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Introduzione alla filologia

di Giorgio Vedovati
(studente di Antichità Classiche e Orientali all'Università di Pavia)
con la supervisione del prof. Gabriele Laterza del Liceo “Amaldi” di Alzano Lombardo

INDICE
Premessa
1. Definizione
2. Sintesi storica:
a. Prima e dopo la nascita alessandrina
b. Pergamo e Roma: recuperi e innovazioni del metodo alessandrino
c. La posizione dei Cristiani e l'Impero bizantino
d. L'Occidente: crepuscolo e rinascite
e. L'Umanesimo e i primi grandi filologi
f. Controriforma e scuole centro-europee tra XVI e inizio XVIII secolo
g. La grande scuola tedesca dell'Altertumswissenschaft
h. Innovazioni metodologiche e il panorama italiano
3. Materiali scrittori:
a. Il problema del supporto
b. Le tavolette lignee
c. Il rotolo di papiro
d. La pergamena e il codice
e. La carta
4. Cenni di paleografia e di papirologia:
a. La scienza paleografica
b. Le principali scritture antiche
c. I palinsesti
d. La papirologia
5. Fondamenti di critica testuale:
a. Introduzione
b. La recensio
c. L'emendatio
d. Le varianti formali: problemi e soluzioni
e. L'edizione diplomatica, interpretativa e critica
f. La filologia d'autore
Bibliografia

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PREMESSA
Questa presentazione, nata dalla proposta del prof. Gabriele Laterza, è il tentativo di avvicinare agli
studenti di classi terze del Liceo “Amaldi” di Alzano Lombardo una disciplina, la filologia, che troppo
spesso appare tecnicistica e distante dalla realtà significativa di un testo. Consapevole delle secolari
disquisizioni di metodo e di valore sull'argomento, mi sono sforzato – per quanto mi hanno concesso gli studi
fino ad ora intrapresi e le conoscenze acquisite – di offrire una panoramica generale e il più possibile
esauriente, soffermandomi più nello specifico in quei campi che possono interessare maggiormente da vicino
il confronto con le materie umanistiche svolto durante il liceo.
Mi si perdoneranno quindi inevitabili sintesi e, d'altro canto, spiegazioni di nozioni forse già note.
Per facilitare la comprensione, dove possibile sono ricorso al supporto di fonti iconografiche, inserite nel
testo della presente relazione e che saranno anche proiettate durante il mio intervento a scuola. Ho inoltre
stilato separatamente un glossario fondamentale, sperando possa tornar utile per recuperare sinteticamente i
concetti-base toccati dalla trattazione.
Dove è stato possibile, ho presentato degli esempi “pratici” del lavoro del filologo, tentando di seguire
alcune procedure fondamentali nella loro incalzante successione. Queste esemplificazioni non hanno la
pretesa di offrire una visuale completa di una tecnica acquisibile solo con lunghi anni di studi e di confronto
diretto con i testi e con la loro tradizione: il loro scopo è di tentare un approccio concreto con alcune
problematiche qui trattate, per verificare l'acquisizione dei concetti fondamentali della filologia e per
comprendere tutto il lavoro che sta alla base di ogni opera letteraria che leggiamo.

1. DEFINIZIONE
La filologia è una materia complessa e di cui si possono distinguere due accezioni fondamentali: una
prima, generale, indica il complesso di discipline filologico-storico-letterarie che studiano una determinata
civiltà, soprattutto nei suoi aspetti letterari; una seconda, più ristretta e tecnica, indica quella disciplina
scientifica che percorre la storia della letteratura nel tentativo di restituirne dei testi nella forma il più
possibile conforme all'originale.
Analizzando l'etimologia del termine greco filologhía, esso all'origine indicava genericamente l'“amore del
discorso” (dal verbo filéo “amare” e lógos “discorso”, “parola”, “ragionamento”) e solo successivamente, in
età ellenistica, passò a significare “erudizione, varia dottrina”.
Benché la filologia accompagni gli studi letterari fin dall'età classica, bisogna aspettare la seconda metà
del Settecento e l'attività scientifica e programmatica di Friedrich August Wolf (fondamentali i suoi
Prolegomena ad Homerum, 1795) per arrivare ad una sua definizione chiara e consapevole come scienza
che mira a restituire ad un testo la forma più corretta possibile e poi ad interpretarlo, ridisegnandone la
fisionomia e la storia con un percorso a ritroso.
Nella filologia si possono quindi distinguere tre aspetti, in stretta relazione tra loro: uno critico, di
discussione del testo e di allestimento dell'edizione critica; uno esegetico, di comprensione di tutti i risvolti
del testo; uno ermeneutico, di interpretazione del testo al di là dell'esegesi puntuale, ponendolo in contatto
con problematiche in senso lato ontologiche, tenendo cioè presente il determinato carattere storico e culturale
del testo studiato.
In questo lavoro, dopo aver fornito un panorama storico che permetta di cogliere l'evoluzione nel tempo
dei metodi filologici, ci si soffermerà con maggiore attenzione sulla critica del testo (la filologia in senso
stretto), ossia su quei procedimenti tecnici che mirano a ripristinare, per quanto possibile, il primitivo stato di
un testo.
Come utile memento nell'avvicinarsi alla filologia, sono significative le seguenti parole del più grande
filologo romanzo italiano del Novecento (e probabilmente di sempre), Gianfranco Contini, che colgono la
precarietà inevitabile di ogni operazione filologica:

«La filologia come disciplina storica si rivela sempre più acutamente involta, non si dirà nell'aporia, ma nella
contraddizione costitutiva di ogni disciplina storica. Per un lato essa è ricostruzione o costruzione di un
'passato' e sancisce, anzi introduce, una distanza fra l'osservatore e l'oggetto; per altro verso, conforme alla
sentenza crociana che ogni storia sia storia contemporanea, essa ripropone o propone la 'presenza'
dell'oggetto. La filologia moderna vive, non di necessità inconsciamente, questo problematismo
esistenziale».

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2. SINTESI STORICA

a. Prima e dopo la nascita alessandrina


La nascita della filologia è collocabile nel primo periodo ellenistico, in particolare nella cultura che si
sviluppò ad Alessandria, nell'Egitto fortemente ellenizzato e sede di uno dei diadochi di Alessandro Magno,
tra la fine del IV e per tutto il III secolo a.C.
Essa è diventata filologia “classica” (e resta esclusivamente tale fino a gran parte dell'Ottocento) perché,
pur essendo un metodo universale, è nata effettivamente quasi tutta già allora, quando si studiavano i testi
greci e latini; soltanto successivamente c'è stata una suddivisione di competenze e sono nate diverse filologie
(romanza, germanica, slava, ecc.), ma il metodo di tutte è unico.
Questa cronologizzazione è in controtendenza con l'opinione diffusa che vede il sorgere della filologia
classica – e quindi, per quanto abbiamo detto, della filologia in generale – nella fase più matura
dell'Umanesimo, in Italia nel tardo XV secolo e in Francia nel XVI secolo: quest'idea non tiene
inspiegabilmente conto della fondazione di vere e proprie regole di metodo operata dagli studiosi
alessandrini, che ora analizzeremo.
Come ogni altro fenomeno culturale, così anche la filologia non sorse dal nulla e, benché le testimonianze
siano estremamente scarse e confuse e benché l'affermarsi della scuola alessandrina abbia inevitabilmente
finito per gettare ombra su quanto l'aveva preceduta, possiamo cautamente ipotizzare alcuni precursori.
Il canale principale per fare un po' di luce sulla filologia pre-alessandrina è la scoliastica: ad esempio uno
scolio attribuisce una ékdosis, cioè un'edizione, ad Antimaco di Colofone, un poeta che visse nel V secolo
a.C., ma non sappiamo altri particolari.
Più noto, ma non per questo più chiaro, è il presunto intervento di Pisistrato (metà VI secolo a.C.), che
pare essersi limitato, di fronte ai versi “sparsi” di Omero, a chiamare quattro saggi e ad incaricarli di
unificare i canti, arrivando ad un testo dell'Iliade e ad uno dell'Odissea. Nostra fonte in proposito è Cicerone
(De oratore 3, 197), che di Pisistrato dice: primus Homeri libros confusos antea sic disposuisse dicitur ut
nunc habemus (“si dice che fu il primo a disporre i libri di Omero, prima dispersi, nell'ordine in cui oggi li
possediamo”). Prima del tiranno, i canti omerici erano sparsi, cioè esistevano e venivano eseguiti
singolarmente; l'operazione di Pisistrato aveva quindi il fine pratico di depositare una copia ufficiale dei
poemi, a cui dovevano attenersi gli aedi e i rapsodi nelle gare.
Mentre di Pisistrato bisogna immaginare che sia un nome simbolo dietro cui si cela una fase e che al
massimo commissionò i lavori dell'edizione e di certo non la eseguì personalmente, ci sono notizie di una
presunta edizione dell'Iliade curata da Aristotele. Questa suggestiva possibilità, benché troppo spesso
rifiutata a priori dagli studiosi, ha un riscontro nelle fonti che parlano con precisione di una ékdosis
dell'Iliade che il filosofo regalò ad Alessandro Magno; l'edizione è inoltre plausibile alla luce di un'altra
opera perduta, i Problémata omeriká, che sappiamo Aristotele certamente scrisse.
La Suda, una sorta enciclopedia storica del X secolo, definisce il poeta Filita di Cos (340 – 285 a.C. circa)
con l'endiadi “poietès áma kài kritikós”, cioè filologo: quest'unione di poesia e filologia sarà poi caratteristica
degli alessandrini, tanto che in alcune fonti Filita è maestro di Zenodoto, il primo bibliotecario ad
Alessandria.
Una conferma sull'esistenza di questi antecedenti la offrono gli stessi alessandrini, che parlano talvolta di
ekdóseis kat'ándra e katà póleis, cioè di edizioni classificabili a seconda dell'autore o della città: questo
indizio ci fa dedurre che gli alessandrini avessero a disposizione non un solo testo omerico, ma diverse
edizioni, addirittura tanto numerose che vi fu il bisogno di catalogarle, ma che per noi restano un assoluto
mistero. Recuperiamo solamente la testimonianza di tre edizioni kat'ándra: quelle di Pisistrato, di Antimaco
e di Aristotele.
Possediamo molte più notizie sugli studiosi, di letteratura ma anche delle scienze, che confluirono ad
Alessandria grazie al mecenatismo della dinastia regnante dei Tolomei. Costoro istituirono infatti il Muséion,
un tempio in onore delle Muse che era al contempo la sede di una comunità letteraria e scientifica, fondata
probabilmente da Tolemeo Filadelfo circa il 280 a.C. e mantenuta a spese del re.
Parte essenziale di questa fondazione era la celebre biblioteca, per la cui creazione già Tolomeo Sotèr,
attorno al 295 a.C., aveva chiamato ad Alessandria Demetrio Falereo, allievo di Teofrasto. La biblioteca, che
mirava a radunare una collezione completa della letteratura greca e non solo, arrivò a possedere ben 490.000
rotoli di papiro, per un totale di 200.000 opere (in quanto certe opere erano contenute in più di un rotolo).
Considerando che i testi copiati a mano sono facilmente soggetti a corruttele e che i libri pre-ellenistici non

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aiutavano in lettore in nessuna difficoltà (mancavano infatti la punteggiatura e gli accenti – fondamentali per
il greco classico – e si usava la scriptio continua, cioè le parole non erano staccate tra loro), in molti passi era
molto difficile comprendere il senso voluto dall'autore: si capisce così il grande incentivo che questa
affluenza di opere suscitò a sistemarne il testo, avviando i metodi filologici. Non a caso cinque dei primi sei
bibliotecari di Alessandria (Zenodoto di Efeso, Apollonio Rodio, Eratostene di Cirene, Aristofane di
Bisanzio ed Aristarco di Samotracia) furono trai più famosi letterati del loro tempo. Dipende molto dalla loro
attività e dal successo dei loro metodi se i classici greci si sono conservati fino a noi in uno stato abbastanza
libero da corruttele.
La filologia alessandrina promosse un sistema per aiutare i lettori, a partire dalla normalizzazione
all'ortografia ionica di tutti i testi scritti nell'antico alfabeto attico (distinzione di quei dittonghi prima
espressi semplicemente con le vocali épsilon o ómicron). Ulteriore sussidio fu il miglioramento del metodo
di punteggiatura e l'invenzione del sistema di accenti attribuiti ad Aristofane di Bisanzio.
La necessità di stabilire un testo spinse gli studiosi alessandrini a definire e ad applicare i principi della
filologia letteraria in modo sistematico, superando i precedenti isolati tentativi: per questo è da loro che
possiamo far partire la storia della filologia. Inoltre, la discussione dei passi spinosi non portò solamente a
preparare dei testi attendibili, ma anche a formare commenti in cui si motivavano le scelte, affrontando e non
eludendo le difficoltà del testo.
Ad Alessandria erano arrivate copie diverse di una stessa opera e si trattava quindi di stabilire il testo
corretto, di scegliere più che correggere: l'attività specifica di costituzione del testo, chiamata “diórthosis”
(emendatio), aveva come risultato la ékdosis, l'edizione. Poiché gli studiosi avevano a che fare anche con
opere straniere, un'altra attività era l'ermenéia (lat. interpretatio), il passaggio da una lingua all'altra che
implica però anche il passaggio da una cultura all'altra.
Zenodoto di Efeso inventò anche un sistema di segni diacritici, completato poi dai successori. Il segno
diacritico (seméion, chiamato dai latini “nota”) è un simbolo con cui si contraddistinguevano dei versi per
delle loro particolarità: l'esempio più ricorrente è l'obelós (“spiedo”), una lineetta orizzontale che indicava i
versi per cui si proponeva l'espunzione, ma che continuavano ad essere riportati nel testo, e per i quali si
rimandava alle corrispondenti note di commento nello upómnema, un rotolo a parte dal testo vero e proprio e
in cui erano raccolte tutte le notazioni critiche e di commento.
L'assetto finale del sistema dei segni diacritici è opera di Aristarco, che curò un'edizione completa sia
dell'Iliade che dell'Odissea. La complessità del sistema fu però il motivo principale per cui ebbe scarso
successo, essendo indicato solo per i lettori eruditi, e solo una piccola percentuale dei papiri sopravvissuti è
corredata di segni, mentre nei manoscritti medievali sono quasi del tutto assenti.
Gli alessandrini proponevano l'espunzione di versi sulla base di una specie di modello di testo ideale,
rispetto a cui qualcosa andava bene e qualcosa no; uno dei criteri riprendeva la critica platonica di taglio
contenutistico, che è la parte non più accettabile del metodo alessandrino. Tuttavia è indice della scientificità
dell'attività dei filologi alessandrini il fatto che riportarono sempre l'intero testo, limitandosi a segnalare le
parti che consideravano spurie e permettendone quindi la conservazione. Quando gli scolii parlano, ad
esempio, di Zenodoto che “ou gráfei” dei versi, bisogna intendere l'osservazione nel senso tecnico che non li
“legge”: nel linguaggio dell'edizione critica il verbo “gráfo” non si riferisce soltanto alla scrittura
(normalmente il verbo significa “scrivere”), ma al significato specialistico di “leggere”, cioè di “presentare il
testo in un certo modo”, così che il ricorrente termine grafé corrisponde esattamente a quella che ancor oggi
chiamiamo lectio.
Per la prima volta veniva prodotta una quantità di letteratura critica, una parte della quale altamente
specializzata: Zenodoto pare ad esempio aver scritto una vita di Omero e un trattato sul tempo dei fatti
narrati nell'Iliade, mentre Aristofane scrisse sulla regolarità della grammatica (Perì analoghías). La nostra
conoscenza di questi lavori viene solitamente dai frammenti di essi che sono stati successivamente
incorporati negli scolii, di norma trasmessi ai margini dei manoscritti medievali, che si rivelano quindi
ulteriormente preziosi.
Un altro motivo di lode a favore degli alessandrini e specialmente di Aristarco è lo sviluppo del principio
critico per cui la miglior guida all'uso di un autore è il corpus dei suoi stessi scritti, così che – dove è
possibile – le difficoltà del testo si dovrebbero spiegare con riferimenti ad altri passi dello stesso autore
(principio all'origine del detto Ómeron ex Oméru safenízein, “spiegare Omero a partire da Omero”). Questa
nozione è alla base di molte note negli scolii, dove si afferma che una data parola “è più tipicamente
omerica” di ogni altra alternativa. Ma bisogna rendere merito ad Aristarco per aver formulato anche un
principio complementare, cioè che molte parole in Omero – così come in ogni altro autore – ricorrono una

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volta sola (i cosiddetti ápax legómena), ma devono essere tuttavia accettate come originali e mantenute nel
testo.
La maggior parte del lavoro dei filologi alessandrini riguardò Omero, per l'abbondanza del materiale
disponibile e perché i poemi omerici costituivano per i Greci una sorta di “enciclopedia tribale” nazionale
(secondo la discussa definizione di Havelock). Tuttavia fu stabilito anche il testo della tragedia, rifacendosi
probabilmente alle copie ufficiali conservate ad Atene, e della commedia. Aristofane di Bisanzio inventò la
colorimetria dei brani lirici, cioè la suddivisione nei versi, che quindi non furono più scritti a guisa di prosa.
Fiorì inoltre la produzione di trattati sui vari aspetti del teatro e sempre ad Aristofane sono attribuiti gli
“argomenti” con il sunto della trama posti all'inizio delle opere teatrali. I segni marginali furono però usati
con molto più risparmio che nelle edizioni di Omero: il più comune pare essere la lettera x (chi), usata per
indicare un punto interessante e conservata in qualche manoscritto medievale.
Come la filologia alessandrina fu legata nel suo sorgere e nel suo fiorire alle provvidenze dei Tolemei, così
il loro venir meno corrispose alla fase di declino della scuola. L'evento traumatico si ebbe nel 145 a.C.,
quando Tolomeo VIII detto Usurpatore fece uccidere suo nipote Tolomeo VII, il legittimo erede al trono; i
filologi, in quel momento guidati da Aristarco e legati a Tolomeo VII, furono costretti a fuggire e si
dispersero. Fortunatamente, il grande grado di cultura raggiunto da generazioni di studiosi ad Alessandria
non svanì del tutto, ma si diffuse a Pergamo, Rodi e Atene, così che la filologia alessandrina termina mentre
prendono avvio quella di Pergamo e quella di Roma.

b. Pergamo e Roma: recuperi e innovazioni del metodo alessandrino


Pergamo, una città nella Troade, era il più piccolo dei regni ellenistici, governato dalla dinastia degli
Attalidi dal 241 fino a quando, nel 133 a.C., Attalo III lasciò in eredità a Roma il suo regno, che diventò
provincia romana. Questo fatto è significativo dello stretto legame che legava da tempo la cultura pergamena
a quella romana.
Come ad Alessandria, anche a Pergamo fu fondata una biblioteca dal re Eumene II agli inizi del II secolo
a.C., tanto che le fonte antiche – ancora una volta scarse ed imprecise – ci informano di una rivalità tra le due
città, che sarebbe addirittura sfociata in un embargo del papiro da parte di Alessandria per sfavorire la
biblioteca rivale; è curioso che, secondo un aneddoto, questa situazione stimolò la creazione della pergamena
come supporto scrittorio (in proposito cfr. oltre).
La maggior parte delle notizie che possediamo su Pergamo riguarda la filosofia, in quanto fu un importante
centro del pensiero stoico; ciò non fu privo di risvolti che riguardavano anche la filologia, in quanto
comportò un certo modo di studiare i testi, con un'attenzione particolare all'interpretazione. Caratteristico dei
filologi pergameni fu infatti un metodo interpretativo molto attento ai significati più profondi del testo, in
una sorta di anticipazione della moderna ermeneutica, studiando i simboli e le allegorie.
Le differenze rispetto alla filologia alessandrina sono evidenti già nella notazione fondamentale che a
Pergamo – per quanto ne sappiamo – non fu eseguita alcuna edizione di classici; qui i filologi sembrano
essersi limitati a brevi monografie su punti specifici, talvolta in diretta polemica con gli Alessandrini.
Tra gli esponenti di spicco della scuola pergamena ci fu Polemone, che si soffermò nella topografia e nelle
iscrizioni, campi della filologia storica che erano rimasti per lo più inesplorati dalla scuola alessandrina.
Il nome più noto legato a Pergamo è Cratete di Mallo (200 – 140 a.C. circa), che lavorò su Omero e
produsse alcuni emendamenti conservati negli scolii. Cratete si occupò in particolare della geografia
omerica, cercando di conciliarla con la dottrina stoica. Fu inoltre il primo greco che tenne pubbliche lezioni
di letteratura a Roma, in una circostanza su cui è fiorito un gustoso aneddoto raccontato da Svetonio e che
sarebbe all'origine della nascita della filologia a Roma.
Oltre ad occuparsi di Omero, su cui possediamo un trattato di un certo Eraclito, gli stoici di Pergamo si
dedicarono intensamente alla grammatica e alla linguistica, che utilizzavano per ricercare significati
allegorici nascosti ad un primo livello di lettura.
Molto interessante è l'autosuggestione ideologica riguardo al nostro argomento dei Romani, che fanno
avviare la grammatica, cioè la filologia, nell'Urbe per opera di uno straniero, nel contesto di una popolazione
fino ad allora interessata solo alla guerra. Infatti, come accennavamo sopra, Svetonio nel De grammaticis et
rhetoribus racconta che, durante un'ambasceria a Roma nel 169-68 a.C., Cratete di Mallo si sarebbe rotto una
gamba inciampando in una fognatura e avrebbe così impiegato il tempo della convalescenza tenendo delle
conferenze sulla poesia e generando imitatori.
Indipendentemente dalla veridicità dell'aneddoto e consapevoli che l'infiltrazione graduale della cultura
ellenistica era governata senza dubbio da fattori più complessi della rottura di un osso, è certo che gli studi di

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Cretete ebbero un notevole influsso su quelli che si praticarono a Roma, in particolare nella loro attenzione
alla lingua. Ne furono influenzati personaggi importanti come Elio Stilone, vissuto tra II e I secolo a.C. e di
cui non ci è arrivato niente di completo, e Varrone, di cui possediamo il De lingua latina, in cui vengono
trattati anche i problemi teorici della lingua, come quello se sia dominata da criteri razionali (analogia) o
segua la tendenza dell'uso (anomalia).
Lucio Elio Stilone, che pare aver imparato i metodi della filologia alessandrina a Rodi da Dionisio il Trace,
è citato dalle fonti come il primo studioso in Roma che abbia usato i segni critici convenzionali degli
Alessandrini.
Elio influì molto sul suo allievo Varrone (116 – 27 a.C.), che fu erudito in vari campi, con speciale
interesse per la storia letteraria, il dramma e la linguistica. Tra i suoi meriti maggiori c'è senza dubbio l'aver
selezionato tra le numerosissime commedie diffuse sotto il nome di Plauto un canone di ventun testi, che
passarono alla posteriorità quali genuine e furono note come “fabulae Varronianae”, le uniche conservateci
dai manoscritti. Stabilire il testo di scrittori arcaici come Plauto coinvolgeva numerosi problemi di critica
testuale e la consapevolezza di Varrone riguardo a tali problematiche risulta dalla sua definizione di
emendatio come recorretio errorum qui per scripturam dictionemve fiunt (“correzione degli errori che si
verificano a causa dello scrivere e della dettatura”, fr. 236 F). Varrone era esperto anche nell'interpretare
parole rare o difficili; abbiamo tracce di questa sua abilità in quel poco che ci è giunto della sua vasta
produzione e nel primo lessico latino, l'autorevole De significatu verborum del filologo augusteo Verrio
Flacco.
Il De grammaticis et rhetoribus di Svetonio è l'unica storia della filologia latina che possediamo, in cui
vengono elencati grammatici (“filologi” e non “grammatici”, come talvolta erroneamente si trova tradotto)
per noi quasi o del tutto sconosciuti, come Gneo Ottavio Lampadione e Quinto Vargunteio.
Tra gli studiosi maggiori ci fu l'iberico Gaio Giulio Igino (64 a.C. - 17 d.C. circa), primo direttore della
biblioteca Palatina (l'importante biblioteca pubblica fondata da Augusto nel 28 a.C.) e uno dei primi studiosi
dell'Eneide, e Marco Valerio Probo di Beirut, il più importante filologo di lingua latina, editore delle
commedie di Terenzio e di molti altri testi arcaici e contemporanei, fino a Virgilio, Orazio e Lucrezio.
Benché sia prevalso il pregiudizio per cui la filologia romana sia d'impronta pergamena, la critica del testo
praticata a Roma trova forse maggiori corrispondenze con la scuola alessandrina piuttosto che con quella
pergamena. Comunque, senza dubbio la grande attenzione linguistica in Elio Stilone e in Varrone derivò da
Pergamo, mentre possediamo molte meno fonti di come i filologi romani si ispirassero a quelli alessandrini.
Nel II secolo si assistette ad una decadenza nella letteratura creativa, accompagnata da un conseguente
interesse “accademico” per gli scrittori del passato; tale culto dell'antico, oltre a produrre gli effetti più
barocchi nella prosa del tempo, fece sì che gli autori dei primi tempi della Repubblica fossero studiati con
interesse. Proprio a questo risveglio dobbiamo molta parte di ciò che conosciamo di Ennio, Plauto, Catone e
di figure minori, che avrebbero avuto scarse probabilità di sopravvivenza a causa della loro lingua arcaica ed
oscura senza che venissero studiati e quindi chiariti e commentati.
Nel secoli successivi, durante i quali furono prodotti tanti manuali elementari e stereotipati di retorica e di
grammatica, si assistette anche alla fioritura dei commentatori e degli scoliasti: i più noti sono Acrone e
Porfirione per Orazio e due grandi studiosi del quarto secolo, Donato e Servio. Elio Donato, forse di origine
africana, scrisse su Terenzio e Virgilio e fu autore delle due grammatiche Ars Minor e Ars Maior (secondo
alcune ipotesi parti della stessa opera). Servio Mario Onorato scrisse un lungo e dettagliato commento di
Virgilio, di cui possediamo due versioni: quella originale è il cosiddetto “Servius minor”, mentre la seconda,
accresciuta e più tarda, è il cosiddetto “Servius auctus” o “Servius Danielinus”.

c. La posizione dei Cristiani e l'Impero bizantino


S'è da sempre molto discusso sul ruolo che i Cristiani avrebbero avuto nel selezionare la letteratura classica
che poi ci è giunta e spesso sono state fatte delle forzature. Non v'è dubbio che una delle ragioni principali
della perdita di molti testi pagani sia stato il disinteresse che la maggior parte dei Cristiani ebbero a leggerli,
ma questo non implica già che volessero eliminarli: semplicemente, essi trascrissero maggiormente – come è
logico – i testi che più li interessavano.
D'altronde, i pregi letterari dei classici erano riconosciuti anche da buona parte dei Cristiani e da alcuni
Padri della Chiesa, che non solo li leggevano ma da cui anche estraevano esempi e massime morali in linea
con gli insegnamenti cristiani. I testi pagani, inoltre, venivano utilizzati in modo considerevole nelle scuole,
anche perché nei primi secoli dell'era cristiana erano difficilmente sostituibili in quel ruolo didattico; se
v'erano contenuti dei passi in contrasto con la nuova religione, si ricorreva di solito ad un'interpretazione

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allegorica. Ad esempio San Basilio di Cesarea (IV secolo) scrisse un trattato per consigliare i giovani
cristiani sul modo migliore per trarre profitto dalla letteratura greca. San Gregorio Nazianzeno, nello stesso
secolo, criticava addirittura quei cristiani che rigettavano aprioristicamente le opere dei pagani.
Infine, bisogna considerare la necessità, per i seguaci del Cristianesimo, di attirare i pagani colti, per il
quale scopo era utile mostrare che alcuni del concetti principali della nuova fede si potevano discutere con i
termini presi dai filosofi classici, specialmente stoici e platonici. Esempi in questa direzione sono dati da
Giustino e Clemente Alessandrino (II secolo), i quali operarono una sorta di fusione tra il pensiero greco e
quello cristiano.
Entrando nel campo più strettamente filologico, Origene (II-III secolo), uno tra i maggiori teologi cristiani
dei primi secoli, adattò al Vecchio Testamento il sistema dei segni marginali usato dai critici alessandrini.
Nei suoi Exempla, inoltre, inventò il metodo di presentare il testo ebraico e le sue versioni in colonne
parallele, in una sorta di prefigurazione delle moderne edizioni di opere straniere con il “testo a fronte”.
A differenza dell'opinione diffusa, almeno in questi primi tempi il rapporto tra Cristianesimo e tradizione
classico-pagana fu di coesistenza pacifica e costruttiva. Solo per un momento la persecuzione anti-cristiana
di Giuliano l'Apostata (nel 362) stimolò Sant'Apollinare a costruire un piano di studi unicamente cristiano,
ma il progetto ebbe poco successo, anche perché, una volta cessate le persecuzioni, ne venne meno
l'esigenza.
Ancora più falsa è la credenza che la Chiesa impose ufficialmente una censura della letteratura pagana e
praticò la consuetudine di bruciarne i testi: una semplice prova è che ancora nel VII secolo in Egitto si
leggevano le odi di Saffo. Resta sì qualche notizia di alcuni roghi di libri, ma erano riservati unicamente alle
opere di Cristiani caduti nell'eresia o comunque non ortodossi: questo fervore distruttivo rispondeva quindi
all'esigenza di conservare il messaggio dottrinale originario, non alla volontà di oscurare la cultura pagana.
La famosa affermazione dell'umanista Pietro Alcioni secondo cui le autorità ecclesiastiche fecero bruciare i
testi dei poeti pagani non è sostenuta da alcuna prova.
Giunti alle soglie del V secolo, risulta necessario distinguere tra l'Impero Romano d'Oriente e quello
d'Occidente, che presentano un panorama significativamente differente tra loro e che sinteticamente
analizzeremo, rispettivamente, ora e nel prossimo paragrafo.
L'atteggiamento tollerante della Chiesa rimase sostanzialmente inalterato durante tutto il periodo bizantino
e, benché la decadenza generale del mondo antico incalzasse rapidamente, gli studi ad alto livello nella parte
orientale dell'Impero restarono fiorenti: gli autori classici mantennero il loro posto nelle scuole ed illustri
personaggi dell'alto clero continuarono a figurare tra gli studiosi più competenti di letteratura greca. Nelle
principali città, come Alessandria, Costantinopoli, Antiochia, Atene, Beirut e Gaza, troviamo scuole che
costituivano le università del mondo antico; d'altronde, la necessità di simili organizzazioni derivò dal
moltiplicarsi degli uffici civili romani, poiché il governo ricercava funzionari dotati di un'istruzione liberale e
di buono stile.
Anche l'Impero bizantino, tuttavia, affrontò una grave crisi culturale nel VI secolo e una per una le scuole
decaddero o vennero chiuse: giustamente nota è la significativa chiusura, ad opera di Giustiniano nel 529,
della scuola filosofica di Atene. La filologia non fu particolarmente incoraggiata, ma raggiunse comunque un
importante risultato: è in questo periodo che gli antichi commentarii furono ridotti alla forma di scolii, posti
cioè nei margini dei codici anziché in volumi separati. Questa operazione consisteva essenzialmente in una
compilazione e selezione della vastissima quantità di note di commento accumulatesi nel tempo; la scelta del
materiale delle opere esegetiche precedenti da mantenere – se è lecito fare un appunto a posteriori – avrebbe
dovuto essere svolta da studiosi più attenti, in modo che forse si sarebbero evitate le molte note insulse o
irrilevanti che si sono conservate fino ad oggi.
Una caratteristica generale del periodo è il progressivo restringersi della gamma di letteratura normalmente
letta, che non per forza dipese dalla scelta consapevole operata da un determinato studioso (secondo invece
una tesi che godette in passato di un certo seguito). Tuttavia, non si deve esagerare a datare già a quest'epoca
la scomparsa di quasi tutte le opere classiche che non si sono conservate: infatti il patriarca Fozio, nel IX
secolo, lesse molti libri in seguito scomparsi e dei quali non sappiamo nulla più delle notizie dateci da lui.
I primi veri frutti della filologia bizantina appartengono alla metà del IX secolo, quando uomini di notevole
valore seppero sfruttare le proprie doti grazie ad una situazione dell'Impero più prospera e di pace. Il
rinascere della cultura fu in concomitanza, e fu di certo avvantaggiato, da una serie di mutamenti tecnici
nella fabbricazione dei manoscritti: su tutti, l'introduzione della scrittura minuscola, che occupava molto
meno spazio sulla pagina e che poteva essere scritta ad alta velocità, e l'applicazione della carta, appresa dai
Cinesi attraverso la mediazione degli Arabi.

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Si assistette così alla traslitterazione dei testi dalla vecchia scrittura onciale alla nuova scrittura minuscola:
in gran parte è dovuto all'attività degli studiosi del IX secolo se la letteratura greca può essere ancora letta,
perché i nostri testi di quasi tutti gli autori dipendono da una o più copie scritte in minuscola proprio in
quest'epoca, mentre il patrimonio letterario cui possiamo accedere attraverso i papiri e i manoscritti in
maiuscola è minimo.
Il personaggio più di spicco è senza dubbio Fozio I detto il Grande (810 – 891 circa), uomo di eccezionale
cultura e per due volte patriarca di Costantinopoli, che sembra essere stato a capo anche di una sorta di
circolo letterario privato. Fozio scrisse, come consolazione al fratello Tarasio, un riassunto dei libri che forse
erano letti e discussi alle riunioni del “circolo”, creando un'opera straordinaria ed affascinante, chiamata
Bibliotheca o Muriobiblios, dove l'autore appare l'inventore della recensione ai libri: nei 280 paragrafi è
riassunta e commentata una vasta scelta di opere pagane e cristiane, di cui molte ora perdute. Altrettanto
importante è il suo Lessico, la cui prima copia completa fu scoperta solo nel 1959, soprattutto perché
contiene brevi citazioni di classici ora non più accessibili.
Successivamente fiorirono le compilazioni enciclopediche, curate tra gli altri anche dall'imperatore erudito
Costantino VII Porfirogenito (prima metà del X secolo). Forse nella seconda metà di questo secolo un
gruppo di studiosi collaborò alla Suda, che può essere definita come la combinazione di un dizionario e di
un'enciclopedia elementare: nonostante una certa quantità di materiale dubbio o erroneo, questo testo è di
straordinaria importanza perché contiene un gran numero di articoli su personaggi e soggetti classici, di cui
talvolta è l'unica fonte che conosciamo.
Più tardi, ormai agli inizi del XII secolo, si assistette anche ad un risveglio della filosofia, con Aristotele al
centro degli studi. La figura principale nella filologia di quest'epoca è quella di Eustazio di Tessalonica,
importante insegnante di retorica e vescovo. I suoi lavori più importanti sono i commenti agli autori classici,
in particolare ad Omero: si tratta essenzialmente di compilazioni con solo modesti contributi personali, ma
apprezza le interpretazioni allegoriche e critica in più punti Aristarco per non averle adoperate.
Altri studiosi notevoli tra XII e XIII furono Giovanni Tzetzes, che diresse una scuola a Costantinopoli e
scrisse commenti ad Aristofane, Esiodo e parte di Omero; Michele Coniate, possessore dell'Ecale di
Callimaco, un rarissimo libro che non si è poi conservato; il monaco Massimo Planude, che diresse una
scuola, eseguì molte traduzioni dal latino e redasse la cosiddetta Anthologia Planudea, che conserva oltre
2.300 epigrammi.
Figura di spicco del XIV secolo fu Demetrio Triclinio, anch'egli maestro di scuola a Tessalonica; egli fu il
primo tra i Bizantini ad avere padronanza della metrica classica e sfruttò questa conoscenza nei suoi lavori
filologici sui poeti. Redasse inoltre in una nuova forma gli scolii a vari autori, vagliando – questa volta
accuratamente – il materiale e selezionando quello che gli pareva più utile per la scuola. Il merito forse
maggiore del Triclinio è il lavoro eseguito su Euripide, in quanto dobbiamo a lui la nostra conoscenza di
quasi metà delle opere dell'ultimo grande tragediografo classico.
Il merito principale dei Bizantini fu di essersi interessati ad una folta schiera di classici, a conferma
dell'atteggiamento positivo anche nei confronti degli autori pagani, e così di averli conservati finché studiosi
successivi furono in grado di adoperarli. La loro tradizione filologica fu ripresa dagli umanisti italiani, per
molti aspetti simili ai loro colleghi bizantini; tanti codici, infatti, furono portati dall'Impero bizantino in Italia
a partire dal XIV secolo e furono ancora per molto tempo attivamente ricercati in terra greca.

d. L'Occidente: crepuscolo e rinascite


Passando all'Impero Romano d'Occidente, il sesto secolo vide il crollo finale di quanto ne rimaneva. La
scuola e la cura dei libri stavano rapidamente passando nelle mani della Chiesa e i Cristiani di questo periodo
erano maggiormente ostili alla letteratura pagana. Tuttavia, in centri ecclesiastici come Roma, Ravenna e
Verona si conservavano fondi cospicui anche di opere classiche e i codici cominciavano a trovare rifugio
anche presso i monasteri. Proprio i centri del monachesimo erano destinati, spesso loro malgrado, a sostenere
la parte principale nel preservare e nel tramandare alla posterità ciò che restava dell'antichità pagana.
Un primo esempio di tradizione monastica è costituito dal cenobio di Vivario, che Cassiodoro fondò poco
dopo il 540 vicino a Squillace (nell'attuale Calabria): il fondatore comprese l'importanza del ruolo che i
monasteri avrebbero svolto nei secoli successivi, quando, con la disintegrazione della vita politica, avrebbero
offerto la migliore speranza di continuità intellettuale. Cassiodoro fu inoltre attivo nel tradurre in latino
autori greci, oltre che di letteratura, di esegesi, di filosofia e di scienza. Benché il monastero di Cassiodoro
sembra inspiegabilmente essere scomparso con lui, esso rappresenta per noi l'unico esempio noto di
biblioteca nel VI secolo.

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Altre importantissime fondazioni furono quella dell'abbazia di Montecassino (nel Lazio), circa nel 529 ad
opera di San Benedetto da Norcia, e quella del grande monastero di Bobbio (in provincia di Piacenza), ad
opera di San Colombano nel 614.
Uno dei filologi principali di questo periodo fu Isidoro di Siviglia (570 – 636 circa), Santo e Dottore della
Chiesa, che divenne presto uno dei più autorevoli vettori nella trasmissione e nella spiegazione del sapere
antico. I suoi venti libri di Etymologiae, infatti, sono allo stesso tempo l'ultimo prodotto della tradizione
enciclopedica romana e il punto di partenza per la maggior parte delle compilazioni medievali: colma di
informazioni vere ed erronee sopra ogni argomento, questa enciclopedia, benché sistematica, propone spesso
false etimologie e talvolta tratta di assurde quisquilie, tanto che non si può leggerla senza sorriderne. Tuttavia
Isidoro merita rispetto per il suo limpido apprezzamento della conoscenza fine a se stessa.
Il periodo che va dal 550 al 750 circa fu davvero, per i classici latini nell'Europa continentale, di oscurità
monotona e quasi completa, tanto che essi non furono praticamente più copiati: in mezzo al gran numero di
codici patristici e liturgici di questo periodo, sopravvivono pochissimi testi pagani. Il triste destino che
talvolta colse i libri dell'antichità è illustrato dai palinsesti (per i palinsesti cfr. oltre): bisogna sottolineare
ancora una volta, però, che queste perdite non avvennero perché gli autori pagani fossero osteggiati, ma
perché non c'era interesse a leggerli e la pergamena era troppo preziosa per contenere un testo scarsamente
usato. Parimenti, anche opere cristiane, eretiche o non più utili, ebbero la peggio e furono raschiate per far
posto ad altre in quel momento più richieste.
Fortunatamente per la storia della cultura, era già sorto un nuovo movimento culturale che attribuiva ai
classici un valore più alto del prezzo della loro pergamena, ed era sorto in un remoto avamposto della
Cristianità, come l'Irlanda. Questa era un paese di cultura latina fin dal tardo quinto secolo ed ebbe la sua
principale figura letteraria in San Colombano (VI-VII secolo). Gli studiosi irlandesi furono caratterizzati da
una passione intesa e priva di inibizioni, così che lessero con l'attitudine a imparare anche le opere della
cultura classica pagana; la loro attiva laboriosità produsse nel corso del VII e dell'VIII secolo una notevole
massa di scritti esegetici e grammaticali.
La cultura anglo-latina, grazie alle figure di grandi viaggiatori come Benedetto Biscop, si diffuse in gran
parte dell'Europa continentale e, di pari passo con il sorgere di importanti centri episcopali e di nuove
fondazioni monastiche, comportò la necessità di biblioteche e scriptoria (i centri scrittori). Gli Anglo-sassoni
portavano con sé una propria scrittura, dei propri libri, una mentalità liberale e il principio che una biblioteca
ben fornita fosse alla base dell'istruzione ecclesiastica. Questa spinta, che culminò alla fine nella persona di
Alcuino, oltre a rifornire praticamente di libri, scriptoria e amanuensi l'Europa, ebbe un effetto
importantissimo sulla ripresa – e quindi sulla sopravvivenza – della letteratura latina.
Il rifiorire dei classici alla fine dell'VIII e all'inizio del IX secolo si svolse sullo sfondo di un Impero
ricostituito e saldato assieme, temporaneamente, in unità politica e spirituale dalla personalità dominatrice di
un imperatore come Carlo Magno, che univa la benedizione di Roma alle sue risorse militari e materiali.
Benché questa costruzione politica si sgretolasse nelle mani dei successori, il movimento culturale promosso
mantenne il suo impeto durante tutto il IX secolo e sopravvisse anche nel X.
Sentendo la forte responsabilità personale di alzare il livello intellettuale del suo clero e dei suoi sudditi,
Carlo Magno si rivolse a York, che allora era il centro di cultura dell'Inghilterra e dell'intera Europa, e nel
782 invitò Alcuino ad assumersi l'incarico della scuola Palatina e a diventare suo consigliere in materia di
istruzione. L'editto imperiale che costituì scuole annesse a monasteri e cattedrali garantì che un livello
minimo di istruzione elementare sarebbe stato mantenuto nella futura Europa; altra conseguenza
fondamentale della riforma scolastica fu il bisogno di libri, che furono apprestati in misura senza precedenti,
in un fervore di attività che salvò la maggior parte della letteratura latina. Inoltre, la corte divenne il centro di
fruttuosi scambi tra poeti e studiosi attirati da ogni parte del continente.
L'uso di copiare codici si diffuse rapidamente in tutto l'Impero e gli esemplari degli antichi manoscritti
classici, con le loro imponenti scritture maiuscole, furono trasformati in copie in scrittura minuscola, che
presto generarono altri discendenti. Alla fine del IX secolo alcuni autori erano così solidamente legati alla
tradizione letteraria e scolastica e così presenti nelle biblioteche che la loro conservazione era ormai sicura;
d'altra parte, alcuni autori esistevano ancora in così poche copie – talvolta in una sola – che il loro futuro era
estremamente precario: è incredibile considerare come per molti testi sopravvisse, fino al periodo carolingio,
solo una copia e spesso ormai molto logora, così che il minimo accidente avrebbe potuto privarci di alcuni
dei nostri più preziosi testi, come Catullo, Tacito, Petronio o Properzio.
La rinascita della filologia in età carolingia comportò il consumo di una sbalorditiva quantità di
pergamena: dilagò infatti una marea di pubblicazioni, dalla poesia creativa alla storia, dalla biografia

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all'agiografia alla teologia, dalla filosofia all'esegesi biblica, dalla retorica alla dialettica, alla metrica e alla
grammatica. Tutto questo ha una notevole importanza anche per il nostro argomento, in quanto qualunque
cosa richiedesse uno studio ed un uso sofisticato della lingua e della letteratura latina favorì la tradizione
classica.
Lo studioso principale fu Lupo di Ferrières (805 – 862 circa), autore del famoso detto propter se ipsam
appetenda sapientia (“la sapienza dev'essere raggiunta per se stessa”) e sembrò già per certi aspetti
preannunciare il Rinascimento. Egli scrisse in tutta Europa alla ricerca di libri e, benché non fosse l'unico
ricercatore di manoscritti dei suoi tempi, il suo merito particolare consiste nel fatto che era avido di
possedere codici di opere che possedeva già, per poter poi correggere e supplire la sua copia mediante una
collazione.
Questo slancio subì una frenata nel X secolo, durante il quale si verificò un abbassamento generale nel
livello della cultura e un calo nella produzione dei manoscritti classici; tuttavia gli autori latini continuarono
a venire studiati e quindi copiati e ci furono comunque alcuni valorosi studiosi, come Raterio e Gerberto.
Raterio, vescovo di Liegi e per ben tre volte di Verona, possedeva una cultura classica di straordinaria
ampiezza e conosceva due testi rari come Plauto e Catullo. Gerberto di Reims fu tutore di Ottone III e al
centro del risveglio intellettuale in Germania; grande insegnante, pioniere della matematica e attivo
raccoglitore di libri, fu tra l'altro abate a Bobbio e infine papa con il nome di Silvestro II. Già dalla sua figura
traspaiono i fruttuosi contatti fra Italia e Germania nati durante il Sacro Romano Impero e le scuole tedesche
tra X e XI secolo contribuirono notevolmente alla causa della cultura classica.
L'avvento più grandioso nella storia degli studi latini nell'XI secolo fu il risveglio di Montecassino: fatto
stupefacente, in quanto la casa madre dell'ordine benedettino ebbe il suo momento di massimo splendore
proprio quando esso stava declinando come forza cultura dell'Europa. La sua splendida fioritura artistica e
intellettuale, che raggiunse l'apice sotto l'abate Desiderio (1058 – 87), fu accompagnata da un rinnovato
interesse per i testi classici: tra XI e XII secolo a Montecassino e nei centri connessi fu scritta una
meravigliosa serie di codici beneventani di autori pagani. Inoltre, con una campagna di ricerca, furono
recuperati parecchi testi che avrebbero potuto altrimenti andare perduti per sempre: a questo solo monastero
e a questo periodo dobbiamo la conservazione dell'ultima parte degli Annali e delle Storie di Tacito,
dell'Asino d'oro di Apuleio, dei Dialoghi di Seneca e del De lingua latina di Varrone.
L'insegnamento, però, stava ormai passando gradualmente dai monaci e dai monasteri al clero secolare
delle scuole delle cattedrali e delle città. I cenobi conservavano la loro importanza per le ricche biblioteche e
per gli scriptoria, cioè come centri culturali, ma la vita intellettuale più creativa passò alle scuole capitolari,
che crebbero rapidamente a partire dalla metà dell'XI secolo e, in alcuni casi, si trasformarono nelle prime
università.
Questo nuovo rinascimento consolidò per quanto riguarda la filologia i guadagni della rinascita carolingia:
autori fondamentali nella cultura medievale o graditi al gusto del tempo venivano copiati in quantità
notevoli, tanto che per scrittori popolari come Ovidio e Seneca possediamo un numero di codici scritti nel
XII secolo maggiore addirittura quattro o cinque volte rispetto a quelli scritti in tutti i secoli precedenti messi
insieme. La qualità di queste numerose copie non era sempre altissima, ma talvolta l'ampliarsi della
tradizione arrecò anche vantaggi al testo.
Alla fine del XII e durante tutto il XIII secolo le scuole e le università si concentrarono più nell'assimilare
ed organizzare il materiale e le idee portate a galla dal recente fermento intellettuale piuttosto che nel fare
nuove scoperte. Le armi adoperate per ridurre a sistema le conoscenze acquisite furono la logica e la
dialettica, scienze che dominavano non soltanto la filosofia e la teologia, ma anche la grammatica e l'esegesi
letteraria.
Dobbiamo tuttavia registrare anche taluni inconvenienti nell'atteggiamento culturale di quest'epoca: quando
l'eredità classica fu assorbita nel sistema del pensiero contemporaneo, caratterizzato da una forte tendenza
all'allegoria e alla rielaborazione, ne fu inevitabilmente travisata. Inoltre, le ampie letture degli antichi autori
cedettero il posto ai più pratici manuali e i nuovi trattati di grammatica e di retorica erano spesso di carattere
scolastico. I classici furono un po' relegati al ruolo di autorevole fonte per aneddoti morali e curiose
informazioni di ogni genere: la loro attrattiva non era più costituita dalla forma e dallo stile, mentre la loro
materia poteva essere ridotta ad estratti ed exempla. Si comprende così che il secolo del trionfo finale del
Medioevo in molti campi non è particolarmente attraente per il filologo classico. I codici si riversarono sì sul
mercato, ma il testo degli autori copiati diventava sempre più corrotto di generazione in generazione; gli
stessi manoscritti, con il loro pesante aspetto gotico, erano meno belli di quelli scritti nei secoli precedenti.
Nonostante tutte queste difficoltà, i classici sopravvissero alla scolastica e compirono anzi progressi

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rilevanti grazie ai costruttori di sistemi filosofici e teologici, che talvolta assegnarono un posto importante
alla letteratura pagana. Vincenzo di Beauvais (XIII secolo) fu il più monumentale enciclopedista del
Medioevo e il suo Speculum maius fu un tentativo di ridurre in un unico corpus tutto lo scibile: la sua opera è
importante perché, benché l'autore fosse in teoria un anti-pagano, comprese il valore dei testi profani e difese
l'uso che ne fece, attingendo spesso agli scrittori antichi.

e. L'Umanesimo e i primi grandi filologi


Il movimento culturale dell'Umanesimo, in atto alla fine del XIII secolo in alcune parti dell'Italia e alla
metà del XVI diffuso in quasi tutta l'Europa, trasformò – insieme a molto altro – anche la tradizione e lo
studio dell'antichità classica. All'origine, infatti, esso fu un'attività letteraria, strettamente connessa con lo
studio e con l'imitazione dei classici; il carattere filosofico, più tardi sviluppato dall'Umanesimo, fu solo in
parte il risultato del suo originario indirizzo classico, incentrato sullo studio, sull'insegnamento e
sull'approfondimento della letteratura antica.
I primi umanisti erano per lo più notai o giuristi, in quanto la scuola di diritto in Italia occupava una
posizione di predominio e la ripresa del diritto romano a Bologna aveva riallacciato un deciso collegamento
con l'antichità. Altri elementi che favorirono il sorgere di questo prodigioso movimento culturale furono la
natura essenzialmente profana dell'istruzione in Italia, l'esistenza di una raffinata cultura urbana e l'emergere
di una classe di professionisti dotati di preparazione, mezzi e agio per coltivare gli interessi classici.
Con l'estendersi dell'influenza dell'Umanesimo ad altri campi, sorse la convinzione che il metodo di parlare
e scrivere bene risiedesse nell'uso dei modelli classici: così gli scrittori latini furono ripresi non solo come
materia di studio accademico, ma anche come base concreta dell'eloquenza. Fu proprio questa altissima
padronanza della lingua latina a permettere ai letterati del Rinascimento di far colpo sui loro contemporanei,
di denunciare i propri avversari, di tuonare in difesa di un credo o di una città. Successivamente, questo portò
ad uno studio appassionato e globale di tutti gli aspetti della vita antica e alla sensazione, benché illusoria, di
identificarsi con gli uomini e con gli ideali di quel mondo (segno distintivo di un neoclassicismo ante
litteram).
Il tentativo umanistico di avvicinarsi allo spirito classico e di rivivere il passato in termini contemporanei
trascendeva totalmente il modo medievale di accostarsi ad esso. La letteratura latina fu così emancipata dalla
dipendenza rispetto alla religione, sotto la quale era stata ridotta nei secoli precedenti. Di fatti l'Umanesimo
ebbe un carattere fondamentalmente profano, soprattutto a causa dell'esile ma ininterrotta tradizione di
insegnamento laico in Italia.
Gli umanisti sono stati spesso definiti “uomini di mondo”, per il loro operare essenzialmente “pubblico”:
se talvolta erano maestri di grammatica o di letteratura, più spesso erano notai, segretari pontifici o
cancellieri di città. Le loro collezioni di libri, spesso di numero notevole, la conseguente crescita di
biblioteche private e il commercio librario contribuirono a spezzare il monopolio ecclesiastico della cultura.
Tuttavia, l'Umanesimo prese piede anche all'interno della Chiesa ed illustri studiosi furono membri del clero.
L'avvio del movimento umanistico può essere individuato nel cosiddetto “pre-umanesimo” della seconda
metà del XIII secolo, quando alcuni ambienti giudiziari e notarili in area padano-veneta e toscana sentirono
l'esigenza di migliorare il livello del loro latino. Furono così riletti con nuovo entusiasmo gli autori antichi,
incominciarono le prime ricerche di nuovi manoscritti e sorsero delle piccole cerchie di letterati.
In particolare, fu molto attiva la cerchia sorta a Padova attorno al giudice Lovato Lovati (1241 – 1309), che
coltivava un intenso interesse per la poesia classica, possedeva un notevole fiuto per testi sepolti sconosciuti
da secoli e sapeva comunicare il proprio entusiasmo agli amici. Un altro membro del circolo padovano fu
Geremia da Montagnone, che, senza avere ambizioni letterarie, seguì la pista ben battuta del florilegista
didattico, componendo il Compendium moralium notabilium, che godette di una vasta diffusione e che pare
citi di prima mano gli autori (pregio ben raro prima dei letterati umanisti). Il successore “spirituale” di
Lovato fu il concittadino Albertino Mussato (1262 – 1329), notaio di professione, che seppe distinguersi
contemporaneamente nel mondo della politica, della diplomazia e della letteratura. Le sue approfondite
letture e ricerche lo portarono a scrivere delle Historiae, modellate sui maggiori storici latini (Livio, Sallustio
e Cesare). Nel 1315 scrisse una tragedia d'imitazione senecana, l'Ecerinis, che narra a tinte fosche l'ascesa e
la caduta dell'antico tiranno di Padova Ezzelino III: questa fu la prima opera nel suo genere scritta in metro
classico dopo l'antichità.
Il pre-umanesimo padovano filtrò presto nelle vicine città di Vicenza e Verona. Specialmente quest'ultima
avviò una tradizione di Umanesimo più filologico, che si riforniva dall'importante biblioteca capitolare. Un
personaggio importante fu Giovanni de Matociis, mansionario della Cattedrale veronese, che compose il

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primo lavoro critico di storia letteraria del Rinascimento, la Brevis adnotatio de duobus Plinios: basandosi su
un manoscritto veronese e su un testo di Svetonio, seppe dividere il Plinio composito nel Medioevo nel
Vecchio e nel Giovane.
La spinta ai classici ebbe un incremento notevole nel corso del XIV secolo, grazie all'opera sia letteraria sia
in vasta misura filologica di Petrarca e di Boccaccio.
Francesco Petrarca (1304 – 74) sovrasta i suoi precursori in ogni aspetto: a giudizio unanime fu poeta e
uomo incommensurabilmente più grande di ognuno di essi, i suoi orizzonti furono più vasti e soprattutto la
sua influenza, mai ristretta entro l'ambito di una città o di una provincia, si estese alla maggior parte
dell'Europa occidentale. Petrarca ebbe l'intuizione e l'abilità di unire i due fili dell'Umanesimo, quello
letterario e quello filologico, e arrivò più in là di chiunque altro nel tentativo di far rivivere attraverso il
diaframma di una società cristiana gli ideali dell'antica Roma. Trovandosi presso la sede papale di Avignone
e venendo in contatto con la ricca cultura classica della Francia tardo-medievale, imparò a cercare e
collazionare manoscritti: a lui, ancora poco più che ventenne, si deve il Livio più completo della sua epoca,
che corresse e postillò personalmente, facendone in un certo senso un'edizione; scoprì inoltre un manoscritto
di Properzio e la Pro Archia e le Epistulae ad Atticum di Cicerone. Petrarca raccolse così in breve una
biblioteca classica che, per vastità e qualità, non aveva uguali tra i contemporanei; più importante che il mero
possesso dei libri – era infatti facile degenerare in semplici bibliofili –, fu l'intensità con cui lesse e rilesse
quelli che riteneva più importanti. Una conseguenza fu, ad esempio, che sulle lettere di Cicerone e di Seneca
modellò le proprie, che costituiscono il suo più pregevole risultato in prosa.
Uno dei primi a cadere sotto l'influenza dell'Umanesimo di Petrarca fu il suo amico Giovanni Boccaccio
(1313 – 75), il quale, per la sua ammirazione per il più anziano poeta, si rivolse dal volgare al latino e dalla
letteratura all'erudizione. In realtà, come studioso Boccaccio rimase molto al di sotto del suo modello ed
anche le copie di manoscritti che eseguì personalmente riportano molti errori; tuttavia, fu un grande
raccoglitore di fatti di vita e di letteratura antica e i suoi trattati enciclopedici di biografia, geografia e
mitologia classica godettero di una notevole popolarità, contribuendo a promuovere la diffusione e la
comprensione della letteratura antica. Boccaccio nutriva un appassionato interesse per la poesia, che lo portò
verso i sentieri meno battuti della latinità, come all'Ibis di Ovidio (un poemetto d'invettiva in distici elegiaci)
e all'Appendix Vergiliana. Tra i suoi contributi alla filologia vanno citati i codici che portò a Firenze da
Montecassino, che spesso copiò per Petrarca, e il tentativo – per allora fallito – di instaurare in città lo studio
del greco.
Un forte limite all'attività umanistica di studiosi come Petrarca e Boccaccio era costituito proprio
dall'ignoranza del greco. Le prime lezioni regolari di greco in Italia (e in tutta l'Europa occidentale) furono
quelle dell'umanista bizantino Manuele Crisolora, tenute a Firenze nel 1397. L'ondata di profughi seguente
alla caduta di Costantinopoli nel 1453 portò con sé in Occidente gran parte del patrimonio della letteratura
greca classica e suscitò un diffuso desiderio di accostarsi a questi autori, fino allora rimasti nettamente in
secondo piano rispetto a quelli latini.
Un'altra importante figura della filologia umanistica è rappresentata da Coluccio Salutati (1331 – 1406),
cancelliere della Signoria fiorentina, che raccolse e studiò manoscritti antichi, scoprendo testi
importantissimi come le Ad familiares di Cicerone e il De agricultura di Catone. Benché fosse dotato di
scarso talento letterario e la sua filologia non raggiungesse vette straordinarie, il Salutati guidò il movimento
umanistico dalla scomparsa del Petrarca alla propria morte. Per molti aspetti era ancora un uomo del
Medioevo, come rivela il gusto per l'esegesi allegorica; tuttavia lesse gli autori antichi con passione e di
prima mano, raggiungendo con essi quella profonda intimità che fu caratteristica di Petrarca. Sul piano più
strettamente filologico, fu un attivo collazionatore di manoscritti, individuò i modi in cui i testi possono
essere corrotti ed offrì alcuni lodevoli contributi alla critica testuale, tanto che è riconosciuto come pioniere
in questo campo.
L'interesse verso tutti gli aspetti della vita e della letteratura antica, favorito dall'ininterrotta curiosità
suscitata delle nuove scoperte, condusse ad un progresso significativo nelle principali discipline e tecniche
necessarie alla piena comprensione della classicità. La critica storica e quella testuale, fondamentali per lo
studio dei testi, vennero esercitate con particolare vivacità di ingegno da due umanisti che possono essere
considerati i migliori rappresentanti della filologia quattrocentesca: Lorenzo Valla (1407 – 57) e Angelo
Poliziano (1454 – 94).
Valla, istruito in latino e in greco, fu caratterizzato da una natura vanagloriosa ed aggressiva, che lo
spingeva a combattere contro tutte le vacche sacre e che lo doveva coinvolgere in una serie di velenose
polemiche. Una prima vittima delle sue capacità critiche fu la “Donazione di Costantino”, un documento,

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redatto nell'VIII o IX secolo, che rafforzava le pretese pontificie al potere temporale, registrando il
leggendario dono di Roma e delle province d'Italia da parte di Costantino a papa Silvestro I nel 324: su basi
storiche e linguistiche, Valla nel 1440 ne dimostrò la falsità. Similmente attaccò la corrispondenza tra Seneca
e San Paolo, che aveva goduto di grande fortuna, considerandola come spuria (in realtà questo caso fu ancora
a lungo dibattuto, tanto che illustri studiosi del Novecento esitavano ancora a mettere in dubbio l'autenticità
del carteggio). L'opera più famosa di Valla è rappresentata dagli Elegantiarum latini sermonis libri sex (noti
anche semplicemente come Elegantiae), che trattano argomenti di stile e di grammatica, riconosciuti come
autorità universale in fatto di lingua latina per tutto il Quattro e Cinquecento. Nel 1446-47 scrisse le
Emendationes sex librorum Titi Livi, un vero e proprio capolavoro filologico sui libri XXI-XXVI dello
storico latino, che segnarono il punto più alto che la filologia latina avesse fino allora raggiunto. In linea con
la sua spregiudicatezza intellettuale, nel 1449 il Valla osò emendare la Vulgata; le sue postille e correzioni,
basate su uno studio dell'originale greco e dei più antichi testi patristici, furono in seguito stampate da
Erasmo.
Sommo filologo del XV secolo fu Angelo Ambrogini, detto il Poliziano, che riunì in sé tutti i tratti del
perfetto umanista: pari conoscenza del latino e del greco, propensione per la filosofia platonica, interesse per
la poesia classica, essendo lui stesso poeta in latino, in greco e in volgare. Fu uno dei primi grandi
commentatori, in particolare alle Georgiche di Virgilio e alle Sylvae di Stazio. Poliziano fu un vero
precursore della critica testuale moderna, giungendo ad applicare il principio metodico dell'eliminatio
codicum descriptorum (in proposito cfr. oltre). Nell'ambito stilistico, fu tra i primi a rigettare la
canonizzazione di Cicerone a modello unico di stile prosastico, preferendo un eclettismo che sfruttasse
l'intera gamma dello sviluppo storico del latino; allo stesso modo, fu il primo a rivolgere una seria attenzione
alla letteratura dell'età argentea (cioè quella compresa tra 14 e 117 d.C.). La grande opera di filologia del
Poliziano furono i Miscellanea, un gruppo di cento capitoli su differenti argomenti filologici, greci e latini, in
cui è ancora evidente l'influenza di autori tardi. Poliziano esaminò e collazionò uno sterminato numero di
manoscritti classici: alcuni codici che studiò andarono poi perduti, ma i suoi accurati lavori costituiscono
tuttora importanti testimonianze alla forma originaria del testo di molte opere. Fu infatti il primo italiano del
Rinascimento a svolgere su un testo greco un lavoro di validità permanente, tanto che il suo nome ricorre
ancora nell'apparato critico delle edizioni moderne. Poliziano eseguì anche parecchie traduzioni dal greco e
la sua notevole conoscenza della lingua è testimoniata dai suoi circa cinquanta epigrammi in greco
sopravvissuti, scritti in diversi metri.
Cruciale per la trasformazione dell'Umanesimo in filologia classica fu la congiunzione tra la diaspora in
Occidente degli eruditi e dei manoscritti bizantini e l'arrivo in Italia di manoscritti latini provenienti dalla
Germania. Il luogo ideale in cui i due movimenti si intersecarono fu il Concilio ecumenico itinerante, volto a
produrre la renovatio Ecclesiae attraverso la riunione con la Chiesa ortodossa (impresa che fallì), convocato
prima a Costanza e poi a Basilea (1414-18). Per i dotti italiani questa fu un'occasione unica per poter cercare
manoscritti e ne approfittò proficuamente Poggio Bracciolini, che si trovava a Costanza come segretario
papale. Viaggiando tra Cluny e San Gallo, Poggio trovò nuove orazioni ciceroniane, un testo completo di
Quintiliano, le Argonautiche di Valerio Flacco e la Cena Trimalchionis di Petronio; in nuove ricerche nel
1417 riuscì a venire in possesso di Lucrezio, Silio Italico, Manilio e Ammiano Marcellino. Poggio fu inoltre
l'inventore della scrittura umanistica, che ritornava alla forma più antica e chiara di minuscola carolina.
Alla metà del XV secolo, nonostante il fiorire dei suoi centri culturali, l'Italia cessò di essere la detentrice
unica della cultura umanistica, che si era intanto diffusa in Germania, Francia, Spagna e verso l'area
danubiana. Nella seconda parte del Quattrocento assistiamo all'epoca d'oro dell'Umanesimo tedesco, favorito
dal mecenatismo dei principi e dalla nascita della stampa a caratteri mobili grazie a Gutenberg.
Il più grande umanista dell'Europa centrale fu Geert Geert's, che latinizzò il proprio nome in Desiderius
Erasmus Roterodamus (1469 – 1536), un monaco benedettino fortemente investito dalla devotio moderna (il
nuovo atteggiamento di rigorismo spirituale e morale suscitato dalla Controriforma). Erasmo, dotato di un
ingegno sommamente versatile e fermo oppositore della guerra che dilaniava l'Europa, realizzò l'ideale
dell'umanista cristiano. Strinse un sodalizio con il grande stampatore veneziano Aldo Manuzio, curando
numerose edizioni di testi classici; soggiornò ripetutamente in Italia e in Inghilterra e insegnò greco a
Cambridge. Tra le sue opere maggiori figurano gli Adagia, una vasta raccolta di proverbi greci e latini
rielaborati, e l'Opus epistolarum, la sua vasta raccolta di lettere. Nel 1516 curò la prima edizione a stampa
del Nuovo Testamento a Basilea, affrontando il testo sacro con l'attitudine razionalistica del filologo,
sostenendo che la Scrittura va studiata e interpretata secondo le stesse regole di logica vigenti per tutte le
altre opere. Con la traduzione di classici greci in latino diede impulso alla letteratura umanistica e scrisse,

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sempre rigorosamente in latino, opere di vario argomento contemporaneo, per lo più incentrate sulla guerra.
Erasmo intervenne anche in questioni di stile con il dialogo Ciceronianus (1528), deridendo la smania filo-
ciceroniana dei prosatori contemporanei. Nonostante le polemiche in cui si trovò coinvolto – particolarmente
dura fu quella con Lutero –, Erasmo dispiegò sempre un carattere tollerante, cercando di evitare gli
atteggiamenti estremi e potenzialmente bellicosi.
Come emerge da quanto appena detto, la stampa detenne un ruolo fondamentale, fin dalla sua nascita, nella
diffusione a grande scala della letteratura classica; se però le stampe di testi latini fiorirono facilmente, per i
testi greci bisognava superare le difficoltà oggettive della diversità dei caratteri e della presenza di spiriti ed
accenti. Fu merito di Aldo Manuzio la fondazione a Venezia di una casa editrice specializzata nello stampare
testi greci: presso i suoi torchi uscirono numerose editiones principes dei classici greci, soprattutto negli anni
1502-04 (tra i principali possiamo citare Sofocle, Euripide, Erodoto, Tucidide e Demostene).
Anche in Francia l'introduzione del greco fu dovuta soprattutto ai dotti bizantini, in particolare a Giano
Lascaris, che aiutò Francesco I a fondare la Biblioteca Reale. Nel 1530 Francesco I fondò a Parigi il Collège
des Lecteurs Royaux, divenuto poi Collège de France, in aperto antagonismo rispetto alla Sorbona e con un
programma latino-greco fortemente umanistico.

f. Controriforma e scuole centro-europee tra XVI e inizio XVIII secolo


La lotta contro l'eresia propugnata dalla Chiesa tridentina non poteva risultare vantaggiosa per la filologia,
che subì una battuta d'arresto nel 1587, quando papa Sisto V, fondando la Tipografia Vaticana, avocò a sé i
problemi di critica testuale troppo difficili a risolversi da parte degli editori che intendevano basarsi
unicamente sulle loro forze razionalistiche e laiche. Inoltre, Sisto V nel 1590 pubblicò un'edizione della
Vulgata minacciando di scomunica chiunque in seguito avesse osato cambiarne le lezioni o stampare le
varianti dai manoscritti. È quanto meno curioso che il successore al soglio pontificio, Clemente VIII, ne
pubblicò una nuova edizione, con molti passi diversi rispetto al testo fissato da Sisto; questo rimase il testo
ufficiale della Chiesa cattolica fino alla sua sostituzione con l'edizione benedettina del 1926.
Nei paesi più lontani rispetto all'Italia da Roma, e quindi dalla potente influenza della Chiesa, la situazione
della filologia fu per molti aspetti più semplice. L'Umanesimo fiorì ad esempio in Francia, anche se
mantenne sempre uno stampo più “tradizionale”, influenzato dalla cultura e dallo spirito medievale.
La figura senza dubbio più significativa della prima filologia francese fu Guillaume Budé (1468 – 1540), a
cui abbiamo già accennato in merito alla fondazione del Collège de France, che fu uno dei fondatori della
scienza del diritto. Budé è stato spesso definito “l'avvocato del carattere cristiano dell'Umanesimo”, in
quanto i suoi De philologia e De transitu Hellenismi ad Christianismum rappresentano lo sforzo di definire il
posto degli studi classici nella società cristiana contemporanea e di giustificare la posizione, spesso criticata
e condannata, dell'umanista cristiano. Egli tradusse in latino alcuni trattati di Plutarco e scrisse dei
Commentarii linguae Graecae, contribuendo in modo significativo ad affermare il nascente interesse verso il
campo greco della classicità.
Sempre in terra francese, un'importanza fondamentale nella diffusione della stampa umanistica ebbe la
famiglia degli Estienne, a cui appartenevano Roberto ed Enrico Stephanus.
Il padre, Roberto Stephanus (1503 – 59), fu un grande latinista, che compilò il primo grande dizionario
latino e raccolse i frammenti dei poeti romani perduti; in qualità di stampatore reale, curò l'editio princeps
dell'Historia ecclesiastica di Eusebio e delle Storie di Dionigi di Alicarnasso e di Dione Cassio, oltre a
pubblicare un'edizione della Bibbia con la suddivisione del testo in versetti che usiamo ancor oggi.
Il figlio, Enrico Stephanus (1528/31 – 98), è l'autore del celeberrimo Thesaurus Graecae Linguae (il
cosiddetto “Stephanus” per antonomasia), pubblicato in cinque volumi nel 1572 e riedito ancora nel XIX
secolo. Curò inoltre una colossale edizione degli epici greci e dell'opera di Platone, dalla cui paginazione si
cita tuttora il testo platonico.
La scuola francese ebbe un'altra importante coppia di padre e figlio, quella dei due Scaligero. Giulio
Cesare Scaligero (1484 – 1558) è ricordato per la sua Poetica in sette libri, per le accese invettive contro il
Ciceronianus erasmiano, per gli eruditi commenti alle opere botaniche e zoologiche di Aristotele e Teofrasto
e, soprattutto, per il trattato De causis linguae Latinae (1540). Il figlio, Giuseppe Giusto Scaligero (1540 –
1609), fu sia latinista che grecista, mostrando un'approfondita conoscenza anche degli autori minori e
rinvigorendo gli studi del latino arcaico con un commento al De lingua latina di Varrone. Curò inoltre
un'edizione di Manilio e si occupò dell'appena scoperta Anthologia Palatina, una sterminata raccolta di
epigrammi greci dall'epoca arcaica a quella bizantina (oltre 3.700, suddivisi tematicamente in 15 libri). La
sua puntigliosità critica trova un riscontro nella sua opera di ricostruzione della cronologia antica, a cui

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dedicò il De emendatione temporum e il Thesaurus temporum.
Altro studioso francese di spicco fu il monaco benedettino Jean Mabillon (1632 – 1707), considerato il
fondatore della disciplina diplomatica: pose infatti le fondamenta dello studio scientifico dei documenti latini
con il De re diplomatica (1681). Suo allievo e confratello fu Bernard de Montfaucon (1655 – 1741), che, in
vista di un'edizione dei Padri della Chiesa, diede avvio alla nuova scienza della paleografia (Palaeographia
Graeca, 1708). (Su diplomatica e paleografia cfr. il capitolo specifico in questa presentazione).
In quest'epoca emersero i Paesi Bassi, uno dei luoghi – ieri come oggi – più liberali d'Europa, in cui
fiorivano l'attività editoriale (celebre la casa dei Plantin) e il commercio di manoscritti. Alcuni tra i
personaggi più significativi furono Huig van Groot (latinizzato in Grotius, 1583 – 1645), traduttore dal greco
e più noto in quanto fondatore del Giusnaturalismo con il De jure belli et pacis (1625); Giusto Lipsio (1547
– 1606), che studiò con passione e pubblicò Tacito, fece ricerche antiquarie, si occupò di Plauto e di
Properzio e, tramite Seneca e lo stesso Tacito, si avvicinò alla filosofia stoica; Niklaas Heinsius (1580 –
1655), il massimo latinista del XVII secolo, instancabile editore critico, ricordato soprattutto per una
memorabile edizione di Ovidio.
All'olandese cartesiano Jean Le Clerc (Clericus, 1657 – 1736) va il grande merito di aver formulato per
primo il criterio della lectio difficilior (cfr. anche oltre), spiegato così: “si una ex iis [scil. lectionibus]
obscurior sit, ceterae clariores, tum vero credibile est obscuriorem esse veram, alias glossemata” (“se una
tra le lezioni è più oscura e le altre più chiare, allora è certo plausibile che quella più oscura sia quella vera,
le altre delle glosse”).
Godettero di un notevole successo, in Olanda ma non solo, le cosiddette “editiones variorum”, in cui
venivano allineate nel commento le opinioni di vari interpreti precedenti su ogni riga o verso, rinunciando a
priori alla discussione critica del passo. Ispirate ad un simile metodo additivo sono due opere enciclopediche
olandesi allestite tra Sei e Settecento: il Thesaurus antiquitatum Romanarum del Graevius e il Thesaurus
antiquitatum Graecarum del Gronovius, immense compilazioni che ristampavano l'intera letteratura erudita
del secolo precedente.
In controtendenza rispetto alla buona salute della filologia nell'Europa centrale v'era la Germania, che
durante il XVII secolo conobbe una profonda crisi culturale, soprattutto a causa della guerra dei Trent'anni
(1618-48). Nell'ambito filologico predominava la polymathía, ossia il gusto dell'erudizione e dell'amore per
l'antiquaria onnivora, privo però di originalità e vivacità intellettuale. Si ebbero così figure di eruditi
universali, come Johann Albert Fabricius (1668 – 1736), autore della prima enciclopedia letteraria greca e
latina, costituita in realtà da poco più che un elenco di autori, opere e bibliografie. Un merito di questa
scuola, tuttavia, è quello di aver creato vasti repertori di informazioni accuratamente catalogate, che risultano
ancor oggi molto utili come strumento di ricerca e ammirevoli per chiarezza e precisione.
In Inghilterra, più che una vera e propria scuola, emerse una singola personalità straordinaria: Richard
Bentley (1662 – 1742). Bibliotecario di Guglielmo III d'Orange, pubblicò un'innovativa edizione di
Callimaco nel 1697, che con i suoi 420 frammenti quadruplicò la nostra conoscenza di questo autore fino ad
allora pressoché perduto. Caratteristica di Bentley fu la sua capacità di emendare luoghi disperati con
un'eccezionale competenza critica e linguistica, sfruttando il suo proverbiale intuito: altri notevoli risultati
furono le edizioni di Terenzio, corretto metri gratia in oltre mille punti (sui metodi di correzione filologica
cfr. il capitolo specifico), e di Manilio; è molto criticabile, invece, la sua celebre edizione di Orazio (1711),
in cui il filologo sembra ingaggiare una gara di stile con l'autore antico e si lascia prendere la mano nelle
correzioni al testo secondo il proprio gusto. Restano tuttavia monumenti della filologia i ragionamenti
contenuti nell'Epistola ad Millium (1691) e nella Dissertation upon the Epistles of Phalaris (1697). Scoprì il
fenomeno metrico della sinafia e intuì l'esistenza del digamma (un'arcaica lettera greca, caduta già nel testo
conservatoci di Omero benché richiesta metricamente). Discutendo passi di oltre sessanta autori greci e
latini, Bentley praticò il metodo dell'osservazione intensiva dei testi, facendo particolare attenzione alla
metrica e alle regole dello stile e della lingua. Bentley, che era anche un illustre teologo, pubblicò nel 1720 i
Proposals for an edition of the New Testament, dove annunciava che il testo si sarebbe fondato
coraggiosamente sui più antichi manoscritti dell'originale greco e della Vulgata, sperando di restituire la
forma che esso aveva al tempo del Concilio di Nicea (325 d.C.); tuttavia, la sua edizione non fu mai
terminata.

g. La grande scuola tedesca dell'Altertumswissenchaft


Nella Germania di metà XVIII secolo era attivo negli studi un fermento generale, per opera di personaggi
del calibro di Johann Joachim Winckelmann (1717 – 1768), il padre dell'archeologia moderna autore

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dell'innovativa Storia dell'arte nell'antichità. Fu in questo periodo che, insieme all'archeologia di scavo, si
svilupparono tutte le discipline che affiancano la filologia in una conoscenza globale dell'antichità, come
l'epigrafia, la glottologia, la storia delle religioni e la storia della filosofia. Nacque così quello studio
complessivo di tutto quanto riguarda il mondo antico denominato, anche al di fuori della Germania,
“Altertumswissenschaft”, ossia “scienza dell'antichità”, che da allora è sfondo costante – anche se spesso
inconsapevole – di ogni studio filologico e letterario.
L'effettivo fondatore della scienza dell'antichità fu Friedrich August Wolf (1759 – 1824), che nel 1778
insistette per essere immatricolato all'Università di Göttingen come studiosus philologiae anziché come
studiosus divinitatum o philosophiae, rivelando già in questa scelta giovanile il significato totalizzante che
aveva per lui la filologia (intesa in senso lato). Precoce editore di Demostene, fu incaricato di preparare
un'edizione di Omero ad uso degli studenti: fu così che scrisse nel 1795 i Prolegomena ad Homerum sive de
operum Homericorum prisca et genuina forma variisque mutationibus et probabili ratione emendandi (titolo
che potrebbe essere tradotto come Avvertenze ad Omero, ossia sull'antica e originaria forma delle opere di
Omero, sulle loro varie mutazioni e sul probabile criterio di correzione filologica), avviando la fase
scientifica della questione omerica, terreno su cui raffinò i propri strumenti la rinnovata filologia.
Riassumendo brevemente l'idea wolfiana, ai tempi di Omero la scrittura non esisteva ancora e i due poemi
sarebbero il risultato dell'accorpamento di diversi canti rapsodici trasmessi oralmente avvenuto nell'età di
Pisistrato (fu lui ad avviare la cosiddetta “corrente analitica” della questione omerica). Nei Prolegomena
Wolf imprime all'Altertumswissenschaft l'impronta di storia globale, basata sulla convergenza di tutte le fonti
disponibili, non solo di quelle letterarie). Altro suo importante contributo fu la sistematica Esposizione della
scienza dell'antichità, scritta nel 1807 su esortazione di Goethe.
Nella storia della grande scuola filologica tedesca si è soliti distinguere due fasi: una prima illuministica o
classicistico-romantica, che arriva fino a metà del XIX secolo, e una positivistica dagli anni Settanta
dell'Ottocento fino alle grandi guerre del Novecento, imperniata sulla figura di Wilamowitz. Un'altra
notevole divisione interna è quella tra l'approccio “monumentale” e quello “formale”, che portò alla
creazione di scuole di pensiero spesso in aspra competizione tra loro.
La filologia monumentale, il filone più propriamente romantico e che fa riferimento non solo ai testi ma a
tutta la documentazione storico-archeologica, tentando di restituire alle espressioni prodotte dal passato la
loro piena comprensibilità, ebbe il suo iniziatore in August Böckh (1785 – 1867). È proprio alla sua
Enciclopedia e metodologia delle scienze filologiche che risale la più compiuta teorizzazione dell'antichistica
come sapere globale: la comprensione filologica dell'antichità è Erkenntniss des Erkannten, il
“riconoscimento del conosciuto”, cioè il conscio recupero della totalità delle culture antiche come fonte di
capacità creative per il cittadino di uno Stato moderno. Editore di Pindaro e studioso dell'economia pubblica
di Atene, Böckh fondò inoltre il seminario filologico berlinese e influenzò molti grandi filologi, dal Welcker
a Karl Otfried Müller, celebre studioso di religione ed etnologia greca, autore di quel capolavoro filologico
che è la sua edizione commentata delle Eumenidi di Eschilo (1837).
L'altro grande orientamento degli studi classici in Germania, più legato alla tradizione razionalistica anglo-
olandese, ebbe come centro di irradiazione Lipsia e come campione Johann Gottfried Jakob Hermann (1772
– 1848). Sommo critico testuale e linguista, Hermann ispirò l'ordinata razionalità delle sue ricerche alla
filosofia kantiana, fino ad eccessi di rigore come l'ostinazione nell'insegnare soltanto in latino. Egli ribadì la
necessità del dominio profondo delle due lingue classiche come fondamento imprescindibile della scienza
antichistica e, arrivato in esso ad una perizia forse mai più raggiunta (specialmente nella metrica greca), gettò
le fondamenta di ogni successiva grammatica greca. Inoltre, Hermann può essere considerato il fondatore
dello studio scientifico dell'epica greca tardiva, a cui dedicò gli Orphica (1805).
Favorita anche dalla competizione tra indirizzo monumentale e formale, la filologia tedesca del XIX secolo
vide una straordinaria attività editoriale con decine di intelligenti studiosi ed editori, tra cui i fratelli Wilhelm
e Ludwig Dindorf e il Meineke, che compilò la prima raccolta moderna dei frammenti dei poeti ellenistici
(Analecta Alexandrina, 1843) e una monumentale raccolta dei frammenti dei comici greci. Ripresero piede
anche i poeti lirici: i loro frammenti furono pubblicati dallo Schneidewin, curatore di quella che è ancor oggi
l'unica edizione completa di Simonide e fondatore della rivista Philologus.
La figura più importante fu quella di Karl Lachmann (1793 – 1851), che nella scuola tedesca occupò una
posizione per molti aspetti separata e dominante. Allievo per qualche tempo di Hermann, Lachmann fu
editore dei “triumviri amoris” (Catullo, Tibullo e Properzio), di Lucrezio e del Nuovo Testamento. Benché
anticipato da diversi umanisti (ad esempio Poliziano, Erasmo e Bengel), va sotto il suo nome la teoria
stemmatica di recensione, volta a ricostruire attraverso la recensione genealogica dei manoscritti conservati

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un unico archetipo della tradizione (in riguardo a stemmatica, recensione e altre tecniche filologiche cfr.
oltre).
La competizione tra le due anime della filologia ottocentesca trovò il suo epicentro a Bonn, dove
insegnarono negli stessi anni il discepolo di Hermann Friedrich Wilhelm Ritschl (1806 – 1876),
prevalentemente latinista e filologo rigorosamente formale, e Otto Jahn (1813 - 1869), prevalentemente
grecista e convinto monumentalista. È in questo periodo che si fece più sensibile la separazione tra latinistica
e grecistica, cominciata già in precedenza ma allora, con la crescente specializzazione e con l'ampliamento
del campo delle ricerche, prossima a diventare inarrestabile.
Nel XIX secolo si affermano, non più soltanto come scienze ausiliarie dell'antichistica, la filologia
mediolatina (soprattutto con Ludwig Traube), quella umanistica e quella bizantina (quest'ultima affermatasi
con i lavori di Karl Krumbacher). Ascrivibili al senso più tradizionale di filologia non sono nemmeno gli
studi di Erwin Rohde (1845 – 1898), che indagò l'origine della letteratura romanzesca ne Il romanzo greco e
i suoi precursori (1876) e si occupò di storia della religione greca nell'affascinante Psiche, culto delle anime
e fede nell'immortalità presso i Greci (1890-94).
Il creatore della moderna scienza storica fu Leopold von Ranke (1795 – 1886), che utilizzò un metodo
rigorosamente scientifico nell'accertamento dei fatti in base alla documentazione diretta. In campo
antichistico, fu prima la storia romana a raggiungere la dignità di scienza rispetto a quella greca, grazie a
Barthold Georg Niebuhr (1776 – 1831), che affrontò per primo i problemi politici della storia romana alla
luce della relazione tra plebe e patriziato, unendovi una nuova attenzione alla storia agraria. Nel settore greco
il primo grande storico tedesco fu Johann Gustav Droysen (1808 – 1884), creatore del concetto di
“Ellenismo”, che intese la storia come preparazione al dominio universale di Roma e all'avvento del
Cristianesimo (fondamentale la sua Geschicte des Hellenismus, 1836-43).
Uno studioso poliedrico fu Theodor Mommsen (1817 – 1903), in egual misura storico, filologo,
numismatico ed epigrafista. Il suo capolavoro, la Römischen Geschichte, fu un'opera che per vastità di
impianto e potenza evocativa influì su tutta la storiografia contemporanea, tanto che valse all'autore il premio
Nobel per la letteratura nel 1902. Il Mommsen scrisse inoltre un'esposizione storico-sistematica del diritto
pubblico romano (Römische Staatsrecht) e numerosi trattati su temi economico-monetari. Egli fu il concreto
realizzatore del Corpus Inscriptionum Latinarum, un'immensa opera che contiene ben 130.000 iscrizioni e
consta di 41 parti, di cui 14 curate personalmente da Mommsen stesso.
Il principe riconosciuto dei filologi classici nell'era dell'apogeo della Altertumswissenschaft, per le sue
eccezionali qualità sia intellettuali sia umane, fu Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff (1848 – 1931),
formatosi a Bonn e di orientamento monumentale. La sua autorità nel campo degli studi classici fu tale che,
nel periodo tra Otto e Novecento, fu il punto di riferimento a cui si guardò come istanza scientifica suprema.
Il suo approccio all'antichità si propose come Totalitätsideal (“ideale di totalità”): nessun aspetto della
grecità e della latinità doveva restare escluso da quest'opera di ricostruzione globale. Wilamowitz condivise
con Droysen la valorizzazione dell'Ellenismo, respingendo il concetto di alessandrinismo come dotta
pedanteria e imponendosi come il massimo studioso della sua poesia: assieme all'Impero romano, l'età
ellenistica rappresenta la fase universale dell'esperienza antica. Nella sua sterminata produzione, circa ottanta
volumi tutti ancora di grande attualità, si occupò di ogni aspetto e di tutte le epoche delle antichità, non
trascurando nemmeno i papiri e le iscrizioni. Tipica dell'approccio ai classici di Wilamowitz fu un'unione di
forza intellettuale e di intensità emotiva, arrivando fino quasi ad un processo di identificazione, soprattutto
con il suo modello Platone, che studiò attentamente soprattutto riguardo al lato politico. Questo grande
studioso si occupò anche di storia della filologia (Geschichte der Philologie, 1921), di metrica e di storia
della lingua greca.
Tra i meriti di Wilamowitz non ci fu solo l'epocale lavoro che svolse in prima persona, ma anche la
capacità con cui seppe creare attorno a sé una cerchia di validi studiosi, tra cui compaiono alcune delle
personalità di maggior rilievo della filologia novecentesca: il grande latinista Eduard Fraenkel, l'omerista
Wolfgang Schadewaldt, il fondatore del “neo-umanesimo” (o “Terzo Umanesimo”, un movimento educativo
che mirava ad una riforma della vita politica che risultasse ispirata agli studia humanitatis.) Werner Jaeger e
Felix Jacoby, autore dell'incomparabile raccolta dei Fragmente der griechischen Historiker (“Frammenti
degli storici greci”).

h. Innovazioni metodologiche e il panorama italiano


Dopo la stagione d'oro dell'Umanesimo, la situazione della filologia in Italia non fu brillantissima. Tra il
XVII e il XVIII secolo si ebbero degli insigni eruditi, per lo più specialisti del latino, come Francesco de'

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Ficoroni, Scipione Maffei, Stefano Antonio Morcelli, Ennio Quirino Visconti e soprattutto Ludovico
Antonio Muratori (1672 – 1750), autore delle sterminate raccolte Antiquitates Italicae Medii Aevi e Rerum
Italicarum Scriptores. I grecisti riapparvero in età neoclassica e romantica: Giovanni Luigi Mingarelli,
Amedeo Peyron e soprattutto il cardinale bergamasco Angelo Mai (1782 – 1854), prefetto delle biblioteche
Ambrosiana e Vaticana, editore instancabile di testi difficili e scopritore del palinsesto del De re publica di
Cicerone (1822).
Queste figure, per quanto talvolta notevoli, non seppero creare una vera e propria scuola, anche perché – a
differenza della Germania – non potevano contare su un'istituzione e un progetto coerente di studi:
l'Università italiana non si strutturò come sede di ricerca scientifica se non dopo l'unificazione nazionale.
Il massimo filologo classico italiano, grecista e latinista, fu Giorgio Pasquali (1885 – 1952), teorico del
metodo critico-testuale: la sua Storia della tradizione e critica del testo (1934) ha riportato alla concretezza
dei testimoni una parte della grande filologia tedesca, accogliendo da una parte i criteri meccanici propri del
metodo lachmanniano ed accettando dall'altra alcune delle osservazioni critiche di Bédier. Altro capolavoro
di Pasquali è Orazio lirico (1920), ancora fondamentale per l'interpretazione dei Carmina.
Il grande filologo francese Joseph Bédier (1864 – 1938) fu, infatti, il massimo critico del metodo
stemmatico di Lachmann, a cui contrappose il criterio – poi noto come “metodo di Bédier” – del codex
optimus o bon manuscript: poiché osservò che tutti gli stemmi da lui studiati erano a due rami, finendo quasi
sempre per restare oggetto dell'arbitrio del critico (su queste procedure cfr. il capitolo specifico), il compito
del filologo durante un'edizione critica dovrebbe invece consistere nel selezionare un unico testimone, il
migliore, e riprodurlo correggendo solo gli errori evidenti e relegando nelle note le correzioni congetturali.
Con il progredire degli studi e grazie ai primi supporti tecnologici, furono introdotte altre innovazioni
metodologiche: tra le principali va citata quella nel 1926 di Dom Henri Quentin, che elaborò un metodo di
ricostruzione dell'originale su basi statistiche nella distribuzione delle varianti, raggiungendo un'oggettività
totalmente indipendente da interventi personali da parte del critico. Altri filologi si sforzarono di correggere
il metodo di Bédier, come Alexandre Micha, che nel 1939 lo scartò come troppo rinunciatario e suggerì di
confrontare il manoscritto migliore con il migliore di ogni famiglia, o Eugène Vinaver, che concentrò la
propria attenzione sulla ricerca della genesi degli errori nei manoscritti.
Nel campo specifico della filologia romanza italiana, la figura predominante per decenni è stata quella di
Gianfranco Contini (1912 – 1990). È celebre la sua definizione di edizione critica come atto scientifico ed
ipotesi di lavoro, riunendo sinteticamente i due poli irriducibili di ogni attività filologica: la pretesa di
ricostruire l'originale, infatti, si rivela essere un mito, così che il metodo lachmanniano funziona per dare
significato ai vari testimoni, ma l'edizione critica che ne viene redatta sarà sempre un'ipotesi modificabile nel
tempo. L'attività di Contini è stata chiamata “critica delle varianti”, perché non studia unicamente l'opera
compiuta, ma analizza tutte le edizioni precedenti e i vari manoscritti di bozze, dando molta attenzione al
dato linguistico. Contini è stato, oltre che filologo, un grande storico e teorico della letteratura, autore di
celebri saggi su Dante, Petrarca, Pascoli, Montale e Gadda. Per citare uno dei suoi innumerevoli contributi
affermatesi universalmente, fu lui a distinguere il plurilinguismo di Dante – e poi di Gadda e di Pasolini –
dal monolinguismo di Petrarca (nel saggio Preliminari sulla lingua del Petrarca).
Altra figura di spicco nel panorama italiano è l'ancora vivente e attivo Cesare Segre (n. 1928), per oltre
quarant'anni docente all'Università di Pavia, che negli anni Settanta ha introdotto il concetto di diasistema,
frutto dell'interrelazione di due sistemi linguistici (quello dell'originale e quello del copista): ogni copiatura è
inevitabilmente un diasistema, che crea un'“entropia” e che porta alla corruzione progressiva della forma
originaria.

3. MATERIALI SCRITTORI

a. Il problema del supporto


Quando si studia un testo arcaico (ma questo vale in certi casi anche per testi d'età classica) bisogna tenere
presente che la sua fase di composizione e di produzione non sempre coincide con quella di trascrizione in
forma scritta, che talvolta è posteriore anche di secoli: è il caso dei poemi omerici, redatti nel IX e nell'VIII
secolo a.C. e scritti (e quindi fissati in una forma definitiva) soltanto nel VI secolo.
La consuetudine di affidare alla scrittura le opere letterarie iniziò ad affermarsi lentamente, tanto che solo
nel V secolo si ebbe una massiccia diffusione dei libri e un primo commercio librario. A lungo si

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fronteggiarono le posizioni dei sostenitori della superiorità intellettuale dell'oralità (su tutti Platone, con
l'importanza che avrebbe dato alle cosiddette “dottrine non scritte”) e quelli della nuova forma di diffusione,
che aveva il notevole pregio di fissare in forma definitiva un testo e di preservarlo in un modo meno soggetto
a corruzione e manipolazioni. Furono la scuola dei sofisti e soprattutto la fondazione della biblioteca di
Alessandria, con la connessa pratica filologica – evidentemente possibile unicamente in presenza di testi
scritti –, ad imporre definitivamente la letteratura scritta.
L'antichità ha utilizzato una quantità sterminata di diversi supporti scrittori, a seconda della funzione del
testo e soprattutto della disponibilità di risorse: tra quelli inorganici i principali furono i minerali come il
metallo in lamine o in tavole (bronzo, oro o piombo), la pietra, il marmo, l'ardesia, l'argilla e l'intonaco; tra
quelli organici la corteccia (è proprio dalla parte interna della corteccia, il liber, che deriva il termine
“libro”), le foglie di alberi, il legno, la cera, l'avorio, la pelle, il lino e l'osso.
Una distinzione fondamentale dei supporti scrittori è quella tra materiali duri e materiali morbidi. I primi
erano destinati alle occasioni solenni, accogliendo iscrizioni sacrali, funerarie o commemorative, o
conservando e rendendo noti documenti ufficiali dello Stato o la memoria di fatti importanti. È ai secondi
che furono affidati i testi dell'antichità, in primo luogo per la praticità della scrittura e della possibilità di
correggere eventuali errori.

b. Le tavolette lignee
Le tavolette lignee sono forse il più antico supporto scrittorio dell'antichità. Vi si scriveva o direttamente,
con un pennello, un calamo o una penna metallica e inchiostro, oppure dopo averle imbiancate con polvere di
gesso, calce o vernice, o ancora dopo averle incerate.
Le tavolette (chiamate in greco déltoi e in latino tabulae, pugillares o – se incerate – cerae) venivano
spesso accostate tra loro, facendo combaciare i bordi in rilievo, praticando dei fori su un bordo e facendovi
passare dei lacci: la serie di tavolette ottenuta, a seconda del numero, era detta “dittico”, “trittico” o
“polittico”, fino alla raccolta di diversi polittici in una cassetta trasportabile dotata di manico (codex
ansatus). Queste tavolette incernierate furono il modello concreto per la nuova veste tipografica del libro
antico: il codex di pergamena.

Questo supporto scrittorio era molto diffuso in Grecia, ma ospitava solitamente documenti provvisori o
d'archivio. A Roma, invece, le tavolette erano destinate anche a testi letterari e a documenti ufficiali di
particolare importanza, benché come seconda scelta dopo il rotolo di papiro. L'utilizzazione più frequente
delle tavolette incerate avveniva nelle scuole per imparare a scrivere e presso gli scrittori di “professione”, in
quanto permettevano una facile correzione degli errori semplicemente riscaldando leggermente la cera e
appianandola.

c. Il rotolo di papiro
I più antichi documenti letterari che si sono conservati fino a noi sono su papiro, una pianta palustre diffusa
soprattutto in Egitto e il cui nome significa “regale”; fu proprio la grande diffusione di questa pianta in certe

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zone a favorirne l'impiego nella vita quotidiana come genere di basso costo, già dal 3000 a.C.
Dal midollo morbido della pianta venivano staccate verticalmente delle strisce sottili, che erano distese in
un unico strato e nella medesima direzione, sovrapponendole leggermente le une alle altre. Al primo strato se
ne sovrapponeva un secondo in senso perpendicolare e i due strati venivano pressati con un torchio: dalle
fibre ancora fresche fuoriusciva una mucillagine collante, che faceva aderire perfettamente l'insieme in un
foglio compatto. Una volta ottenuto il kóllema (il singolo foglio) ed averlo levigato e lucidato, veniva
fabbricato il rotolo (chiamato in greco tómos e in latino volumen), incollando insieme un certo numero di
fogli e costituendo una lunga banda: il rotolo standard conteneva 20 fogli, era largo tra i 16 e i 32 cm e lungo
circa 3,40 m, ma è documentata una lunghezza addirittura fino a 12 m. Era consuetudine avvolgere i rotoli
letterari intorno ad una bacchetta fissa o mobile, chiamata omfalós, ed apporvi all'esterno un cartellino
(síllubos) con il titolo ed eventualmente il nome dell'autore.
Caratteristica del foglio di papiro è l'avere una faccia con le fibre disposte in senso orizzontale e l'altra con
le fibre disposte in senso verticale: tutti i fogli erano incollati in modo che le fibre corressero nel medesimo
senso, tranne il primo foglio detto protócollon, fissato al contrario e su cui non si scriveva (aveva infatti una
funzione protettiva, trovandosi nella posizione maggiormente deteriorabile). Il lato in cui le fibre corrono in
senso orizzontale (cioè nel senso della lunghezza del rotolo) è chiamato recto, mentre quello le cui fibre
corrono in senso verticale è chiamato verso.

Di solito un rotolo antico era scritto in una serie di colonne indipendenti e parallele al lato corto, a partire
dall'estremità sinistra; per consuetudine, inoltre, si scriveva solo su una delle due facce, solitamente sul recto
(in quanto più adatto allo scorrimento del calamo), mentre i casi di rotolo opistografo (scritto su entrambe le
facce) sono rari. In caso di bisogno, un rotolo poteva essere riutilizzato anche lavando via la prima scrittura e
riscrivendovi.
Da quanto sappiamo, cártes (da cui il latino “charta” e l'italiano “carta”) non era il foglio ma il rotolo non
scritto, mentre la selís (in latino pagina) era originariamente la colonna di scrittura, la cui larghezza poteva
arrivare ad occupare talvolta anche più fogli. Nelle colonne di scrittura il testo era continuo (scriptio
continua), cioè senza divisioni di parola, con pochissimi accenti e spiriti e pressoché senza punteggiatura.
È certo che in età ellenistico-romana (323 a.C. – 395 d.C.) il papiro fu il principale veicolo della cultura
scritta: la biblioteca di Alessandria, dotata secondo la tradizione di 490.000 volumina, ne testimonia
esemplarmente la grande fortuna.
Benché il materiale papiro si sia quasi sempre accompagnato alla forma del rotolo, tuttavia abbiamo
testimonianze – in realtà molto scarse – di alcuni codici papiracei, prodotti in Egitto, dove il papiro fu
utilizzato più a lungo che altrove e fu contrastato dalla pergamena solamente a partire dal IV secolo d.C., per
poi essere soppiantato dalla carta.

d. La pergamena e il codice
Tra il III e il V secolo d.C. si verificò l'importante fatto tecnico della trasformazione del libro dalla forma

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di rotolo a quella di codice, il vero antenato del libro moderno. Questo passaggio comportò la traslazione
delle opere da un formato all'altro, con un'inevitabile selezione, affidata soprattutto alla scuola: quanto era
studiato veniva copiato e si conservava, mentre quanto era per lo più inutilizzato rischiava di restare da parte
e quindi di scomparire. Il nuovo binomio pergamena-codice, succeduto a quello papiro-rotolo, tenne un
dominio incontrastato fino al XIII secolo, quando s'intensificò la concorrenza della carta.
L'unico materiale scrittorio vero concorrente del papiro fu la pelle, per lo più di pecore, capre e vitelli,
chiamata “pergamena” a partire dalla tradizione che ne assegna l'invenzione al re di Pergamo Eumene II, ma
nota ai Greci come difthéra e ai Romani come membrana.
Per poter essere scritte, le pelli venivano lavate, ripulite del vello dalla parte esterna (il cosiddetto “lato
pelo”, di colore giallastro e dalla superficie più ruvida) e della carne dalla parte interna (il cosiddetto “lato
carne”, più bianco e più liscio). Dopo essere state a macerare in un bagno di calce, le pelli venivano raschiate
e bagnate più volte, per poi essere fatte essiccare su un'intelaiatura a tensione; venivano quindi levigate con
la pietra pomice e raschiate fino allo spessore richiesto.
Convenzionalmente per “pergamena” si intende il prodotto ottenuto da pelli di pecora e di capra, mentre
per “velino” si intende quello dalle pelli più fini di agnello e di capretto; la qualità più pregiata era quella dei
codices purpurei, per i quali si immergeva la pergamena in un bagno di porpora e su cui si scriveva con
inchiostro d'oro.
La pergamena fu usata essenzialmente nella forma del codice (codex in latino), parola che deriva da
caudex (“ceppo di legno”), in quanto – come già accennato – questa forma nasce dal complesso di più
tavolette lignee incernierate. Secondo la maggior parte degli studiosi, infatti, il codice letterario sarebbe nato
a Roma da un archetipo pergamenaceo (“ipotesi occidentale”): alle tavolette lignee sovrapposte e
incernierate furono sostituiti i fogli di pergamena cuciti o legati insieme. Una seconda ipotesi, connessa al
legame con i Cristiani, colloca la nascita del codice in Oriente tra le comunità giudaiche (“ipotesi orientale”).
Inoltre, se è vera l'ipotesi occidentale, il codice nacque come libro pergamenaceo e soltanto in Egitto fu
associato inizialmente al papiro, il materiale scrittorio diffuso nel paese.
Questo nuovo taccuino, inizialmente usato per le note quotidiane e chiamato membranae, aveva le stesse
caratteristiche delle tavolette riguardo all'uso e al riuso, ma possedeva il notevole vantaggio di essere leggero
e facilmente trasportabile. Tuttavia, questi innegabili vantaggi del codice non portarono rapidamente ad un
suo impiego per la registrazione permanente di opere letterarie, né nel mondo greco né in quello romano,
forse anche per l'associazione nella mentalità corrente del codice pergamenaceo ad annotazioni alla buona,
contrapposto così al rotolo di papiro, che era il tradizionale veicolo della cultura.
Tenendo presente che l'analisi della forma del codice è identica sia nel caso esso sia pergamenaceo sia
cartaceo, si chiama folium la singola superficie rettangolare come si presenta prima delle operazioni di
piegatura, dalle quali si ottiene il bifolium; ciascuna metà di bifoglio è chiamata “carta”, mentre ciascuna
delle due superfici opposte di una carta è chiamata “pagina”.
Sembra che i primi codici fossero a fascicolo unico, cioè realizzati sovrapponendo i fogli l'uno sull'altro e
piegandoli a metà: questo sistema aveva come inconvenienti che il manifattore doveva calcolare esattamente
il numero dei fogli per evitare pagine bianche e che i bifolia centrali erano soggetti a guasti poiché erano
tanto più sporgenti quanto più il libro era spesso. Successivamente si standardizzò il codice a più fascicoli
legati insieme e in età medievale era diffusa anche la pratica di confezionare i fascicoli piegando più volte un
unico grande foglio e ritagliando successivamente le pagine non ancora scritte.
In riferimento al codice, i termini recto e verso indicano la pagina e la contropagina e sono spesso
abbreviati in r e v come esponenti della pagina di riferimento. Era diffusa anche la numerazione sistematica
dei fascicoli, diffusa in età umanistica anche ai singoli fogli: possiamo così stabilire le eventuali perdite di
fogli e di conseguenza le lacune nei
testi.
Durante la confezione dei
fascicoli si provvedeva alla
squadratura e alla rigatura delle
pagine, per favorire la scrittura.
Nei manoscritti più antichi è
frequente la divisione in più
colonne, mentre successivamente
prevalgono i libri scritti a tutta
pagina o al massimo a due colonne.

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Dei primi libri di forma moderna ci è giunto poco; il più antico frammento di codice membranaceo
pervenutoci è il cosiddetto “Fragmentum de bellis Macedonicis”, un manoscritto latino risalente al I-II
secolo d.C. La maggior parte dei codici pergamenacei e cartacei che possediamo è inscrivibile in un arco di
tempo compreso tra il IX e il XVI secolo.

e. La carta
L'ultimo materiale scrittorio ad entrare in uso fu la carta di stracci, inventata – secondo la tradizione – dai
Cinesi all'inizio del II secolo d.C. Le tecniche di produzione furono perfezionate dagli Arabi, fino alla carta
di fabbricazione italiana nel IX secolo (la prima cartiera documentata è Fabriano, nelle Marche).
I più antichi codici cartacei greci sono del IX secolo e quelli latini del XIII secolo. Questo materiale fu
usato principalmente nella forma del codice e sostituì progressivamente la pergamena, fino a diventare il
supporto canonico dei libri stampati.
La materia prima della carta è costituita da stracci di lino, lacerati ed immersi nell'acqua bollente a
macerare; la poltiglia densa ricavata veniva raffinata con l'uso di magli chiodati e trasferita in un grande tino,
dove vi si immergeva la forma (uno stampo montato su un telaio). Estratta la forma dal tino e fatta scolare
l'acqua, si pareggiava lo strato di pasta che costituiva il foglio di carta e lo si faceva asciugare, spalmandolo
infine di colla per impedire che l'inchiostro si dilatasse. Durante l'essiccatura del foglio i fili del telaio
lasciavano sulla carta una leggerissima impronta, visibile in controluce (la vergatura); inoltre le cartiere
occidentali disegnavano spesso in trasparenza delle filigrane (insigna chartarum).

4. CENNI DI PALEOGRAFIA E DI PAPIROLOGIA

a. La scienza paleografica
Come si è detto nel capitolo dedicato alla storia, la paleografia nacque agli inizi del Settecento per opera di
Bernard de Montfaucon. Essa è la scienza che studia le forme e l'evoluzione della scrittura, fino
all'invenzione della stampa. Ben presto, a causa delle differenti tipologie dei documenti scritti, lo studio
paleografico si è frammentato in varie discipline: la paleografia vera e propria, l'epigrafia, la diplomatica e la
papirologia.
L'epigrafia, praticata fin dall'antichità e sviluppatasi a stretto contatto con l'archeologia, studia le iscrizioni
scolpite o graffite su pietra, su metallo o su altri materiali duri.
La diplomatica, avviata sul finire del XVII secolo da Dom Jean Mabillon, studia i “diplomi”, un termine
tecnico che indica i documenti d'archivio e – in generale – gli atti pubblici e privati dotati di un valore
giuridico e ufficiale, a partire dall'età rinascimentale.
La paleografia vera e propria si occupa della grafia dei codici manoscritti su pergamena e su carta, sino
alla fine del Rinascimento. Essa si è sviluppata molto tardi, in quanto prima della fine del Seicento –
eccezion fatta per qualche conoscenza posseduta da Bessarione e da Poliziano – si dava poca importanza alla
“forma grafica” dei codici. In realtà, lo studio della grafia e dell'aspetto generale dei testi può rivelarsi molto
utile per definirne la data e la provenienza, e talvolta addirittura per individuare la mano del copista.
La straordinaria Paleographia graeca di Montfaucon (1708), titolo da cui è entrato nell'uso comune il
nome della nuova disciplina, rimase per due secoli il miglior libro sull'argomento, costituendo anche il primo
tentativo di capire l'evoluzione formale delle singole lettere. Un altro contributo fondamentale di Montfaucon
per lo sviluppo della paleografia fu la Bibliotheca Coisliniana (1715), che è la prima descrizione sistematica
di un fondo di manoscritti (i circa quattrocento volumi di Coislin, vescovo-principe di Metz).
Un illustre studioso in questo campo fu Scipione Maffei (1675 – 1755), storico, drammaturgo ed erudito
veronese. Dopo essere stato a lungo impegnato nella ricerca di alcuni manoscritti un tempo conservati nella
biblioteca della cattedrale di Verona ma poi perduti e dopo essere riuscito nel 1712 a trovarli, Maffei poté
studiare una magnifica serie di codici per lo più antichissimi, sviluppando una comprensione teorica delle
scritture librarie latine. Egli, riguardo alla diversità delle scritture latine all'inizio del Medioevo, sostenne che
dovettero esistere certi tipi base di scrittura nella tarda antichità (maiuscola, minuscola e corsiva) e che,
quando l'Impero Romano crollò, da essi si svilupparono indipendentemente altre varietà.

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b. Le principali scritture antiche
Le principali scritture librarie usate
in epoca romana erano la capitale
quadrata, la capitale rustica, l'onciale e
la semi-onciale.
La capitale quadrata ci è
testimoniata solamente da alcuni
imponenti manoscritti di Virgilio e
sembra che fosse riservata alle
edizioni di lusso. Le forme quadrate si
appoggiano su un asse verticale,
seguendo uno stile che imita da vicino
le solenni scritture epigrafiche,
recuperandone la distinzione fra i tratti
sottili e quelli grossi.
La principale scrittura libraria del
periodo classico era invece la capitale rustica, più scorrevole del tipo quadrato e vergata con la superficiale
negligenza che le ha dato il nome. L'asse delle lettere, tutte maiuscole, si inclina leggermente sulla sinistra; la
difficoltà di lettura deriva essenzialmente, come per la capitale quadrata, dall'assenza di separazione tra le
parole, parzialmente bilanciata dalla presenza di alcuni punti posti a differenza altezza per indicare diversi
gradi di intervalli.

L'onciale è un'imponente scrittura arrotondata, che apparve nel IV secolo e durò fino alla seconda metà
dell'VIII. In essa è già evidente una certa tendenza all'ornato, che aumentò con l'evoluzione nei secoli: più la
scrittura onciale è artificiosa, più il codice è tardo.

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Con la comparsa di forme minuscole, si ebbero dei tipi misti di onciale, come la semi-onciale, usata per
parecchi testi classici e soprattutto per le opere cristiane. Questa scrittura sembra già minuscola, anche se
alcune lettere (come la “n” e la “t”) si mantengono ancora maiuscole come nella onciale. Anche questa forma
agli inizi non presentava ornamenti, che invece comparirono progressivamente (nei secoli VII e VIII).

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Una delle scritture più complesse da decifrare è la
minuscola corsiva, che presenta lettere sformate e nessi e
legature molto particolari. Questa minuscola, inscrivibile
cioè in quattro linee immaginarie, è chiamata “corsiva”
perché scritta manu currente, velocemente: la sua
utilizzazione era per lo più privata e d'occasione, tanto
che non era pressoché usata nei codici letterari.

Tra la fine del VII e l'inizio dell'VIII secolo si ebbe


l'adozione universale di una nuova scrittura, la minuscola
carolina, così chiamata in quanto, benché sorta già prima di
Carlomagno e di Alcuino, fu da loro accolta e perfezionata,
contribuendo in modo fondamentale alla sua diffusione e
affermazione. Essa deriva dalla minuscola corsiva romana,
che era rimasta come scrittura di affari e di documenti
ufficiali: da questa grafia fu tratta una libraria calligrafica,
che evita le legature caratteristiche della corsiva e dotata di
semplicità ed eleganza, che si sviluppò poi secondo propri
binari in diverse regioni e produsse le 'scritture nazionali'
(visigotica, beneventana e merovingica).

Durante il XII secolo la scrittura subì una decadenza dal punto di vista calligrafico e a questo si aggiunsero
le numerose abbreviazioni, al fine di risparmiare il materiale scrittorio, ma che complicarono la decifrazione
da parte del lettore. La gotica conserva essenzialmente la forma delle lettere caroline, ma si percepisce una
maggiore pesantezza nel ductus (termine tecnico che indica il modo di tenere la mano ed il calamo e di
posizionare il tavolo che sorregge il codice); inoltre i cambiamenti bruschi e taglienti dei tracciati delle
lettere e la contrapposizione di tratti sottili e grossi creano continui contrasti che, talvolta, provocano
stanchezza della vista.

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A Poggio Bracciolini e a Niccolò Niccoli è attribuita
la rivisitazione della minuscola carolina che va sotto il
nome di scrittura umanistica, che condivide con
l'antenata la particolare chiarezza: con il passare del
tempo – come abbiamo visto – la minuscola carolina
era divenuta sempre più angolosa e grossa,
trasformandosi nella scrittura gotica, mentre
l'umanistica fu un volontario ritorno alla forma più
antica di carolina. La scrittura umanistica fu utilizzata
soprattutto in Italia, diffondendosi nelle altre nazioni
soltanto nel corso del Cinquecento e stentando ancora
nell'Ottocento in Germania a sostituire la tradizionale
gotica. Nell'umanistica è caratteristica una straordinaria
regolarità nella scrittura, così da sembrare quasi
stampata, tanto il copista ha curato la stesura delle
lettere.

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c. I palinsesti
Fin dall'antichità classica c'era l'abitudine di cancellare la scrittura per reimpiegare il supporto scrittorio;
ciò avveniva in particolare con le tavolette, per le quali le operazioni di riscrittura erano più semplici, ma in
misura minore anche con il papiro. Questa pratica conobbe una diffusione notevole con i codici
pargamenacei, le cui pelli venivano lavate, raschiate e levigate per poter essere nuovamente utilizzate:
nacquero così i codices rescripti o palinsesti (dal greco pálin psáo, “raschio per la seconda volta”), dovuti
essenzialmente a ragioni economiche e alla scarsità del materiale scrittorio.
I libri che venivano riutilizzati per ospitare nuove opere erano solitamente dei codici incompleti o guasti,
ma spesso anche quelli che erano diventati inutili perché non più letti o perché vergati in un tipo di scrittura
abbandonato e non più facilmente compresa.
Fortunatamente, la pulitura dei codici fu spesso eseguita sommariamente e la scrittura più antica (scriptio
inferior) è restata più o meno visibile al di sotto del nuovo testo (scriptio superior), catturando l'attenzione
degli studiosi più minuziosi e testimoniandoci talvolta opere altrimenti perdute. Tuttavia, i tentativi fatti in
passato per far risaltare la scriptio inferior ricorrendo a reagenti chimici hanno spesso gravemente o
irrimediabilmente guastato i manoscritti.
Il primo palinsesto fatto conoscere pubblicamente fu il codex Ephraemi, un importante manoscritto greco
della Bibbia risalente addirittura al V secolo, scoperto da Jean Boivin nel 1692. Successivamente furono
scoperti il codice Claromontano, un palinsesto del VI secolo con le epistole di San Paolo, un frammento del
libro XCI di Livio al di sotto di un codice Vaticano Palatino e due testi frammentari del De amicitia e del De
vita patris di Seneca, opere che fino ad allora erano completamente sconosciute.
L'attività di ricerca e di studio sistematico dei palinsesti compì uno straordinario passo in avanti agli inizi
dell'Ottocento grazie all'energia instancabile del bergamasco Angelo Mai, che, in qualità di bibliotecario
dell'Ambrosiana e poi della Vaticana, poté studiare a lungo e da vicino molti di questi codici “riciclati”. Mai
fu il primo che seppe usare con successo i reagenti, che facilitavano la scoperta dei testi raschiati rendendo la
scriptio inferior più leggibile. Dal 1814 pubblicò una notevole serie di testi nuovi, tra cui frammenti di
alcune orazioni di Cicerone e ciò che rimane della Vidularia plautina. La scoperta senza dubbio più
importante avvenne nel 1819, quando trovò, in un codice in onciale del IV o V secolo e riscritto a Bobbio nel
VII con il Commento ai Salmi di Sant'Agostino (Vat. lat. 5757), il De re publica di Cicerone , testo
ricercatissimo fin dall'età umanistica, di cui pubblicò l'editio princeps nel 1822.

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d. La papirologia
La papirologia è la scienza che studia il materiale papiraceo, sia esso utilizzato in forma di rotolo sia in
quella meno rara di codice, e gli óstraka, cioè quei cocci di terracotta usati ad Atene per fini politici (nella
pratica detta appunto “ostracismo”) e talvolta letterari.
Le scoperte dei papiri sono avvenute in modo desultorio sino alla fine dell'Ottocento, quando presero
invece avvio le prime grandi campagne di scavo, precorse nel 1752 da quella ad Ercolano, che portò al
ritrovamento di centinaia di rotoli di papiro contenenti opere filosofico-letterarie, conservati dallo strato di
tufo creatosi a seguito dell'eruzione del Vesuvio nel 79 d.C.
Fu la spedizione di Napoleone in Egitto (1798) a rinfocolare l'interesse per l'antica civiltà di quel paese
orientale. Tuttavia, solo nel pieno Ottocento, in seguito al saccheggio dei resti degli antichi villaggi, si
ebbero consistenti ritrovamenti, che attirarono l'interesse di biblioteche e musei di tutt'Europa. La
pubblicazione dei nuovi testi scoperti aprì la strada alle campagne di scavo sistematiche d'inizio Novecento,
che fondarono compiutamente la scienza papirologica.
I papiri sono stati ritrovati soprattutto nei luoghi secchi dove erano solitamente custoditi (uffici, archivi,
biblioteche ed edifici di culto), in prossimità dei luoghi anticamente abitati (collinette di rifiuti) e delle
necropoli: proprio le mummie di uomini e di animali sacri hanno infatti restituito alcuni testi letterari, di cui
era formato il loro cartonnage.
Un altro importante luogo di ritrovamenti è stato Derveni, in Macedonia, dove fu scoperto un rotolo
carbonizzato contenente un testo orfico risalente al IV secolo a.C.: questo è il più antico rotolo letterario
arrivatoci, che si è conservato grazie alla coltre di terracotta. Qualche ritrovamento è avvenuto nelle regioni
desertiche di Israele (Negeb e Giudea) o a Dura Europos in Mesopotamia.
Una prima fondamentale classificazione dei papiri è tra quelli documentari e quelli letterari (attestati in
proporzione 10:1). Per documentari si intendono tutti i testi relativi ai vari aspetti della vita pubblica e
privata (documenti legislativi, amministrativi, fiscali, giuridici e anagrafici o atti e documenti privati). Per
papiri letterari si intendono tutti i testi, di qualunque genere, di carattere dotto, che furono i primi depositari
delle letterature classiche a noi giunte. In un'ulteriore suddivisione, i papiri letterari sono distinti in testi noti
e in testi nuovi, che possono riconsegnarci opere di autori già noti ma tralasciate dalla tradizione medievale o
anche farci conoscere autori fino ad allora ignoti.
Tra i testi noti spiccano i papiri omerici, alcuni di particolare importanza in quanto anteriori al 150 a.C. e
recanti un testo diverso, spesso in modo notevole rispetto a quello tramandatoci dai codici medievali, che
testimonierebbe un filone prealessandrino del testo omerico, fluttuante anche nel numero dei versi.
Le testimonianze papiracee latine sono estremamente scarse. Anche i papiri recuperati ad Ercolano sono
greci, in quanto costituivano la biblioteca del filosofo epicureo Filodemo di Gadara (un greco di origine
giordana). Il più antico testimone
latino è il cosiddetto “papiro di
Gallo”, pochi versi rinvenuti nel
deserto della Nubia egiziana e
attribuiti al poeta elegiaco Cornelio
Gallo, condannato alla damnatio
memoriae per i dissapori con Augusto
e altrimenti destinato all'oblio.

Anche i papiri recano diversi tipi di


scrittura, essenzialmente a seconda
della loro destinazione: ci sono
scritture comuni, adoperate per le
necessità di tutti i giorni, ed altre
cancelleresche, utilizzate per gli atti
ufficiali e per le opere letterarie. Per la
scrittura letteraria si fa
convenzionalmente riferimento a tre
periodi fondamentali, caratterizzati
ciascuno da un tipo di caratteri:
periodo ellenistico (IV – I secolo
a.C.), periodo romano (I a.C. – IV

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d.C.) e periodo bizantino (IV – IX d.C.). Anche nei papiri era praticata la scriptio continua e i segni di
interpunzione, gli accenti e gli spiriti erano rari.
Il metodo rigoroso per riprodurre il più esattamente possibile tutte le caratteristiche grafiche e materiali del
testo di un papiro è quello praticato da Edgar Lobel (1888 – 1982), il massimo filologo inglese del
Novecento, editore dei papiri di Ossirinco. Si offre una prima trascrizione diplomatica, cioè una riproduzione
fedele del testo, che copia specularmente l'originale per quanto riguarda spazi, punteggiatura, accenti
interlineari, accenti e ogni altro segno, senza prevedere in questa fase alcun intervento da parte dell'editore.
Successivamente, alla trascrizione diplomatica si affianca la trascrizione esegetica, con cui l'editore dà una
sua lettura interpretativa, separando le parole, accentandole, dotandole di punteggiatura e – eventualmente –
proponendo delle integrazioni delle lacune presenti. Una volta pubblicato, il testo papiraceo diventa
patrimonio comune e qualunque studioso può a sua volta ripubblicarlo secondo una sua interpretazione, in
quanto la lettura interpretativa di un frammento implica numerosi elementi di soggettività.
Ogni papiro pubblicato è citato secondo un siglum, che di norma fa riferimento alla sua prima edizione:
viene indicato il materiale su cui è vergato il testo (P = papiro, O = óstrakon), la collezione a cui appartiene,
il numero del volume in cui è pubblicato e il numero progressivo che occupa nella collezione.
La collezione principale è quella degli Oxyrhynchus Papyri (P.Oxy.), che raccoglie gli oltre 100.000 papiri
recuperati nella cittadina di Ossirinco tra il 1897 e il 1907 dai ricercatori Grenfell e Hunt. Questi testi sono di
straordinaria importanza perché ci hanno restituito numerosi frammenti dei poeti lirici e tragici greci, da
Pindaro a Saffo, da Callimaco a Euripide e a Menandro.

5. FONDAMENTI DI CRITICA TESTUALE

a. Introduzione
La critica del testo consiste non solo nel liberare gli scritti del passato dagli errori commessi dai copisti e
dalle incrostazioni accumulatesi nel tempo, ma anche nel riconoscerne – soprattutto nel caso di quelli più
antichi – la paternità, nel ripercorrerne il cammino e nell'interpretarli. Per fare ciò, il filologo opera sulla
tradizione, cioè sull'insieme dei testimoni di uno scritto più o meno antico, in due fasi fondamentali: la
recensio e l'emendatio, fasi che saranno trattate nello specifico nei due prossimi paragrafi.
Possiamo considerare la critica testuale come una scienza, in quanto fornisce procedure razionali per
arrivare a formulare l'ipotesi più probabile su com'era l'originale e su come si è articolata la sua trasmissione
durante i secoli, fino ai testimoni conservati. Tuttavia, come ogni scienza, anch'essa non è mai definitiva ed è
consapevole della provvisorietà del proprio operato: ogni risultato raggiunto sarà sempre un'ipotesi di lavoro
e ogni edizione sarà sempre interpretativa, poiché – afferma Contini – “l'edizione è pure nel tempo,
aprendosi nel pragma e facendo sottostare le sue decisioni a una teologia variabile. All'ambizione di un testo-
nel-tempo corrisponde altresì l'elasticità d'un'edizione-nel-tempo”, soggetta ad esempio a nuovi ritrovamenti
di testimoni.
Quello lachmanniano è pertanto un metodo tra i tanti possibili, benché sia preferibile a molti altri in quanto
è razionale (si basa su ragionamenti logico-formali e si muove dal non conosciuto al conosciuto), scientista
(è dimostrato, verificabile e ricostruibile da chiunque) e meccanico (non richiede l'intervento del giudizio
soggettivo del critico).
Fondamentale è prendere consapevolezza di un dato che spesso passa inosservato agli studenti: i testi che
leggiamo sono soltanto una delle molte forme in cui ci sono stati tramandati, o meglio sono il risultato
ottenuto dal confronto e dalla selezione delle diverse lezioni. Per lezione (lat. lectio) si intende la forma in
cui si legge – cioè in cui ci si presenta – un luogo del testo in uno o più testimoni; per variante (varia lectio),
invece, si intende la forma in cui un luogo di uno o più testimoni diverge dal medesimo luogo di un altro o di
altri testimoni: sia il concetto di lezione sia quello di variante sono quindi relativi, perché adoperati solo in
termini di raffronto reciproco.
Negli scriptoria del Medioevo (ma non solo) era diffusa la pratica della manipolazione dei testi da parte di
copisti che, avendo a disposizione più testimonianze di uno stesso testo, ne facevano una collazione,
annotando a margine o in interlinea le correzioni e allestendo così le cosiddette editiones variorum. Benché
non ci sia arrivato nessuno di questi collettori di varianti, talvolta i copisti li hanno usati durante il loro
lavoro, copiando le diverse varianti o selezionandole. Occorre quindi distinguere tra i manoscritti oggetto di
alterazioni redazionali e quelli oggetto di rifacimenti a posteriori. Il principio della variante d'autore, di cui si

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è spesso abusato, consiste nella possibilità che l'autore di un testo possa averne prodotto diverse versioni, che
sono quindi tutte originali benché tra loro differenti (sulla “filologia d'autore” vedi oltre). I rifacimenti, più
facilmente testimoniabili, erano una pratica piuttosto diffusa soprattutto nel Medioevo, quando si aveva un
concetto di letteratura molto diverso dal nostro, per cui era concesso addirittura intervenire per “migliorare”
le opere altrui.
Per quanto possa apparire un dato sbalorditivo per i non addetti ai lavori, D'Arco Silvio Avalle, illustre
filologo della seconda metà del Novecento, ha calcolato che per i testi volgari si può considerare normale
una variante ogni 15 parole circa. E bisogna tener presente un'ulteriore complicanza che può contrassegnare
un testo: qualora la recensione della sua tradizione manoscritta metta in luce soltanto opposizioni di varianti
adiafore (cioè dotate di pari autorità), bisogna riconoscervi più redazioni, che devono essere ciascuna oggetto
di una propria edizione.

b. La recensio
La recensio è l'accertamento della tradizione relativa ad un testo. Essa consiste nella valutazione della
qualità di tutti i testimoni utili alla ricostruzione del testo originale e nel lor confronto (collatio codicum), in
cui si individuano i luoghi critici che contengono errori e varianti. Sarà proprio il confronto tra tali errori a
permettere al filologo di classificare i testimoni e di organizzarli secondo le relazioni di parentela tra un
codice e l'altro, allestendo così lo stemma codicum, un diagramma ad albero che mette in relazione i
testimoni in base alla loro “discendenza” reciproca (ne verranno forniti poi degli esempi). In uno stemma i
testimoni sono contrassegnati con sigle a iniziale maiuscola, le famiglie e le sottofamiglie con lettere
minuscole o greche e i rapporti genealogici con segmenti verticali. La posizione delle lettere in senso
verticale è determinata dalla cronologia relativa dei codici, incominciando dall'alto per i più antichi e via via
scendendo ai più recenti; qualora sia possibile recuperare la cronologia assoluta dei testimoni, la si incolonna
a lato dello stemma, così da affiancare ai codici la loro (spesso presunta) datazione.
La recensio permette di risalire all'archetipo, cioè all'antenato comune all'intera tradizione di una
determinata opera, che è però distinto dall'originale perché già corrotto. In particolare fu Lachmann a fondare
il proprio metodo sul presupposto che la tradizione di ogni autore risalisse sempre e in ogni caso ad un unico
esemplare già sfigurato di errori e lacune, chiamato appunto archetipo.
Nel caso più semplice, la trasmissione di un'opera è – secondo la denominazione di Pasquali – «verticale»,
cioè avviene linearmente di copia in copia, senza deviazioni, e ogni testimone risale a un solo “genitore”: la
trasmissione risulta così univoca, cioè riguarda un testo fissato senza alternative. È chiamata invece
«orizzontale» o «trasversale» una tradizione in cui intervenga più di un antigrafo, per contaminazione o
collazione totali o parziali. Il caso più frequente, infatti, è quello della collazione parziale, un metodo
praticato dagli editori speditivi: costoro seguono fedelmente un unico antigrafo salvo nei punti
insoddisfacenti, per i quali ricorrono ad un altro esemplare. Se anche il ricostruito è più “vero” del testo
tramandato dal singolo codice, questa pratica complica però le operazioni della recensio, in quanto perturba i
rapporti genealogici tra le famiglie della tradizione e non permette la selezione oggettiva della lezione
migliore.
Nell'affrontare lo studio della tradizione, che spesso può essere vastissima, viene praticata solitamente una
limitazione ai manoscritti più antichi, nella credenza che essi trasmettano un testo più vicino all'originale. A
questo principio, tuttavia, sempre il Pasquali (ma già altri, benché in modo meno chiaro, prima di lui) ha
opposto la legge “recentiores non deteriores”: la sparizione degli antigrafi, infatti, può essere dovuta al caso,
ma qualche volta proprio al fatto che ne esisteva una copia più leggibile o in migliore stato fisico di
conservazione, così che limitarsi a valutare l'attendibilità di un codice in base alla sua datazione spesso si
rivela controproducente.
Similmente, non bisogna affidarsi alla maggioranza semplice dei testimoni, ma confrontare tra loro
testimoni di pari autorità, arrivando ad una maggioranza “qualificata”. Un criterio preliminare valido ed
obbligatorio è l'eliminatio codicum descriptorum, cioè il non considerare i codici copiati da un altro codice in
possesso dell'editore, rispetto al quale presenteranno i medesimi errori oltre ad alcuni loro propri. Tuttavia,
un codex descriptus può essere utile quando il suo antigrafo si è corrotto dopo esser stato trascritto, oppure
può servire come fonte di emendamenti o di variae lectiones e in generale fornire notizie utili riguardanti la
storia e la fortuna del testo che tramanda (dove è stato copiato e perché, chi lo copiò, chi lo possedette ecc.).
Il requisito considerato discriminante per l'identificazione delle parentele non è il consenso nella
conservazione delle lezioni giuste, bensì la comunanza di errori: infatti, mentre la lezione giusta può essere

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stata riprodotta indipendentemente nei testimoni, l'errore, in quanto deviazione dall'originale, costituisce
l'unico elemento comprovante le reciproche relazioni. Non tutti gli errori sono utili a riconoscere una
connessione o una dipendenza, ma solo quelli significativi, che sono stati chiamati “errori-guida” o “errori-
direttivi”. Si considerano significativi gli errori che non possono essere stati commessi autonomamente in
manoscritti diversi (errores coniunctivi o monogenetici) e che dunque dimostrano la parentela derivata dalla
comune fonte contenente l'errore. Al contrario, sono considerati significativi per affermare l'indipendenza di
manoscritti quegli errori di natura tale da non poter essere stati corretti per congettura nell'epoca a cui risale
la parte di tradizione recante la lezione genuina, o – in altre parole – che potrebbero essersi prodotti
indipendentemente presso copisti diversi in differenti condizioni di spazio e di tempo (errores separativi o
poligenetici).
Immaginiamo che un originale perduto O sia noto solo attraverso tre copie (A, B e C) e che esse presentino
un certo numero di divergenze, cioè di varianti. L'editore, non avendo di fronte una testimonianza unanime,
dovrà decidere quale dei testimoni «ha ragione», e la scelta diventa imbarazzante se A, B e C presentano
nello stesso punto lezioni diverse, eppure tutte di per sé accettabili (varianti adiafore). Anche qualora una
lezione sia maggioritaria, non può essere preferita automaticamente senza avere un'idea dei rapporti reciproci
dei testimoni, cioè senza aver formulato prima quelle ipotesi genealogiche che si esprimono nello stemma.
Infatti, se B è copia di A (immagine I) o se entrambi derivano da un comune antecedente perduto (immagine
II), non si ha la maggioranza di due testimoni contro uno ma parità.

Nella situazione illustrata nell'immagine I il codice B è completamente inutile come testimone, in quanto è
un descriptus di A; parimenti, nella situazione dell'immagine II i codici A e B sono utili non come individui
autonomi da contrapporre a C, ma per le informazioni che offrono sul codice interposto (cioè un esemplare
intermediario perduto, ma la cui necessità risulta evidente dalle parentele tra i testimoni) a. Si comprende
così che per conoscere l'originale (O) occorrono i testimoni che ne sono direttamente derivati, cioè A e C
nell'imm. I e a e C nell'imm. II. Il fatto che A e a abbiano dato a luogo a una o cento copie non li rende né
più né meno autorevoli di C.
Distinte le eventuali differenze di sostanza, ossia l'avere una parola per un'altra, da quelle di forma, ossia
l'avere una medesima parola ma sotto una diversa veste, grafica o fonetica (in proposito cfr. il paragrafo
specifico), per definire i rapporti genealogici tra i testimoni basta studiare la sostanza. Dati per esempio tre
codici (A, B e C), la loro coincidenza più o meno estesa in lezioni giuste consente qualsiasi configurazione,
purché non si oppongano dei dati esterni (come potrebbe essere la cronologia dei testimoni). Sono così
possibili stemmi diversissimi (immagine III):

Può allora essere rivelatrice la diversa distribuzione delle innovazioni rispetto all'originale, tanto più se si
tratta di innovazioni sicure ed evidenti che possono guidare l'editore nel disegno dello stemma (errori-guida),
a seconda che siano separative o congiuntive.
Se infatti scopriamo in A e in B almeno un comune errore congiuntivo, sono possibili queste tre diverse
configurazioni dei loro rapporti (immagine IV-VI):

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Se poi in A si trova almeno un errore separativo che manca in B, allora il caso illustrato nell'imm. IV è
escluso; reciprocamente, se in B si trova almeno un errore separativo che manca in A, allora il caso dell'imm.
V è escluso. Qualora ricorrano errori separativi sia di A rispetto a B sia di B rispetto ad A, l'errore
congiuntivo richiede la situazione presentata nell'imm. VI, che può coinvolgere altri intermediari perduti
(codices interpositi) fino al vertice dello stemma.

Consideriamo ora l'esempio di cinque testimoni distribuiti in due famiglie (immagine VII-VIII):

Se esiste almeno un errore congiuntivo comune sia ad a (cioè ad A e B) sia a b (cioè a C, D e E), allora a e
b derivano da un altro codice x (immagine IX).

La presenza di almeno un errore comune a tutti i testimoni conservati è prova necessaria e sufficiente per
postulare l'esistenza di x, cioè il discendente dell'originale, capostipite di tutta la tradizione (archetipo). In
mancanza di prove riguardo all'archetipo, lo stemma sarà diverso nella sua parte alta: al posto di x si troverà
direttamente O.
Una volta costruito lo stemma, la scelta tra varianti equivalenti può basarsi – eccezion fatta per casi
eccezionali – sulla legge della maggioranza, perché, essendo ora nota la genealogia dei testimoni, essa verrà
applicata solamente all'interno di ciascun raggruppamento. Non è tuttavia sempre possibile formare una
maggioranza e quindi decidere in modo meccanico, evitando l'interferenza del giudizio soggettivo: la
possibilità di scegliere tra lezioni equiprobabili, ad esempio, è limitata alle parti inferiori dello stemma,
mentre in alto è molto frequente il bipartitismo, che impedisce di utilizzare procedimenti meccanici. Come
illustrato acutamente da Bédier, quando l'archetipo dà luogo a due subarchetipi a e b, ciascuno dei quali è
portatore di una sua valida lezione, il metodo di Lachmann entra in crisi: la sua meccanicità si rivela
illusoria, perché, essendo bipartita la maggioranza degli stemmi, le scelte decisive dipendono esclusivamente
dalla volontà del filologo. In tali casi, occorre confrontare non il valore stemmatico dei testimoni, ma il
valore intrinseco delle lezioni: l'editore, cioè, deve decidere tenendo conto di una maggiore o minore
conformità all'usus scribendi, cioè alla lingua e allo stile dell'autore, del genere letterario, dell'epoca cui
l'opera appartiene.
Può essere utile al filologo anche il criterio della lectio difficilior: considerando che, solitamente, copiando
si banalizza, la variante più difficile conservataci può essere preferita come lezione che doveva essere in un
codice interposto o nell'archetipo, in quanto la sua difficoltà stessa spiega la genesi delle lezioni concorrenti.
Inoltre, quando nessuna delle varianti attestate presenta requisiti per essere preferita alle altre, conviene

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tentare di elaborare una lectio difficilior congetturale (che sarà per tanto una delle possibili ipotesi), tale cioè
che spieghi, con la sua difficoltà, quella proliferazione di banalizzazioni e di errori che Contini ha chiamato
“diffrazione”. Tuttavia, anche questo criterio deve essere utilizzato con discrezione, evitando di riconoscere
come lectio difficilior più di una insensata deformità.
Nei casi in cui la lezione dell'archetipo non si può fissare in modo meccanico si parla, con i termini
adoperati da Pasquali, di «recensione aperta», contrapposta a quella «chiusa», dove sono possibili scelte
meccaniche. Tenendo presente che anche gli stemmi sono semplicemente delle ipotesi di lavoro e che
l'esasperato bipartitismo analizzato da Bédier può anche essere risolto in stemmi tripartiti, tuttavia il metodo
di Lachmann è molto spesso ostacolato dal doversi confrontare con recensioni aperte. Esso, però, resta utile
per l'eliminatio lectionum singularium, cioè lo scartare le lezioni dei testimoni rimasti isolati dopo la
divisione dei codici in famiglie, in quanto presentano innovazioni isolate.
Massima prudenza occorre soprattutto quando i testimoni si raggruppano in modo incostante, quando cioè
vi può esservi una contaminazione, indicata nello stemma con una linea tratteggiata che collega i codici che
si presume ne siano coinvolti. Se ad esempio il codice C talvolta condivide errori e lezioni caratteristiche di
A e di B, allora è probabile che derivi per lo più da b ma in qualche misura anche da a (immagine X):

Di solito è impossibile accertare esattamente i confini della contaminazione e un caso che coinvolga molti
testimoni rende pressoché inutilizzabile lo stemma, costringendo il filologo a fare sistematicamente ricorso ai
criteri della lectio difficilior e dell'usus scribendi. Inoltre, se la tradizione è contaminata in modo endemico,
disegnare uno stemma può essere impossibile per la difficoltà di accertare numero e direzione dei rapporti,
oppure inutile per la quantità di linee tratteggiate da inserire.
Il diverso comportamento dei copisti non è noto a priori ma solo dopo lo studio approfondito della
tradizione. La recensio, dunque, è sempre indispensabile ed ha rappresentato storicamente un grande passo in
avanti rispetto alle edizioni basate sulla vulgata o su un unico testimone emendato ope ingenii (cioè
unicamente per congetture dell'editore) o ope codicum (cioè con il ricorso acritico ad altri testimoni).

c. L'emendatio
Completata la recensio, il filologo deve esaminare se la tradizione ricostruita è autentica o no, cioè se essa
vale come originale o meno al fine della constitutio textus, della ricostruzione del testo presumibilmente più
vicino all'originale. Questa nuova fase del lavoro filologico è chiamata emendatio e non è semplicemente la
correzione degli errori, ma l'intero insieme delle operazioni mediante le quali il testo viene stabilito.
Se la ricostruzione della tradizione di un'opera contiene degli errori o lacune, se ne deve dedurre che essa
non deriva immediatamente dall'originale, ma che è passata attraverso un archetipo – nel caso della recensio
chiusa – o attraverso filoni complessi e diversi – nel caso della recensio aperta.
L'emendatio può avvenire ope codicum (o ex libris), quando la correzione nasce da lezioni presente nei
codici, quando si fonda cioè sui risultati ottenuti in sede di recensio; nel caso particolare in cui il testo si rifà
ad un modello (imitandolo, parodiandolo, traducendolo ecc.) e la correzione nasce dalla fonte di quel testo, si
parla di emendatio ex fonte. Quando invece un passo del testo viene sanato introducendo una correzione
senza l'aiuto della tradizione, l'emendatio è detta ope ingenii (o ex ingenio) e si fonda su congetture
dell'editore (tanto che questo metodo è anche chiamato divinatio, evidenziando le doti quasi “profetiche” del
filologo).
Una buona congettura deve essere innanzitutto coerente da ogni punto di vista col testo dove si inserisce:
dipende quindi in modo decisivo dalla sensibilità del filologo, dalle sue conoscenze e dal suo senso della
lingua e dello stile, facendo anche riferimento – come durante la recensio – ai principi dell'usus scribendi e
della lectio difficilior. Un'altra importante conferma può venire dalla possibilità paleografica della

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congettura: quando cioè la sua forma scritta è tale da spiegare come mai, leggendo l'originale, il copista sia
caduto in errore (un caso frequente è, ad esempio, la confusione in alcuni codici in scrittura minuscola tra la
a e la u, espresse da segni grafici molti simili). Un motivo valido di espunzione nell'ambito specifico della
poesia è il trovarsi di fronte ad un verso ametrico, che cioè non rispetta le normali regole metriche (per
esempio il computo delle sillabe nella lirica volgare).
Esistono tuttavia degli errori inemendabili, come le lacune di una certa estensione. Altre volte, l'editore
può riuscire ad intuire il contenuto concettuale del passo guasto, ma non può riproporne quello formale (cioè
le parole precise usate dall'autore per esprimere il concetto in questione). Un principio generale è quello per
cui una congettura è tanto più probabile quanto meglio appare verosimile che dalla lezione congetturata siano
nate quelle presentate dalla tradizione. Qualora invece il filologo, di fronte ai casi più difficili, rinunci a
proporre una congettura, è opportuno che indichi l'entità probabile delle lacune con dei puntini tra parentesi
quadre o che segnali i passi senza senso facendoli precedere e seguire dalla crux desperationis ( † ).

d. Le varianti formali: problemi e soluzioni


Il metodo lachmanniano ha validità integrale per le opere in lingue come il latino, il greco e l'ebraico,
mentre vale solamente per la sostanza dei testi volgari e non per la forma, cioè per la fonetica e la
morfologia, soggette ad un'illimitata variabilità geografica e cronologica.
Caratteristico della maggior parte delle opere letterarie romanze è, infatti, il problema della forma
linguistica del testo criticamente ricostruito: la stessa lezione può essere sicurissima dal punto di vista della
sostanza, ma inattendibile dal punto di vista fonetico, o perché qualche copista ha ringiovanito la lingua
dell'originale, o perché l'ha adattata alla propria. Per risolvere questo problema, ci sono stati dei fautori di un
drastico intervento volto a rimuovere la patina sovrapposta al fine di restaurare l'ipotetica fisionomia
dialettale originaria: i risultati, però, si sono dimostrati per lo più arbitrari, perché spesso un'antica parlata
non è ben nota su base documentaria e, in ogni caso, non sappiamo in che misura essa venisse riprodotta
dall'autore in questione.
Nei testi poetici qualcosa si chiarisce quando certe forme e non altre sono garantite dalla corrispondenza
obbligata delle rime ed è quindi possibile eliminare alterazioni dovute ai copisti; sarebbe invece pericoloso
estendere sistematicamente il restauro anche all'interno dei versi.
Occorre procedere con prudenza e attenzione ai problemi posti da ciascun singolo testo, assumendo come
criterio generale quello di attenersi a ciò che è effettivamente documentato nei codici. Una soluzione molto
diffusa consiste nell'adeguarsi per la forma delle parole al manoscritto più prossimo, per quanto è dato
sapere, alla lingua dell'autore.
All'inizio della nostra letteratura sta il caso limite della poesia siciliana, nota quasi soltanto grazie a copie
toscanizzate e quindi infedeli dal punto di vista fonomorfologico. Questa complessa situazione ha indotto
alcuni studiosi a stampare quei testi “ritraducendoli” in siciliano, ma il risultato è assolutamente
inattendibile, sia perché mancano informazioni sulle precise caratteristiche duecentesche del dialetto, sia
perché è impossibile conoscere per ciascun poeta e ai vari libelli (fonetico, morfologico e lessicale) il grado
di mescolanza tra elementi locali, latinismi, provenzalismi e francesismi.
Una valida soluzione editoriale per risolvere il problema delle varianti formali è il seguire un testimone a
preferenza di altri, qualora esso presenti una fisionomia coerente con quella che fu verosimilmente
dell'originale perduto. Il rischio immanente a simili scelte di rigorosa fedeltà ad un solo testimone è quello di
attribuire all'autore le caratteristiche grafico-linguistiche di un qualsiasi copista, inducendo anche i lettori in
pericolosi errori di prospettiva.
Il dover analizzare una tradizione plurima, con le sue discordanti grafie, permette all'editore una maggiore
libertà di scelta, rendendolo arbitro di decidere secondo criteri uniformi e razionali: egli non solo introduce
secondo l'uso moderno maiuscole, minuscole e punteggiatura, ma interviene anche sulla grafia delle parole
per ricondurla ad uniformità.

e. L'edizione diplomatica, interpretativa e critica


Un testo, a seconda della sua destinazione, delle sue caratteristiche materiali e delle esigenze editoriali, può
essere pubblicato in diversi modi, tra i quali si distinguono le tre edizioni “scientifiche”: diplomatica,
interpretativa e critica.
L'edizione diplomatica riproduce un testo in maniera accurata e fedele al suo aspetto esteriore, per quanto
lo consente l'uso dei moderni caratteri a stampa; non sempre però, soprattutto per le opere di grande mole,
questo tipo di edizione riesce perfetta e conviene pertanto al filologo servirsene come sussidio non

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alternativo alla consultazione diretta del manoscritto.
Da quando è diventato facile procurarsi riproduzioni fotografiche, l'edizione diplomatica ha perso gran
parte della sua ragione di esistere e si giustifica tutt'al più come sussidio perfezionistico nell'ambito di alcune
edizioni critiche.
Un esempio di edizione diplomatica è la seguente sirima della canzone Donna, eo languisco e no so
qua·speranza di Giacomo da Lentini, conservata unicamente dal codice Vat. lat. 1793 della fine del
Duecento:

L'unico elemento introdotto dall'editore è la barra verticale per segnalare gli a capi del manoscritto; per il
resto è stato riprodotto all'inizio il segno speciale che contrassegna il passaggio dalla fronte alla sirima e il
punto fermo alla fine dei versi scritti di seguito a tutta pagina. Inoltre, è stato sciolto tra parentesi rotonde
quanto era condensato da segni di abbreviazione, mentre restano intatte particolarità grafiche di poco conto,
come la forma allungata di i (jn), l'uso di u anche con valore di v (uoi, cioè «voi»), la scempia (consonante
semplice) in aquistai (non priva forse di valore fonetico), la seconda l espunta in eseglilnaltro.
Secondo tecniche più moderne, introducendo un certo numero di segni convenzionali è possibile poi
ottenere trascrizioni molto sofisticate che rendono conto minuziosamente delle particolarità del manoscritto.
L'edizione interpretativa, invece, consente con mezzi semplici e – per così dire – immanenti, senza
modificare la sostanza grafico-fonetica del testo, di fornire un'interpretazione. Per esempio, il passo di
Giacomo da Lentini si presenterebbe così:

Il progresso rispetto all'edizione diplomatica è notevole, ma rimane inespressa la complessità metrica del
testo, irrisolto qualche punto oscuro o problematico, assente ogni ipotesi sullo stato dell'originale. L'edizione
interpretativa di un'opera letteraria si rivela quindi essere una pressoché inutile fase intermedia tra la
trascrizione diplomatica e l'edizione critica.
È frequente che copie poco interessanti dal punto di vista ecdotico (cioè dell'allestimento di un'edizione
critica) siano invece preziosi documenti dell'uso antico del volgare nelle varie regioni; come tali devono
essere pubblicati rispettando in modo integrale la loro fisionomia. Inoltre, l'edizione interpretativa è adatta ad
antichi testi di carattere pratico e documentario, per i quali è sicuro che sono gli originali (lettere private, libri
di conto, ricordi personali ecc.) o è irrilevante la distinzione tra originale e copia (registri cancellereschi,
deposizioni giudiziarie, testamenti, ricette, descrizioni di beni ecc.).
È opportuno che l'edizione interpretativa segua criteri di intervento rigorosi e chiaramente predeterminati,
come: la divisione delle parole, la distinzione tra maiuscole e minuscole, una punteggiatura e un'accentazione
secondo l'uso moderno, parentesi rotonde per lo scioglimento delle abbreviazioni, parentesi quadre per le
lacune e per le eventuali integrazioni congetturali e parentesi aguzze per singole lettere e parole cancellate.
Di un testo l'edizione interpretativa riproduce ciò che interessa e omette, intenzionalmente o
spontaneamente, cioè che non interessa: è la traduzione o l'adattamento di un sistema storicamente
individuato in un altro sistema. La commutazione del sistema, però, porta inevitabilmente con sé alcune
contraddizioni, che sono variabili in rapporto alla finalità che l'edizione si prefigge. Ad esempio, se si vuole
dare un'edizione del Petrarca latino secondo gli autografi o secondo l'uso comune al suo tempo, non c'è
nessun dubbio che vada scritto -e e non -ae per la desinenza di genitivo singolare della prima declinazione, o
nichil al posto di nihil; se invece si persegue uno scopo divulgativo, sarà lecito normalizzare queste forme
per renderle meglio riconoscibili.
L'edizione critica rappresenta il risultato ultimo del lavoro di ricostruzione del testo, il modo in cui esso
apparirà al pubblico. A partire dai dati ricavati dalla recensio e dalla emendatio, il filologo formula un'ipotesi
esplicita sullo stato del testo originale, segnalando eventuali punti in cui una conclusione sia dubbia o
impossibile.
Il brano di Giacomo da Lentini, nell'edizione critica – che, si ricordi, è su codice unico – proposta da

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Roberto Antonelli, si presenta dunque così:

A questo risultato si arriva lavorando su tutti i 50 versi della canzone e all'interno di un sistema di
esperienze che riguardano il genere «canzone», l'intera produzione di Giacomo e degli altri siciliani, nonché,
sullo sfondo, la lingua e la letteratura antica della Romània.
Si noti che all'endecasillabo perfetto del v. 45 segue il v. 46 che invece di essere, secondo lo schema della
canzone, settenario, misura sei sillabe (è cioè ipometro): occorre pertanto intervenire, reintegrando una
sillaba tra parentesi quadre nel luogo dove l'omissione si può spiegare nel modo più semplice. Nel caso di
pur[e], infatti, l'amanuense, avendo spesso a che fare con alternanze tipo amore/amor, colore/color,
more/mor, ha sostituito involontariamente, copiando, una forma all'altra.
Il v. 48 è caratterizzato da una lacuna: manca un bisillabo terminante in consonante (come potrebbe essere
Amor) o un trisillabo in vocale che farebbe sinalefe con l'iniziale di in. Il v. 50 deve essere endecasillabo ma,
così come ce lo offre il codice, è ipermetro, oltre che di senso oscuro; basta tuttavia emendare riducendo non
a 'n (cioè in aferetico) e intendere quindi «chi più concentra il suo pensiero in voi, più ci rimette».
Si noterà poi che penssa del manoscritto è stato modernizzato in pensa v. 50, ritenendo dunque, se non
nullo, almeno trascurabile dal punto di vista fonetico il valore di ss, e che analogamente vincie è ridotto a
vince v. 49.
Dato che l'edizione critica è un'ipotesi di lavoro, il lettore deve essere messo nelle condizioni di verificarla
punto per punto e, eventualmente, di dissentire. È quindi molto importante che siano presenti una nota al
testo, che informi in modo esauriente sui criteri seguiti dall'editore, e un apparato critico, che consenta con
rapidi controlli di confrontare la lezione accolta nel testo con quelle scartate.
I modi di organizzazione dell'apparato critico possono essere molto diversi, soprattutto a seconda del
numero dei testimoni e della quantità dei materiali raccolti durante la collazione. Preliminarmente si
distingue tra un apparato positivo, che registra la lezione accolta nel testo e – dopo il segno ] – ciò che è
stato rifiutato, e un apparato negativo, che non indica i testimoni della lezione accolta nel testo. Benché
talvolta faccia risparmiare spazio, l'apparato negativo è di consultazione più faticosa e quindi sconsigliabile.
Spesso si ricorre a forme miste suggerite da opportunità e buon senso, seguendo l'orientamento enunciato da
Antonio La Penna: «L'apparato deve essere quanto più chiaro possibile: sarà positivo o negativo secondo che
la chiarezza lo esige. Se un editore usa, mettiamo il caso, dieci codici e due danno lezione errata, basterà
riportare in apparato la lezione errata dei due codici; se due hanno la lezione giusta, riporterà in apparato la
lezione giusta e metterà accanto la lezione errata seguita da cett. (cioè ceteri, tutti gli altri); se cinque danno
lezione giusta e cinque lezione errata, sarà più comodo per il lettore avere sotto gli occhi le sigle di ambedue
i gruppi; lo stesso, se tre codici hanno lezione giusta, quattro una lezione errata, gli altri tre una lezione errata
ma diversa, ecc.».
Può essere utile eliminare in blocco le varianti formali, riservando ad esse un'apposita trattazione in alcune
pagine preliminari. Qualora poi siano state identificate delle varianti d'autore, occorre ben distinguerle con
particolari segni tipografici o dedicarvi una seconda fascia di apparato. Lanfranco Caretti, filologo e critico
letterario del Novecento, ha proposto di chiamare “sincronico” il normale apparato critico e “diacronico”
quello delle varianti d'autore. Quest'ultimo apparato è distinto da Dante Isella, collega appena più giovane di
Caretti, in genetico ed evolutivo: fissato un testo base, si possono avere varianti ad esso anteriori, che
riguardano la sua genesi, ed eventuali varianti ad esso posteriori, che riguardano la sua evoluzione.
In un'edizione critica non devono mancare una nota al testo (o introduzione), in cui l'editore spiega come è
arrivato a formulare la sua ipotesi di testo; l'apparato, dove vengono confrontate le lezioni accolte e quelle
scartate; una tradizione o parafrasi (sono ormai rare e retaggio del passato certe edizioni di classici senza
traduzione, come quelle della Teubner). A seconda dei casi, l'editore deve valutare se occorrano: un
commento che fornisca l'interpretazione puntuale dei singoli passi o che identifichi le citazioni; un glossario;
una descrizione linguistica del testo pubblicato.
L'arte di pubblicare i testi cambia secondo le mode, che tramontano e risorgono, e anche all'interno di un
quadro di riferimento sostanzialmente lachmanniano sono state elaborate nuove strategie, per lo più

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consistenti nell'assolutizzazione di una fase del procedimento tradizionale. Su questa linea si è avuto nella
filologia classica il tentativo di eliminare arbitrariamente presunte interpolazioni sulla base di indizi spesso
poco consistenti. Similmente legata alle doti personali del filologo è la tendenza a privilegiare la critica
congetturale, di cui un grande esponente è stato Alfred Edward Housman, poeta e filologo inglese vissuto a
cavallo di Otto e Novecento.
Per evitare tali eccessi, è utile l'ammonimento di Cesare Segre: «Bisogna abituarsi a rompere il riflesso
condizionato errore-correzione, e lasciare uno spazio di prudenza fra la consapevolezza dell'errore, o persino
l'intuizione di una possibile congettura, e l'intervento diretto sul testo. La critica testuale non è chirurgia
plastica, ma apertura a un inesauribile esercizio mentale».

f. La filologia d'autore
Spesso nelle letterature romanze si ha a che fare con testi rielaborati, o dall'autore stesso o da copisti-
coautori, magari sollecitati dall'autore. Esistono così dei testi che «vivono di varianti» e ci sono giunti
secondo diverse redazioni, ciascuna delle quali è un individuo a sé stante e va trattata come tale dal punto di
vista editoriale.
I testi letterari dell'antichità classica e – in gran parte – del Medioevo ci sono arrivati non in originale ma
in una o più copie, il cui esame, volto a stabilirne l'attendibilità, consente di risalire all'originale perduto o
quanto meno di formulare su esso ipotesi motivate. Per questo scopo è fondamentale riconoscere le
alterazioni dovute a copisti distratti o poco scrupolosi o inclini ad introdurre modifiche secondo il loro
giudizio: si arriva così da un lato ad eliminare gli errori, le lacune e le aggiunte arbitrarie, dall'altro a
scegliere tra lezioni divergenti ma di per sé non manifestamente erronee. Viene così scartata la varia lectio,
cioè la variante prodottasi nel corso della trasmissione del testo, e se ne fa menzione nell'apparato critico.
Spesso, però, è difficile arrivare a conclusioni sicure, perché si contrappongono due o più lezioni ottime e
assolutamente equivalenti, tanto da far nascere il dubbio che ciascuna risalga all'autore. Può essere successo,
ad esempio, che egli abbia dato da copiare un suo componimento e che poi abbia modificato l'esemplare in
suo possesso, facendolo nuovamente trascrivere nella forma variata: conservandosi copie sia del primo che
del secondo tipo, ci troviamo di fronte a varianti prodotte non da copisti ma dall'autore stesso. Questo è il
caso del noto sonetto dantesco Era venuta ne la mente mia, i cui versi iniziali presentano nella tradizioni
manoscritta differenze che sono sicuramente da attribuire a Dante, in quanto nel cap. XXXIV della Vita
Nuova racconta d'aver composto «due cominciamenti» di quel sonetto e li cita per esteso, fornendo agli
studiosi moderni la prova dell'esistenza di varianti d'autore:

Nel caso di un'opera di cui possediamo l'originale (o un autografo o un idiografo, cioè una copia
sorvegliata dall'autore), non si tratta più di ricostruire un'entità scomparsa, ma di dar conto dell'esistente,
dove tutto dipende dalla volontà dell'autore. In originale, infatti, si conserva spesso non soltanto la fase finale
del testo, ma anche una documentazione più o meno ampia della sua vicenda compositiva: per esempio, un
manoscritto autografo con parole cancellate e sostituite da altre testimonia il percorso compiuto per arrivare
in quei singoli punti alla lezione definitiva.
Interventi ripetuti e massicci da parte dell'autore rendono talvolta il testo d'arrivo assai distante da quello
di partenza, tanto da far sorgere il dubbio se ci si trovi davanti ad un unico testo variato o a testi autonomi.

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Nel caso di entità così remote, che ha senso confrontare soltanto globalmente, si parla di redazioni; nel caso
in cui un sistematico confronto puntuale sia possibile si parla di differenti stesure di una medesima opera,
oppure di un'unica opera con varianti.
La «filologia d'autore» riguarda i problemi editoriali posti dalla multiforme tipologia degli originali e si
esercita soprattutto su testi dell'età post-medievale, dato che allora aumenta la quantità di originali conservati
e diventa sempre più frequente trovare, accanto alla redazione definitiva, abbozzi, minute e numerosissime
bozze tipografiche corrette. Con l'invenzione della stampa, infatti, il manoscritto ha cessato di essere – di
solito – lo strumento di diffusione di un'opera, ma certamente non della sua produzione, accogliendone tutta
l'evoluzione creativa. Nell'età moderna siamo spesso in possesso di grandi quantità di scartafacci di vario
genere, mentre è raro che di un'opera letteraria del Medioevo siano rimasti uno o più autografi, o addirittura
stesure parziali o abbozzate: è eccezionale, infatti, il caso del cod. Vat. lat. 3196 di Petrarca (il cosiddetto
“codice degli abbozzi”), che contiene correzioni, varianti e postille di alcuni testi che sarebbero poi entrati
nell'originale del Canzoniere (Vat. lat. 3195).
Dal punto di vista della problematica editoriale importa non tanto il materiale preparatorio alla stesura (di
cui spesso, per gli autori contemporanei, siamo in possesso), quanto la vera e propria stesura dell'opera, cioè
gli abbozzi, le redazioni manoscritte, le edizioni a stampa e le ristampe con varianti. Occorre pertanto
distinguere tra varianti realizzate, che sostituiscono effettivamente una forma precedente, e varianti non
realizzate (o alternative), annotate ad esempio senza cancellare il corrispondente segmento. A seconda del
loro modo di realizzazione, si distingue tra varianti per aggiunta, sostituzione, permutazione e soppressione.
Infine, guardando ai tempi di esecuzione in rapporto al contesto, le varianti possono essere immediate o non
immediate (cioè tardive). Per quest'ultima distinzione è molto importante la posizione: se, per esempio, si
succedono in linea un segmento cancellato a sinistra e un nuovo segmento a destra si tratta di varianti
immediate, nel senso che tale giacitura è causata da un pentimento seguito subito dopo dalla correzione.
Similmente, quando si ritorna su un segmento di testo concluso, non essendoci più spazio disponibile a
destra delle parole sulle quali si vuole intervenire, si ricorre ad altre zone vuote, come l'interlinea o i margini,
che sono dunque le sedi caratteristiche delle varianti tardive.
Anche per le varianti d'autore vale la distinzione tra formali e sostanziali e le prime possono essere
elencate in una specifica fascia dell'apparato critico. Modifiche formali riguardano spesso tutto il testo e il
loro inserimento, di solito, appartiene ad un'unica fase elaborativa.
Poiché raramente si arriva a stabilire la cronologia relativa tra le varianti, occorre almeno essere certi che
esse facciano parte dello stesso strato, cioè dello stesso insieme organico. Le spie più sicure di questo legame
comune sono le caratteristiche materiali come il colore dell'inchiostro, certi cambiamenti nel modo di
scrivere e la posizione sulla pagina, ma conta anche la dipendenza da un medesimo progetto creativo o
l'avere un rapporto preciso con fatti storici o vicende private che rimandano ad un determinato arco
cronologico. All'interno di un singolo strato occorre stabilire quante e quali sono le fasi elaborative,
prendendo in esame le varianti tardive e non quelle immediate, che per loro natura non hanno autonomia
cronologica rispetto alla variante che pure sulla pagina le può materialmente precedere.
L'attribuzione di una variante a una certa fase piuttosto che a un'altra risulta spesso dal posto che occupa
sulla pagina; per esempio, a una stratificazione dal basso verso l'alto nello spazio interlineare corrisponde
una successione di fasi elaborative dalla più antica alla più recente. Quando non è possibile operare una
scelta sicura, nell'edizione critica conviene rassegnarsi a presentare le varianti separatamente.
Per qualsiasi soluzione editoriale è una premessa necessaria che si accerti l'esistenza di un punto di
riferimento valido, cioè di uno stato di quel testo cui commisurare tutto il resto, da sporadiche varianti a
stesure sistematicamente riviste, ma pur sempre confrontabili perché in buona parte identiche. Si tratterà
allora di trovare la strategia più adatta al caso in esame e a parità di condizioni quella che consenta al lettore
di capire come stanno le cose col minimo sforzo. Un metodo efficace è la rappresentazione in colonna, che
consiste nell'incolonnare sulla pagina le fasi attraverso le quali è passato un certo verso o un certo segmento
di prosa, scendendo dalla più antica alla più recente.
La vita solitaria (v. 22) di Leopardi permette di esemplificare un tipo di variante frutto di costrizione
esterna e utilmente rappresentabile in colonna:

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Si vede ferro dell'autografo napoletano (An) ripristinato nella stampa fiorentina del 1831 (F), dopo che in
quella bolognese del 1826 (B26) era stato corretto in pianto eliminando l'allusione al suicidio, probabilmente
a seguito di un intervento della censura. Se in questo caso Leopardi stesso ha rimesso le cose a posto, altre
volte sta al filologo recuperare un'ultima libera volontà dell'autore diversa dalla «correzione coatta» presente
nell'originale.
Talvolta l'autore, di fronte alle pretese della censura, non procede passivamente e contro voglia alla
correzione, ma reagisce in modo creativo dando luogo ad un rifacimento non occasionale. È questo il caso
dell'Adelchi, nel cui coro dell'atto terzo Manzoni vedeva dei «versi fatti per la censura»: li riscrisse e il passo
guadagnò in concentrazione semantica e in scioltezza espressiva, come si può notare nella parte finale del
coro dal confronto tra la prima stesura (a sinistra) e la seconda «censurata» (a destra):

Inserzioni di parti non originali del corpo del testo sono invece le interpolazioni, la cui natura è spesso
incerta tra rifacimento, falsificazione, glossa esplicativa. Di quest'ultimo tipo sembrano le parti crescenti
negli endecasillabi sciolti del Mare amoroso, che Contini nella sua edizione stampa in corpo minore:

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Come esempio di lavoro di revisione di un'opera da parte del suo autore, possiamo considerare la carta 60v
del manoscritto VS.X.2. (a) dell'Adelchi manzoniano, che contiene i vv. 257-67 dell'atto II scena terza:

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Si osservi al primo verso nel testo e nell'apparato il segno = che riproduce le due lineette con cui Manzoni
indica una pausa forte e che risolverà nella seconda stesura n punto o in due punti o in punto e virgola.
Nell'apparto il corsivo isola la parola di riappicco, ma se il testo si muove dall'inizio del verso, essa è omessa
e basta il numero del verso; la freccia → indica evoluzione immediata fino alla lezione del testo, siglata T; la
barra obliqua / indica la presenza di variante alternativa e in caso di probabile appartenenza alla seconda, non
alla prima fase dell'elaborazione, si aggiunge convenzionalmente [B?]; punti tra parentesi uncinate < ... >
indicano parole illeggibili per cancellatura.
Si noti che al v. 264 gioconda è cancellato e sostituito con ridente. A differenza di quanto capita al v. 260,
dove è incerto a quale stesura appartenga la variante alternativa sire, senza dubbio ridente non conclude
l'elaborazione della prima stesura ma inizia l'elaborazione della seconda (e quindi non compare
nell'apparato).

Altro esempio può essere l'autografo


leopardiano di A Silvia, di cui prendiamo
in considerazione la prima (vv. 1-22)
delle quattro pagine conservate presso la
Biblioteca Nazionale di Napoli e l'analisi
dettagliata dei primi 9 versi (immagine a
lato).
Il testo sulla colonna esterna (a destra)
sembra non una prima stesura, ma la
copia in pulito di precedenti abbozzi che
non sono conservati: fase avanzata
dell'elaborazione, ma non terminale,
come mostra al v. 1 Silvia sovvienti dove
si passerà a rammenti e infine a rimembri.
Al v. 3 splendeva viene corretto,
cancellando la v, in splendea, più
conforme al gusto e alla norma
leopardiani; al v. 4 Ne la fronte e nel sen
tuo verginale, abolito del tutto, era
preceduto da una variante settenaria (Nel
volto verginale) che Leopardi ha
registrato nella colonna interna (a
sinistra). Nel tormentato v. 5 la correzione
di sguardi incerti in occhi tuoi ridenti
recupera occhi dalla variante E ne gli
occhi tuoi molli e fuggitivi. Dolci, vaghi,
aggettivi, questi due ultimi, alternativi a
molli. Al v. 5 pudica è cancellato per far
posto a pensosa; al v. 12 è attestata la
variante dolce eliminata a favore di vago,
mentre al v. 15 dolci subentra a lungi, ma
poi miei dolci viene cancellato in blocco.
Al v. 16 sudate ha sostituito dilette, e a
fine verso un segno di richiamo segnala
l'inserzione di due versi scritti
eccezionalmente nella colonna riservata
alle varianti, mentre le varianti di questi
vv. 17-18 occupano quattro righe nella quarta paginetta, per il resto bianca. Infine sono cancellati e sostituiti
al v. 19 balconi con veroni, al v. 22 percotea con percorrea di virgiliana memoria (Eneide VII, 14).

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Esaminiamo quindi il testo critico dei versi 1-9, traendolo dall'edizione Peruzzi:

Le sigle utilizzate corrispondono agli autografi e alle stampe approvate dall'autore (in ordine cronologico):
An = autografi napoletani; F = edizione di Firenze, Piatti, 1831; N = edizione di Napoli, Starita, 1835; Nc =
fogli di stampa sciolti, e con correzioni autografe non definitive, di N (cosiddetta “Napoletana corretta”). In
questa edizione si leggono le varie stesure di ciascun verso disposte in ordine cronologico, cioè secondo la
successione del precedente elenco; quando nella successione delle stesure mancano una o più sigle
corrispondenti a fasi successive, vuol dire che queste fasi non presentano modifiche, come nel caso dei vv.
6-9, la cui forma definitiva è già quella di An. Tra parentesi quadre sono racchiuse le parti di scrittura
cancellate e subito sotto si trova ciò che è stato scritto dopo la cancellazione. Con lettere greche a destra si

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distinguono le varie fasi dell'elaborazione particolare di ciascun verso. In corsivo sono ripetute, per chiarezza
e comodità del lettore, parole o parti di parola che Leopardi ha lasciato intatte là dove è intervenuto. Infine
nella parte inferiore della pagina, separate da una linea a sinistra, sono riprodotte le varianti; separato da una
doppia linea è l'apparato di note con le quali il Peruzzi fornisce precisazioni e chiarimenti sulla scrittura,
condizioni del testo ecc.

BIBLIOGRAFIA
Una bibliografia esaustiva riguardo la filologia è impresa ciclopica e irrealizzabile. Per chi fosse interessato
all'approfondimento delle problematiche espresse, consiglio di ricorrere alle bibliografie specifiche (e certo
più tecniche) contenute nei testi che sono stati alla base di questa presentazione:
– AA.VV., Fondamenti di critica testuale, a cura di Alfredo Stussi, II Mulino, Bologna, 1998
– Gianfranco Contini, Filologia, in Breviario di ecdotica, Einaudi, Torino, 1990
– Luigi Lehnus, Appunti di storia degli studi classici, CUEM, 2002
– Leighton D. Reynolds – Nigel G. Wilson, Copisti e filologi. La tradizione dei classici dall'antichità ai
tempi moderni, Antenore, Padova, 1987
– Marina Scialuga, Introduzione allo studio della filologia classica, Edizioni dell'Orso, Alessandria, 2003
– Alfredo Stussi, Introduzione agli studi di filologia italiana, Il Mulino, Bologna, 1994.

Inoltre, pur non rientrando in senso stretto nella bibliografia, mi sono state molto utili le lezioni di Storia
della Filologia e della Tradizione Classica della professoressa Elisa Romano, che ho potuto frequentare
durante questo anno accademico all'Università di Pavia: questo lavoro presenta un debito notevole verso le
acute osservazioni del corso e gli spunti che hanno suscitato.

G.V., Maggio 2008

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