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ACCESO: 03-ago-2016
TEATRO SOLÍS
Aníbal E. Cetrangolo
Il Solís: anello internazionale di una società inclusiva

I Un anello internazionale.

La cronologia del Solís presenta alcune peculiarità che richiamano l’attenzione, soprattutto se
comparate con gli elenchi di altre sale attive nel periodo oggetto degli studi dell’equipe RIIA,
cioè le quattro decadi che risultano tanto significative nel Rio de la Plata per l’analisi della sua
demografia: 1880 – 1920.
Già ad una prima osservazione, il teatro uruguaiano presenta una programmazione
estremamente aperta, che alterna il teatro di prosa con spettacoli quasi circensi, la zarzuela,
l’operetta e l’opera, cosa per nulla abituale nelle stagioni dei teatri delle altre capitali, come la
sala della sponda opposta del fiume. In realtà bisognerà rapidamente correggere quel
riferimento a “la sala” come termine di paragone perché gli argentini offrivano, in confronto
al Solís, tre sale differenti. Nel 1888 distrussero il loro Teatro Colón per costruire una banca.
Quel vetusto ma funzionale teatro era situato di fronte alla Plaza de Mayo ed era di un anno
più giovane del teatro uruguaiano; passarono poi trent’anni prima che si inaugurasse il Colón
attuale. Tra le due sedi, la vecchia e la nuova, la sala di prestigio porteña fu il Teatro de la
Ópera.
Il Solís, il teatro lirico di Rio de Janeiro e quella sede cangiante di Buenos Aires, erano tappe
di compagnie completamente organizzate in Italia e che furono dirette da avventurosi e
piuttosto spregiudicati impresari come Angelo Ferrari, Cesare Ciacchi e Walter Mocchi, il
quale era “a mixture of publicity man, buccaneer and revolutionary socialist not unlike his
friend Mussolini; whose move towards fascism he enthusiastically followed”.1
È vero che per quei personaggi l’attività di organizzare le tournée era un commercio, sebbene
non esente da rischi. Per Ferrari, che in un certo momento controllò la scala di Milano, o a
Mocchi, che nella seconda decade del ventesimo secolo ebbe forti interessi nel teatro di
Roma, portare gli spettacoli costosi dalla sede originaria in America latina significava
approfittare al massimo di un investimento. Questo era possibile perché gli immigranti, che si
erano trasferiti in massa, rappresentavano un nuovo pubblico di italiani che richiedevano
opera dall’altra parte dell’oceano. Questa impresa, che non si fermava mai, trovava nuove
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possibilità di movimento grazie alle stagioni alternate negli opposti emisferi, aveva così
cantanti “rondine” analoghi ai lavoratori che dalla Basilicata si trasferivano annualmente per
lavorare nei raccolti della Pampa. D’altra parte, le remunerazioni in Sud America erano molto
più alte di quelle che si ricevevano in Europa. La Gaceta Musical, in un momento di tensione
con l’impresario Ferrari, lo accusa di abusare della gallina dalle uova d’oro – i cachets rio
platensi – per pagare le sue rischiose produzioni alla Scala. Beniamino Gigli, quando arrivò in
Sud America, disse che si sentiva per la prima volta un cantante internazionale perché non era
mai stato così ben pagato prima di allora.
Parallelamente questo significò che in luoghi così lontani dai centri di produzione lirica, per
esempio Rio, Montevideo o Buenos Aires, si conobbero artisti internazionali del più alto
livello come Mascheroni, Toscanini, Caruso o Muzio; che alcune opere furono presentate al
Solís appena pochi mesi dopo le loro prime mondiali, giacché erano state prodotte per le case
madri dalle quali partivano le tournees; che la presenza di quei cantanti di primo livello rese
possibile che i compositori uruguaiani presentassero le loro opere interpretate da artisti
leggendari come Ninon Vallin, Gilda Dalla Rizza o Tito Schipa; che operatori uruguaiani
come José Oxilia presero contatti con quell’ambiente per poi accedere agli scenari di maggior
prestigio nel mondo dell’opera internazionale.
Queste troupes, nonostante fossero formate in Europa, contarono sulla collaborazione di
elementi locali, soprattutto artisti italiani residenti nel Plata. È il caso di Clemente Greppi e di
Giuseppe Carmignani. Il primo era toscano, nato a Lucca che fu pioniere nella didattica della
musica e che in qualche testo 2 denunciò la xenofobia anti-italiana in Argentina. Greppi fu
frequentemente contrattato come direttore di coro delle opere presentate nel Solís. Il secondo
fu lo scenografo Carmignani di Parma, che presentò molte messinscene in Uruguay e che in
Argentina aveva dipinto il sipario del teatro El Circulo De Rosario, copiando quello dei
Teatro Regio della sua Parma natale.3
Queste compagnie erano formate da gruppi molto numerosi e, in generale, di altissimo livello
artistico. Delle loro presentazioni, alle quali soprattutto, ma non solo, poté partecipare un’
elite avvantaggiata, raccontano le cronologie. Successivamente mostrerò alcuni eventi di
questa lista che considero particolarmente notevoli.
Le prime uruguaiane
Uno degli argomenti che stimolano maggiormente il narcisismo competitivo nel confronto tra
le sale liriche è la tempestività con cui i titoli del repertorio operistico sono stati presentati nel
proprio teatro. Da questo punto di vista, e grazie a quella connessione impresariale che prima
si è descritta, il Solís è risultato un luogo privilegiato. Naturalmente bisogna considerare che il
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teatro fu fondato dopo la morte di Bellini e Donizetti e che l’inaugurazione del Solís incontra
un Rossini che da decadi ormai non scriveva opere. Per questo la possibilità di misurare
quella rapidità nell’accogliere le prime mondiali dovrà riferirsi ai compositori contemporanei
del teatro, cioè, in ambito italiano, Verdi, Puccini, Mascagni e Leoncavallo.
In relazione a Verdi sia detto che la prima orientale di i Otello ebbe luogo nell’agosto del
1888, a solo un anno dalla prima mondiale. L’elenco fu di primo livello, tanto che il ruolo
protagonista fu a carico del grade Roberto Stagno e Desdemona fu affrontata dalla creatrice
del ruolo alla Scala, Romilda Pantaleoni. Quattro anni dopo, gli uruguaiani conobbero Don
Carlo, ad una decade dalla presentazione alla Scala della versione revisionata in quattro atti, e
la messinscena del Solís comprese cantanti importanti quali Remo Ercolani, il quale affrontò
la responsabilità di Filippo II. L’ultima opera di Verdi, Falstaff, arrivò a Montevideo
nell’agosto del 1894 presentata da una celebre direzione, quella di Edoardo Mascheroni, che
solo l’anno precedente aveva diretto la prima mondiale alla Scala e aveva già diffuso il titolo
in Germania ed Austria.
Il caso di Puccini è piuttosto particolare. Il toscano fu totalmente coevo agli anni della forte
immigrazione. Era un personaggio la cui presenza si imponeva, anche al di fuori della cronaca
musicale. Il compositore non solo visitò Montevideo ma, fanatico automobilista, provocò uno
spiacevole incidente in Uruguay. Già da prima di quella visita, era un personaggio familiare
agli uruguaiani. Dalla Manon Lescaut del 1894 diretta da Mascheroni, il pubblico del Solís si
era abituato alle periodiche prime locali del musicista toscano e poté apprezzare le prestigiose
presentazioni inaugurali di La Bohème nel 1896 (diretta da Mascheroni),Tosca nel 1903
(diretta da Mugnone), Madama Butterfly nel 1904 (diretta da Toscanini), La fanciulla del
West nel 1914 (diretta da Vitale) o La Rondine nel 1917 (che presentó Paolantonio). Il tenore
Giuseppe Cremonini, il primo Des Grieux, la rumena Hariclea Darcléè, creatrice del ruolo di
Tosca, Rosina Storchio, la prima Cio- Cio-San e Gilda Dalla-Rizza, che cantó per la prima
volta La Rondine,furono quelli che presentarono per primi quei melodrammi agli uruguaiani.
Ancora più intensa fu la relazione con Pietro Mascagni, musicista che sviluppò un’intensa
attività come direttore d’orchestra. Così lo stesso compositore presentò le prime uruguaiane
delle sue creazioni, come Isabeau e Guillermo Ratcliff, nel 1911. Essendo Mascagni un
personaggio molto vincolato al Costanzi, che era per altro uno dei teatri chiave delle
produzioni che arrivavano in Sudamerica, ci furono opere che arrivarono al Solís con
incredibile velocità. Così L’amico Fritz si canta con la presenza del grande artista Antonio
Scotti nel 1892, a mesi di distanza dalla prima romana, Le Maschere e Amica  nello stesso
anno della presentaziione mondiale, rispettivamente nel 1901 al Costanzi e nel 1905 al teatro
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di Montecarlo. Le altre produzioni contavano su artisti del calibro di Carlo Galeffi, che cantò
il Ratcliff nel 1911 o la Isabeau nello stesso anno. È da ricordare che al Solís, il primo
Turiddu di Cavalleria Rusticana fu la gloria orientale del canto, José Oxilia. Tra le opere di
Mascagni che si presentarono in Uruguay, Amica fu mostrata con un cast particolarmente
prestigioso, con una troupe diretta da Mugnone e con cantanti come Giannina Russ, Giuseppe
Anselmi, Eugenio Giraldoni e Remo Ercolani.
Rispetto all’”altro verista” Ruggero Leoncavallo, solamente il Solís tra i teatri principali del
Río de la Plata, può inorgoglirsi con la presentazione de La Bohème del compositore
napoletano, che salì sulle scene orientali per mano del Maestro Giorgio Polacco. Molto
lussuosa fu la prima di Zazà con la direzione di Mugnone ed un cast vocale straordinario con
Hariclea Darclée, Edoardo Garbin e Titta Ruffo.
Rispetto ad altre produzioni di autori italiani, intuisco come particolarmente favorita per i suoi
elenchi, la messinscena di opere di Giordano come l’Andrea Chenier del 1897, la Fedora del
1900 o la Siberia del 1917, dove cantò Gilda Dalla Rizza, ma, tra tutte, immagino
straordinaria la Madame Sans-Gène del 1919, quando in agosto diresse Tullio Serafin e fu
presentata come protagonista niente meno che la divina Claudia Muzio.
In relazione al repertorio non peninsulare si noti che, dopo il Lohengrin del 1892 concertato
da Arnaldo Conti, gli uruguaiani conobbero le opere di Wagner dirette da bacchette celebri.
Poiché quelle, ugualmente al resto della produzione, erano italiane, questo determinò la lingua
con cui si intonavano quelle versioni. Tali fenomeni abitualmente disturbano chi anela
congelare un’utopica versione definitiva fedele “alla volontà dell’autore”, ma, se questo
proposito risulta difficile da soddisfare con la musica scritta meno condizionata, come quella
da camera, risulta un obiettivo assolutamente impossibile nel repertorio lirico. L’opera è un
genere essenzialmente adattabile al mezzo e, se la lingua italiana fu il canale di diffusione dei
melodrammi non peninsulari tra i popoli latini, è necessario constatare che tali libertà furono
prese anche nel senso opposto. Ad esempio negli anni ’60 del secolo XX, in Inghilterra
circolavano versioni di un’opera di Verdi intitolata The Lost One, che alludeva a La
Traviata e ancora oggi è possibile ascoltare versioni tradotte diRigoletto nelle sale austriache
di provincia.
Fu così che, Tannhäuser  salì alle scene del Solís nel 1894, cantata in italiano e diretta da
Mascheroni, il quale l’aveva presentata in patria come prima assoluta. Arturo Toscanini fu il
responsabile delle prime assolute di Die Meistersinger von Nürnberg -1903- e Tristan und
Isolde, nel 1906. Leopoldo Mugnone diresse Die Walküre -1908- e Götterdämmerung -1910-.
Gino Marinuzzi fu responsabile del Parsifal del 1913. Un altro grande titolo tedesco fu
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presentato da Marinuzzi poco dopo, un Der Rosenkavalier -agosto del 1915- che riunì un
leggendario trio femminile: Rosa Raisa (Mariscala), Gilda Dalla-Rizza (Octavio), Amelita
Galli-Curci (Sofía).
Salvo rare eccezioni, anche le opere francesi furono rappresentate al Solís da quelle
compagnie organizzate in Italia. Anche se in questo caso il vincolo con le sedi madre
prestigiose – il Teatro Costanzi di Roma o la stessa Scala – garantivano un altissimo livello
musicale, e anche qui determinava la traduzione all’italiano, anche se alcuni dei protagonisti,
come nel caso di Geneviève Vix, che cantò nella prima assoluta uruguaiana di Le Joungler de
Notre Dame era di origine francese. Risultò quindi che le numerose opere di Massenet che si
ascoltarono a Montevideo furono presentate alla società musicale uruguaiana con artisti del
livello di Mascheroni con Fernando de Lucia, e Cesira Ferranil, la prima Mimì (Werther,
1897), Toscanini, con Florencio Constantino (Grisélidis, 1903), Ferrari con Maria Farneti
(Herodiade, 1907), Mugnone con Riccardo Stracciari (Thaïs, 1908), Marinuzzi con
Geneviève Vix (Le Jongleur de Notre Dame en 1915), Serafin con Galeffi (Le Roi de Lahore,
1920).
Opera Nazionale
Il problema della lingua nell’opera coinvolge anche altre questioni. Pochi fenomeni culturali
sono capaci di esprimere le dinamiche sociali come il melodramma, un oggetto costoso e per
questo dipendente dal potere. Queste caratteristiche rendono l’opera un radar insostituibile per
studiare i movimenti nazionalisti di fine secolo XIX. Queste evoluzioni sociali coincidono con
un periodo di gran prestigio della lirica. I paesi giovani, non solo d’America, considerarono
che possedere una sala lirica rappresentativa e creare un repertorio che potesse identificare la
nazione, erano azioni di importanza essenziale. Lo si considerava azione costituente della
nazione, e non a caso Antonin Dvorak considerò che la composizione di opere rivestiva il
carattere di missione patriottica. È molto interessante seguire soprattutto i commenti critici
entusiasti o disillusi che accompagnavano le prime dei compositori latinoamericani, per capire
che era quello che l’elite locale pretendeva da questo oggetto culturale al quale tanto potere si
attribuiva. Come doveva essere un’opera nazionale? I nazionalismi musicali tanto fecondi
nell’est europeo, consideravano essenziale per la costituzione di un repertorio proprio intonare
la lingua del paese ai suoi melodrammi. È curioso che i musicisti latinoamericani abbiamo
operato molto tardi questa azione: si composero opere locali e la critica dei suoi paesi attribuì
a tali melodrammi il carattere emblematico della nazione, ma furono scritte in lingua italiana
o francese. Provo a spiegarlo ipotizzando che lo spagnolo non era utile per definire limiti tra i
paesi del continente. La lingua per gli uruguaiani non ha il carattere identificativo del
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nazionale rispetto agli argentini o ai paraguaiani. È notevole che solo in un periodo di


xenofobia anti italiana, e cioè dopo il 1915, gli argentini abbiamo cominciato a comporre
opere su testo in spagnolo. Per quel nazionalismo nato in seno ad un’elite, che fuse nella sua
invenzione di un passato gli elementi indigeni con altri vagamente iberici, l’essenziale fu il
rifiuto dell’immigrante straniero, fondamentalmente italiano. Era l’italiano il principale
responsabile del reclamo proletario considerato fattore di instabilità dal potere latifondista.
La violenza di queste manifestazioni di rifiuto nella riviera occidentale del Plata si tradusse in
movimenti molto aggressivi che, sul piano culturale, spinsero per la presentazione al Colón di
melodrammi “nazionali” in spagnolo. Il giornale La Razón, influenzato dalla Liga Patriótica,
incoraggiò così, nel 1917, la presentazione nel teatro di un’opera apologetica dell’universo del
dittatore Rosas, in spagnolo. È notevole che, precisamente lo stesso anno, nel Solís sia stata
presentata Ardid de amor di Carlos Pedrell, e che l’opera del compositore di Minas sia stata
cantata in francese. L’opera fu diretta da Marinuzzi e vi partecipò, nella parte di Laura, la
stella della lirica francese, Ninon Vallin.
Non era comunque il testo l’unico elemento che conformava un’operazione complessa come
la costituzione di un’opera nazionale, per questo motivo è interessante capire ciò che era
richiesto da ogni società, in questo caso quella uruguaiana, per connotare come nazionale un
melodramma.
Un testo citato da Leonardo Manzino a proposito della prima di un’opera
uruguaiana Liropeya è estremamente utile per l’interprete della storia. Scrive un critico
orientale: “Liropeya es una obra inminente (sic) nacional, pues nacional es su compositor,
nacional es el autor del drama sobre del que se basa el argumento, y la escena pasa en
territorio nacional.”4.
Queste esigenze sono comparabili alle considerazioni che un musicologo argentino sviluppa
in un caso analogo. Juan Maria Veniard assegna il ruolo rappresentativo del nazionale a quella
breve opera promossa da La Razón, La Angelical Manuelita, del diplomatico e musicista
dilettante Eduardo Garcia Mansilla. Risulta assai importante analizzare i motivi che Veniard
utilizza per non attribuire tale investitura patria ad altri melodrammi. Da quei vizi che lo
studioso indica si potrà capire ciò che un’opera deve avere per meritare di essere considerata
“nazionale”.
Veniard procede per esclusione ed elimina così le opere di Pasquale De Rogatis e Arturo
Berutti a causa del loro testo italiano. Sono eliminate anche Aurora di Héctor Panizza e Il
sogno di Alma di Carlos López Buchardo, non solo perchè hanno testo italiano, ma perchè
non risultano sufficientemente argentine: la prima non utilizza musica locale e la seconda non
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tratta un tema nazionale. Veniard ha passato a setaccio Ardid de amor, di Carlos Pedrell, ma


fu scartata non solo perchè l’autore è uruguaiano, ma perchè il testo è francese e la “música
internacional” (sic). Il caso del compositore César Alberto Stiattesi è più complicato perchè la
sua Blanca de Beaulieu, sebbene ostenti uno dei pochi testi lirici in spagnolo, è viziata da una
macchia imperdonabile: il suo autore è un francese con genitori italiani 5. I requisiti per
decorare un melodramma con la coccarda patriottica sono molto severi per Veniard, non solo
esigono lo spagnolo come lingua dell’opera, ma anche che i suoi autori debbano mostrare
purezza di sangue.
In confronto a tali pretese, i requisiti che enumera uno studioso orientale per salutare come
patriottica La Parisina di Giribaldi, sembrano molto più leggeri.
“Las demostraciones del publico montevideano para honrar a Tomás Giribaldi en la función
de La Parisina realizada a beneficio del compositor en el Teatro Solís el 25 de septiembre de
1878 estuvieron motivadas en torno a distintos factores: la trascendencia del estreno de la
obra considerada como la primera ópera uruguaya, la exaltación de la figura de Giribaldi
como compositor nacional con una formación exclusivamente local, el estímulo de la
sociedad civil organizada en distintas agrupaciones dedicadas a promover la música y el
teatro uruguayo y el reconocimiento a la figura de un compositor nacional manifestado por
el portavoz del más alto nivel oficial, el propio Jefe de Estado Uruguayo.”6
Le esigenze per conferire il gran titolo di rappresentazione nazionale sono minori perchè si
arriva a perdonare il testo in lingua straniera, la nazionalità del librettista, e perfino la
localizzazione del tema. Altri fattori saranno detergenti sufficienti per mondare peccati. Tra
questi, la benedizione presidenziale sembra essere uno degli sbiancatori più potenti.
La presentazione di un’altra opera di Giribaldi, Manfredi di Svevia, nel 1882, fu diretta al
Solís in prima mondiale, e il suo cast poteva contare sulla prima Desdemona dell’Otello della
Scala, Romilda Pantaleoni. Nel 1899, nel teatro uruguaiano salì alle scene la versione
revisionata di La Parisina, diretta da Arnaldo Conti.
Nel 1906, la stagione delle Nozze d’Oro del teatro, Antonio Marranti diresse in prima
mondiale Alda, di Ramon Rodriguez Socas, che si combinò, nelle due sere in cui fu
rappresentata, con altre parti di opere famose: il 21 aprile con tre atti de La Bohème e il giorno
dopo con due atti di Lucia di Lammermoor. Nel 1910 si cantò in prima San Francesco
d’Assisi diretta da Giulio Falconi. Curiosamente questa musica con argomento quasi mistico
si combinò nelle sue rappresentazioni con due melodrammi tanto lontani da questo ambiente
come I Pagliacci e Cavalleria Rusticana. Nello stesso anno si presentò Tabaré, composta da
un baluardo del nazionalismo orientale, Alfonso Broqua. Alla fine e solo nel 1912, si arrivò
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alla prima mondiale di Liropeya, di León Ribeiro, presentata dall’impresa di Walter Mocchi
con la direzione di Marinuzzi. La stessa impresa fu responsabile quattro anni dopo della prima
di La última Gavota, di César Cortinas, che, associata a Samson et Dalila, di Saint Saëns, fu
cantata da Gilda Dalla-Rizza e Tito Schipa.
Il teatro Solís ospitò in varie occasioni melodrammi che anche nella sponda opposta del fiume
raggiungevano lo stesso obiettivo di elaborare un repertorio simbolico della nazione, e per
questo sono elementi utili a capire il fenomeno nazionale uruguaiano. Una veloce rassegna
aiuterà a comprendere i conflitti che si instaurarono tra il desiderio di costituire un proprio
repertorio e la realtà locale. Si presentarono a Montevideo opere di Arturo Berutti il quale,
essendo un compositore nato prima del movimento che dall’elite rifiutava l’immigrante,
italianizzò il suo cognome con l’evidente speranza di favorire la sua accettazione negli
ambienti peninsulari nei quali riuscì ad entrare. Berutti presentò in Uruguay Tarass Bulba,
basata su di un testo di Gogol, che era stata presentata in prima nel marzo 1895 a Torino.
L’impresario Angelo Ferrari, che controllava in quell’epoca, gli ultimi anni del XIX secolo, i
più importanti teatri lirici rioplatensi, fece trasportare i materiali dall’Italia e così scrive il
quotidiano La Prensa:
“Ferrari, con la intuición propia de un experimentado empresario ha no solo adquirido los
derechos de representar esta obra sino que tiene ajustados a algunos intérpretes como ser ,
el tenor Colli y el bajo Ercolani, sin contar que ha comprado las propias decoraciones y
vestuarios con que se ha estrenado en Turín.”7
Al Plata, l’opera fu diretta dal maestro che l’aveva presentata in prima in italia, Edoardo
Mascheroni, ma dall’elenco di canto originale l’unico che arrivò in America fu Remo
Ercolani. Due anni dopo il Solís conobbe un altro melodramma di Berutti e, parlando del
rapporto tra nazionalismo e opera, il suo interesse locale è assai maggiore. L’argomento era
molto più familiare per gli uruguaiani: si cantava niente meno che della vita di Juan Moreira,
anche se per l’occasione il gaucho di Lobos di chiamava Giovanni e i suoi versi erano del
peninsulare Guido Borra. Sarà risultato davvero arduo per il pubblico di Montevideo
immaginare qualche abitante delle pampas descrivere in questo modo una tormenta di
campagna:
“Tuona il cielo, romba e cade
Sulla Pampa la tempesta
E il dolor martella e invade
La mia testa.”8
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Il librettista apparteneva a quel partito che alla storia preferiva l’invenzione di una tradizione
che, quando è antica, aquisisce rispettabilità- La bussola per la sua opera fu “la tradición, que
por el andar rápido de los acontecimientos, reviste ya carácter antiguo, era la fuente
destinada a proporcionar los elementos vitales del drama nacional.”9 Il cast di Pampa,
comprendeva l’abituale Mascheroni nel podio, Michele Mariacher nella parte del
protagonista, e altri artisti come Carmen Bonaplata-Bau e Mario Sammarco.
Pasquale de Rogatis presentà a Montevideo, nel 1916, un’opera su di una leggenda
americana, Huemac, che, cantata naturalmente in italiano, fu diretta al Solís dal compositore
francese André Messager. Nella produzione parteciparono Gilda Dalla Rizza e Giulio Crimi.
A Montevideo lo spettacolo si combinò con un’opera di Messager, Beatrice. De Rogatis fu un
musicista che sviluppò la sua carriera musicale in Argentina, ma era un italiano che, come
molti immigranti, soffrì l’abbandono del paese natale. Dall’Italia dovette andarsene, ma in
Italia non potè mai tornare come aveva sempre desiderato per studiare musica. De Rogatis è,
con questa dolorosa esperienza di vita, un personaggio chiave per capire le motivazioni della
fuga dalla realtà e, in conseguenza, del suo rifugio nell’invenzione mitica, che d’altra parte era
un’operazione consustanziale ai nazionalisti. De Rogatis, per questo con coerenza, manifesta
poca considerazione per i materiali musicali “autentici”, che, una volta conosciuti, scartò per
la sua opera.
Fallimento del nazionalismo
In realtà, tutte queste operazioni liriche fallirono non solo in entrambe le sponde del Plata, ma
in tutto il continente. È vero che ci furono opere composte da compositori americani, alcune
di alto livello musicale, ma non fu possibile elaborare un repertorio lirico che potesse
soddisfare le avide ambizioni di nazionalismo.
Sebbene ci fossero buoni musicisti locali, mancò un elemento essenziale per la costituzione di
melodrammi: non c’erano bravi librettisti. Un librettista d’opera non è un buon poeta, è
qualcuno capace di maneggiare un artigianato elaborato nei secoli, consolidato attraverso
“convenzioni” che risultano essenziali per permettere che un musicista costruisca il suo
edificio sonoro. Ma questo in America non c’era. I compositori argentini contarono su
collaboratori letterari di basso livello. La soluzione dell’orientale Giribaldi fu molto più
onesta, almeno dal punto di vista artistico. Prese un buon libretto già rodato, che era stato
utilizzato con successo. Era firmato da un poeta di grandissima esperienza nel ramo, Felice
Romani. Ma l’epoca della riutilizzazione del libretto era superata, era una cosa dell’epoca di
Metastasio, la cui Olimpiadi fu messa in musica in più di cinquanta versioni differenti. Nel
secolo XIX, un compositore doveva poter dialogare con il suo socio letterario. Le ricche
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polemiche di Donizetti o Verdi con i loro librettisti sono famose, ma Giribaldi non potè
instaurare alcun contatto con il suo poeta, già defunto molto prima che il musicista avesse
deciso di comporre la sua opera.
In America pochi compositori ebbero il privilegio di poter contare su grandi professionisti del
verso. Tra i fortunati ci furono sicuramente Carlos Gomes, che lavorò con il librettista
di Aida - Ghislanzoni - ed Héctor Panizza che ebbe come socio il poeta diTosca - Illica. La
qualità artistica de Il Guaraní o di Aurora non bastò a convincere i compatrioti dei
compositori che quei prodotti meritavano di ricevere la rappresentatività nazionale.
GLORIE URUGUAIANE. OXILIA
In una migrazione nel senso contrario, grandi artisti, quasi tutti cantanti latinoamericani,
arrivarono ad elaborare una carriera internazionale di massimo livello. José Oxilia, una delle
più grandi glorie del canto orientale, fu acclamato dal pubblico italiano. Fu talmente ben
voluto che una sua indisposizione in una Lucrezia Borgia genovese provocò un grave
problema all’impresario teatrale perchè il pubblico non accettò il Gennaro rimpiazzante,
niente meno che il famoso Edoardo Garbin. Il grande tenore uruguaiano cantò nelle maggiori
sale d’Europa e alla Fenice veneziana lo fece davanti alla regina Margherita. Oxilia fu un
applauditissimo Otello, uno dei primi ad affrontare il difficile ruolo dopo Francesco Tamagno,
a pochi mesi dalla prima. Il tenore orientale si esibì nell’opera alla Scala assieme allo Jago
inaugurale del titolo, Victor Maurel, e in quell’occasione fu congratulato dallo stesso Verdi.
Oxilia portò la sua famosa interpretazione del moro di Venezia alla Fenice, Bologna, Brescia
e Parma, contando sulla preziosa direzione del gran Maestro Franco Faccio, ovvero il primo
direttore di quel melodramma. La cronaca deLa Gazzetta di Venezia raccoglie i trionfi
emiliani di Oxilia e Faccio, che arrivano attraverso un telegramma inviato durante l’ultimo
intervallo dell’opera:
Appena il maestro Faccio comparve sul suo scanno scoppiò un applauso fragorosissimo. La
scena della tempesta produce grandissimo effetto. È applaudito il coro «Fuoco di gioia».
L’uscita di Otello (il tenore Oxilia Giuseppe) è acclamata. L’Oxilia ha detto benissimo quella
frase larga, imponente. Applauditissimo pure il giuramento di Otello e Jago. Applaudita la
romanza di Otello, ben detta dall’Oxilia. Per l’ultimo atto è certo un grande successo. Tutti
gli artisti sono giudicati buoni, la messa in scena sfarzosa: l’orchestra benissimo sotto la
direzione del Faccio.10
Il primo teatro dell’Uruguay ebbe la soddisfazione di ascoltare il suo Otello nel 1890, diretto
da Giuseppe Pomè-Penna. In quell’occasione Desdemona fu Giuseppina Serra e Jago Emilio
Barbieri. La stessa troupe presentò in quell’anno il Mefistofele di Boito, il titolo principale
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che, in quanto compositore, aveva scritto il librettista di Otello. Nella stessa stagione, a pochi
giorni di distanza, Oxilia canta Lucrezia Borgia, che combinò con alcune parti del Duca
d’Alba di Donizetti, recuperato in Europa da poco. In quella stagione il gran tenore fece
ascoltare la sua Aida e si esibì anche in vari recitals. Nel 1892, Oxilia cantò La Favorita di
Donizetti e nello stesso anno cantò in prima per l’Uruguay Cavalleria Rusticana. L’opera di
Mascagni fu combinata in un modo che a quei tempi era tipico, ma che oggi ci causa stupore:
la sera del 23 aprile fu accompagnata dal secondo e terzo atto di Lucia di Lammermoor  e in
quella del 5 maggio con i due ultimi atti de La Traviata.
Un altro aspetto che marca la nostra distanza da quei tempi, e precisamente la carriera di
Oxilia ce lo ricorda, è la vocalità. Non finiamo di sorprenderci di fronte al fatto che la stessa
persona che nel 1887 si presentò nella penultima opera verdiana, sia stata capace di cantare
“Spirto gentil” di La Favorita di Donizetti poco prima in Spagna, o “Tomba degli avi miei”, o
si esibisse nella stessa stagione uruguaiana in Lucia e in Cavalleria Rusticana. Ad ogni modo,
è forse quella duttilità di Oxilia che fa sì che nelle sue abbondanti registrazioni si possa
percepire un colore chiaro e una dizione perfettamente intelligibile più tipica del “di grazia”
che di quello “spinto”, anche in momenti di tensione come il “Nium mi tema” di Otello.
II. Un teatro differente
Per il fatto che il Solís era, come gli altri teatri-porti, tappa delle troupes di Ciacchi o Mocchi,
si potrebbe dedurre che il repertorio in entrambe le sponde del Plata era lo stesso. Non è esatto
e sono precisamente quelle piccole differenze che, credo, marcano un profilo molto specifico
del teatro uruguaiano. Il concetto non si limita alla mera considerazione musicale ma invade
altre zone d’interesse che nell’esame di quell’epoca socialmente instabile risultano
ineluttabili. La fortissima immigrazione europea e specialmente italiana che arrivò ai porti
lontani dell’America del sud, determinò dinamiche di accettazione o rifiuto in una cornice di
vera rifondazione di quelle società. In un tale contesto l’opera italiana era portatrice di
emblemi culturali di grande densità. Gli impresari che gestivano la sala erano in parte italiani,
anche il repertorio lirico che in quegli anni saliva alle scene era prevalentemente peninsulare,
ma, anche, erano napoletani, veneziani o liguri la maggior parte degli umili contadini, in gran
percentuale analfabeti, che scendevano dai piroscafi al porto.
La società locale considerava il Solís come un luogo principe della riunione mondana e
l’opera come il genere privilegiato della cultura. Ma com’era la relazione tra quella classe che
popolava i palchi nelle serate di gala e quegli italiani umili che attraverso vie molto
particolari, considerando la loro scarsa cultura e a volte senza essere mai entrati in un teatro,
sentivano quella musica come propria?
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Un complesso sciame di relazioni attorno alla figura di questo specifico tipo di straniero si
mise in movimento in luoghi come Brooklyn, Montevideo, Rio, Buenos Aires o Caracas.
L’analogia naturale tra le società rioplatensi mostra, nell’esame delle loro stagioni, il Solís
come un caso a parte. La specifica comparazione attraverso le produzioni liriche con il teatro
“di fronte” e anche con alcune sale europee, possono aiutare a delineare quel profilo specifico.
In funzione di alcuni compositori italiani che considero emblematici posso notare che rispetto
alle opere di Rossini il Solís soffrì la tendenza generale di quei tempi, quella di considerare
Rossini compositore di una sola opera – Il Barbiere, relegando la produzione seria del
musicista di Pesaro. È piuttosto notevole che gli ultimi melodrammi, quelli
“francesi” Mosè e Guglielmo Tellassieme al ultimo titolo veneziano, Semiramide, siano
distribuiti nelle stagioni uruguaiane in modo molto equilibrato, sebbene tutti prima del cambio
di secolo. A Montevideo si presenta Guglielmo Tell meno volte che a Buenos Aires, e questo
contribuì ad un’offerta rossiniana più variata. Le ventisette produzioni del teatro Solís di
Montevideo, sebbene piuttosto minori in numero a quelle del concorrente rio platense, si
differenziano soprattutto per una presenza nel repertorio molto significativa. Il Solís presenta
un Mosè nel 1883. A Buenos Aires si venne a sapere di questa quasi insolita presenza giacché
gli abbonati de La Gaceta Musical, periodico porteño che seguiva da molto vicino l’attività
lirica dell’altra sponda, lessero con invidia “hemos recibido carta de Montevideo. Como nos
lo anunció nuestro corresponsal, se puso en escena el Moisés de Rossini con bastante buen
éxito”.11 Il teatro Solís si comporta in maniera più varia del Real de Madrid, anche se il teatro
spagnolo presenta un titolo che cominciava ad essere dimenticato dagli scenari importanti, La
Cenerentola, in una versione con Amelia Sthal e Mattia Battistini, con la direzione di Luigi
Mancinelli.
L’interesse sempre fresco degli orientali per la figura di Bellini si manifesta in una
pubblicazione uruguaiana della quale La Gaceta Musical dà notizia nel 1887. Si tratta di un
testo di Manuel Muñoz y Pérez intitolata Las óperas de Bellini. Si approfitta dell’indicazione
per riscattare una volta ancora la qualificazione abituale, cioè, “su genio palpitante de pasión
y de ternura”.12 A Montevideo si alternano in modo molto articolato le tre opere famose di
Bellini. Anche I Puritani, a causa dell’eccezionale esigenza vocale per il tenore protagonista,
va diminuendo la sua frequenza con gli anni. Si tenga conto che il gusto dell’epoca imponeva
alle voci acute più volume che “grazia” e disponibilità, caratteristiche essenziali per
interpretare Arturo. Il teatro di Montevideo, sebbene presenti le tre famose opere di Bellini in
proporzione analoga a quella della prima sala di Buenos Aires, si mostra in confronto più
contenuto con la musica del catanese. È particolarmente notevole che, data la concentrazione
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tanto densa de I Puritani a cavallo del secolo, l’opera non sia stata presentata nella sala di
Montevideo dopo il 1901.
Nei quarant’anni in studio, l’accoglienza uruguaiana alla melodia donizettiana, tanto
robustamente associata alla cantabilità degli italiani, fu molto superiore alla ospitalità che le
concessero i porteños. Contro le quarantotto produzioni della prima sala di Buenos Aires, il
Solís ne ostenta sessantatre, ma forse il dato più significativo è che durante il momento critico
per l’accoglienza agli immigrati peninsulari in Argentina, ciò che comincia attorno il 1900 e si
rende esplicito nel 1910, il comportamento di entrambi i repertori rioplatensi è
qualitativamente differente. Gli uruguaiani “prendono molto più sul serio” Donizetti: se la
metà delle opere di Donizetti che presenta la prima sala di Buenos Aires comprende
le buffe (sicuramente L’Elisir d’Amore  e Don Pasquale), nel Solís la proporzione delle opere
serie è esattamente di due terzi delle ventiquattro programmate. Nelle situazioni speciali
ognuno dei teatri esibisce alcune curiosità: la Maria de Rohan (1887) di Buenos Aires e La
fille du regiment del Solís (1881).
Il Solís si mostra più interessato a Verdi che il Colón – Ópera. A Montevideo si presentano
centosettantacinque titoli e a Buenos Aires centoquarantanove tra il 1880 ed il 1920.
L’ostentata predilezione incontra una forma grafica nei programmi di sala di entrambi i teatri.
Sebbene le prime sale delle due città erano rette da impresari abitualmente comuni, tanto che i
programmi di sala del 1920 mostrano un immagine identica, nella stagione 1914 del Solís si
esibisce una dinamica figura femminile che regge una partitura, si legge chiaramente la parola
Verdi, è un’Aida. Niente di simile succede a Buenos Aires.
Tra il 1915 e il 1920, anni in cui Greppi denuncia l’anti-italianismo della società argentina e
che vedono fiorire l’attività della Liga Patriótica Argentina, il teatro dell’elite argentina
presenta quindici opere di Verdi mentre il Solís ne programma ventidue. In questo lustro ci
sono due titoli “tradizionali” che presenta Montevideo e che invece dimentica il Colón: La
Forza del Destino e, soprattutto, Ernani (nel 1915), che non solo mancava da Buenos Aires
dal 1902, ma addirittura fu totalmente dimenticata nel Colón di quei tempi. In quanto a
presentazioni ancora meno comuni, è interessante notare che mentre Buenos Aires
presenta La Battaglia di Legnano nel 1916, a Montevideo si potè vedere
invece Attila (1881), I Due Foscari e Luisa Miller (entrambe nel 1887). La predilezione
per Aida dei rioplatensi è ugualmente forte, e la preferenza per le due ultime opere di Verdi è
decisamente maggiore a Buenos Aires (dieci Otello e sette Falstaff contro otto e due
rispettivamente al Solís).
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Le nutrite messinscene pucciniane vedono gli uruguaiani interessati alle novità, ma anche
fedeli alla parte più tradizionale del musicista toscano. Un’opera come Manon Lescaut, il
primo vero trionfo di Puccini, è presentata anche col passare degli anni. Le principali
differenze tra i teatri di prestigio delle due coste del Plata rispetto a Puccini, si concentrano
nella maggiore accettazione delle novità, sebbene in maniera episodica, a Buenos Aires, e nel
netto rifiuto porteño per un’opera che lì incontrava una decisa avversione: Tosca. Così,
Buenos Aires presenta Edgar una volta in prima mondiale e, arrivando al 1920, varie volte le
opere delTrittico. A Buenos Aires si vede meno Madama Butterfly che a Montevideo, ma è
soprattutto interessante il rinverdire di quell’inclinazione rispetto a Tosca dopo il 1908: nella
sala del nuovo Colon, l’opera è accettata solamente in cinque stagioni prima del 1920, mentre
il numero di rappresentazioni a Montevideo raddoppia in questo lasso di tempo quelle di
Buenos Aires.
Il teatro uruguaiano presenta molte più opere di Mascagni che il Colón e l’Ópera nella riva
opposta. La relazione è, in effetti, di 30 a 20, dato che nel 1910 l’Ópera già aveva passato la
mano in quanto a prestigio al nuovo Colon, bisognerà escludere da questo conteggio la
messinscena di Amica, che in quell’anno aveva presentato l’impresario Cano.
A Montevideo si rappresentano Le Maschere e Ratcliff che non arrivano alla prima sala
porteña, la quale invece mostra nel 1917 una Lodoletta.
Questo confronto tra le due coste del Plata è inoltre molto rappresentativo rispetto a
Leoncavallo. Buenos Aires, capitale ambiziosa nel registrare tutte le novità della lirica,
dimentica La Bohème di Leoncavallo, che risultò così un melodramma estraneo ai grandi
teatri porteñi. L’antica ma imprescindibile lista di Fiorda Kelly niente menziona a proposito di
prime di quest’opera in tutta Buenos Aires. Incontro appena la sua presentazione nel teatro
degli immigrati, il Marconi, dove l’opera fu diretta nel 1906 da Oscar Anselmi. Da parte loro
Dillon e Sala, sempre molto attenti ad indicare nei loro testi le prime locali, non segnalano se
questa speciale presentazione del teatro contiguo al mercato rappresentava una prima per
Buenos Aires o no.13Gli autori succintamente commentano: “En el repertorio se destacó la
presentación de La Bohème de Ruggero Leoncavallo, una ópera no habitual en estas
temporadas y que fue opacada por su homónima de Puccini. Nunca más volvería a la escena
en este teatro”.
Credo che questo confronto su Mascagni e Leoncavallo rappresenti uno dei dati più
contundenti rispetto la dinamica accoglienza-rifiuto dello straniero, che inoltre marca un
profilo molto distintivo nella parte orientale del fiume. Bisogna ricordare quanto è abituale
l’associazione di quell’estetica con caratteristiche extramusicali attribuite agli italiani, e che
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nella Buenos Aires meno accogliente, quella del sainete e della cronaca, era incarnata dal
fruttivendolo stentoreo, rumoroso e molesto.
Il fenomeno coinvolse universalmente la ricezione dell’opera italiana, ma, com’è possibile
constatare nei dati confrontati, quel cambio di preferenze fu particolarmente significativo nel
teatro dell’elite porteña. Questo risulta particolarmente nitido di fronte ai dettagli che
emergono del teatro Solís e si consideri che questa ultima sala fioriva in una società che ha
accolto un’immigrazione molto simile a quella di Buenos Aires.
La struttura organizzativo-impresariale del Solís e della cangiante prima sala argentina era la
stessa. Alcuni piccoli dettagli mostrano tale analogia, come i programmi identici nel disegno
per il Colón e per il teatro di Montevideo. Trovo molto interessante che all’interno di questa
cornice omogenea, nel 1914 il Solís mostra nella sua stagione una dama che offre al pubblico
la partitura di Aida. In un momento di xenofobia militante tra l’elite porteña questo non fu né
avrebbe potuto essere possibile a Buenos Aires.
Un altro confronto interessante è offerto dalle liste di abbonati di entrambe le sale rioplatensi.
La presenza di cognomi italiani tra i frequentanti del Solís si confronta con l’esclusiva lista di
baschi, francesi e nordeuropei che popolavano i palchi del Colon.
Note
1 Rosselli, John, “The opera business and the Italian inmigrant community of Latin America
(1820 – 1930. The example of Buenos Aires”, Past and Present, n. 127 (1990), pp.155 – 182,
p.172.
2 Greppi, Clemente B, La educación musical de los niños, Cabaut, Buenos Aires, 1922.
3 Che è oggetto di restauro da parte dell’Universidad de San Martin.
4 Daniel Muñoz (pseudonimo Sansón Carrasco), “Liropeya”, La Razón (Montevideo), 24
gennaio 1884, I, citato da Manzino, Leonardo Manzino, Leonardo, La ópera uruguaya del
siglo XIX. Estrenos de Tomás Giribaldi en el Teatro Solís, Los románticos uruguayos,
Montevideo, 2010, p. 54
5 Veniard, Juan María, Los García, los Mansilla y la música, Instituto Nacional de
Musicología “Carlos Vega”, Buenos Aires, 1986, p. 114.
6 Manzino, Leonardo, La ópera uruguaya del Siglo XIX…cit., p. 98.
7 La Prensa, Buenos Aires, 13 marzo 1895.
8 Che trascrive Veniard, Juan María, Arturo Berutti, un argentino en el mundo de la ópera,
Instituto Nacional de Musicología, Buenos Aires, 1988, p. 206.
9 In una nota di Guido Borra, de La Nación del 27 luglio 1897.
10 La Gazzetta di Venezia, giovedì 15 settembre 1887.
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11 La Gaceta Musical, 22 luglio 1883.


12 La Gaceta Musical, 28 agosto 1887.
13 Dillon, César A. y Juan Andrés Sala, El teatro musical en Buenos Aires. Teatro Doria –
Teatro Marconi, Gaglianone, Buenos Aires, 1997, p. 80.

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