliano, usava il concetto di nazione
spirituale, un aggregato di razze diverse unite da lingua e religione che tende
a riunirle in un unico organismo, rintracciando una sola nazionalità al di là
dell’adriatico con queste caratteristiche, ovviamente quella italiana, perché
anche per lui, al solito, gli slavi erano primitivi, inferiori, una quasi nazio-
ne.123 Su queste rivendicazioni convergevano anche i fautori del razzismo
biologico. Il lavoro di Pullè del ’27, L’Italia. Genti e favelle, distingueva fra
razza, continuità fisica di sangue, insieme naturale, mentre popoli, nazione,
lingua e costumi sarebbero state formazioni storiche, la quali erano però a
loro volta condizionate nel loro sviluppo storico dai caratteri antropologici,
fisici, in un circolo vizioso. Affermava l’unità razziale delle due sponde del-
l’adriatico, abitate dalla razza adriatica in un arco che lo copriva interamen-
te, partendo dall’Epiro fino alla Puglia e passando per la Dalmazia, l’Istria e
il Veneto. Questa razza non sarebbe mai stata scalfita da mescolanze con gli
slavi. Con lui alle motivazioni strategiche, agli argomenti culturali e storici
si aggiungono quelli razziali.124 Anche quella vetrina del razzismo fascista
di stampo biologicista che fu la rivista La difesa della razza si muoveva su
argomentazioni identiche. L’imperialismo fascista trovava qui fondamenti
razziali più simili agli argomenti dei nazisti. Telesio Interlandi, strenuo fau-
tore delle ragioni del razzismo biologico e direttore della rivista, scriveva:
«il concetto di razza supera quello di nazione […] la razza esiste anche ol-
tre i confini politici della nazione […] gli italiani devono sapere che il loro
sangue circola più largamente nel mondo di quanto il disegno delle frontie-
re politiche possa mostrare». I confini razziali sono «l’indice progressivo di
una dilatazione necessaria».125 La rivista dedicò alcuni articoli alla Jugosla-
via. In quello dello sloveno Bozo Skerlj c’era una classificazione delle razze
jugoslave, appartenenti a tutti i rami delle razze europee e divise nettamente
da quella italiana, non presente in Dalmazia anche se vi era riscontrabile
l’influenza della sua civiltà, asserzione che scatenava Interlandi il quale in-
terveniva continuamente dentro all’articolo, spezzettandolo usando lo stru-
mento della nota del direttore, per dimostrare al contrario l’esistenza di una

122
M. P. NASO, La questione adriatica nella pubblicistica…, cit. pp. 244-246.
123
S. PUCCINI, Tra razzismo e scienza. L’antropologia fascista e i popoli balcanici, in «Limes», 1,
1994, p. 285.
124
Ivi pp. 287-289.
125
T. INTERLANDI, Confini razziali, in «La difesa della razza», II, 6, 1939.

57
II - Il fascismo

razza italiana in Dalmazia. La razza italiana non sarebbe tutta mediterranea


ma anche adriatica, divisa dunque in due elementi diversi. La razza adriatica
era presente su entrambe le sponde, è dato che i Dalmati erano adriatici era-
no anche italiani. E’ interessante notare come qui Interlandi accettasse l’idea
della presenza di razze diverse in seno all’italianità!126
Nel frattempo il fascismo aveva anche cominciato ad elaborare le sue
specifiche teorie sull’organizzazione del Nuovo ordine creato dall’asse. Im-
mediatamente prima e durante la guerra uscirono numerosi lavori che tenta-
vano di dare un’organizzazione alla comunità imperiale fascista, al Nuovo
ordine mediterraneo in cui avrebbe prosperato l’uomo nuovo forgiato dal
regime fascista con la sua nuova civiltà. Rodogno127 ha illustrato efficace-
mente il progetto di dominio fascista in quella che si credeva essere la sua
sfera d’influenza, distinta ed autonoma da quella nazista, e cioè il Mediter-
raneo. Il fascismo voleva ritagliarsi un proprio “spazio vitale”, articolato
in un “piccolo spazio”, riservato agli italiani, gli unici a godere della piena
cittadinanza nell’impero, ed in un “grande spazio” in cui il fascismo avreb-
be esercitato il suo dominio organizzando una comunità di nazioni legate
ad esso in una scala di subordinazione gerarchica. In questo “spazio vitale”
il posto centrale sarebbe stato occupato dalla civiltà italiana, ed il regime
avrebbe assolto al suo compito di civilizzazione sui popoli sottomessi. Il
“piccolo spazio” comprendeva anche le zone che si voleva annettere, come
poi effettivamente avvenne, al Regno D’Italia, fra le quali figuravano la
Slovenia e la Dalmazia. E se nel “grande spazio” non era previsto che nes-
sun popolo si potesse mescolare con la razza dominatrice e civilizzatrice,
nel piccolo dovevano abitare solo italiani, ma nella realtà non era così. Nei
confronti degli sloveni e dei croati dei territori annessi fu quindi continuata
quella politica su due fronti già sperimentata nella Venezia Giulia fatta di
assimilazioni ed espulsioni, che assumevano ora la veste di vere e proprie
deportazioni, trovando un’ulteriore ragione ideologica e politica nella co-
struzione dell’impero del Duce.
Alla fine, se quella ottenuta fosse stata un’italianità di razza, di civiltà o
di nazione, per l’imperialismo fascista cambiava poco. Quello che conta-
va era l’avere argomenti che giustificassero le pretese espansionistiche di
annessione, che le rendessero realizzabili, non importava poi se messi tutti
assieme risultavano poco coerenti fra loro. Che si trattasse di dimostrare

126
B. SKERLJ, Rapporti di razza fra Jugoslavia e Italia, in «La difesa della razza», III, 1, 1939.

58
Il fascismo antislavo e la snazionalizzazione: cultura, ideologia e politica

la superiorità della propria civiltà inglobandone un’altra inferiore, che fos-


se un ripristino identitario su comunità considerate italiane ma slavizzate,
che questo ripristino si basasse su argomentazioni razziali, il risultato era
sempre quello di procedere ad un inglobamento. Accentuare le differenze
avrebbe significato rinunciare ai motivi, non solo militari e di potenza, sui
quali si articolavano le mire fasciste, motivi più pervasivi. Sospendere l’as-
similazione non rientrava nell’orizzonte culturale con cui si vedevano gli
slavi. Non rientrava nel futuro che si progettava per l’area balcanica che era
italiana, se non lo era doveva tornare ad esserlo perché questo suo carattere
millenario le era stato sottratto o alterato da invasioni e da un’opera perti-
nace e violenta degli slavi, veri e propri abusivi, alleati a potenze straniere
contro l’Italia, cui andava posto rimedio. Una rinuncia avrebbe messo in
crisi l’ideologia dell’impero fascista erede dell’universale impero romano e
l’identificazione fra stato, fascismo e nazione. Il fascismo si rendeva conto
che, rispetto agli ebrei, gli slavi erano più difficili da espellere perché più
numerosi ed in maggioranza legati alla terra. Ci provò, ma la snazionaliz-
zazione rimaneva il logico compendio per coloro che restavano. La snazio-
nalizzazione si imponeva perché al fondo era, insieme, un’esigenza dello
stato fascista sia in politica interna che in politica estera ed il frutto di una
mentalità, di una cultura, di un’ideologia. E non fu, per il fatto di essere as-
similativa, una politica meno violenta e distruttiva delle altre, basti pensare
che agli ebrei fu concesso di continuare ad avere le loro scuole, seppur ghet-
tizzate, agli slavi no.

59
III
La persecuzione antislava

TAPPE E STRUMENTI PRINCIPALI

L’analisi di tutto il blocco di misure, provvedimenti a carattere legislati-


vo e non, delle direttive politiche così come delle discussioni e dei progetti
in merito alla snazionalizzazione degli sloveni e dei croati, e delle scansioni
temporali che segnarono i passaggi di questa politica durante tutto il venten-
nio, ma si potrebbe partire da prima, dall’occupazione militare nel novem-
bre del ’18 arrivando a prendere in esame un periodo di 25 anni (novembre
’18–settembre ’43), deve sempre muoversi in un quadro capace di render
conto degli avvenimenti tanto interni quanto esterni.
L’Italia liberale che arrivava a contatto con queste popolazioni slave (il
discorso vale anche per i tedeschi del Sudtirolo) non era preparata ad af-
frontare la presenza di minoranze articolate e compatte sul suo territorio,
ma forse sarebbe meglio dire che, salvo importanti eccezioni, lo era solo
in senso repressivo, come si vide subito. Ci si portava dietro un bagaglio
culturale che le vedeva nel miglior dei casi come sempliciotte, con poche
esigenze e con una non radicata e ben definita identità nazionale, nel peg-
giore come inferiori, “barbare”, primitive e nemiche. In tutti i casi come dei
sudditi. Esse vennero annesse con il trattato di Rapallo senza il riconosci-
mento di nessuna garanzia e di alcun diritto. Questo misconoscimento di
diritti sarà una costante, nessun accordo con la Jugoslavia previde mai con-
cessioni del genere. L’imperialismo italiano da tempo elaborava agguerriti
progetti in direzione dei Balcani. L’annessione della Venezia Giulia veniva
giustificata con esigenze strategiche e con la rivendicazione del carattere
di limpida italianità del territorio. Gli ambienti militari, a cui venne nel-
l’immediato affidato il governo, erano in sintonia con queste idee. Il piano
Badoglio per un intervento destabilizzante nel Regno SHS si reggeva su un

D. RODOGNO, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in


127

Europa (1940-1943), Torino, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 67-100.

61
III - La persecuzione antislava

impianto di considerazioni che definivano croati e bosniaci come primitivi,


barbari, fanatici. Le donne slave dei territori occupati erano considerate di
facili costumi, si doveva incoraggiare i soldati italiani a fraternizzare con
loro, aspettandosi risultati benefici.128 Su questo terreno si realizzò subito
una convergenza di obbiettivi ed una fusione di interessi con gli ambienti
della borghesia italiana delle terre redente, con i circoli dei liberal-nazionali
e dei nazionalisti. La regione era teatro già dalla seconda metà dell’800 di
uno scontro nazionale che aveva avuto la sua fase alta a cavallo fra i due se-
coli raggiungendo in alcuni casi punte assai aspre. I gruppi di potere italiani
mal sopportavano il dinamismo slavo, quello economico in particolare ma
anche culturale, che si traduceva nella fine di un’assimilazione quasi auto-
matica, che in passato aveva ben funzionato più che altro nelle aree urbane,
e nella costruzione di una precisa e distinta identità nazionale degli sloveni
e dei croati, conformemente del resto a quanto stava avvenendo nel resto
dell’Europa con il “risveglio delle nazioni”, in particolare di quelle slave.
Così, già prima delle incursioni fasciste, la regione fu teatro delle azioni
delle squadre dei nazionalisti, che raccoglievano adesioni soprattutto nei
ceti medi ostentanti un’italianità a volte ritenuta malferma, in cerca di un si-
curo approdo. Le forze capitaliste guardavano al nazionalismo come ad una
soluzione in grado di risolvere contemporaneamente le lotte sociali e na-
zionali, abbinandole con la definizione di “slavo-comunisti”, in nome della
concordia e dei supremi interessi della nazione. L’idea che comunisti e slavi
coincidessero trovava largo successo. Per Mosconi, commissario generale
civile, i due termini si equivalevano.129 Gli echi della vicenda fiumana di
D’Annunzio, con tutte le sue motivazioni e le sue ritualità nazionaliste che
non disdegnavano certo l’antislavismo, giungevano nella regione.130 Come
nota Apih su questo terreno si era costituito un fronte politico eterogeneo
ed inorganico, ma concorde sugli obbiettivi. Si realizzava una convergenza
tra nazionalisti, militaristi e capitalismo guardata con simpatia anche dai
settori liberal-nazionali.131 Il fascismo fece subito sua l’animosità antislava,
trovandovi un terreno fertilissimo su cui svilupparsi. Il suo battesimo del
fuoco, che per De Felice rappresenta la nascita dello squadrismo organizza-

128
T. SALA, Tra Marte e Mercurio…, cit. pp. 220-221.
129
G. SLUGA, Identità nazionale italiana e fascismo…, cit. p. 175. Mosconi sarà poi Ministro delle
finanze dal 1928
130
Sul rituale nazionalista a fiume P. BALLINGER, La pentecoste italiana: accogliere il verbo della
fede italica. Lo sviluppo del rituale nazionalistico a Fiume, 1919-1921, in «Qualestoria», XXIX, 2,
dicembre 2001, pp. 123-142.
131
E. APIH, Italia. Fascismo e antifascismo…, cit. pp. 42-43.

62
Tappe e strumenti principali

to in Italia,132 fu il premeditato ed accuratamente organizzato assalto al Na-


rodni Dom di Trieste il 13 luglio 1920, detto Hotel Balkan, sede di numero-
se associazioni slovene, di casse di credito e cooperative, di biblioteche, di
un albergo e dell’Edinost, la più forte organizzazione politica degli sloveni.
Francesco Giunta, che guidava le squadre quel giorno, alcuni anni dopo così
lo ricordava «l’istinto ci portò a passo di corsa verso l’hotel Balkan. Era
questo un edificio massiccio, quadrato e di orribile gusto, con l’aspetto più
di una caserma che di un albergo; […] aveva l’aria di un colosso gonfio di
tradimento e di minacce. […] Dovemmo incominciare allora un regolare
assedio […] Dopo circa un’ora le fiamme divamparono ed in breve il tetro
edificio non fu che un braciere ardente, dove furono distrutte l’insidia e la
minaccia. E la città sfilò davanti alle rovine incandescenti con l’anima leg-
gera ed il respiro facile come chi è tolto da un incubo».133
Arrivato al potere il fascismo si mosse nei confronti degli allogeni nel
segno della continuità, realizzando i progetti locali dei liberal-nazionali e
dei nazionalisti, dando anche l’impressione di voler pagare i debiti verso le
periferie più attive nell’apporto di elementi ideologici capaci di aggregare
adesioni,134 ma già era rintracciabile una linea specifica ed un salto di qua-
lità. Collotti ha ragione quando scrive: «Non più antislavismo come diffuso
sentimento più o meno popolare, come emblema dei circoli nazionalisti più
o meno integrati con le articolazioni di potere dello Stato liberale, come
summa di pregiudizi e di risentimenti, fattore sociale e culturale ma non
ancora unica direttrice politica, come fatto sentimentale e non ancora nor-
mativo. Con l’avvento del fascismo […] non si tratta più di saggiare umori
e progetti, ma di delineare le tappe di uno sviluppo che era diventato ormai
indirizzo di governo».135 Lungi dall’essere un aspetto particolare, locale, la
politica antislava era parte integrante del generale processo di costruzione
dello stato totalitario e della politica estera fascista. Certo, non si trovano
programmi ampiamente pubblicizzati a livello nazionale, né un corpus legi-
slativo apposito completo, come nei confronti di ebrei e sudditi africani nel-
la seconda metà dei ’30. La mancanza di programmi sbandierati sul piano
nazionale può essere letta come frutto della volontà di non dar troppo rilie-

132
R. DE FELICE, Mussolini. Il rivoluzionario, Torino, Einaudi, 1965, p. 624.
133
F. GIUNTA, Il fascismo nella Venezia Giulia, cit. p. 799. L’assalto al Balkan è stato analizzato in
numerosi dei lavori citati. Basti adesso ricordare i due contributi più recenti e interessanti. M. KACIN
WOHINZ, L’incendio del «Narodni Dom» a Trieste, in «Qualestoria», XXVIII, 1, giugno 2000, pp.
89-99. A. APOLLONIO, Dagli Asburgo…, cit. pp. 291-312.
134
A. M. VINCI, Il fascismo al confine orientale, cit. p 453.
135
E. COLLOTTI, Sul razzismo antislavo, cit. p. 51.

63
III - La persecuzione antislava

vo, e quindi vistosità, ad un operazione che si preferiva tenere nell’ombra.


I fascisti invitano spesso a non parlare del problema, gli slavi non ci sono.
Si preferiva agire nel silenzio, rotto solo dalle uscite di alcuni gerarchi in
sede locale. Ma nei documenti interni emerge la sua importanza. Memoriali,
circolari ministeriali, la vasta corrispondenza fra le diverse sfere di potere
in tutti i settori, rendono valore a quello che non è un aspetto secondario. I
rapporti dei prefetti, lunga mano del Duce nelle realtà locali, sono numero-
si, seguono passo passo ogni aspetto della vicenda, controllano, valutano,
suggeriscono, agiscono. Uomini come Tiengo e Pisenti sembrano quasi es-
sere i dirigenti in loco della persecuzione, un’altra conferma del peso non
indifferente assegnato ai prefetti ed agli apparati statali dello stato fascista
nella realizzazione delle sue politiche, nelle funzioni di controllo e nella
creazione della nazione fascista. Il “genocidio culturale”, definizione usata
da molti storici per descrivere la sostanza della distruzione della minoranza
slava, mirante non alla sua eliminazione fisica ma a quella appunto della sua
identità nazionale,136 fu attuato attraverso una miriade di provvedimenti, in-
cidendo in ogni campo politico, economico, culturale, religioso, sociale, sul
piano dell’identità personale con l’italianizzazione di nomi e cognomi, sulla
memoria collettiva con la trasformazione dei toponimi, dei nomi delle stra-
de. Una politica che usava gli stessi strumenti fu attuata anche sui tedeschi
dell’Alto Adige,137 ma ad essa non si univa l’immagine razzista degli slavi
e non conteneva mire imperialiste per un ulteriore espansione territoriale in
aree tedesche.
In alcuni casi si presero provvedimenti ad hoc anche di tipo legislativo,
che Šiškovič definisce “leggi antialloglotte”, e fu questo il caso degli articoli
della riforma Gentile, della lingua negli atti amministrativi, nei tribunali, in
altri si procedette usando la legislazione di carattere generale che il fascismo
stava creando per fascistizzare il paese, magari inserendo formule vaghe
sull’attività antinazionale, come accadde nei confronti della stampa e delle
associazioni, altre volte ancora ci si limitò a sanzionare provvedimenti che
erano già maturati prima, l’italianizzazione dei toponimi.
Nell’azione antislava si può quindi verificare una volta ancora il rappor-
to di continuità e rottura del fascismo con la storia italiana precedente. Non
si sfugge tuttavia all’impressione che, laddove non arrivavano le leggi e le

136
Collotti a questo proposito ritiene «l’espressione di “genocidio culturale” nei confronti delle po-
polazioni slave […] del tutto adeguata a sintetizzare i caratteri della politica fascista», Ivi p. 57.
137
Cfr: voce Alto Adige, di P. DOGLIANI, in Dizionario del fascismo, cit. pp. 42-43.

64
Tappe e strumenti principali

disposizioni, si lasciasse mano libera ai gerarchi locali per agire attraverso


atti di tipo anche extralegale, e si permettesse una permanenza dello squa-
drismo ben oltre gli anni ’20, un dato che fu caratteristico della regione. Gli
esponenti del “fascismo di confine” agivano con la convinzione, suffragata
dai fatti, che la condivisione della loro slavofobia anche ai piani alti avrebbe
garantito copertura, impunità e sostegno.
La Jugoslavia poi per tutta la durata del regime fu una sorta di “sorve-
gliata speciale” che si cercò di isolare ed accerchiare con una rete di allean-
ze. I piani nazionalisti ed imperialisti non prevedevano la formazione di una
grossa entità statale nei Balcani, ma stati piccoli, facilmente assoggettabili
ed aperti ad una penetrazione economica e politica. Di qui la percezione
della Jugoslavia come un ostacolo che, unita al sostrato razzista, la faceva
apparire come ostile e nemica. Di qui anche l’aiuto offerto al separatismo
macedone ed, in parte per questi motivi, agli Ustaša di Pavelić. Per il fasci-
smo il Regno S.H.S. occupava terre italianissime come la Dalmazia, definita
senza dubbio Italia, estendendo contro ogni regola e buon senso geografico
la penisola italiana a quella balcanica. Nei suoi confronti sarà sempre messa
in atto una politica aggressiva pur non estranea a fasi distensive. La Venezia
Giulia presa in considerazione dall’osservatorio più ampio dello scacchiere
balcanico era vista a volte come una porta aperta per traffici e commerci,
mai per contaminazioni culturali, più spesso come un trampolino di lancio
verso l’espansione nell’area danubiana. La sorte toccata agli allogeni italia-
ni è per molti aspetti un’anticipazione su scala minore di quello che avverrà
dopo lo smembramento della Jugoslavia, un laboratorio su scala minore per
le politiche del regime. Non poteva quindi sussistere ai confini una massa di
italiani nazionalmente slavi che costituivano argomento per l’irredentismo
d’oltre confine ed un pericolo per i grandi progetti imperiali, rendendo insta-
bile e insicuro il loro retroterra ideologico e strategico.
Come dicevamo, i primi provvedimenti furono all’insegna della conti-
nuità. Già prima del fascismo era cominciata una “italianizzazione striscian-
te”138 con allontanamenti che colpirono prevalentemente il ceto medio intel-
lettuale, al fine di decapitare le comunità slave. Ne rimasero colpiti in larga
parte preti e maestri, ma anche i settori impiegatizi alle dipendenze pubbli-
che. Per i primi si facevano pressioni affinché venissero sostituiti, anche se
non mancarono misure poliziesche, i secondi, soggetti ad una vera e propria
epurazione, venivano per lo più trasferiti nelle vecchie province, licenziati

138
A. M. VINCI, Il fascismo al confine orientale, cit. p. 394.

65
III - La persecuzione antislava

o pensionati. Il fascismo continuò su questa strada. Soprattutto il campo


scolastico fu considerato importante ai fini dell’italianizzazione. Troviamo
qui conferma del ruolo fondamentale di trasformazione politica, culturale
ed anche nazionale che il fascismo attribuì di volta in volta alle istituzioni
educative nella creazione dell’uomo fascista, anche se qui c’era da creare
prima l’uomo italiano, come accadrà nel ’38.139 Per eliminare gli insegnanti
superstiti si ricorse all’obbligo di superare entro il 1925 un esame di cono-
scenza dell’italiano per avere l’abilitazione all’insegnamento. La sensibilità
su questo tema è comprovata anche dalla solerzia con cui si giunse allo scio-
glimento della Lega delle associazioni dei maestri (Ucitelski List) nel ’26,
un anno prima delle altre associazioni.140 Al corpo docente, preferibilmente
maschio, il regime attribuiva un importante ruolo nella snazionalizzazione,
un ruolo ribadito continuamente.
Un altro campo in cui si può rintracciare la continuità è quello della lin-
gua. Gli idiomi slavi dovevano sparire praticamente ovunque. Il fascismo
realizzò subito provvedimenti legislativi in questa direzione, ma anche re-
golamenti locali e disposizioni, dove tutto ciò non arrivava ci pensavano le
squadre. Il principio era quello della reciprocità fra unità linguistica e unità
nazionale teorizzato già nell’800 dai movimenti nazionalisti. Va rilevato che
quest’offensiva si inquadra all’interno di una più generale politica linguisti-
ca, basata sullo stesso principio, che prese di mira dialetti, parole straniere a
vario titolo entrate nel linguaggio ed espressioni considerate di origine non
italiana o latina, offensiva che, è stato osservato, segue un percorso analogo
a quello della politica razziale.141
E’ dei primi anni, 1923, anche lo scioglimento della provincia di Gori-
zia, densamente popolata da sloveni. Fu accorpata a quella di Udine crean-
do la grande provincia del Friuli. Il motivo dello scioglimento stava tutto
nella volontà di privare gli sloveni di una loro rappresentanza politica. Alle
elezioni del 1921 infatti da qui erano riusciti a far eleggere 4 deputati sui 5
assegnati, ed in mano agli sloveni erano molti comuni. La provincia fu ri-
costituita nel ’27, quando era scomparsa ogni prospettiva di rappresentanza
politica in parlamento e i dirigenti locali, varato l’ordinamento podestarile,
erano diventati di nomina governativa garantendo così che nessuno slavo
non gradito, cioè di sentimenti non italiani, potesse prendere la guida dei

139
Cfr: Razza e fascismo, a cura di E. COLLOTTI, Urbino, Carocci, 1999, p. 21.
140
M. KACIN WOHINZ, J. PIRJEVEC, Storia degli sloveni…, cit. p. 50. P. STRANJ, La questione scolasti-
ca…, cit. p.124. L. ČERMELJ, Sloveni e Croati…, cit. p 54.
141
Cfr: la voce Lingua/dialetti, di P. DOGLIANI, in Dizionario del fascismo, cit. pp. 53-56.

66
Tappe e strumenti principali

comuni, mentre stava per arrivare la riforma che avrebbe esautorato le pro-
vince.142
Ai fini dell’italianizzazione/fascistizzazione per un certo periodo funzio-
narono anche unità allogene della M.V.S.N., ma vennero presto sciolte per-
ché considerate poco affidabili.143 Ci si muoveva con incertezza, senza un
programma ed un’azione unitaria e coordinata, continuamente richiesta dai
federali, ma sempre con costanza e condivisione dei fini. La politica fascista
non riuscirà mai a perdere questo carattere. Un altro esempio di questa in-
certezza, che ammetteva piccoli passi indietro o correzioni di rotta nei me-
todi, è dato dal fallimento nei primi anni ’20 del programma di cooptazione
degli allogeni nelle file fasciste propugnato da Pisenti nella Provincia del
Friuli, che ha tutti gli aspetti del collaborazionismo. Fallito questo disegno
“moderato”, si ritorna sulla strada dell’assimilazione coatta.
Una prima svolta nel senso di una ulteriore radicalizzazione la si può
individuare negli anni fra il ’27 e il ’28. Funziona il nesso politica interna/
politica estera. Oramai saldamente al potere, varate le “leggi fascistissime”,
il fascismo aveva realizzato la trasformazione autoritaria dello stato. Verso
l’esterno ci si apprestava a non rinnovare il Patto di amicizia con la Jugo-
slavia, come effettivamente avvenne nel ’28, e la stampa italiana dal ’27
cominciò a riprendere il vigore antislavo ed a sbandierare la rivendicazione
della Dalmazia.144 Pare che sia del luglio 1927 il primo piano fascista di as-
salto alla Jugoslavia, un attacco che doveva essere aggressivo ed improvvi-
so.145 I tempi sono quindi maturi per un altro giro di vite. Se ne rendono con-
to i federali giuliani che in alcune riunioni congiunte, in una visita a Roma
e con un memoriale sollecitano tra il giugno e il luglio del ’27 ad agire con
maggior energia. Verranno esauditi. Chiusura delle superstiti associazioni e
dei giornali, liquidazione delle più forti organizzazioni cooperative, portata
a termine nel ’29. Gli slavi, «la minoranza che non esiste»,146 scompaiono
ufficialmente. La fase esteriore è condotta a termine. Unico neo rimane il

142
A. AGNELLI, Gli autonomisti giuliani e l’avvento del fascismo, in AA. VV., Il fascismo e le auto-
nomie locali, Bologna, Il Mulino, 1973, p. 188. A. BUVOLI, Il fascismo nella Venezia Giulia…, cit. p.
77. Sulle autonomie locali L. PONZIANI, Fascismo e autonomie locali, in Lo stato fascista, a cura di
M. PALLA, Milano, La Nuova Italia, 2001, pp. 317-354.
143
L. RAGUSIN RIGHI, Politica di confine, cit. pp. 79-82. Righi si lamentava per questa scelta che a suo
avviso toglieva uno strumento di snazionalizzazione.
144
M. P. NASO, La questione adriatica nella pubblicistica…, cit. pp. 242-243.
145
H.J.BURGWYN, Empire on the Adriatic. Mussolini’s conquest of Yugoslavia 1941-1943, New
York,Enigma books, 2005, p. 7. T. SALA, Tra Marte e Mercurio…, cit. p. 235.
146
L. RAGUSIN RIGHI, Politica di confine, cit. p. 29.

67
III - La persecuzione antislava

problema del clero slavo, di più ardua soluzione, tant’è che il regime non ne
verrà mai del tutto a capo.
Di lì a poco anche qui però si ottengono successi significativi, sempre in
relazione agli avvenimenti interni che segnano il cammino ed il consolida-
mento del “regime reazionario di massa”. Con il Concordato del ’29 van-
no a segno colpi importanti. Si ottiene l’italiano come lingua ufficiale e la
possibilità di intervenire nelle nomine. Grande plauso arriva dal “fascismo
di confine” che avanza subito interpretazioni estensive. Dalla conciliazione
in poi non si avranno più problemi nelle nomine e si otterrà la rimozione di
personalità sgradite. Inoltre si può avanzare nell’”adescamento” del clero in
senso nazionalista.
Nel ’30 un ruolo sempre più importante si affida alle organizzazioni del
regime, l’O.N.D., l’O.N.B., i G.U.F., gli istituti previdenziali, l’O.N.A.I.R.,
che copriranno il territorio come un ragnatela cercando di realizzare un as-
similazione “morbida”.147 Le organizzazioni di massa uniscono alla funzio-
ne generale di convogliare il consenso quella peculiare di fascistizzare, ed
assimilare, gli allogeni. Ma le adesioni il più delle volte avvengono per il
tramite della coercizione, i balilla d’estate calano, i risultati sono effimeri.
Tutti quei giovani balilla, i frequentatori dei dopolavoro, si getteranno indi-
stintamente nella resistenza nelle file dell’Osvobodilna Fronta, il Fronte di
liberazione sloveno.148
Sono in pochi però a rendersi conto di questa miseria e fragilità dei risul-
tati, ed anche quando lo fanno è per sollecitare azioni più drastiche e precise,
o l’afflusso di mezzi. Il fascismo arriva alle formulazioni del suo program-
ma massimo, la “colonizzazione”, la “bonifica nazionale”.
Si istituiscono enti appositi, si discutono programmi, si pubblicani testi.
La trasformazione e l’organizzazione dello stato sul modello totalitario pro-
cedono su una strada che porterà alla conquista dell’impero ed alle formu-
lazioni di una più compiuta e programmata politica razziale. Si istituiscono
premi per maestri che vengono a far opera di italianità e per i sacerdoti
che agiscono in tale direzione. La bonifica prevede soprattutto un’azione
in campo agrario con la sostituzione di famiglie italiane, sane, ai contadini
slavi. Non si disdegnano neppure progetti in campo industriale, e così la co-
struzione di una fabbrica di cemento in Istria diviene «in un territorio fino a
ieri deserto e frequentato soltanto dalle capre […] un nuovo faro di vita ita-

147
M. KACIN WOHINZ, J. PIRJEVEC, Storia degli sloveni…, cit. p. 57. S. BON GHERARDI, Politica, regi-
me…, cit. p. 76.
148
C. SCHIFFRER, La questione etnica…, cit. p. 152.

68
Tappe e strumenti principali

liana, acceso».149 La presenza italiana è concentrata da sempre nelle città,


prevalentemente in quelle costiere ed in alcuni agglomerati più grossi del-
l’interno. Gli slavi compattamente insediati nelle campagne, in prevalenza
contadini. Il fascismo è quindi anche cittadino. A questo proposito Miccoli
ha parlato di una «traduzione particolare di quella linea di contrapposizio-
ne e di netta separazione tra città e campagna che è connotato importante
della politica generale del regime».150
Fino al ‘37 i rapporti con la Jugoslavia sono apertamente ostili. Sulla
questione allogena si sono volutamente lasciate insolute alcune questioni
marginali, coma la suola di S. Giacomo a Trieste, da usare come pedina di
scambio nelle trattative.151
Nel 37, con la firma del Patto Ciano-Stojadinovič, furono fatte alcune
concessioni simboliche come l’importazione della stampa jugoslava, fino ad
allora proibita, ma solo per una breve periodo. L’Opera di Lubiana si esibì
a Trieste e si attenuò la repressione poliziesca. In relazione a questi fatti si è
parlato di una pausa.152 In realtà se si escludono questi atti esteriori, dettati
da contingenze politiche, per il resto le cose continuarono ad andare avanti
come prima.
Sul finire degli anni ’30 arrivavano al pettine i tanti nodi che il fasci-
smo non era stato in grado di risolvere ed il bilancio fallimentare delle sue
realizzazioni. Il processo di modernizzazione del paese, che pur in alcuni
settori era avvenuto, non era stato all’altezza di risolvere i gravi squilibri e
problemi dell’Italia, di portare ad un miglioramento delle condizioni di vita
della grande massa degli italiani, il “benessere” era ancora lontano. Il cor-
porativismo era rimasto sulla carta. Il P.N.F. e le organizzazioni del regime,
divenute organismi elefantiaci, non riuscivano ad attivare la mobilitazione
politica che il regime richiedeva, a convogliare ed organizzare il consenso,
che cominciava a scricchiolare. Gli istituti assistenziali e previdenziali era-
no carrozzoni burocratici inefficienti e corrotti. L’apparato di propaganda
cominciava a non bastare più per nascondere i fallimenti. L’emigrazione
nelle colonie era una chimera. L’aggressiva politica militare cominciata nel
’35 dissanguava la nazione. Molti erano costretti dalla disoccupazione ad
arruolarsi per trovare un lavoro. La guerra mondiale avrebbe accelerato la

149
G. MRACH, L’Istria, cit. p 836.
150
G. MICCOLI, La chiesa di fronte…, cit. p. 31.
151
Cfr: A. ANDRI, L’ultima scuola slovena di Trieste durante il fascismo (1925-1930), in «Qualesto-
ria», XIII, 3, dicembre 1985, pp. 103-112.
152
M. KACIN WOHINZ, I programmi fascisti di snazionalizzazione…, cit. p. 23.

69
III - La persecuzione antislava

presa di coscienza di tutto ciò negli italiani. Il rinnovato attivismo interna-


zionale del fascismo, sempre più aggressivo e sempre più in concorrenza
con quello nazista, accelerava l’avvicinarsi di un guerra che si sentiva come
non lontana, nonostante le assicurazioni tedesche. Nel ’39 la minaccia sulla
Jugoslavia si rafforzava con l’annessione dell’Albania.153 Il regime acce-
lerava anche sulla via totalitaria, dando ulteriori giri di vite e cercava un
rilancio inaugurando una campagna antisemita su vasta scala che, oltre alle
motivazioni più profonde, ebbe anche l’obbiettivo di individuare un nuovo
nemico, esprimendo al tempo stesso l’aggressività imperialista.154
Anche nella Venezia Giulia i fallimenti fascisti diventavano evidenti. I
dati del censimento del ’36, ma tutti i suoi risultati furono elaborati e con-
clusi nel ’39, lo evidenziavano e facevano paura. Con questo censimento per
la prima volta troviamo dei dati per descrivere la struttura sociale degli sla-
vi. Nelle regione ci sono ancora, secondo una nota del Ministro dell’interno,
402.091 allogeni, il 39,3% della popolazione, divisi tra 252.926 sloveni e
134.945 croati.155 Nella provincia di Pola sono il 65,1% della popolazione
contadina ed il 17% delle liberi professioni di cui: 22,9% commercianti;
22,8% artigiani; 19,1% operai. Fra la popolazione contadina le donne slave
sono l’ 80,2%, gli uomini il 61,5%. Fra la popolazione operaia sono slavi il
72,1% delle operaie ed il 44,5% degli operai. In quella di Trieste il 56,5%
dei contadini è allogeno di cui l’ 83% è costituito da coltivatori diretti. C’è
poi un 13,4% nelle libere professioni così diviso: 17,5% sacerdoti; 16,7%
commercianti; 16,1% operai; 15,8% artigiani.156
Impossibilitato a cambiar politica dalla sua ideologia e dalle sue mire
esterne, mantenendo vivo l’odio di razza che cominciava a sovrapporre sla-
vi ed ebrei e su cui si faceva affidamento per compattare gli italiani contro
lo straniero/nemico, il fascismo continuava a ripetere i soliti programmi,
evitando di fare i conti con la realtà, anzi rilanciandoli sempre più violente-
mente. Continuò a farlo anche durante la guerra, quando esportò slavofobia,
snazionalizzazione e progetti coloniali nei territori annessi, nel tentativo fi-

153
Sull’Albania vedi: E. COLLOTTI, Fascismo e politica di potenza, cit. pp. 38-45 e pp. 402-415. D.
RODOGNO, Il nuovo ordine mediterraneo…, cit. pp. 84-91.
154
E. COLLOTTI, Fascismo, fascismi, Milano, Sansoni, 20003, pp. 56-58. E. COLLOTTI, Fascismo e
politica di potenza, cit. pp. 374-380.
155
T. SALA, 1939. Un censimento riservato del governo fascista sugli “alloglotti”; proposta per l’as-
similazione degli “allogeni” nella provincia dell’Istria. in «Bollettino dell’Istituto Regionale per la
Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli-Venezia Giulia», I, 1, ottobre 1973, p. 18.
156
M. KACIN WOHINZ, Orientamento nazionale, politico e culturale degli sloveni e dei croati nella
Venezia Giulia tra le due guerre, in «Qualestoria», XVI,1, aprile 1988, p. 52.

70
La proibizione delle lingue slave

nale di realizzare, con un uso della forza via via sempre più preponderante,
progetti già falliti sul suolo italiano, aggiungendo ai vecchi metodi quelli
nuovi della deportazione, dei massacri, incapace di intendere i rapporti con
la altre etnie, con le altre nazionalità, se non in termini etnocentrici di pre-
varicazione e sopraffazione.

LA PROIBIZIONE DELLE LINGUE SLAVE

Buvoli nota che «il “genocidio culturale” iniziò attraverso la proibizio-


ne dell’uso delle lingue slovena e croata negli uffici pubblici».157 Ed effet-
tivamente, fu proprio l’uso della lingua il primo campo in cui trovò modo
di espletarsi un tipo di politica, fatta di divieti, violenze e imposizioni, sia
fisiche che morali, a danno delle minoranze slave, che fu, si, propria dei
fascisti, ma dalla quale non furono alieni né gli ultimi governi dell’Italia
liberale né gli ambienti locali.
L’offensiva cominciò immediatamente dopo l’armistizio e, oltre alle
squadre fasciste, se ne fecero portatori i circoli liberal-nazionali e naziona-
listi che già all’epoca dell’impero Austro-Ungarico avevano ingaggiato una
battaglia contro l’ascesa degli slavi ed avevano cominciato a elaborare le
loro idee nei riguardi della sorte che sarebbe loro toccata se quelle terre, un
giorno, fossero state annesse all’Italia. Ed infatti nella Venezia Giulia la sal-
datura di pratiche e programmi fra fascisti e nazionalisti si realizzò da subito
ed in modo compiuto. Già nel 1919, sotto lo pseudonimo di Giulio Italico,
Giuseppe Cobol scriveva, dimostrando il disprezzo che provava per quelle
popolazioni, che nei confronti degli slavi bisognava «Comunicare la nostra
lingua, imporre un elevazione anche morale agli abitatori rozzi di quella
terra sterile e nuda».158
Nell’atmosfera che regnava nella Venezia Giulia, fatta di aspri scontri
nazionali e sociali (non di rado le due dimensioni si sovrapponevano crean-
do una miscela esplosiva) gli esponenti delle classi dirigenti ma anche i
funzionari, gli impiegati, gli appartenenti al ceto medio insomma, iniziarono
a tradurre in realtà quelle idee, agendo spesso in maniera autonoma, senza
attendere direttive dall’alto, all’interno dei settori di propria competenza,
giovandosi in questi comportamenti della condiscendenza, o dell’aperto so-

157
A. BUVOLI, Il fascismo nella Venezia Giulia…, cit. p. 73.
158
Cit. in E. APIH, Italia. Fascismo e antifascismo…, cit. p. 60.

71
III - La persecuzione antislava

stegno, delle autorità d’occupazione, i commissari civili e i militari, i quali


per parte loro in non poche occasioni si comportarono in maniera analoga,
come dimostrò l’esordio del comandante della piazza militare di Pola, l’am-
miraglio Cagni, che proibì da subito e per tutta la durata dell’occupazione
nel territorio da lui amministrato l’uso della lingua croata.159
I governi italiani mantennero un atteggiamento di ambiguità assoluta,
che se da una parte da prova del livello di impreparazione nella gestione
di minoranze consistenti sembra indicare, dall’altra, un assenso, più che un
cedimento, a quelle idee ed a quelli strumenti, elaborati dai liberal-nazionali
e dai nazionalisti prima e dai fascisti poi, per i quali la completa scompar-
sa della lingua degli odiati slavi altro non era se non la logica conseguenza
della vittoria e della redenzione, che avevano reso possibile il dispiegarsi
di quella superiorità italiana continuamente proclamata e riaffermata. Un
modo di vedere le cose che trovava conferma e nuovo impulso nell’atteggia-
mento delle autorità nominate dal governo centrale per amministrare quei
territori.
Nei tribunali, nonostante il decreto del governatore generale militare Pe-
titti di Roreto che permetteva l’uso dello sloveno e del croato,160 si proce-
dette con solerzia. La procura generale di Trieste cominciò a redigere gli
atti di accusa solo in italiano e i tribunali civili di Trieste e dell’Istria ne
seguirono l’esempio. Nel tribunale distrettuale di Volosca-Abbazia i nuovi
giudici italiani decisero per proprio conto di procedere solo in italiano. I
tribunali distrettuali e commerciali di Trieste escludevano l’uso delle lingue
slave con la scusa che non c’era personale che le conoscesse. In appoggio a
queste iniziative venne anche dal centro la decisione della corte di appello
di Roma che emise un’ordinanza in base alla quale tutti i documenti ad essa
indirizzata dovevano essere solo in italiano. A Pola il commissario civile
intraprese un’azione contro due giudici croati, Albin Radikon e Miroslav
Muha, per allontanarli e impedire così l’uso del croato. La risposta che ebbe
dal commissario generale civile di Trieste è rivelatrice di una concezione
che considerava gli slavi pericolosi per il solo fatto di essere tali e quindi
meritevoli di divenire “sorvegliati speciali”.161 Con una spontanea iniziati-

159
L. ČERMELJ, Sloveni e Croati…, cit. p. 71. L’ ammiraglio si distinse anche con altre misure di
carattere draconiano come il divieto di telefonare al di là della linea di armistizio, nel regno SHS,
dove la popolazione istriana aveva rapporti di parentela e relazioni di affari Cfr: E. SESTAN, Venezia
Giulia. Lineamenti…, cit. p. 114.
160
L. ČERMELJ, Sloveni e croati…,cit. pp. 71-72.
161
Ivi, p. 72. Dove è riportata anche la risposta «si fa presente […] che il trasferimento dei giudici
distrettuali […] in altra sede, essendo i magistrati inamovibili, potrebbe avvenire solamente dietro

72
La proibizione delle lingue slave

va un gruppo di giudici del tribunale distrettuale di Trieste il 4 marzo 1922


decise di non accettare più atti redatti in slavo e di proibirne l’uso anche
nei procedimenti. L’iniziativa era individuale ma il mese dopo il tribunale
stesso emise un ordinanza che la confermava, seguito poi da quello di Go-
rizia: «l’uso della lingua slovena nei tribunali di Trieste è assolutamente
proibito sia negli atti che nei procedimenti orali. Tutti i procedimenti de-
vono essere attuati solo in italiano. Dinanzi ai tribunali dei distretti in cui
predomina la lingua slovena (Castelnuovo, Comeno, Bisterza, Postumia,
Senosecchia) si conserva l’uso di tale lingua. Nei distretti bilingui come a
Volosca-Abbazia i procedimenti di fronte ai tribunali devono procedere in
lingua italiana».162
Nemmeno gli avvocati italiani se ne stettero a guardare, nell’assemblea
annuale dell’ordine di Trieste del 31 gennaio 1922 per bocca del presidente
Zanolla si assunsero il compito di portare avanti l’unificazione linguistica.163
Confermando l’ambiguità a cui accennavamo sopra, il governo italiano ri-
spondeva, tramite il sottosegretario alla giustizia, ad un’interrogazione del-
l’On. Wilfan negando la realtà di quello che stava accadendo «Garantisco
all’onorevole interrogante che non è stata emanata alcuna disposizione se-
condo cui venisse proibito alle minoranze nazionali delle nuove province
del Regno l’uso della loro lingua dinanzi ai tribunali in armonia con le di-
sposizioni in vigore anteriormente e non abrogate».164
Negli uffici pubblici il commissario generale civile giustificava le di-
sposizioni prese con il fatto, anche qui, che c’erano pochi funzionari che
conoscessero sloveno e croato, naturalmente se poi c’erano si provvedeva a
licenziarli. Il commissario civile di Volosca-Abbazia sentenziò che gli uffici
pubblici avrebbero accettato solo documenti scritti in lingua italiana. Anche
nelle ferrovie e nelle poste la prassi era analoga, con il corollario di licen-
ziamenti che ne derivava. Addirittura, una disposizione del direttore delle
poste di Trieste, la N° 5107/5a del 14 febbraio 1920, proibiva l’uso delle due

loro richiesta oppure in via di punizione disciplinare e che in ambedue i casi è oltremodo difficile
stabilire, in quale sede della Venezia Giulia la loro attività potrebbe riuscire meno perniciosa che a
Pola, dove essi possono senza dubbio essere meglio sorvegliati. Per questo motivi sembra perciò più
opportuno di vigilare rigorosamente la loro attività per scoprire eventuali addebiti specifici a loro
carico sulla base dei quali possa essere proposto alla competente autorità l’esonero dal servizio o,
quanto meno, si possa avviare contro di loro procedimento disciplinare. Questo commissariato gene-
rale ha, comunque, interessato in argomento la Presidenza del Tribunale d’Appello».
162
Cit. in L. ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit. p. 73. e A. BUVOLI, Il fascismo nella Venezia Giulia…,
cit. p. 73.
163
L. ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit. p. 73.
164
Cit in L. ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit. p. 71. Wilfan era a capo dell’Edinost di Trieste.

73
III - La persecuzione antislava

lingue nei telegrammi mentre ammetteva quello del francese, dell’inglese,


del tedesco e perfino del giapponese. Gli uffici postali smisero di inoltrare
la corrispondenza se i nomi delle località erano scritti in slavo.165 Cambia-
vano i contesti ma le pretese motivazioni rimanevano le stesse: mancanza
di personale in grado di padroneggiare lo sloveno ed il croato, necessità di
estendere l’uso della lingua ufficiale dello stato. Giustificazioni che saranno
riprese anche per la scuola, uno, due motivi di fondo che se non autorizzano
a parlare di un piano preordinato danno comunque la misura di quella che
era una mentalità diffusa e un modo di agire condiviso.
Il fascismo si dimostrò chiaro nei suoi intenti fin dall’inizio. «Primo pi-
lastro dell’azione fascista è l’italianità» proclamò Mussolini a Trieste il 20
settembre del 1920,166 ad un anno e mezzo dalla fondazione dei fasci a piazza
San Sepolcro e, pronunciandola nella Venezia Giulia, non potevano esserci
dubbi sul significato di quella frase: lotta all’elemento slavo che metteva a
repentaglio quell’italianità. Ed in primo luogo lotta alla lingua slava, aspet-
to più visibile e quindi più pericoloso, ma anche più facile da individuare
come obbiettivo. Proseguiva Mussolini: «Qui dove stanno, ai nostri confini,
tribù più o meno abbaianti lingue incomprensibili e che pretenderebbero,
soltanto perché sono in tanti, di sopprimere e soppiantare questa nostra
meravigliosa civiltà».167
Gli slavi, o meglio gli “allogeni” come si amava dire allora, erano perce-
piti come una minaccia incombente, come una torma di invasori, classificati
ad un livello inferiore di civiltà, tribù, caratterizzati in maniera animalesca,
non parlano, abbaiano, ed abbaiano un idioma incomprensibile, contro alle
grandezze della lingua italiana. Logico quindi che tale gergo animale do-
vesse sparire.
Le squadre fasciste dichiararono una guerra senza quartiere contro la lin-
gua della minoranza. I fascisti di Dignano, nell’Istria, affissero un volantino
che rende bene l’idea di quanto stava accadendo.
«P.N.F. – Comando Squadristi – Dignano. Attenzione! Si proibisce nel
modo più assoluto che nei ritrovi pubblici e per le strade di Dignano si canti
o si parli in lingua slava. Anche nei negozi di qualsiasi genere deve essere
una buona volta adoperata SOLO LA LINGUA ITALIANA. Noi Squadristi,

165
L. ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit. pp. 73-76. A. BUVOLI, Il fascismo nella Venezia Giulia…, cit.
p. 74.
166
B. MUSSOLINI, Discorso di Trieste, cit. p. 100.
167
Ivi, p. 102.

74
La proibizione delle lingue slave

con metodi persuasivi, faremo rispettare il presente ordine. GLI SQUADRI-


STI».168
I fascisti di Dignano, in occasione delle elezioni del ’21, diedero vita ad
un clima di violenza tale che la popolazione locale aveva paura di parlare
in lingua croata.169 E non diversamente andavano le cose nel resto della re-
gione. Le squadre fasciste si fecero carico del compito di proseguire l’ope-
ra la dove le leggi, i regolamenti e le disposizioni non potevano arrivare.
Nel privato, nella conversazione, in tutti gli interstizi della vita quotidiana,
a casa, ovunque, arrivarono la prevaricazione e la violenza. Il perpetuarsi
dell’uso delle lingue allogene era oltretutto un ostacolo all’opera di italia-
nizzazione, andavano espunte del tutto dal territorio italiano. Ed è questa
una delle cause in cui va ricercato il motivo del perdurare dello squadrismo
al confine orientale ben oltre la marcia su Roma e la fase di normalizza-
zione e stabilizzazione del regime. L’opera intrapresa era lunga, andava
portata avanti a 360 gradi e divenne una costante dell’azione fascista per
tutta la durata del regime. A Trieste i bigliettai dei tram facevano scendere
la contadine che, nel recarsi in città per piazzare i prodotti delle campagne,
si azzardavano a parlare sloveno; si ammonivano i viaggiatori che sui treni
parlavano sloveno; distrutti e asportati monumenti e lapidi a personaggi
di una certa importanza; ai funerali perfino le scritte sulle corone di fiori
dovevano essere in italiano;170 sul tram a Barcola militanti fascisti aggredi-
vano e insultavano chi parlava sloveno; zelanti maestri fascisti prendevano
a schiaffi e sputavano in bocca ai bambini che parlavano sloveno;171 elimi-
nazione delle superstiti scritte e insegne in sloveno e croato; azioni contro
i membri dell’intellighenzia che in qualsiasi modo contribuivano a man-
tenere viva la lingua, soprattutto contro il clero, come si dirà meglio più
avanti; nei negozi, uffici e trattorie comparirono cartelli che proclamavano

168
L. ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit. p. 78. A. BUVOLI, Il fascismo nella Venezia Giulia…, cit. p. 73.
Facsimile in P. PAROVEL, L’identità cancellata. L’italianizzazione forzata dei cognomi, nomi e topo-
nimi nella “Venezia Giulia”, Trieste, Eugenio Parovel Editore, 1985, p. 217.
169
L. ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit. p. 237.
170
L. ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit. p. 77-81. Per episodi avvenuti sui treni ed alle stazioni Cfr:
E. APIH, Italia. Fascismo e antifascismo…, cit, p. 118. «carabinieri ed agenti ferroviari […] hanno
l’improntitudine di lanciare invettive innominabili contro pacifici cittadini, non rei d’altro che di
chiedere alle stazioni ferroviarie il biglietto nella loro lingua».
171
M. VERGINELLA, A VOLK, K. COLJA, Storia e memoria degli sloveni del litorale. Fascismo, guerra
e resistenza, Trieste, Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli–Ve-
nezia Giulia (Quaderni di Qualestoria), 1994, pp. 69-71. Čermelj riporta l’episodio di una bambina
che nel 1931, per aver parlato in sloveno con le coetanee, fu brutalmente bastonata dalla maestra e
ricoverata in ospedale. L. ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit. p. 55.

75
III - La persecuzione antislava

«qui si parla solo in italiano»,172 che balzano all’evidenza per l’analogia


concettuale con quelli che appariranno dal ’38, dopo la promulgazione del-
le leggi razziali antiebraiche, che recitavano frasi come «questo negozio è
ariano».
Fra gli innumerevoli casi di soprusi, violenze e torture merita una ci-
tazione, per la sua efferatezza e dislocazione temporale, quello del compo-
sitore e direttore di un coro sloveno Alojz (o Lojze) Bratuž. Nella notte di
natale del 1936 ebbe l’ardire di dirigere un coro in lingua slovena durante la
celebrazione della messa. I fascisti lo fermarono fuori dalla Chiesa con altri
quattro coristi e li portarono tutti e cinque in un luogo solitario per essere
“purgati”. Solo che in quest’occasione al posto del classico olio di ricino
usarono olio lubrificante da macchina. Il Bratuž ci rimise la vita dopo sei
settimane di atroci sofferenze.173
Giunto al potere il fascismo proseguì su questa linea e la precisò, ele-
vandola a politica di governo a tutti gli effetti, mostrando così il carattere
profondamente radicato di ostilità verso gli alloglotti tanto dei suoi aderenti
quanto delle sue gerarchie, non semplice tattica locale dettata dalle contin-
genze politiche per favorire la presa del potere.
Alla oramai collaudata politica del manganello si aggiunsero atti legi-
slativi e disposizioni governative, ci si apprestava a mettere ordine in una
strategia fino ad allora chiara nei suoi obbiettivi ma scoordinata, disomoge-
nea, non unitaria. Il fascismo mise la parola definitiva sulla questione delle
lingue slave. Con il R.D.L. 15 ottobre 1925 N° 1796 si regolò la faccenda
nei tribunali:
«Art.1. In tutti gli affari civili e penali dibattuti dinanzi ai tribunali del
Regno deve essere usato esclusivamente l’italiano.
Le domande, i documenti, i ricorsi e le altre scritture redatte in lingua
diversa da quella italiana sono da considerarsi come non presentati e non
possono servire né possono influire sulla fissazione dei termini.
I verbali, le perizie, le proposte e le osservazioni nonché altri documenti
e decisioni comunque collegati con le procedure civili e penali compilati in
una lingua che non sia l’italiana, sono nulli.
Nell’elenco dei giurati non possono venir iscritte persone che non com-
prendono l’italiano.

172
M. KACIN WOHINZ, J. PIRJEVEC, Storia degli sloveni…, cit. p. 55.
173
Del nome abbiamo trovato entrambe le dizioni. Cfr: M. KACIN WOHINZ, J. PIRJEVEC, Storia degli
sloveni…, cit. p. 51. e L. ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit. pp. 256-257.

76
La proibizione delle lingue slave

Art.2. Le trasgressioni alle norme del precedente articolo vengono puni-


te con la multa da 200 a 1000 lire, in caso di recidività fino a 5000 lire…
Se la trasgressione viene commessa da giudice, ufficiale giudiziario o
da un altro impiegato giudiziario, esso viene sospeso dal servizio e gli vie-
ne decurtato lo stipendio per un periodo che non può essere inferiore a tre
mesi e superiore ad un anno, in caso di recidiva viene esonerato dal servi-
zio».174
Un altro decreto ministeriale proibì l’uso delle lingue locali e stabilì che
l’italiano era la sola lingua ufficiale. Il primo prefetto della Venezia Giulia
ebbe cura di avvertire nel marzo 1923 sindaci e impiegati dei pubblici uffi-
ci175 perché non si verificassero violazioni della norma. E già il 26 dicembre
del ’22 aveva emesso un decreto che estendeva l’uso esclusivo dell’italiano
anche ai timbri dei comuni.176 Con l’avvento dell’ordinamento podestarile
nel 1926 gli ultimi residui sloveni e croati sparirono del tutto.
Le leggi avevano vigore in tutto il territorio italiano e colpivano anche i
tedeschi del Tirolo. Ma con loro si partiva dall’assunto di avere a che fare
con una nazionalità di pari dignità rispetto agli italiani, mentre gli slavi non
erano nemmeno una nazione, erano inferiori. Di conseguenza i provvedi-
menti vennero applicati nella Venezia Giulia con molto più disprezzo e se-
verità.
Alfredo Rocco nel 1927 spiegò chiaramente i fini di quest’attività. «Si
procedette alla sistemazione del personale giudiziario proveniente dalla
cessata amministrazione austriaca, con la eliminazione di coloro che non
avessero sufficiente conoscenza della lingua italiana o che fossero meno
desiderabili per ragioni politiche. Era infatti dovere del governo non acco-
gliere funzionari ostili al sentimento nazionale».177
Era l’uso stesso della lingua slovena e croata ad essere considerato at-
teggiamento antinazionale, ostile, reato politico. E l’allora guardasigilli non
mancava di far avere il suo plauso all’opera svolta dal personale locale uni-
tamente alla rivendicazione dei meriti del fascismo: «Per qualche tempo
rimase in piedi la questione della lingua in uso negli uffici giudiziari, che
parve e fu ritenuta da parecchi come quasi insolubile. Anche essa però,

174
Cit. in L. ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit. p. 74. e A. BUVOLI, Il fascismo nella Venezia Giulia…,
cit. p. 73.
175
L. ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit. pp. 76-77.
176
Ivi, p. 79.
177
A. ROCCO, L’unità delle leggi, in «Gerarchia», VII, 9, settembre 1927, p. 785.

77
III - La persecuzione antislava

che si era trascinata troppo a lungo, fu alfine definita dal governo fascista.
Ma si deve anche aggiungere che per la massima parte dei territori della
Venezia Giulia, il problema poteva considerarsi sorpassato, quando giunse
il provvedimento legislativo che esplicitamente dichiarò l’obbligo della lin-
gua italiana in tutti gli uffici pubblici».178
Nel 1925 il segretario del sindacato fascista degli avvocati pretese che
avesse fine la corrispondenza con i clienti in lingua slava, nemmeno le inte-
stazioni delle buste dovevano essere in tali lingue,179 anche se già ci pensa-
vano le poste a svolgere quest’ufficio. In molti casi la corrispondenza che i
confinati slavi (e ve ne furono molti) inviavano alle famiglie scrivendo nella
propria lingua madre veniva trattenuta a lungo o non veniva recapitata, ob-
bligando i confinati a corrispondere in italiano.180
Molte aziende private, anche di tipo commerciale, non mancarono di
adeguarsi vietando ai propri addetti di parlare nella propria lingua non solo
con i clienti ma anche fra di loro, come accadde agli operai croati della mi-
niera di bauxite a Dubrava, con le conseguenze che si possono immaginare
nello svolgimento di un lavoro simile.181
Le venditrici di prodotti ortofrutticoli delle piazze di Trieste rischiavano
di perdere l’autorizzazione all’esercizio del commercio se venivano senti-
te parlare in sloveno182 e nei negozi venne proibito di parlare slavo pena la
perdita della licenza.183
Si eliminarono i cartelli indicatori delle vie e le targhe delle piazze e
delle strade, le insegne dei negozi e delle trattorie, le scritte slave. I pode-
stà ed i segretari politici fascisti si occuparono di negozianti, osti, artigiani
ecc… per indurli a sostituire le insegne e le scritte, altre volte ci pensavano
direttamente le squadre. Per essere certi del buon fine di tutta l’operazione si
colpivano anche economicamente i “trasgressori”, il R.D. 21 gennaio 1923
N° 352 prevedeva una tassa di quattro volte superiore per le scritte non in
italiano che sarà poi aumentata a cinque.184
Si arrivò a non tollerare l’uso delle lingue alloglotte in tutti gli avvisi,
nelle cartoline, sulle pietre tombali, tutto quello che poteva in qualsiasi

178
Ibidem.
179
L. ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit. p. 77.
180
Ivi, p. 226.
181
Ivi, p. 77.
182
Ibidem.
183
A. BUVOLI, Il fascismo nella Venezia Giulia…, cit. p. 73.
184
L. ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit. p. 79.

78
La proibizione delle lingue slave

sia pur minima maniera rivelare l’esistenza della minoranza sparì.185


Il regime con questi atti mirava pure a cementare ulteriormente il consen-
so che si era guadagnato portando avanti lo scontro etnico contro il barbaro
slavo. Mussolini nella circolare riservata del 1 novembre 1925 confermò il
primato di azione conferito alla battaglia per la lingua. «Il Governo prov-
vide sollecitamente a parificare gli ordinamenti tutti delle nuove provincie
a quelli delle altre provincie del Regno; e quindi, diede inizio all’opera di
reintegrazione dell’italianità con una serie di provvedimenti principalmente
per l’uso della lingua e per l’insegnamento nelle scuole elementari».186
Nelle province appena annesse, considerate terre italianissime, andava
quindi reintegrata un’ italianità considerata come un dato di fatto naturale
in pericolo. I termini stessi che venivano usati nel riferirsi alle altre lingue
svelano l’assunto che stava alla base: allofone, alloglotte, altra voce, altra
lingua,187 per esse non c’era spazio in un’Italia in cui nazione e fascismo si
fondevano in un unico inestricabile, con la negazione che ne derivava del-
l’esistenza di una qualsiasi diversità. Su quest’aspetto e su altri dell’azione
politica verso gli allogeni il regime fu davvero totalitario.
Nel 1927-28 il fascismo considerò conclusa la fase dell’offensiva lingui-
stica, avendo eliminato i segni esteriori della presenza di altre nazionalità e
credendo, con tutta probabilità, che ne sarebbe seguita una caduta in disuso
progressiva delle lingue slave. In realtà sloveni e croati stavano dando pro-
va di uno straordinario attaccamento alla loro lingua che si esplicava in una
forma di resistenza che sfruttava ogni occasione possibile per mantenere
viva la tradizione linguistica, continuando anche a tramandarla alle nuove
generazioni. Nelle case, nelle chiese, dovunque il regime non riusciva ad
arrivare ed allargava le sue maglie si continuò a parlare ed a tramandare
le lingue slave. Soprattutto nei paesi dell’interno, compattamente slavi o a
grande maggioranza slava, il fascismo non riuscì mai ad imporre del tutto i
suoi propositi. Ne è testimonianza, oltre all’episodio del Bratuž, una senten-
za sempre del 1936 emessa dal Tribunale Speciale che condannava quattro
contadini istriani per aver cantato canzoni popolari slave e sfottuto dei fa-
scisti.188

185
L. ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit. p. 80. A. BUVOLI, Il fascismo nella Venezia Giulia…, cit. p. 74.
P. PAROVEL, L’identità cancellata…, cit. p. 19. R. BEN-GHIAT, La cultura fascista, cit. p. 184.
186
Documento riportato in R. DE FELICE, Mussolini. Il fascista, cit. p. 495.
187
G. SLUGA, Identità nazionale italiana e fascismo…, cit. 2003, p. 191.
188
M. PACOR, Confine orientale…, cit. 1964 p. 142.

79
III - La persecuzione antislava

L’ITALIANIZZAZIONE DI NOMI, COGNOMI E TOPONIMI

Correlata alla proibizione delle lingue, tant’è che può anche essere consi-
derata come un aspetto di essa, l’italianizzazione dei toponimi delle località,
dei nomi e dei cognomi ebbe una sua vicenda per certi aspetti autonoma
e strumenti legislativi creati ad hoc. E se nel caso dei toponimi il fascismo
si limitò a mettere il suggello sopra ad un’azione in gran parte già svolta in
precedenza, quella contro i nomi e cognomi fu pianificata nell’azione legi-
slativa proprio fra il 1926 e il 1928, cioè quando il regime, saldamente al
potere, considerò la fase della battaglia linguistica avviata alla conclusione,
ritenendo giunto il momento per passare a colpire in modo ancor più diretto
gli individui e quella che era pur sempre una manifestazione, ed assai visi-
bile, delle lingue slave, così come dell’esistenza della minoranza.
Gli strumenti usati possono essere divisi in tre tipologie: amministrativi,
giuridici e politici,189 corrispondenti alla sfera delle autorità locali, all’ap-
porto del governo nazionale, il tutto sorretto dall’ideologia fascista antislava
e dalla sua traduzione politica coercitiva.
Come accennato, il cambiamento dei nomi delle località era già in uno
stato avanzato prima dell’avvento del fascismo. Precedenti si ritrovano già
dopo il 1866 nei territori della slavia veneta annessi all’Italia dove si prov-
vide a far sparire i cognomi ed i toponimi slavi.190 Nel novembre 1915 la
Regia Società Geografica di Roma avviò la redazione di una nuova termino-
logia del territorio che avrebbe dovuto essere assegnato all’Italia a fine con-
flitto in base al Patto di Londra. Si istituì anche presso il Comando Supremo
uno speciale ufficio a questo scopo.191 Nei territori ancora sotto il dominio
austriaco si era già da tempo avviata un’operazione simile, a ulteriore con-
ferma delle identità di vedute fra nazionalisti, liberal-nazionali e autorità
centrali di Roma, ancor prima che si fondessero in un unico stato, sul futuro
di queste aree e dei suoi abitanti. Le amministrazioni italiane del litorale
dell’impero usavano di preferenza negli atti e nella cartografia della topono-
mastica, anche urbana, versioni italianizzate, omettendo nomi e grafie slave.
L’opera fu affidata a società all’apparenza innocue, come la Società degli
Alpinisti Triestini (poi Società Alpina delle Giulie) fondata nel 1883 dai
liberal-nazionali, e il Club Alpino Fiumano. Sulla propria cartografia escur-
sionistica queste società riportavano nomi italiani.192

189
P. PAROVEL, L’identità cancellata…, cit. p. 21.
190
Ivi p. 14.
191
L. ČERMELJ, Sloveni e Croati…, cit. p. 139.
192
P. PAROVEL, L’identità cancellata…, cit. p. 22.

80
L’italianizzazione di nomi, cognomi e toponimi

A fine guerra il Regio Istituto Geografico Militare italianizzò fin nei mi-


nimi dettagli la cartografia ufficiale.193 In mezzo a tante iniziative si deter-
minò una situazione di confusione tale che per le stesse località si avevano
più denominazioni, il che rese necessario un intervento coordinato dall’alto.
Il R.D. 20 gennaio 1921 si proponeva di determinare «la lezione ufficiale
dei nomi dei comuni e delle frazioni compresi nei territori annessi» e creava
un’apposita commissione incaricata di svolgere il lavoro composta da: due
membri nominati dal Presidente del Consiglio su proposta dei Commissa-
ri generali civili per la Venezia Giulia, la Venezia Tridentina e del Com-
missario civile di Zara; il direttore del Regio Istituto Geografico Militare;
un delegato ciascuna per la Regia Accademia dei Lincei, la Regia Società
Geografica Italiana, il Touring Club Italiano e il Club Alpino Italiano; due
delegati degli enti locali, nominati anch’essi dal Presidente del Consiglio su
proposta delle Società scientifiche ed affini della Venezia Giulia, Zara e Ve-
nezia Tridentina; alla commissione era data inoltre la facoltà di aggregarsi in
via temporanea persone utili al suo lavoro con funzioni consultive.194
Nella commissione non trovò spazio nessun criterio di rappresentanza
delle minoranze etniche e linguistiche. La sua composizione non poteva la-
sciar dubbi sui criteri che ne avrebbero informato l’opera e i risultati e ne
faceva uno strumento in mano al governo centrale ed ai circoli italiani lo-
cali. Vi venivano inoltre compresi organismi che già in precedenza avevano
brillato nell’opera di italianizzazione. Agli slavi, dunque, non restava che
rinunciare alla toponomastica nella propria lingua. La commissione impie-
gò due anni per svolgere le sue mansioni. Mussolini firmò il R.D. 29 marzo
1923 N° 800 contenente l’elenco delle nuove lezioni preparate nei due anni
precedenti, esso sopprimeva le secolari denominazioni croate e slovene e
ne creava di nuove, spesso sconosciute, tant’è che alcune località col nuovo
nome divennero di ardua identificazione.195 Il Decreto autorizzava il Mini-
stro dell’Interno a completare o correggere l’elenco.196 Alcuni anni dopo
Bombig, nel sostenere l’italianità delle terre annesse, scriveva che anche i
nomi delle località avevano per lo più un purissimo suono italiano197 a te-
stimonianza della loro origine data la quale l’italianizzazione si presentava
quasi come un atto dovuto.

193
Ivi p. 22-23.
194
Ivi p. 23.
195
P. PAROVEL, L’identità cancellata…, cit. p. 23. L. ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit. p. 139.
196
L. ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit. p. 139.
197
G. BOMBIG, Le condizioni demografiche…, cit. p. 816.

81
III - La persecuzione antislava

Se alcuni nomi rimasero simili ai precedenti nella risonanza e nelle tra-


scrizioni, ad esempio Sežana-Sesana, Postojna-Postumia, Ajdovščina-Ai-
dussina, altri furono stravolti. Ricmanje diventò San Giovanni della Chiusa,
Briščiki Borgo Grotta Gigante, Rakitovec Acquaviva della Vena.198
Il Decreto riguardava le competenze e le dizioni usate da autorità e orga-
nismi pubblici, localmente si fece in modo che si estendesse a tutti gli aspet-
ti della vita pubblica. Giornali, libri e manuali scolastici dovevano riportare
sempre la nuova forma italiana, anche quelli in sloveno e croato si dovettero
adeguare finché esistettero.199
Nel caso dei cognomi già ai tempi della duplice monarchia capitava che
i funzionari italiani degli uffici di stato civile trascrivessero i cognomi con
l’ortografia e la pronuncia italiana, atti che nella maggioranza dei casi non
si può certo attribuire ad una precisa volontà snazionalizzatrice quanto piut-
tosto a sviste ed alla scarsa maestria con le lingue slave dei funzionari. Fatto
sta che in questa maniera si ebbero le prime italianizzazioni, presumibil-
mente senza che nella maggioranza dei casi i diretti interessati ne fossero a
conoscenza.
Con l’occupazione italiana nel ’18 il discorso però cambia perché que-
sto modo di fare diviene una regola, una pratica costante, non si tratta più
di episodi e non si può più quindi in nessun caso considerarli come tali, atti
innocenti dovuti alla distrazione od all’ignoranza di qualche impiegato. I
nazionalisti, i liberal-nazionali, procedono, come con le lingue, a realizzare
i loro propositi.200 Prova ne è che i primi a cambiare i cognomi sono proprio
quegli italiani, spesso irredentisti, che portavano cognomi non italiani,201
testimonianza della loro origine slava, un’origine, a loro avviso, vergognosa
e da cancellare. Il fascismo eleverà ad ideologia ufficiale l’idea che gli slavi
della regione altro non fossero che italiani slavizzati, constatazione dalla
quale procedere, definendo tutti gli slavi «italiani degeneri»,202 usando per
descriverli l’ennesimo termine dispregiativo.
Nel numero di Gerarchia del 1927, Giorgio Bombig sosteneva: «Si è ri-
scontrato che circa i tre quarti degli abitanti portano cognomi italiani o in
cui non è difficile rintracciare l’originaria forma italiana; gli altri cognomi
sono di origine incerta, rari quelli di certa origine slava e quasi tutti portati

198
L. ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit. p. p. 140.
199
Ibidem.
200
Cfr: L. ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit. p. 141.
201
P. PAROVEL, L’identità cancellata…, cit. p. 24.
202
G. BOMBIG, Le condizioni demografiche…, cit. p. 816.

82
L’italianizzazione di nomi, cognomi e toponimi

da famiglie di immigrazione recente. […] Fino alla metà del secolo scorso i
registri parrocchiali erano […] tenuti in italiano o in latino; gli archivi […]
parlano, in italiano, di uomini e cose italiani. Appena verso il 1850 inco-
mincia la slavizzazione dei registri, degli archivi e dei casati. A Piuma […]
i cognomi italiani diventano slavi nel 1895».203
Come già in altre circostanze le autorità italiane dell’Istria dimostrarono
la rapidità che le contraddistingueva quando c’era da aver a che fare con gli
slavi. Il 21 Dicembre 1921 Pier Domenico Sebiavi, commissario straordi-
nario di Albona inviò una circolare riservata agli uffici parrocchiali ed alle
direzioni scolastiche. «Per togliere gli storpiamenti dei cognomi perpetrati
dai politicanti slavi negli ultimi decenni, ho disposto che da questo Ufficio
anagrafico vengano scritti i cognomi degli abitanti di questo Comune come
qui sotto elencati. Onde evitare differenze nella scritturazione ortografica
dei cognomi stessi, prego la S.V. di attenersi all’elenco qui trascritto senza
parentesi invece di quello tra parentesi, e di curare sempre la soppressione
della “ch” ovvero “ĉ”».204
I primi cambiamenti a tutti gli effetti dei cognomi avvengono in for-
za della legislazione austriaca ancora in vigore nei territori occupati, come
stabilivano le regole d’armistizio. Il decreto imperiale 5 giugno 1826 N°
16.255 consentiva di modificare il cognome in casi di particolare riguardo.
Nel 1886 l’attribuzione dei nuovi cognomi veniva affidata alle Autorità Po-
litiche Provinciali. La nuova situazione della regione, che prefigurava l’an-
nessione all’Italia, fu considerata un caso di particolare riguardo. Su questa
via si procedette all’italianizzazione. Si andò avanti così fino all’estensione
dell’ordinamento dello stato civile italiano nel 1923, che oltre ad avere un
meccanismo più severo prevedeva anche una tassa mentre con la legge im-
periale il cambiamento era gratuito, ponendo un altro ostacolo alla già lenta
operazione, anche se fino ad allora erano stati quasi esclusivamente gli ita-
liani con cognomi slavi a richiedere il cambiamento.
Prima dell’avvento del regime i nomi slavi generalmente non rientrarono
nelle mire della politica snazionalizzatrice. Non c’erano ovviamente italia-
ni che potessero portare nomi slavi come i cognomi dato il carattere di non
ereditarietà dei primi, il che poteva anche lasciar pensare ad una loro lenta

203
Ivi pp. 815-816.
204
Originale in P. PAROVEL, L’identità cancellata…, cit. p. 219. L. ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit.
p. 142.

83
III - La persecuzione antislava

scomparsa di pari passo con i successi dell’assimilazione, data per sconta-


ta. Su questo fronte la tregua non durò però a lungo e nel ’23 il comune di
Trieste vietò agli uffici di stato civile di iscrivere nel registro dei nati nomi
slavi.205 Un impiegato sloveno fece ricorso al tribunale civile e penale di
Trieste perché il funzionario dell’anagrafe iscrisse suo figlio con il nome
di Gerardo al posto di Gorazd come era desiderio del padre. Il tribunale re-
spinse il ricorso e riconobbe la legittimità dell’operato del funzionario. La
motivazione è significativa: «Il nome Gorazd che il ricorrente intende im-
porre al proprio figlio è parola senza significato noto e può essere un nome
ridicolo e oltraggioso».206
Il 15 dicembre 1925 la corte d’appello confermò la sentenza: «Lo Sta-
to deve preoccuparsi che il bambino riceva un nome senza che per questo
vengano violati i diritti paterni o l’ordine pubblico, che non si offendano i
sentimenti pubblici o la morale con il fatto che il bambino riceva un nome
che nella vita futura potrebbe causargli una posizione spiacevole, equivoca
e pregiudizievole. In seguito a questo il motivo prodotto […] ovverosia che
il nome slavo Gorazd significa “forte, esperto, composto” non è fondato.
Anche nel caso fosse fondato potrebbe venir sostituito con un nome italiano.
[…] imporre al proprio figlio un nome slavo in quest’epoca storica in cui
ognuno è orgoglioso di italianizzarsi nei sentimenti e nell’espressione dei
sentimenti, cioè nella lingua che è la lingua di Dante, fa sorgere il giustifi-
cato sospetto che dietro a ciò si nasconda uno scopo più o meno recondito.
Il diritto paterno non deve estendersi tanto lontano che si possa abusarne,
che possa disturbare l’ordine pubblico ed oltraggi il sentimento naziona-
le».207
L’avere un nome nella lingua slava diveniva adesso immorale e perico-
loso, addirittura la sua sola esistenza violava l’ordine pubblico ed il padre,
data la sua insistenza, veniva accusato di comportamento sovversivo e di ir-
redentismo jugoslavo. La sentenza venne considerata un precedente e come
tale inviata a tutti i comuni con l’invito a tenerne di conto.208
Nella seconda metà degli anni ’20 il fascismo si era consolidato al potere
dopo il superamento della crisi Matteotti e procedeva in avanti con la pro-
clamazione delle leggi fascistissime. Il regime si sentiva abbastanza forte

205
L. ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit. p. 150.
206
Ivi. p. 151.
207
Ibidem.
208
L. ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit. p. 152. P. PAROVEL, L’identità cancellata…, cit. p. 29.

84
L’italianizzazione di nomi, cognomi e toponimi

per fare un passo avanti anche nella politica di snazionalizzazione delle mi-
noranze. Verso l’esterno si stava riaccendendo la polemica con la Jugosla-
via, c’era il bisogno di riaffermare sugli individui la primogenitura italiana.
Il R.D. 7 aprile 1927 N° 494 estendeva nella Venezia Giulia il R.D.L. 10
gennaio 1926 N° 17 firmato da Mussolini, Rocco e Federzoni, emanato in
origine per le regioni del Tirolo, ed il suo regolamento esecutivo contenuto
nel Decreto Ministeriale del 5 agosto 1926 firmato da Rocco e Volpi.209 Il
provvedimento recitava: «Le famiglie […] che portano un cognome origi-
nario italiano o latino tradotto in altre lingue o deformato con grafia stra-
niera o con l’aggiunta di un suffisso straniero, riassumeranno il cognome
originario nelle forme originarie. Saranno egualmente ricondotti alla forma
italiana i cognomi di origine toponomastica, derivanti da luoghi, i cui nomi
erano stati tradotti in altra lingua, o deformati con grafia straniera […]
Chiunque, dopo la restituzione avvenuta, fa uso del cognome […] nella
forma straniera, è punito con la multa da L.500 a L.5000
Art.2 Anche all’infuori dei casi preveduti nel precedente articolo, posso-
no essere ridotti in forma italiana con decreto del prefetto i cognomi stra-
nieri o di origine straniera, quando vi sia la richiesta dell’ interessato».210
Alfredo Rocco lo commentava così pochi mesi dopo: «Il provvedimento
[…] che ordina la restituzione in forma italiana di cognomi deformati du-
rante la lunga dominazione straniera, accompagnata da sforzi costanti di
snazionalizzazione, costituisce una riaffermazione di italianità di alta im-
portanza politica».211
E dato che i fascisti consideravano indistintamente tutti i cognomi come
originariamente italiani, divenuti stranieri a seguito della perniciosa opera
antitaliana attuatasi sotto gli Asburgo, tutti erano passibili di venir mutati.
Se poi per caso qualcuno fosse riuscito a rimanere fuori da questa catego-
rizzazione, l’Art.2 dava ampia possibilità di esercitare pressioni sui singoli.
Di esse ne abbiamo testimonianza nella scuola. In una comunicazione della
prefettura dell’Istria al provveditorato agli studi si chiedeva: «per i cognomi
di origine straniera […] è opportuno che la S.V. senza dare l’impressione di
coercizione, si compiaccia di svolgere azione intensa e persuasiva perché
gli addetti a codesto ufficio […] che avessero eventualmente cognomi di

209
A. PIZZAGALLI, Per l’italianità dei cognomi nella provincia di Trieste, Trieste, Libreria Treves
Zanichelli, 1929, p. 32-44.
210
Ivi p. 33-34.
211
A. ROCCO, L’unità delle leggi, cit. p. 785.

85
III - La persecuzione antislava

origine straniera, mi facciano domanda […] affinché questa provincia non


figuri meno, né in ritardo, in questa affermazione che nelle altre terre reden-
te ha preso forma di vero e proprio plebiscito di italianità».212
Il provveditore faceva subito seguito e con una circolare a presidi e ispet-
tori scolastici di tutte le scuole chiedeva di: «dispiegare un’azione persua-
siva […] per far si che essi sentano il bisogno ed il dovere di richiedere
l’italianizzazione dei loro cognomi in forma straniera».213
Nella scuola pare che non si sia andati oltre alle insistenze di carattere
psicologico, che comunque mettevano sulla testa degli insegnanti la spada
di Damocle dell’inquisizione e di un controllo esteso alla vita quotidiana
sempre pronto a trasformarsi in repressione.214 Per le autorità fasciste chi
non italianizzava il proprio cognome era sempre passibile del sospetto di
cospirazione e veniva considerato un elemento antinazionale al soldo della
Jugoslavia. I fascisti nel ’28 attuarono comunque pressioni su vasta scala,
sia attraverso un’intensa propaganda stampa,215 sia istituendo presso le sedi
dei fasci e dei sindacati uffici speciali per la compilazione delle domande
mentre agli impiegati pubblici venivano consegnati pronti per la firma i mo-
duli di richiesta già compilati.216
In base alla legge, i prefetti delle province interessate dovevano compi-
lare una lista dei cognomi da restituire in forma italiana e si potevano gio-
vare in questo scopo della consulenza di istituti, organi tecnici e competenti
in materia.217 A Trieste fu subito costituita una commissione consultiva di
«glottologi, filologi e giurisperiti»218 di 12 membri, espressione tutta politica
del fascismo locale. Rimase in carica anche dopo la compilazione dell’elen-
co per occuparsi delle riduzioni previste all’Art.2.219 Fra i suoi componenti
ricordiamo Bruno Coceanig, che diverrà Coceani, esponente di spicco del
fascismo locale che fra il 1943 e il ’45 ricoprì, su nomina nazista, la carica
di Podestà di Trieste, quando in città funzionò la tristemente nota Risiera
di San Sabba, e Aldo Pizzagalli, consigliere di prefettura e presidente della

212
Cit. in A. ANDRI, I cambiamenti di cognome nel 1928 e la scuola triestina, in «Qualestoria», XI,
1, febbraio 1983, p. 11.
213
Ibidem.
214
Ivi p. 13.
215
Ivi p. 9.
216
L. ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit. p. 146.
217
A. PIZZAGALLI, Per l’italianità dei cognomi…, cit.. p. 46.
218
Ivi pp 46-47.
219
Ivi p. 48-52.

86
L’italianizzazione di nomi, cognomi e toponimi

commissione, che nel 1929 pubblicò un volume dal titolo Per l’italianità dei
cognomi nella provincia di Trieste, con prefazione del segretario nazionale
del P.N.F. Augusto Turati, in cui sono illustrati i criteri dell’italianizzazione
e l’ideologia che la sorreggeva.
Già nella piccola prefazione Turati definiva il libro «molto utile […] so-
prattutto per l’opera di persuasione che potrà svolgere tra le popolazioni
della Venezia Giulia»,220 rivelando da subito che il regime non stava certo ad
aspettare che gli slavi richiedessero spontaneamente l’italianizzazione, cosa
molto improbabile fra l’altro, ma faceva pressioni, portava avanti un’opera
di persuasione. Turati concludeva con uno slancio nazionalista in cui si in-
vitava sloveni e croati, quasi a monito, a «sentire l’orgoglio di pronunciare
il loro nome nella pura e forte lingua italica».221
Pizzagalli avvia il suo lavoro affermando: «ecco la situazione che l’Italia
trovò nelle provincie redente: una popolazione razionalmente e cultural-
mente italiana con cognomi in gran parte di carattere straniero».222
Dopo aver tessuto le lodi della capacità assimilatrice della superiore ci-
viltà italica, veicolo anche di elevazione materiale oltre che morale, non
risparmiava aggettivi per descrivere tale situazione nella quale spiccava la
presenza di «una onomastica barbara o imbastardita, turbatrice della fisio-
nomia del paese»,223 insistendo più avanti sul fatto che quello slavo fosse un
«cognome barbaro»,224 che i cognomi italiani dovevano venir spogliati del
«barbaro suffisso».225 «Disfare rapidamente a buoni colpi d’ascia quanto
lentamente e perfidamente era stato manipolato dai preti slavi».226 Curio-
samente Pizzagalli non attribuisce anche all’Austria la responsabilità di
questo stato di cose, come molti altri fascisti, ma addita a responsabile so-
lamente il clero.227 «La verità è un’altra: che furono i preti slavi, ai quali
erano affidati i registri o matricole dello stato civile, ad alterare i cogno-
mi italiani», operando mutilazioni, traduzioni, aggiunte dell’odiato suffisso
“ch”.228 Anche Bombig, che pur non negava la responsabilità austriaca, ne

220
Ivi.
221
Ibidem.
222
Ivi p. 8.
223
Ivi p. 20.
224
Ivi p. 28.
225
Ivi p. 64.
226
Ivi pp. 95-96.
227
Cfr: G. BOMBIG, Le condizioni demografiche…, cit. p. 807. A. DUDAN, La Dalmazia…, cit. p.
837.
228
A. PIZZAGALLI, Per l’italianità dei cognomi…, cit. pp. 29-30.

87
III - La persecuzione antislava

aveva indicato la colpa definendoli portatori di una «opera subdola e tena-


ce» e «educati più al fanatismo politico che al culto della religione».229 Co-
sicché gli slavi, unici responsabili dell’offesa, paradossalmente diventavano
gli autori di una pretesa snazionalizzazione ai danni degli italiani.
Il governo, quindi, si era fatto carico di «agevolare il desiderio delle
popolazioni redente di italianizzare il proprio cognome straniero»230 com-
piendo un «atto squisitamente politico e d’interesse nazionale, e non di una
semplice operazione di stato civile».231
Pizzagalli espone i criteri-guida della commissione: traduzione, adatta-
menti fonetici, eliminazione suffissi e prefissi, cambiamenti di grafia, senza
tralasciar di dire che qualora il primo passo non fosse bastato per ottenere
il risultato desiderato si procedeva in avanti senza scrupoli.232 Presentava
tutta l’operazione come un «plebiscito di italianità», affiancato in questo
dalla stampa locale,233 che gratifica con queste parole: «i giornali di Trieste
per questa battaglia spiegarono il più acceso fervore con una sana, onesta,
assidua propaganda, spoglia di qualsiasi atteggiamento spavaldo» tesa a
«consigliare e suggerire ciò che tornava utile ai loro lettori».234 Tentava di
mascherare le pressioni e le coercizioni con la veste del consiglio, come se
nell’Italia della dittatura l’individuo, per di più un individuo con un cogno-
me appena definito barbaro e offensivo dei sentimenti nazionali, avesse lar-
ghe possibilità di libera scelta di fronte alle direttive del governo.
«Non era lecito […] costringere; ma consigliare, suggerire, convincere,
si. Tale delicato compito, trattandosi di un provvedimento legislativo del
governo fascista, era logico e giusto che fosse assunto dalla segreteria della
federazione provinciale del partito, pienamente consapevole della peculiare
importanza che lo stesso Duce gli annetteva e dell’opportunità di porre in
armonia l’onomastica di queste terre con la nuova situazione creata da Vit-
torio Veneto, e di ridurre anche quelle ad una pura espressione di italiani-
tà. L’iniziativa fu presa personalmente dal Segretario Federale Provinciale
del P.N.F., Ing. Giuseppe Cobolli-Gigli, il quale ordinò che tutte le orga-
nizzazioni politiche, i sindacati e le sezioni del dopolavoro, si ponessero a

229
G. BOMBIG, Le condizioni demografiche…, cit. p. 817.
230
A. PIZZAGALLI, Per l’italianità dei cognomi…, cit. p. 31.
231
Ivi p. 45.
232
Ivi p. 55-56.
233
Ivi p. 62. Cfr: A. ANDRI, I cambiamenti di cognome… , cit. p. 9.
234
A. PIZZAGALLI, Per l’italianità dei cognomi…, cit. p. 95.

88
L’italianizzazione di nomi, cognomi e toponimi

disposizione di quanti, intendendo di ridurre il proprio cognome, avessero


bisogno di consigli e di suggerimenti».235
Riportava i successi di un anno di lavoro con il dato che a fine 1928 a
Trieste le domande per la riduzione erano giunte al numero di 7543 ed era-
no già stati emessi 5000 decreti che italianizzavano il nome a 11.881 per-
sone,236 cifra comunque considerata ancora bassa, perciò chiudeva il libro
spronando a proseguire sulla linea tracciata.
«Troppi cognomi stranieri appaiono ancora nelle guide, negli elenchi te-
lefonici, negli albi dei professionisti, nelle insegne, nei bollettini dello stato
civile, nelle cronache cittadine, nelle pubbliche elargizioni, nei programmi
artistici, nei registri scolastici… ossia un po’ dovunque».237
Si era dunque solo agli inizi, molto restava da fare, ed infatti l’opera pro-
seguì per tutta la durata del regime.
Per Apih a fine ’36 nella provincia di Trieste erano stati italianizzati d’uf-
ficio 2047 cognomi mentre per la provincia di Pola riporta il dato di 56.000
persone col cognome italianizzato agli inizi del ’33.238 Parovel numera a
4000 i cognomi contenuti negli elenchi prefettizi di Trieste al 1935 e stima
in 100.000 le persone che ebbero il cognome italianizzato nella città fra il
’19 ed il ’45 più altre 60.000 dalla provincia. Per Gorizia cita un altro elenco
del ’35 con 900 cognomi per una stima complessiva corrispondente a 15.000
persone, nella provincia valuta il numero intorno ai 100.000. Un altro elenco
dell’Istria, esclusa Pola, del ’45 dà 2300 cognomi. Valuta per l’Istria, Pola
compresa più le isole, non meno di 200.000 persone col cognome cambiato
sempre nel periodo ’19-’45. Per Fiume e Zara ritiene italianizzati per analo-
gia 40.000 persone. Alla fine riporta un dato complessivo nell’ordine delle
500.000 unità.239 Čermelj dà i dati dell’elenco della commissione di Pola al
1928 che risultava intorno ai 3000 e calcola in 10.000 il numero delle per-
sone destinate ad essere investite dalla legge, aggiungendo che fra l’aprile e
il settembre 1928 il prefetto firmò ben 2300 decreti. Per Trieste, a fine ’31,
15.000 decreti, di cui 5000 d’ufficio, che alteravano il cognome a 50.000
persone. Anche Čermelj conteggia un totale di circa 500.000 individui sog-
getti potenziali dell’italianizzazione.240 Questo numero appare alto ed è mol-

235
Ivi pp. 93-94.
236
Ivi p. 107.
237
Ivi p. 108.
238
E. APIH, Italia. Fascismo e antifascismo…, cit. pp. 280-282.
239
P. PAROVEL, L’identità cancellata…, cit. p. 28.
240
L. ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit. p. 144-147.

89
III - La persecuzione antislava

to probabile che sia stato arrotondato in eccesso, inoltre si basa in gran parte
su stime e valutazioni e non su dati certi, anche se a suo favore c’è da dire
che l’italianizzazione dei cognomi non riguardava, come detto sopra, solo la
minoranza slava ma anche gli italiani con cognome slavo il che porta inevi-
tabilmente ad avere un numero più alto rispetto a quello degli slavi presenti
sul territorio, il quale è a sua volta controverso. Certo è comunque che le
persone toccate dai provvedimenti si devono conteggiare in un ordine non
inferiore alle decine, se non centinaia, di migliaia.
L’italianizzazione, divisa per province, non collegata, affidata a funzio-
nari poco esperti, dette luogo anche a diversi inconvenienti. Ci furono casi
di famiglie abitanti in più province a cui furono attribuiti cognomi diversi,
anche dentro alla stessa provincia poteva capitare che due fratelli entrambi
capofamiglia si ritrovassero ad avere cognomi diversi, lo stesso vale per
padri e figli. Per gli stessi cognomi si operarono riduzioni diverse da parte
delle varie commissioni. Sirk a Trieste fu Sirca, a Gorizia Sirtori ed in Istria
Serchi.241
Nel 1928 si approntarono anche le disposizioni per quanto riguardava i
nomi. La legge 8 marzo 1928 N° 383 contro l’imposizione di nomi ridico-
li, amorali o oltraggiosi dell’opinione pubblica, unita con i precedenti visti
sopra per la Venezia Giulia, dove tutto ciò che era slavo rientrava in queste
categorie, impedì di fatto che ai neonati fosse dato un nome slavo. La legge
aveva valore retroattivo consentendo ai funzionari degli uffici anagrafici di
cambiare d’ufficio anche i nomi iscritti in precedenza. Pochi giorni dopo,
il 28 marzo, fu promulgata un’altra legge che consentiva di mutare il nome
anche agli adulti.242 Il Comune di Trieste sfruttò subito le nuove possibilità
e nel ’29 compilò un elenco dei bambini in età scolastica con nomi slavi
avvertendo i genitori che se non avessero provveduto essi stessi al cambia-
mento ci avrebbero pensato gli uffici comunali. Chi tentava di violare la
norma andava incontro a pesanti ritorsioni. Nel ‘33 l’avvocato di Gorizia
Gaberšček per aver provato, inutilmente, di chiamare suo figlio Boris, ven-
ne convocato dalla commissione provinciale per il confino che l’ammonì
ponendolo per due anni sotto sorveglianza, contemporaneamente fu radiato
dall’ordine degli avvocati ed alla fine dovette emigrare oltreconfine.243

241
E. APIH, Italia. Fascismo e antifascismo…, cit. p 282. L. ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit. p. 145.
242
L. ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit. p. 152-153. P. PAROVEL, L’identità cancellata…, cit. p. 29.
Parovel cita la legge 8 marzo col N° 233.
243
L. ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit. p. 153-154.

90
L’italianizzazione di nomi, cognomi e toponimi

Dieci anni dopo, alla vigilia della guerra, si abbandonò ogni remora,
proibendo, con l’Art. 72 del R.D. 9 luglio 1939 N° 1238, di assegnare nomi
stranieri a tutti i nuovi nati cittadini italiani.244
E’ stato fatto giustamente notare che la vicenda dell’italianizzazione va
inserita in un quadro più ampio, quello dell’affermazione del regime, pro-
cedente di pari passo con l’eliminazione di ogni forma di dissenso, che si
concretizza proprio in questi anni con l’offensiva finale contro ogni forma di
opposizione o di alterità al fascismo. Un mezzo quindi per controllare il gra-
do di resistenza politica delle minoranze, utile anche contro comportamenti
anticonformisti di tipo personale che mal si confacevano alle aspirazioni to-
talitarie del regime ed al tempo stesso un modo per mantenere la popolazio-
ne italiana del confine nord-orientale in uno stato di mobilitazione nazionale
funzionale alla costruzione del consenso.245 L’italianizzazione delle parole,
del linguaggio, di sostantivi indicanti persone, luoghi, cose, era però qual-
cosa di più, non semplicemente un episodio particolare, vistoso si, ma se-
condario e superficiale.246 Era parte organica della distruzione dell’esistenza
degli sloveni e dei croati, della loro cancellazione. Un tassello della dia-
lettica nazione/antinazione specifica del fascismo, rispondente all’esigenza
dell’individuazione di un nemico necessaria sulla via della costruzione di un
sistema totalitario, ma anche espressione di un’ideologia e di una politica
specificatamente antislava. Collotti invita a riflettere sul ruolo di distruzione
della memoria cui era destinato l’intervento sulla toponomastica.247 Si col-
piva direttamente uno dei punti cardine di ogni costruzione di un’identità
nazionale, l’esistenza di una memoria storica, l’uso di un linguaggio con-
diviso. Cosa che poi si attanagliava benissimo con l’idea degli slavi come
di un “popolo senza storia”. Scomparsa ogni manifestazione pubblica della
lingua, privati luoghi e persone dei loro nomi, tutti gli aspetti visibili della
presenza slava venivano a mancare. Parallelamente ed di conseguenza si po-
teva sostenere che la Venezia Giulia era popolata esclusivamente da italiani,
il che faceva anche comodo per mettersi al riparo da eventuali accuse che
fossero giunte dall’estero. Senza contare che la tesi degli italiani degenerati
permetteva di considerare italiani quanti, sloveni e croati della Jugoslavia,
portavano un cognome considerato come di origine italiana o latina raffor-
zando le basi teoriche delle mire imperialiste verso i Balcani.

244
P. PAROVEL, L’identità cancellata…, cit. p. 29.
245
A. ANDRI, I cambiamenti di cognome…, cit. pp. 10-13.
246
Ivi p. 10.
247
E. COLLOTTI, Sul razzismo antislavo, cit. p. 57.

91
III - La persecuzione antislava

LA LIQUIDAZIONE DELLE ISTITUZIONI CULTURALI:


STAMPA, SCUOLE, ASSOCIAZIONI

L’opera di distruzione della minoranza allogena non poteva non trovare


un suo momento importante nella soppressione sistematica di tutte le forme
in cui era organizzata la sua presenza culturale, ma anche politica, sul ter-
ritorio, Quest’opera, se per un verso si inseriva appieno in quel processo di
eliminazione delle opposizioni di cui parlavamo alla fine del paragrafo pre-
cedente, che ebbe come teatro l’intero territorio nazionale e come principali
destinatari i partiti socialista, comunista, popolare, le organizzazioni liberali
o repubblicane antifasciste, i sindacati e le libertà di stampa e di espressio-
ne, era d’altronde, nel contesto del confine nord-orientale, rivolta in maniera
particolare contro la minoranza, parte integrante della sua cancellazione, e
costituiva una delle premesse indispensabili atte a preparare il terreno alla
bonifica di confine che i gerarchi fascisti teorizzavano. Nel periodo prece-
dente il 1922, le autorità locali si erano adoperate per chiudere o evitare la
riapertura del maggior numero di scuole slovene e croate possibili.248 Le
scuole, considerate fortezze etniche, erano uno dei punti di scontro fra ita-
liani e slavi già dal periodo asburgico,249 quando si contrapponevano due
organizzazioni, la Lega Nazionale per gli italiani e la Società dei SS. Ciril-
lo e Metodio per gli slavi. L’obbiettivo in questa fase era di contenimento
al fine di ridurre il loro ruolo di indicatore etnico.250 Si proibì la riapertura
delle scuole private, di cui molte erano della minoranza, per altre si moti-
vò la mancata riattivazione con l’argomento che mancavano gli insegnanti,
epurati in precedenza.251 In Istria si negò la riapertura alle scuole istituite
nel passato in contrasto con la volontà dei comuni e delle province.252 L’am-
miraglio Cagni e lo scrittore nazionalista Sem Benelli, a capo dell’Ufficio
Politico di Pola, provvidero alla chiusura di circoli e del giornale croato
Hrvatski List .253

248
P. STRANJ, La questione scolastica…, cit. pp. 108-116. L. ČERMELJ, Sloveni e Croati…, cit. pp. 41-
43. M. KACIN WOHINZ, J. PIRJEVEC, Storia degli sloveni…, cit. p. 49. Cfr: E. SESTAN, Venezia Giulia.
Lineamenti…, cit. p. 115-116 secondo cui sloveni e croati non furono trattati poi così male, anche
se ammette la chiusura per alcune scuole, soprattutto nei centri urbani. Un’interpretazione simile è
stata recentemente avanzata da A. APOLLONIO, Dagli Asburgo…, cit. p. 55, p. 221 e p. 223.
249
P. STRANJ, La questione scolastica…,cit. p. 105.
250
Ivi p. 109.
251
Ivi p. 110-111.
252
L. ČERMELJ, Sloveni e Croati…, cit. p. 43. E. APIH, Italia. Fascismo e antifascismo…, cit. p. 87.
253
L. ČERMELJ, Sloveni e Croati…, cit. p. 92 e pp. 114-115. E. APIH, Italia. Fascismo e antifasci-
smo…, cit. p. 86. E. SESTAN, Venezia Giulia. Lineamenti…, cit. p. 114.

92
La liquidazione delle istituzioni culturali: stampa, scuole, associazioni

Tuttavia, nonostante portasse già il marchio del più acceso nazionalismo,


la situazione rimaneva ancora fluida, aperta ad altre possibilità, che non fu-
rono, per scelta, perseguite. In campo scolastico uomini come Giovanni
Ferretti, che dal 1919 sovrintendeva all’Ufficio scolastico del Segretariato
generale per gli affari civili nelle terre redente, propugnava la necessità di
rispettare le minoranze linguistiche, di informare l’azione nei loro confronti
a principi di cautela che potevano permettere di addivenire ad una pacifica
integrazione di quelle popolazioni nella compagine statale italiana. Per lui
era anche una questione pratica, di buon senso, comprendendo le resistenze
che avrebbe incontrato, specie da parte dell’intellighenzia, una politica, sep-
pur graduale, improntata alla nazionalizzazione. Proprio per questo Gentile,
da Ministro della pubblica istruzione, lo allontanò dalle terre redente “pro-
movendolo” provveditore degli Abruzzi.254
Lo squadrismo, ovviamente, aveva fra i suoi obbiettivi, qui come nel re-
sto del paese, circoli, associazioni e giornali. Furono molte le organizzazioni
slovene e croate, slavo-comuniste come le definivano i fascisti, a subire vio-
lenze e devastazioni. A Volosca venne incendiata la biblioteca dell’associa-
zione croata Bratimstvo (Fratellanza); a Trieste fu assalita quella del Ljudski
Oder (Teatro Popolare); la tipografia dell’Edinost fra il ’18 e il ’21 subì sette
attacchi; quella dell’organo comunista Il Lavoratore dove si stampava an-
che il Delo, organo comunista in lingua slovena, tre; incendiata quella croata
dell’Hrvatsko Tiskovno Društvo (Società Tipografica Croata).255 L’elenco è
lunghissimo. Su tutti svetta l’assalto e l’incendio del Narodni Dom di Trie-
ste, seguito il giorno dopo dalla distruzione del Narodni Dom di Pola ad
opera delle squadre di Bilucaglia. Fu una vera e propria dichiarazione di
guerra agli slavi. Il Balkan ospitava molte organizzazioni slovene.
L’azione squadrista riprese vigore nel 1926 dopo l’ondata di attentati a
Mussolini, a Gorizia ne fecero le spese la Zadružna Tiskarna (Tipografia
Cooperativa), la Katoliška Tiskarna (Tipografia Cattolica) e la cristiano-so-
ciale Prosvetna Zveza (Unione Culturale).256
Dalla marcia su Roma in poi le scuole e le altre organizzazioni culturali
degli allogeni avevano i giorni contati. Già la creazione di un unico provve-
ditorato agli studi per la Venezia Giulia e per Zara, pur facendo parte della

254
M. GALFRÉ, Una riforma alla prova. La scuola media di Gentile e il fascismo, Milano, Franco An-
geli, 2000, p. 56. M. RAICICH, Scuola e lingua materna: le minoranze di frontiera nell’Italia liberale,
in «Passato e presente», XIV, 38, 1996, p. 56.
255
L. ČERMELJ, Sloveni e Croati…, cit. p. 93 e p. 115.
256
Ivi pp. 101-102.

93
III - La persecuzione antislava

sostituzione dei 73 provveditorati provinciali con 19 regionali, rispondeva


ad esigenze di controllo sulla popolazione slava, esplicate da Il Piccolo nel
marzo 1923 che chiedeva a questo proposito «la creazione di organi diret-
tivi comuni per queste tre province dove si ha da curare con unità di cri-
teri anche il problema scolastico degli allogeni».257 Fu affidato a Giuseppe
Reina, un fascista della prima ora, dal 1920 a capo dell’amministrazione
scolastica di Zara.258
La riforma scolastica di Gentile, anche se frutto in larga parte della fi-
losofia idealista, fu definita da Mussolini «la più fascista delle riforme».259
Segnò la fine delle scuole per la minoranza attraverso un lento processo
che durò fino al 1928.260 Per Gentile, ossequiente al principio nazionalista,
i concetti di nazione e stato coincidevano,261 con un primato dello stato
quale creatore della nazione, eliminando ogni spazio alla presenza ed al
riconoscimento dell’esistenza di nazionalità diverse all’interno di un’unità
politica e, di conseguenza, all’interno della scuola che di quell’unità è un
elemento fondamentale. Il corollario di questa concezione nella riforma
furono gli Articoli 4 e 17 contenuti nel R.D. 1 ottobre 1923 “Ordinamento
dei gradi scolastici e dei programmi didattici dell’istruzione elementare”.
Il primo stabiliva: «in tutte le scuole elementari del regno l’insegnamento
è impartito nella lingua dello Stato. Nei comuni nei quali si parli abitual-
mente una lingua diversa, questo sarà oggetto di studio, in ore aggiun-
te».262
Mentre il secondo chiariva il percorso che avrebbe portato l’italiano ad
essere la lingua d’insegnamento ufficiale in tutte le scuole: «a cominciare
dall’anno scolastico 1923-24, in tutte le prime classi delle scuole elemen-
tari alloglotte l’insegnamento sarà impartito in lingua italiana. Nell’anno
scolastico 1924-25, anche nelle seconde classi di dette scuole si insegnerà
in italiano. Negli anni scolastici successivi, si procederà analogamente
per le classi successive, fino a che, in un numero di anni uguale a quello

257
A. ANDRI G. MELLINATO, Scuola e confine. Le istituzioni educative della Venezia Giulia (1915-
1945), Trieste, Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli–Venezia
Giulia (Quaderni di Qualestoria), 1994, pp. 111-112. Il volume è una puntuale ricostruzione delle vi-
cende della scuola nella Venezia Giulia al quale rimandiamo per approfondimenti su questo tema.
258
M. GALFRÉ, Una riforma alla prova…, cit. p. 56. M. RAICICH, Scuola e lingua materna…, cit. p.
57.
259
Ivi p. 105.
260
Ivi p. 113.
261
Ivi p. 107.
262
P. STRANJ, La questione scolastica…,cit. p. 119.

94
La liquidazione delle istituzioni culturali: stampa, scuole, associazioni

dell’intero corso, così delle scuole elementari come delle scuole civiche si
insegnerà in italiano. Con la sostituzione della lingua italiana alla lingua
di insegnamento presentemente in uso procederà analogamente l’istituzio-
ne dell’insegnamento della seconda lingua, in ore aggiunte».263
Le ore aggiunte spesso non venivano poi nemmeno previste, le richie-
ste non considerate se non considerate atteggiamento antinazionale, quando
esistevano venivano messe in orari assurdi, spesso di sera, affidate a maestri
che conoscevano solo l’italiano, si cercava cioè di ostacolare in ogni manie-
ra anche la fruizione di questo piccolo diritto.264 Alla fine vennero abolite
con il R.D. 22 novembre 1925 N° 2191 del Ministro Fedele.265 Entro l’an-
no scolastico 1928-29 non esistevano più classi con lingua d’insegnamento
slovena o croata.266
La riforma fu uno strumento fondamentale dell’opera di snazionaliz-
zazione a cui era chiamata la particolare tipologia di scuola che il regime
voleva in queste zone, una “scuola di confine”.267 Essa e anche indice del
fatto che nel ‘23 la snazionalizzazione era divenuta programma ufficiale di
governo, un programma che assegnava alla cultura italiana il compito di
prevalere sulle altre.268
Si chiusero anche le scuole medie e professionali della minoranza, o si
italianizzarono. A questa sorte andarono incontro entro il 1928 una decina
di esse fra ginnasi e scuole professionali.269 Funzionò invece, soprattutto
per ragioni di politica estera connesse ai rapporti con la Jugoslavia, fino al
1930 la scuola commerciale di S. Giacomo a Trieste, privata.270 Nel 1924
si reintrodusse, per un certo periodo, in alcune scuole l’insegnamento dello
sloveno e del croato,271 «perché i maestri e le maestre che vengono inviati ad
insegnare nella zona allogena possano tradurre in italiano le prime parole
dei bambini» come spiegava Ragusin Righi, dopo aver poco prima esortato
ad utilizzare una legge che obbligava a chiudere gli asili privati là dove ne
esisteva uno comunale dato che «esistono ancora degli asili infantili sla-

263
Ibidem.
264
M. GALFRÉ, Una riforma alla prova…, cit. pp. 94-96.
265
L. ČERMELJ, Sloveni e Croati…, cit. p. 45. A. ANDRI G. MELINATO, Scuola e confine…, cit. p. 133.
P. STRANJ, La questione scolastica…, cit. p. 124.
266
L. ČERMELJ, Sloveni e Croati…, cit. p 44. E. APIH, Italia. Fascismo e antifascismo…, cit. p. 278.
267
A. ANDRI G. MELLINATO, Scuola e confine…, cit. p. 113.
268
Ivi pp. 132-133.
269
L. ČERMELJ, Sloveni e Croati…, cit. p. 46. P. STRANJ, La questione scolastica…, cit. p. 116.
270
A. ANDRI G. MELLINATO, Scuola e confine…, cit. p. 187 e ssg.
271
Ivi p. 48.

95
III - La persecuzione antislava

vi, che contrastano stranamente coi principi nazionali».272 Rimase aperta


la questione della lingua nell’insegnamento religioso, in cui i preti alloge-
ni opponevano una fiera resistenza della quale parleremo più diffusamente
avanti.
Nella zona erano presenti nel 1913 488 scuole, nel 1919 392. La riforma
investì circa 400 scuole con 840 classi e 52.000 alunni.273 Andri e Mellinato,
secondo cui la riforma Gentile costituirebbe la prima fase della snazionaliz-
zazione, osservano che «già nel limitato campo della scuola […] si misura
con precisione l’incapacità del fascismo di intendere le relazioni con i popo-
li vicini altrimenti che in termini di sopraffazione. Alle minoranze non viene
lasciata alternativa all’estinzione culturale ed etnica».274 Nel giugno 1927
il Ministro della Pubblica Istruzione Fedele poteva asserire davanti al Sena-
to che nella Venezia Giulia non esistevano più scuole con lingua d’insegna-
mento diversa da quella italiana.275 Li faceva eco nel settembre Ferdinando
Pasini, complimentandosi con Reina e rallegrandosi della tranquillità con
cui si era svolta tutta l’operazione. «Se si pensa, che non esistono più istituti
medi alloglotti o furono sostituiti da italiani e che tutte le scuole elementari
alloglotte furono trasformate in italiane, non c’è da stupirsi che tutto ciò sia
avvenuto senza scosse, gradualmente e con garanzia di stabilità?»276
Di pari passo procedeva la soppressione di organi di stampa ed associa-
zioni, attraverso strumenti di controllo politico sempre più stretti. Di questo
processo furono vittime anche i partiti delle minoranze, spesso legati stret-
tamente ad organizzazioni culturali e di stampa come nel caso dell’Edinost,
ma la loro distruzione si inserisce più nel quadro di repressione di tutte le
opposizioni che in quello del “genocidio culturale”. Nei confronti delle as-
sociazioni il fascismo infatti non si limitò a sciogliere solo quelle che pote-
vano avere un qualche carattere politico, seppur lato, ma calò la sua scure
su tutte, fossero esse ginniche, sportive, corali o alpinistiche, chiuse anche il
foglio umoristico Čuk na pal’ci e pubblicazioni a carattere economico come
il Gospodarski vestnik.277 L’accusa era di congiurare a favore della separa-
zione ed annessione alla Jugoslavia, ma questa era una motivazione esterio-
re, quelle reali sono state bene esposte da Milica Kacin-Wohinz riportando

272
L. RAGUSIN RIGHI, Politica di confine, cit. pp. 68-69.
273
L. ČERMELJ, Sloveni e Croati…, cit. pp. 41-44.
274
A. ANDRI G. MELLINATO, Scuola e confine…, cit. p. 149.
275
L. ČERMELJ, Sloveni e Croati…, cit. p. 48. P. STRANJ, La questione scolastica…, cit. p. 116.
276
F. PASINI, Scuole e università, cit. p. 889. Il corsivo è nel testo.
277
L. ČERMELJ, Sloveni e Croati…, cit. p. 114.

96
La liquidazione delle istituzioni culturali: stampa, scuole, associazioni

affermazioni de Il Popolo di Trieste, giornale fascista di Trieste. «L’offensi-


va contro le associazioni non era affatto dovuta a qualche tipo di congiura,
dal momento che gli slavi sarebbero stati del tutto incapaci a fare cose simi-
li, bensì dalla mera necessità storica d’eliminare le nazionalità diverse da
quella italiana, per le quali non v’era spazio nell’Italia fascista».278
Nella citazione precedente della circolare riservata di Mussolini del 1925
si fa accenno a questi provvedimenti presi per il reintegro dell’italianità an-
che nell’insegnamento. Subito dopo il Duce del fascismo si occupa del pro-
blema delle associazioni.
«Sono in parte abitate [le nuove province N.D.A.] da popolazioni che op-
pongono alla necessaria opera di reintegrazione nazionale […] una tenace
resistenza. Questa resistenza viene eccitata, organizzata, diretta, da potenti
associazioni le quali nascostamente ma incessantemente e infaticabilmente
procurano in mille modi di ostacolare l’azione governativa, di rendere vani
i provvedimenti, di suscitare un sentimento irredentista nelle popolazioni.
[…] non può escludersi che le associazioni irredentistiche siano più o meno
direttamente sussidiate dai Governi dell’Austria e della Germania e spe-
cialmente della Jugoslavia. Per vincere la resistenza organizzata e attuare il
proprio programma, il Governo deve […] reprimere le manifestazioni anti-
taliane individuali e soprattutto collettive delle associazioni irredentiste, le
quali mascherano il loro carattere politico con la veste della coltura».279
La legislazione in materia di stampa ed associazioni dava ampia facoltà
di agire in questa direzione, senza dover nemmeno creare norme specifiche.
Il decreto-legge del 15 luglio 1923 N° 3288 prevedeva la possibilità per il
prefetto di diffidare il gerente di un giornale o di un periodico in vari casi,
molto generici, di cui alcuni si prestavano bene ad essere applicati alla stam-
pa slava, quali il turbamento dell’ordine pubblico, il favorire gli interessi di
stati, enti o privati stranieri, il vilipendio della patria. Chi veniva condannato
due volte per reati legati alla stampa perdeva la qualifica di gerente, la quale
raramente veniva riconosciuta a qualcun altro portando così alla scomparsa
della pubblicazione.280 Un anno dopo con il R.D. 10 luglio 1924 N° 1081 si
inasprivano le disposizioni dando ai prefetti la possibilità di sequestro anche

278
M. KACIN WOHINZ, La minoranza sloveno-croata sotto l’Italia fascista, in Le minoranze etniche
europee di fronte al nazismo ed al fascismo. Atti del convegno svoltosi ad Aosta il 3 e 4 dicembre
1983, Aosta, Musumeci Editore, 1985 p. 138.
279
Documento riportato in R. DE FELICE, Mussolini. Il fascista, cit. p. 496.
280
A. AQUARONE, L’organizzazione dello stato totalitario, Torino, Einaudi, 20033, pp. 39-40. Docu-
mento in appendice, p. 493. L. ČERMELJ, Sloveni e Croati…, cit. p. 117. E. APIH, Italia. Fascismo e
antifascismo…, cit. p. 278.

97
III - La persecuzione antislava

senza la presenza della duplice diffida.281 Dopo il discorso del 3 gennaio


1925 l’offensiva si fece più forte seppur ancora graduale, lasciando ancora
per qualche tempo spazio a voci di dissenso comunque sterili e isolate. In-
tanto si provvedeva a colpire anche il diritto di associazione con la legge 26
novembre 1925 N° 2029. Doveva esser destinata a colpire la massoneria ma
poteva anche essere usata contro altre associazioni data la sua elasticità.282
Il ’25 fu comunque un anno in cui l’autorità prefettizia intervenne diverse
volte per sequestrare giornali e diffidare.283 Alla sua fine venne la legge 31
dicembre 1925 N° 2307 che stabiliva che il direttore responsabile, neces-
sario per legge, dovesse essere iscritto all’albo dei giornalisti, creato con la
stessa legge che con l’Art.7 istituiva l’Ordine dei giornalisti.284 Chiaramen-
te da adesso bastava espellere dall’albo o rifiutare l’iscrizione per far cessare
un giornale. Il colpo di grazia alle associazioni lo dette il R.D. 6 novembre
1926 N° 1848 che approvava il nuovo Testo Unico delle Leggi di Pubblica
Sicurezza, riprodotto sostanzialmente invariato nel 1931. Conteneva san-
zioni penali particolarmente aspre a autorizzava i prefetti a sciogliere le as-
sociazioni che svolgevano attività contraria all’ordinamento nazionale.285 Il
codice penale del 1930 conteneva le seguenti disposizioni: «Art. 271. Asso-
ciazioni antinazionali. Chiunque […] nel territorio dello Stato promuove,
costituisce, organizza o dirige associazioni che si propongano di svolgere
o che svolgano un’attività diretta a distruggere o deprimere il sentimento
nazionale è punito con la reclusione da uno a tre anni».286
L’Articolo 272 prevedeva pene anche per il reato di propaganda fatta per
distruggere o deprimere il sentimento nazionale.287 Infine il 25 novembre
1926 con la legge N° 2008 si istituiva il Tribunale Speciale per la Difesa
dello Stato a coronamento dell’opera. Fra i reati ad esso sottoposti c’erano
anche quelli di ricostituzione e partecipazione alle associazioni disciolte.288
Sulla sua attività ai confini nord-orientali gli autori di un recente studio scri-
vono. «Al Tribunale Speciale spetta il compito di ristabilire l’ordine affer-
mando sia il primato della razza e della civiltà italiana, sia il ruolo giocato

281
A. AQUARONE, L’organizzazione…, cit. p. 41.
282
Ivi p. 68. Documento in appendice, p. 393.
283
Ivi p. 91.
284
A. AQUARONE, L’organizzazione…, cit. p. 92. Documento in appendice, p. 418. L. ČERMELJ, Slo-
veni e Croati…, cit. p. 118.
285
A. AQUARONE, L’organizzazione…, cit. p. 99.
286
Ivi, documento in appendice p. 553.
287
Ivi, p. 554,
288
Ivi p. 427.

98
La liquidazione delle istituzioni culturali: stampa, scuole, associazioni

da un confine che funge da barriera con un mondo barbaro e inferiore»,


per gli imputati la «colpevolezza risiedeva nel fatto stesso di opporsi ad un
progetto di assimilazione totale, di sottrarsi al solo destino che fosse loro
permesso».289
Con tutta quest’attività legislativa alle spalle i federali fascisti delle pro-
vince giuliane considerarono giunto il momento per imprimere una svolta
radicale alla politica verso gli allogeni. Nel marzo 1927 a Trieste decisero di
farla finita con associazioni e stampa slava, definita in quei giorni da Il Po-
polo di Trieste un «ascesso purulento». I circoli slavi erano «anacronismi e
anomalie» in una regione dove non esisteva una classe di intellettuali slavi,
dunque si doveva farla finita con quella che i dirigenti fascisti considerava-
no benevolenza e tolleranza.290
Nel giugno si incontrarono a Roma con Mussolini, a cui poco dopo fe-
cero giungere un memoriale. Evidentemente a Roma trovarono un uditorio
attento alle loro richieste, proprio in quei giorni venivano discussioni ag-
gressivi progetti antijugoslavi, ed in data 19 luglio 1927 il Ministero dell’In-
terno emise una circolare “riservatissima personale” per «adottare nuove e
più energiche misure nei confronti delle organizzazioni slave».
«ASSOCIAZIONI SLAVE DI CULTURA: Si sono rivelate ormai, dopo
una lunga esperienza e una sin troppo condiscendente attesa, per quel che
vogliono essere e realmente sono: nuclei di resistenza politica, centri più
o meno dissimulati di propaganda irredentista, focolai di malcontento, di
sospetto e di diffidenze verso tutto quanto è italiano. Esse non hanno altro
scopo che quello di tenere lontana da noi la popolazione e di isolarla dal
resto della regione e del paese; né possono perciò esser più oltre tollerate.
Per più ragioni tuttavia non si ritiene opportuno adottare un provvedimento
simultaneo e d’ordine generale, ma è invece consigliabile addivenire alla
loro graduale per quanto rapida soppressione. Una vigilanza costante, in-
tensa e intelligente, non mancherà di fornire ottime ragioni di scioglimento;

289
La citazione è tratta da M. PUPPINI, M. VERGINELLA, A. VERROCCHIO, Dal processo Zaniboni al
processo Tomažič. Il tribunale di Musssolini e il confine orientale (1927-1941), Udine, Gaspari
Editore, 2003, pp. 7-11. Furono 544 gli slavi processati, con ben 40 condanna a morte su un totale
di 65 pronunciate. Nel periodo prima della guerra su 9 condannati a morte 5 erano slavi.. Dal ’27
al ’43, periodo in cui fu attivo, non vi fu anno senza processi contro slavi della Venezia Giulia. Per
questi dati Cfr: S. DINI, Il tribunale speciale per la difesa dello stato e l’irredentismo jugoslavo, in
«Qualestoria», XXXII, 1, giugno 2004, pp. 65-80. A. AQUARONE, L’organizzazione…, cit. p. 103.
Altri lavori sul tema A. POMPEO, Le esecuzioni capitali a Roma e la frontiera orientale (1939-1943),
in «Qualestoria», XXVII, 2, dicembre 1999, pp. 71-108. J. PIRJEVEC, La fase finale della violenza
fascista. I retroscena del processo Tomažič, in «Qualestoria», X, 2, giungo 1982, pp. 75-94.
290
L. ČERMELJ, Sloveni e Croati…, cit. pp. 102-103 e p. 119.

99
III - La persecuzione antislava

senza contare che, scorgendovi un certo numero di esempi, gli altri, non tar-
deranno a sciogliersi volontariamente, a ciò indotti sia dalla constatazione
che la loro attività illegale non sarebbe più oltre tollerata, sia dall’azione
persuasiva che in molti comuni potranno opportunamente esercitare i Sigg.
Podestà. In ogni caso, nessuna associazione slava di cultura dovrà esistere
nella Venezia Giulia alla data del 1° ottobre P.V».291
Mentre per quel che riguardava la stampa: «dovrà essere anch’essa gra-
dualmente soppressa. Quasi tutti i giornali hanno avuto la prima diffida.:
si intensifichino i sequestri sino a giungere alla seconda e quindi alla re-
voca del gerente. Quanto al riconoscimento del nuovo gerente, è superfluo
ricordare che la Legge sulla Stampa dà alle SS.LL. in questa materia una
efficacissima facoltà di intervento, della quale le SS.LL. si varranno per ne-
gare sistematicamente il loro consenso alla nuova nomina. Per il 1° ottobre
nessun giornale slavo dovrà più pubblicarsi nella Venezia Giulia».292
Fra la metà del ’27 e gli inizi del ’28 scomparvero quindi tutte le associa-
zioni e la stampa slava. Solo alle case editrici fu permesso di sopravvivere
fino al ‘39 purché italianizzassero nome e attività.293
Secondo i fascisti gli allogeni avevano una cultura inferiore e misera,
o non l’avevano affatto, dato che l’esistenza di questa era legata per il fa-
scismo ad una precisa storia nazionale , ad un sentimento nazionale che
sloveni e croati, a loro avviso, non erano mai arrivati a possedere. Di conse-
guenza qualsiasi manifestazione culturale andava eliminata in quanto frutto
dell’azione di propaganda di infimi elementi al soldo di potenze straniere,
organizzata dall’estero con lo scopo di distogliere dall’assimilazione queste
popolazioni primitive. Queste idee si ritrovano nella circolare di Mussolini
riportata sopra e nelle parole di molti altri fascisti. Il comandante della le-
gione carsica della MVSN Emilio Grazioli, durante la guerra alto commis-
sario per la provincia di Lubiana, sosteneva. «Le società slave ora esistenti
nella Venezia Giulia si contano ormai a migliaia e tutto è valevole per costi-
tuirle. Esse hanno nomi e scopi più disparati, dalla società di canto a quelle
banditistiche, pompieristiche, sportive, giovanili, agricole, esperantiste ecc.
Va da sé che […] servono a tutto meno che per lo scopo per il quale risul-
tano costituite».294

291
L. ČERMELJ, Sloveni e Croati…, cit. pp. 105-106.
292
Ivi p. 119.
293
M. KACIN WOHINZ, J. PIRJEVEC, Storia degli sloveni…, cit. p. 53. M. KACIN WOHINZ, Orientamento
nazionale…, cit. p. 57.
294
M. KACIN WOHINZ, J. PIRJEVEC, Storia degli sloveni…, cit. p. 52. M. KACIN WOHINZ, Orientamento
nazionale…, cit. p. 56.

100
La liquidazione delle istituzioni culturali: stampa, scuole, associazioni

E Bombig confermava. «Centri di coltura che fossero qualcosa di più


di semplici focolai di propaganda slava, zero».295 Righi ribadisce più volte
questa concezione. «La sedicente organizzazione culturale costituita da cir-
coli ed associazioni, che iniettavano il veleno del politicantesimo ammae-
strato, ed in senso culturale se mai non potevano avere che una funzione
negativa»;296 «una rete di centinaia di associazioni e circoli di propaganda
e cospirazione politica, sedicenti culturali, in efficienza sin nei più picco-
li centri abitati, artificialmente sostenuti dal propagandismo jugoslavo»;297
«l’ampia libertà di stampa, che era divenuta licenza, permetteva la pubbli-
cazione e diffusione di una quantità di giornaletti e libelli della propaganda
slava, che il più delle volte cercavano di seminar l’odio contro l’Italia e gli
italiani»,298 «associazioni e circoli slavi pseudo culturali e sportivi»;299 pic-
cole sette, focolai di infezione antitaliana senza niente di culturale ed istrut-
tivo.300 Si potrebbe andare avanti. Tutta l’impalcatura era quindi sorretta
da un’argomentazione monotona ripetuta all’infinito. La troviamo puntual-
mente confermata nella motivazione con cui venne sciolta l’associazione
Prosveta. «L’attività dell’associazione non si basa sulla vera ed autentica
cultura, bensì sulla cultura slava. Perciò queste associazioni culturali non
trovano in se lo scopo della loro esistenza, ma servono a fini spiccatamente
politici».301
Il 19 settembre 1928 si decretava la fine dell’Edinost, la più importante
organizzazione della minoranza. L’offensiva poteva considerarsi conclusa
nella sua massima parte. Per il federale di Gorizia Caccese al 1929 in quella
provincia erano stati chiusi 230 circoli. Si parla per tutta la regione di 400
circoli con altrettante sedi e biblioteche e di 31 periodici soppressi, ma c’è
anche chi è arrivato a conteggiarne 500.302

295
G. BOMBIG, Le condizioni demografiche…, cit. p. 814.
296
L. RAGUSIN RIGHI, Politica di confine, cit. p. 18-19.
297
Ivi p. 20.
298
Ivi p. 39.
299
Ivi p. 40.
300
Ivi p. 54 e p. 93.
301
Cit. in L. ČERMELJ, Sloveni e Croati…, cit. p. 107
302
L. ČERMELJ, Sloveni e Croati…, cit. p. 107 e p. 121. M. KACIN WOHINZ, J. PIRJEVEC, Storia degli
sloveni…, cit. p. 57. E. APIH, Italia. Fascismo e antifascismo…, cit. p. 222.

101
III - La persecuzione antislava

IL PROBLEMA DEL CLERO SLAVO

La presenza del clero slavo fu sempre una spina nel fianco della poli-
tica di snazionalizzazione del regime. I sacerdoti avevano avuto un ruolo
importante nella formazione della coscienza nazionale degli sloveni e dei
croati ed a loro restò affidata la conservazione delle tradizioni e delle lingue
dei propri fedeli per tutto il periodo della dittatura. Ricoprendo un ruolo di
“intellettuale organico”, di capo religioso e civile, culturale e politico, rap-
presentavano un grosso ostacolo al pieno dispiegarsi delle misure snazio-
nalizzatici, difendendo tenacemente la cultura e la mentalità delle comunità
allogene.303 Questa funzione si andò accentuando col progredire del regime,
quando la distruzione di tutte le articolazioni culturali e dell’intellighen-
zia della minoranza, in gran parte allontanata dal luogo d’origine, lasciò il
clero praticamente solo a fronteggiare il regime reazionario di massa. Le
direttrici lungo le quali si sviluppò l’offensiva in questo campo furono so-
stanzialmente due: da una parte ci si adoperava per far scomparire le lingue
slave dalle funzioni religiose, dalle prediche, dagli avvisi e comunicazioni
con i fedeli, dall’insegnamento religioso impartito nelle scuole dai sacerdo-
ti, individuando nella Chiesa l’ultimo baluardo della lingua e dell’identità
degli slavi; dall’altra l’obbiettivo era arrivare ad una sostituzione completa
dei preti slavi con altri italiani, meglio se ferventi nazionalisti, tanto nelle
alte cariche vescovili quanto nei conventi e nel basso clero con cura d’ani-
me. Era un altro aspetto della politica di bonifica etnica. Bisognava però
procedere con cautela e gradualità, innanzitutto perché le nomine del clero
spettavano alla curia e quelle dei vescovi alla Santa Sede ed il potere statale,
almeno fino al ’29, non vi aveva modo di interferire. Inoltre negli anni ’20
le trattative per la conciliazione rendevano tutta la faccenda particolarmente
delicata. Il fascismo trovò spesso comunque nel clero italiano di queste terre
un valido alleato.
L’amministrazione militare aveva esercitato nei confronti del clero al-
logeno un attenta politica di contenimento, sorveglianza e repressione.304
C’erano già stati tentativi di allontanamento attraverso vari espedienti, come

303
F. BELCI, Chiesa e fascismo a Trieste: storia di un vescovo solo, in «Qualestoria», XIII, 3, di-
cembre 1985, p. 43 e p. 53. T. MATTA, Come si sostituisce un vescovo. Aspetti dell’italianizzazione
nella Archidiocesi di Gorizia /1929-1934), in «Qualestoria», XI, 3, novembre 1985, p. 47. M. KACIN
WOHINZ, Il clero sloveno della Venezia Giulia (1927-1936), in «Storia contemporanea in Friuli»,
XXI, 22, 1991, p. 10 e p. 54. E. APIH, Italia. Fascismo e antifascismo…, cit. p. 285.
304
F. BELCI, Chiesa e fascismo a Trieste…, cit. p. 43.

102
Il problema del clero slavo

il ritardare il più possibile il rientro dei sacerdoti internati durante la guerra


e l’espulsione di quelli nati al di là della linea d’armistizio. A ciò si aggiun-
se anche l’uso fatto a danno del clero di un decreto del 29 novembre 1918
emanato dal governatore militare generale Petitti di Roreto che prevedeva
l’arresto e la deportazione di persone ritenute pericolose, secondo una prassi
che se sarà portata a regola durante il regime, con l’istituto del confino, non
era tuttavia sconosciuta nell’Italia liberale. Pare che furono trentatré i sacer-
doti a cui toccò questo destino, deportati in gran parte in Sardegna.305 So-
prattutto non si tollerava più la presenza di vescovi non italiani a capo delle
diocesi. Il Vescovo di Veglia Anton Mahnic fu letteralmente rapito nel ’19,
portato in Italia e qui trattenuto per quasi una anno in luoghi diversi.306 A
Trieste si scatenò una violenta campagna contro il vescovo Karlin condotta
dai nazionalisti e dai militari. Un gruppo di arditi fece addirittura irruzione
nel suo palazzo devastandolo e costringendolo a firmare una dichiarazione
di dimissioni. Nel ’19 Karlin riparò nel regno S.H.S.307 Le squadre fasciste
bastonavano i preti, devastavano le chiese e le case dei sacerdoti, brucia-
vano quadri e arredi sacri,308 in particolare le raffigurazioni dei santi slavi,
irrompevano nelle chiese durante le celebrazioni religiose in lingua slava,
angariavano i fedeli. Per tutti gli anni ’20 e ’30 il clero sloveno e croato fu
bersaglio delle loro azioni. Afferma Apih che «anche quando sono anticle-
ricali – e tali inizialmente i fascisti si proclamano, secondo la tradizione
risorgimentale - lo sono per lo più se si tratta di aggredire il clero slavo».309
Nel 1921 le violenze erano giunte a un punto tale che il Vescovo di Trieste
Bartolomasi, succeduto a Karlin, inviò una lettera al Presidente del Consi-
glio Giolitti ed a Papa Benedetto XV, denunciando il terrore fascista anche

305
A. M. VINCI, Il fascismo al confine orientale, cit. p. 393. L. ČERMELJ, Sloveni e Croati…, cit. p.
179. Quest’ultimo riporta una statistica secondo la quale vennero deportati o espulsi in questo perio-
do 72 sacerdoti dalla diocesi di Trieste e Capodistria, 26 da Gorizia, 8 da Parenzo–Pola, 25 da Veglia
e 15 dai territori di quella di Lubiana occupati dall’esercito italiano. A questi andrebbero aggiunti
molti monaci e 77 sacerdoti regolari.
306
R. WÖRSDÖRFER, Cattolicesimo «slavo» e «latino» nel conflitto di nazionalità, in Nazionalismi
di frontiera…, cit. p. 155. E. APIH, Italia. Fascismo e antifascismo…, cit. p. 86. M. PACOR, Confine
orientale…, cit. p. 71. A. M. VINCI, Il fascismo al confine orientale, cit. p. 393. L. ČERMELJ, Sloveni
e Croati…, cit. p. 179. T. MATTA, Come si sostituisce un vescovo…, cit. p. 48.
307
F. BELCI, Chiesa e fascismo a Trieste…, cit. p. 44. T. MATTA, Come si sostituisce un vescovo…,
cit. p. 48. M. KACIN WOHINZ, J. PIRJEVEC, Storia degli sloveni…, cit. p. 33. A. M. VINCI, Il fascismo
al confine orientale, cit. p. 393. L. ČERMELJ, Sloveni e Croati…, cit. p. 180. R. WÖRSDÖRFER, Catto-
licesimo…, cit. p. 155.
308
F. BELCI, Chiesa e fascismo a Trieste…, cit. p. 45. R. WÖRSDÖRFER, Cattolicesimo…, cit. p. 157. L.
ČERMELJ, Sloveni e Croati…, cit. pp. 183-184.
309
E. APIH, Italia. Fascismo e antifascismo…, cit. p. 131.

103
III - La persecuzione antislava

con una pastorale pubblica. Benedetto XV rispose alla lettera condannando


duramente la politica snazionalizzatrice, pur senza mai nominare i fascisti,
ma le violenze continuarono come se nulla fosse. Anzi, i fascisti irruppero
nella Chiesa di S. Giacomo interrompendo la predica dal pulpito ed in quella
di S. Antonio sparando dei colpi di pistola allo stesso scopo.310 Il giornale
cattolico Vita nuova, commentando quest’ultimo fatto, condannò i metodi
lasciando però intendere che sui contenuti si poteva anche essere d’accor-
do, a ulteriore conferma del sostegno di cui l’antislavismo godeva anche in
certi ambienti cattolici italiani, abituati a vedere negli slavi degli avversari,
nonché spia della spaccatura che attraversava il “mondo cattolico” secondo
una linea che seguiva, seppur non in modo nettissimo, l’appartenenza na-
zionale.311
Si è già visto che i fascisti consideravo i preti slavi responsabili di un’at-
tività antinazionale e colpevoli di aver favorito l’invasione barbarica. Con-
siderati dei pericolosi agitatori, in quanto tenacemente arroccati a difesa
dell’identità nazionale dei propri fedeli, ostacolavo in ogni modo l’assimi-
lazione. Contro di loro fu sempre viva una violenta campagna stampa, che
affiancava e rinfocolava quella squadrista. Nel 1925 uno dei leader del fasci-
smo friulano, Piero Pisenti, pubblicò tre articoli sul Giornale del Friuli, poi
raccolti nell’opuscolo Problemi di confine. Il clero slavo. Lo spunto è dato
dalla polemica contro l’Arcivescovo di Gorizia Mons. Borgia Sedej, di cui
si reclamava con forza l’allontanamento, ma già dal titolo si comprende che
vi si ritrovano tutti i punti del programma fascista: «Affermiamo che “esi-
ste” un problema del clero di confine e che se esso non sarà risolto secondo
un criterio direttivo unitario tutta l’azione nazionale e statale ne sarà para-
lizzata. E’ infatti evidente che i benefici di una riforma scolastica tendente a
far sorgere nuove generazioni orientate fedelmente e coscientemente verso
la patria italiana saranno in gran parte annullati dall’opera di un clero che
fa assurgere a suo dovere “nazionale” il preservare l’anima degli allogeni
dall’influsso del pensiero italiano e che ritiene indissolubile l’esercizio del
sacerdozio dall’esercizio quotidiano di una missione nazionalista che non
di rado assume tutti i caratteri del fanatismo».312

310
R. WÖRSDÖRFER, Cattolicesimo…, cit. p. 157. L. ČERMELJ, Sloveni e Croati…, cit. pp. 184-187.
311
L. FERRARI, Il giornale cattolico triestino «Vita nuova» (1920-1943), in «Storia e problemi con-
temporanei», 33, maggio 2003, pp. 23-24.
312
P. PISENTI, Problemi di confine. Il clero slavo, Udine, Stabilimento Tipografico Friulano, 1925,
pp. 5-6.

104
Il problema del clero slavo

A suo avviso dopo la marcia su Roma si era fatto poco, per di più per
motivi contingenti e non secondo un programma generale. Non si era com-
presa l’importanza del problema,313 mettendo così a repentaglio anche gli
effetti della riforma Gentile. Il fatto era che sia nell’istruzione religiosa nel-
le scuole sia in quella catechistica nelle chiese i sacerdoti usavano la lingua
madre degli alunni, il che era intollerabile per i fascisti. Riferendosi alla
curia Goriziana afferma che in essa «l’elemento slavo ha dominio pieno e
incontrastato […] tutto è animato, ordinato e disposto con spirito slavo e
con sacerdoti che osservano con eguale devozione la fede religiosa e quella
nazionalista anti-italiana»314 allo scopo di «cingere gli sloveni di una mura-
glia impenetrabile ai contatti italiani»,315 il che era un evidente pericolo dato
che, secondo il Pisenti, «il clero tentò, dapprima, contro l’Italia l’offensi-
va aperta che fortunatamente incontrò, dopo l’avvento fascista, energia di
provvedimenti repressivi; poi, in una seconda fase, da poco iniziata, adottò
il sistema della ostilità coperta e tenace».316 Prova ne era: «la coincidenza
tra stampa irredentistica e stampa appoggiata e divulgata dal clero. Il cle-
ro slavo non ha un suo giornale cattolico: esso ha preferito appoggiare e
diffondere il giornale “Goriska Straza” voce del più acceso irredentismo
del partito popolare sloveno in cui milita, in massa, tutto il clero. (Stato di
servizio del giornale: due condanne a tre e a cinque mesi per eccitamento
all’odio, non di classe, ma nazionale)».317
Si è già visto nel paragrafo precedente quali erano i motivi delle con-
danne a cui era soggetta la stampa. Quello che qui è interessante notare è
che ritorna ancora una volta l’argomento della congiura contro l’Italia, che
dimostra come fossero sempre gli stessi i temi usati dai fascisti, semplici e
abbastanza generici, in sostanza buoni per ogni occasione, adatti ad essere
recepiti dalle popolazioni del confine orientale ma anche dal paese nel suo
complesso, come vuole la regola di ogni argomentazione razzistica effica-
ce.
Pisenti richiama l’attenzione anche al di là delle città e delle alte gerar-
chie. Visto che a Gorizia i sacerdoti altro non sono che il quartier generale
del nazionalismo slavo318 «è facile immaginare quale enorme potere spiri-

313
Ivi p. 6.
314
Ivi pp.7-8.
315
Ivi p. 9.
316
Ibidem.
317
Ivi pp. 10-11.
318
Ivi p. 11.

105
III - La persecuzione antislava

tuale e politico anti-italiano sia esercitato da tutti i preti slavi nei remoti
paesi delle vallate e delle nostre montagne di confine. Problema di alta po-
litica, che va affrontato e avviato a soluzione, […] secondo il principio uni-
tario che regge tutta la nostra vita nazionale».319 Il principio era ovviamente
quello della coincidenza stato-nazione-fascismo. In merito alla soluzione il
Pisenti fa già trasparire che un aiuto ci si aspetta direttamente dal Vaticano,
con cui il regime sta intessendo rapporti sempre più stretti. Se da una parte
nota la contraddittorietà dell’atteggiamento della Santa Sede, invitando co-
munque alla cautela nel dare giudizi, recependo le difficoltà che il Vaticano
incontra in merito, afferma anche che in certe occasioni: «i provvedimenti
della Santa Sede hanno dimostrato una sua esatta e lungimirante visione
delle supreme necessità nazionali alle quali il clero di confine deve ormai
rendere omaggio non più di riti esteriori, ma di operante coscienza e di
opere quotidiane.
A questi sensi fu ispirata tutta la riforma rapidamente operata nei con-
venti del Goriziano nei quali si provvide a sostituire con frati italiani il pre-
cedente personale prettamente slavo.[…] A Monte Santo, a Castagnevizza e
a Santa Croce di Vipacco, nomi sacri alla grande storia della nuova Italia,
francescani e cappuccini italiani, dimostrano ogni giorno l’indissolubile
vincolo spirituale che unisce i simboli cristiani con le insegne della Patria e
la duplice missione viene con magnifico e tenace ardore compiuta».320
Già si accenna ad una convergenza di interessi fra Chiesa e regime, rias-
sunta nella formula della duplice missione. Questi provvedimenti per Pisen-
ti dimostrano l’opinione che se le azioni del clero slavo e delle sue gerar-
chie «fossero contro-battute dalle nostre autorità e dal clero italiano con
una esposizione realistica dei danni che l’attuale situazione reca non solo
ai nostri interessi nazionali, ma anche a quelli religiosi, il rimedio ai mali
d’oggi sia più che possibile».321 Bolla come anacronistico il permanere al
confine di una situazione che non rispecchia la realtà delle relazioni fra Stato
e Chiesa nelle altre province, divenute molto più cordiali dopo l’avvento del
fascismo, «espressione di una nuova coscienza etica e nazionale».322 Alla
fine non lascia dubbi. «A questa soluzione del problema che deve consistere
nella sostituzione degli attuali elementi dirigenti slavi con sacerdoti italiani

319
Ibidem.
320
Ivi p. 13.
321
Ivi p. 14.
322
Ibidem.

106
Il problema del clero slavo

in tutti i posti di maggiore responsabilità, devono tendere ormai incessante-


mente i voti e gli sforzi dell’opinione pubblica, della stampa, degli ambienti
ecclesiastici e delle autorità politiche».323
Pisenti, anche in qualità di prefetto del Friuli ebbe modo di occuparsi dei
problemi relativi al clero ed in quella sede espresse le medesime opinioni
«di fronte al grande problema costituito […] dalla presenza del clero slavo
(elemento propulsore di irredentismo) sarebbe necessario che nel vecchio
Friuli il clero eccellesse per sentimento nazionale in modo da esercitare un
benefico influsso tra le nuove popolazioni».324
Il problema dell’istruzione religiosa nelle scuole venne risolto già negli
anni ’20. I fascisti non potevano sopportare che nel “Regolamento sull’inse-
gnamento religioso” del 10 gennaio 1924 si autorizzasse, solo per le prime
tre classi della scuola elementare, l’uso della lingua madre. Istruzione reli-
giosa e attività antitaliana del clero costituivano un solo nodo. Reina in un
nota “riservata-personale” inviata ai prefetti della regione il 29 maggio del
’26 affermava: «in varie località della Regione i sacerdoti traendo profitto
dalla circostanza che hanno l’incarico di impartire l’insegnamento della
religione nelle classi elementari del luogo, aprono scuole clandestine per
l’insegnamento della lingua slovena, con l’evidente proposito di eludere le
disposizioni del governo nazionale sulla riforma linguistica».325 Nell’anno
scolastico ‘27-’28 le lingue slave sarebbero scomparse del tutto dalle scuole
per effetto della riforma, era opportuno che tali lingue non sopravvivessero
ulteriormente nelle scuole per mezzo dell’insegnamento religioso. Da una
relazione del prefetto del Friuli del novembre 1926 si ricava che nell’am-
biente locale si era già tentato di risolvere la faccenda. «Il clero sloveno
della Valle di Vipacco, quasi compatto, non ha aderito alla richiesta delle
Direzioni didattiche di Aidussina e Vipacco di impartire nelle scuole ele-
mentari, per la quarta classe, l’insegnamento religioso in lingua italiana».
Il prefetto declinava la risposta del clero come una «forma di ostilità».326
Fedele, Ministro della pubblica istruzione, comunicava nel maggio ’27 al
sottosegretario alla Presidenza del Consiglio la sua intenzione di sostituire
gradatamente ma rapidamente l’italiano alle lingue straniere nell’istruzione
religiosa, avvertendo che la misura era stata concordata anche con il Duce.

323
Ibidem.
324
Cit. in M. FABBRO, Fascismo e lotta politica in Friuli (1920-’26), Padova, Marsilio Editori, 1974,
p. 106.
325
Cit. in P. STRANJ, La questione scolastica…, cit. p. 126.
326
Cit. in M. FABBRO, Fascismo e lotta politica…, cit. p. 216.

107
III - La persecuzione antislava

All’inizio dell’anno scolastico l’ispettore scolastico emanò una circolare che


disponeva anche in questo settore l’uso esclusivo dell’italiano. I preti slavi
però si rifiutarono e trasferirono l’insegnamento nelle chiese. L’anno dopo
nelle trattative per il concordato Pio XI chiese che fosse ripristinato questo
diritto, Mussolini rifiutò e la cosa cadde nel nulla. Poco prima che l’accordo
venisse siglato comunque l’arcivescovo Sedej scrisse una lettera pastorale,
il 18 gennaio del ’29, in cui affermava che le autorità non avevano nessun
diritto per degradare l’istruzione religiosa a strumento di snazionalizzazione
e di italianizzazione ed i sacerdoti slavi dettero vita alle cosiddette scuole
“farne” o “župnijske” (parrocchiali) dette anche scuole di Sedej.327
Il 1927 fu anche per i preti un anno di accentuazione della repressione.
Nel memoriale che i federali giuliani del P.N.F. inviarono a Mussolini nel
giugno si chiedeva la sostituzione dei preti allogeni.328 Poco dopo, 20 giu-
gno, il Ministro Rocco inviò ai prefetti una circolare.
«Come è noto alla S.V.Ill.ma, una parte del clero secolare e regolare di
codesta provincia esplica […] un’azione contraria agli interessi naziona-
li ed alcuni fanno anche propaganda antitaliana […] E’ noto altresì che i
mezzi persuasivi, finora adoperati dalle Autorità politiche per arrestare i
malefici affetti dell’atteggiamento di detto clero, sono riusciti in gran parte
infruttuosi. Ora è intenzione del governo impedire, con le misure a sua di-
sposizione, che l’opera nefasta possa proseguire indisturbata».329
Le misure erano l’espulsione dei sacerdoti privi della nazionalità italiana
e di quelli che, pur essendo italiani, tenevano «cattiva condotta politica»,
il che equivaleva a dire, nello schema fascista, che non si segnalavano nel-
l’opera di italianizzazione. «Nei casi infine di sacerdoti […] i quali sono in-
degni di qualsiasi riguardo a causa del loro atteggiamento politico, la S.V.I.
provvederà ai termini della vigente legge di Pubblica Sicurezza».330
A settembre nel numero di Gerarchia dedicato alla Venezia Giulia si
esprimevano i soliti concetti, che assumevano ancor maggior rilevanza in
quanto ospitati da una rivista diretta da Mussolini stesso ed a diffusione na-
zionale ed internazionale.

327
G. SALVEMINI, Pio XI e gli allogeni, cit. pp. 490-492. R. WÖRSDÖRFER, Cattolicesimo…, cit. p. 158.
M. KACIN WOHINZ, Il clero sloveno…, cit. pp. 13-15. F. BELCI, Chiesa e fascismo a Trieste…, cit.
p. 54 e p. 61. E. APIH, Italia. Fascismo e antifascismo…, cit. p. 195. M. KACIN WOHINZ, J. PIRJEVEC,
Storia degli sloveni…, cit. pp. 49-50.
328
M. KACIN WOHINZ, La minoranza sloveno-croata…, cit. p. 136.
329
Cit. in F. BELCI, Chiesa e fascismo a Trieste…, cit. p. 56.
330
Cit in M. KACIN WOHINZ, Il clero sloveno…, cit. pp. 12-13. F. BELCI, Chiesa e fascismo a Trieste…,
cit. p. 56.

108
Il problema del clero slavo

«Nel campo ecclesiastico si è molto indietro. Bisogna premettere che


il sacerdote può tutto tra gli abitanti delle nuove provincie […] sono nel-
la quasi totalità dei casi, presidenti e direttori delle innumerevoli Banche
rurali e consorzi di produzione sparsi nei villaggi della zona. Ora sta di
fatto che tutti indistintamente i sacerdoti sono alloglotti, e che non si pensa
a creare un vivaio di giovani ministri del culto, che sappiano e vogliano
istillare nell’anima delle popolazioni l’amore non solo verso Dio ma anche
verso la patria italiana».331
E Cobol ribadiva per l’ennesima volta la soluzione fascista: «bisogna
togliere i maestri slavi dalle scuole, i preti slavi dalle parrocchie. Così
facendo il fascismo risolve in pieno la questione degli alloglotti in Ita-
lia, negli interessi dello stato ed anche in quelli della popolazione slava
stessa; perché agli slavi non giova essere guidati da questi agitatori di
mestiere».332
Ma la vera stretta si ebbe nel ’29 con la conciliazione. L’Art.22 del Con-
cordato colpiva direttamente il clero allogeno. «Non possono essere investiti
di benefici esistenti in Italia ecclesiastici che non siano cittadini italiani.
I titolari delle diocesi e delle parrocchie devono inoltre parlare la lingua
italiana».333
L’articolo prevedeva anche l’assegnazione di coadiutori che intendes-
sero e parlassero la lingua localmente in uso, allo scopo di prestare l’as-
sistenza religiosa nella madrelingua come riconosciuto anche dal diritto
canonico. Per il regime però la minoranza ufficialmente non esisteva, era
un problema che non c’era e di cui non si doveva parlare. In Italia esisteva
un’unica lingua, l’italiano. Nello schema fascista poi il prestare l’assisten-
za religiosa in slavo era antinazionale, segnale esplicito di un’attività tesa a
danneggiare il paese. Il Concordato è stato interpretato come un cedimento
della Chiesa di fronte alla politica del regime nei confronti delle minoranze
nazionali, per alcuni si trattò di una vera e propria capitolazione.334 Come
abbiamo visto già durante la fase delle trattative il tentativo di inserire mi-
sure a salvaguardia dei diritti degli sloveni e dei croati incontrò un netto
rifiuto. Adesso il fascismo acquistava una sorta di titolo legale per interfe-

331
OSSERVATORE, Gorizia, cit. p. 822.
332
G. COBOL, Il fascismo e gli allogeni, cit. p. 805.
333
Cfr: P. SCOPPOLA, La chiesa e il fascismo.Documenti e interpretazioni, Roma-Bari, Laterza, 19763,
p. 181. Scoppola riporta il testo integrale del Concordato tra l’Italia e la Santa Sede.
334
F. BELCI, Chiesa e fascismo a Trieste…, cit. p. 71. A. BUVOLI, Il fascismo nella Venezia Giulia…,
cit. p. 75. R. WÖRSDÖRFER, Cattolicesimo…, cit. p. 159.

109
III - La persecuzione antislava

rire nella vita dei cattolici slavi,335 titolo che si estendeva anche a problemi
considerati di capitale importanza come la questione delle nomine, come di-
mostra una lettera di Rocco a Mussolini del 28 aprile 1929, relativa alle trat-
tative per l’esecuzione del Concordato fra le delegazioni del vaticano e dello
Stato italiano, in cui si afferma che la controparte «comunicò che la Santa
Sede aderiva a risolvere in via diplomatica, per mezzo di nota segreta ag-
giunta al Concordato, la questione circa la nomina degli Ordinari Diocesani;
quando contro la persona siano sollevate e mantenute obbiezioni di carattere
politico da parte del Governo Italiano».336 Ambasciatore presso il Vaticano
fu nominato Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, incaricato quindi di
gestire questo canale diplomatico. Nel 1930 affermava che «le questioni re-
lative al clero alloglotto sono da conglobarsi in quella capitale per il regime
di creare un clero nazionale che finora malauguratamente non c’è».337 Per
i fascisti, la conciliazione poneva la Chiesa in una posizione di subordina-
zione davanti agli interessi nazionali, l’italianizzazione era indubbiamente
uno di questi. Le autorità locali continuarono come prima e più di prima ad
intervenire con provvedimenti civili e penali.338 La via entro cui ci si muove
è pur sempre quella già tracciata da Pisenti, l’unica differenza è che ades-
so non ci si aspetta più semplicemente un aiuto, la Chiesa viene chiamata
a fare la sua parte. Da quest’atteggiamento mentale i fascisti derivavano
interpretazioni estensive del Concordato e del suo significato. Il procura-
tore generale di Trieste Mandruzzato nel 1930 affermava prontamente, «la
conciliazione ha riverberato la sua fulgida luce, divenendo potente fattore
di fedeltà alla Nazione, poiché ha offerto il mezzo decisivo di conquista-
re il clero all’amore intenso dell’Italia»,339 e l’anno dopo, nel discorso per
l’inaugurazione dell’anno giudiziario auspicava che: «venga gradatamente
a cessare la tolleranza di certi sistemi, specialmente sull’uso di una lingua
non nostra, dal momento che, anche fra gli alloglotti […] va diffondendosi
sempre più la conoscenza della lingua italiana, siccome lingua naturale di
queste terre; tanto che il mantenere ancora la lingua slava in certi proclami
pubblici, insegne o emblemi, ovvero in luoghi di pubblico convegno, potreb-
be far intravedere non altro che il riprovevole intento di ingraziarsi i pochi
antitaliani frammischiati tra la popolazione indigena. Anche i ministri del

335
E. APIH, Italia. Fascismo e antifascismo…, cit. p. 288.
336
P. SCOPPOLA, La chiesa e il fascismo…, cit. p. 192.
337
Cit in M. KACIN WOHINZ, Il clero sloveno…, cit. p. 18.
338
Ivi pp. 18-19.
339
Cit. in A. M. VINCI, Il fascismo al confine orientale, cit. p. 474.

110
Il problema del clero slavo

culto dovrebbero prestarsi a questo scopo; e invero si segnalano nobilis-


simi esempi, però nelle zone di confine essi stessi d’ordinario usano quel
linguaggio che nessuno in terra italiana e tenuto a conoscere […] Ogni sa-
cerdote, da qualunque parte esso venga, oltre che a prestarsi a sopire, non a
fomentare gli odi, dovrebbe anche tenere presente le norme del Concordato
lateranense, le quali attribuiscono pure in ciò che concerne il governo spi-
rituale, una posizione preminente alla lingua italiana».340
Stesso discorso veniva fatto anche per quel che riguardava l’Art.2 che
disponeva a proposito delle comunicazioni dei vescovi con il clero e con i
fedeli l’uso della lingua italiana o latina, ma anche la possibilità di affian-
carvi traduzioni in altre lingue. Il Piccolo del 28 agosto 1929 a proposito
sosteneva: «Il Concordato esige che tutti i parroci non soltanto conoscano,
ma parlino la lingua italiana […] mentre in molte chiese i sacerdoti conti-
nuano a predicare soltanto in un idioma esotico […] se il Concordato pre-
scrive ai vescovi di usare nei loro atti per il pubblico la lingua italiana, e
soltanto subordinatamente è ammessa la facoltà di aggiungere, accanto al
testo italiano, la traduzione […] le cerimonie e gli atti in lingue straniere
devono essere preceduti sempre da cerimonie e atti in lingua italiana […]
la traduzione delle prediche […] può essere tollerata provvisoriamente».341
I vescovi filofascisti comunque non si interessarono di queste estensioni
interpretative e misero subito mano a ulteriori sostituzioni, come a Zara.342
Contemporaneamente, con i risultati ottenuti con l’accordo del Laterano
prendeva il via una campagna più decisa e nel corso degli anni ’30 trovarono
una soluzione alcune spinose questioni a cui da tempo i fascisti cercavano
di porre rimedio. La prima fu quella dell’arcivescovo Sedej, unico vescovo
slavo ancora in carica in Italia, strenuo difensore dei diritti degli sloveni, da
anni se ne chiedeva ferocemente l’allontanamento. Nel 1931 il Vaticano lo
costrinse a dimettersi, mettendo al suo posto, con grande soddisfazione dei
gerarchi locali, Mons. Sirotti come amministratore apostolico, cha a causa
della sua instancabile attività antislava fu definito da Salvemini «un agente
del governo fascista».343 Le dimissioni giunsero all’indomani della conclu-

340
Cit. in F. BELCI, Chiesa e fascismo a Trieste…, cit. p. 73 che lo riprende da Il Piccolo del 20 gen-
naio 1931. Cfr: L. ČERMELJ, Sloveni e Croati…, cit. p. 197. G. SALVEMINI, Mussolini diplomatico, cit.
p. 476. Riportano versioni leggermente diverse dello stesso discorso, che non differiscono comun-
que per i contenuti e nei passaggi fondamentali.
341
Cit. in E. APIH, Italia. Fascismo e antifascismo…, cit. p. 289.
342
G. SALVEMINI, Mussolini diplomatico, cit pp. 474-475.
343
G. SALVEMINI, Pio XI e gli allogeni, cit p. 496. Una precisa analisi delle vicenda e della chiesa nel
Goriziano si trova in T. MATTA, Come si sostituisce un vescovo…, cit.

111
III - La persecuzione antislava

sione della crisi del 1931 fra la Santa Sede e il regime a proposito dell’Azio-
ne Cattolica, e ciò autorizza a pensare, e molti lo hanno fatto, che l’affare
Sedej sia entrato a far parte delle trattative, insieme agli altri problemi, come
moneta di scambio, una sorta di baratto con il quale Pio XI avrebbe «vendu-
to la minoranza slava al fascismo».344 Sicuramente ogni nomina di vescovi
nella regione dopo il ’29 incontrò i favori del regime e fu un colpo contro gli
allogeni.345 Il Vaticano assecondò il regime, considerando l’italianizzazione
un diritto/dovere dello Stato italiano. Nel ’34, sempre a Gorizia, vennero
alla luce le lacerazioni del corpo ecclesiastico nella vicenda che coinvolse
il Seminario teologico, dove la maggioranza degli insegnanti era allogena,
considerato da anni una fucina del più acceso slavismo irredentista, che for-
mando i giovani sacerdoti proiettava i suoi guasti anche nel futuro. Sirotti
era già stato direttore del Seminario minore di Capodistria, dove aveva por-
tato avanti l’italianizzazione entrando in contrasto con il vescovo di Trieste
e Capodistria Fogar. Giunto a Gorizia continuò l’opera nel Seminario mag-
giore, immettendovi alcuni suoi vecchi allievi fedeli alla sua linea. La situa-
zione si fece tesa fra i due gruppi nazionali e sfociò in un acuto contrasto,
anche pubblico. Fogar intervenne convocando una riunione coi seminaristi
della sua diocesi, dove affermò essere un diritto l’uso della propria lingua,
ma che esso veniva negato agli slavi, che non c’era nessun merito particola-
re nel nascere italiani e invitando alla tolleranza ed alla riservatezza. Il suo
discorso fu interamente pubblicato sulla stampa grazie ad una delazione.
Sul fatto fu aperta un inchiesta che portò all’espulsione del delatore. Le au-
torità reagirono facendo un’irruzione nel seminario e condannando a 5 anni
di confino un professore e il vicedirettore e ammonendo il rettore e altri tre
professori.346 Questi fatti si inserivano anche nella campagna per l’allonta-
namento di Fogar.347 La sua colpa era non aver patrocinato la linea fascista
favorendo invece una visione che, pur considerando l’assimilazione come
inevitabile e quindi prevedendola in fin dei conti, la diluiva nel tempo se-
condo un approccio di tipo gradualista. Per i fascisti era una doppiezza che
nascondeva una chiara slavofilia. Tutti i tentativi del vescovo per mitigare
l’azione snazionalizzatrice si erano scontrati con una visione che prevedeva

344
G. SALVEMINI, Mussolini diplomatico, cit p. 482.
345
G. SALVEMINI, Mussolini diplomatico, cit p. 489.
346
Cit in M. KACIN WOHINZ, Il clero sloveno…, cit. pp. 48-49. F. BELCI, Chiesa e fascismo a Trieste…,
cit. pp. 84-85. T. MATTA, Come si sostituisce un vescovo…, cit. pp. 61-64.
347
T. MATTA, Come si sostituisce un vescovo…, cit. pp. 61-62. Un esposizione sulla chiesa triestina
e su Fogar si trova in F. BELCI, Chiesa e fascismo a Trieste…, cit.

112
Il problema del clero slavo

una italianizzazione violenta, estrema, rapida. Perfino un accordo siglato nel


1927 fra il vescovo e le autorità era caduto nel vuoto a causa dell’interpreta-
zione fascista, che seguendo lo stesso schema di quella che fu due anni dopo
l’interpretazione del Concordato lo aveva inteso come un via libera. Fogar
si scontrò duramente anche col prefetto Tiengo, precedentemente in carica
a Gorizia dove aveva già duramente attaccato il clero allogeno. Tiengo fece
controllare e pedinare continuamente il vescovo e giunse a proibire l’uso
dello sloveno nel quartiere di S. Giacomo e nella periferia slovena.348 Nel
’36 anche Fogar fu allontanato, sostituito dapprima da Carlo Margotti, dal
’34 arcivescovo di Gorizia, che assunse le funzioni di amministratore apo-
stolico, e nel ’38 venne nominato vescovo Antonio Santin, che fino ad allora
si era distinto di fronte alle autorità fasciste per la politica antislava condot-
ta come vescovo di Fiume. Con la sua sostituzione si era definitivamente
sgombrato il campo, almeno nelle alte gerarchie, non solo dalla presenza di
sloveni o croati ma anche da quella di prelati comunque attenti ai diritti ed
alle esigenze degli allogeni. Al loro posto subentravano esponenti di quello
che veniva definito un “clero nazionale”. Alcuni preti continuavano a resi-
stere, come testimoniano nel 1936 i rifiuti di benedire le fedi di ferro date in
sostituzione di quelle d’oro e di celebrare messe per la proclamazione del-
l’impero,349 segno evidente che fra il clero allogeno si andava diffondendo
sempre più un atteggiamento ostile che in certi casi dall’opposizione alla
snazionalizzazione approdava all’antifascismo. Ma il regime poteva ormai
contare saldamente sulla presenza e sull’appoggio di un clero con il quale si
realizzava una convergenza di idee e obbiettivi. Fra le finalità del fascismo
ci fu sempre, infatti, quella di avere sul confine orientale, ma il discorso si
inserisce in una politica più ampia che vale per tutto il paese, un clero fer-
ventemente nazionalista, fascista, che potesse essere un valido strumento
da usare per la costruzione del consenso e negli indirizzi politici, in questo
contesto corrispondenti principalmente all’opera di snazionalizzazione. Il
terreno per la realizzazione di questa convergenza con larghi gruppi eccle-
siastici, che comunque non furono mai la totalità del corpo del clero, era
costituito da un retaggio culturale, dalla mentalità e dalla visione della reli-
gione di quei gruppi in cui la cultura intransigente aveva accentuato alcuni

348
L. ČERMELJ, Sloveni e Croati…, cit. pp. 219-220. Su Tiengo vedi T. MATTA, La Chiesa cattolica
e la politica di snazionalizzazione degli sloveni e dei croati durante il fascismo, in L’imperialismo
italiano e la Jugoslavia…, cit. pp. 373-402.
349
M. KACIN WOHINZ, J. PIRJEVEC, Storia degli sloveni…, cit. p. 67. M. KACIN WOHINZ, Gli sloveni
della Venezia Giulia alla fine degli anni Trenta, in «Qualestoria», XX, 2, Agosto 1992, p. 53.

113
III - La persecuzione antislava

elementi che favorirono l’incontro su principi e aspetti che appartenevano


ad un unico bagaglio culturale.350 Come ha ben esposto Menozzi essi era-
no: «la negazione di qualsiasi valore, anche semplicemente umano, ad ogni
forma di diversità rispetto a quell’unità politico-religiosa che si realizzava
in una società ideologicamente compatta; il richiamo ad un ordinamento
pubblico di tipo gerarchico che cancellava i diritti politici e civili […] ba-
sandosi sulla distinzione tra un nazionalismo “sano” o “giusto”, perché
conforme ai principi cattolici ed uno “immoderato” che da essi si discosta-
va […] queste prese di posizione implicavano comunque la legittimazione
di quella sacralizzazione del vincolo patrio cui si richiamavano le ideologie
nazionalistiche, anche se poi la chiesa chiedeva di interpretarla in termini
cristiani».351
Nel contesto della Venezia Giulia questo “clero del Duce”, l’espressione
è di Franzinelli, connotato da una duplice fedeltà al fascismo ed alla Chiesa,
doveva adoperarsi per far trionfare i caratteri della superiore civiltà italiana,
romana e quindi cattolica. Nei suoi confronti il regime distribuì con una cer-
ta larghezza sussidi, premi, favori, analogamente a quanto faceva con i mae-
stri impegnati sullo stesso fronte. Per Miccoli «repressione e adescamento
sono insomma due facce di un’unica politica».352 L’attività degli esponenti
filofascisti della gerarchia della regione ne è testimonianza. A Udine il ve-
scovo Nogara, insieme col prefetto, nel ‘33 proibì l’uso della lingua slove-
na.353 Nella diocesi di Fiume, costituita nel ’24, Sain provvide a italianizzare
la Chiesa almeno nella città. La sua opera fu continuata dall’amministratore
apostolico Mecchia, la cui nomina fu considerata uno schiaffo nei confronti
di Fogar. Nel ’33 la diocesi passò a Santin, che come abbiamo visto nel ’38
assumerà la guida di quella di Trieste. A Fiume intrigò contro i preti slavi
presso la Santa Sede ottenendo una condanna del Papa contro di loro e con
un decreto del 1 giugno ’34 proibì l’uso delle lingue slave e del veterosla-
vo nella liturgia, minacciando della sospensione a divinis i recalcitranti.354
Sirotti, forse il più apertamente fascista, in qualità di amministratore apo-

350
M. FRANZINELLI, Il clero fascista, in Il regime fascista, cit. pp. 182-202. D. MENOZZI, La chiesa
cattolica, in Storia del cristianesimo. L’età contemoporanea, a cura di G. FILORAMO, D. MENOZZI,
Roma-Bari, Laterza, 1997, p. 200. Matta sostiene che la Venezia Giulia, e in particolare la snaziona-
lizzazione, sono uno scorcio interessante del rapporto di alleanza fra la chiesa e il regime. T. MATTA,
La chiesa cattolica e la politica di snazionalizzazione…, cit. p. 376.
351
D. MENOZZI, La chiesa cattolica, ci. pp. 200-201.
352
G. MICCOLI, La chiesa di fronte…, cit. p. 30.
353
M. KACIN WOHINZ, Il clero sloveno…, cit. p. 44. L. ČERMELJ, Sloveni e Croati…, cit. p. 224.
354
M. KACIN WOHINZ, Il clero sloveno…, cit. p. 44-46. L. ČERMELJ, Sloveni e Croati…, cit. pp. 209-217.

114
La bonifica etnica

stolico non poteva modificare le norme emanate da Sedej nel ’31, ma non le
rispettava più e nel ’34 acconsentì che l’autorità proibissero lo sloveno nei
riti fuori dalla Chiesa, nelle processioni e nelle bandiere.355 Margotti conti-
nuò il suo lavoro.356 Pederzolli, vescovo di Parenzo e Pola, non si oppose
alla politica delle sostituzioni e nemmeno alle disposizioni del prefetto che
nel ’35 vietarono le scritte slave sui quadri delle chiese. Nel 1940 restavano
nella diocesi solamente 8 preti croati.357 Le proteste che furono fatte con-
tro le persecuzioni di cui erano oggetto i sacerdoti, non va dimenticato che
continuarono ad essere bersaglio delle violenze poliziesche e squadriste e di
provvedimenti quali l’ammonizione e il confino, erano dettate dall’esigenza
di tutelare l’autorità e l’autonomia della Chiesa da interferenze esterne.358
Il “clero nazionale” si muoveva in conformità a quello che era il quadro di
collaborazione. Scrive Anna Maria Vinci: «l’ipotesi secondo cui l’intesa tra
Chiesa e regime più che occasionale e di comodo era solidamente costrui-
ta sul terreno di principi ideali largamente condivisi, mantiene tutta la sua
incisività: non si spiegherebbe altrimenti la disponibilità dell’episcopato
italiano […] a correre fino in fondo il rischio di rompere la comunità eccle-
siale, secondando ai limiti del possibile i voleri del fascismo. La gerarchia
cattolica, gelosa custode dell’autonomia propria e della proprie sfere di
competenza, gioca in questo caso e su queste terre sul filo del rasoio, appun-
to perché anch’essa condivide se non la forma, certo la sostanza della poli-
tica fascista verso gli sloveni e i croati sentendosi partecipe di una “civiltà
superiore” e di un comune senso di disprezzo nei confronti di un “popolo
senza storia”».359

LA BONIFICA ETNICA

Nel corso degli anni ’30 la snazionalizzazione/italianizzazione andò per-


fezionandosi, avvalendosi sempre più delle organizzazioni di massa del re-
gime come il Dopolavoro, l’organizzazione dei Balilla e le altre strutture

355
M. KACIN WOHINZ, Il clero sloveno…, cit. p. 49. Su Sirotti e Margotti anche T. MATTA, La chiesa
cattolica e la politica di snazionalizzazione…, cit. p. 383 e pp. 393-401.
356
M. KACIN WOHINZ, Il clero sloveno…, cit. p. 51.
357
M. KACIN WOHINZ, Il clero sloveno…, cit. p. 44. L. ČERMELJ, Sloveni e Croati…, cit. p. 223.
358
M. KACIN WOHINZ, Il clero sloveno…, cit. p. 53.
359
A. M. VINCI, Venezia Giulia e fascismo. Alcune ipotesi storiografiche, in «Qualestoria» XVI, 2,
ottobre 1988, pp. 56-57.

115
III - La persecuzione antislava

tipiche dell’organizzazione del consenso, a cui qui era affidato anche il com-
pito di unire all’italianizzazione la fascistizzazione. Abbiamo già parlato di
come il fascismo promuovesse l’epurazione attraverso il licenziamento o il
trasferimento dei maestri e degli impiegati pubblici e la rimozione del clero,
provvedendo quando poteva in modo diretto, nel caso dei parroci anche at-
traverso mediazioni e pressioni nei confronti della Chiesa per ottenere una
sostituzione con elementi italiani, preferibilmente impeccabili da un punto
di vista politico e nazionale, che si risolveva quando possibile nella siste-
mazione di personale di provata fede fascista e sostenitore in prima persona
attraverso la propria azione della “reintegrazione dell’italianità”, animato
in questo dal disprezzo verso la “razzamaglia slava”.360 Quello che ades-
so interessa mettere in evidenza è come quest’azione di “bonifica etnica”,
o nazionale, andasse precisandosi con il nuovo decennio. Si è già visto
anche come, nei ’20, un aspetto importante a questi fini fosse costituito
dalla soppressione di tutte le organizzazioni culturali, delle pubblicazioni e
delle scuole. L’altro aspetto fondamentale per dare l’avvio alla “bonifica”
era il far piazza pulita delle organizzazioni economiche degli sloveni e dei
croati, perseguito tramite la penetrazione del capitale italiano negli istituti
finanziari, nelle banche, e con la chiusura o l’acquisizione delle numerose
cooperative, in gran parte organizzate in due federazioni di Zadružne Zveze
(Unioni cooperative) di Trieste, con 140 cooperative di cui 86 di credito e
45.000 soci, e di Gorizia, comprendente 170 cooperative , 70 di credito, con
47.000 soci. Il prefetto di Pola nel ’27 considerava un «diverso ordinamento
del credito» utilissimo all’assimilazione, e ci informa che un progetto per la
sua italianizzazione era stato approvato dal congresso dei fasci istriani nel
’26 e presentato al Duce.361 Che la distruzione del sistema creditizio slavo
fosse considerata una premessa a programmi più ampi è confermato anche
da un memoriale del 1930 della Cassa Centrale delle casse rurali istriane.
«Bisogna concepire e attuare la bonifica creditizia […] anche per iniziare
quell’esperimento di colonizzazione interna che solo può portare all’assi-
milazione dell’elemento allogeno».362 Passarono così in mano italiana la
Jadranska Banka (Banca adriatica) nel ’24 mentre la Istarska posojilnica
u Pulju (Credito istriano di Pola) nel ’27 veniva messa in liquidazione. Fra
chiusure e acquisizioni entro il ’29 anche le due federazioni erano italianiz-

360
E. APIH, Italia. Fascismo e antifascismo…, cit. p. 131.
361
L. VANELLO, Casse rurali e campagne istriane (1927-1937), in S. BON GHERARDI, L. LUBIANA. A.
MILLO, L. VANELLO, A. M. VINCI, L’Istria fra le due guerre…, cit. pp. 178-179.
362
Ivi p. 194.

116
La bonifica etnica

zate. La minoranza veniva colpita nei suoi capisaldi economici più forti ed
importanti, ma l’organizzazione economica degli allogeni era così estesa
e radicata da non poter essere sradicata in così breve tempo. Pare che nel
’37 ci fossero ancora 55 casse rurali e di risparmio slave ed altre 74 erano
in liquidazione. Altri due forti istituti, la Tržaška posojilnica in Hranilni-
ca (Cassa di credito e risparmio triestina) e la Trgovsko–obrtna zadruga v
Trstu (Cooperativa commerciale ed artigiana di Trieste), pur limitati nella
loro autonomia, sopravvissero fino al 1940 quando vennero fusi d’autorità
con istituti di credito italiani. Entro il ’28 sloveni e croati avevano perso
qualcosa come 300 tra cooperative e istituti finanziari.363 Comunque entro
questa data l’operazione poteva dirsi avviata alla sua conclusione, quello
che ancora restava era considerato come residuale ed era solo questione di
tempo. Su questa strada la borghesia italiana sostituiva gli slavi espanden-
dosi nelle loro posizioni, risolvendo a proprio vantaggio quella rivalità, for-
se la principale, che la opponeva agli allogeni e le incuteva il timore di un
arretramento di fronte al loro dinamismo economico. Il fascismo dal canto
suo oltre a pagare in un certo qual modo i debiti per il sostegno che questi
gruppi italiani li avevano accordato, rafforzava le sue basi di consenso fra i
ceti medi e borghesi e metteva a posto l’ultimo tassello mancante prima di
passare alla colonizzazione. L’offensiva “esteriore” era conclusa, tutti gli
strumenti politici già usati, si passava quindi a mettere in campo quelli di
natura economica e sociale.364 La popolazione allogena, anche se esistevano
nuclei consistenti di operai soprattutto nel litorale da Trieste a Monfalcone
e nell’industria mineraria nelle zone di Arsa ed Albona in Istria, era per il
resto in gran parte costituita da contadini insediati su tutto il Carso, nella
penisola istriana e nel Goriziano, sparsa in piccoli villaggi dove prevaleva
la piccola proprietà. Misure per la limitazione del diritto proprietario erano
già state prese nel ’24 con due decreti giustificati con esigenze militari per
la difesa della frontiera.365 Eliminando la rete di supporto costituita dalle
casse rurali e dalle cooperative si toglieva un mezzo di sostentamento in
una regione dove l’economia era stata duramente colpita dalla guerra e poi
dall’annessione, che aveva portato un diverso e più pesante sistema di tas-

363
L. ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit. pp. 159- 164. A. BUVOLI, Il fascismo nella Venezia Giulia…,
cit. p. 76. E. APIH, Italia. Fascismo e antifascismo…, cit. p. 253. M. KACIN WOHINZ, J. PIRJEVEC,
Storia degli sloveni…, cit. pp. 40 e 55. M. KACIN WOHINZ, Orientamento nazionale…, cit. p. 58. Gli
ultimi due lavori riportano dati leggermente diversi a proposito delle due federazioni
364
M. KACIN WOHINZ, I programmi fascisti di snazionalizzazione…, cit. p.30.
365
L. ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit. p. 158.

117
III - La persecuzione antislava

sazione, un cambio monetario svantaggioso per gli ex sudditi imperiali e


privato anche il mercato agricolo, come molti altri settori, dei tradizionali
sbocchi verso l’area danubiana, guasti a cui si aggiunsero i danni della gran-
de crisi economica mondiale del ’29. Si mirava a colpire una proprietà slava
indebitata e precaria per poi procedere ad espellere i contadini allogeni. Un
indebitamento nei confronti del capitale italiano ebbe luogo soprattutto nei
confronti dell’Istituto Federale per il Risorgimento delle Tre Venezie, costi-
tuito nel ‘21. La sua esistenza garantì al fascismo ampie possibilità di ma-
novra. Concedendo crediti con una certa larghezza per poi al momento della
riscossione passare ad un atteggiamento di completa intransigenza si riuscì
già nei primi anni ’20 a mettere all’asta molte proprietà slave366 che doveva-
no poi essere trasferite ad italiani. A tal fine si provvide a creare l’Ente per
la Rinascita Agraria delle Tre Venezie con decreto del 14 agosto 1931 (già
dal ’20 esisteva, con il nome di Ente di Ricostruzione e Rinascita Agraria,
un istituto con gli stessi obbiettivi), il cui statuto non fu mai reso pubblico.
L’Ente doveva provvedere al riscatto delle proprietà andate all’asta e tra-
sferirle ad italiani. Nel 1937, con il decreto 7 gennaio N° 82, ad esso veni-
va attribuita la facoltà di procedere in proprio alle espropriazioni agricole.
Qualche tempo dopo l’Ente perse la qualifica di agrario avviando così una
politica di espropri nei confronti di ogni tipo di immobili. Le vendite forzose
di proprietà slave passarono dalle 186 del ’22 a 634 nel ’29 e 630 nel ’34.
L’Ente per la Rinascita tra il ’34 e il ’38 acquistò 178 poderi, per un totale di
5367 ettari, dati poi a 104 famiglie italiane, facilitate nell’acquisto da proce-
dure che prevedevano pagamenti rateali fino a 20-30 anni. Le proprietà più
piccole erano accorpate per divenire più allettanti.367
Si tentava di spostare la popolazione slava sia verso le vecchie province
che nelle colonie africane, ma anche di favorirne l’emigrazione all’estero. Si
calcola che fra le due guerre furono circa 100.000, una cifra che però attende
ancora di essere verificata, gli slavi emigrati, soprattutto in Jugoslavia368 ma

366
Ivi pp. 156 e 164-165
367
M. KACIN WOHINZ, La minoranza sloveno-croata…, cit. p. 144. M. KACIN WOHINZ, I programmi
fascisti di snazionalizzazione…, cit. pp. 22-23. A. BUVOLI, Il fascismo nella Venezia Giulia…, cit. pp.
76-77. K. ŠIŠKOVIČ, La snazionalizzazione tra le due guerre, in «Bollettino dell’Istituto Regionale per
la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli-Venezia Giulia», IV, 2-3, Agosto 1976, p. 27. L.
ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit. pp. 170-171. M. KACIN WOHINZ, J. PIRJEVEC, Storia degli sloveni…,
cit. pp. 40 e 56. A. M. VINCI, Il fascismo al confine orientale, cit. p. 487. L. VANELLO,Colonizzazione
e snazionalizzazione nelle campagne della Venezia Giulia tra le due guerre, in L’imperialismo ita-
liano e la Jugolsavia…, cit. pp. 503-504.
368
La relazione della Commissione mista sostiene in proposito che «nel caso degli espatri in Jugosla-
via, che coinvolsero soprattutto giovani e intellettuali, il collegamento con l persecuzioni politiche
del fascismo è bel evidente».

118
La bonifica etnica

non solo: sloveni e croati andarono nelle americhe, soprattutto in quella del
sud, verso altre tradizionali mete dell’emigrazione dall’Italia come Francia
e Belgio mentre alcuni pare che si trasferirono in Egitto.369
Fra il ’29 e il ’31 furono diversi i progetti miranti al trasferimento della
popolazione slava. Ragusin-Righi nel suo lavoro sistemava le basi e le linee
della bonifica. Questo scritto è pieno di riferimenti alla «sana azione puri-
ficatrice». «Soltanto dopo rinforzata ed epurata nazionalmente la zona di
confine, la nostra cinta di difesa potrà considerarsi perfetta».370 Compito
della bonifica fascista era epurare dalle vecchie scorie, colonizzare con la
migrazione interna e l’emigrazione per realizzare quella che definisce una
missione di civiltà.371 La marcia su Roma aveva a suo avviso realizzato le
premesse necessarie «per operare la bonifica politica, economica e socia-
le».372 Righi spiegava quanto fatto fino ad allora nei confronti degli “agita-
tori”, cioè maestri, impiegati e preti verso i quali si era iniziata «l’opera di
sgombero».373 In campo economico «il regime si trovò di fronte ad una rete
di cooperative e di credito organizzate ed operanti ai fini dello slavismo»
riferendosi esplicitamente alle due Federazioni,374 entrambe sciolte per la
loro «fisionomia e funzionamento antinazionale».375 Quest’organizzazione
creditizia e cooperativistica «in virtù del Regime dovrà essere scardinata
mediante un progressivo riscatto da parte dell’ Ente nazionale per la coope-
razione, e dell’organizzazione creditizia nazionale»376 riorganizzando «tutto
il sistema di credito e cooperazione agraria su base genuinamente nazio-
nale».377 Nella parte centrale troviamo quello che più ci interessa ai fini del

369
Purini contesta la cifra attribuendola alla storiografia di parte slovena ma riconoscendo anche
che da parte italiana non si è lavorato molto per arrivare ad una cifra più esatta. Nel suo lavoro si
trova un attenta analisi sui dati riscontrabili e su quelli riportati fino ad allora dalla storiografia alla
quale rimandiamo per ulteriori delucidazioni su questo tema. Manca però una cifra complessiva e
nella sua mancanza ci siamo rifatti a quella classica che è comunque stata accettata anche da storici
italiani e dalla relazione conclusiva della Commissione mista. Nel suo lavoro è contenuto anche un
breve scorcio su un piano per l’italianizzazione delle ferrovie con trasferimento del personale sla-
vo. P. PURINI, L’emigrazione non italiana dalla Venezia Giulia dopo la prima guerra mondiale, in
«Qualestoria», XXVIII, 1, giugno 2000, pp. 33-53. Per la cifra di centomila Cfr: M. KACIN WOHINZ,
La minoranza sloveno-croata…, cit. p. 145. A. BUVOLI, Il fascismo nella Venezia Giulia…, cit. p.
77. L. ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit. p. 174. M. KACIN WOHINZ, J. PIRJEVEC, Storia degli sloveni…,
cit. p. 41.
370
L. RAGUSIN RIGHI, Politica di confine, cit. pp. 11-12.
371
Ivi pp. 59-62.
372
Ivi p. 38.
373
Ivi p. 24.
374
Ivi p. 20.
375
Ivi pp. 85-88.
376
Ivi p. 40.
377
Ivi p. 88.

119
III - La persecuzione antislava

nostro discorso, due capitoli intitolati rispettivamente Colonizzazione sulle


orme di Roma e Fascismo bonificatore. Il primo fa riferimento esplicita-
mente a quell’esaltazione del mito dell’impero romano di cui il fascismo
si propugnava erede: «sull’esempio di Roma antica, l’Italia fascista ha fe-
licemente iniziato l’opera di colonizzazione […] e dovrà perseguirla con
crescente fervore.
L’opera di colonizzazione ha tre aspetti principali: prima di tutto l’epu-
razione che deve ridare alla popolazione allogena il suo aspetto genuino
sfrondandola da ogni parassitismo politico e sottraendola ad ogni artificio-
sa influenza dell’interno e di fuori, in modo da ripristinare una condizione
di assoluta normalità. In secondo luogo viene la colonizzazione che si può
chiamare di Stato, costituita dalla opportuna dislocazione di scelti funzio-
nari italiani nelle varie cariche, uffici e mansioni, dalla distribuzione dei re-
parti di militari delle vecchie provincie, dall’italianizzazione della scuola, e
rispettivamente dall’invio degli allogeni a prestare il servizio militare nelle
città a contatto coi soldati delle vecchie provincie italiane, dall’assunzione
degli allogeni negli impieghi dello Stato, Ferrovie ed Enti parastatali, asse-
gnazione dei maestri allogeni nei centri dell’interno a diretto contatto con
la civiltà italiana, dall’azione in accordo col Vaticano per la purificazione
delle parrocchie che mancassero alla loro missione spirituale, occupandosi
di propaganda antinazionale. Infine viene la saturazione etnica della fron-
tiera, che è il passo definitivo verso l’assimilazione completa, e che deve
consistere nel lento ma progressivo sviluppo degli aggruppamenti italiani in
tutti i centri allogeni, attorno al nucleo costituito dai funzionari dello Stato
e dalle loro famiglie».378
Come questo sviluppo deve avvenire è esposto in maniera chiara, di
modo tale che non possano sussistere dubbi sul suo carattere: «è necessario
secondare lo sviluppo con un opportuno movimento di migrazione interna,
facendo affluire per mezzo di opportune provvidenze, di concessioni e di
credito agrario, elementi rurali della Carnia, del Cadore ed anche di re-
gioni italiane più lontane, che abbiano la stessa superbia missione degli
antichi legionari di Roma».379 Righi parla dell’utilità di un movimento an-
che in senso inverso, una «doppia corrente migratoria» che porterebbe un
inestimabile beneficio, anche economico.380 «Il processo di fusione politica,

378
Ivi pp. 43-44.
379
Ivi p. 44.
380
Ibidem.

120
La bonifica etnica

economica, familiare […], troverebbe un ottimo complemento nella migra-


zione in senso inverso, vale a dire il collocamento della mano d’opera allo-
gena nell’interno del paese».381 Per quel che riguarda i funzionari statali da
mandare come “coloni” nella regione reputa «indispensabile una rigorosa
cernita degli elementi più adatti».382 Importanza assegna anche ai matri-
moni misti, per i quali auspica la creazione di doti per le ragazze allogene
che contraessero matrimonio con italiani delle vecchie province, misura che
anche se causasse aggravi nel bilancio darebbe risultati assai proficui e si
inquadrerebbe nella politica demografica del regime.383 Nel capitolo suc-
cessivo afferma che «il Regime, fatta una scrupolosa diagnosi del male,
ha potuto impostare le azioni di bonifica della zona allogena, azioni che in
parte sono ancora al loro inizio, ma che man mano dovranno aumentare la
loro importanza, acquistando crescente sviluppo ed intensità, sino a porta-
re ad una risanamento completo».384 La bonifica di cui parla deve essere di
tre tipi: politica, morale ed economica. Quella politica è finalizzata all’epu-
razione degli impieghi e dai cosiddetti «agenti provocatori», che altri non
possono essere se non, come al solito, sacerdoti, insegnanti e gli altri espo-
nenti dell’intellighenzia. Rientra in questa categoria anche «il consolida-
mento ed il perfezionamento delle istituzioni ed organizzazioni del regime».
La bonifica morale si risolve sostanzialmente con l’azione italianizzatrice
della scuola e con azioni di sussistenza utili per la costruzione del consenso,
misure che per Righi garantirebbero un «maggiore contatto con la civiltà».
In cosa consiste poi la bonifica economica si è già visto ampiamente. Qui
il Righi si limita a parlare in termini vaghi dell’organizzazione creditizia e
delle tutele sindacali. Le tre bonifiche rispondono a necessità distinte, ma
è per lui indubbio che operando quella morale ed economica si favorisce
quella politica.385
In quel periodo non era l’unico a parlare e pensare in questi termini. Ne-
gli anni centrali del regime si sistematizzava una politica che portava alle
estreme conseguenze quel “reintegro dell’italianità” di cui parlava Musso-
lini nella circolare del ’25. Nel ’30 Perusino, anch’egli segretario del fascio
di Trieste, in un memoriale al Duce sosteneva che con gli slavi era in atto
una “lotta di razza”. Perusino ammetteva che l’assimilazione così com’era

381
Ivi pp.46-47.
382
Ivi p. 45.
383
Ivi p. 46.
384
Ivi p. 53.
385
Ibidem.

121
III - La persecuzione antislava

stata condotta non aveva ancora dato i risultati sperati, rivelando un bilan-
cio meschino e negativo, messo in risalto dal processo di Trieste contro il
T.I.G.R.,386 che sollecitava l’adozione di metodi più adeguati. Innanzitutto si
doveva agire in Jugoslavia per impedire lo sviluppo del nazionalismo slavo
che si rifletteva nelle masse allogene presenti in Italia. Mentre all’interno
propone di riorganizzare ed unificare l’attività degli organi di polizia al fine
di aver un miglior controllo del territorio. Maggior presenza anche per le
organizzazioni del regime così da saturare la regione e la popolazione di cul-
tura italiana e istituzioni fasciste. Parla anche lui della necessità di bonifica-
re. Propone il trasferimento di impiegati e insegnanti slavi, ma anche delle
maestre italiane, considerate poco adatte all’opera affidatagli per la quale si
ritiene più energica l’azione maschile, opinione già espressa alcuni mesi pri-
ma direttamente a Mussolini durante uno dei rapporti periodici che il Duce
si faceva fare dai federali della province orientali. Chiede che si continui
con l’opera di graduale allontanamento dei preti ma anche che si ostacoli
la crescita demografica slava e che si impedisca la rinascita di un ceto in-
tellettuale. Anche lui raccomanda una duplice corrente migratoria, e chiede
la creazione di un Ente per rilevare le terre dagli allogeni e renderle adatte
a coloni italiani. Lo scopo è quello «della progressiva espansione della no-
stra razza verso il confine giulio».387 Il segretario del fascio dell’Istria Relli
era sulle stesse posizioni. Nel gennaio del 1931 richiedeva urgentemente
l’intervento di un Istituto finanziatore per rilevare le terre incolte o all’asta
e ridonarle in un secondo tempo a coloni italiani, un’azione «di bonifica
terriera, destinata a tradursi in bonifica nazionale». L’11 luglio vi tornava
sopra, in un ampio memoriale, sostenendo che la creazione di un istituto,
o di un consorzio, sarebbe «il mezzo più idoneo per il raggiungimento di
queste finalità». Gli espropri erano resi agevoli dai vari tipi di debiti che
affliggevano i proprietari terrieri allogeni, «basterebbe quindi sollecitare,

386
Il T.I.G.R., sigla ricavata dalle iniziali di Trst, Istra, Gorica e Rijeka (Trieste, Gorizia, Istria e
Fiume) era un’organizzazione della gioventù nazional-liberale slava. Di tipo irredentistico, lottava
contro la snazionalizzazione attraverso azioni terroristiche. Nel’30 organizzò un attentato contro la
redazione de Il Popolo di Trieste. Ne seguì un processo di fronte al Tribunale Speciale e quattro dei
suoi membri furono condannati alla pena capitale. Il processo destò molta impressione negli am-
bienti fascisti perché rivelò l’esistenza di una radicata, ed anche armata, resistenza all’assimilazione.
Cfr: M. KACIN WOHINZ, Il primo antifascismo armato. Il movimento nazional-rivoluzionario degli
sloveni e croati in Italia, in «Storia contemporanea in Friuli», XVIII, 19, 1988, pp. 35-66.
387
M. KACIN WOHINZ, I programmi fascisti di snazionalizzazione…, cit. pp 19-20. M. KACIN WOHINZ,
La minoranza sloveno-croata…, cit. p. 144. D. MATTIUSSI, Rapporto al Duce, in «Qualestoria», XX,
2, agosto 1992, p. 84. Quest’ultimo pubblica il testo integrale della relazione tenuta al cospetto di
Mussolini.

122
La bonifica etnica

contemporaneamente per tutte le categorie di mutui scaduti, la procedura


esecutiva a carico dei debitori e far rilevare le terre messe all’asta dall’En-
te». Una volta acquistati, i terreni avrebbero dovuto essere sottoposti ad una
riorganizzazione «in unità razionali suscettibili di miglioramenti integrali
nei riguardi della loro efficienza produttiva e l’assegnazione delle stesse
unità a famiglie coloniche o ad associazioni di interessati, tutti di pura raz-
za italiana».388
Nel frattempo era intervenuto direttamente Mussolini nella faccenda, in
qualità di Ministro degli interni, il 24 giungo 1931 con una circolare riser-
vata inviata ai prefetti.
«Questo Ministero avrebbe intenzione di studiare la possibilità di pro-
muovere un provvedimento, pel quale il Governo, mediante un organo da
costituirsi, dovrebbe espropriare le proprietà terriere che, in una zona ci
confine, di ampiezza da determinarsi, si trovano oggi in possesso di alloge-
ni, con gli inconvenienti di ordine politico spesso segnalati dalle LL.EE.
Tale espropriazione dovrebbe compiersi in dieci anni e le proprietà sud-
dette dovrebbero poi essere cedute ad agricoltori ex combattenti o fascisti
delle vecchie provincie del Regno, o anche delle Provincie redente, purché
di sicura fede nazionale. Poiché l’attuale periodo economico può essere
particolarmente adatto per l’inizio di tale opera, prego le LL.EE. di esa-
minare riservatamente quale zona delle loro rispettive provincie dovrebbe
essere compresa in tale “bonifica nazionale”, indicando, con la possibile
approssimazione.
1) estensione della zona da espropriare;
2) numero degli allogeni, che verrebbero espropriati;
3) costo presuntivo totale delle espropriazioni;
Prego le LL.EE. di voler esprimere il Loro parere sull’utilità e su even-
tuali inconvenienti od ostacoli del progettato provvedimento, tenendo pre-
sente che le espropriazioni dovrebbero essere eseguite in base ad una facol-
tà di ordine generale, e non apparire quale un provvedimento eccezionale
adottato contro gli allogeni».389
Il memoriale di Relli, di poco successivo a quest’intervento, si dichiarava
contrario a limitare gli espropri ad una linea parallela al confine per ragioni
di tipo tecnico, la presenza sulla fascia di terreni non adatti alla coltivazione,

388
L. ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit. pp. 166-168. L. VANELLO,Colonizzazione e snazionalizzazio-
ne…, cit. pp. 502-503.
389
Cit. in L. ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit. p. 167. M. KACIN WOHINZ, I programmi fascisti di sna-
zionalizzazione…, cit. p. 21. L. VANELLO,Colonizzazione e snazionalizzazione…, cit. p. 501.

123
III - La persecuzione antislava

e politici; le popolazioni insediate in questo modo si troverebbero a suo dire


assediate su due lati dalla massa slava ed inoltre si scoprirebbero troppo pa-
lesemente i fini politici. Nella conclusione Relli si pronuncia a favore della
«costituzione di numerosissime cellule di bonifica nazionale, sparse in tutta
la superficie della zona abitata da allogeni». Invoca coordinamento e unità
di direttive, problema perennemente presente nella politica verso la mino-
ranza, e ribadisce l’utilità della creazione di un Ente, a cui accenna anche
Mussolini, che dovrebbe essere una «diretta emanazione del Regime e che,
pur avendo di mira uno scopo profondamente politico, agisca in un campo
esclusivamente economico».390
Alla fine si optò per la bonifica totale della regione e si provvide, come
visto, alla creazione dell’Ente per la Rinascita Agraria delle Tre Venezie.391
Nonostante tutto però i risultati continuarono ad essere lontani dalle spe-
ranze fasciste. I provvedimenti tesi ad assimilare gli allogeni mediante la
loro snazionalizzazione e cancellazione ufficiale si scontravano con una
dura resistenza da essi stessi alimentata, anche a causa della violenza con
cui tale assimilazione era condotta, e con una oggettiva sottovalutazione
della loro presa di coscienza nazionale. Come nell’Alto Adige, il regime non
fu in grado di creare una classe dirigente capace di agire in questo senso pro-
ducendo risultati392 e non si riuscì mai a giungere ad una piena armonia negli
interventi. I programmi di tipo economico che dovevano portare alla colo-
nizzazione si impantanavano nei limiti del paese e nella sproporzione che
esisteva fra i mezzi a disposizione ed i grandi progetti fascisti, anticipando
così quello che avverrà su vasta scala durante la seconda guerra mondiale.
Anche se perseguita costantemente e con grandi proclami non si era in gra-
do di sostenere una politica del genere. Era un dato evidente già ai federali
della regione che nel ’27 scrissero il memoriale a Mussolini, richiedendo
mezzi per barricare la “porta dei barbari”, mezzi che dovevano consistere
in un’ampia disponibilità finanziaria per dominare le aree rurali traducendo
l’assimilazione in una questione di tempo e denaro.393

390
L. ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit. p. 169-170.
391
L. VANELLO,Colonizzazione e snazionalizzazione…, cit. p. 503.
392
A. DI MICHELE, Un prodromo emblematico: l’italianizzazione forzata del Sudtirolo, 1922-1943,
in «Qualestoria», XXX, 1, giugno 2002, pp. 37-43.
393
M. KACIN WOHINZ, La minoranza sloveno-croata…, cit. pp. 136-137. Sulla chiusura dei confini
per difendersi dai barbari slavi intervenne anche Righi proponendo di «trovare qualchecosa di più
radicale e di più sicuro, e questo qualche cosa potrebbe per esempio essere una doppia rete metallica
lungo tutto il confine, con filo di corrente ad alta tensione nello spazio fra le due reti. […] Forse sono
mezzi estremi ma la civiltà ha ben il diritto di difendersi» L. RAGUSIN-RIGHI, Guardia al confine, in
«La porta orientale», I, 1, 15 gennaio 1931, p. 112.

124
La bonifica etnica

Il censimento riservato organizzato dal governo nel 1936 costituì una


brutta sorpresa. Ma il regime dimostrò ancora una volta di non poter ve-
nir meno alla sua ideologia antislava. Tanto più che dopo la proclamazione
dell’impero il suo volto verso l’esterno era sempre più aggressivo mentre
all’interno si procedeva speditamente sulla via totalitaria e razzista. Negli
anni successivi al ‘38 nella Venezia Giulia antislavismo ed antisemitismo
si sovrapposero spesso, divenendo quasi un tutt’uno in quanto rispondenti
ad esigenze politiche analoghe, in un contesto già impregnato di fanatismo
nazionalista e razzista ed abituato ad avere a che fare con barriere ed esclu-
sioni. L’assalto indifferenziato ai negozi dagli slavi e degli ebrei a Trieste
nel ’43 ne è l’evidente dimostrazione.394
Oramai tutti gli strumenti erano già stati messi in campo, il fascismo non
aveva altri assi nella manica e nemmeno la possibilità, per carenza di mezzi
lo ripetiamo non certo per mancanza di volontà, di procedere sulla via di un
trasferimento forzoso. Tornano così gioco-forza in campo i progetti di 10
anni prima, con un senso d’urgenza accresciuto dall’annessione nazista dei
Sudeti, giustificata col criterio della presenza di una popolazione di lingua
tedesca, dagli stessi accordi che fascismo e nazismo prendevano per la so-
luzione del problema dei tedeschi del Sudtirolo,395 dal clima internazionale
che faceva sempre più presagire una non lontana guerra, in preparazione
della quale l’Italia procedeva, nell’aprile del ’39, all’annessione dell’Alba-
nia, stringendo sempre più la morsa intorno alla Jugoslavia.
Angelo Scocchi nel dicembre 1938 inviò l’ennesimo memoriale al Duce
sul tema. Per lui il precedente cecoslovacco rendeva più urgente la necessità
che i confini italiani rispondessero anche ad un criterio linguistico, nono-
stante la lingua slava fosse ormai scomparsa ufficialmente dalla prima metà
dei ’20. Questo comportava un’intensificazione della migrazione interna
«intesa a mutare radicalmente la fisionomia etnica anzitutto dei centri più
grossi lungo la frontiera e successivamente delle località minori». Come i
predecessori puntava il dito su lavoratori alle dipendenze statali, come i mi-
natori di Idria, e su altre categorie trasferibili senza oneri per lo stato, conta-
dini, coloni, ma anche braccianti ed operai da scambiare con altri lavoratori
dello stesso settore di altre zone d’Italia. Il Commissariato per le migrazioni

394
A. BUVOLI, Il fascismo nella Venezia Giulia…, cit. p. 85. E. APIH, Italia. Fascismo e antifasci-
smo…, cit. p. 433. A. M. VINCI, Il fascismo al confine orientale, cit. pp. 506-507.
395
Gli accordi prevedevano la possibilità d’opzione per la Germania, e quindi l’emigrazione, o la
permanenza in Italia. Molti tedeschi optarono per la Germania. L. ČERMELJ, Sloveni e croati…, cit.
p. 172.

125
III - La persecuzione antislava

sarebbe tornato utile a questo scopo procurando lavoro nel resto del paese
o nelle colonie. Individuava 20 centri maggiori nella Venezia Giulia che
avrebbero potuto fungere da centri di attrazione ed espansione, più o meno
come si prospettava per i funzionari italiani nei villaggi, irradiando l’idioma
italiano. Criticava l’Ente per la Rinascita per aver acquistato poca terra ed
avervi insediato poche famiglie, per di più in località isolate dove finivano,
soprattutto i figli, per essere slavizzati.
Predisponeva infine un programma di matrimoni misti per tutta una serie
di categorie, e prospettava l’invio di migliaia di ragazze slave in Italia come
domestiche per favorirne un italianizzazione mediante matrimoni. In questo
modo «la frontiera verrà a segnare anche la linea di spartizione di razze
differenti».396
Italo Sauro, consigliere del governo per le questioni slave, nel ‘39 artico-
lava un programma in 16 punti:
«1) Statistica della proprietà in mano agli slavi […]
2) Blocco delle vendite e deferimento ad una commissione unica, del nul-
la-osta per il trapasso della proprietà allo scopo di impedire ogni acquisto
da parte di slavi […]
3) Assunzione di tutti i terreni appartenenti ad Istituti di credito e quelli
in vendita che non vengono acquistati da privati italiani.
4) Appoderamento e assegnazione dei terreni a famiglie venete friulane
o istriane (che sono la più adatte a resistere agli slavi) […]
5) Invitare i Comuni giuliani ad una applicazione più severa delle leggi
sull’urbanesimo e impedire il soggiorno alle famiglie alloglotte […] l’in-
vasione slava ha ormai investito i comuni più italiani della regione; questa
invasione deve essere fermata […]
6) Alienare in tutte le forme gli slavi dai propri terreni e dai paesi del-
l’interno.
7) Costituzione in Pola di un forte centro industriale per attirare gli slavi
e nello stesso tempo fare una intensa propaganda e regolari ingaggi degli
slavi dell’interno per Trieste, ma soprattutto per centri industriali lontani.
8) Favorire le alienazioni di terreni da parte di slavi […]
9) Minare la proprietà slava attraverso tutte le operazioni del credito e
del fisco […] facendo agire le banche per l’esazione dei crediti ad una più
severa (magari ingiusta) valutazione ed esazione dei tributi.

T. SALA, Programmi fascisti di snazionalizzazione del “fascismo di frontiera” (1938-1942), in


396

«Bollettino dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli-Venezia
Giulia», II, 2, maggio 1974. pp. 26-28. M. KACIN WOHINZ, I programmi fascisti di snazionalizzazio-
ne…, cit. pp. 25-27.

126
La bonifica etnica

10) Trasferire d’autorità operai e minatori […] in altri centri lontani del
Regno e delle colonie […] non sarà difficile specie con le nuove industrie in
Albania e in Africa Orientale.
11) Convogliare in Africa Orientale numerose famiglie agricole distri-
buendole in vari centri […]
12) Aumentare delle scuole elementari e degli asili. Più maestri maschi
e coniugati con l’obbligo di residenza […]
13) Inviare come insegnanti elementari e maestri d’asilo anche molti re-
ligiosi e religiose italiani per arginare e sostituirsi ai religiosi slavi.
14) Costituzione di una fitta rete di sorveglianza e su coloro che opera-
no come mestatori e agitatori slavi, e su coloro che hanno contatti con la
Jugoslavia […] limitare, possibilmente impedire, il rilascio e il rinnovo dei
passaporti per la Jugoslavia […] questo riguarda la polizia ma è cosa che
va risolta ed affrontata come se si dovesse ricominciar da capo.
15) Allontanamento dei pregiudicati slavi […]
16) Sorveglianza sulla attività dei preti […] sostituendo l’italiano e il
latino allo slavo in tutte le cerimonie ove la massa sia composta da giovani
[…]».
Quello di Sauro è il primo programma, in 20 anni, in cui si pone il pro-
blema di una conoscenza puntuale degli slavi e della loro proprietà. Dimo-
strandosi più realistico, afferma che non si può nei loro confronti mettere in
atto uno spostamento di popolazione “totalitario” come quello previsto per
l’Alto Adige, dato il numero, ma il suo programma si muove sempre den-
tro all’ottica della bonifica prevedendo spostamenti di popolazioni e rein-
sediamenti di italiani. I temi sul tappeto sono sempre i soliti e la precisione
dei punti non nasconde la monotonia dei problemi posti e delle soluzioni.
Ritiene che tutta la cosa andrebbe trattata con riservatezza senza però aver
paura di reazioni Jugoslave in quanto Belgrado è impegnata con problemi
interni ed esterni (ma il governo Jugoslavo non aveva mai fatto granché per
tutelare le propria minoranza in Italia), ed alla fine si affaccia anche in lui il
senso di urgenza, «l’affacciarsi […] della Russia ai Balcani consiglia a non
indugiare».397
Sempre nel ’39 il prefetto dell’Istria inviava un rapporto al Ministro de-
gli interni, del quale prese visione Mussolini stesso. Il prefetto dichiara-

397
Il documento è tratto da T. SALA, Programmi fascisti di snazionalizzazione…, cit. pp. 28-29.
Con la stessa sostanza anche se leggermente diverso il documento è riportato anche in L. ČERMELJ,
Sloveni e croati…, cit. pp. 172-174. ed in M. KACIN WOHINZ, I programmi fascisti di snazionalizza-
zione…, cit. pp. 27-29.

127
III - La persecuzione antislava

va subito che l’oggetto erano i «provvedimenti che potrebbero esser presi


per accelerare l’assimilazione degli allogeni» ed elencava quelli già presi:
stanziamento di fondi per la costruzione di edifici scolastici; immissione
di minatori italiani nell’industria estrattiva dell’Arsa; le funzioni attribuite
all’Ente per la Rinascita delle Tre Venezie; autorizzazione a carabinieri e
guardie di finanza a contrarre matrimoni. Seguivano poi le sue proposte,
sempre le solite: chiedeva che al centro le pratiche inerenti la sua provincia
«non vadano esaminate con la mentalità dell’ordinaria amministrazione»;
«adeguato finanziamento e ordini categorici all’Ente di Rinascita perché si
svegli e aumenti l’immigrazione di famiglie dalle vecchie province»; il tra-
sferimento dell’Ente a Trieste; «ulteriore finanziamento per altre costruzio-
ni di edifici scolastici rurali con relativo alloggio per l’insegnante»; far co-
struire ai comuni, dove manca, l’alloggio «per costringere questi a risiedere
sul posto»; aumentare i maestri rispetto alle maestre e vietare i fuori sede;
agevolare la nomina di medici condotti italiani; costruire nei comuni e nelle
frazioni la Casa del Fascio con al suo interno spazi per la segreteria politica,
l’O.N.D., la M.V.S.N., la G.I.L. e dotarla di radio; aumento dei mezzi per
l’opera Nazionale Infanzia Redenta per costruire asili; «intervenire presso
l’autorità ecclesiastica perché […] si adoperi la lingua italiana»; costruire
una filovia Pola-Arsa per stabilire a Pola operai delle vecchie province; age-
volare il sorgere a Pola di alcune industrie.398
Con l’invasione della Jugoslavia il 6 aprile 1941 l’Italia si ingrandiva
nei territori degli slavi del sud. Buona parte della Slovenia veniva annes-
sa creando la Provincia di Lubiana, con 340.000 abitanti. Si espandevano
i territori di Fiume e di Zara. Con l’annessione della Dalmazia centrale,
delle isole e delle Bocche di Cattaro, vennero costituite anche le due nuove
province di Spalato e Cattaro, costituenti il Governatorato Generale di Dal-
mazia. Anche il Montenegro fu sottoposto al dominio italiano, dapprima
come Governatorato Civile, poi divenuto militare. Il Kossovo e buona parte
della Bosnia-Erzegovina venivano anch’esse occupate dall’esercito italiano
La guerra insieme allo stato esportò anche l’antislavismo ed i suoi metodi.
Con la nuova situazione il “genocidio culturale” subì un accelerazione che
lo portò ai limiti del genocidio vero e proprio.399 Gli ambienti militari, che

398
Il documento è riportato integralmente da T. SALA, 1939. Un censimento riservato…, cit. pp.18-
19.
399
B. MANTELLI, Gli italiani nei Balcani 1941-1943: occupazione militare, politiche persecutorie e
crimini di guerra, in «Qualestoria», XXX, 1, giugno 2002, p. 21. A p. 32 sostiene che «è fattualmen-
te dimostrabile che l’Italia monarchico fascista mise in atto nei territori balcanici politiche non par-

128
La bonifica etnica

in parte governarono le zone occupate, e con larga autonomia, non erano


estranei ai progetti fascisti ed ai loro sentimenti slavofobi.400 Lubiana fu re-
cintata e trasformata così in una sorta di campo di concentramento per chi
vi abitava.401 Nelle province annesse, che entravano a far parte del ”piccolo
spazio”, si introdusse l’italiano e le organizzazione del regime. Per Sala il
rapporto colonizzazione-razzismo fu la vera sostanza dell’amministrazio-
ne di Lubiana.402 Nelle zone soggette al suo dominio il fascismo estendeva
la slavofobia e la politica che aveva contraddistinto i 20 anni precedenti
di governo fascista nella Venezia Giulia,403 senza peraltro nessun tangibi-
le risultato tranne quello di inimicarsi le popolazioni slave. Anche l’attivi-
tà dell’Ente per la Rinascita della Tre Venezie fu estesa.404 Non è un caso
che nel 1942 Scocchi ripresentasse un memoriale che ricalcava quello di
quattro anni prima.405 Nel ’41 anche Sauro aveva fatto risentire la sua voce
proponendo un “Ufficio di coordinamento per la nazionalizzazione dei ter-
ritori redenti e annessi”. «Forza e giustizia sono gli elementi sui quali gli
Slavi, come i popoli primitivi, fanno poggiare i troni […] con gli Slavi la
clemenza è debolezza» Insisteva nell’espulsione, comprendendo l’analogia
con l’alleato nazista, «facilitare e provocare emigrazioni di intere famiglie
in plaghe lontane come fece Roma e come sta facendo la Germania, ma in
scala minore».406 Bottai dettò le norme per l’estensione dell’insegnamento
in italiano nelle zone annesse.
«In definitiva, l’insegnante di fanciulli alloglotti si trova nelle condizioni
della madre di fronte alla propria creatura; come la madre, non deve ave-
re nessuna necessità di interpreti per farsi intendere ed intenderli, e tanto
meno ricorrere, perciò, in nessun momento, alla traduzione della lingua
materna loro, o di cercare in essa analogia od equivalente per risolvere
dubbi o difficoltà; mentre che non si tratta di abituarli a tradurre dal croato

ticolarmente dissimili da quelle attuate dal Terzo Reich nei confronti dei paesi occupati dell’Europa
orientale e balcanica […] politiche cioè che, a quanto risulta con la piena consapevolezza da parte
degli esecutori, nei fatti rasentarono il genocidio».
400
D. RODOGNO, La repressione nei territori occupati dall’Italia fascista tra il 1940 e il 1943, in
«Qualestoria», XXX, 1, giugno 2002, pp. 65-70.
401
C. S. CAPOGRECO, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Torino,
Einaudi, 2004, p. 141.
402
T. SALA, 1939-1943. Jugoslavia «neutrale», Jugoslavia occupata, in «Italia contemporanea»,
XXXII, 138, marzo 1980, p. 93.
403
Cfr: D. RODOGNO, Il nuovo ordine mediterraneo…, cit. p. 334.
404
M. KACIN WOHINZ, La minoranza sloveno-croata…, cit. p. 144. L. VANELLO, Colonizzazione e
snazionalizzazione…, cit. p. 505.
405
T. SALA, Programmi fascisti di snazionalizzazione…, cit. p. 29.
406
Cit. in T. SALA, Programmi fascisti di snazionalizzazione…, cit. p. 29.

129
III - La persecuzione antislava

all’italiano, ma a pensare in italiano, che è quanto dire a pensare e a sentire


italianamente».407
I metodi erano ora condotti agli estremi. L’occupazione fu brutale. Per
Del Boca: «anche se la presenza dell’Italia fascista nei Balcani ha superato
di poco i due anni, i crimini commessi dalle truppe di occupazione sono sta-
ti sicuramente, per numero e ferocia, superiori a quelli consumati in Libia
e in Etiopia. Anche perché nei Balcani, a fare il lavoro sporco, non c’erano
i battaglioni amhara-eritrei e gli eviratori galla della banda di Mohamed
Sultan. Nei Balcani, il lavoro sporco, lo hanno fatto interamente gli italiani,
seguendo le precise direttive dei più bei nomi del gotha dell’esercito».408
Nei 29 mesi di occupazione nella sola Provincia di Lubiana, secondo
Buvoli, vennero fucilati 5000 civili, a cui se ne aggiungono altri 200 bruciati
o massacrati, 900 i partigiani fucilati, ed inoltre 7000 civili morti nei cam-
pi di concentramento italiani, in tutto il 2,6% della popolazione, deportate
33.000 persone, il 10%.409 A questo proposito va ricordato come fu creato un
vero e proprio sistema concentrazionario, sia per gli slavi delle zone occu-
pate ed annesse che per gli allogeni della Venezia Giulia. Quest’internamen-
to perseguiva il fine della “sbalcanizzazione” del territorio, ed aveva forti
analogie con i campi creati nelle colonie africane, nella Sirtica e in A.O.I.,
dove i militari italiani si erano “fatti le ossa” fornendo un’ulteriore confer-
ma dell’impronta coloniale caratterizzante l’aggressione alla Jugoslavia.410
Nei “campi del Duce” furono internati anche ebrei, oppositori politici ed
altre categorie considerati pericolose e nemiche, ma gli allogeni furono una
“supercategoria”, come ben si comprende analizzando la composizione dei
campi dal punto di vista sociale. Componenti consistenti di internati infat-
ti erano famiglie contadine e sacerdoti provenienti dalla Venezia Giulia.411
Citando solo i più importanti, nei territori dell’ex-Jugoslavia funzionarono i
campi di Arbe (Rab) sull’isola di Cherso, quello di Melata (Molat) e quelli
integrati di Mamula e Prevlaka. In Italia Gonars, Visco, Monigo, Chiesa-
nuova e Renicci. Sono valutati intorno ai 100.000 i civili jugoslavi che subi-
rono l’internamento. Dalla fine del ’42 l’Ispettorato Speciale di Pubblica Si-
curezza per la Venezia Giulia gestì direttamente un internamento, destinato

407
Cit. in T. SALA, Programmi fascisti di snazionalizzazione…, cit. p. 30.
408
A. DEL BOCA, Italiani…, cit. p. 233.
409
Ivi p. 241.
410
C. S. CAPOGRECO, I campi del duce…, p. 68, p. 82 e p. 141. A. DEL BOCA, Italiani…, cit. p. 233 e
pp. 240-244.
411
C. S. CAPOGRECO, I campi del duce…, cit. pp. 100-101.

130
La bonifica etnica

esclusivamente agli allogeni italiani, avente a disposizione i campi di Cairo


Montenotte in Liguria e di Fossalon e Poggio Terzarmata (Sdravščina) nel
Goriziano. Per loro fu un vero e proprio incubo collettivo.412 Il sistema del-
l’internamento civile fascista non mirava, in linea di principio, alla elimi-
nazione degli individui ed al loro sfruttamento schiavistico, ma ad isolare
elementi pericolosi ed a attuare la pulizia dei territori dalla presenza slava.
Ciononostante ci furono migliaia di morti. Ad Arbe, dove i prigionieri erano
sistemati in delle tende, il tasso di mortalità fu del 19%, superiore a quello
del campo nazista di Buchenwald (15%).413
Corrispondendo con Grazioli, alto commissario per Lubiana, a proposito
dei campi il generale Gambara scrisse una frase che è rimasta famosa è che
da bene l’idea di quali fossero le condizioni di vita e i criteri con cui veni-
vano diretti i lager italiani. «Logico ed opportuno che campo di concentra-
mento non significhi campo di ingrassamento. Individuo malato = individuo
che sta tranquillo». Si pativa la fame, la denutrizione era generalizzata, fu
questa una delle principali cause di mortalità nei campi italiani.414
Nei territori occupati le truppe italiane, a volte animate da un sentimento
di superiorità razziale, convinte di essere portatrici di civiltà,415 saccheggia-
vano ed incendiavano villaggi, massacrandone la popolazione416, come a
Podhum.417 Le memorie inedite di un soldato italiano della divisione Berga-
mo ci riportano ad episodi di fucilazioni sommarie, a bombardamenti aerei
di villaggi, torture, atti di violenza e dileggio sui cadaveri, e ci forniscono
un’esatta descrizioni dell’idea che i soldati italiani si erano fatti delle popo-
lazioni balcaniche. «Vivevano in uno stato quasi primitivo», «non avrei mai
pensato che così vicine all’Italia si trovassero popolazioni con un grado di
civiltà tanto basso».418

412
C. S. CAPOGRECO, I campi del duce…, cit. pp. 69-70, p. 76, p. 78, pp. 209-110 e pp. 264-267.
413
A. DEL BOCA, Italiani…, cit. p. 243.
414
A. BUVOLI, Il fascismo nella Venezia Giulia…, cit. p. 81. C. S. CAPOGRECO, I campi del duce…,
cit. pp.81-82 e pp. 140-142.
415
D. RODOGNO, La repressione nei territori occupati…, cit. pp. 65-70.
416
C. S. CAPOGRECO, I campi del duce…, cit. p. 68.
417
B. MANTELLI, Gli italiani nei Balcani…, cit. p. 30.
418
Le memorie sono depositate presso l’archivio dell’Istituto storico della resistenza e della società
contemporanea nella provincia di Pistoia. Furono scritte nel1980 e mai pubblicate. L’autore operò
fra la Dalmazia e la Bosnia-Erzegovina e visse a Spalato i drammatici eventi dell’8 settembre 1943.
Sulla percezione delle popolazioni da parrte dei soldati italiani Cfr: D. RODOGNO, Il nuovo ordine
mediterraneo…, cit. pp. 182-227, che scrive, «la percezione delle popolazioni occupate fu determi-
nata dal bagaglio di pregiudizi, alcuni dei quali razziali, che i soldati portarono con sé. Dall’osserva-
zione e dal contatto con i locali gli occupanti “decifrarono” usi e costumi degli occupati e li catalo-

131
III - La persecuzione antislava

Il clima che avvolse tutta l’Europa dominata dai fascismi fu quello che
Waldenberg, in uno studio complessivo sui problemi nazionali, ha descritto
così. «I nazionalismi creavano […] un clima favorevole agli eccidi di massa
e alle persecuzioni a sfondo etnico della seconda guerra mondiale» dando
luogo ad «un’atmosfera psicologicamente favorevole agli assassini di mas-
sa. […] Aveva luogo una vera e propria assuefazione al delitto».419 Se que-
sto era il clima, l’ideologia razzista del fascismo antislavo, che comunque
non prevedeva progetti di “soluzione finale” come quelli nazisti, aiutava
sicuramente ad individuare i nemici non solo nelle formazioni partigiane
ma anche nelle popolazioni civili. Ciano nel suo diario ricorda un incontro
con Vidussoni, segretario nazionale del P.N.F. «Dopo aver parlato di pic-
cole questioni contingenti, fa alcuni cenni politici e dichiara truci propositi
contro gli sloveni. Li vuole ammazzare tutti. Mi permetto osservare che sono
un milione. Non importa – risponde deciso – bisogna fare come gli ascari
e sterminarli tutti».420 In una riunione del 1942 a Gorizia con i comandanti
dell’ambito Supersloda, Mussolini affermava «mettiamoci bene in testa che
questa gente non ci amerà mai. Quindi nessuno scrupolo».421
Per Grazioli il problema poteva essere risolto in tre maniere: eliminazio-
ne, deportazione o assimilazione. In ogni caso prevedeva comunque l’uso
della violenza.422 L’idea della colonizzazione era un cardine della politica fa-
scista nei territori annessi, che venivano considerati italiani a tutti gli effetti.
Anche i militari adesso davano il loro apporto. Roatta, comandante della 2ª
armata, emanò la famigerata Circolare 3C, contenente precise disposizioni
sull’attuazione della repressioni nei confronti della popolazione.423 Riferen-
do al Duce sui provvedimenti adottati disse:
«internamento graduale di studenti, intellettuali, disoccupati e sospetti,
specie a Lubiana, cervello della Slovenia, previa chiusura di ogni accesso

garono nel proprio registro mentale, secondo archetipi e stereotipi. I generali italiani furono i primi
a veicolare un’immagine delle popolazioni balcaniche come popoli infidi, subdoli e selvaggi. Molti
ufficiali si sentivano superiori alle popolazioni balcaniche che consideravano rozze e primitive. Nel-
le memorie e nelle testimonianze si nota una panoplia di tentativi di comprendere realtà e società
diverse e sforzi molteplici di illustrare, con analisi pseudoscientifiche, questa diversità», p. 203.
419
M. WALDENBERG, Le questioni nazionali…, cit. pp. 233-135.
420
G. CIANO, Diario 1937-1943, Milano, Rizzoli, 1980, p. 578.
421
T. SALA, 1939-1943. Jugoslavia «neutrale»…, cit. pp. 100-101. Supersloda era la sigla del coman-
do superiore Slovenia e Dalmazia della 2ª armata.
422
M. KACIN WOHINZ, J. PIRJEVEC, Storia degli sloveni…, cit. p. 71.
423
Il testo della circolare è rinvenibile nello studio di Di Sante. Cfr: Italiani senza onore…, cit. A.
DEL BOCA, Italiani…, cit. pp. 235-236. T. SALA, 1939-1943. Jugoslavia «neutrale»…, cit. pp. 99-
100.

132
La bonifica etnica

alla città, stretto controllo delle attività intellettuali, specie dell’universi-


tà […] Sono stati decisi quindi grandi rastrellamenti, lenti e metodici su
grande fronte, tendendo a incapsulare l’avversario sempre che possibile,
ma procurando soprattutto di togliere alle popolazioni rurali l’idea che po-
tessero agire a loro piacimento […] Ho proposto di dare le proprietà dei
ribelli alle famiglie dei nostri caduti […] Sono stati internati 1000 maschi
validi».424
Robotti, comandante dell’XI corpo d’armata, poi al posto di Roatta, scri-
veva: «non importa se nell’interrogatorio si ha la sensazione di persone
innocue. Ricordarsi che, per infinite ragioni, anche questi elementi possono
trasformarsi in nostri nemici. Quindi sgombero totalitario. […] resta inte-
so che il provvedimento dell’internamento non elimina il provvedimento di
fucilare […] Non vi preoccupate dei disagi della popolazione […] Non li-
mitarsi negli internamenti. Le autorità superiori non sono aliene dall’inter-
nare tutti gli sloveni e mettere al loro posto degli italiani […] In altre parole
far coincidere i confini razziali con quelli politici».425
Robotti si riferiva alle parole pronunciate da Mussolini a Gorizia. «Non
sarei alieno dal trasferimento di masse di popolazioni».426 In altre circostan-
ze Robotti si era espresso in termini ancor più drastici, «si ammazza troppo
poco!».427 Anche se preso in considerazione spesso all’epoca, lo “sgombero
totalitario” non fu mai attuato, ma le deportazioni di massa si.
Il fascismo non ebbe mai i mezzi per realizzare questi suoi propositi di
“sostituzione etnica”, di colonizzazione, di “bonifica etnica”. La decisione
di considerare come italiani anche molti territori della Jugoslavia occupata
aumentò enormemente l’estensione dei territori da sottoporre a quest’azione
e il numero delle persone coinvolte. A questo si aggiunse la sempre più ag-
guerrita resistenza che portava ad una perdita del controllo su zone sempre
più vaste, fino a ritrovarsi con la guerra in casa prima ancora dello sbarco
alleato in Sicilia, con azioni partigiane che nelle loro puntate raggiungevano
la provincia di Udine. Ma se il fascismo non realizzò i suoi progetti, non è
un buon motivo per frasi trarre in inganno, confinandoli a pura propaganda
o a roboanti dichiarazioni di intenti. Si cercò, per tutto il periodo, in maniera

424
T. SALA, 1939-1943. Jugoslavia «neutrale»…, cit. p. 100. Crf: A. DEL BOCA, Italiani…, cit. p.
241.
425
T. SALA, 1939-1943. Jugoslavia «neutrale»…, cit. p. 101. A. BUVOLI, Il fascismo nella Venezia
Giulia…, cit. p. 83.
426
D. RODOGNO, Il nuovo ordine mediterraneo…, cit. p. 405.
427
T. SALA, 1939-1943. Jugoslavia «neutrale»…, cit. p. 100. A. DEL BOCA, Italiani…, cit. p. 235.

133
III - La persecuzione antislava

feroce, violenta e puntuale, di metterli in pratica. Mancò un coordinamento


tra centro e periferia ed all’interno della periferia stessa, come lamentava
già Righi nel ’29. Il fascismo però non recise mai, fino al crollo finale, da
una politica continuamente ribadita e riproposta, con monotonia di temi, di
riferimenti culturali e ideologici, di soluzioni. Questa politica aveva origine
e trovava alimento nell’affermazione del primato della stirpe e della civiltà
italiana coi suoi destini imperiali ed in un nazionalismo aggressivo e totaliz-
zante, elementi che si situavano alla base della costruzione totalitaria fasci-
sta, ne costituivano l’essenza conduttrice nei rapporti con altre popolazioni
giudicate inferiori e per questo destinate ad essere sopraffatte.

134
Carte
carte

Carta pubblicata sul numero monografico di Gerarchia dedicato alla Venezia Giulia.
Da GIORGIO BOMBIG, Le condizioni demografiche della Venezia Giulia e gli allogeni,
in «Gerarchia», VII, 9, settembre 1927, p. 813.

137
carte

Carta elaborata da Schiffrer secondo i dati del censimento riservato del 1936. Da Il
confine mobile. Atlante storico dell’ alto adriatico 1866-1992, s.l., Edizioni della
Laguna, 19962.

139
carte

Confine italiano dal 1924 al 1941. Da Il confine mobile. Atlante storico dell’ alto
adriatico 1866-1992, s.l., Edizioni della Laguna, 19962.

141
carte

Confine italiano dopo l’invasione della Jugoslavia nel 1941. Da Il confine mobile.
Atlante storico dell’ alto adriatico 1866-1992, s.l., Edizioni della Laguna, 19962.

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Stampato nel mese di febbraio 2006 dalla
Tipografia GF PRESS snc - Masotti - Serravalle Pistoiese - PT
0573 518036 - gfpress@libero.it

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