SCANDINAVI, I VERI EUROPEI CHE DOBBIAMO IMITARE DI MAURIZIO BLONDET
venerdì 14 ottobre 2005
Nella classifica dei Paesi più competitivi stilata dal World Economic Forum, l'Italia sta appena sopra il Botswana. Su 117 Paesi, siamo al posto numero 47: ci superano persino la Giordania e il Cile. Ma la vera sorpresa viene dai Paesi europei che si sono piazzati ai primi posti: l'Islanda è prima nel mondo, seguita da Svezia, Danimarca, Norvegia e Finlandia. I paesi scandinavi. Ora, è evidente che questi Paesi non vincono nel mondo perché hanno salari bassi, più bassi di quelli cinesi: al contrario sono Paesi di alti stipendi e di diffuso benessere. Né competono per aver ridotto la pressione fiscale e smantellato i loro sistemi sociali, che anzi restano i più protettivi (e costosi) del pianeta: Danimarca e Svezia dedicano allo Stato- provvidenza quasi il 30% del loro prodotto interno lordo, contro il 24,4 % dell'Italia e il 14 % di USA e Irlanda. Non ci può essere che una ragione per il loro successo economico: gli alti livelli di istruzione e di educazione superiore. Sono Paesi dove la cultura è tenuta in onore. Dove si studia molto (il clima aiuta), si legge molto, si imparano le lingue. Ora, la diffusione di una cultura alta è sicuramente un vantaggio competitivo: gente che è abituata a trattare le idee, che prova piacere nel sapere e nell'imparare, è aperta all'innovazione, e anche ai cambiamenti tecnologici che mutano il modo di lavorare. E infatti Linus Torvalds, l'inventore di Linux, il sistema operativo per computer alternativo a Windows, insegna ad Helsinki. Il software di Skype, il nuovo protocollo che consente di telefonare quasi gratis col computer, è stato sviluppato fra Paesi scandinavi e Paesi baltici. E in Scandinavia prosperano multinazionali straordinariamente innovative come Nokia, Ericsson e Ikea. Ho il sospetto che in Scandinavia le università siano stimolanti centri d'eccellenza, all'altezza del pensiero scientifico e culturale contemporaneo, con gli occhi bene aperti sulle ultime ricerche che avvengono nelle parti più avanzate del mondo; non i parcheggi di «assistenti» e «precari» e «ricercatori» di pochi studi e pochi mezzi che, da noi, campano sperando di essere un giorno favoriti dal loro barone-padrone. Non ci devono essere, in Norvegia, molti operai tessili e metalmeccanici con la terza media, come a Milano e Torino, che non sono capaci di rispondere alla sfida cinese (dove tessili e metalmeccanici costano venti volte meno) passando a lavorazioni più sofisticate. Né i tassi di abbandono scolastico che vigono in Italia, dove troppi giovani lasciano gli studi a 14 anni, e dove chi continua si parcheggia all'università senza laurearsi per decenni. L'alto livello d'istruzione generale rende gli scandinavi, fra l'altro, esigenti nei riguardi delle loro istituzioni, della loro onestà e trasparenza. Evidentemente in Islanda non sono tollerati baroni simili a quelli che spadroneggiano nelle università della Sicilia, e che negli anni, a forza di favoritismi e nepotismi, hanno degradato il sistema sanitario al punto che là entrare in ospedale significa rischiare di morire per una anestesia sbagliata. Né in Svezia devono esistere troppi incompetenti ai livelli alti della funzione pubblica, dell'insegnamento e dello Stato. Non è possibile per esempio che un professore di lettere di scuola media, con una cultura imparaticcia da liceo e assolutamente privo di nozioni di economia possa diventare governatore della Banca Centrale: da noi vi è riuscito Carlo Azeglio Ciampi, di cui non è noto un solo studio di economia, non un solo libro sul monetarismo (e non mi pare che Fazio sia più competente). Non credo che in Danimarca esistano politici del calibro di Mastella, fondatore di un partito il cui scopo dichiarato è il clientelismo. Né fioriscono «consulenti» assunti a 400 mila euro l'anno dalle Regioni non già per «consigliare» l'introduzione di nuove metodologie e gestioni, bensì per favorire «amici», parenti e complici partitici. Immagino che le TV scandinave non siano sovraffollate di giochini a premio per idioti e ignoranti, straboccanti di volgarità romanesche e di superficialità, come quella che da noi «educa le masse» al pressapochismo più cialtrone. La faccio breve: se noi italiani perdiamo competitività nel mondo, è perché siamo ignoranti. Perché da noi la cultura è stata resa (anche dalla TV) sinonimo di noia anziché di scoperta, avventura, conoscenza utile. Da noi il dibattito pubblico non è che un alterco continuo: segno della nostra incapacità di ragionare, di ascoltare gli argomenti dell'avversario, di cercare la verità prima che i nostri minimi interessi. Idee nuove da noi non vengono discusse, ma rifiutate per principio e perfino con scandalo, e alla fine accettate senza discussione se diventano «di moda» in USA, Francia, Inghilterra. Perché non abbiamo, per uomini che lavorano con le idee e le scoperte, nemmeno un centesimo del rispetto che tributiamo a Pippo Baudo, a Pupo e ad ogni «onorevole» d'accento avellinese. In conclusione noi italiani siamo, culturalmente, dei «terroni» e «cafoni» (che nel Meridione vuol dire «zappatori» e «manovali agricoli»): con il limitato repertorio di interessi e curiosità che è proprio degli zappatori. Solo da noi e per la nostra TV si parla ridicolmente di «cultura del cibo», che esprime la storica ossessione dei braccianti del Sud, affamati per secoli, per «il mangiare». Ecco: «mangiare bene» sembra la nostra sola aspirazione. Gli italiani del Nord dovrebbero coltivare l'ambizione di diventare come gli svedesi e gli islandesi. Temo che invece stia accadendo il contrario: che i nostri nordici si siano da tempo meridionalizzati, diventando «cafoni», pressapochisti e culturalmente arretrati. Vorrei essere smentito.