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La tromba e

Il linguaggio del jazz


di
Maurizio Franco

La tromba è il primo strumento simbolo del jazz, quello a cui è legato l’immaginario collettivo dei
primordi della musica di derivazione africana americana, la “voce guida” del collettivo polifonico
del New Orleans Style e del Dixieland. Non a caso, la leggendaria figura del cornettista Buddy
Bolden, di cui non esistono registrazioni, rimane un punto fermo per ogni incipit sul percorso
storico del jazz; cornetta, non tromba, perché a quello strumento sono legati gli incunaboli della
discografia jazzistica, prima che la sua più squillante e penetrante sorella ne prendesse
definitivamente il posto intorno alla metà degli anni ’20. Da quel momento, il suono più ovattato,
caldo e morbido della cornetta diventerà una scelta estetica per pochi specialisti dello strumento.
Come in tutto il jazz, il suono della tromba si modella sulla personalità timbrica dei musicisti,
evidenziando una natura marcatamente “vocale” e quindi ideale per la personalizzazione del suono
alla base del linguaggio jazzistico. Anche sulla

tromba e sulla cornetta, esiste poi la possibilità sia di emettere un suono dal senso coloristico
accentuato, nel quale la stessa nota può assumere molteplici configurazioni: in sostanza, un suono
“colore”, anche astratto dalla melodia, sia di realizzare il rivestimento sonoro di quest’ultima inteso
come sound del musicista globalmente inteso, cioè un suono “frase”, entrambi contemplati
all’interno di uno spettro nel quale trovano posto le più svariate possibilità. Sul piano storico, tolto
ovviamente Bolden, la prima, rilevante personalità della cornetta è stato Freddie Keppard, dal
suono forte e percussivo, in possesso di uno staccato decisamente ritmico. La leggenda dice che
doveva essere lui il primo jazzista a incidere un disco, ma il privilegio toccò al bianco Nick La
Rocca, di origini siciliane, leader della celeberrima Original Dixieland Jazz Band, che nel febbraio
del 1917 darà inizio al cammino discografico del jazz. New Orleans consegnerà alla storia anche un
altro cornettista bianco: Paul Mares, degli eccellenti New Orleans Rhythm Kings, oltre a cornettisti
come Bunk Johnson e Tommy Ladnier, ma le due figure più luminose della città del delta furono
Joe “King” Oliver e ovviamente Louis Armstrong. Del secondo scriveremo più avanti, mentre del
primo, che fu suo mentore nella Chicago dei primi anni ’20, occorre sottolineare la grande
importanza storica. Musicista dal suono chiaro e dall’assoluta vena melodica, maestro nell’uso delle
sordine, Oliver fu una figura di primissimo piano sino alla metà degli anni ’20, quando la sua stella
cominciò a declinare. A lui si devono magnifiche incisioni in puro stile New Orleans all’interno
della sua Original Creole Jazz Band (tra cui le incisioni a due cornette con Armstrong). Gli anni

’20 segnano lo sviluppo del jazz in tutti gli Stati Uniti, ma in particolare nella costa orientale, cioè
New York, e in una città quale Chicago, mettendo in luce personalità di cornettisti e, sempre di più,
di trombettisti il cui valore tende ad essere dimenticato, offuscato dalla grandezza delle due
principali figure, cioè il citato Armstrong e Leon “Bix” Beiderbecke, divenuto oggetto di un mito
che è stato immortalato due volte in fiction cinematografiche. Figlio della buona borghesia bianca
di Davenport, Bix (che scomparve ventottenne nel 1931) aveva un sound morbido, che evidenziava
una coolness espressiva che farà scuola, un fraseggio dai toni crepuscolari e dalle armonie
influenzate dal mondo impressionista. La sua particolarità lo ha fatto diventare un artista di culto nel
mondo bianco, rispettato e amato anche dai musicisti neri. Fu tra i primi a dare sviluppo
all’improvvisazione jazzistica e divenne anche l’esempio del musicista bianco che sposa il jazz in
quanto filosofia di vita. Muggsy Spanier fu un altro rilevante esponente del jazz di Chicago,
mentre tra i seguaci di Beiderbecke troviamo Bunny Berigan, Bobby Racket, Jimmy McPartland
e in parte Wild Bill Davison. Tra gli altri trombettisti degli anni ’20 c’é, il brillante Red Nichols,
musicista bianco di buon livello, leader dei popolari Five Pennies, mentre tra i musicisti di colore
spiccano due personalità di rilevanza assoluta, mai vertici del periodo: Jabbo Smith e Bubber
Miley. Se Jabbo Smith è stato un maestro assoluto e non pienamente riconosciuto, con un fraseggio
di sorprendente agilità, Miley fu un protagonista della prima grande orchestra di Duke Ellington,
co-autore di pagine entrate nella storia. Poeta maledetto del jazz (come del resto Bix), maestro

assoluto nell’uso delle sordine, artista dalle eccelse qualità sonore, esemplifica la linea dell’uso
“vocale” dello strumento accentuata, nel periodo, dal rapporto tra trombettisti e trombonisti con le
cantanti del blues classico, che portava a cercare l’imitazione della voce da parte degli ottoni.
Infine, Rex Stewart si ricorda come cornettista dal suono luminoso, protagonista sia con Fletcher
Henderson che con il Duca. Ma negli anni ’20 si costruisce anche il mito di una delle più rilevanti
personalità musicali dello scorso secolo, di un artista che al tempo stesso incarna l’idea di
avanguardia e di classicità. Si tratta di Louis Armstrong, il cui suono rivoluzionario spingerà il
jazz verso la sua dimensione moderna, soprattutto con la serie di incisioni effettuate con i suoi
gruppi denominati Hot Five e Hot Seven della seconda metà degli anni ’20. Impossibile sintetizzare
in poche righe il contributo di Armstrong alla storia della musica: amplia il registro dello
strumento, sviluppa una sonorità monumentale, dalle mille nuances, elabora un linguaggio ritmico
che anticipa di quasi vent’anni il percorso del jazz e sin dai primi anni ’20 introduce stabilmente
l’accentuazione dei tempi deboli; porta infine a compimento la strada verso l’improvvisazione su
una struttura ritmico-armonica, definendo gli standard espressivi diventati un riferimento per un
numero enorme di musicisti, e non solo trombettisti. Gli anni ’30, con l’avvento dello stile Swing,
portano all’affermazione musicisti di importanza capitale. Sempre con Ellington troviamo Cootie
Williams, non solo l’erede di Miley, ma anche un musicista di ampie possibilità espressive, dal
suono dalle molteplici sfumature timbriche. Buck Clayton svettava con il sound pieno e rotondo,

mentre di assoluta morbidezza e cantabilità era Harry “Sweet” Edison, suo contraltare nella band
di Basie. Di notevole varietà era poi Charlie Shavers, mentre il virtuoso per antonomasia fu Harry
James, star della band di Goodman. Non bisogna poerò dimenticare una serie di eccellenti
trombettisti dell’era swing, tra cui Snooky Young, Hot Lips Page, Jonah Jones e Henry Red
Allen, anche se la figura di maggiore modernità del periodo è rappresentata dall’afroamericano Roy
Eldridge, padre spirituale di Gillespie e musicista che sapeva arricchire la trama ritmica in senso
avanzato con un fraseggio asciutto e dagli intervalli stretti. L’affermazione del bebop segnerà anche
la nascita della stella di John Birks “Dizzy” Gillespie, insieme a Charlie Parker il principale
protagonista della definizione del linguaggio boppistico. Strumentista dalla tecnica trascendentale,
Gillespie è sia una delle figure imprescindibili della tromba jazzistica, sia il musicista che ha
contribuito maggiormente alla realizzazione dell’incontro tra jazz e musica cubana e latina in
genere, grazie anche a qualità ritmiche assolutamente eccezionali. Le sue diteggiature sono originali
e, in parte, non ancora svelate, mentre la brillantezza dei sovracuti e l’agilità del fraseggio hanno
fatto scuola nelle generazioni a venire. Tra gli altri trombettisti del primo bebop si segnalano
Howard McGhee, dal fraseggio secco e asciutto, Kenny Dorham, che svilupperà il suo linguaggio
al fianco di Parker, poi nell’Hard-Bop, quindi nelle esperienze avanzate del modalismo jazzistico
anni ’60, poi l’incisivo Red Rodney e infine Theodore “Fats” Navarro. Morto prematuramente,
Navarro rappresenta una delle voci più significative degli anni ’40, un trombettista che al

linguaggio del bebop aggiungeva una chiarezza melodica e timbrica che sembravano provenire
direttamente dal mondo di Armstrong. Infine, si forma negli anni ’40 anche Miles Davis, il più
influente trombettista del jazz contemporaneo, un artista che ha attraversato da protagonista più di
quattro decenni di storia jazzistica. Sound morbido, vellutato, che sapeva però diventare incisivo,
soprattutto nel primo periodo della “svolta elettrica” e nel quintetto storico della seconda metà degli
anni ’60, possedeva anche un senso del ritmo che lo portava a far cadere la nota nel momento
giusto per produrre uno swing diretto e coinvolgente. Questi erano i tratti salienti della sua poetica,
basata su una fantasia, una creatività inesauribile e dal feeling profondo. Catalizzatore del
modalismo jazzistico, pioniere dell’uso dei ritmi rock e funk in ambito jazz, Davis è il nume
tutelare di un modo di fare musica aperto, basato su uno spericolato interplay, ma al tempo stesso
inserito in una precisa dimensione formale. Gli anni ’50 e ’60 segnano poi lo sviluppo di un
trombettismo che unisce le idee di Gillespie, quelle di Davis e anche un inconscio recupero della
bellezza sonora e melodica di Armstrong, tutti elementi già evidenziati in parte da Navarro. Tra
questi occorre segnalare Chet Baker, un poeta della tromba nella linea tracciata da Davis, diventato
celebre grazie alla presenza nel quartetto pianoless di Gerry Mulligan. Nell’orchestra di Basie, Joe
Newman raccoglie l’eredità di Clayton, ma fiorisce l’originale talento di un personaggio
irriducibile a un modello preciso: Thad Jones. Quindi Clifford Brown, il trombettista di
riferimento per lo stile Hard-Bop, che ha lasciato pagine fondamentali durante il sodalizio con il

batterista Max Roach, mettendo in luce una sonorità pulita e ricca di innumerevoli sfumature, un
senso del tempo eccezionale, unito alla padronanza assoluta dello strumento, oltre a qualità
compositive e improvvisative di assoluto livello. Nonostante sia prematuramente scomparso a soli
26 anni ha lasciato un seno profondo sui musicisti della sua generazione. Un altro trombettista
scomparso prematuramente è stato l’incisivo e armonicamente moderno Booker Little, di cui si
segnala il sodalizio con Eric Dolphy, mentre tra gli altri esponenti di punta dello strumento nello
stile Hard-Bop troviamo musicisti quali Blue Mitchell, Donald Byrd, Idrees Sulieman, il
completo Benny Bailey e il lirico Johnny Coles. Richard Williams. Nella linea bianca emergono
le personalità di artisti legati al mondo californiano o specialisti di big band quali Tony Fruscella,
Pete Candoli, Al Porcino, Buddy Childers, Maynard Ferguson, quest’ultimo maestro dei
sovracuti, come l’afromaericano Cat Anderson, prima tromba dell’orchestra di Duke Ellington, che
annoverava tra i solisti un grandioso storyteller quale Clark Terry. Tra le figure più influenti
affermatesi negli anni ’60 ci sono Lee Morgan e Freddie Hubbard; il primo ripropose le sonorità
vocali blues del jazz anni ’20 diventando popolare grazie alla registrazione, nei primi anni ’60, di
brani di impronta soul jazz come il celeberrimo The Sidewinder. Il secondo fu uno strumentista di
enormi possibilità, un virtuoso funambolico, maestro del modalismo jazz e presente in diverse opere
capitali del periodo, comprese quelle più radicali di John Coltrane e Ornette Coleman. Con
quest’ultimo si affermò Don Cherry, che suonava una pocket cornet, uno strumento tascabile dal

quale traeva interessanti sonorità, ora morbide altrove incisive, con un linguaggio tematico basato
su ritmo e suono anziché sulla tonalità. L’idea di suono, inserita in un contesto puntillistico, è la
chiave per comprendere il radicalismo di Bill Dixon, nel quale il sound era l’equivalente del colore
nell’espressionismo e nell’informale pittorico e veniva elaborato sin nelle più minute possibilità;
una linea che nell’ambito dell’AACM verrà ripresa da Leo Smith. Per completare, almeno
sommariamente, il quadro del periodo occorre citare Don Ellis, che suonava una tromba a quarti di
tono costruita per lui, oltre a essere un evoluto compositore, quindi Mike Mantler, della Jazz
Composers Orchestra, e poi, Nat Adderley e Art Farmer. Adderley ottenne successo
internazionale nel quintetto del fratello, il sassofonista Julian “Cannonball”, esibendosi sempre alla
cornetta, ma con un linguaggio legato al soul jazz. Farmer, che guidò con Benny Golson il celebre
Jazztet, divenne specialista del flicorno (che entrava proprio alla fine degli anni ’50 a far parte degli
strumenti utilizzati nel jazz), distinguendosi per la morbidezza del suono e il rilassato eloquio. Dagli
anni ’70 in avanti, la tromba si è sviluppata in molteplici direzioni: da quella latino americana, in
cui spicca il nome del cubano Arturo Sandoval, dalla fantasmagorica tecnica, soprattutto nel
registro acuto, all’ambito della fusion, con personaggi quali Chuck Mangione, Randy Brecker,
Lew Soloff. Nelò versante dell’AACM, il nome di Lester Bowie è imprescindibile, soprattutto per
l’attività svolta con l’Art Ensemble Of Chicago. Musicista che recuperava il sound e l’idioma tipico
della musica nera delle origini, della fanfara e del blues, sviluppava spericolate e aperte

improvvisazioni che non perdevano mai il legame con la storia e la tradizione del jazz e della
musica nera degli Stati Uniti. La linea americana più vicina al jazz degli anni ’60 è stata poi
rappresentata, a partire dagli anni ’80, da trombettisti dalla tecnica brillante quali Wallace Rooney,
Terence Blanchard, Bryan Linch e Roy Hargrove, o dai ben più giovani Nicholas Payton e
Jeremy Pelt. Di grande rilevanza è poi la figura di Tom Harrell, uno dei più influenti strumentisti
degli ultimi trent’anni. Il suo linguaggio guarda agli anni ’60, ma non dimentica il sound di Baker,
ottenendo una fusione di elementi che confluiscono in una poetica nella quale l’intelligenza
compositiva agisce anche nel guidare il percorso delle improvvisazioni. La personalità più rilevante
sul piano trombettistico è però quella di Wynton Marsalis, strumentista che ha raggiunto un vertice
tecnico sulla tromba, rivelandosi anche eccellente interprete di musica eurocolta. Nel suo
linguaggio vive l’intera storia del jazz, così come nelle sue articolate composizioni, nelle quali si
guarda a Ellington quanto a Mingus. Lo status strumentistico raggiunto da Marsalis rappresenta a
tutt’oggi il punto più avanzato nell’uso dello strumento in ambito jazz, unendosi all’alto livello di
sintesi linguistica raggiunto con il quale ha sviluppato il presente riflettendo sul passato. Un altro
musicista che ha operato une lettura profonda della storia e la utilizza all’interno di forme
contemporanee è Dave Douglas, artista di ampie vedute, che utilizza materiali eterogenei per
realizzare una musica nella quale l’interplay si sviluppa all’interno di processi compositivi originali,
al di fuori degli schemi abituali e ormai storicizzati. La sua curiosità lo ha portato a lavorare con

organici inusuali, con gruppi di archi e in progetti di varia natura stilistica. Infine, in questa linea,
ma più legato alle forme a sezioni e minimaliste della musica odierna, troviamo Ralph Alessi, per
molti aspetti vicino alla linea europea dello strumento, così come Steven Bernstein e Cuong Vu.
Proprio l’Europa ha portato ala ribalta musicisti estremamente originali, spesso diversi nella poetica
rispetto a quelli di provenienza americana. Tradizione e contemporaneità si trovano in Francia
nella musica di due artisti molto diversi quali Eric Le Lann e Mederic Collignon, quest’ultimo
specializzato nella pocket trumpet e artista di visionaria follia che utilizza anche l’elettronica.
Sonorità elettroniche e un uso dello strumento nel quale l’improvvisazione si sviluppa con libertà
senza alcuna pregiudiziale stilistica, si ritrovano nel trombettismo del tedesco Markus
Stockhausen, figlio di Karlheinz e strumentista di eccelso livello, che alla conoscenza del jazz
aggiunge quella del mondo euro colto, soprattutto contemporaneo, con una forte propensione per
l’invenzione estemporanea. Nell’ambito dell’improvvisazione più radicale si è mosso un altro
tedesco, Manfred Schoof, mentre la tradizione storica del bebop europeo ha una sua punta di
diamante nello svedese Rolf Ericson. Tra le nuove leve del trombettismo nordico, spicca il
rilassato e sognante eloquio del norvegese Nils Peter Molvaer, anche se la figura più celebrata e di
livello resta il polacco Tomasz Stanko, partito dalla free music europea e giunto a un eloquio
essenziale, quasi puntillistico per il modo in cui distilla le note. Herbert Joos è invece il fantasioso
flicornista della Vienna Art Orchestra, mentre un altro esponente di grande notorietà del

trombettismo e flicornismo europeo è lo svizzero Franco Ambrosetti, che partito dall’area


dell’Hard-Bop è approdato a un evoluto contemporary mainstream. Inseribile nella scena inglese,
anche se canadese di nascita, Kenny Wheeler è uno dei grandi esponenti della tromba e del
flicorno contemporanei. Dotato di un lirismo profondo e maturo, aperto nel linguaggio e nelle
armonie, meravigliosamente morbido nel suond, Wheeler segna la storia dello strumento anche per
le sue composizioni, che riflettono un linguaggio che unisce mirabilmente Europa e America. La
scena jazzistica italiana ha sempre avuto trombettisti di rilievo sin dagli anni ’30, come dimostra la
completezza di un’artista quale Nino Impallomeni, mentre negli anni ’50 e ’60 emergevano le
personalità di Oscar Valdambrini e Nunzio Rotondo. Il primo, leader con Gianni Basso di una
formazione di larga popolarità, guardava al mondo del jazz californiano e a Chet Baker in
particolare; il secondo si ispirava con originalità al sound di Miles Davis, ma entrambi
rappresentavano una parte dell’eccellenza del jazz italiano di quegli anni. Un altro trombettista
raffinato e di ispirazione davisiana è stato Sergio Fanni, mentre negli anni ’70 si è affermato il più
celebre maestro italiano dello strumento: Enrico Rava. La sua carriera è uno work in progress che
spazia dalla free music al jazz elettrico, dalle reinvenzioni jazzistiche di arie d’opera alla classicità
di quintetti legati alla contemporaneità di un jazz che ha negli anni ’60 le sue principali radici.
Un’altra figura centrale per la tromba jazz italiana è quella di Emilio Soana, prima tromba di
orchestre di livello assoluto, ma anche solista ispirato che si muove nella grande linea del

mainstream jazzistico, così come altri strumentisti da big band quali Andrea Tofanelli, Al Corvini
e Umberto Marcandalli. Gli anni ’70 porteranno alla ribalta anche il radicalismo timbrico e
linguistico di Guido Mazzon, mentre nel decennio successivo si assisterà alla fioritura di
straordinari talenti. In primis, Flavio Boltro, che si muove sulla linea degli strumentisti americani
affermatisi nello stesso periodo e memori della lezione di Lee Morgan, Clifford Brown e Freddie
Hubbard, sulla linea intrapresa con senso della sintesi anche da Marco Tamburini e Fabio
Morgera, mentre più vicino a Davis è David Boato, come del resto Paolo Fresu, ispirato dai
quintetti Davisiani degli anni ’50 e ’60, quindi approdato a una musica progettuale, nella quale
inserisce il sound immacolato e la vena lirica che sa trarre dal suo strumento. Lo sguardo al mondo
mediterraneo e la sua fusione con il jazz è il fulcro della poetica di Pino Minafra, laddove un
ampio sguardo alle forme del jazz degli ultimi quarant’anni caratterizza Alberto Mandarini e
Sergio Orlandi, che portano nel loro sguardo europeo la solidità della tradizione jazzistica d’oltre
oceano. Infine, negli anni ’90 si sono imposte due formidabili e differenti personalità: Giovanni
Falzone e Fabrizio Bosso. Il primo, formatosi come prima tromba di impostazione classica, porta
nel suo spericolato linguaggio una vasta conoscenza della storia del jazz e le procedure del mondo
euro colto contemporaneo. Il secondo, ispirato dai grandi trombettisti di ogni epoca, è un solista che
si muove con originalità nell’ambito del mainstream contemporaneo, evidenziando uno
strumentismo quasi trascendentale, legato alla ricerca tecnica di Wynton Marsalis.

Maurizio Franco

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