Presentazione
Fu chiesto una volta a Confucio quale fosse il suo desiderio più grande. «Mettere ordine nel lin-
guaggio», rispose il sapiente. In effetti, le parole hanno il magico potere di rendere plausibile anche
quello che non lo è attraverso l'abitudine alla ripetizione. Termini come "sviluppo", "mondializza-
zione", "globalizzazione" celano fenomeni perversi che il linguaggio tende a nobilitare e giustificare.
Mettere ordine nel linguaggio significa chiamare le cose con il loro nome. Allora ci si accorgerebbe
che lo sviluppo è un meccanismo che favorisce pochi privilegiati, ossia le élites del nord e del sud del
mondo, mentre la globalizzazione dell'economia si risolve in uno sfruttamento selvaggio e senza re-
gole dei soggetti più deboli della società internazionale. Mai come oggi la grande speculazione ha
monopolizzato l'economia mondiale. Non è un caso che dovunque nei paesi industrializzati cresca la
disoccupazione e, contemporaneamente, nei paesi del Sud la politica neoliberista riduca intere popo-
lazioni a una condizione ancora peggiore della schiavitù antica.
L'aspetto più inquietante è la mancanza di riflessione su tali fenomeni. Come se si trattasse di re-
altà naturali immutabili dotate di una evidenza intrinseca e non di strutturazioni storiche contingenti.
La forza mitica di cui è ammantata l'economia attuale impedisce di fare un'analisi spregiudicata dei
suoi orientamenti. Forse, come spiega Susan George, dipende dal fatto che la destra ha plasmato una
cultura che rende accettabile un mondo in cui due terzi delle persone sono escluse dalla società.
Ma c'è un problema ancora più grave. La nostra economia è figlia della nostra antropologia e del
suo esagerato individualismo. Sarebbe vano pretendere di modificare i meccanismi economici senza
approfondire il senso globale della nostra vita: avremmo cucito le classiche toppe nuove sul vestito
vecchio. Raimon Panikkar mette il dito sulla piaga quando sostiene che l'economia umana deve trat-
tare degli uomini e dei loro bisogni, non delle merci e delle loro leggi. L'economia è una realtà troppo
seria per lasciarla in mano agli specialisti: si tratta della condizione umana. Solo un recupero pro-
fondo del senso della nostra umanità ci fornirà le energie necessarie per fare in modo che la società
riprenda il controllo dell'economia e possa orientarla. Attualmente, invece, è il funzionamento eco-
nomico che decide l'organizzazione della società.
Non c'è dubbio che il compito di uscire dalla situazione presente debba essere affidato a una forte
ripresa della politica, come sottolinea vigorosamente Rodrigo Rivas. Una politica che attinga però al
versante profetico e utopico e non si limiti alla pura gestione dell'esistente. Forse il primo nodo da
sciogliere è come regolamentare l'arbitrio del capitale finanziario, che provoca una crisi generalizzata
pagata dalla fasce più deboli della società. Il capitalismo sta scivolando sempre più rapidamente
verso il monopolio e dunque verso disuguaglianze e conflitti. Basti pensare che un terzo del com-
mercio mondiale è in mano ad appena cento multinazionali che effettuano scambi tra loro: Inter
company transfers.
Diventa sempre più urgente organizzare reti di persone che resistano a determinati provvedimenti
ingiusti, attivare sistemi locali di scambio, democratizzare le grandi organizzazioni internazionali, di-
fendere i diritti del lavoro in ogni parte del mondo.
Ma non è compito di un piccolo testo come questo stabilire un'agenda di priorità politiche; è
molto più significativo fornire stimoli per uscire dalla rassegnazione e dalla passività di fronte al
grandioso marchingegno economico che incombe sulle nostre vite come un macigno. Che sia un mo-
loch divorante lo sappiamo già, ma potrebbe anche trattarsi di un gigante dai piedi d'argilla. E allora
anche un minuscolo sassolino può contribuire a disintegrarlo.
Come sopravvivere allo sviluppo pag. 1
I - Raimon Panikkar
Raimon Panikkar
Nato a Barcellona da madre spagnola e da padre indiano, è laureato in chimica, filosofia e teologia. Professore emeri-
to di filosofia della religione all'università di California, ha pubblicato una trentina di opere e più di 300 articoli acca-
demici su argomenti che spaziano dalla filosofia alla scienza, dalle religioni comparate al dialogo fra le culture.
I passi intermedi
Alcuni anni fa scrissi che non c'è una alternativa al sistema attuale, ma ci sono alternative. Adesso
vorrei sottolineare che dire alternative non è sufficiente, perché quando si parla di alternative si è
sempre dipendenti dall'alter che ci rende differenti, quindi si gioca ancora con i parametri del grande
sistema. Perciò ci vuole creatività, coraggio, spiritualità e la disposizione a essere santi, a fallire o a
trionfare. Ci manca la libertà dell'azione veramente spontanea dell'essere umano, che è quello che ci
dà gioia. Non soltanto alternative, che sono necessarie - sono i passi intermedi - ma creatività, novità
assoluta a livello umano, personale, di ciascuno di noi.
E qui non c'è una ricetta, c'è qualcosa di più; è in gioco la nostra responsabilità. Perciò il problema
non è soltanto economico né esclusivamente tecnico, come se si trattasse di trovare una nuova for-
mula d'azione. É una nuova scoperta di vita, è questa speranza che non riposa nel futuro ma nell'in-
visibile. É questa relazione umana che rompe tutti gli schemi. lo interpreto la cosiddetta ribellione
delle nuove generazioni come la confusa intuizione che tutti i nostri buoni consigli sono all'interno di
un ordine che schiaccia. Ho la sensazione che la nostra civiltà stia facendo naufragio e che ognuno di
noi cerchi di aggrapparsi a qualche tavola di salvataggio. Tutto il mio sforzo consiste nel consigliare
di non aggrapparsi a niente, ma di nuotare un po' per arrivare a scoprire un'altra dimensione..A tutti
coloro che non s'accorgono del naufragio e che difendono la forma attuale di economia o che sosten-
gono che la tecnologia ha fatto il possibile per migliorare la vita dei popoli, vorrei chiedere come mai
1/3 dell'umanità non ha l'acqua potabile, come mai nel mondo si spende 70 volte di più per un sol-
dato che per uno studente, come mai il reddito mondiale dal '60 al '91 è quintuplicato solo per gli
sviluppati. Questo sistema ha avuto un risultato solo per noi, per un 20% dell'umanità e oggi ci tro-
viamo di fronte alla necessità di un cambiamento radicale.
Di più: il sistema attuale ha rotto i ritmi della terra. Attualmente utilizziamo 13 unità di energia
pro capite, di cui 12 vanno al quinto più ricco dell'umanità, mentre la terra può sostenerne soltanto
tre. Con l'accelerazione abbiamo -infranto non solo i ritmi umani ma anche quelli cosmici. A mio pa-
rere la fissione dell'atomo equivale a un aborto cosmico. Apriamo la vagina dell'atomo perché ab-
biamo bisogno di una maggiore quantità di energia e non ci facciamo altre domande. Dire, come fa
qualcuno, che possiamo utilizzare l'energia atomica a nostro piacimento perché i bombardamenti
atomici avvengono già nel sole è come sostenere che possiamo ucciderci tra noi perché siamo mortali.
Ma vorrei spingere il mio pensiero ancora più a fondo: secondo me, la tecnologia ha ormai esaurito
la sua missione. É evidente che dall'inizio della rivoluzione industriale ad ora c'è stato un grande
passo avanti per il 20% degli uomini, adesso però scopriamo che questa stessa rivoluzione indu-
striale che sfugge ad ogni controllo distrugge il restante 80% dell'umanità. Un esempio per tutti: in
10 anni una macchina consuma 15 volte più di un bambino. Se poi esaminiamo le condizioni di vita
di questo 20% ci accorgiamo che vive sotto la schiavitù del lavoro, parola che lo spagnolo rende con
trabajo, che deriva dal latino tripalium, strumento di tortura. In diverse lingue c'è la distinzione tra
lavoro e opera (work e labour in inglese), per sottolineare che l'uomo è chiamato ad essere giardiniere
della creazione e cooperatore di Dio, non lavoratore. Uno sguardo più approfondito ci rivela che ci
sono tre grandi industrie nel nord del mondo: quella del movimento di merci, capitali e armi, quella
del turismo e quella della pubblicità. Alcune cifre: il 50% dell’economia mondiale è risucchiato dalle
spese per la difesa, il 60% degli psicologi statunitensi lavora per la propaganda. Siamo talmente in-
dottrinati da non renderci conto del sistema in cui viviamo e da non poterne uscire.
Per uscire davvero dalla forma di civiltà in cui siamo intrappolati occorre una grande forza spiri-
tuale. C'è voluta una guerra civile per convincere l'umanità che la schiavitù non era difendibile; pro-
Come sopravvivere allo sviluppo pag. 9
babilmente ci costerà molti traumi e sofferenze accorgerci che il capitalismo e l'organizzazione at-
tuale dell'economia sono le nuove forme di schiavitù. Bisognerebbe però sbarazzarsene in maniera
non violenta, come un nuovo Prometeo della mitologia greca che per rubare il fuoco a Zeus assu-
messe forme femminili; seducendo, più che ingaggiando la battaglia dialettica e dividendo gli uomini
in buoni e cattivi; cercando collaborazione invece che contrapposizione frontale.
In fondo non si può assolutizzare nulla, nemmeno il rifiuto, ma ci si dovrebbe liberare da quelle
forme di pensare che ci hanno condotto in questo vicolo cieco, specialmente dal paneconomicismo
che ci fa credere che l'economia sia tutto nella vita dei popoli.
La nostra civiltà non ha futuro; basterebbe l'esempio dell'India a dimostrarlo. Per le classi medie
indiane, che sono più di 160 milioni e vivono molto meglio della grande maggioranza degli italiani, la
democrazia, il capitalismo, la tecnologia sono state una benedizione di Dio, ma per gli altri 750 mi-
lioni hanno portato un peggioramento delle condizioni di vita. Al tempo dell'impero britannico il
dislivello tra la metropoli e l'India era di 8 a 1, oggi è di 47 a l. Siamo davvero su una cattiva strada;
non si può continuare con i soliti schemi. 1 passi intermedi sono dunque i passi umani, quelli che noi
facciamo; ciascuno di noi, dunque, nella scala umana: i nostri "piccoli" passi autentici. Se si tratta di
un problema umano e non soltanto tecnologico, l'uomo è la risposta. Ci manca fede, speranza e
amore in noi stessi.
Lo sviluppo è finito
Lo sviluppo classicamente inteso riguardava il trasferimento di risorse, di conoscenze, di denaro
dal Nord al Sud. Tutti sanno che questa operazione non ha funzionato, perché nel XVIII secolo la
differenza tra Nord e Sud era approssimativamente di 2 a 1, dopo la seconda guerra mondiale essa è
salita a 30-40 a 1, oggi è di 60-70 a l. Su questo sviluppo facciamoci dunque una croce sopra perché
non ha prodotto niente di positivo. Credo, comunque, che la parola "sviluppo" sia sempre stata una
parola ideologica, importante in u 1 n periodo di guerra fredda per fare credere che il Nord si interes-
sasse realmente al Sud. All'epoca della guerra fredda, infatti, non c'erano angoli del mondo senza rile-
vanza, perché tutti i paesi potevano diventare il luogo di confronto fra Russia e Stati Uniti; attual-
mente, invece, molti paesi che allora avevano importanza l’hanno perduta. Basti pensare, per esem-
pio, alla Somalia che è stata abbandonata al suo destino.
Oggi ci sono molti segni che questo sviluppo è finito, a cominciare dal decremento dell'aiuto uffi-
ciale. Esso ha raggiunto il tetto massimo di 65 miliardi di dollari; attualmente si attesta più o meno
sui 48 miliardi e ogni anno si riduce. In Italia è praticamente azzerato, ma non solo in Italia. Credo
che dovremmo sovvertire anche la rappresentazione grafica del rapporto Nord-Sud. Non più quindi
il mondo disegnato come un'arancia in cui il Nord si distacca dal Sud, ma un mondo a forma di coppa
di champagne, distinta in cinque fasce che rappresentano ciascuna un 20% della popolazione mon-
diale. Il 20% più ricco dell'umanità s'impossessa dell'82,7% delle risorse mondiali, il secondo 20%
dell'11,7%, il terzo del 2,3%, il quarto dell'1,9% e l'ultimo, il più povero, dell'1,4%.
Un'altra prova che lo sviluppo è finito consiste nel fatto che dal 1960 ad oggi, complessivamente,
il 15% di ricchezze in più è affluito verso la cima della coppa ed è diminuito in basso. Insomma c'è
un movimento ascensionale della ricchezza dal basso verso l'alto. Questa ripartizione delle risorse a
forma di coppa di champagne si traduce in un modello di società che potremmo rappresentare come
un triangolo, con al vertice un'élite minuscola, al centro le classi medie (che io chiamo "classi an-
siose", perché siamo tutti sul punto di perdere il lavoro, di non sapere bene cosa ci riserverà il fu-
turo) e in fondo gli esclusi, tutti quelli che non hanno un posto nella società. Questo è vero sia nel
Nord che nel Sud, con la differenza che, mentre nel Nord l'80% della società è incluso nel sistema e il
20% è escluso dalle ricchezze, dai posti di lavoro, dai piaceri della società, nel Sud gli esclusi sono il
60% e il 30-40% rappresentano le classi medie e le élites.Se dovessimo raffigurare il mondo intero a
forma di piramide, constateremmo che 1/3 della popolazione può godere i benefici del sistema, 2/3
ne sono esclusi.
É importante chiedersi come siamo arrivati a questa situazione. lo individuo diversi attori che
hanno realizzato un mondo che ha escluso più gente di quella che ha potuto includere: ci sono le
compagnie transnazionali, i creditori attraverso il meccanismo del debito, la Banca Mondiale, il
Fondo Monetario Internazionale (FMI) e l'Organizzazione del Commercio (OMC).
Prima di passare a descrivere dettagliatamente gli attori della situazione economica mondiale, vor-
rei offrire ancora alcune cifre. Ci sono oggi nel mondo 441 miliardari in dollari. Ogni anno la rivista
Forbes negli Stati Uniti fa una lista dei miliardari e a metà luglio 1996 ha detto che ce ne sono 441;
l'anno prima erano 358; ma grazie a Dio la lista dei miliardari è aumentata. Il valore totale della loro
ricchezza è uguale alla ricchezza, in termini di prodotto nazionale lordo, di 2 miliardi e mezzo di
uomini. Incredibile ma vero! Si tratta di un paragone non scientifico, perché ho messo a confronto il
valore della ricchezza dei miliardari col prodotto nazionale lordo, ma siccome la Banca Mondiale
Come sopravvivere allo sviluppo pag. 12
dice, per esempio, che l'indiano ha una parte della ricchezza del suo paese pari a 370,dollari, siamo
autorizzati a fare questo tipo di paragone.
Non deve sorprenderci che il gruppo che usufruisce della maggior parte delle risorse mondiali non
sia capace i includere tutti, perché ogni anno il numero dei privilegiati è in aumento e proporzional-
mente quindi si appropria di una fetta sempre più consistente di ricchezza.
I - LA STORIA
Nel 1810 a Buenos Aires, allora una piccola città di 15.000 abitanti (oggi ne ha 9 milioni), arrivò la
notizia che Napoleone Bonaparte aveva invaso la penisola iberica e che aveva nominato come nuovo
re di Spagna il suo fratello Giuseppe, chiamato dagli spagnoli Pepe Botella (Beppe Bottiglia). A
questa notizia, la borghesia latinoamericana di origine spagnola si riunì in un cabildo aperto in cui
decise che non avrebbe riconosciuto l'usurpatore francese, ribadì contemporaneamente la propria fe-
deltà al re in esilio Ferdinando VII e nominò una giunta di governo che avrebbe retto il paese fino al
ritorno del monarca legittimo. Nacque così, in modo praticamente indolore, la prima fase dell'indi-
pendenza latino-americana, la "Patria vecchia". In Argentina il cabildo aperto porta la data del 25
maggio 1810.
La notizia si sparse dovunque nel giro di qualche mese. E tutti i paesi americani presero più o
meno la stessa risoluzione. Per quanto riguarda le colonie spagnole, ben presto il processo di reg-
genza si trasformò in movimento indipendentista, salvo nei due paesi che - non a caso erano le due
capitali storiche, ovverosia il Messico e il Perù, dove l'indipendenza nacque invece imposta dall'e-
sterno. Nel caso peruviano argentini e cileni invasero il Perù e lo dichiararono indipendente contro il
volere dei peruviani; nel caso messicano un capitano di ventura, Agustín Iturbide, si autoproclamò
imperatore dell'Impero degli Stati Uniti del Messico.
"Per la precisione" faccio un veloce riferimento al Brasile. Naturalmente, anche il Portogallo era
stato invaso dalle truppe napoleoniche ma, in questo caso, l'insieme della corte di Lisbona decise di
traslocare nella colonia sudamericana. Dopo Waterloo e il Congresso della Santa Alleanza a Vienna, il
re ritornò a Lisbona, ma non riuscì a convincere suo figlio Joao a seguirlo. Viceversa, dom Joao de-
cise di restare a Rio de Janeiro dove si proclamò imperatore del Brasile, che così diventò un Impero
indipendente senza colpo ferire.
Ma torniamo alla nostra storia specifica. Raccontano infatti gli storici che l'avvento della giunta di
governo argentina fu salutato anche dal fiume della Plata. All'imbocco del fiume, infatti, c'era una
flotta inglese che prese parte ai festeggiamenti sparando parecchie salve di cannone. Il giorno dopo,
la prima misura del nuovo governo consistette nel ridurre le tasse per le importazioni dal 50% al
7,5%. Trenta giorni più tardi, la Giunta di governo di Buenos Aires decretò l'assoluta libertà nell'e-
sportazione di oro e argento (il subcontinente importava essenzialmente schiavi e alcuni manufatti,
mentre esportava preziosi, materie prime agricole e anche parecchi manufatti, pur se bisogna aggiun-
gere che le sue merci non venivano pagate che in minima parte. Rappresentavano, per così dire, un
grazioso contributo allo sviluppo europeo). Tre mesi dopo vennero aboliti tutti i dazi alle importa-
zioni e alle esportazioni e fu proclamata la totale libertà commerciale. Da questo punto di vista la
giunta del Mar del Plata, come poi tutte le altre, fu antesignana di un movimento di liberismo totale.
Le conseguenze non si fecero attendere: due anni dopo in Argentina non c'era più nessuna industria.
Erano completamente scomparse. Lo stesso avvenne altrove.
Si potrebbe obiettare che non deve essersi trattato di una grande industria. É più che probabile.
Comunque i prestigiatori del libero mercato fecero scomparire anche la maggiore industria tessile dei
primi dell'800, e cioè quella indiana. Visitando le Americhe Alexander von Humboldt - che di tutto si
occupava meno che di politica - aveva scritto nel 1805 che il valore della produzione manifatturiera
del Messico era pari a 8-10 milioni di pesos annuali e che il 70% di essa era assicurato dal settore
Come sopravvivere allo sviluppo pag. 20
tessile. Lo stesso si poteva osservare in Perù, in Bolivia, in Ecuador, in Cile, in Brasile e in
Argentina. Tuttavia, 7-8 anni dopo l'arrivo della definitiva indipendenza (tra 1815-1825 a seconda
dei casi), in America Latina non c'era più industria tessile e addirittura non c'era industria tout court.
E in tale contesto che - almeno a lui - deve essere sembrato assai gaio, il console d'Inghilterra a
Buenos Aires, Woodbine Parish, si rivolse agli argentini scrivendo nel 1837: «le possibilità che i vo-
stri vestiti siano inglesi equivalgono al 99%. Ciò è vero anche per le vostre pentole, le vostre tazze, i
vostri coltelli e persino per i vostri ponchos. Tutti sono articoli made in England. Ma non solo: sic-
come voi argentini vivete davvero in un paese molto ricco, importate da noi anche le pietre che si
adoperano per costruire i marciapiedi». Come dargli torto? Nell'anno di grazia 1837, un poncho
made in England si vendeva a 3 pesos nei negozi di Buenos Aires, quello made in Argentina a 7 pe-
sos.
Potrebbe sembrare una forma di autolesionismo dichiarare la propria forza economica così spudo-
ratamente. Non lo è, e non per una forma arcaica della "sindrome di Stoccolma", bensì perché tutto
ciò testimonia che alle "classi dirigenti autoctone" andava benone così. Infatti, Woodbine era stato
anticipato dall'ambasciatore inglese a Rio de Janeiro, James Webb, che scrisse nel 1833: «In tutte le
fazende brasiliane padroni e schiavi si vestono con manufatti inglesi. L’Inghilterra finanzia tutti i
miglioramenti interni e fabbrica tutti gli utensili di uso normale, dalla zappa in su, dagli abiti ai vestiti
più cari, la ceramica, gli articoli di vetro, di ferro o di legno. Diamo al Brasile le sue navi a vapore e
anche i suoi velieri, costruiamo il suo pavé e gli sistemiamo le strade, illuminiamo le sue città col gas,
gli costruiamo le ferrovie, lavoriamo le sue miniere, siamo i suoi banchieri, gli innalziamo le linee del
telegrafo, trasportiamo la sua posta, gli costruiamo i mobili, i motori, le vetture ferroviarie». Nel
1833 il Brasile era molto ricco, tanto che - appunto - non aveva bisogno di produrre niente, poteva
importare tutto. Non è forse un caso se oggi il Brasile è H paese dove, statisticamente, la disugua-
glianza risulta essere la più alta del mondo.
Eccetto gli Stati Uniti, ma questa è un'altra storia, quasi tutte le Americhe seguirono esattamente
lo stesso tragitto.
É curioso osservare come - storicamente - i paesi ricchi (quindi "intelligenti", "preparati", "con
cultura del lavoro e del risparmio", "civili"), non siano mai stati liberisti, e cioè non abbiano mai
aperto i loro mercati allo scambio con l'estero. Non solo nel 1800. L’odierna Unione Europea, ad
esempio, è tutto tranne un mercato aperto (salvo per gli europei... occidentali). Se l'Europa oggi
fosse un mercato aperto, in alcuni settori di largo consumo come il tessile o l'alimentare si arrive-
rebbe ad un predominio di beni di origine non europea; non succede solo perché i dazi doganali e le
sovvenzioni pubbliche per la produzione di carne, di frutta, di tessili, di autovetture o di computer
sono estremamente alti. In ogni caso, l'Unione Europea si trova in ottima compagnia perché, in
quanto a protezionismo, rivaleggia con gli Stati Uniti, il Canada e il Giappone, nonché con quei paesi
asiatici che in questi anni si sono segnalati per i più alti tassi di crescita, i cosiddetti "4 draghi" o "4
tigri". Chiarisco che non sto dando un giudizio di valore; per ora mi limito semplicemente a consta-
tare un fatto che - tuttavia - viene venduto universalmente come il suo esatto contrario. Infatti, fra le
tante idee che ci vengono inculcate in questo periodo utilizzando tutti i mezzi, legittimi o meno, c'è
quella che ci dice che la liberalizzazione dei mercati si trova alla base dello sviluppo economico dei
paesi oggi industrializzati, ma anche dell'attuale crescita della Corea, Taiwan, Singapore, Malaysia,
Thailandia, Hong Kong, Cina ecc, mercati cosiddetti aperti. Dal punto di vista economico questa è
una bestialità pura e semplice per quanto riguarda il passato, una falsità assoluta per quanto riguarda
il presente. Originata dalla più supina ignoranza o da qualcosa d'altro?
Comunque - dicevamo - quasi tutta l'America Latina seguì invece questa rotta. E lo fece con
grande convinzione, senza costrizioni. Quasi tutta, perché ci fu comunque un'eccezione: si chiamava
Paraguay.