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L’ASSISTENTE SOCIALE 2.

O
TRASFORMAZIONE DEL S.S.P.
La professione del servizio sociale, ha manifestato sin dalla sua nascita una notevole
capacita’ di cambiamento. Oggi si stà attraversando una fase di cambiamento che
interessa l’identità stessa della professione.
Innanzitutto, essi riguardano i mutamenti nella formazione della professionalità. Il
D.P.R. n. 14 del 15 gennaio 1987 e il successivo D.MURST. del 23 luglio 1993 hanno
rispettivamente conferito al titolo di Assistente Sociale un valore legittimo al
diploma universitario in Servizio Sociale, riconoscendo alla disciplina una dignità
accademica, rafforzata dalla legge n. 84 del 23 marzo 1993.
Fra il 2000 e il 2001, nel nostro paese si verificano due straordinarie spinte
propulsive per la professione: la legge n. 328/2000 “legge quadro per la
realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali” e il D.P.R.
n.328/2001 “modifiche ed integrazioni della disciplina dei requisiti per l’ammissione
all’esame di stato e delle relative prove per l’esercizio di talune professioni”. Queste
due norme condizionano la formazione in termini di contenuti e forma mentis.
Per esempio, con la legge di riforma n.328/2000, la professione è chiamata a
spostare l’attenzione da un eccessivo investimento sul case-work, al lavoro di
comunità e a modalità di lavoro più improntate alla ricerca, al progetto, ai processi
partecipativi. Anche il welfare assume una forma più definita e autonoma rispetto al
passato attraverso l’ambito sociale territoriale, l’ufficio di piano e il piano di zona,
che impongono a tutto il paese modalità operative integrate come mai nel passato.
Il terzo settore, inoltre, assume adesso il ruolo protagonista delle politiche sociali.
Per quanto concerne il profilo professionale dell’assistente sociale , invece, esso
promuove l’autonomia e la valorizzazione delle risorse personali e sociali dei
cittadini in condizioni di vulnerabilità o di disagio sociale mettendo in relazione gli
utenti con le risorse istituzionali e solidaristiche. L’assistente sociale deve avere 3
punti focali: utente, organizzazione di appartenenza, contesto sociale e territoriale in
cui opera. Tramite l’analisi e valutazione dei bisogni espressi dai cittadini,
contribuisce alla programmazione delle politiche della propria organizzazione e del
proprio territorio. Per esercitare le sue funzioni deve lavorare all’interno di una rete
di relazioni che le permetta di conoscere le risorse da attivare in favore dell’utenza.
Quella dell’assistente sociale è una professione multidimensionale, o meglio,
multifocale. I due documenti fondamentali per la definizione della professione, sono
il codice deontologico dell’assistente sociale e la legge di riforma 328/2000.
Se il Welfare state contemporaneo è “un compiuto assetto di politiche pubbliche,
integrate da azioni societarie” è chiaro che il welfare state italiano è ancora
incompiuto, in quanto la legge 328/2000 non è ancora completamente applicata.
Il welfare è la strategia politica volta alla promozione/protezione delle classi deboli
della popolazione. Wilensky formulava che l’essenza dello Stato Sociale ( welfare
State) consiste nell’impegno ad assicurare ad ogni cittadino livelli minimi di reddito,
sussistenza, servizi sanitari e previdenziali, istruzione e abitazione. Inoltre gli
obbiettivi del Welfare State possono essere identificati, nell’assicurare un tenore di
vita minimo a tutti i cittadini, dare sicurezza a individui e famiglie, garantire a tutti i
cittadini l’accesso ai servizi fondamentali. Gli strumenti tipici del welfare state sono:
corresponsioni in denaro nelle fasi non occupazionali del ciclo vitale e nei casi di
incapacità lavorativa, erogazioni di servizi quali istruzione, sanità, abitazione,
concessione di benefici fiscali etc.
Per quanto riguarda la situazione italiana, è più coerente parlare di politiche sociali:
espressione che indica un processo più realistico rispetto all’incompiuto welfare, che
consiste nell’ideazione e condivisione di risposte possibili ai problemi comuni.
Diversi autori sostengono che lo Stato è solo uno dei protagonisti delle politiche
sociali. Politiche sociali e welfare, più in generale, sono caratterizzate da una
molteplicità di attori che interagiscono fra loro. In particolare si fa riferimento oltre
che allo stato, anche alla famiglia, mercato e terzo settore. A tutti questi si sta
progressivamente affiancando l’idea di comunità. Per quanto riguarda la famiglia,
qui si fa riferimento al nucleo familiare, che può essere formato da un nucleo più
altri membri aggregati, da più nuclei o da nessun nucleo. Una famiglia, può, infatti
essere costituita anche da una sola persona.
L’attore-stato.
Lo stato è la comunità, il gruppo sociale residente su un determinato territorio. Lo
stato esercita i propri compiti e le proprie funzioni nelle politiche sociali, mediante la
pubblica amministrazione. Si suddivide in 3 principali sotto-settori: amministrazione
centrale, amministrazioni locali, enti di previdenza. Lo stato svolge funzioni proprie,
esclusive o sussidiarie. Le principali consistono nel regolamentare, redistribuire,
assicurare, produrre.
L’attore-mercato.
La definizione economica più diffusa consiste nel termine che indica il luogo dove si
incontrano domanda e offerta di uno o più beni e servizi, determinandone il prezzo.
Il mercato, però, è anche un principio in quanto sottende la libertà illimitata
dell’individuo di agire in nome dei propri interessi. Le funzioni del mercato sono di
tipo produttivo e allocativo dei beni, servizi e prestazioni. Nel welfare, il mercato è in
grado di rispondere più dello stato e della famiglia ai bisogni del singolo, che tuttavia
perde lo status di cittadino acquistando quello di consumatore.
Il terzo settore.
L’ultimo attore tradizionale del welfare è il terzo settore anche detto no profit. Il
terzo settore è l’aggregato delle organizzazioni che concorrono, su base no profit,
alla produzione di servizi di rilevanza e interesse sociale, ed entrano in relazione con
le organizzazioni formali dello stato e del mercato. Le figure tipiche del terzo settore
sono: cooperative, associazioni di volontariato, fondazioni, ONG, ONLUS. I principi ai
quali esso risponde sono: solidarietà, sussidiarietà, cooperazione, promozione
sociale, responsabilità sociale.

CAP.4 CENNI STORICI


Origini del welfare
Il welfare ha origine in Europa, attorno alla fine dell’ottocento, come conseguenza
all’industrializzazione e urbanizzazione dei contadini attratti dalle promesse di
migliori condizioni di vita e maggiore mobilità sociale. In realtà, la stanzialità delle
masse contadine, poi operaie, nelle cinture periferiche delle grandi città
caratterizzate da alte densità abitative, condizioni igieniche e strutturali degradate,
scarse opportunità educative e socio-sanitarie, unite ai sentimenti di sradicamento,
alienazione e smarrimento di identità, conduce alla nascita di problemi di povertà,
marginalità, violazione dell’ordine pubblico, aumento di malattie degli infortuni sul
lavoro. Questi problemi condizionano diversi governi europei, come la Germania,
dove il cancelliere Bismark promuove 3 leggi mirate alla protezione sociale,
attraverso la realizzazione di 3 forme assicurative: contro le malattie, gli infortuni sul
lavoro, la vecchiaia e l’invalidità, che riguardano quasi esclusivamente le classi
lavoratrici, lasciando i non lavoratori privi di qualunque protezione. Un’applicazione
significativa di queste leggi di impostazione assicurativa si avrà solo negli anni 20.
In Italia la LEGGE CRISPI.
In Italia, come risposta al primo avvio dell’età industriale, nascono le società di
mutuo soccorso, piccole associazioni di lavoratori che, in cambio del versamento di
una modesta quota continuativa, possono ricevere aiuto in caso di malattia e di
forzata sospensione dal lavoro. Queste società si realizzano a partire dal 1884 e sono
presenti sia a Nord che a Sud. Si tratta di una risposta ai primi movimenti contadini
di rivolta contro il latifondo e lo sfruttamento, che cominciano a sfociare nel sangue.
Una novità assoluta di quegli anni è la LEGGE CRISPI, del 17 luglio 1890, che
trasforma le vecchie opere pie, di carattere religioso, in IPAB ( ISTITUZIONI
PUBBLICHE PER L’ASSISTENZA E LA BENEFICENZA), ossia in enti di diritto pubblico
mirati all’assistenza di particolari categorie di indigenti. D’altra parte, le IPAB
rappresentano la logica del “grande contenitore”, nel quale concentrare i bisognosi,
nell’illusione di lasciare la società esterna libera dai problemi. Dopo la prima guerra
mondiale, si aggiungono ai problemi socio-economici dell’industrializzazione e
dell’urbanizzazione, i totalitarismi nazi-fascisti. Il processo di fascistizzazione, nel
nostro paese, coinvolge il settore dell’assistenza pubblica. Si comincia nel 1923, con
la trasformazione delle IPAB in IPB (Istituzioni pubbliche di beneficienza).
Successivamente nacquero un numero eccessivo di enti pubblici, come l’ONMI, che
si occupava dell’assistenza e la protezione delle gestanti e delle madri indigenti, dei
bambini bisognosi, abbandonati, maltrattati o anormali. L’opera nazionale
dopolavoro (OND), dedicata all’assistenza generalizzata e l’opera nazionale balilla,
ente morale per l’assistenza, l’educazione fisica o morale della gioventù. Anche se la
vera innovazione del fascismo in campo assistenziale è rappresentata dagli enti
comunali di assistenza (ECA), che trasferisce le funzioni di protezione sociale in capo
ai comuni e che ha contestualmente l’obbiettivo di controllare le comunità per
prevenire disordini sociali. Vennero nel ventennio istituiti anche l’INFPS (istituto
nazionale fascista della previdenza sociale) e l’INFAIL (istituto nazionale fascista per
l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro). Attraverso questo proliferare di enti, il
regime controlla la popolazione nelle diverse dimensioni della vita dei cittadini, nelle
diverse fasce di età, nelle varie classi sociali. Mentre l’Italia è preda di una durissima
dittatura, gli Usa a partire dal 29, l’anno del crollo della borsa di wall street, versano
in una grave crisi economica, denominata “ la grande depressione” che produce
milioni di disoccupati. Diversi paesi europei che avevano ottenuto sostegni dagli
Usa, risentono pesantemente della crisi. I sistemi e le teorie economiche dominanti
in quel periodo attribuiscono al mercato la primaria responsabilità della crisi. E’ in
questo scenario che nel 1936 Keynes , pubblica un saggio di macroeconomia che
rivoluziona il concetto di mercato. Le sue teorie hanno l’obbiettivo di dimostrare
quanto il mercato sia per natura instabile, inefficiente e ingiusto. Ecco perché non
può essere il maggiore attore economico. In caso di depressione, quando la
domanda aggregata è insufficiente, lo Stato deve intervenire a sostenerla con un
aumento della spesa, senza incremento delle imposte. Lo stato, quindi, è al centro
delle dinamiche del mercato, e deve andare incontro alle classi più deboli con azioni
assistenzialiste, che nell’insieme sono definite come welfare keynesiano. Inoltre, si
verificano in quegli anni altri due episodi importanti per la storia del welfare. Il
primo, è il NEW DEAL del presidente Roosvelt, un programma politico-economico
che aveva l’obbiettivo di sollevare le masse popolari dalle conseguenze della
disoccupazione e povertà, attraverso interventi di tutela legislativa del lavoro,
garanzie di reddito minimo, realizzazione di opere pubbliche. Il secondo evento si
realizza in europa, in Gran Bretagna, il 20 novembre 1942. Lord William Beveridge,
presenta un rapporto per conto del governo Churchill, ritenuto fondativo del
welfare state, denominato rapporto Beveridge. Nel documento è confermata la
proposta di responsabilizzare lo Stato, in particolare nella lotta ai cinque flagelli,
ossia: insicurezza del reddito, malattia, ignoranza, miseria culturale, ozio. Il rapporto
si basa su 3 pilastri politici- sociali: istituzione di un sistema previdenziale pubblico
che interviene nella vita dell’individuo quando questi non è in grado di
autosostenersi, la creazione di un sistema sanitario di base gratuito e aperto a
tutti, il perseguimento di una politica economica mirata alla massima riduzione
della disoccupazione. Tra gli anni 50 e la fine degli anni 70, l’esigenza economica
della ricostruzione imposta dal dopoguerra, si unisce all’ottimismo prodotto
dall’espansione dei mercati, seguendo i tradizionali modelli organizzativi industriali
taylorista e fordista. Il modello capitalista, però, mostra tutti i suoi problemi.
L’occupazione, nei paesi a ispirazione capitalistica/mercatistica, la concorrenza non
è mai perfetta come le teorie del capitalismo avevano auspicato. Le lacune dei
sistemi capitalisti, furono messe in evidenza dal sociologo Karl Polany. Secondo
Polany infatti, l’economia di mercato non è più solo il luogo in cui scambiare merci
ma diventa una politica, una morale, un sistema di valutazione della vita pubblica e
di quella privata. Egli infatti diffida dell’egemonia del mercato e nel determinismo
economico. Nel ventennio 50-70, si cominciano a registrare le crisi dei modelli
comunisti in quanto sia il capitalismo che il comunismo poggiano sul determinismo
economico. Egli individua fra stato e mercato una terza entità, come fattore di
equilibrio fra i due: la società .

CAP.5 LA VICENDA ECONOMICA.


In Italia, le politiche sociali si avviano già con la carta costituzionale del 1948. La
costituzione introduce l’obbligatorietà degli interventi sociali e il diritto
all’assistenza. Tuttavia i principi costituzionali sono stati applicati in modo limitato,
dando origine al welfare familiare, un modello in cui lo stato assicura
esclusivamente i servizi emergenziali, lasciando alla famiglia la responsabilità della
gestione di tutte le situazioni a carattere non emergenziale. Fino alla fine degli anni
60 le risposte politico-sociali risentono pesantemente degli strascichi del fascismo.
Nel ventennio 70-80 vi è una fase di formalizzazione delle risposte politico-sociali. Lo
stato prova a reagire nei confronti dell’espansione del mercato, nella mobilità
sociale delle classi proletarie, nella promozione dell’equità. Le principali misure
normative adottate in questo arco temporale, furono per esempio:
-legge 898/70 disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio
-legge 1044/71 piano quinquennale per l’istituzione di asili nido comunali
-legge 1204/71 tutela madri lavoratrici
-354/75 norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure
privative e limitative delle libertà e aspetti riabilitativi dell’inserimento dell’ex-
detenuto nella società
-685-75 disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope
-405/75 istituzione dei consultori familiari
-517/77 riforma scolastica
-194/78 tutela sociale della maternità e interruzione volontaria di gravidanza
-180/78 accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori
-184/83 disciplina dell’adozione e affidamento di minori.
Per il sistema di welfare, questo è un periodo caratterizzato da una vera e propria
esplosione di idee, contenuti, innovazioni. Per contro, sul piano politico-economico
avviene una potente frenata: un rallentamento, un impoverimento complessivo
dell’investimento nelle politiche sociali. Le ragioni sono soprattutto di natura
macroeconomica. Si registra, infatti, un forte aumento della spesa pubblica, ossia
dei costi dello stato centrale, degli enti locali e della previdenza. Per mantenere gli
standard di benessere collettivo, ai costi si fa fronte con un progressivo
indebitamento. Gli anni 90-2000, si aprono su questi scenari. Il decennio si apre con
l’inchiesta giudiziaria Mani Pulite, su Tangentopoli, un complesso sistema di
corruzione condotto da numerosi vertici della politica, finanza e pubblica
amministrazione. L’inchiesta porta alla luce l’ammontare gigantesco del danno alle
casse pubbliche arrecato dalla corruzione: si tratta di migliaia di miliardi di lire che
dovranno essere parzialmente recuperati mediante misure eccezionali di prelievo
fiscale ai danni della popolazione. Gli inizi degli anni degli anni 90 vedono anche
l’escalation di attentati mafiosi, culminati con l’omicidio dei giudici Falcone e
Borsellino e delle rispettive scorte. Infine, il declino dei partiti tradizionali, definito
come il crollo della prima repubblica.
Il 7 febbraio 1992 con la firma a Maastricht del trattato sull’unione europea si
raggiunge il punto di arrivo di un processo culturale, politico e diplomatico. Il
trattato prevede 5 cinque obbiettivi essenziali:
- Rafforzare la legittimità democratica delle istituzioni
- Rendere più efficaci le istituzioni
- Instaurare un’unione economica e monetaria
- Sviluppare la dimensione sociale della comunità
- Istituire una politica estera e di sicurezza comune.
Esso, inoltre, porta alla nascita dell’euro come moneta unica.
Le spinte federaliste e regionaliste degli anni 90, fanno da sfondo al lavoro di
Franco Bassanini, ministro della funziona pubblica nei governi di centro-sinistra,
che promuove alcuni provvedimenti finalizzati allo snellimento e all’efficienza
della pubblica amministrazione. La prima, la legge n.59/97 sul conferimento di
funzioni e compiti amministrativi dello stato alle regioni e agli enti locali,
individua alcune materie che richiedono una regolamentazione unitaria, tra le
quali, ordine pubblico, affari esteri, difesa, cittadinanza, immigrazione, moneta,
giustizia, scuola, università, previdenza sociale che rimangono di competenza
statale e conferisce alle regioni tutte le altre. Con il principio di sussidiarietà la
generalità dei compiti e delle funzioni amministrative sono attribuite alle autorità
territorialmente e funzionalmente più vicine ai cittadini interessati, ossia comuni,
province e comunità montane. La seconda legge Bassanini n. 127/97 affronta la
questione della semplificazione dei procedimenti amministrativi
(autocertificazioni) e introduce nell’ente locale la figura del direttore generale. La
terza legge Bassanini n. 112/98, tra le altre materie, dà una definizione organica
di servizi sociali, stabilendo le competenze dello stato, determinando gli standard
essenziali e individuando i profili professionali degli operatori. Il decreto 112/98 è
di fondamentale importanza essenzialmente per due ragioni. Innanzitutto è
connesso alla definizione di “servizi sociali” offerta nel capo II del decreto, nel
quale sono previste tutte le attività relative alla predisposizione e alla erogazione
di servizi, gratuiti e a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a
rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana
incontra nel corso della sua vita, escluse soltanto quelle assicurate dal sistema
previdenziale e da quello sanitario, nonché quelle assicurate in sede d
amministrazione della giustizia. In secondo luogo, la definizione del decreto
appare particolarmente innovativa proprio nella seconda parte ossia quella
relativa alla distinzione fra politiche sociali dirette e politiche prossime al
welfare. Grazie a tale distinzione, la riforma individua negli interventi socio-
assistenziali le politiche sociali dirette. Mentre la previdenza e la sanità
diventano politiche prossime del welfare. Anche per quanto concerne la
distribuzione delle competenze fra stato e regioni e fra pubblico e privato, il
decreto 112/98 è stato particolarmente innovativo, anche grazie all’affermazione
di principi come la sussidiarietà, la prossimità istituzionale alla vita e ai problemi
dei cittadini e la cittadinanza attiva. Ed è ancora con il decreto 112/98 che sono
introdotti nella normativa e nelle politiche sociali, importanti vincoli come
l’obbligo dei comuni di occuparsi dei settori d’intervento dei minori, giovani,
anziani, famiglie, disabilità, dipendenze patologiche, come la promozione
territoriale del cooperativismo e dell’associazionismo. Il decreto ha, quindi,
spianato la strada alla definizione nazionale delle politiche sociali espressa dalla
legge di riforma 328/2000.

CAP.6
La legge 328/2000 conferisce valore inedito alla prevenzione. intervenendo,
infatti, a livello di informazione/formazione/crescita culturale generale o
all’esordio di una patologia o, ancora, per la riduzione/contenimento del danno,
l’assistente sociale può evitare grandi sofferenze. Altri principi innovativi sono:
sussidiarietà, partecipazione attiva dei cittadini, il diritto alle prestazioni per i
cittadini italiani e profughi, stranieri e apolidi, l’universalità del sistema integrato.
La SUSSIDIARIETA’ è il principio che indica la priorità delle iniziative che nascono
dal basso, dalle persone e dalle comunità, per la realizzazione del bene comune e
impone ai livelli superiori di organizzazione sociale di non sostituirsi a quelle
inferiori, ma di intervenire, se necessario, solo in loro aiuto. Alla base della
sussidiarietà c’è il valore unico della singola persona. Rispettare il principio di
sussidiarietà significa rispettare e sostenere la libertà e la responsabilità delle
persone. Vi è inoltre, una forte affermazione del principio dell’integrazione.
Integrare significa: fare sistema, evitare incoerenze, riconoscere problemi
emergenti ancora senza adeguata risposta istituzionale, evitare sprechi di risorse,
focalizzare l’attenzione sul fruitore finale. L’art. 19, sul piano di zona, in realtà,
avrebbe dovuto intitolarsi “ambito sociale territoriale”: i comuni sono chiamati
ad associarsi e ad assumersi le responsabilità delle scelte politiche in materia di
assistenza sociale. Il protagonista di questa rivoluzione è dunque l’ambito sociale
territoriale. Si tratta di una delimitazione territoriale operata dalla regione
coincidente con i distretti sociosanitari. Ma l’ambito è anche una agenzia
autonoma, costituita dai servizi sociali degli enti locali che vi afferiscono, avente
una propria cassa e quindi un proprio bilancio. L’organizzazione dell’ambito si
compone di un coordinamento istituzionale ( composto da sindaci e assessori), di
un ufficio di piano (tavolo tecnico formato dai capi settore ai servizi sociali,
assistenti sociali, personale amministrativo), e di un responsabile dell’ufficio di
piano. Inoltre, dall’ambito sociale, dipendono anche la PUA (porta unica di
accesso per i bisogni generici) e l’UVM(unità di valutazione multidimensionale,
per i bisogni di disabilità e di carattere sociosanitario). Il cittadino –utente può
rivolgersi al servizio sociale dell’ente locale, sia alla PUA per situazioni più gravi ,
per la quali si possono elaborare PIANI DI ASSISTENZA INDIVIDUALI( pai).
Anche la programmazione economica sociale subisce forti cambiamenti.
L’innovazione maggiore consiste nel piano regionale delle politiche sociali (PRPS)
e nel piano di zona (PDZ). Il primo è il documento triennale di programmazione
regionale dei beni, servizi e prestazioni di carattere socio-assistenziale, realizzato
dall’assessorato regionale alle politiche sociali o al welfare. In questo documento
sono distribuite ai singoli ambiti regionali risorse, disposizioni, obbiettivi. Il piano
di zona, invece, è il documento di programmazione del singolo ambito, nel quale
sono programmate, distribuite e allocate le risorse ai singoli servizi, secondo le
priorità dettate da ragioni statico-demografiche, politiche, sociali ed economiche.
Il bilancio dell’ambito è costituito dai trasferimenti statali, dal fondo regionale
programmato ogni 3 anni all’interno del piano regionale politiche sociali dalle
compartecipazioni comunali e da altri finanziamenti. Il fondo unico di ambito è
aperto cosi’ a molteplici forme di finanziamento: oltre alle risorse ordinarie, vi
sono risorse aggiuntive, e i fondi comunitari.

CAP.7
Il welfare state, che ha rappresentato lo scenario delle politiche sociali degli anni
30-40 fino agli anni 70-80 del secolo scorso, ha dovuto cedere il passo al welfare
mix degli anni 90-2000, ossia ad un’idea di compresenza del settore pubblico e di
quello privato fondata sui principi di integrazione e sussidiarietà, supportata dalla
legge 328/2000. Man mano ci si è resi conto delle lacune prodotte anche da
quest’ultimo modello, introducendo l’ipotesi di un modello di welfare
community , informato al principio di sussidiarietà orizzontale, nel quale alle
organizzazioni della società civile è riconosciuta la capacità di programmare gli
interventi e le scelte strategiche finalizzati al perseguimento dell’interesse
generale, di concerto con l’ente pubblico, che mantiene una funzione di garanzia.
Tuttavia di recente si stanno affermando due nuove definizioni sul welfare: il
secondo welfare e il welfare generativo. Il secondo welfare si propone di trarre
risorse da fonti inedite per il sistema socio-assistenziale (assicurazioni private,
fondi di categoria, fondazioni bancarie, associazioni ed enti locali), questo
modello può rispondere ad esigenze sociali emergenti ma trascurate, come la
non-autosufficienza, povertà, esclusione sociale, disagio abitativo.
Il modello del welfare generativo è realmente innovativo, in quanto si pone
l’obbiettivo di trasformare il welfare da costo a investimento sociale. Una ricerca
sul welfare generativo è stata realizzata dalla fondazione zancan, il modello del
welfare generativo può essere sintetizzato con la regola delle 5R: -raccogliere-
redistribuire-rigenerare-rendere-responsabilizzare. Raccogliere e redistribuire
rappresentano funzioni storicamente in capo allo stato, alle pubbliche
amministrazioni e alla politica. A queste due funzioni si devono aggiungere oggi
le altre 3 che, invece, afferiscono alle comunità locali. Il modello di welfare
generativo prevede, quindi, un forte investimento sulle capacità prodotte dalla
somma delle risorse, titoli e dotazioni individuali.

CAP.8
I 4 metodi indispensabili e funzionali al lavoro di comunità sono: networking,
processo partecipativo, documentazione professionale e la valutazione.
Lavoro di rete/in rete o networking. La rete è una metafora che indica un
modello sistemico di organizzazione sociale. Il soggetto vero, nel lavoro sociale,
non è un operatore o un’istituzione ma è sempre una rete, cioè un insieme di
attori collegati. Definiamo come lavoro di rete innanzi tutto questa azione di
raccordo, uno sforzo diretto a facilitare le sinergie tra i molteplici poli-
formali/informali- coinvolti nell’aiuto ad una singola persona o una categoria di
persone con problemi. Il lavoro di rete prevede, inoltre, un’azione di supporto
alle reti già esistenti e un’azione di estensione della rete, cioè lo sforzo di attivare
nuovi soggetti disponibili a collocarsi nella rete come ulteriori poli per l’aiuto. Tali
nuovi apporti sono da ricercare fra le reti informali della comunità locale, come le
famiglie, i vicinati, l’associazionismo. Le reti informali si contrappongono a quelle
formali, nelle quali i punti (soggetti) sono collegati gli uni agli altri da vincoli non
spontanei, ma stabiliti da codici imposti, come accade per le reti fra dipendenti di
un’organizzazione o fra istituzioni diverse. Gli studi sulla rete/reti e l’analisi sul
funzionamento della rete (network analysis) sono di origini americane e nord
europee. E’ corretto distinguere il networking in: lavoro in rete, lavoro di rete e
lavoro della rete. E’ importante ricordare che ogni intervento con la rete nasce
da una ricerca dei caratteri propri del territorio e della comunità nei quali
operiamo. Tale ricerca produce la mappa del territorio, documento in continuo
aggiornamento indispensabile per censire bisogni, risorse, servizi.
Il lavoro in rete coinvolge l’operatore nella rete stessa, che in questa dimensione
si muove “ in orizzontale “, contribuendo con il proprio know-how al buon
funzionamento della rete, rispettando i limiti del mandato istituzionale e la
mission del proprio ruolo professionale. Nel lavoro di rete l’assistente sociale
assume un ruolo più esterno rispetto agli altri nodi. Il professionista, diventa una
sorta di regista, che consente la facilitazione dell’incontro e degli scambi positivi
fra nodi e reti diverse. Il lavoro delle reti ha, invece, funzionamento autonomo,
autoregolato, verso il quale l’assistente sociale può avere un ruolo di
supervisione, ed eventualmente di rettifica. Per comunità si intende un sistema
umano complesso e dinamico, di dimensioni variabili, nel quale i singoli individui
condividono lo stesso contesto spaziale (ossia il territorio, i luoghi, le risorse
naturali); lo stesso contesto temporale ( ossia una storia comune); gli stessi
fondamenti culturali , costituiti dalla storia, lingua, miti, riti, arte etc.; i sistemi di
regolazione della convivenza civile, come le norme, i valori, il livello di capitale
sociale, il comune senso di appartenenza, di solidarietà etc.. Questa definizione
costituisce un quadro di riferimento generale che però presenta delle eccezioni.
Alcuni esempi della complessità e ambiguità dell’idea di comunità li troviamo
nelle comunità a-spaziali, i popoli senza terra, che per ragioni storiche e sociali
non si sono mai costituiti in forma di stato-nazione (rom-sinti-caminanti etc.), le
comunità di pratiche ( ossia gruppi umani che si riconoscono esclusivamente in
alcune funzioni), le comunità ideologico-politiche ( che si costituiscono e si
riconoscono esclusivamente in un credo religioso o in una ideologia politica), le
comunità linguistiche ( individui che interagiscono sulla base di sistemi linguistici
comuni), le comunità virtuali (prodotte dalle attività dei nuovi mezzi di
comunicazione di massa.) La connotazione che interessa l’assistente sociale
rimane la comunità locale. Essa rappresenta la dimensione ideale nella quale è
possibile trasferire il proprio operato dal caso alla rete e nella quale è possibile
inquadrare il caso nel contesto della rete. In essa il case-work può diventare
case-management. Per comunità competente si intende una comunità capace di
riconoscere i propri bisogni e di mobilitare e impiegare le risorse necessarie per
soddisfarli. Un gruppo umano caratterizzato da autonomia e autosufficienza nel
problem solving. Ma una definizione di comunità competente ancora più precisa
è: comunità non fruitrice passiva di beni e servizi, ma soggetto capace diacquisire
potere attraverso l’interazione con le istituzioni, tesa alla crescita sociale e al
soddisfacimento dei bisogni. Sostenendo e valorizzando l’associazionismo tra
famiglie, promuovendo il mutuo sostegno familiare e creando così reti di
solidarietà, si vuole favorire la partecipazione dei cittadini nelle formazioni in cui
sono inseriti. La comunità diventa non un bacino di utenza, ma un attore sociale
dotato di risorse e competenze. Comunità competenti significa, quindi, anche
acquisizione di potere e di influenza economica e politica. Anche la metodologia
necessaria per aiutare le comunità a divenire competenti porta, in sé, il concetto
di potere: si tratta, infatti, dell’ EMPOWEREMENT e delle relative tecniche dei
processi partecipativi da attuare nei laboratori urbani. Per empowerement, si
intende quel processo dell’azione sociale attraverso il quale le persone, le
organizzazioni e le comunità acquisiscono competenza sulle proprie vite, al fine
di cambiare il proprio ambiente sociale e politico per migliorare l’equità e la
qualità di vita. Per sollecitare, promuovere, implementare l’empowerement di
comunità, l’assistente sociale utilizza le tecniche dei processi partecipativi che
comprendono
-brainstorming: consiste in una tecnica creativa esercitata in un gruppo da un
conduttore. Il conduttore presenta l’idea iniziale e successivamente, a turno,
ciascuno dei partecipanti può agganciarsi all’idea iniziale mediante libera
associazione di idee. Il conduttore prende nota delle idee emerse e al termine del
lavoro sintetizza le proposte, condividendo con il gruppo le conclusioni.
-benchmarking: significa identificare segni. È il processo di identificazione,
comprensione, adattamento delle migliori pratiche, proprie o di altre
organizzazioni, allo scopo di migliorare la performance. Questa tecnica consente
di individuare le buone pratiche e di adattarle al proprio contesto.
-project cycle management (pcm): è una modalità che si sviluppa in sei fasi:
programmazione-identificazione-formulazione-finanziamento-realizzazione-
valutazione. Essa si utilizza per la condivisione di un’ipotesi progettuale
complessa.
-goal oriented project planning (gopp): è un laboratorio di gruppo. È possibile
adoperare il gopp nella fase di identificazione del problema, di formulazione delle
line progettuali, nella verifica in itinere ed ex post. Il workshop gopp è condotto
da un facilitatore, che deve mantenere un distacco emotivo dalle posizioni dei
partecipanti e dal tema oggetto dell’incontro. I partecipanti, invece, sono
stakeholders, ossia portatori di interesse. Esso prevede una fase di apertura,
nella quale si sollecitano le presentazioni reciproche e le motivazioni di ciascuno
alla partecipazione. La fase dello svolgimento è costituita da un primo
brainstorming sui problemi della costruzione dell’albero dei problemi ossia uno
schema sintetico e condiviso che rispetta la gerarchia dei problemi, come
percepita dai presenti: dal più immediato alla macro-causa che li genera tutti.
Successivamente il gruppo si confronta sempre in brainstorming su ogni singolo
aspetto, provando a convertire i problemi in proposte o ipotesi risolutive, si
forma così l’albero delle soluzioni. La chiusura del laboratorio avviene con la
redazione di un quadro logico, che rappresenta lo schema di base sul quale è
possibile costruire il report conclusivo del laboratorio.
-open space technology (ost): tecnica funzionale alla conduzione di gruppi di
lavoro, il cui maggior punto di forza è costituito dall’inclusione di un numero
anche molto ampio di partecipanti. Esso può essere utilizzato per azioni di
informazione specifica su larga scala, sensibilizzazione su un tema, formazione,
poiché rende la trasmissione di conoscenze più interattiva e interessante. La
tecnica è stata sviluppata da Harrison Owen, antropologo e consulente aziendale.
Oggi è applicata regolarmente nei 5 continenti. La tecnica poggia su 4 regole
fondamentali e inderogabili:
1. chiunque venga è la persona giusta
2.qualunque cosa accada è l’unica che poteva accadere
3.qualunque momento in cui si comincia, è il momento giusto
4.quando è finita, è finita.
L’unica legge osservata è quella dei “ due piedi”, in quanto chiunque non ritiene
interessante l’argomento può cambiare gruppo o allontanarsi liberamente. Il
gruppo è condotto da un facilitatore esperto. Grazie a questa tecnica, i
partecipanti al gruppo sviluppano dinamiche di autoeducazione all’ascolto, alla
conoscenza e al rispetto reciproco, al confronto, alla responsabilità,
all’accettazione di punti di vista diversi. Il setting deve essere confortevole per
permettere la concentrazione dei partecipanti.
Ogni singola fase del processo di aiuto, richiede la produzione di un documento
scritto: si comincia dalla scheda anamnestica o dalle schede di colloquio, poi vi è
la relazione di servizio sociale, la cartella sociale, il diario del caso, la stesura del
progetto di assistenza individualizzata (PAI), la redazione di atti amministrativi
collegati alla gestione dei casi e al rapporto con l’ente di appartenenza ( verbali,
circolari, elenchi, mappe, delibere e determinazioni dirigenziali, disposizioni di
servizio, cura della corrispondenza, contratti), elaborazione di documenti tecnici
(protocolli d’intesa, accordi di programma, linee guida, report di ricerca o di
progetto). Ciascuna delle funzioni citate, necessita di specifiche scritture. Ad
esempio:
-la relazione necessita della scrittura tecnico- amministrativa, le cui
caratteristiche sono indicate nel codice deontologico.
-ricerche e report di progetto si scrivono in chiave tecnico scientifica , acquisita
da letture costanti e pertinenti di documenti originali, normative, statistiche,
appunti, diari, siti internet etc.
-i progetti si scrivono con la scrittura tecnica, scientifica, amministrativa,
connessa al format dei bandi, ai contenuti tecnico-professionali, alle norme etc.
Fanno parte delle metodologie:
-l’OSSERVAZIONE: può essere declinata attraverso 3 funzioni: il vedere, ossia la
mera funzione fisiologica propria del senso della vista; il guardare, cioè l’atto del
vedere con maggiore attenzione un oggetto selezionato che interessa più da
vicino, l’osservare, che implica non solo uno sguardo più attento ma anche la
volontà di approfondire la conoscenza dell’oggetto stesso. La legge 328/2000 ha
espressamente previsto che l’osservazione dei fenomeni sociali sia codificata con
precisione. L’osservazione assume, così, il valore del primo, indispensabile,
passaggio nel percorso della programmazione dei servizi. Il monitoraggio consiste
in una funzione continua che utilizza la raccolta sistematica dei dati relativi a
indicatori stabiliti per fornire, in corso d’opera, all’ente esecutore e alle principali
parti interessate, indicazioni sullo stato di avanzamento, sul conseguimento degli
obbiettivi e sull’utilizzazione dei fondi. Il monitoraggio è quindi la raccolta di info
rese disponibili per utilizzi diversi, inclusa la valutazione, che di per sé non
esprime giudizi. La valutazione, secondo il glossario OCSE è l’apprezzamento
sistematico e oggettivo su formulazione, realizzazione ed esiti di un progetto,
programma o politica di sviluppo che si effettua in corso d’opera o dopo il
completamento delle attività previste. Essa si propone di esprimere un giudizio
sulla rilevanza e il raggiungimento degli obbiettivi, su efficienza, efficacia, impatto
e sostenibilità. Essa prelude ad ulteriori metodologie altrettanto indispensabili ed
espressamente previste da gran parte della legislazione sociale, come
l’accountability, ossia la responsabilità del risultato conseguito da un attore dei
servizi sociali sulla base delle capacità, abilità, etica dimostrate. la certificazione,
ossia una forma evoluta di riconoscimento della qualità e pone i cittadini
beneficiari in una posizione di maggiore tutela e difesa dei propri diritti. È la
certificazione che consente l’autorizzazione al funzionamento di un servizio e
l’accreditamento, che garantisce la qualità dell’assistenza e dei servizi e riguarda
strutture, tecnologie, professionisti (ad esempio le norme ISO). La supervisione è
una metodologia che prevede l’osservazione critica e il più possibile obiettiva di
un determinato processo sociale, da parte di un esperto o autorità riconosciuta,
definito supervisore. la supervisione individuale consiste in un processo nel quale
il professionista è messo nelle condizioni di riflettere sugli aspetti problematici
del suo lavoro o vita, in modo da accrescerne la consapevolezza e aiutarlo a
individuare le migliori strategie per il superamento dei problemi.

Cap.9
Le categorie di tecniche indispensabili per il lavoro sociale di comunità sono 3:
ricerca sociale, progettazione, formazione. Si tratta di tecniche prodotte dalla
contaminazione culturale di diversi altri linguaggi e discipline. La ricerca è
fisiologica, perché è dentro ciascuno di noi. Essa è necessaria, perché serve a
descrivere i fenomeni, a spiegarli a coloro che non li conoscono o che ne danno
descrizioni fuorvianti, a prevederne le conseguenze. La poliedricità del mandato
professionale, si manifesta anche nella ricerca sociale. L’assistente sociale
necessita di una visione metodologica “multiprospettica” della ricerca.
Ad esempio, anche solo per la redazione di un piano di zona o di un progetto, si
può fare ricorso ad una o più delle seguenti forme di ricerca:
1. Quantitativa: con matrice di dati nella quale organizzare le info rilevate: ad
esempio, dati demografici sulle caratteristiche della popolazione componente
la comunità di riferimento; dati numerici e statistici sui fenomeni
caratterizzanti e problematici e sull’offerta dei servizi e delle prestazioni.
2. Qualitativa: senza matrice di dati, che analizza le info in profondità, ad
esempio il grado di soddisfazione degli utenti-beneficiari di beni, servizi,
prestazioni; il rapporto fra efficacia ed efficienza nella percezione degli
operatori; le ricadute di scelte di politica sociale nella qualità della vita delle
persone e della comunità.
3. Induttiva: in quanto l’operatore riscontra/può riscontrare sul campo
problemi, risorse, contenuti differenti rispetto a quelli stabiliti dalle teorie e
dalle ipotesi di partenza.
4. Deduttiva: nella quale, al contrario della prospettiva induttiva, la rilevazione
degli elementi sul campo dà luogo all’elaborazione di un’ipotesi/teoria; le
premesse, quindi, coincidono con le conclusioni.
5. Teorica o compilativa. Consiste nella raccolta libera di documenti, testi di
letteratura sul tema, normativa, ecc.. Ad esempio, per avvalorare le ipotesi di
partenza di un progetto sociale o di un intervento specifico da inserire nel
piano di zona.
6. Applicata/a-teorica: non libera, vincolata alle richieste della committenza, si
realizza intorno ad un oggetto definito, evita le teorie, perché è finalizzata a
scoprire nuove conoscenze sul problema dato. È svolta, quindi, solo a livello
empirico, raccogliendo info nei diversi contesti di osservazione.
7. Standard: di tipo quantitativo, nella quale esiste una teoria assunta come
valida in partenza, dalla quale si ricavano con passaggi logici precisi, ipotesi
specifiche e strumenti di rilevazione; la raccolta dei dati è organizzata in una
matrice dei dati.
8. Secondaria: consiste nell’utilizzare dati prodotti da altre ricerche sul problema
che ci interessa o su problemi simili.
9. Comparativa: in benchmarking, in quanto possono essere inseriti nel piano di
zona o nel progetto i contenuti/le buone pratiche presenti in luoghi anche
molto lontani dalla comunità della ricerca.
Tuttavia, la distinzione classica fra le diverse tipologie di ricerca è quella fra
quantitativa e qualitativa, i cui tratti caratterizzanti e distintivi possono essere
sintetizzati come segue. Nella ricerca quantitativa vi è un ampio ricorso alla
statistica ed è impiegata una matrice di dati. L’assistente sociale deve sempre tener
presente che il “ numero “, da un lato è garanzia di oggettività, ma dall’altro è sterile
ed incomprensibile se non opportunamente spiegato. I passaggi metodologici di
questa ricerca sono: -definizione della matrice dei dati-costruzione della matrice-
individuazione dell’universo e campionamento-scelta delle tecniche di
campionamento-elaborazione delle ipotesi-costruzione del questionario-
elaborazione statistica-definizione della tesi.
La ricerca qualitativa è decisamente più vicina e diffusa nel lavoro dell’assistente
sociale. in essa non c’è matrice di dati. Ed è proprio a causa del ridotto apporto di
parametri numerici, che necessita di una preparazione, realizzazione e
comunicazione accurata. essa si usa nelle indagini sociologiche, etnografiche, negli
studi di comunità. le tipologie di ricerca qualitativa più diffuse nel lavoro sociale
sono: l'’assessment, la ricerca etnografica, le narrazioni autobiografiche.
L’assessment è un termine che è usato per indicare una forma di valutazione. Si
riferisce alla raccolta di info e all’analisi effettuata dall’operatore sociale rispetto alla
situazione di una singola persona o di una famiglia e significa “valutazione” e
“accertamento” di fatti e situazioni in vista di un giudizio discrezionale e di una
successiva presa di decisione. La ricerca etnografica si rivela particolarmente
indicata nel lavoro sociale di comunità, per la profondità dell’accertamento del dato
e l’elevata valenza qualitativa. Il ruolo centrale è attribuito all’osservazione
dell’azione sociale, a ciò che le persone fanno in certi contesti, alle loro intenzioni,
all’interazione sociale. Le fasi della ricerca etnografica sono le seguenti:
-preparazione della ricerca: si identifica e si analizza il problema della ricerca, si
esaminano i dati del fenomeno individuato, si circoscrive il luogo, si pianificano i
tempi, si interpellano gli esperti.
-elaborazione del piano di lavoro: si formula l’ipotesi della ricerca, si effettua la
valutazione delle competenze necessarie e la loro eventuale acquisizione.
-individuazione delle tecniche e degli strumenti di documentazione: individuazione
delle tecniche di registrazione dei dati
-costruzione del rapporto col terreno: è la fase più ardua della ricerca, in quanto per
il ricercatore non è facile stabilire rapporti di fiducia e accettazione reciproca con la
comunità che vuole osservare.
-osservazione: l’osservazione partecipante di matrice etnografica, prevede che il
ricercatore, pur rimanendo tale negli obbiettivi del suo lavoro e nel suo rapporto
con il campo, si spogli del proprio ruolo e si sforzi di integrarsi pienamente nella
comunità osservata. È uno strumento caratterizzato dal fatto che un ricercatore
raccoglie info sulla cultura e sulla vita quotidiana di un certo gruppo sociale,
osservando direttamente le attività ordinarie delle persone di quel gruppo e in
qualche caso partecipandovi direttamente. Dovrà però evitare comportamenti di
eccessiva intimità o eccessivo distacco, non creare false aspettative rispetto alla
soluzione di problemi che emergono, mantenere un comportamento equilibrato e
obbiettivo con tutti, un atteggiamento disponibile e discreto.
-intervista: è opportuno sottolineare che esistono diversi tipi di intervista,
biografiche, focalizzate, in profondità, motivazionali, non direttive. Sarà compito
dell’assistente sociale cogliere la linea di demarcazione fra il colloquio professionale
e l’intervista.
-analisi ed elaborazione dati: presuppongono una buona padronanza del linguaggio
scritto tecnico-professionale, buone conoscenze scientifiche sull’argomento oggetto
della ricerca e la disponibilità di una valida rete, anche interdisciplinare di
professionisti disposti a contribuire al documento conclusivo della ricerca.
- divulgazione dei risultati: la diffusione dei risultati di una ricerca sociale ed
etnografica deve necessariamente rispettare tutte le norme e le indicazioni tecniche
sulla tutela della privacy delle persone contattate e sul segreto professionale.
Gli strumenti operativi ai quali l’etnografia fa ricorso, sono: il colloquio, l’intervista,
l’inchiesta sociale, il questionario, il focus group.
- Il colloquio: il servizio sociale si fonda quasi completamente sul colloquio,
nelle sue diverse articolazioni, come il colloquio motivazionale, propedeutico,
intervento specialistico etc. all’interno di una ricerca etnografica, il colloquio
sostenibile è quello rivolto agli stakeholders particolarmente attivi sulla
questione oggetto della ricerca oppure sugli osservatori/testimoni privilegiati,
ovvero persone particolarmente informata sulla questione e disponibili al
racconto della propria esperienza.
- Intervista: l’intervista consiste in una interazione/relazione sociale tra
intervistatore e intervistato volta ad acquisire info attraverso la proposta di
domande. L ’intervista deve essere palese e la sua finalità accettata dal
soggetto rispondente. La relazione tra intervistatore e intervistato, può essere
simmetrica o asimmetrica, in quanto essa può svolgersi all’insegna della
cooperazione o competizione. Per sollecitare la cooperazione, l’intervistatore
deve costantemente motivare, informare, legittimare, rassicurare, spiegare.
Le interviste possono essere distinte secondo il criterio di standardizzazione e
sono le seguenti: libera, guidata, focalizzata su un tema, con questionario non
strutturato, con questionario semi strutturato, semi-strutturato, strutturato.
-inchiesta sociale: è una ricerca etnografica complessa, costituita da colloqui e
interviste integrate con sufficiente documentazione scientifica.
-questionario: è un insieme strutturato di domande, aperte o chiuse, poste in
sequenza secondo un criterio prestabilito. Ogni domanda rappresenta un
elemento di classificazione. La sequenza prevede di suddividere le domande
in aree tematiche omogenee, disporre quest’ultime in successione e le
domande all’interno di ciascun area in base alla loro generalità. Le domande
dovranno essere di numero contenuto, strettamente pertinenti e logicamente
consequenziali ai materiali raccolti. È opportuno che vi siano almeno 3
indicatori. Gli indicatori sono definizioni che suddividono in parti un concetto.
-focus group: consiste in una tecnica basata sulla discussione all’interno di un
gruppo di persone riguardo all’atteggiamento personale nei confronti di un
tema specifico. Il suo obbiettivo è quello di studiare in profondità uno
specifico argomento in relazione ad obbiettivi specifici. Esso facilita
l’emergere di contenuti definiti in modo ordinato, chiaro, collaborativo,
l’interazione reciproca, l’ascolto attivo.
L’assistente sociale fa ricorso alla ricerca qualitativa tutte le volte che sia
possibile risalire attraverso la conoscenza approfondita di una o poche storie
specifiche, a comportamenti, orientamenti, stili di vita, problematiche
complesse che interessano l’intera comunità.
La riscoperta della legittimazione della storia orale è recente, essendo
avvenuta sia in usa che in europa solo nel 900’. In europa, gli anni 30 furono
caratterizzati congiunture storiche che ebbero origine dalla rivoluzione
industriale, dall’affermazione di grandi regimi totalitari, dalla formazione delle
organizzazioni assistenziali, ricreative, culturali, cooperative, sindacali,
dall’avvio del sistema capitalistico. Inizialmente, in quel contesto, la storia
orale emerge dal basso, dalle masse operaie e contadine, dal proletariato che
assoggettato alle nuove esigenze del capitalismo, avverte alcune necessita,
come quella di conservare il più possibile la memoria delle proprie radici
culturali e cercare, attraverso un nuovo modo di raccontare la storia, di
contrapporre le proprie ragioni e le proprie rivendicazioni sociali alle
motivazioni e alle scelte di puro profitto dei padroni. La storia orale italiana
negli anni 50, diviene sempre più consapevole delle proprie funzioni anche
grazie all’enorme mole di documenti e testimonianze raccolte attraverso le
fonti orali. Al contrario, le storie minori, sarebbero state travolte dagli
immensi drammi del conflitto mondiale. È dunque, il momento delle grandi
inchieste. Negli anni 60/70, nascono alcune fra le esperienze più
rappresentative della storia orale, come l’istituto Ernesto de Martino, del
movimento operaio Gianni Bosio, ecc. questo profondo rinnovamento ha
condotto negli anni 80, ad una piena legittimazione della disciplina e a risultati
scientifici attribuiti alle fonti orali fortemente apprezzati anche in campo
accademico. Per il servizio sociale professionale, l’approccio autobiografico
della ricerca qualitativa si articola come di seguito: 1. Autobiografia 2.
Eterobiografia 3. Etnografia 4. Servizio sociale professionale.
1. Autobiografia: letteralmente il racconto scritto di sé. Si basa su 2
consapevolezze: su quanto la routine quotidiana e l’ansia da performance
possano allontanare le persone da se stesse e quanto siano potenti, sul
piano preventivo e terapeutico. La parola e la parola scritta. Scrivere la
propria storia, sia personale che professionale, è una esperienza che
consente alla persona di conoscersi meglio, prendersi in carico negli errori
commessi e nei successi, prendersi cura di sé e ricreare condizioni
favorevoli al proseguimento delle esperienze future. È fortemente
consigliabile che l’assistente sociale partecipi ad uno dei numerosi
laboratori autobiografici per ripensarsi nel proprio contesto di vita e di
lavoro.
2. Eterobiografia: è stata interiorizzata dal servizio sociale come
metodologia, che consiste nell’accoglimento del racconto di vita dell’altro.
L’assistente sociale deve aiutare l’utente, attraverso un’azione di ascolto
partecipato a riordinare il caos dei ricordi e accompagnarlo nel processo di
ricostruzione del senso della sua vita e identità.
3. Etnografia: si avvale dell’approccio autobiografico prima di tutto nei
confronti del testimone privilegiato, la cui autobiografia, specie se resa in
gruppo, aiuta i partecipanti a stabilire con l’operatore un rapporto di
fiducia ed empatia. La ricerca etnografica può essere considerata
l’autobiografia di una intera comunità.
4. Servizio sociale professionale: deve attingere dai risultati di queste
esperienze di ricerca, per migliorarsi, migliorare il contesto in cui opera e
arricchirsi di nuovi contenuti.
La seconda tecnica fondamentale per il servizio sociale è la progettazione
sociale. Il progetto sociale è un sistema complesso di azioni che assolve a 3
funzioni:
- Prevenire/contenere/ridurre/contrastare i problemi
- Gestire/curare azioni positive di crescita, sviluppo, emancipazione di persone
e comunità
- Ripristinare/recuperare una situazione positiva preesistente nella vita delle
persone.
A livello metodologico, il progetto assume il valore di un dispositivo realizzato
da attori sociali i quali, sulla base di una previsione, identificano strategie e
azioni adeguate al raggiungimento – in dato tempo e dato luogo- di obiettivi
per i quali esistono o sono ottenibili risorse dedicate, al fine di produrre un
cambiamento in ordine alla soluzione di problemi o alla riduzione di disagi
umanamente e socialmente rilevanti.
Nel management:
con il temine progetto non si intenderà la sola attività di progettazione di
un’opera, ma in esso si ingloberanno tutte quelle attività che costituiscono nel
loro insieme, la realizzazione dell’opera stessa . attività che vanno dalla sua
concezione originaria allo studio di fattibilità tecnico-economico, alla
progettazione, sino alla costruzione vera e propria, per giungere, in alcuni
casi, anche alla messa in funzione e persino alla gestione dell’opera compiuta.
In filosofia, il progetto è l’anticipazione delle possibilità. Il progetto sociale,
così, si mette al centro fra il pensare e l’agire. Una previsione orientata al
problem solving. Il progetto sociale è un’ipotesi, un processo di cambiamento
da una data situazione insoddisfacente A ad una migliore situazione B,
potenzialmente già compresa nella situazione A di partenza, ma che
l’operatore vede prima e più chiaramente di altri. Esso quindi rappresenta la
modalità concreta per dare soluzione ai problemi della persona, considerata
nella sua unicità. Il progetto di azione sociale a dimensione collettiva,
risponde a problemi presentati da più persone, dei quali è importante cogliere
gli elementi comuni al fine di individuare soluzioni innovative, contrastare,
prevenire situazioni di rischio, promuovere condizioni di benessere.
Per PIANO si intende uno strumento concettuale e amministrativo
predisposto dai livelli politico-amministrativi-tecnici di un territorio, a seguito
della individuazione di un macro-problema. Esso non ha una durata definita
ed è generale sulla gran parte dei suoi aspetti.
Il PROGRAMMA è l’equivalente del piano, ma ad un livello più decentrato e
per contesti territoriali limitati, può avere una durata definita ed essere più
specifico del piano.
Il PROGETTO è invece una attività singola, non divisibile, con un obbiettivo
operativo. è delimitato in termini di scadenze e budget, e può essere parte di
un programma o di un piano, come può rappresentare un’esperienza
estemporanea.
Le principali caratteristiche del progetto sono:
-è un insieme di attività chiaramente delimitate
-richiede un finanziamento ben definito
-è finalizzato al raggiungimento di uno o più obbiettivi
-è dotato di coerenza interna
-costituisce l’unità minima della programmazione
-costituisce uno strumento operativo

La progettazione può articolarsi in diverse forme. Nel sociale, ad esempio, si


può progettare: una ricerca, una ricerca-azione, un intervento/prestazione
socioassistenziale o socio educativa, attività ed iniziative, un percorso di
formazione, uno spazio di ascolto/confronto/discussione/consulenza sociale.
Inoltre essa deve rispettare un’etica fondata su alcune precise regole, come:
-servire sempre il pubblico interesse
-sostenere la partecipazione dei cittadini
-ampliare le possibilità di scelta e le opportunità per i cittadini
-facilitare il coordinamento durante tutto il processo
-evitare il conflitto di interessi
-non cercare di offrire, né ottenere favori
-non rivelare info.
-garantire l’accesso agli atti
-mantenere la fiducia del pubblico
-rispettare i codici deontologici.
Il progetto sociale interseca alcune pre-condizioni: un bando pubblicato da
una P.A. o da un qualunque altro ente del pubblico, del privato o del no-profit;
possibilità di presentazione di progetti a sportello, ossia senza emanazione di
bando/avviso pubblico; su richiesta di un committente pubblico o privato.
Il progetto sociale semplice o complesso segue un percorso logico, costituito
da precisi passaggi:
-titolo del progetto: spesso è un acronimo, ma può essere anche fantasioso.
-premessa: individuazione di una o più ipotesi di intervento, raccolta della
normativa di settore.
-descrizione del contesto: analisi dei bisogni del territorio/della comunità
dalla quale ha preso l’avvio l’esigenza progettuale, raccolta dei dati utili
all’elaborazione del progetto, analisi della localizzazione del progetto, analisi
della disponibilità attuale di risorse e di quella prevista a seguito
dell’intervento
-finalità e obbiettivi: le finalità hanno un carattere più generale ed etico, gli
obbiettivi sono singoli componenti delle finalità generali che consentono di
trasferire le idee dal macro al micro, possono essere misurati mediante gli
indici di performance, ossia tramite la descrizione di un obbiettivo e la
dimostrazione dell’effettiva possibilità di realizzazione dello stesso.
-target delle azioni: beneficiari diretti degli interventi e beneficiari indiretti
-soggetto proponente: soggetto/ente promotore, partners in collaborazione
continuata, soggetti in collaborazione estemporanea.
-descrizione dell’intervento: contenuto del progetto, strategie di
realizzazione, metodologie utilizzabili per rendere fruibili i contenuti.
-pianificazione: durata complessiva del progetto, fasi e tempi delle singole
azioni del progetto.
-formazione degli operatori: indicazioni dei criteri di selezione degli operatori,
individuazione del numero degli operatori coinvolti nelle attività progettuali,
indicazione delle relative professionalità, suddivisione dei ruoli di
coordinamento, ruoli tecnici, amministrativi, ecc.
-risorse logistiche e strumentali: indicazione e descrizione degli ambienti nei
quali si prevede la realizzazione delle attività progettuali, elencazione e
descrizione degli strumenti già disponibili oppure da procurare ai fini del
progetto.
-caratteristiche del progetto: originalità del progetto all’interno del contesto,
innovatività dell’azione progettuale, multi/interdisciplinarità, benchmarking,
modalità di lavoro in rete, compatibilità e continuità con le normative locali,
regionali e nazionali, grado di coinvolgimento degli stakeholders, ecc.
-valutazione: previsione degli attori della valutazione, interni al progetto o
esterni, pianificazione iniziale della valutazione ex-ante, in itinere, ex-post,
con riferimento alle modalità di verifica ed alla relativa modulistica, analisi
swot per l’individuazione dei punti di forza dei punti di debolezza del progetto
-costi/finanziamento: indicazione del funzionario referente per la contabilità
del progetto, finanziamento complessivo richiesto, individuazione delle
possibili fonti di finanziamento, costo rapportato alle singole voci di spesa,
indicazione delle modalità di rendicontazione delle voci di spesa.
-modalità di informazione e di pubblicazione dell’esperienza progettuale e
dei risultati del progetto: individuazione di un referente responsabile per
l’informazione, indicazione delle modalità di informazione e pubblicizzazione,
individuazione dei soggetti collaboratori per questa fase progettuale,
trasferimento e diffusione del progetto dopo la valutazione, attenta e corretta
compilazione della modulistica, trattamento corretto delle norme e dei dati e
delle info emerse.
Progettazione semplice e complessa.
La progettazione sociale semplice è costituita da interventi singoli/attività
contenute e limitate nel numero, nei costi, nella partecipazione delle risorse
umane, nel tempo e nello spazio. Il progetto sociale semplice può essere
ideato e pianificato anche da un singolo assistente sociale, che dovrà ricorrere
ad altre figure e collaborazioni.
La progettazione sociale complessa è caratterizzata dalla predisposizione di
numerose attività/iniziative, dalla compartecipazione di più attori. Da risorse
economiche ingenti, dal coinvolgimento di molteplici risorse umane, dalla
durata medio lunga, dall’estensione spaziale delle attività in grandi territori,
da articolati sistemi di valutazione. L’organizzazione interna della
progettazione sociale complessa è altrettanto complessa, poiché non è
possibile limitare ad uno o pochi individui le decisioni e la gestione di grandi
responsabilità e di cifre importanti. Il progetto sociale complesso è gestito da
più figure: il project manager, il team work e il partner di progetto.
Il project manager è l’unico responsabile del progetto per la sua realizzazione,
nel rispetto dei vincoli contrattuali e di quelli aziendali. Esso deve relazionarsi
efficacemente con tutti gli attori e possedere particolari propensioni, come
saper ascoltare e mediare i conflitti, saper concentrarsi sui problemi/soluzioni
più che sulle caratteristiche personali dei collaboratori, avere flessibilità e
tolleranza allo stress e alle situazioni di incertezza.
Il team work, ossia il team di lavoro coordinato dal program manager, è la
forma organizzativa in staff assunta da individui accomunati dal
raggiungimento di una finalità comune: quella di portare a compimento il
progetto, con gli obbiettivi che esso si prefigge. I componenti del team
devono possedere i requisiti dell’esperienza, le conoscenze/capacità tecniche
e la motivazione personale a collaborare per la migliore riuscita del percorso
progettuale. I progetti complessi possono prevedere uno o più partner
progettuali esterni al team work: soggetti/organismi che condividono le
finalità del progetto e che si propongono come sponsor, compartecipano ai
costi o concorrono ad integrare con risorse proprie,
umane/strumentali/strutturali, l’impianto progettuale.
Il project management è la gestione sistemica di un’impresa complessa, unica
e di durata limitata, rivolta al raggiungimento di un obbiettivo predefinito
mediante un processo continuo di pianificazione e controllo di risorse
differenziate e limitate, con vincoli interdipendenti di tempo-costo-qualità.
Esso si sviluppa lungo tutto l’arco del percorso progettuale complesso, che si
articola nelle seguenti fasi:
-IDEAZIONE. questa fase coincide con lo startup del progetto, deve essere il
più possibile allargata alla partecipazione del territorio, della comunità e degli
stakeholders, facendo ricorso ai metodi e alle tecniche dei processi
partecipativi. Questi possono essere utilizzati in via esclusiva o integrata o
alternativa, secondo le caratteristiche dei beneficiari e della comunità, del
problema che si intende affrontare, ecc. molto utile in questa fase è il bilancio
delle competenze, soprattutto in relazione alla suddivisione dei compiti e
delle funzioni interne all’organizzazione del team work. Questo consiste in un
approccio metodologico specifico, molto utile per l’accertamento delle
conoscenze/competenze/abilità dei singoli individui in relazione alle finalità
progettuali.
-ATTIVAZIONE. Per la fase dell’attivazione è necessario fare riferimento
all’analisi del rischi. Perchè si elabori correttamente un progetto sociale è
necessario calcolare anticipatamente i suoi rischi, al fine di prevenirli,
contenerli o superarli nel migliore dei modi. Il progetto sociale complesso può
essere esposto ad una molteplicità di rischi che si distinguono dal “caso”, in
quanto i primi sono prevedibili poiché afferenti all’azione umana, al contrario
del caso che non è prevedibile perché attiene alla fatalità. Dei rischi generici
fanno parte per esempio, i requisiti non chiari di un bando, l’uso di prodotti
non controllati o malfunzionanti, la mancanza di comunicazione nel team. Nei
rischi specifici rientrano i requisiti inappropriati nel bando, fallimenti nelle
tecnologie e forniture, fuoriuscite di personal, budget non realistico. Per
prevedere i primi non ci sono grandi difficoltà, ma per i secondi è necessario
un piano per la gestione del rischio. Il piano per la gestione del rischio non
può essere elaborato da un singolo operatore del team work ma necessita
della collaborazione di diversi esperti di formazione interdisciplinare.
Fondamentale nella fase di attuazione del progetto è la costruzione del piano
economico. La prima distinzione da effettuare è quella fra costi del progetto e
risorse umane, strutturali e strumentali.
- PROGETTTAZIONE. In questa fase è fondamentale il diagramma di gantt,
ossia lo strumento grafico di organizzazione e programmazione del lavoro che
identifica sinteticamente quando deve essere fatto un lavoro e ciascuna sua
componente, consiste nella collocazione di ciascuna azione programmata
entro un calendario rappresentato da colonne verticali. Utilizzare il
diagramma di gannt è particolarmente opportuno nella comunicazione dello
stato avanzamento lavori del progetto sociale.
-REALIZZAZIONE. Per l’ottimale realizzazione di un progetto complesso sono
spesso richiesti dai committenti i seguenti requisiti: unicità/originalità dei
contenuti, replicabilità del progetto, connessione al contesto dell’azione
progettuale. Tutti questi requisiti, trovano quasi sempre la massima
ottemperanza se il project manager e il team work mantengono per tutta la
durata del progetto stretti rapporti con la comunità/contesto del progetto.
-VERIFICA/VALUTAZIONE. È opportuno che in questa fase siano attivate
metodologie e tecniche valutative non solo specialistiche ma di un insieme di
soggetti quanto più possibile ampio e partecipato.

Il recente regolamento per la formazione continua degli assistenti sociali,


approvata nella seduta del consiglio del 10 gennaio 2014 dall’ordine
professionale nazionale, fa riferimento alla legge n. 148/2011, nella quale è
inserita la previsione dell’obbligo per il professionista di seguire percorsi di
formazione continua predisposti sulla base di appositi regolamenti emanati
dai consigli nazionali. La violazione dell’obbligo di formazione continua
determina un illecito disciplinare e come tale è sanzionato sulla base di
quanto stabilito dall’ordinamento professionale che dovrà integrare tale
previsione. Quindi la formazione passiva è un obbligo di legge.
La formazione attiva, invece, è quel sistema di tecniche che il professionista
usa per comunicare la professione, i suoi contenuti, le sue esperienze.
La formazione consiste in un processo spazio-temporale, di tipo
sistemico/relazionale/dinamico, orientato alla comunità e centrato
sull’apprendimento. Il processo formativo è caratterizzato da principi che non
possono essere derogati, come, la pertinenza dei contenuti rispetto agli
obbiettivi formativi, le motivazioni del formatore e dei partecipanti, la
circolarità e la condivisione dei contenuti, il rispetto reciproco.
Anche l’unione europea, nel consiglio europeo straordinario di lisbona del
marzo 2000, ha affermato alcuni principi che la formazione deve rispettare. In
particolare:
-LE PARI OPPORTUNITA’. L’accesso alla formazione deve essere
prioritariamente consentito ai lavoratori con minore livello di scolarità e a
coloro i quali espletano le funzioni inferiori, nonché a tutti coloro che
rischiano l’esclusione professionale e sociale a causa di una mancata
riqualificazione, percorsi preferenziali di formazione devono essere
opportunamente formulati per dipendenti diversamente abili.
-LA TRANSNAZIONALITA’. Sostegno attivo alla cittadinanza europea mediante
sperimentazioni e azioni in partnership con altre amministrazioni pubbliche
transnazionali.
-LA COMUNICAZIONE ISTITUZIONALE. Muovendo dalla consapevolezza del
cambiamento del ruolo del cittadino-utente da esclusivo fruitore di servizi ad
attore/promotere di politiche sociali.
-LA SEMPLIFICAZIONE AMMINISTRATIVA. La promozione di ogni utile
intervento formativo che aiuti il personale della pubblica amministrazione a
governare il cambiamento amministrativo in atto mediante l’integrazione
degli uffici, la semplificazione del linguaggio burocratico, la facilitazione
dell’accesso al pubblico.
-LA PRIVACY. La conoscenza e il rispetto delle norme e dei codici che ne
sanciscono i limiti e gli obblighi, pur conservando la possibilità di offrire
risposte personalizzate ai casi particolari.
Gli attori della formazione attiva sono sostanzialmente 3: il committente, il
formatore, i partecipanti.
Le fasi del processo formativo, sono:
-l’analisi dei fabbisogni formativi
-la progettazione dell’intervento
-l’erogazione della formazione
-la verifica dei risultati.
L’analisi del fabbisogno formativo è realizzata considerando i punti di vista dei
3 attori della formazione: le esigenze del committente, i risultati emersi dalla
ricerca sul fabbisogno che ha coinvolto i partecipanti ex ante rispetto al
processo formativo, il parere tecnico del formatore. Effettuata
l’individuazione del target e l’analisi dei bisogni formativi, la progettazione
dell’intervento procede con la formulazione degli obbiettivi, dei tempi e dei
costi. Gli obbiettivi si distinguono dalle finalità. Gli obbiettivi si distinguono in
4 aree distinte per interessi degli attori: gli obbiettivi di risultato e di
funzionamento che corrispondono agli interessi del committente, gli
obbiettivi professionali che interessano i partecipanti, gli obbiettivi di
comunicazione e didattici, che interessano il formatore e committente.
L’erogazione della formazione consiste nell’individuare contenuti e
metodologie didattiche. I contenuti di un percorso formativo possono non
essere esclusivamente stabiliti in relazione al fabbisogno prevalente dei
partecipanti e/o agli obbiettivi più urgenti del committente. La verifica dei
risultati è l’ultima fase del processo formativo. È indispensabile progettare
chiarendo i sistemi di valutazione e quelli di verifica dell’intervento che si
vuole realizzare. La valutazione viene utilizzata per misurare l’efficacia degli
interventi in relazione al grado di cambiamento che il percorso formativo
riesce ad apportare nei confronti delle 3 categorie di utenti: i partecipanti ai
corsi, le amministrazioni ed i cittadini..

SLIDE LEZ.1
tre sono i documenti fondamentali per il servizio sociale di comunita’:
1.IL CODICE DEONTOLOGICO DELL’ASSISTENTE SOCIALE (artt. 33-39)

(Testo approvato dal Consiglio Nazionale nella seduta del 17 luglio 2009)
2. LEGGE 8 novembre 2000, n. 328
(Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e
servizi sociali)
3. DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI DELL'UOMO
(approvata e proclamata il 10 dicembre 1948 dall'Assemblea Generale delle
Nazioni Unite)
in nessuno dei tre documenti compare la parola “welfare”, tuttavia, sono ben
presenti e reiterati i termini
“POLITICA/POLITICHE SOCIALE/I”
“INTERVENTI” E “SERVIZI SOCIALI”
quali sono le differenze fra questi due gruppi di concetti?
Il welfare comprende pertanto il complesso di politiche pubbliche dirette a
migliorare le condizioni di vita dei cittadini.(Treccani)
Welfare State: indica il complesso delle istituzioni e delle politiche
economiche e sociali pubbliche volte a garantire a tutti i cittadini una soglia
accettabile di benessere attraverso l’erogazione di servizi essenziali, quali ad
esempio l’assistenza sanitaria, l’istruzione e la previdenza sociale.
Lo sviluppo di interventi di protezione sociale, in risposta al problema storico
dell'insicurezza di individui, famiglie e gruppi sociali, assume nel corso del
tempo forme sempre più strutturate sino a trovare, nel welfare state
contemporaneo, un compiuto assetto di politiche pubbliche, in vario modo
integrate da azioni societarie.
Nel nostro Paese è chiaro che si tratta di un “welfare perennemente
incompiuto. Ecco perché, in assenza di un «compiuto assetto di politiche
pubbliche e integrate», preferiamo parlare di POLITICHE SOCIALI
ossia di INVESTIMENTI pubblici e privati di RISORSE umane, strutturali,
economiche, logistiche, strumentali in BENI, SERVIZI, PRESTAZIONI
che consentono di intervenire su specifici PROBLEMI (in attesa che sia
completata l’attuazione del Sistema integrato di interventi e servizi sociali ai
sensi della Legge 328/00).
LE POLITICHE SOCIALI.
DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI UMANI
ARTICOLO 25
Ogni individuo ha DIRITTO ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute
e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo
all'alimentazione, al vestiario, all'abitazione, e alle cure mediche e ai servizi
sociali necessari; ed ha DIRITTO alla sicurezza in caso di disoccupazione,
malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di
sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà.
La maternità e l'infanzia hanno DIRITTO a speciali cure ed assistenza.
Tutti i bambini, nati nel matrimonio o fuori di esso, devono godere della
stessa protezione sociale.
I SERVIZI SOCIALI
DECRETO LEGISLATIVO 31 MARZO 1998, N. 112
CAPO II -SERVIZI SOCIALI -ART. 128
(BASSANINI)
Oggetto e definizioni
2. Ai sensi del presente decreto legislativo, per
"servizi sociali" si intendono tutte le attività relative alla predisposizione ed
erogazione di servizi, gratuiti ed a pagamento, o di prestazioni economiche
destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la
persona umana incontra nel corso della sua vita, escluse soltanto quelle
assicurate dal sistema previdenziale e da quello sanitario, nonché quelle
assicurate in sede di amministrazione della giustizia.
“IL SERVIZIO SOCIALE”
il servizio sociale professionale nasce come disciplina “plurale”, quindi
“politica”, quindi di difesa dei diritti. L’ASSISTENTE SOCIALE promuove
l’autonomia e la valorizzazione delle risorse personali e sociali dei cittadini in
condizione di vulnerabilità o di disagio sociale mettendo in relazione gli utenti
con le risorse istituzionali e solidaristiche (dalle relazioni di vicinato alle
associazioni di volontariato, ecc …).
L’ASSISTENTE SOCIALE deve avere tre fuochi principali di attenzione: l’utente,
la propria organizzazione di appartenenza ed il contesto sociale e territoriale
in cui opera. Tramite l’analisi e la valutazione dei bisogni espressi dai cittadini,
contribuisce alla programmazione delle politiche della propria organizzazione
e del proprio territorio. Per esercitare le sue funzioni deve lavorare all’interno
di una rete di relazioni che le permetta di avere presenti le risorse da attivare
in favore dell’utenza. In realtà possiamo affermare che l’Assistente sociale è
una professione multidimensionale, anzi, MULTIFOCALE.
le tecniche del servizio sociale di comunita’ sono previste innanzi tutto nel
codice deontologico.
CODICE DEONTOLOGICO.
RESPONSABILITÀ DELL’ASSISTENTE SOCIALE NEI CONFRONTIDELLA SOCIETÀ
Partecipazione e promozione del benessere sociale
33. L’assistente sociale deve contribuire a promuovere una cultura della
solidarietà e della sussidiarietà partecipazione volte a costruire un tessuto
sociale accogliente e rispettoso dei diritti di tutti; in particolare riconosce la
famiglia nelle sue diverse forme ed espressioni come luogo privilegiato di
relazioni stabili e significative per la persona e la sostiene quale risorsa
primaria. (EMPOWERMENT).
34. L’assistente sociale deve contribuire a sviluppare negli utenti e nei clienti
la conoscenza e l’esercizio dei propri diritti-doveri nell’ambito della collettività
e favorire percorsi di crescita anche collettivi che sviluppino sinergie e aiutino
singoli e gruppi, soprattutto in situazione di svantaggio.
(PROGETTAZIONE SOCIALE)
35. Nelle diverse forme dell’esercizio della professione l’assistente sociale non
può prescindere da una precisa conoscenza della realtà socio-territoriale in
cui opera e da una adeguata considerazione del contesto culturale e di valori,
identificando le diversità e la molteplicità come una ricchezza da
salvaguardare e da difendere, contrastando ogni tipo di discriminazione.
(RICERCA)
36. L’assistente sociale deve contribuire alla promozione, allo sviluppo e al
sostegno di politiche sociali integrate favorevoli alla maturazione,
emancipazione e responsabilizzazione sociale e civica di comunità e gruppi
marginali e di programmi finalizzati al miglioramento della loro qualità di vita
favorendo, ove necessario, pratiche di mediazione e di integrazione.
(VALUTAZIONE)
37. L’assistente sociale ha il dovere di porre all’attenzione delle istituzioni che
ne hanno la responsabilità e della stessa opinione pubblica situazioni di
deprivazione e gravi stati di disagio non sufficientemente tutelati, o di iniquità
e ineguaglianza. (COMUNICAZIONE/DOCUMENTAZIONE)
38.L’assistente sociale deve conoscere i soggetti attivi in campo sociale, sia
privati che pubblici, e ricercarne la collaborazione per obiettivi e azioni
comuni che rispondano in maniera articolata e differenziata a bisogni
espressi, superando la logica della risposta assistenzialistica e contribuendo
alla promozione di un sistema di rete integrato. (NETWORKING)
39.L’assistente sociale deve contribuire ad una corretta e diffusa informazione
sui servizi e le prestazioni per favorire l'accesso e l'uso responsabile delle
risorse, a vantaggio di tutte le persone, contribuendo altresì alla promozione
delle pari opportunità.
(COMUNICAZIONE/DOCUMENTAZIONE)
ANCHE NELLA LEGGE N. 328 DEL 2000 SONO PREVISTE LE TECNICHE
DEL SERVIZIO SOCIALE DI COMUNITA.
Legge 8 novembre 2000, n. 328
Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi
sociali.
Art. 8.(Funzioni delle regioni)
Alle regioni, nel rispetto di quanto previsto dal decreto legislativo 31 marzo
1998, n. 112, spetta in particolare l’esercizio delle seguenti funzioni:
Determinazione […] degli ambiti territoriali […] coincidenti con i distretti
sanitari già operanti per le prestazioni sanitarie […]
a) definizione di politiche integrate in materia di interventi sociali, ambiente,
sanità, istituzioni scolastiche, avviamento al lavoro e reinserimento nelle
attività lavorative, servizi del tempo libero, trasporti e comunicazioni;

ORIGINI E DEFINIZIONI DEI CONCETTI DI “WELFARE”


(«benessere») E DI “POLITICA SOCIALE”.
I PRINCIPALI MODELLI.
Il Welfare state nasce nella prima metà dell’ottocento quasi
contestualmente nei Paesi anglosassoni per dare delle risposte ad una
serie di problemi posti dal rapido diffondersi dell’industrializzazione e
dell’urbanizzazione dell’economia, nel momento storico in cui antiche
società contadine si trasformano in società industriali. Questo processo,
presenta, alcuni elementi di debolezza: si moltiplicano gli incidenti sul
lavoro, legati all’utilizzo delle nuove macchine a fronte di una formazione
inesistente; le malattie, per l’uso di materiali nocivi alla salute; il disagio
economico nei momenti di stasi della produzione; il disagio abitativo per
il confluire di una massa di popolazione in città non attrezzate ai nuovi
flussi migratori con conseguenti effetti di sovraffollamento; le carenze di
servizi igienici e, quindi, rapida diffusione delle malattie; il disagio sociale
determinato dalla crisi del sistema assistenziale tradizionale basato
sull’aiuto reciproco e presente nelle piccole comunità. Per non parlare
delle condizioni dell’infanzia sfruttata, delle condizioni femminili: 8 marzo
1911 incendio della Triangle Shirt waist Company, un’azienda tessile di
New York in cui lavoravano soprattutto giovani donne immigrate
dall’Europa che morirono in centoquarantasei.
Ma ci sono anche interpretazioni diverse, spesso collegate a differenti
punti di vista.
I definizione. La politica sociale è nata come forma di controllo sociale
della popolazione, a fini di stabilità e pace sociale, attraverso la
promozione del “benessere”. Quali che ne siano state le motivazioni e
quali che ne siano stati i fattori propulsivi il risultato è stato la crescita del
welfare state.
II definizione. Lo Stato sociale è un’organizzazione istituzionale, politica
ed economica, che ha per obiettivo auto attribuito la produzione di
benessere, attraverso la politica sociale di cui è parte integrante la politica
dei servizi sociali.
Lo Stato sociale, a differenza dello Stato liberale, non si limita a regolare
dall’esterno, in generale, il libero gioco sociale affidato al mercato.
Interviene attivamente nell’economia di mercato e nella società per
correggere in senso socialmente desiderabile gli effetti dell’azione di
mercato e per conseguire degli obiettivi sociali ai quali il mercato non è, o
non è ritenuto, capace di provvedere con i suoi dispositivi di produzione e
distribuzione.
Abrams, 1983. Tali obiettivi sociali sono perseguiti attraverso un’apposita
legislazione (legislazione sociale) e con provvedimenti pubblici e
programmi amministrativi. In generale, lo Stato sociale protegge il livello
di vita dei suoi cittadini nei casi in cui il normale funzionamento del
mercato è giudicato incapace di fornire risultati adeguati.
Wilensky, 1980. L’essenza dello Stato sociale (Welfare State) consiste
nell’impegno ad assicurare ad ogni cittadino livelli minimi di reddito, di
sussistenza, di servizi sanitari e previdenziali, di istruzione e abitazione.
Tale standard è garantito e fornito ad ogni cittadino come diritto politico,
non come carità.
Durkheim. Quando il modo in cui gli uomini sono solidali si modifica, la
struttura delle società non può non mutare anch’essa”, distinguendo, di
conseguenza, le società “a solidarietà meccanica”(o istintiva delle società
primitive) da quelle “a solidarietà organica”(cioè consensuale, tipica delle
società più evolute).
SOCIETA’ SEMPLICI E COMPLESSE
Le società semplici: BANDE forma sociale tipica dei cacciatori-raccoglitori,
di piccole dimensioni (meno di 50 membri), divisione del lavoro in base
età/sesso, relazioni sociali egualitarie.
TRIBU’ forma sociale più ampia della banda, si praticano agricoltura e
allevamento, relazioni sociali egualitarie, con un capo che parla a nome di
tutti e coordina le attività del gruppo
Le società complesse: CHIEFDOM forma di organizzazione sociale nella
quale il leader e suoi parenti stretti sono separati dal resto della società e
godono di maggiore ricchezza, potere e prestigio
STATO società stratificata con un territorio, un esercito per la difesa, forze
per l’ordine interno. E’ rappresentato da istituzioni che servono a far
rispettare le leggi e a raccogliere imposte e tributi. E’ diretto da una elite
che detiene il monopolio dell’uso della forza.
Il primo modello di welfare si fa risalire alla Germania di Otto Von Bismark
(1815 –1898), il cancelliere “di ferro” dell’impero di Guglielmo I di Prussia,
che nell’arco di sei anni getta le fondamenta del welfare con le tre famose
leggi: sull’assicurazione contro le malattie(1883), sugli infortuni sul lavoro
(1884) e sull’assicurazione contro la vecchiaia e l’invalidità(1889)
considerate, allora, come le principali cause di povertà ed indigenza.
Viene, invece, attribuito ad un Arcivescovo inglese (1941), William
Temple, il termine “welfare state“, “Stato del benessere”, per
contrapporlo allo “Stato di guerra” “warfare state” dei nazisti. A Lord
William Beveridge(1879 –1963) (Regno Unito) viene fatta risalire
l’accettazione e la diffusione dell’idea di uno Stato capace di farsi carico
di tutti i problemi sociali dei suoi cittadini in ogni momento della loro
esistenza (“dalla culla alla tomba”, come si dirà poi). Si può quindi
discutere di un secondo modello di welfare, non più solo funzionale al
mercato del lavoro (come quello di Bismark) ma inquadrato nel concetto
del diritto di cittadinanza. Nel suo Rapporto (noto come Rapporto
Beveridge, 1942), si delineano i caratteri essenziali di un moderno stato
sociale che doveva essere gestito da un’unica entità (e, quindi,
centralizzato per una maggiore efficienza ed economicità); essere
universale (accessibile a tutte le classi sociali senza alcun limite di reddito
e coprire tutte le evenienze) e finalizzato alla sconfitta di cinque flagelli:
• L’insicurezza del reddito
• La malattia
• L’ignoranza
• La miseria
• L’ozio determinato dalla disoccupazione
Fra la fine dell’800 e la prima metà del ‘900, gli orientamenti, gli studi e le
pianificazioni sul Welfare introdotte e diffuse fino a quel momento si
sono adattati alle diverse culture e società del mondo occidentale, dando
vita a diversi Modelli di Welfare. Emerge anche il “modello
mediterraneo”, tipico dei Paesi del Mediterraneo meridionale, ossia
Italia, Grecia, Spagna e Portogallo. i quattro Paesi risentono di una forte
influenza religiosa da parte della Chiesa Cattolica. Inoltre per secoli, essi
hanno condiviso un modello di famiglia decisamente simile: il maschio è il
male-breadwinner, con l’occupazione femminile “sussidiaria” rispetto a
quella maschile; legami e reti familiari e parentali ampie e solide; alta
osservanza dei valori sociali condivisi. Le conseguenze (negative) del
modello mediterraneo, furono, un basso e tardivo tasso di partecipazione
femminile al mercato del lavoro, Servizi di cura quasi completamente
delegati al sistema familiare(non solo nuclei conviventi ma ai rapporti di
parentela); familismo amorale, Welfare frammentato sul piano
occupazionale: diffuse forme di particolarismo, assenza di protezione
minima di base, alto deficit dei servizi pubblici, clientelismo, Misure di
welfare di tipo corporativo/assicurativo(relativo comunque ai lavoratori);
Universalismo limitato sostanzialmente al solo sistema sanitario nazionale
(L. 833/78), Basso grado di senso civico e di cittadinanza attiva, Scarsa
attenzione alla PREVENZIONE.
QUALI SONO OGGI I PRINCIPALI DILEMMI DEL WELFARE
MEDITERRANEO E ITALIANO IN PARTICOLARE.
Nel 2018 il PIL italiano è aumentato dello 0,9% rispetto al 2017. La
SANITÀ ha raggiunto il tanto ricercato equilibrio finanziario (situazione
che riguarda tutte le regioni) e che, con risorse pressochè stabili si “cerca
di rispondere ai bisogni crescenti che provengono da cronicità e non
autosufficienza”; tra il 2013 e il 2017 la spesa sanitaria è cresciuta meno
del Pil. Oggi in Italia paghiamo circa 25 anni di sviluppo inferiore a quello
dei maggiori Paesi europei, anche come conseguenza di politiche
economiche non particolarmente avvedute. Il raggiungimento degli
obiettivi finanziari dei PIANI DI RIENTRO(PDR), non sempre è stato
accompagnato dal miglioramento della rete dei servizi e le risposte ai
bisogni di CRONICITÀ e NON AUTOSUFFICIENZA restano inadeguati in
ampie zone del paese (ad esempio nel 2016 Campania, Calabria e Lazio
non assicurano ancora un livello di ASSISTENZA DOMICILIARE
corrispondente alle soglie di adeguatezza individuate ai fini delle verifiche
LEA; quasi tutte le regioni in Pdr non garantiscono l’obiettivo soglia di
posti territoriali per DISABILI). I beneficiari delle DEDUZIONI si
concentrano in poche regioni del Nord e nelle classi di reddito medio-alte.
il tanto auspicato rafforzamento degli interventi di welfare territoriale
non sembra essere ancora arrivato.
Lezione n.4 ORIGINI E BREVE STORIA DELLE POLITICHE SOCIALI IN ITALIA
Le origini e la Storia delle Politiche sociali indicate dal Borzaga-Fazzi
potrebbero essere sintetizzate nelle seguenti 5 fasi:
1.la sperimentazione (1870-1920)
2.il consolidamento (anni trenta e quaranta)
3.l’espansione(anni cinquanta e sessanta)
4.l’istituzionalizzazione(anni settanta e ottanta)
5.il rallentamento (post anni ottanta)
LA SPERIMENTAZIONE: DALLA FINE DEL 1800 AGLI ANNI ‘20 DEL ‘900
la povertà, intesa come la mancata o insufficiente soddisfazione dei
bisogni primari, esiste da sempre. in concomitanza con l’avvio dell’età
industriale, sono state organizzate azioni di protezione e di solidarietà nei
confronti di alcune categorie di persone ritenute a maggiore rischio, come
le società di mutuo soccorso, piccole associazioni di lavoratori che, in
cambio del versamento di una modesta quota continuativa, potevano
ricevere aiuto in caso di malattia e di forzata sospensione del lavoro. In
Italia queste società furono realizzate a partire dal 1844, molte erano nel
nord. Tuttavia raggiunsero anche piccole realtà meridionali (e ciò
dimostra la loro grande risonanza e importanza). A partire dal 1880 si
verificarono grandi progressi nell’ambito dell’avanzamento sociale,
perché le vecchie leggi sull’assistenza ai poveri (sul modello delle Poor
Laws, in Gran Bretagna) furono sostituite da una legislazione mirata
all’obbligo assicurativo nei confronti della malattia, infortunio, invalidità e
vecchiaia. Questo processo cominciò in Germania (sotto la guida di
Bismarck) e poi coinvolse progressivamente quasi tutti i Paesi europei,
compresa l’Italia. Questo sistema tuttavia non tardò a mostrare i suoi
punti di debolezza: interessava una piccola quota della popolazione (ossia
gli occupati nell’industria metallurgica pesante) e contrastava con il lento
ma continuo allungamento dell’età delle persone, richiedendo risorse
sempre maggiori e insostenibili. La novità italiana assoluta è la
“cosiddetta “Legge Crispi” (L. 6972 del 17 luglio 1890), che trasformò le
vecchie Opere Pie –di carattere religioso e con ordinamento privatistico –
in IPAB (Istituzioni Pubbliche per l’Assistenza e la Beneficenza), ossia in
Enti di diritto pubblico tenuti non solo a fornire ai poveri e agli indigenti,
ma anche a promuovere l’integrazione sociale.”
CONCETTI-CHIAVE:
CARITA’/BENEFICIENZA/ASSISTENZIALISMO/RISPARMIO/CORPORATIVISM
O = (SETTLEMENT)
IL CONSOLIDAMENTO: ANNI TRENTA E QUARANTA
Questo è forse il momento fondativo del welfare state, che prevede un
sistema normativo nazionale, l’universalità degli interventi, l’obiettivo
della riduzione dei rischi standard, l’obbligatorietà (mediante sistema
assicurativo o finanziamenti pubblici), la tripartizione delle responsabilità
fra Stato, imprenditori e assicurati. La maggiore innovazione di questo
periodo fu la diffusione e il consolidamento dell’idea che le politiche
sociali fossero indispensabili per la prevenzione dei conflitti sociali e il
buon funzionamento delle democrazie. Per cui, pian piano, il welfare
cominciò a diventare il prodotto di azioni dal basso piuttosto che
“elargizioni” dall’alto, come era stato fino ad allora. I cittadini chiedevano
un intervento sempre più ampio e concreto agli Stati, più che ai datori di
lavoro o alle classi borghesi e benestanti. A cominciare dai paesi
scandinavi, furono introdotte misure assicurative anche per i lavoratori
autonomi e per i parenti dei lavoratori. Dagli Stati Uniti giungevano
notizie di supporto a questi movimenti europei, come la Social Security
del Presidente Roosvelt, un sistema previdenziale simile a quelli moderni.
Questo è il contesto che fa da sfondo al Piano Beveridge (dal suo
ideatore, Sir William B.), in Gran Bretagna, all’indomani della II Guerra
mondiale: una pietra miliare nella storia del welfare state. La filosofia di
fondo del Piano, ossia l’assistenza alle persone più deboli “dalla culla alla
bara”, trovava la massima espressione nella realizzazione del NHS, il
Sistema sanitario pubblico e gratuito, poiché finanziato dalla fiscalità
generale. In Italia c’è la dittatura fascista. Il primo importante
provvedimento adottato dal regime fu il Regio Decreto del 30 dicembre
1923, che modificava la legge crispina del 1890 sulle Istituzioni Pubbliche
di Beneficenza. La riforma creò le IPB e rientrava nel contesto di una
generale fascistizzazione. L’ONMI istituzione creata nel 1925, aveva il
compito di provvedere, mediante organi provinciali e comunali,
all’assistenza e alla protezione delle gestanti e delle madri indigenti, dei
bambini bisognosi, abbandonati, maltrattati o anormali. Oltre
all’assistenza diretta, compito dell’ONMI era anche quello di diffondere la
conoscenza delle norme di igiene prenatale ed infantile. Nel 1925 venne
istituito un altro ente, non dedicato all’infanzia, ma all’assistenza
generalizzata: l’Opera Nazionale Dopolavoro (OND), i cui scopi primari
erano legati alla promozione del sano e proficuo impiego delle ore libere
dei lavoratori intellettuali e manuali, con istituzioni dirette a sviluppare le
loro capacità fisiche, intellettuali e morali allontanandoli dalle pericolose
conseguenza dell’ozio. Un altro ente con funzioni di assistenza nel settore
infantile fu l’Opera Nazionale Balilla (ONB), creata nel 1926. Si trattava di
un ente morale per l'assistenza e l'educazione fisica e morale della
gioventù, che venivano svolte in strutture gestite dal PNF (colonie e
campeggi per la gioventù). L'iscrizione all'Opera non era obbligatoria, ma
erano riservati ai soli soci i numerosi servizi offerti, tra cui le attività
sportive, i campeggi e l'invio alle colonie montane, marine ed
elioterapiche. Nel 1931 vennero quindi istituiti gli EOA (Enti Opere
assistenziali) come Enti a “gestione speciale” del PNF, presenti in ogni
Comune e gestiti dal segretario federale del partito. Tali strutture
godevano di ampia autonomia amministrativa, ma la loro dipendenza dal
partito permetteva di amministrare, ma non di possedere i beni e le
strutture utilizzati per le attività assistenziali. Inizialmente gli EOA
nacquero come enti preposti alla riorganizzazione delle colonie climatiche
infantili, ma, per rispondere all’aggravarsi delle condizioni economiche,
furono riconvertiti all’erogazione di assistenza generica. Il conseguente
ampliamento delle attività gestite dal partito portò ad un conflitto con il
Ministero dell’Interno tanto che le decisioni del PNF relative al settore
assistenziale apparvero come un tentativo di prevaricare l’autorità statale
a livello locale dei prefetti, in nome di un rafforzamento dei segretari
federali. Il raggiungimento di un compromesso portò a un accordo
secondo cui il PNF avrebbe gestito, tramite gli EOA, l’assistenza generica
limitatamente al periodo invernale. I compiti degli EOA, però, crebbero
costantemente e l’assistenza divenne permanente e praticata in modo
capillare sul territorio. L’attività degli EOA diede la possibilità al PNF di
acquistare il ruolo di tramite tra lo Stato e gli individui, andando a
integrare l’azione assistenziale prevista dalle leggi. Le funzioni svolte dagli
EOA rispondevano a due tipologie: assistenza e consulenza per rispondere
ai bisogni dei disoccupati; assistenza nelle questioni igienico-sanitarie,
tesa alla tutela dell’infanzia, di cui le colonie infantili rappresentavano
l’intervento più importante. Il continuo ampliamento delle funzioni degli
EOA, che nel triennio 1935-1937 estesero l’assistenza alle famiglie dei
richiamati in Africa Orientale e dei volontari in Spagna, complicò la
gestione e l’organizzazione degli Enti stessi. In quegli anni, di fronte alle
difficoltà finanziarie incontrate dagli EOA, si sviluppò un dibattito sulle
esigenze di una riforma del settore assistenziale. Occorreva superare
istituti antichi e obsoleti, come le Opere Pie e le Congregazioni di Carità, e
si imponeva la necessità di riorganizzare l’assistenza sulla base
dell’esperienza degli EOA. Si pensò, quindi, di istituire un nuovo ente,
presente in ogni Comune, che avrebbe coordinato l’attività assistenziale
assorbendo le funzioni e i patrimoni delle Congregazioni di Carità e degli
EOA, delle IPAB e di tutte le altre opere aventi fini di assistenza generica.
Il dibattito si concluse con la costituzione degli Enti Comunali di
Assistenza (ECA), istituiti con la legge n. 847 del 3 giugno 1937. La
decisione del governo rientrava in un progetto di ammodernamento e
razionalizzazione del sistema assistenziale italiano, che basato sulla
presenza di troppi istituti obsoleti e non coordinati nelle loro attività.
L’istituzione degli Enti Comunali di Assistenza (ECA), avvenuta nel 1937,
deve, inoltre, essere interpretata come la volontà del regime fascista di
costruire un organo non tanto capace di rispondere ai bisogni “immediati
e temporanei” delle persone, come scritto nella legge istitutiva, quanto in
grado di evitare che situazioni di estrema povertà e disagio che potessero
creare disordini sociali. Nonostante quella degli ECA fosse
sostanzialmente una funzione di polizia, il loro ruolo crebbe di importanza
soprattutto negli anni della seconda guerra mondiale, in cui ebbero un
ruolo determinante non solo nell’assistenza generica, ma anche
nell’assistenza specifica ai profughi e ai reduci, la cui gestione venne
delegata dai Comuni agli ECA. Attraverso enti come quelli appena descritti
lo Stato totalitario arrivava ad occuparsi di tutti gli aspetti della vita del
popolo, regolando il tempo libero, organizzando i momenti di incontro e il
vivere quotidiano nell’ottica di un avvicinamento delle masse allo Stato
fascista. Il 1933 fu l’anno della fondazione dell’INFPS (Istituto Nazionale
Fascista della Previdenza Sociale) e l’INFAIL (Istituto Nazionale Fascista
per l’Assicurazione Contro gli Infortuni sul Lavoro). Vennero inoltre
ampliate in senso familiare le assicurazioni sociali con la creazione nel
1934 della Cassa nazionale per gli assegni familiari agli operai
dell’industria, finanziata dai datori di lavoro in modo che i salari fossero
integrati in rapporto al numero dei figli da mantenere. L’obiettivo degli
assegni familiari uniti alla retribuzione, era quello di raggiungere il
perfetto “salario familiare”, ma il loro ammontare era irrisorio serviva a
mala pena a compensare le forti riduzioni salariali dovute alla crisi
economica. Ebbe un ruolo fondamentale il contenimento della crisi
economica degli anni ’20 e ’30, accompagnato da un’opera di riassetto
del sistema di protezione sociale introdotto per fronteggiare il fenomeno
della disoccupazione. All’interno di questo contesto, il processo di
riorganizzazione del settore assistenziale svolse un’altra importante
funzione: quella di rispondere all’esigenza di nascondere gli effetti
economico-sociali che le scelte di politica economica di Mussolini e la
contingente crisi del 1929 stavano provocando. Per rispondere alla
difficile situazione economica, venne ulteriormente ampliata la
legislazione sociale al fine di estendere le tutele ai lavoratori mediante
l’introduzione di istituti tutt’oggi esistenti. Sul fronte dell’assistenza le
iniziative furono prese direttamente dal Partito Nazionale Fascista che
assunse un ruolo sempre più importante nel coordinarne le attività. Lo
Statuto del 1926 attribuì una serie di funzioni di cura e di controllo nel
campo economico e sociale, che estendevano l’attività del partito
ampliando le sfere di ingerenza nella vita sociale. La realizzazione degli
Enti comunali di assistenza fu l’ultima tappa di quel percorso intrapreso
dal regime volto a creare uno Stato sociale ampio e in grado di occuparsi
di ogni materia, che, come abbiamo già visto, era volto al
“potenziamento” della nazione da un lato e alla costruzione di un ampio
consenso dall’altro.
L’ESPANSIONE: ANNI CINQUANTA E SESSANTA
Questo periodo fu caratterizzato dal boom economico del secondo
dopoguerra: un contesto nel quale l’economia positiva cominciò a
rafforzare le forme di tutela sociale, infatti il prelievo fiscale cresceva e
incentivò la spesa pubblica. Il settore pubblico occupò sempre maggiori
risorse del prodotto nazionale in quasi tutta l’Europa, sempre più
categorie di cittadini entrarono nelle reti di protezione dello Stato. E’ a
questo periodo –e alla gestione Kennedy, prima, e Johnson poi -che risale
anche la prima riforma Medicare per l’assistenza sanitaria e Medicaid per
l’assistenza sanitaria ai poveri negli USA. in Italia, Le politiche sociali sono
avviate, in forma di principio, con la Costituzione Italiana del 1948. La
Costituzione ha introdotto il principio dell’obbligatorietà degli interventi e
il riconoscimento, in capo al cittadino-utente, del diritto all’assistenza
sociale. Nel concreto, tuttavia, i principi costituzionali sono stati applicati
in modo limitato, dando origine a quello che può essere definito un
welfare “familiare”, ovvero un modello in cui lo Stato assicurava
esclusivamente i servizi emergenziali, lasciando alla famiglia la
responsabilità della gestione di tutte le situazioni a carattere non
emergenziale.
L’ISTITUZIONALIZZAZIONE: ANNI SETTANTA E OTTANTA
Consolidamento dei trend positivi dei decenni precedenti, con
l’ampliamento delle coperture verso fasce della popolazione sempre più
vaste. Per evitare un eccesso di imposizione fiscale, finalizzata alla
sostenibilità dei sistemi di assistenza, i governi fanno sempre più spesso
ricorso agli indebitamenti per coprire i deficit di bilancio. Nel 1973 tali
indebitamenti diventano un fatto strutturale dell’economia dei paesi
occidentali. Sono gli anni delle due Riforme strutturali del welfare
italiano, ossia le norme che modificano l’impianto organizzativo delle
nostre politiche sociali, OVVERO: DPR616/77 Trasferimento e deleghe
delle funzioni amministrative dello Stato LEGGEN.833/78 Istituzione de
servizio sanitario nazionale. Comincia ad aumentare la quota di
popolazione che si rivolge al mercato per fruire dei servizi di welfare.
Nonostante lo sviluppo del privato sociale e del no profit, si rafforza
sempre più l’idea che deve essere lo Stato il principale erogatore dei
servizi e delle prestazioni del welfare. In questo periodo, questa idea del
welfare si rafforza e si espande in quasi tutti i Paesi europei.
IL RALLENTAMENTO: DAGLI ANNI NOVANTA AD OGGI
Comincia negli anni ottanta il periodo di crisi che caratterizza ancora oggi
il welfare state; una crisi dovuta all’insostenibilità dei costi del welfare per
la spesa pubblica, soprattutto in relazione alla spesa previdenziale e
sanitaria, ma anche per i settori del lavoro e dell’assistenza. Si provvide in
quasi tutta Europa a introdurre riforme per il contenimento della spesa
pubblica, ma quasi tutte le riforme si rivelano di tipo marginale piuttosto
che radicale ossia di tipo correttivo più che strutturale. Tuttavia, alla fine
degli anni ’90, gli stati occidentali riconoscevano alle politiche sociali e alla
spesa sociale un ruolo ormai imprescindibile e fisiologico all’interno dei
propri sistemi, anche se, fino al 2000, esse hanno comunque subito un
diffuso rallentamento. Il rallentamento non vale per le NORME. Si pensi
alla nascita dell’UE (Trattato di Maastricht, firmato a Maastricht il 7
febbraio 1992, entrato in vigore il 1º novembre 1993 ) e alla Legislazione
italiana innovativa:
- le tre Leggi “Bassanini” - sussidiarietà/trasparenza amministrativa
- Leggen.381/91 eseguenti – regolamentazione cooperative sociali
- Leggen.266/99eseguenti – disposizioni in materia di volontariato
- la trasparenza amministrativa delle Direttive Frattini,
- la partecipazione civica
- l’Ordine professionale e l’Albo degli Assistenti sociali
- LeggediRiforma328/2000
- Il Reddito di Cittadinanza
Il rallentamento non vale per i PROGRAMMI.
Complementi di programmazione FESR–FSE–FC -POR–PON–PAC, Spesa
sociale, Economia circolare.
il rallentamento vale per la CULTURA.
Miopia politica: eccesso di attenzione all’hic et nunc degli umori
elettorali; eccessiva delega delle funzioni educative alle famiglie e alla
scuola (superamento del welfare mediterraneo); eccesso di
esternalizzazioni.
Sugli investimenti: eccesso di cultura dell’emergenza–urgenza; scarsa
organizzazione a lungo termine, necessaria per costruire e manutenere
qualunque sistema;
Noi professionisti del sociale: problemi culturali di insufficienza/assenza
della nostra voce a tutti i livelli decisionali, non
documentiamo/testimoniamo abbastanza /adeguatamente i problemi
delle persone; siamo “vecchi” (scarso turn over con professionisti
giovani); la competizione/il campanilismo interprofessionale (i CUP sono
recenti); sui programmi non siamo abbastanza presenti nelle fasi di
valutazione; non sappiamo/vogliamo/possiamo leggere con attenzione i
segnali della post-modernità; ecc.
DECRETO LEGISLATIVO 31 MARZO 1998, N. 112
CAPO II -SERVIZI SOCIALI -ART. 128 (BASSANINI)
Oggetto e definizioni
2. Ai sensi del presente decreto legislativo, per
"servizi sociali" si intendono tutte le attività relative alla predisposizione
ed erogazione di servizi, gratuiti ed a pagamento, o di prestazioni
economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di
difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita, escluse
soltanto quelle assicurate dal sistema previdenziale e da quello sanitario,
nonché quelle assicurate in sede di amministrazione della giustizia.
la LEGGE 328/2000 ha avuto i meriti di:

1. aver «isolato» il settore socio-assistenziale (politiche «dirette» di


welfare) dalle altre politiche «prossime», dal punto di vista
concettuale (prevenzione vs riabilitazione/emergenza-urgenza),
economico (economia sociale), culturale (modello di welfare
integrato)
2. aver individuato bisogni socio-assistenziali non compresi dalle
politiche sociali «prossime», introducendole nella normativa italiana
e dando ad esse risposte mirate.
Protezione sociale
In Italia la spesa per la protezione sociale nel 2017 è il 29,3% del Pil,
nell'anno educativo 2016/2017, il 56,7% dei comuni italiani ha offerto
almeno un servizio tra asili nido, micro-nidi e altri servizi socio-
educativi per la prima infanzia ma solo il 13% dei bambini è accolto
nelle strutture pubbliche o finanziate dal settore pubblico. Forti le
disparità territoriali nella diffusione di servizi per l’infanzia, con il
Centro-nord in posizione più favorevole rispetto al Mezzogiorno. I
servizi per i minori e le famiglie con figli assorbono la quota più ampia
della spesa sociale de i Comuni. Tra i servizi rivolti ai minori e al
supporto delle famiglie con figli una quota importante della spesa
(circa il 40%) è destinata agli asili nido e più in generale ai servizi
educativi e di cura per la prima infanzia. I nidi e i servizi integrativi per
la prima infanzia comunali o privati convenzionati accolgono circa il
12,6% dei bambini fra zero e 2° anni compiuti (fino a 35 mesi). Il
servizio sociale professionale, ovvero la presa in carico da parte degli
assistenti sociali, accoglie ogni anno oltre 650 mila bambini e nuclei
familiari in difficoltà, indirizzati successivamente verso altri importanti
servizi socio-assistenziali, laddove presenti: il sostegno socio-educativo
territoriale e scolastico, l'assistenza domiciliare, i servizi di mediazione
familiare e i centri per le famiglie, i servizi per l’adozione e
l’affidamento familiare, le strutture per bambini e ragazzi privi di
tutela, vari tipi di contributi economici a supporto del reddito o per
altri bisogni specifici delle famiglie. La spesa rivolta ai disabili risulta
aumentare nel tempo. Per le persone con disabilità le principali voci di
spesa sono riconducibili ai centri diurni (ovvero strutture che offrono
assistenza ai disabili e supporto alle famiglie durante il giorno) e alle
strutture residenziali. Sono oltre 26 mila le persone disabili che
utilizzano i centri diurni mentre altre 17 mila circa beneficiano di
contributi comunali per centri privati convenzionati. I servizi con il
maggior numero di utenti sono il servizio sociale professionale, che
ogni anno prende in carico oltre 240 mila persone per valutare le
problematiche e indirizzarle ai vari tipi di servizi; il sostegno socio-
educativo scolastico, che fornisce assistenza a oltre 65.800 persone
l’anno, l’assistenza domiciliare socio-assistenziale, che offre assistenza
a più di 43 mila persone l’anno. I Comuni destinano il 37% della spesa
sociale per gli anziani all’assistenza domiciliare. La tipologia prevalente
offerta dai Comuni è quella socio-assistenziale, che consiste nella cura
e igiene della persona e nel supporto nella gestione dell’abitazione. Dal
2010 al 2016 per questo tipo di assistenza si registra un calo del 25%
sia per la spesa che per il numero degli anziani assistiti. Le risorse
dedicate all’area povertà e disagio adulti sono sempre risultate una
componente minoritaria rispetto al totale della spesa, di cui
rappresentano il 7,6% nel 2016. L’Italia, del resto, si colloca agli ultimi
posti fra i paesi dell’Unione europea per le risorse destinate alle
politiche di inclusione, per le misure di sostegno al reddito e per il
contrasto alla povertà. La spesa sociale impiegata per il supporto e
l’integrazione degli immigrati in Italia si mantiene a livelli ridotti
rispetto alle altre aree di utenza. Tra il 2014 e il 2016, grazie al
“Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati” (Sprar)le risorse
per quest’area di utenza sono aumentate. Tale sistema prevede che i
comuni e gli altri enti locali possano attingere a finanziamenti statali e
dell’Unione europea per realizzare progetti di accoglienza integrata,
che comprendano misure di informazione e orientamento e prevedano
la costruzione di percorsi individuali di inserimento lavorativo e socio-
economico, da realizzare anche con il supporto del terzo settore.
la spesa pubblica per i servizi socio-assistenziali e’ quasi
completamente sostenuta dai comuni. Per delimitare/valorizzare il
Settore socio-assistenziale e differenziarlo concettualmente e
culturalmente dalle politiche “prossime/indirette” del Welfare
(Bassanini) la LEGGE 328/2000 ha introdotto alcune INNOVAZIONI. La
prima fra tutte è l’affermazione della PREVENZIONE quale perno
principale della riforma del welfare che si realizza mediante un
SISTEMA INTEGRATO, nasce così il welfare integrato.
LA PREVENZIONE.
rappresenta il primo livello operativo dell’assistente sociale,
Intervenendo, a livello di Informazione/formazione e crescita culturale
generale (prevenzione primaria) o
all’esordio di una patologia (prevenzione secondaria) o, ancora, per la
riduzione/contenimento del danno (prevenzione terziaria), l’assistente
sociale può evitare grandi sofferenze e sprechi di risorse.
Legge 328/2000 art.1
la Repubblica assicura alle persone e alle famiglie un sistema integrato
di interventi e servizi sociali, promuove interventi per garantire la
qualità della, vita pari opportunità, non discriminazione e diritti di
cittadinanza, previene, elimina o riduce le condizioni di disabilità, di
bisogno e di disagio individuale e familiare, derivante da inadeguatezza
del reddito, difficoltà sociali e condizioni di non autonomia, in coerenza
con gli articoli 2, 3 e 38 della costituzione.
La legge 328/2000 è la prima norma organica, che definisce il welfare
moderno del nostro paese. Essa introduce fondamentali innovazioni
nei settori, principi, contenuti, organizzazione, metodi, professioni
sociali, economia sociale. In riferimento alle innovazioni
nell’organizzazione, il PIANO DI ZONA è una rivoluzione culturale. I
comuni, infatti, sono chiamati ad associarsi e ad assumersi le
responsabilità delle scelte. Riguardo le innovazioni nell’organizzazione,
invece, per favorire l’attuazione della sussidiarietà, gli enti locali, le
regioni e lo stato, promuovono azioni per il sostegno e la qualificazione
dei soggetti operanti nel terzo settore, anche attraverso politiche
formative ed interventi per l’accesso agevolato al credito e ai fondi per
l’unione europea. Il sistema integrato di interventi e servizi sociali si
realizzano mediante politiche e prestazioni coordinate nei diversi
settori della vita sociale, integrando servizi alla persona e al nucleo
familiare con eventuali misure economiche e la definizione di percorsi
attivi volti ad ottimizzare l’efficacia delle risorse, impedire
sovrapposizioni di competenze e settorializzazione delle risposte.
L’INTEGRAZIONE È IL SECONDO LIVELLO OPERATIVO DELL’ASSISTENTE
SOCIALE.
Integrare le politiche sociali è un compito recente. A partire dalle
innovazioni legislative fine anni 90, il tema dell’integrazione è
diventato centrale anche su sollecitazione dei programmi comunitari.
Integrare significa:fare sistema, evitare incoerenze, riconoscere
problemi emergenti ancora senza una adeguata risposta istituzionale,
evitare sprechi di risorse, badare ad efficienza ed efficacia, focalizzare
l’attenzione sul fruitore finale. Le innovazioni nell’economia sociale,
sono rappresentate da: art.20 FNPS ( fondo nazionale per le politiche
sociale ), ART 23 RMI 8 (reddito minimo di inserimento ), art. 25
accertamento della condizione economica del richiedente, art. utilizzo
dei fondi integrativi per prestazioni sociali, P.A.C. (piani di azione e
coesione ) per l’infanzia e per gli anziani non autosufficienti.
LA LEGISLAZIONE SOCIALE IN ITALIA.
LE POLITICHE (comprese quelle sociali/socio-assistenziali) sono
costituite dalle LEGGI, dai PIANI (programmi; progetti) e dagli
INVESTIMENTI. L’assistente sociale, nel costruire/realizzare azioni di
politica sociale, non può agire al di fuori oppure oltre le Leggi. Principali
Leggi suddivise per attori del welfare, si tratta di provvedimenti “a
domanda”.
- L. 1044/71 Piano quinquennale per l'istituzione di asili-nido comunali
con il concorso dello Stato.
- L. 1204/71 "TUTELA DELLE LAVORATRICI MADRI"
- L. 354/75 Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione
delle misure privative e limitative della liberta'
- L.698/75 Funzioni ex O.N.M.I. - Rimborsi per il servizio di assistenza
dei fanciulli riconosciuti dalla sola madre
- L. 685/75 Disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope
- L. 405/75 Istituzione dei consultori familiari
- L. 517/77 riforma scolastica
- L. 833/78 Istituzione del servizio sanitario nazionale
- L. 180/78 Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori
(Legge Basaglia)
- L 184/83 Disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei minori
-DPR 448/88 Codice processo penale minorile
- DPR 309/90 Testo unico sulla droga
- L 104/92 Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti
delle persone handicappate
- L. 216/91 Primi interventi in favore dei minori soggetti a rischio di
coinvolgimento in attività criminose
-L 66/96 Contro la violenza sessuale
- L 285/97 Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per
l'infanzia e l'adolescenza
– L 40/98 Disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello
straniero
- D.LV. 237/98 Disciplina dell'introduzione in via sperimentale, in
talune aree, dell'istituto del reddito minimo di inserimento, a norma
dell'articolo 59, commi 47 e 48, della legge 27 dicembre 1997, n. 449
- L 269/98 Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della
pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove
forme di riduzione in schiavitù
- L 68/99 Norme per il diritto al lavoro dei disabili
- L 53/2000 Disposizioni per il sostegno della maternità e della
paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il
coordinamento dei tempi delle città
– L 328/2000 Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di
interventi e servizi sociali
ATTORI STATO e P.A.
Costituzione Italiana (Parte II)
DPR 616/77 - Trasferimento e deleghe delle funzioni amministrative
dello Stato.
L 142/90 - Ordinamento delle autonomie locali
L 241/90 - Legge sul procedimento amministrativo
D.P.C.M. 11 ottobre 1994. Direttiva sui princìpi per l’istituzione ed il
funzionamento degli uffici per le relazioni con il pubblico.
L 273/95 - Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge
12 maggio 1995, n. 163, recante misure urgenti per la semplificazione
dei procedimenti amministrativi e per il miglioramento dell'efficienza
delle pubbliche amministrazioni.
Leggi “Bassanini”
Riforma del Titolo V della Costituzione Legge costituzionale 18
ottobre 2001, n. 3 "Modifiche al titolo V della parte seconda della
Costituzione" Leggi “Bassanini” Denominazione corrente per la l. 15
marzo 1997
n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle
regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e
per la semplificazione amministrativa. Legge Bassanini); per la l. 15
maggio 1997 n. 127 (Misure urgenti per lo snellimento dell’attività
amministrativa e dei procedimenti di decisione e controllo. Legge
Bassanini-bis), per la legge 16 giugno 1998 n. 191 (Modifiche ed
integrazioni alle leggi 15 marzo 1997, n. 59, e 15 maggio 1997, n. 127,
nonché norme in materia di formazione del personale dipendente e di
lavoro a distanza nelle pubbliche amministrazioni. Disposizioni in
materia di edilizia scolastica Legge Bassanini-ter) e l. 8.3.1999 n. 50
(Delegificazione e testi unici di norme concernenti procedimenti
amministrativi-Legge di semplificazione 1998. Legge Bassaniniquater).
- Legge 223/91 norme in materia di cassa integrazione, mobilita',
trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della comunita'
europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di
mercato del lavoro-
-Legge 381/91 - Disciplina delle cooperative sociali
-Legge 626/94 - Attuazione delle direttive CEE, riguardanti il
miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il
lavoro
-Legge 281/98 - Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti
-Legge 191/98 - Modifiche ed integrazioni alle leggi 15 marzo 1997, n.
59, e 15 maggio 1997, n. 127, nonchè norme in materia di formazione
del personale dipendente e di lavoro a distanza nelle pubbliche
amministrazioni. Disposizioni in materia di edilizia scolastica
-Legge 68/99 - Norme per il diritto al lavoro dei disabili
-Legge 53/2000 - Disposizioni per il sostegno della maternità e della
paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il
coordinamento dei tempi delle città
TERZO SETTORE
-L 49/87 Organizzazione di cooperazione internazionale
- Legge quadro sul volontariato n. 266/1991
-L 381/1991 Cooperative sociali
-D. L.vo 460/97 Organizzazioni Non Lucrative di Utilità Sociale,
- L 383/2000 Associazionismo di Promozione Sociale
L. Bassanini
Con la Legge 142/90 anche per la gestione dei servizi vengono istituiti
differenti tipi di strumenti:
•gestione in economia (cioè tramite gli uffici dell’ente)
•in concessione a terzi
•con azienda speciale (ente strumentale dotato di personalità
giuridica)
•con istituzione (organismo strumentale dell’ente locale per l’esercizio
di servizi sociali senza carattere imprenditoriale)
•con società per azioni.
Un ulteriore impulso in questa direzione viene dalle tre leggi Bassanini,
definite dallo stesso ministro.
Leggi Bassanini. La prima, la L. 59/1997 individua alcune materie che
richiedono una regolamentazione unitaria, tra le quali ordine pubblico,
affari esteri, difesa, cittadinanza, immigrazione, moneta, giustizia,
scuola e università, previdenza sociale, che rimangono di competenza
statale e conferisce alle Regioni tutte le altre, in particolare quelle che
riguardano la cura degli interessi e lo sviluppo delle risorse della
comunità. Con il principio di sussidiarietà la generalità dei compiti e
delle funzioni amministrative vengono attribuite alle autorità
territorialmente e funzionalmente più vicine ai cittadini interessati,
ossia ai Comuni, alle Province, alle Comunità montane.
La seconda legge Bassanini (L.127/1997) affronta la questione della
semplificazione dei procedimenti amministrativi (autocertificazione) e
introduce nell’Ente Locale la figura del «direttore generale» le cui
responsabilità riguardano prevalentemente l’efficacia e l’efficienza
dell’offerta di servizi.
La terza legge Bassanini (L.112/1998 art. 112-127), tra le altre materie,
dà una definizione organica di servizi sociali, stabilisce le competenze
dello Stato, determina gli standard essenziali e individua i profili
professionali degli operatori.
Legge quadro sul volontariato n. 266/1991 il volontariato
Di grande importanza è il settore del volontariato che, nel corso degli
anni Novanta ha subito delle precisazioni normative che in particolare
riguardano quella parte del volontariato che interagisce con il sistema
pubblico, mentre alle manifestazioni informali del volontariato viene
lasciata una autonomia quasi completa (L. 266 del 1991). La normativa
regionale prevede, oltre alla registrazione delle associazioni di
volontariato in appositi registri, l’istituzione di centri di servizio che
hanno la funzione di sostenere l'attività di volontariato. Definisce i
criteri per la stipulazione di convenzioni tra enti pubblici e associazioni
di volontario per la fornitura di servizi di pubblica utilità. La legge
quadro sul volontariato istituisce inoltre l'Osservatorio nazionale per il
volontariato, presieduto dal ministro del lavoro, con compiti di
censimento e monitoraggio delle organizzazioni di volontariato, di
promozione e sviluppo del volontariato, di costituzione di banche dati,
cura la pubblicazione di un rapporto biennale e di bollettini informativi.
Indice, con cadenza triennale, la conferenza nazionale del volontariato.
La Cooperazione sociale, L. 381/1991
Sebbene ci siano forti interconnessioni tra il volontariato e il mondo
della cooperazione sociale, quest'ultima rappresenta un modello di
attività con una caratteristica di imprenditorialità,
professionalizzazione che spesso manca al volontariato. E' dunque
necessaria quando sono richiesti continuità nel servizio e precisi
standard di qualità che di norma del personale saltuario o comunque a
tempo parziale non sempre può garantire. Le cooperative sociali -
certamente tra i soggetti più importanti del terzo settore - sono
regolate dalla legge 381 del 1991. Il loro scopo specifico è quello della
produzione di servizi di utilità sociale nell’ambito dei servizi socio-
sanitari e educativi (cooperative sociali di tipo A) e dell’inserimento
delle persone svantaggiate nel mondo del lavoro (cooperative sociali di
tipo B). Mentre le cooperative di tipo A non hanno vincoli per quanto
riguarda la compagine sociale per lo svolgimento delle attività di utilità
sociale, le cooperative di tipo B, che non hanno vincoli quanto al tipo di
attività che possono svolgere, sono caratterizzate da una particolare
compagine sociale nel cui ambito devono essere inseriti delle persone
svantaggiate che, proprio attraverso la partecipazione alla cooperativa
trovano un canale di inserimento lavorativo. Persone svantaggiate
sono considerate:
•gli invalidi fisici, psichici e sensoriali;
•ex degenti di istituti psichiatrici, soggetti in trattamento psichiatrico;
•tossicodipendenti, alcolisti;
•minori in età lavorativa in situazione di difficoltà familiare;
•condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione, come
previsto dalla legge 354 del 1975, successivamente modificata dalla
legge 165 del1998.
Anche le cooperative sociali sono iscritte in un apposito albo istituito
presso la Regione. Con le cooperative sociali gli enti pubblici possono
sottoscrivere contratti in parziale deroga alla disciplina standard, in
particolare avvalendosi della procedura di licitazione privata.
Organizzazioni Non Lucrative di Utilità Sociale, D. L. vo 460/97
Le Onlus - Organizzazioni non lucrative di utilità sociale – sono
organizzazioni del terzo settore che usufruiscono della speciale
disciplina tributaria stabilita dal D. Lgsl 460/1997. Per poter fruire di
questa disciplina tributaria parzialmente vantaggiosa, le Onlus devono
svolgere attività, espressamente previste nei loro statuti, nei settori
dell’assistenza sociale e sanitaria, beneficenza, istruzione, formazione,
sport dilettantistico, tutela artistica, tutela ambientale, promozione
della cultura, tutela dei diritti civili, ricerca scientifica. Devono inoltre
reimpiegare il reddito prodotto per il perseguimento dei fini
istituzionali, i redditi non devono provenire da attività di tipo
commerciale se non in una quota minoritaria stabilita per legge.
Adeguando i propri statuti alle regole prefissate possono ottenere
l’iscrizione ad una specifica anagrafe istituita presso il Ministero
dell’economia che conferisce la qualifica di ONLUS. La Onlus non è
dunque una ulteriore organizzazione di terzo settore, ma piuttosto di
una particolare «caratteristica» che le organizzazioni di terzo settore
possono possedere o meno. Quanto alla natura giuridica può trattarsi
infatti di associazioni, fondazioni, organizzazioni di volontariato iscritte
agli elenchi regionali, cooperative sociali, comitati, società cooperative,
organizzazioni non governative, altri enti privati con o senza
personalità giuridica.
Associazionismo Sociale, L. 383/2000
Promozione e finanziamento delle attività di associazionismo sociale;
Attività divulgativa; Segreteria Tecnica dell'Osservatorio nazionale
dell'Associazionismo sociale; Gestione del Registro nazionale delle
associazioni di promozione sociale.
NOVITA’ IN ITALIA
Livelli Essenziali di Assistenza (LEA)
L’aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza.
Il nuovo schema di decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri
sostituisce integralmente il d PCM 29 novembre 2001, recante
“Definizione dei Livelli essenziali di assistenza”. Il provvedimento è
stato predisposto in attuazione della legge di stabilità 2016 (articolo 1,
commi 553 e 554, legge 28 dicembre 2015, n. 208), che ha stanziato
ben 800 milioni di euro annui per l’aggiornamento dei LEA. Il nuovo
schema di decreto è l’esito di un lavoro condiviso tra Stato, regioni e
società scientifiche.
LEGGE 22 GIUGNO 2016, N. 112 – IL DOPO DI NOI
PLATEA. Secondo i dati forniti dall'Istat la possibile platea di beneficiari
è collocabile tra i 100.000 e i 150.000 soggetti. Il provvedimento si
compone di 10 articoli.
PRESTAZIONI ASSISTENZIALI. La legge disciplina la definizione delle
prestazioni assistenziali da garantire su tutto il territorio nazionale ed
affidate perciò al coordinamento dei LEA.
La legge istituisce il Fondo per l'assistenza alle persone con disabilità
grave prive del sostegno familiare nello stato di previsione del
Ministero del lavoro e delle politiche sociali. La legge introduce la
nozione di "disabilità grave" per definire i destinatari degli interventi e
individua gli obiettivi di servizio, ovvero gli interventi da effettuare con
le risorse del Fondo.
DETRAIBILITA' DELLE SPESE PER LE POLIZZE ASSICURATIVE
La legge disciplina le esenzioni ed agevolazioni tributarie
CAMPAGNE INFORMATIVE
Ed è sulla scorta di questi presupposti teorici, politici e programmatici
che quest’anno il Governo italiano ha promosso la LEGGE 6 GIUGNO
2016, N. 106 recante Delega al Governo per LA RIFORMA DEL TERZO
SETTORE, dell'impresa sociale e per la disciplina del servizio civile
universale.
Il Terzo settore viene definito come il complesso degli enti privati
costituiti con finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale che, senza
scopo di lucro, promuovono e realizzano attività d'interesse generale,
mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di
produzione e scambio di beni e servizi, in coerenza con le finalità
stabilite nei rispettivi statuti o atti costitutivi. Nel Terzo settore non
rientrano le formazioni e le associazioni politiche, i sindacati e le
associazioni professionali di categorie economiche; le disposizioni della
legge e dei decreti attuativi non si applicano alle fondazioni bancarie.
Sono enti del Terzo settore le organizzazioni di volontariato, le
associazioni di promozione sociale, gli enti filantropici, le imprese
sociali, incluse le cooperative sociali, le reti associative, le società di
mutuo soccorso, le associazioni, riconosciute o non riconosciute, le
fondazioni e gli altri enti di carattere privato diversi dalle società
costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche,
solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento, in via
esclusiva o principale, di una o più attività di interesse generale in
forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o
servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi, ed
iscritti nel registro unico nazionale del Terzo settore.
In sede di attuazione della delega si dovrà procedere ad una precisa
definizione dell'impresa sociale. Per rientrare a pieno titolo nella
disciplina del Terzo settore l'impresa sociale deve avere queste
caratteristiche:
•svolgere attività d'impresa per finalità civiche, solidaristiche e di
utilità sociale;
•destinare i propri utili prioritariamente al conseguimento dell'oggetto
sociale;
•adottare modalità di gestione responsabili e trasparenti;
•favorire il più ampio coinvolgimento dei dipendenti, degli utenti e di
tutti i soggetti interessati
•alle sue attività.
Nell'ambito del riordino del servizio civile nazionale è prevista
l'istituzione del Servizio civile universale finalizzato alla difesa non
armata della patria e alla promozione dei valori fondativi della
Repubblica. E' infine previsto il riordino della disciplina tributaria e
delle varie forme di fiscalità di vantaggio a favore degli enti del Terzo
settore.
LEGISLAZIONE SOCIALE PER SETTORI
le Politiche Penitenziarie
La LEGGE n. 354 del 1975 “Norme sull’Ordinamento penitenziario e
sulla esecuzione delle misure preventive e limitative della libertà” è
una vera e propria rivoluzione morale e civile del nostro Paese. Resta,
purtroppo, ancora oggi largamente disattesa, non solo per gli aspetti
strettamente collegati alla qualità del periodo di detenzione
(sovraffollamento degli istituti, promiscuità, mancanza di assistenza e
di formazione, ecc.) ma soprattutto per quanto riguarda gli aspetti
riabilitativi del reinserimento socio lavorativo dell’ex detenuto nella
società.
Il D.P.R. n. 448 del 1988: i principi generali del nuovo processo
minorile e la messa alla prova. Nell’evoluzione della cultura
istituzionale nei confronti della devianza giovanile si possono
individuare dei periodi storici nei quali sono stati prodotti dei
mutamenti a seguito di fatti legislativi ed organizzativi specifici delle
giustizia minorile o generali. Punto fondamentale di questi mutamenti
è dapprima la novella del 1956 al R.D.L. n. 1404 del 1934 con
l’introduzione dell’affidamento del minore al servizio sociale per un
trattamento in libertà assistita tra le misure rieducative; poi lo
smantellamento, dal punto di vista organizzativo, degli istituti di
rieducazione; quindi il D.P.R. n. 616/1977, che, come abbiamo visto, ha
trasferito agli Enti Locali la gestione dei servizi incaricati della
competenza amministrativa”.
Il D.P.R. del 22 settembre 1988 n. 448 costituisce la prima ampia
riforma del diritto minorile. Il processo penale minorile, così come si
delinea nei suoi principi guida è considerato un evento delicato ed
importante nella vita del minore; deve perciò, essere adeguato alle
esigenze di una personalità in fase evolutiva. Se da un lato, pertanto, si
configura un processo penale con tutte le garanzie del processo
ordinario, dall’altro si tende a limitare, per quanto possibile, gli effetti
dannosi che il contatto con la giustizia può provocare.
Il D.P.R. 448/88, integrato dal D.P.R. 449/88 e dal D.L. 28 luglio 1989,
n. 272, recante norme di attuazione, di coordinamento e transitorie,
delineano un sistema di giustizia penale diversificato, dove il cui
momento più significativo è rappresentato dal passaggio del minore da
oggetto di protezione e tutela a soggetto titolare di diritti. Infatti, per la
prima volta si parla esplicitamente di "interesse del minore", di
"esigenze educative" e di "tutela del minore" come criteri
giuridicamente rilevanti destinati a influenzare esplicitamente le
decisioni e le scelte in tutto il percorso processuale attraversato dal
minore.
LE POLITICHE PER LE MIGRAZIONI
L’Italia ha cominciato a porsi il problema di legiferare sui fenomeni
migratori molto più tardi rispetto alla gran parte dei Paesi europei.
Questo perché, fino agli anni ’70 (e oltre), il nostro è stato un popolo di
emigrazione, oltre che di prima immigrazione. La prima norma mirata
all’inclusione lavorativa degli immigrati è la Legge 943/86 “Norme in
materia di collocamento e di trattamento dei lavoratori
extracomunitari immigrati e contro le immigrazioni clandestine”. Nel
1990, con la LEGGE n. 39, è sottolineata la complessità del fenomeno
migratorio, a partire dalla differenziazione delle tipologie d’immigrati:
inizia la regolamentazione dello status di profugo e di rifugiato. La
legge n. 39/90 fonda i propri contenuti su due principi innovativi:
sanare le irregolarità e sviluppare maggiori controlli alle frontiere
avvalendosi anche delle prime programmazioni dei flussi. Anche l’Italia,
con l’emanazione della citata legge n. 40/98, “Testo Unico delle
disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero”, ha dimostrato una presa di coscienza del
carattere strutturale dell’immigrazione, non più considerabile solo una
mera emergenza, bensì un fenomeno con il quale sempre più
occorrerà confrontarsi in termini di normalità, ossia di processi
d’integrazione interculturale ed interetnica.
LEGGE n. 189/2002 “Modifica alla normativa in materia di
immigrazione e asilo”. A distanza di quattro anni dall’emanazione del
T.U. 286/98, il governo italiano vara la legge n. 189/02, meglio
conosciuta come la legge “Bossi - Fini”, che intende imprimere
significativi mutamenti ad alcuni dei principali aspetti della precedente
normativa, compreso quello dell’accoglienza, mediante un ulteriore
rafforzamento del contrasto alla clandestinità. Fra le più discusse
modifiche introdotte dalla “Bossi – Fini” in relazione all’ingresso e
all’accoglienza, possono essere sommariamente annoverate quelle
connesse al rilascio dei visti di ingresso, dei permessi di soggiorno e
della carta di soggiorno, gli ostacoli ai ricongiungimenti famigliari, i
rilievi dattiloscopici, le espulsioni “facili”, i CIE, i CARA, ecc.
AD OGGI, L’UNICO ORGANISMO CHE MONITORA ANNUALMENTE IL
FENOMENO E’ LA CARITAS. A seguito di numerose contestazioni da
parte di associazioni nazionali ed internazionali e, soprattutto, delle
numerose sanzioni pecuniarie imposte dalla UE ai Governi italiani degli
ultimi anni, causati dalla incompatibilità delle Legge “Bossi – Fini” con il
Diritto umanitario internazionale, FINALMENTE nel 2014, con la Legge
n. 67, è stato abolito il reato di clandestinità, che, peraltro, penalizzava
anche i soccorritori in mare dei migranti.
LEGGE N. 47/2017 - La legge Zampa in 5 punti
Cosa prevede dunque la legge Zampa? Innanzitutto c’è la chiara e netta
riaffermazione del principio di inespellibilità dei minori stranieri soli dal territorio
italiano, già sancito a livello internazionale dalla Convenzione del Fanciullo e a livello
nazionale dall’Art. 19 del TU Immigrazione. La legge disciplina poi le procedure per
garantire. Un sistema organico e specifico di accoglienza, con strutture dedicate alla
prima accoglienza-identificazione dei minori (in cui il tempo di permanenza massima
è dimezzato – da 60 a 30 giorni) e il successivo trasferimento nel sistema di seconda
accoglienza in centri che aderiscono al Sistema per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar)
diffusi su tutto il territorio nazionale. Prima dell’approvazione del decreto Zampa i
minori venivano invece identificati negli hotspot, che non sono evidentemente
strutture a loro adatte; inoltre, data la disponibilità limitata di posti negli Sprar,
spesso i minorenni finivano poi in Centri per l’accoglienza straordinaria (Cas), che
non garantivano adeguati standard di accoglienza. La legge promuove inoltre lo
sviluppo dell’affido familiare come strada prioritaria di accoglienza rispetto alla
permanenza nelle strutture. Standard omogenei per l’accertamento dell’età e
l’identificazione con la presenza di un mediatore culturale durante i colloqui,
creando così una tanto attesa procedura uniforme a livello nazionale. Prima della
legge Zampa non esisteva infatti una procedura di attribuzione dell’età uniforme,
che d’ora in poi sarà invece notificata sia al minore che al tutore provvisorio
(assicurando così anche la possibilità di ricorso). La protezione dell’interesse del
minore, tramite: L’istituzione di regole più chiare per la nomina dei tutori con
l’istituzione dell’albo dei tutori volontari a cura dei tribunali per i minorenni. La legge
dà inoltre la priorità all’affidamento in famiglia come principale strada di accoglienza
rispetto alle strutture; Il ricorso a due unici tipi di permessi di soggiorno, quello per
minore età e quello per motivi familiari, che potranno essere richiesti direttamente
alla questura competente anche in assenza della nomina del tutore; L’attenzione ai
ricongiungimenti familiari attraverso indagini da parte delle autorità competenti
nell’interesse del minore, i cui esiti saranno comunicati sia al minore sia al tutore; Il
passaggio della competenza sul rimpatrio assistito al Tribunale per i minorenni,
organo costituzionalmente dedicato alla determinazione dell’interesse del minore,
al contrario del precedente organo competente (Direzione generale
dell’immigrazione e delle politiche di integrazione del ministero del lavoro e delle
politiche sociali). Il diritto alla salute e all’istruzione, con misure che superano gli
impedimenti burocratici che precedentemente non consentivano ai minori soli di
goderne a pieno ed effettivamente. A tal proposito la legge infatti prevede da un
lato – per quanto concerne il diritto alla salute – l’iscrizione al Sistema Sanitario
Nazionale anche in assenza di nomina del tutore e dall’altro – per quanto concerne il
diritto all’istruzione – l’attivazione di specifiche convenzioni per l’apprendistato e la
possibilità di acquisire i titoli conclusivi dei corsi di studio anche quando, al
compimento della maggiore età, non si possegga più un permesso di soggiorno.
Viene inoltre prevista la possibilità di supportare il neomaggiorenne fino ai 21 anni
di età qualora questo necessiti di un percorso più lungo di integrazione. Il diritto
all’ascolto per i minori stranieri non accompagnati nei procedimenti
amministrativi e giudiziari che li riguardano (anche in assenza del tutore) e
all’assistenza legale, avvalendosi del gratuito patrocinio a spese dello Stato. È
prevista inoltre la possibilità per le associazioni di tutela di ricorrere in sede di
giurisdizione amministrativa per annullare atti della Pubblica Amministrazione che si
ritengano lesivi dei diritti dei minori non accompagnati e di intervenire nei giudizi
che li riguardano.

DECRETO-LEGGE 14 giugno 2019, n. 53 Decreto Sicurezza bis, testo e


novità: misure di contrasto dell’immigrazione clandestina
Il Decreto Sicurezza bis è un testo formato da 18 articoli in tema di
sicurezza e ordine pubblico, quasi tutti inerenti l’emergenza migranti e
recanti nuove disposizioni per il contrasto dell’immigrazione clandestina.
Qui viene attribuita al Ministro dell’Interno la competenza di limitare o
vietare, per motivi di sicurezza e ordine pubblico, il transito e la sosta
delle navi sospette nel mare territoriale. Inoltre, il capitano della nave che
infrange il divieto di ingresso nelle acque territoriali può essere
condannato al pagamento di una sanzione molto salata: inizialmente la
multa prevista andava da 10mila a 50mila euro, ma, l’emendamento
approvato in data 18 luglio 2019, ha inasprito la sanzione da un minimo di
150mila euro fino al milione di euro. Approvato anche l’emendamento
che prevede la confisca immediata, come misura cautelare delle navi Ong
che violano il divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane. Sempre
nell’ottica di contrastare l’emergenza sbarchi, il Decreto Sicurezza bis
estende anche alle procure distrettuali la possibilità di eseguire le
intercettazioni e le operazioni sotto copertura.
LE POLITICHE PER LA CONCILIAZIONE DEI TEMPI
Coeva alla legge sugli asili nido è la prima legge sulla tutela delle
lavoratrici madri, la LEGGE 1204 del 1971, successivamente ampliata e
modificata prima con la legge sulla parità di trattamento tra uomini e
donne, la LEGGE 903 del 1977 e poi dalla LEGGE 53 del 2000. La
normativa in materia di conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro è
successivamente confluita in un ampio e organico Testo Unico, il D.lgsl.
151 del 2001. Per favorire la conciliazione di impegni familiari e impegni
lavorativi di entrambi i genitori le più recenti modifiche estendono fino ad
un massimo di undici mesi il periodo di congedo per maternità e paternità
di cui possono fruire congiuntamente entrambi i genitori.
LE (FONDAMENTALI) INNOVAZIONI DELLA LEGGE N. 53/2000:
-CONGEDI PARENTALI (per entrambi i genitori) per assistenza e
formazione
-SOSTEGNO ALLA MATERNITÀ E PATERNITÀ
-TEMPI DELLE CITTÀ: piani dei tempi e degli orari
-BANCHE DEI TEMPI _associazioni, ecc.
-ARMONIZZAZIONE DEI TEMPI DELLE CITTA’
LE POLITICHE PER I MINORI
La legge che istituisce gli asili nido pubblici e ne affida la gestione e il
controllo ai comuni è la 1044 del 1971. L’intento, come recita la legge
stessa, è di provvedere alla temporanea custodia dei bambini ed offrire
assistenza alla famiglia per facilitare l’accesso della donna al lavoro. A
distanza di oltre trenta anni, gli asili nido pubblici (0-3 anni) offrono posti
assolutamente insufficienti a coprire il fabbisogno effettivo, in particolare
nelle grandi città. Essi sono in numero molto inferiore a quello previsto
dalla legge e sono concentrati nelle regioni del centro-nord. Su scala
nazionale ospitano circa il 10% dei bambini della corrispondente fascia
d’età.
Nel 1983, con la legge 184, nuova disciplina dell’adozione e
dell’affidamento, sono stabiliti più stretti contatti tra l’autorità giudiziaria
minorile e i servizi sociosanitari locali. Lo stato di abbandono può
consistere anche in una condizione di privazione di assistenza morale e
materiale di un minore che non è privo di una famiglia naturale. Lo stato
di abbandono autorizza il tribunale dei minorenni a dare in adozione il
bambino ad un’altra famiglia (o meglio in, in quanto l’adozione è
affidamento preadottivo decretata dal tribunale minorile in Camera di
consiglio dopo un anno dall’affidamento). A differenza dell’adozione,
l’affidamento ha carattere temporaneo e avviene con il consenso della
famiglia di origine, che si trova temporaneamente impossibilitata a
prendersi cura del bambino. L’affidamento viene disposto dai servizi
sociali e reso esecutivo con decreto del giudice tutelare. Gli accertamenti
sulle condizioni giuridiche e di fatto in cui si trova il minore, così come
quelli sull’idoneità delle famiglie di accoglienza, tanto nel caso
dell’adozione quanto nel caso dell’affidamento, vengono effettuati dai
servizi sociali e dagli organi di sicurezza. Con riferimento al rapporto dei
minori con la giustizia, con il D.P.R. 448 del 1988 si abbandona un
approccio esclusivamente o prevalentemente punitivo nei confronti del
minore che commette reato e se ne adotta un altro che guarda anche al
sostegno psicologico e sociale, mirato al recupero e al reinserimento,
eventualmente con misure alternative alla detenzione e, quando del caso,
con servizi di sostegno anche ai genitori del minore. Il numero di denunce
che riguardano minori è in rapido aumento negli ultimi anni. Spesso si
tratta di ragazzi stranieri e anche di minori non imputabili – cioè con
meno di 14 anni – utilizzati dalla malavita organizzata. La legge 216 del
1991 affronta la questione dei servizi sociali a sostegno dei minori
coinvolti nella attività criminali, affidando a Enti Locali e soggetti privati
del non profit il compito di sviluppare servizi di sostegno e centri di
accoglienza, favorire il sorgere di comunità di aggregazione, soggiorni
estivi e tempo pieno scolastico, con l’obiettivo generale di tutelare e
favorire la crescita e la socializzazione dei minori. Altri servizi a tutela e
protezione del bambino si collegano alla LEGGE 66/1996 – una legge
contro i reati sessuali che disciplina anche la tutela dei minori non solo dal
punto di vista penale ma anche da quello dei servizi per i minori vittime di
reato. Analogamente procede la LEGGE 269/1998 contro lo sfruttamento
della prostituzione. Con la legge 285/1997per la promozione dei diritti e
delle opportunità per l’infanzia e l’adolescenza, le politiche a favore dei
minori non sono più interventi di emergenza da attivare a favore delle
famiglie in stato di disagio, economico o psicologico, o addirittura nei casi
di assenza della famiglia, e cominciano a configurarsi come una normale
conseguenza del diritto di cittadinanza di tutti i bambini a godere di
adeguati supporti nel loro percorso di crescita. La legge sostiene in
particolare lo sviluppo di progetti in ambito locale, istituendo anche un
apposito Fondo Nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza, in molte aree
cruciali: rapporti problematici tra genitori e figli, educazione e tempo
libero, violenza e criminalità infantile, abbandono scolastico, situazioni di
povertà. Con la L. 285/97 si inizia tra l’altro a mettere a sistema
l’utilizzazione degli strumenti di cooperazione interistituzionale,
chiamando a partecipare ai progetti le varie istituzioni locali, dai
provveditorati agli studi, agli enti locali, alle ASL ai centri di giustizia
minorile. Anche nel campo dei servizi di custodia la L. 285 del 1997
promuove lo sviluppo di servizi innovativi, con modalità e orari flessibili,
coinvolgendo nuovi soggetti privati e soprattutto non profit e cooperative
sociali. Sebbene molte di queste innovazioni fossero già state anticipate
su scala locale da numerosi Comuni soprattutto nel centro-nord e il
settore sia tutt’oggi in forte movimento, l’offerta offerta di servizi è
ancora molto al di sotto della domanda.
LE POLITICHE PER LA SALUTE
LEGGI:
-405/75 - Istituzione dei consultori familiari
-698/75 - Scioglimento e trasferimento delle funzioni dell'Opera nazionale
per la protezione della maternità e dell'infanzia
-685/75 - Disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope;
-517/77 - Norme sulla valutazione degli alunni
-833/78 - Istituzione del servizio sanitario nazionale
-180/78 - Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori
-DPR 309/90 - Testo unico sulla droga
-104/92 - Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti
delle persone handicappate
-68/99 - Norme per il diritto al lavoro dei disabili;
-328/2000 - Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di
interventi e servizi sociali
405/75 istituisce i consultori familiari; la L. 698 del 1975 decreta lo
scioglimento dell’ONMI. Le funzioni dei consultori familiari saranno
ulteriormente rafforzate con la legge sull’interruzione volontaria della
gravidanza, la 194 del 1978. Essi sono stati istituiti con il compito di
fornire assistenza psicologica e sociale per la preparazione della
maternità, la diffusione di informazioni sui metodi per il controllo delle
nascite, per tutelare la salute della donna e del nascituro. Funzionano
inoltre da studi medici per la prescrizioni di medicine e visite
specialistiche. Dapprima gestiti dagli Enti Locali, i consultori sono
successivamente confluiti nelle ASL.
685/75 Istituisce i servizi per il recupero delle tossicodipendenze (cfr. p.
127 del Manuale Integrazione). L’approccio liberale introdotto dalla 685
subisce una inversione di tendenza con la legge 162 del 1990 che al
concetto di «modica quantità» sostituisce quello di «dose media
giornaliera». La legge 160/1990 contribuisce d’altro canto al
rafforzamento dei servizi socio-sanitari. Un referendum del 1993 abolisce
la «dose media giornaliera» che serviva per discriminare tra sanzioni
amministrative e sanzioni penali ri-abolendo il divieto dell’uso personale.
Dopo il referendum la regolazione complessiva della materia, viene
riordinata con il DPR 171 del 1993 sui seguenti principi: viene costituito
un Comitato nazionale per il coordinamento dell’azione anti-droga. Il
Dipartimento degli affari sociali cura la Relazione annuale al parlamento.
Le droghe sono catalogate in sei tabelle. Le pene variano in
considerazione del tipo di sostanza con cui si ha a che fare. Rimane la
distinzione tra sanzioni amministrative e sanzioni penali, riservata a tutte
le attività non rivolte all’uso personale. Le sanzioni amministrative per
l’uso personale sono comminate dal prefetto e possono consistere nella
sospensione della patente di guida, del porto d’armi, del passaporto o del
permesso di soggiorno. Le sanzioni amministrative possono essere
sospese se il sanzionato accetta di sottoporsi ad un programma
terapeutico e socioriabilitativo. Alla conclusione del programma il
procedimento è archiviato. Le droghe sono catalogate in una TABELLA
UNICA, a sottolineare il fatto che sono TUTTE dannose per la salute
(anche se in misura e modalità e tempi diversi). Legge 49/2006 = ha
ripristinato le Tabelle Legge 94/2009 = Pacchetto sicurezza = inibisce il
conseguimento della patente per chi ha preso la sanzione ex art. 75 Legge
79/2014 = aumento del periodo di sanzione (da 2 mesi a 1 anno per
Tabelle I e III e da 1 a 3 mesi per Tabelle II e IV). Le Regioni intervengono
nella elaborazione dei programmi di disintossicazione e socio-riabilitativi
e nell’attuazione di programmi informativi, mentre ai Comuni spettano
competenze prevalentemente in materia di servizi sociali per la
prevenzione dell’emarginazione e del disadattamento, del reinserimento
scolastico, lavorativo e sociale, della rimozione e dell’intervento sulle
situazioni di disagio familiare. Le ASL istituiscono i servizi per le
tossicodipendenze (Ser.T), che costituiscono senz’altro il nodo principale
dei servizi sociosanitari per le tossicodipendenze e che svolgono
interventi di orientamento e primo sostegno per i tossicodipendenti e per
le loro famiglie, certificano lo stato di tossicodipendenza, definiscono il
programma terapeutico e socioriabilitativo e lo attuano direttamente o in
regime di convenzione con le comunità terapeutiche, effettuano visite
mediche e diagnosi, test di laboratorio e interventi di prevenzione delle
infezioni da HIV e altre malattie connesse con la tossicodipendenza. Il
Provveditorato agli studi promuove e coordina le attività di educazione e
prevenzione che vengono poi realizzate nelle istituzioni scolastiche
direttamente da queste o in collaborazione con altri soggetti. Anche il
sistema carcerario partecipa attraverso protocolli di collaborazione con gli
altri soggetti ad interventi di sostegno e recupero rivolte ai detenuti. Una
gran parte del lavoro di assistenza, riabilitazione, cura, reinserimento
sociale è effettuato, infine, da organismi del terzo settore in regime di
convenzione. Questi soggetti, che hanno varia natura e differenti stili di
intervento, realizzano azioni che vanno dalla informazione e prevenzione,
all’offerta di pasti e posti letto, alle strategie di riduzione del danno, come
quelle ad esempio perseguite con le unità di strada, all’accoglienza nelle
comunità terapeutiche in un regime di convenzione con le ASL
nell’ambito di un quadro giuridico definito con un atto di intesa Stato-
Regioni recepito con il DM del 19/2/93.
517/ 77 Questa legge affida al Comune le competenze amministrative
connesse all’istituzione nelle scuole di forme particolari di sostegno e
servizi specialistici socio-psico-pedagocici per l’inserimento dei portatori
di handicap.
833/ 78 L’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) ha
rappresentato un passo decisivo verso l’attuale assetto del sistema dei
servizi socio-sanitari, contribuendo al rafforzamento del ruolo delle
Regioni. Prima della legge istitutiva (L. 833/1978) del SSN, le competenze
in materia sanitaria erano suddivise tra una congerie di enti mutualistici,
enti ospedalieri, province, comuni e consorzi intercomunali privi di
qualsiasi unità amministrativa. Con l’istituzione del SSN i vari enti, servizi,
strutture e funzioni perdono la loro autonomia gestionale per confluire in
un unico sistema organizzativo, i cui apparati e le cui funzioni si
articolano, con competenze differenziate, a livello nazionale, regionale e
territoriale.
180/78 All’isolamento e alla separazione dal resto della società sono state
lungamente improntate anche le politiche per la salute mentale. La
separazione risponde essenzialmente a obiettivi di ordine pubblico:
isolare il malato, potenzialmente pericoloso, dal resto della società e
offrire, soprattutto ai malati poveri, una possibilità di mantenimento.
Assolutamente in secondo piano, quando non del tutto inesistente è stato
invece qualsiasi proposito terapeutico, che di fatto si limitava
all’ergoterapia, ossia alla cura mediante il lavoro. L’unica valenza della
malattia, in quest’ordine istituzionale, era quella di distinguere il “folle”
dal “colpevole”. Sotto il profilo giudiziario infatti il folle non è
responsabile dei suoi atti e dunque non è colpevole. Sotto il profilo
pratico la soluzione era comunque la stessa, quella della reclusione.
L’internamento nelle strutture manicomiali ha permesso lo sviluppo della
scienza psichiatrica essenzialmente come attività di osservazione e di
catalogazione di quelle disfunzioni comportamentali le cui cause – in
ambiente positivista - erano attribuite a fattori di carattere organico, a
malfunzionamenti del sistema nervoso centrale. Il carattere reclusivo
degli istituti di cura delle malattie mentali era evidente anche nelle regole
che presiedevano all’accoglimento e alle dimissioni. In Italia la legislazione
sui manicomi di epoca giolittiana (Legge 36 del 1904 e R.D. 615 del 1909),
che con alcuni alleggerimenti rimane in vigore fino alla riforma Basaglia
nel 1978, prevede il solo ricovero coatto, ordinario o urgente. La
modernizzazione delle concezioni psichiatriche e di conseguenza del
trattamento dei malati psichiatrici inizia lentamente a farsi strada intorno
alla metà del secolo. Iniziano ad affermarsi concetti quale quello di
relativismo diagnostico, per cui, a parte i casi di disturbi mentali gravi, la
differenza tra salute e malattia è, nel caso della malattia mentale molto
labile e la diagnosi è spesso fortemente influenzata da fattori soggettivi e
culturali, come numerose ricerche iniziavano a dimostrare, in particolare
quelle svolte dagli etnopsichiatri. In altre parole si rende evidente che la
turba mentale è una condizione molto generale che può riguardare molte
persone in una o più fasi della propria vita, senza che a questa condizione
debba venir associata una valenza inabilitante permanente. Ad oggi si
calcola che, nonostante il grande aumento della domanda di terapie e lo
sviluppo di professioni di aiuto connesse alla crescita del welfare state, c’è
una fortissima sottovalutazione della domanda. In altre parole, arriva ad
avere un contatto con i servizi solo il 5-10% di coloro che soffre di disturbi
mentali. Ovviamente non si tratta di disturbi mentali gravi (psicosi
schizofreniche e affettive), ma di disturbi emotivi molto comuni, per i
quali chi ne soffre raramente si rivolge al medico di base e ancor più
raramente viene da questi riferito ai servizi psichiatrici specialistici. Il
movimento per la deistituzionalizzazione degli anni Settanta ha visto
militare nelle proprie file associazioni civili e professionali e
amministrazioni locali. L’esito più importante ne è stato la legge 180 del
1978 che ha riorganizzato le strutture per la cura e il trattamento delle
malattie mentali in base ai seguenti principi: viene determinata la
chiusura di tutti gli ospedali psichiatrici esistenti e il divieto di costruirne
di nuovi; la malattia mentale deve essere trattata nell’ambito dei normali
servizi territoriali l’assistenza psichiatrica è parte integrale del Sistema
Sanitario Nazionale; il ricovero volontario è sempre possibile, mentre il
trattamento sanitario obbligatorio (TSO) è possibile esclusivamente
presso gli ospedali negli specifici servizi psichiatrici di diagnosi e cura
(SPDC). Nel complesso la legge 180 ha determinato una straordinaria
ridefinizione della materia, non soltanto dal punto di vista organizzativo
ed istituzionale ma innanzi tutto delle concezioni di base che orientano la
comprensione della malattia mentale e il modo di trattarla: complessità
dei nuovi bisogni, necessità di strumenti operativi e culturali
completamente rinnovati, diversificazione dunque dei servizi psichiatrici e
delle metodologie di intervento.
104/92 La legge quadro sull’handicap, la 104 del 1992 ribadisce il diritto
all’educazione dei portatori di handicap dall’asilo nido all’università,
regolamentando al contempo i rapporti tra la scuola e i servizi
sociosanitari, anche attraverso la costituzione di un gruppo di lavoro
interistituzionale provinciale sull’handicap, insediato presso il
Provveditorato agli studi. Un altro ambito specifico di intervento regolato
dalla Legge 104 è quello della mobilità e delle barriere architettoniche. La
legge 104 regola anche la divisione delle competenze tra Stato, in
particolare il Ministero della solidarietà sociale, poi conglobato con il
Ministero del lavoro e delle politiche sociali, le ASL, le Regioni, i Comuni e
i soggetti del terzo settore.
LE POLITICHE PER IL LAVORO E PER IL REDDITO
Le politiche a favore della crescita e dell’occupazione tradizionalmente
venivano formulate e attuate a prescindere dai loro impatti sociali
(positivi o negativi in termini di welfare o wellness). Le politiche sociali,
nella loro frammentazione, erano appunto concepite come un
risarcimento (riparazione, compensazione, attenuazione) degli effetti
indesiderati di altre politiche. Queste venivano anche considerate
prioritarie, in quanto produttive di reddito ed occupazione, di crescita.
L’idea di politica integrata cerca di superare i limiti di questa
impostazione, costosa sul piano sociale ed anche su quello finanziario,
non in grado né di valorizzare tutti i potenziali dello sviluppo locale né di
garantire a medio termine stati di benessere più avanzati per la
popolazione. Alla fine degli anni Novanta sono stati introdotti con leggi
nazionali alcuni trasferimenti, la cui gestione è rimessa ai comuni:
1) assegni ai nuclei familiari numerosi (L. 448/1998 e D.M. 306/99): i
Comuni possono concedere contributi economici mensili a nuclei familiari
con tre o più figli minori se le risorse economiche sono inferiori a
determinati limiti calcolati con l’ISEE (Indicatore di situazione economica
equivalente)
2)assegno di maternità. Trasferimenti economici dei comuni alle madri
cittadine italiane, comunitarie ed extracomunitarie prive di copertura
previdenziale, sempre subordinatamente alla verifica della Situazione
Economica Equivalente (LEGGE 448/1998);
3) detrazioni fiscali per i familiari a carico. Il sistema di detrazioni non è
cambiato sistematicamente nel corso del decennio, ma è diventato
leggermente più generoso in particolare per i redditi più bassi. Inoltre la
finanziaria per il 2000 (LEGGE 488/99) ha riconosciuto una maggiorazione
per i figli minori di 3 anni.
4) reddito minimo di inserimento (D. Lgsl.237/98). Sussidio economico a
favore di nuclei familiari congiunto con l’offerta di servizi personalizzati
che favoriscono l’integrazione economica. Si basano sulla stipula di un
“contratto” con il quale il percettore si impegna a seguire un programma
concordato di sostegno all’inserimento sociale e lavorativo: formazione,
azioni di ricerca di un lavoro. Si è trattato di una azione sperimentale
effettuata in 39 comuni allo scopo di verificarne gli effetti ed
eventualmente di generalizzarlo.
l’ISEE Indicatore ISEE di Situazione Economica Equivalente è stato
introdotto con la legge 448/98 art. 27. E’ un sistema di valutazione delle
condizioni economiche delle persone che richiedono delle prestazioni di
tipo assistenziale, dai libri di testo gratuiti agli assegni di maternità,
assegni a favore di nuclei familiari numerosi, sconti su rette degli asili nido
e altre imposte, titoli di preferenza nell’assegnazione delle abitazioni di
edilizia popolare ed altro. Tiene conto del reddito IRPEF e del possesso di
beni mobili e immobili.
La LEGGE 68/99 “Norme per il Diritto al lavoro dei disabili” prevede il
collocamento obbligatorio dei disabili e la progettazione di posti di lavoro
strutturati appositamente per favorire l’accoglienza del disabile: un
sistema basato prevalentemente sull’assunzione nominativa (cd.
“categorie protette” del Collocamento). Altri strumenti (più recenti) in
materia di lotta alla povertà, assistenza e sostegno all’occupabilità: Legge
328/2000 Libro bianco sul welfare, Piano di azione nazionale contro la
povertà e l’esclusione sociale 2003-5, Piano nazionale degli interventi e
dei servizi sociali, Piani per la diverse politiche settoriali sociali, Piano
sanitario nazionale e relativi piani regionali e i relativi programmi
obiettivo, Leggi regionali di settore [con il confronto tra modelli regionali
parzialmente alternativi], Piani regionali per le politiche sociali (PRPS),
Piani di zona, JOB’S ACT.
IL SOSTEGNO ALL’INCLUSIONE ATTIVA (SIA)

ACCORDO DI PARTENARIATO 2014‐2020 ITALIA - (settembre 2014) -


Obiettivo Tematico 9 – Promuovere l’inclusione sociale e combattere la
povertà e ogni discriminazione (Conforme all’articolo 14 del Regolamento
UE N.1303/2013)
PON «INCLUSIONE» del 17 dicembre 2014 – titolare Ministero del Lavoro
e delle Politiche sociali _ sperimentazione di una misura nazionale di
contrasto alla povertà assoluta in collaborazione con le amministrazioni
regionali (in Puglia è il RED). Attualmente vi è il REI che sta per essere
sostituito dal reddito di Cittadinanza
Presidenza del consiglio dei Ministri «Linee Guida per la predisposizione e
attuazione dei progetti di presa in carico del Sostegno per l’inclusione
attiva» dell’11 febbraio 2016
ATTORI E MODELLI DEL WELFARE
Gli attori del welfare, per disposizioni normative, per storia e cultura, per
esigenze economiche, variano secondo i settori di intervento.
LA FAMIGLIA, IL PRIMO ATTORE DI CURA
famiglia: insieme di persone legate da vincolo di matrimonio, parentela,
affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti e aventi dimora
abituale nello stesso comune. Una famiglia può coincidere con un nucleo,
può essere formata da un nucleo più altri membri aggregati, da più nuclei
o da nessun nucleo ( persone sole, famiglie composte ad esempio da due
sorelle, da un genitore con figlio separato, divorziato o vedovo ecc.). una
famiglia può essere costituita anche da una sola persona. L’assente
temporaneo non cessa di appartenere alla propria famiglia, sia che si trovi
presso altro alloggio dello stesso comune, sia che si trovi in un altro
comune italiano o all’estero. La definizione di famiglia adottata per il
censimento è quella contenuta nel regolamento anagrafico. Il modello di
welfare italiano, è definito in letteratura familistico, con ciò si intende che
è comunque la famiglia a farsi carico di una parte molto cospicua del
lavoro di assistenza che si rende necessario. Ad esso si attribuisce inoltre
una spiccata connotazione assistenzialistica, intendendo con ciò il fatto
che la maggior parte delle prestazioni erogate consistono in trasferimenti
in denaro che permettono di fronteggiare delle situazioni di bisogno ma
non necessariamente aiutano ad attivare delle capacità e delle risorse che
permettono al destinatario dell’intervento di superare delle situazioni di
bisogno. Il modello di welfare italiano è inoltre detto residuale, nel senso
che gli interventi di tipo propriamente assistenziale sono attivati solo
quando le condizioni di bisogno a cui si riferiscono non sono coperte dal
sistema previdenziale, basato sulle assicurazioni sociali obbligatorie,
dunque legato al possesso di titoli contributivi conseguiti attraverso la
partecipazione attiva del mercato del lavoro.
LO STATO E LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE, IL SECONDO ATTORE DI
CURA.
costituzione della repubblica italiana.
ART. 114 la repubblica è costituita dai comuni, dalle provincie dalle città
metropolitane, dalle regioni e dallo stato. I comuni, le provincie, le città
metropolitane e le regioni, sono enti autonomi, con propri statuti, poteri
e funzioni secondo i principi fissati dalla costituzione. Roma è la capitale
della repubblica. La legge dello stato disciplina il suo ordinamento.
ART 117. La potestà legislativa è esercitata dallo stato e dalle regioni nel
rispetto della costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali. Lo stato esercita i propri
compiti e le proprie funzioni, nelle politiche sociali come in tutte le altre
politiche pubbliche e miste, mediante la pubblica amministrazione.
Lo stato nelle società occidentali prende avvio dal concetto greco di polis.
Si è configurato come stato-nazione nell’800 e nella prima metà del 900.
Esso è contemporaneamente un modello e una realtà fattuale. Lo stato
svolge funzioni proprie, esclusive o sussidiarie. Le principali consistono nel
regolamentare, redistribuire, assicurare, produrre.
MODELLO AFFERENTE ATTORE – STATO: IL WELFARE STATE
Welfare state (detto anche stato sociale) complesso di politiche
pubbliche messe in atto da uno stato che interviene, in un’economia di
mercato, per garantire assistenza e benessere ai cittadini, modificando e
regolamentando la distribuzione dei redditi, generate dalle forze del
mercato. Gli obbiettivi possono essere identificati nell’assicurare un
tenore di vita minimo a tutti i cittadini, dare sicurezza ad individui e
famiglie in presenza di congiunture sfavorevoli, garantire a tutti i cittadini
l’accesso ai servizi fondamentali (istruzione e sanità). Strumenti tipici del
welfare state sono:
-corresponsione in denaro, nelle fasi non occupazionali del ciclo vitale e
nei casi di incapacità lavorativa.
-erogazione di servizi in natura ( istruzione, sanità, abitazione)
-concessione di benefici fiscali
-regolazione di certi aspetti dell’attività economica ( locazione di
abitazioni a famiglie a basso reddito, assunzioni di invalidi ecc.)
L’ATTORE MERCATO NEL SISTEMA SOCIO-ASSISTENZIALE.
MERCATO
Termine generico che indica il luogo dove si incontrano domanda e
offerta di uno o più beni o servizi determinandone il prezzo.
MERCATO è il luogo dove si incontrano domanda e offerta di uno o più
beni o servizi, e dove questo incontro porta alla definizione di un prezzo a
cui i venditori sono disposti a cedere i propri beni e gli acquirenti a
comperarli.
MERCATO UNICO
È definito dall’art. 3 della versione consolidata del trattato che istituisce la
comunità europea come un mercato caratterizzato dall’eliminazione fra
gli stati membri, degli ostacoli alla libera circolazione di merci, persone,
servizi e capitali. È entrato in vigore il 1 genn. 1993.
TRATTATO DI SCHENGEN
Lo spazio schengen è una zona di libera circolazione, dove i controlli alle
frontiere sono stati aboliti per tutti i viaggiatori, salvo circostanze
eccezionali. Lo spazio schengen è attualmente composto da 26 paesi, di
cui 22 membri dell’unione europea e 4 non membri. L’area di libera
circolazione è entrata in vigore a partire dal 1985, data di un accordo di
massima concluso da un gruppo di governi europei nella località
lussemburghese di shengen.
SANITA’ PRIVATA E SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE
La sanità privata profit e no profit ( lucrativa e non lucrativa ), ha
rappresentato, sin dalla sua istituzione, una risorsa per il servizio sanitario
nazionale. Questo perché, il Ssn affermando la centralità del cittadino, ha
riconosciuto a questi il diritto di libera scelta del luogo di cura. Il Ssn,
innanzitutto, garantisce la qualità delle strutture sanitarie e dei
professionisti sanitari, vincolando le prime alla concessione
dell'autorizzazione all'esercizio (art. 8 ter d.lgs n. 502/92) ed i secondi
all'abilitazione professionale. Il cittadino può rivolgersi gratuitamente
(ovvero pagando l'eventuale ticket) a strutture sanitarie e professionisti
pubblici o privati accreditati con il Ssn, scegliendoli liberamente tra quelli
abilitati ed autorizzati. Bisogna precisare che le prestazioni erogate dal
Ssn, sia mediante strutture pubbliche che private accreditate, sono solo
quelle individuate nei LEA (Livelli essenziali di assistenza), definiti con il
DPCM del 29 novembre 2001 e s.m.i., pertanto qualora un cittadino
volesse sottoporsi ad una prestazione sanitaria non compresa nei LEA, il
relativo costo sarebbe totalmente a suo carico sia che essa venga erogata
in una struttura pubblica che in una struttura privata accreditata.
Livelli Essenziali di Assistenza (LEA)
LEA:
i “Livelli essenziali di assistenza” (Lea) sono costituiti dall’insieme delle
attività, dei servizi e delle prestazioni che il Servizio sanitario nazionale
(Ssn) eroga a tutti i cittadini gratuitamente o con il pagamento di un
ticket, indipendentemente dal reddito e dal luogo di residenza. Fino a
quando i Lea rimarranno alla base del nostro sistema sanitario, nessuno
potrà essere escluso dalle cure perché troppo anziano o bisognoso di
prestazioni troppo costose, perché dedito a comportamenti nocivi alla
salute, troppo povero o, paradossalmente, troppo ricco: un reddito
elevato può, al limite, giustificare la corresponsione di un ticket, ma non
l’esclusione dal diritto all’assistenza. Oltre all’art. 32 della Costituzione (La
Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e
interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti), è la
legge di istituzione del Ssn del1978 a introdurre per la prima volta il
concetto di “livelli di prestazioni sanitarie che devono essere garantiti a
tutti i cittadini”, concetto ribadito e rafforzato nelle successive riforme.
LIVELLI ESSENZIALI DI ASSISTENZA LEA I lea sono stati definiti a livello
nazionale con il decreto del presidente del consiglio dei ministri del 29
novembre 2001, entrato in vigore nel 2002. La riforma del titolo V della
costituzione ha poi previsto per le regioni la possibilità di utilizzare le
risorse proprie per garantire servizi e prestazioni aggiuntive a quelle
incluse nei Lea. Questo comporta che i lea possono essere diversi da
regione a regione.
L’aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza
Il nuovo schema di decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri
sostituisce integralmente il dPCM 29 novembre 2001, recante
“Definizione dei Livelli essenziali di assistenza”. Il provvedimento è stato
predisposto in attuazione della legge di stabilità 2016 (articolo 1, commi
553 e 554, legge 28 dicembre 2015, n. 208), che ha stanziato ben 800
milioni di euro annui per l’aggiornamento dei LEA. Il nuovo schema di
decreto è l’esito di un lavoro condiviso tra Stato, regioni e società
scientifiche.
IL MERCATO, A PARTE LA SANITA’ E’ ATTIVO IN ALTRI SETTORI DEL
WELFARE.
Qualche esempio:
-Socio – educativo (asili/scuole private, ludoteche, sostegno scolastico)
-Socio – culturale (biblioteche/musei, palestre/impianti sportivi, tempo
libero/ricreativo, arti varie, ecc.)
-Socio – assistenziale (nidi privati, sportelli di counselling, centri di
ascolto, strutture di accoglienza per bisogni/target diversi … dalle
comunità terapeutiche per tossicodipendenti alle strutture riabilitative
psichiatriche, centri di accoglienza minori/disabili/immigrati, comunità
per minori e donne in difficoltà, ecc.)
-Professionale (Società Tra Professionisti, libera professione)

L’ATTORE “ TERZO SETTORE”.


Molta parte della letteratura definisce così l’insieme delle organizzazioni
private, che operando senza fini di lucro e con l’apporto significativo di
volontari, offre servizi di utilità sociale. Si dice terzo, rispetto ai due settori
economici tradizionali, stato e mercato.
TERZO SETTORE. È quell’insieme vasto ed eterogeneo, di aggregazioni
collettive ( associazioni, gruppi, comitati, cooperative, fondazioni, enti
etc), che intendono collocarsi, come funzione e natura giuridica, su una
terza via rispetto allo stato e alla pubblica amministrazione e rispetto al
mercato e alle sue logiche. in questa categoria vi rientrano tutti quei
soggetti (generalmente individuate nelle organizzazioni di volontariato e
nelle cooperative sociali e associazioni di promozione sociale e nelle
fondazioni pro-sociali), che facendo propri i criteri del no profit, ed
agendo secondo logiche diverse da quelle delle istituzioni pubbliche,
svolgono attività di varia natura, attraverso forme di partecipazione
sociale. Il terzo settore ha una valenza molto meno individualista rispetto
ai precedenti attori e molto più sociale e collettivista. Condivide molte
altre finalità con lo stato, altre con il mercato.
LA RIFORMA DEL TERZO SETTORE:
Il Codice del Terzo settore (D.Lgs 117/17)
Il Codice del Terzo settore è legge, ma avrà bisogno di ben 20 decreti
ministeriali per funzionare. vengono abrogate diverse normative, tra cui
due leggi storiche come quella sul volontariato (266/91) e quella sulle
associazioni di promozione sociale (383/2000), oltre che buona parte
della “legge sulle Onlus” (460/97). vengono raggruppati in un solo testo
tutte le tipologie di quelli che da ora in poi si dovranno chiamare Enti del
Terzo settore (Ets). Ecco le sette nuove tipologie: organizzazioni di
volontariato (che dovranno aggiungere Odv alla loro denominazione);
associazioni di promozione sociale (Aps); imprese sociali (incluse le attuali
cooperative sociali), enti filantropici; reti associative; società di mutuo
soccorso; altri enti (associazioni riconosciute e non, fondazioni, enti di
carattere privato senza scopo di lucro diversi dalle società). Restano
dunque fuori dal nuovo universo degli Ets, tra gli altri: le amministrazioni
pubbliche, le fondazioni di origine bancaria, i partiti, i sindacati, le
associazioni professionali, di categoria e di datori di lavoro. Mentre per gli
enti religiosi il Codice si applicherà limitatamente alle attività di interesse
generale di cui all’esempio successivo. Gli Enti del Terzo settore saranno
obbligati, per definirsi tali, all’iscrizione al Registro unico nazionale del
Terzo settore (già denominato Runts...), che farà quindi pulizia dei vari
elenchi oggi esistenti. Il Registro avrà sede presso il ministero delle
Politiche sociali, ma sarà gestito e aggiornato a livello regionale. Viene
infine costituito, presso lo stesso ministero, il Consiglio nazionale del
Terzo settore, nuovo organismo di una trentina di componenti (senza
alcun compenso) che sarà tra l’altro l’organo consultivo per
l’armonizzazione legislativa dell’intera materia. vengono definite in un
unico elenco riportato all’articolo 5 le “attività di interesse generale per il
perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di
utilità sociale” che “in via esclusiva o principale” sono esercitati dagli Enti
del Terzo settore. Si tratta di un elenco, dichiaratamente aggiornabile,
che “riordina” appunto le attività consuete del non profit (dalla sanità
all’assistenza, dall’istruzione all’ambiente) e ne aggiunge alcune emerse
negli ultimi anni (housing, agricoltura sociale, legalità, commercio equo
ecc.). Gli Ets, con l’iscrizione al registro, saranno tenuti al rispetto di vari
obblighi, ma potranno accedere anche a una serie di esenzioni e vantaggi
economici. Una parte consistente del Codice (sei articoli, dal 61 al 66, pari
al 14% dell’estensione del testo) è dedicata ai Centri di servizio per il
volontariato (CSV), interessati da una profonda revisione in chiave
evolutiva che ne riconosce le funzioni svolte nei primi 20 anni della loro
esistenza e le adegua al nuovo scenario. A cominciare dall’allargamento
della platea a cui i CSV dovranno prestare servizi, che coinciderà con tutti
i “volontari negli Enti del Terzo settore”, e non più solo con quelli delle
organizzazioni di volontariato definite dalla legge 266/91 (anche se in
realtà era già cospicua la quota di realtà del terzo settore “servite” in
questi anni).
IL MODELLO AFFERENTE ALL’ATTORE- III SETTORE: IL EWLFARE MIX.
Nel welfare mix l’ente pubblico svolge i propri servizi, avvalendosi della
collaborazione di altri soggetti, in particolare di soggetti del III settore.
Questi ultimi intervengono nella fase di implementazione delle decisioni
prese a livello politico. Essi dunque rappresentano una risorsa
complementare, supplementare o eventuale, rispetto alla funzione
dell’ente pubblico. Il welfare mix è informato al principio di sussidiarietà
verticale, nel quale i soggetti no profit intervengono laddove l’ente
pubblico non è in grado o non ritiene di intervenire.
LA COMUNITA’.
La comunità è un insieme di persone che hanno legami sociale e valori
condivisi e agiscono per il complesso collettivo che esse stesse
costituiscono. Questa definizione si applica alle collettività locali di scala
intermedia fra il micro delle relazioni interpersonali e il macro della
società globale. Ma non esclude l’esistenza di comunità che abbiano
riferimenti non territoriali: associativi, reticolari, virtuali. Il tratto sociale
caratteristico della comunità, in tutte le sue forme, è la comprensione del
fatto che è un modo di sentire comune e reciproco, associativo, che
costituisce la volontà propria di una comunità.
I __DE__I AFFERE(TI
A__’ATT_RE – C__U(ITA’
=
IL WELFARE COMMUNITY=(principio di sussidiarietà)
IL WELFARE GENERATIVO=(raccolta e redistribuzione)
IL SECONDO WELFARE=(principio di integrazione)
IL WELFARE AZIENDALE
Il Welfare community il concetto di welfare community è informato al
principio di sussidiarietà orizzontale, nel quale alle organizzazioni della
società civile è riconosciuta la capacità di programmare gli interventi e le
scelte strategiche finalizzati al perseguimento dell’interesse generale, di
concerto con l’ente pubblico, che mantiene una funzione di garanzia.
L’espressione welfare community racchiude in se, l’idea secondo cui i
bisogni sociali vengono soddisfatti non solo dallo stato e dagli altri enti
pubblici ma anche dalla comunità stessa, tramite i suoi corpi intermedi. è
facile comprendere l’importanza non solo giuridica ma anche politico-
sociale della legge costituzionale n. 3 del 2001 di riforma del titolo V che
ha poi riformulato l’attuale art. 118 della costituzione, prevedendo
espressamente, il principio di sussidiarietà orizzontale. Il nuovo art. 118
prevede quindi, che, stato, regioni, città metropolitane, province e
comuni riconoscano e favoriscano l’autonoma iniziativa dei cittadini,
singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale,
sulla base del principio di sussidiarietà. Essi riconoscono e favoriscono,
altresì, l'autonoma iniziativa degli enti di autonomia funzionale per la
medesima attività e sulla base del medesimo principio.
IL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETA’
Il principio di sussidiarietà è regolato dall'articolo 118 della Costituzione
italiana il quale prevede che "Stato, Regioni, Province, Città
Metropolitane e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini,
singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale,
sulla base del principio della sussidiarità". Tale principio implica che le
diverse istituzioni debbano creare le condizioni necessarie per permettere
alla persona e alle aggregazioni sociali di agire liberamente nello
svolgimento della loro attività. L'intervento dell'entità di livello superiore,
qualora fosse necessario, deve essere temporaneo e teso a restituire
l'autonomia d'azione all'entità di livello inferiore. Il principio di
sussidiarietà può quindi essere visto sotto un duplice aspetto:
in senso verticale - la ripartizione gerarchica delle competenze deve
essere spostata verso gli enti più vicini al cittadino e, quindi, più vicini ai
bisogni del territorio;
in senso orizzontale - il cittadino, sia come singolo sia attraverso i corpi
intermedi, deve avere la possibilità di cooperare con le istituzioni nel
definire gli interventi che incidano sulle realtà sociali a lui più vicine.
La crescente richiesta di partecipazione dei cittadini alle decisioni e alle
azioni che riguardano
la cura di interessi aventi rilevanza sociale, presenti nella nostra realtà
come in quella di molti
altri paesi europei, ha dunque oggi la sua legittimazione nella nostra legge
fondamentale.
Quest'ultima prevede, dopo la riforma del Titolo V, anche il dovere da
parte delle
amministrazioni pubbliche di favorire tale partecipazione nella
consapevolezza delle
conseguenze positive che ne possono derivare per le persone e per la
collettività in termini di
benessere spirituale e materiale.
In effetti l'applicazione di questo principio ha un elevato potenziale di
modernizzazione delle
amministrazioni pubbliche in quanto la partecipazione attiva dei cittadini
alla vita collettiva può
concorrere a migliorare la capacità delle istituzioni di dare risposte più
efficaci ai bisogni delle
persone e alle soddisfazione dei diritti sociali che la Costituzione ci
riconosce e garantisce.
Da un lato alcune amministrazioni pubbliche hanno già intrapreso
iniziative volte a favorire la sussidiarietà orizzontale e dall'altro la società
civile si è mossa nella stessa direzione con azioni concrete sostenute
peraltro da una parallela attività di sensibilizzazione dell'opinione
pubblica, di ricerca e di documentazione e, più in generale, di
approfondimento scientifico del fenomeno. I cittadini attivi, applicando il
principio di sussidiarietà (art. 118 ultimo comma della Costituzione), si
prendono cura dei beni comuni. Entrambi, volontari e cittadini attivi, sono
"disinteressati", in quanto entrambi esercitano una nuova forma di
libertà, solidale e responsabile, che ha come obiettivo la realizzazione non
di interessi privati, per quanto assolutamente rispettabili e legittimi, bensì
dell'interesse generale. Quando la Costituzione afferma che i poteri
pubblici "favoriscono le autonome iniziative dei cittadini, singoli e
associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base
del principio di sussidiarietà", essa legittima da un lato i volontari
tradizionali, che da sempre svolgono attività che si possono definire di
interesse generale, e dall'altro quei soggetti che si definiscono cittadini
attivi, persone responsabili e solidali che si prendono cura dei beni
comuni. I cittadini attivi, in quanto non proprietari bensì custodi dei beni
comuni, esercitano nei confronti di tali beni un diritto di cura fondato non
sul proprio interesse, come nel caso del diritto di proprietà, bensì
sull'interesse generale. Ciò che giustifica il loro impegno è infatti solo in
parte un loro interesse diretto e immediato alla produzione, cura e
sviluppo dei beni comuni. C'è anche questo, certamente (e infatti questo
può essere un elemento che differenzia i volontari dai cittadini attivi) ma
ciò che spinge i cittadini attivi a prendersi cura dei beni comuni è la
solidarietà. In sostanza, i volontari sono "disinteressati" in quanto vanno
oltre i legami di sangue per prendersi cura di estranei, i cittadini attivi
sono "disinteressati" in quanto vanno oltre il diritto di proprietà per
prendersi cura di beni che sono di tutti. In entrambi i casi, si tratta di
un'evoluzione quanto mai positiva della specie umana, che dimostra in tal
modo di saper uscire dalla ristretta cerchia familiare e dall'individualismo
proprietario per aprirsi al mondo.
WELFARE GENERATIVO
«Raccogliere e redistribuire», le idee guida che hanno ispirato il welfare
redistributivo, cioè le politiche pubbliche di inclusione sociale da Bismarck
a Beveridge, sono state innovative nei contesti storici e sociali in cui sono
nate e in cui sono state implementate. In una realtà complessa come
quella attuale sono inadeguate e superate. Come cambiare strategia,
passando da un welfare redistributivo a un welfare generativo?
Condizione necessaria è muovere «dalla logica del costo a quella del
rendimento», passare dall’enfasi sul valore consumato a quella sul valore
generato. Significa superare "l’amministrazione senza rendimento", con
soluzioni capaci di trasformare le risorse a disposizione, puntando
sull’innovazione delle risposte e non solo sul loro efficientamento. Si
tratta di passare dal welfare attuale che raccoglie e redistribuisce a un
welfare che, oltre a raccogliere e a redistribuire, rigenera le risorse,
facendole rendere, grazie alla responsabilizzazione legata a un nuovo
modo di intendere i diritti e doveri sociali.
SECONDO WELFARE: CHE COSA VUOL DIRE?
Per cercare una risposta all’interrogativo, occorre guardare al di là del
perimetro strettamente pubblico, indirizzando l’attenzione verso il
mercato e la società e soprattutto verso nuove forme di intreccio,
collaborazione e sinergia fra questi due ambiti – nonché, spesso, fra
questi e il settore pubblico. A queste nuove forme di protezione (e
investimento) sociale abbiamo scelto di dare il nome di secondo welfare.
L’aggettivo «secondo » ha una duplice connotazione: temporale- si tratta
di forme che s’innestano sul tronco del «primo» welfare, quello edificato
dallo Stato nel corso del Novecento, soprattutto durante ilTrentennio
Glorioso 1945-1975; funzionale- il secondo welfare si aggiunge agli
schemi del primo, integra le sue lacune, ne stimola la modernizzazione
sperimentando nuovi modelli organizzativi, gestionali, finanziari e
avventurandosi in sfere di bisogno ancora inesplorate (e in parte
inesplorabili) dal pubblico. Soprattutto, il secondo welfare mobilita risorse
non pubbliche addizionali, messe a disposizione da una vasta gamma di
attori economici e sociali.
IL WELFARE AZIENDALE. Le dodici aree del welfare aziendale.
1.Previdenza integrativa
2.Servizi di assistenza
3.Conciliazione vita e lavoro, sostegno ai genitori
4.Formazione per i dipendenti
5.Cultura e tempo libero
6.Sicurezza e prevenzione degli incidenti
7.Sanità integrativa
8.Polizze assicurative
9.Sostegno economico ai dipendenti
10.Sostegno all’istruzione di figli e familiari
11.Sostegno ai soggetti deboli e integrazione sociale
12.Welfare allargato alla comunità
il welfare aziendale è nato come l’insieme di misure e pratiche di cura e
integrazione che riguardano il personale di un’impresa. Ma
progressivamente un numero sempre crescente di imprese sta
dimostrando che tali pratiche possono coinvolgere sia i dipendenti
dell’impresa sia la dimensione extra-aziendale (attraverso la
Responsabilità Sociale d’Impresa, la compatibilità sociale, la sostenibilità
ambientale). Il welfare aziendale è in ascesa, sia per la crescente
educazione/sensibilizzazione dei cittadini consumatori alle tematiche
sopra citate, sia grazie ad alcuni provvedimenti normativi introdotti negli
ultimi anni a livello europeo e nazionale.
Che cos’è la Comunità
la Comunità come un sistema umano complesso e dinamico, di
dimensioni variabili, nel quale i singoli individui condividono il medesimo
contesto spaziale (ossia il territorio, i luoghi, le risorse naturali); il
medesimo contesto temporale (ossia una storia comune); gli stessi
fondamenti culturali, costituiti dalla storia, lingua, sistemi simbolici, riti,
miti, arti, giochi; i sistemi di regolazione della convivenza civile, come le
norme, i valori etici, il livello di capitale sociale, le strategie di
sopravvivenza; il comune senso, di appartenenza, di solidarietà, di
reciproco riconoscimento.” Secondo la maggior parte degli studiosi, due
sono gli elementi principali che caratterizzano la comunità: quello
SPAZIO-TEMPORALE (luogo, territorio, ambiente naturale e/o costruito, il
tempo in senso diacronico e sincronico) e quello PSICOLOGICO (“l’insieme
dei rapporti di interdipendenza che sorgono e si sviluppano in una
pluralità di individui legati da una certa unità di aspirazione.”). In certi
casi, l’elemento spaziale è sostituito dal senso di APPARTENENZA AL
GRUPPO DI AFFINI (ad esempio, nel caso dei rom o dei gruppi migranti o
delle comunità professionali). In altre situazioni, si verifica un eccesso di
investimento sul concetto di “COMUNITÀ TERRITORIALE” (ad esempio,
l’invenzione della “Padania”, e le altre forme di localismo). Il SENSO di
COMUNITA’ è innanzi tutto una PERCEZIONE relativa alla qualità delle
relazioni all’interno di un contesto definito e chiamato COMUNITA’. E’
quindi un SENTIMENTO SOGGETTIVO E COLLETTIVO che fa sì che un
individuo si senta parte di un insieme significativo e che una collettività
riconosca il singolo come proprio componente.
Il capitale sociale di una comunità è l’insieme di: legami affettivi e
relazionali, senso di appartenenza, durata delle relazioni, soddisfazione,
pre-occupazione verso il contesto, risposte istituzionali ai bisogni e ai
problemi, presenza di associazioni e gruppi informali, riconoscimento
degli altri, riconoscimento del vicinato, momenti di socialità condivisa,
amicizie, fiducia, sicurezza, comunicazione, affidabilità, in altre parole:
CULTURA.
Mary Richmond, l’attivista e scienziata sociale che nel 1915, riferendosi al
case-work, definì il Servizio sociale professionale come “l’arte di svolgere
servizi diversi per e con persone diverse, cooperando con loro a
raggiungere il miglioramento loro e della società”. Molto più di recente e
in Italia, Elena Allegri ha riflettuto sulla duplice dimensione della nostra
professione: «Si profila […] un tipico dilemma etico del servizio sociale,
trasversale a tutte le dimensioni che lo compongono (teorica,
metodologia, epistemologica): il compito dell’assistente sociale è quello
di aiutare l’individuo a superare la propria condizione di difficoltà
seguendo una logica di progressivo adattamento, oppure quello di
costruire, insieme ad altri attori, le condizioni sociali che garantiscano a
tutti i cittadini pari condizioni di opportunità e benessere?».
il group work e la community care hanno radici antiche nella nostra
professione.
Titolo II PRINCIPI
6. La professione è al servizio delle persone, delle famiglie, dei gruppi,
delle comunità e delle diverse aggregazioni sociali per contribuire al loro
sviluppo; ne valorizza l’autonomia, la soggettività, la capacità di
assunzione di responsabilità; li sostiene nel processo di cambiamento,
nell’uso delle risorse proprie e della società nel prevenire ed affrontare
situazioni di bisogno o di disagio e nel promuovere ogni iniziativa atta a
ridurre i rischi di emarginazione.
Titolo IV RESPONSABILITÀ DELL’ASSISTENTE SOCIALE NEI CONFRONTI
DELLA SOCIETÀ.
36. L’assistente sociale deve contribuire alla promozione, allo sviluppo e
al sostegno di politiche sociali integrate favorevoli alla maturazione,
emancipazione e responsabilizzazione sociale e civica di comunità e
gruppi marginali e di programmi finalizzati al miglioramento della loro
qualità di vita favorendo, ove necessario, pratiche di mediazione e di
integrazione.
Cosa dobbiamo leggere, quindi, di una “Comunità”
La Comunità deve essere letta, cioè compresa e decodificata, almeno
dalle seguenti prospettive:
-Territorio
-Demografia
-Attività produttive
-Servizi
-Istituzioni
-Cultura/Storia
-Comportamenti/ valori
-Psicologia
Chi può leggere una “Comunità”
“Le professioni coinvolte nella prevenzione sono tutte quelle il cui
contenuto relazionale è significativo, e che operano nei territori che gli
utenti della prevenzione frequentano: non solo dunque tutti gli operatori
sociali e sanitari; ma anche gli insegnanti e i dirigenti scolastici; i
funzionari pubblici, i sacerdoti, i sindacalisti; gli operatori del tempo
libero, dello spettacolo, della cultura, dello sport e del turismo; i gestori di
pubblici esercizi; i dirigenti e gli operatori del volontariato organizzato e
dell’associazionismo.” L’equipe minima di promozione e coordinamento
di un Progetto di prevenzione dovrebbe vedere la presenza di una o tutte
e tre queste figure: Il SOCIOLOGO, lo PSICOLOGO DI COMUNITÀ,
l’ASSISTENTE SOCIALE, l’ANIMATORE, l’EDUCATORE, il GIORNALISTA. Le
altre figure sono parziali o accessorie. Ciò che va affermato con forza è
che la PREVENZIONE è un processo difficile, tortuoso e faticoso che può
avere successo solo se guidato da mani professionali. La presenza di uno
psicosociologo, un’assistente sociale, un animatore non sono garanzie di
efficacia ma certo ancor meno lo sono la presenza di semplici uomini di
buona volontà.
EMPOWEREMENT.
L’empowerment è un processo dell’azione sociale attraverso il quale le
persone, le organizzazioni e le comunità acquisiscono competenza sulle
proprie vite, al fine di cambiare il proprio ambiente sociale e politico per
migliorare l’equità e la qualità di vita. “L’empowerment è un processo
dell’azione sociale attraverso il quale le persone, le organizzazioni e le
comunità acquisiscono competenza sulle proprie vite, al fine di cambiare
il proprio ambiente sociale e politico per migliorare l’equità e la qualità di
vita.”
LAVORARE CON LA “Comunità”: dalla COMMUNITY CARE .
la “community care” è costituita da “una varietà di interventi, uniti dalla
caratteristica di essere, con gradi diversi, extraistituzionali. L’estensione
attuale del concetto di care comunitario abbraccia tutte le attività di care
che sono realizzate nell’ambito della comunità sociale: da parte dei
servizi territoriali in essa insediati, nei contesti domiciliari <assistiti> da
una diversa organizzazione dei servizi formali, e nell’assunzione diretta di
responsabilità e competenze di intervento da parte delle reti sociali
primarie <naturali> e volontarie”.
ECONOMIA SOCIALE
Povertà
La persona povera è quella che non ha le capacità materiali, di salute, di
cultura o libertà tali da potersi permettere di raggiungere una qualità di
vita che essa giudica dignitosa per se stessa. In termini oggettivi sarà
possibile identificare i livelli di reddito minimo sufficiente a raggiungere
quei livelli di capacità minimamente accettabili.
Povertà (relativa e assoluta)
Secondo la definizione della Banca Mondiale, la povertà assoluta può
essere definita come “la condizione di persone che non possono contare
su un reddito giornaliero superiore ad uno (povertà estrema) o due
(povertà assoluta in senso proprio) dollari pro-capite. La povertà assoluta
può essere ridotta non solo con la crescita del reddito medio, ma anche
attraverso delle politiche volte ad ottenere il riequilibrio sociale, ossia la
riduzione della distanza economica tra le classi più ricche ed il resto della
popolazione. Il concetto di povertà relativa riguarda, invece, la
disuguaglianza distributiva del reddito di una popolazione e tra paesi
diversi e rappresenta la più grave minaccia alla democrazia e alla pace tra
i popoli; se nel tempo (dal 1950 al 2000) la popolazione povera nel mondo
è diminuita in peso percentuale, ovvero si è assistito ad una riduzione
percentuale della povertà assoluta, prendendo in considerazione il
concetto di povertà relativa si verifica l’esatto contrario, in quanto tra il
1960 e il 2000 l’andamento della distanza economica tra ricchi e poveri è
di segno positivo e il fattore di disuguaglianza è quasi raddoppiato.
MICROECONOMIA
“Ambito delle Teorie economiche che studia il comportamento dei singoli
operatori economici, ossia il consumatore, il lavoratore, il risparmiatore,
l’imprenditore, il capitalista. essa esamina i problemi economici di questi
Attori.
MACROECONOMIIA
Studia le relazioni economiche intercorrenti fra i diversi Attori e i diversi
Ambiti dell’Economia (come il reddito nazionale, il consumo, il risparmio,
il debito, l’investimento, l’importazione, l’esportazione, ecc.)
Per bisogno intendiamo quella sensazione di insoddisfazione che
l’individuo avverte in ogni momento della sua vita e che diventa rilevante
soltanto in quanto esistono beni capaci di rimuoverla. Quindi il benessere
è, al contrario, la sensazione di soddisfazione dei principali bisogni
personali e ambientali. Nelle economie classiche il benessere si misura
con l’indicatore del PIL.
CHE COS’È L’ECONOMIA SOCIALE.
Con questo concetto si identifica un gruppo di soggetti socio-economici
che operano perseguendo un obiettivo differente dal mero profitto (sono
dunque senza scopo di lucro) e che nel loro agire sono mossi da principi
quali la reciprocità e la democrazia.
«SOCIALE» perché:
1. Vi è una parità sostanziale tra tutti coloro che prendono parte alle
decisioni in ambito economico; di conseguenza, sociale è l’economia
formata da imprese nelle quali è assicurata la partecipazione democratica
di tutti coloro che in esse lavorano (ad esempio, l’impresa cooperativa).
2. È costituita dall’insieme di quelle organizzazioni il cui principio
fondativo non essendo la massimizzazione del profitto, ma il principio di
reciprocità, sono capaci di produrre beni e servizi che, né l’economia for
profit né l’economia pubblica, sarebbero in grado o avrebbero interesse
a produrre. Secondo tale prospettiva di discorso, l'economia sociale
verrebbe allora a corrispondere al terzo settore.
3. È un modo di concepire l'economia secondo cui il benessere prodotto
tende ad includere, virtualmente, tutti i cittadini e dunque sociale
sarebbe l’economia che si pone come obiettivo primario quello di
correggere le distorsioni, sul piano distributivo, generate dal mercato.
È questa l'accezione fatta propria dal celebre modello tedesco di
"economia sociale di mercato".
Caratteristica comune a tutte le organizzazioni dell'economia sociale:
sono tutte organizzazioni di persone che svolgono un'attività il cui scopo
principale è quello di soddisfare i bisogni degli individui piuttosto che
remunerare gli investitori di capitale.
In base alla suddetta definizione, le caratteristiche comuni alle imprese
dei due sotto-settori dell'economia sociale sono le seguenti:
1) sono private, ossia non formano parte del settore pubblico o non sono
controllate da esso;
2) presentano un'organizzazione formale, ossia sono generalmente
dotate di personalità giuridica;
3) sono dotate di autonomia decisionale, ossia hanno il pieno potere di
scegliere e revocare i loro organi direttivi e di controllare e organizzare
tutte le attività degli stessi;
4) sono caratterizzate dalla libertà di adesione, ossia non è obbligatorio
aderirvi;
5) l'eventuale distribuzione di utili o dell'avanzo di gestione ai soci utenti
non è proporzionale al capitale o alle quote versate dai soci, ma alle loro
attività od operazioni con l'organizzazione;
6) svolgono un'attività economica a tutti gli effetti per soddisfare le
esigenze di singoli individui o nuclei familiari, ragion per cui vengono
considerate organizzazioni di persone e non di capitale. Operano quindi
con il capitale e altre risorse non monetarie, non per il capitale;
7) sono organizzazioni democratiche. A parte alcune organizzazioni di
volontariato che prestano servizi non commerciali per le famiglie, le
organizzazioni di primo livello (o primo grado) dell'economia sociale
applicano il principio "una persona, un voto" nei loro processi decisionali,
indipendentemente dal capitale o dalle quote versate dai soci. In ogni
caso, esse adottano sempre processi decisionali democratici e
partecipativi. Anche le organizzazioni degli altri livelli sono strutturate in
modo democratico: i soci hanno il controllo di maggioranza o esclusivo
del potere decisionale all'interno dell'organizzazione.
QUANDO NASCE L’IDEA DI ECONOMIA SOCIALE?
ADAM SMITH, OTTO VON BISMARK, VILFREDO PARETO, FRIEDRICH,
ENGELS, KARL MARX, DAVID RICARDO, LORD W. BEVERIDGE,
FRANKLIN, DELANO ROOSVELT, KARL POLANY, JOHN MAYNARD
KEYNES.
Delle lacune e dei malfunzionamenti dei sistemi capitalisti, ma anche di
quelli statalisti, se ne accorgono diversi scienziati. Uno fra tutti è Karl
Polany, un sociologo e storico ungherese, che successivamente sarà
ricordato come uno dei padri fondatori dell’antropologia economica.
Quali sono i principali messaggi di Polany? Innanzi tutto quello di aver
“declassato” l’economia dallo status di totem delle società moderne a
quello di comportamento umano, quindi perfettibile in ogni momento. In
particolare, a partire dal primo dei suoi testi fondamentali, La grande
trasformazione, del 1944, egli mette in crisi il principio di base
dell’economia secondo il quale tutto ha un costo e un beneficio, compresi
valori e conquiste sociali come la sanità, l’istruzione, la cultura e l’arte.
Peraltro, non sempre i costi di questi valori sono compatibili con la
“convenienza” e con gli equilibri economici: da settori della vita civile,
individuale e collettiva, essi diventano “capitoli di spesa”, che presentano
esigenze di rigore ed economicità. Secondo Polany, quindi, l’economia di
mercato non è più solo il luogo efficiente nel quale scambiare merci, ma
diventa una politica, una morale, un sistema di valutazione della vita
pubblica e di quella privata. Nel decennio ’50-’70, infatti, si cominciano a
registrare le crisi dei modelli di sviluppo comunisti e Polany attribuisce sia
al comunismo sia al capitalismo una falla comune: entrambi, per ragioni
opposte, poggiano sul determinismo economico e considerano la libertà
umana solo una sovrastruttura. Egli fa ricorso agli studi antropologici
classici e ne deduce che “la paura della fame” che spinge gli uomini al
lavoro nelle società industriali, diminuisce clamorosamente presso altre
organizzazioni sociali, come quelle liberoscambiste, dove i valori primari
sono rappresentati dalla fiducia, la solidarietà, la parentela, ecc. Egli,
quindi, individua fra Stato e Mercato una terza entità, come fattore
centrale e di equilibrio fra i primi due: la società (oggi diremmo la
comunità) che, infatti, non potrà mai completamente cedere alle
ideologie secondo cui il denaro viene prima – o per ultimo – rispetto a
tutto il resto.
MODELLI DI ECONOMIA SOCIALE
CRITERI PER UN MODERNO MODELLO ECONOMICO SOCIALE
ACCESSIBILITA’ =PARI OPPORTUNITA’ (generi, generazioni, classi socio-
economiche,…) In un’economia fondata sull’accesso, il buon esito
dell’impresa dipende meno dal singolo scambio di beni e più dalla
capacità di creare una relazione commerciale a lungo termine. Ne è un
esempio il mutamento del rapporto fra beni e servizi: nell’era industriale,
l’enfasi veniva posta sulla vendita di beni e l’offerta di garanzie di
assistenza gratuita veniva considerata un semplice incentivo all’acquisto;
oggi il rapporto è invertito. Un numero sempre crescente di imprese è
disposto a regalare i propri prodotti, nella speranza che questo serva a
stabilire una relazione duratura con il cliente. Nel nuovo mondo i mercati
cedono il posto alle reti, i venditori e i compratori ai fornitori e agli utenti,
e il godimento di qualunque bene si può ottenere attraverso l’accesso.
SOSTENIBILITA’- ECO-AMBIENTALE. Con il ridimensionamento del lavoro
sul mercato e la diminuzione dell’importanza della funzione dei governi
centrali negli affari quotidiani del popolo, l’economia sociale rappresenta
l’ultima speranza di costruire una struttura istituzionale alternativa per
una civiltà in transizione. Le battaglie più notevoli vinte da VANDANA
SHIVA, sono state contro le multinazionali che avevano ottenuto i brevetti
del neem, del riso Basmati e del frumento Hap Nal. CARLIN PETRINI di
Slow Food conta piu’ di 100mila membri e sostenitori che in piu’ di 150
Paesi difendono le tradizioni culinarie locali, sostengono la biodiverstà,
lottano contro lo spreco di cibo e promuovono prodotti alimentari
artigianali di qualità”.
COMPATIBILITA’- ETICA, STORICOCULTURALE, EQUITA’ SOCIALE.
l’economia del benessere può essere sostanzialmente arricchita dal
prestare una maggiore attenzione all’etica, e che lo studio dell’etica può
anch’esso beneficiare da un più stretto contatto con l’economia. Ho
anche sostenuto che anche l’economia predittiva e descrittiva può essere
aiutata facendo un maggiore spazio alle considerazioni circa il benessere
sociale nella determinazione del comportamento.”
ECONOMIA SOCIALE
Distribuzione/redistribuzione
Nelle politiche, nei programmi e negli interventi di welfare, la
distribuzione è la diffusione/condivisione di beni, servizi e prestazioni
mirati al benessere della maggior parte possibile della popolazione.
Invece la re-distribuzione attiene al controllo che tali beni, servizi e
prestazioni siano effettivamente accessibili, sostenibili e compatibili:
correttamente fruiti dai beneficiari.
Lo strumento ideale per evitare una spirale di disuguaglianza senza fine e
per riprendere il controllo della dinamica in corso sarebbe un’imposta
mondiale progressiva sul capitale: uno strumento che avrebbe anche il
merito di produrre trasparenza democratica e finanziaria sui patrimoni,
condizione necessaria per una regolazione efficace del sistema bancario e
dei flussi finanziari internazionali. L’imposta sul capitale aiuterebbe a far
prevalere l’interesse generale sugli interessi privati, salvaguardando
l’apertura economica e le forze della concorrenza.
Quindi, anche perché le Banche Centrali hanno dimostrato di svolgere un
compito indispensabile di garanzia e tutela, si reclama sempre più e da
più parti il “RITORNO DELLO STATO”, con ruoli, obiettivi, funzioni,
interventi, mai pensati prima (si veda l’esempio della crisi degli anni
Trenta). Lo STATO deve, quindi, riprendersi la funzione di:
. Fissare le regole economiche (non solo prelevare le imposte!)
. Intervenire come produttore e detentore di capitale
. Finanziare servizi pubblici e redditi per le diverse inattività
. Garantire l’UGUAGLIANZA ASSOLUTA della salute e dell’istruzione
. MODERNIZZARE LO STATO SOCIALE E NON SMANTELLARLO
. Fissare le regole per la piena meritocrazia
I Dieci Principi di Crescita Intelligente
1. La terra deve essere soggetta a usi misti. Ogni quartiere deve avere un
insieme di case, di negozi al dettaglio, di imprese e di opportunità
ricreative.
2. Bisogna costruire quartieri ben progettati. I residenti devono poter
scegliere di vivere, lavorare, fare shopping e giocare nelle immediate
vicinanze, mentre le persone devono poter accedere facilmente alle
attività quotidiane. Devono essere supportate le imprese locali.
3. Devono essere assicurati diversi mezzi di trasporto. I quartieri devono
avere un'infrastruttura sicura per permettere ai cittadini di muoversi a
piedi e in bicicletta, oltre che in auto.
4. Devono essere create diverse opportunità abitative. Le persone
devono potersi permettere una casa nel quartiere che più preferiscono a
prescindere dall’età e dal livello di reddito.
5. E’ necessario incoraggiare la crescita delle comunità esistenti. Gli
investimenti in infrastrutture (come strade e scuole) devono essere
utilizzati in modo efficiente.
6. Bisogna preservare gli spazi aperti, le bellezze naturali e le aree
ecologicamente più sensibili. Lo sviluppo deve rispettare le caratteristiche
proprie del paesaggio naturale ed avere alto valore estetico, ambientale e
finanziario.
7. E’ fondamentale la tutela e la valorizzazione dei terreni agricoli.
8. Devono essere utilizzate infrastrutture più funzionali e meno costose.
La bioedilizia può infatti incidere positivamente sui costi e sull'ambiente
nel lungo periodo.
9. Deve essere favorita un’unica identità di quartiere.
10. Bisogna favorire l’impegno da parte dei cittadini. Cittadini impegnati
in maniera attiva nella comunità sono in grado di prendere parte al
processo decisionale.
Tali principi, alla base della New Economy, mirano in sostanza a garantire
che la crescita sia fiscalmente, ecologicamente e socialmente responsabile
e valorizzi sempre di più i legami tra lo sviluppo economico e la qualità
della vita.
Se per “Economia sociale” si intende un gruppo di soggetti
socioeconomici che operano perseguendo un obiettivo differente dal
mero profitto (sono dunque senza scopo di lucro) e che nel loro agire sono
mossi da principi quali la reciprocità e la democrazia, tali “soggetti” non
possono che essere gli Enti di Terzo Settore.
COSA SONO GLI ETS
DECRETO LEGISLATIVO 3 luglio 2017, n. 117. Codice del Terzo settore, a
norma dell’articolo 1, comma 2, lettera b), della legge 6 giugno 2016, n.
106. ETS sono Attori del Mercato che producono reddito.
IL “CAPITALE SOCIALE”
Il termine “capitale” di solito è associato agli strumenti per la produzione.
Però, verso il 1990 il politologo Robert Putnam suggerì una forma meno
tangibile di capitale, fatta di connessioni sociali, affermando che anche le
reti sociali fossero importanti per l’economia. Proprio come un cacciavite
(capitale fisico) o un’istruzione universitaria (capitale umano) aumentano
la produttività, così fanno i contatti sociali, influenzando la produttività
degli individui e dei gruppi. Le interazioni sul lavoro, in una comunità o nel
tempo libero si possono considerare “capitale sociale”. Le reti sociali
aiutano gli individui a migliorare le loro abilità, ad avanzare nella carriera
e aumentano la produttività incoraggiando la cooperazione e la
condivisione delle informazioni. Quando invece queste connessioni si
riducono, l’economia ne risente. cercando di accompagnare lo svantaggio
economico verso l’inclusione e l’integrazione, l’assistente sociale riesce a
mettere in moto una quota di capitale assolutamente dimenticata dalla
società che rischia di non essere mai attivata da nessun altro Attore del
Mercato.
LA FINANZA “ETICA”
Il Premio Nobel per l’Economia Amartya Sen è stato il primo studioso ad
introdurre il problema del rapporto fra Economia ed Etica. Egli sostiene
che al valore della ricchezza, la quale rimane sempre un elemento base
del mercato, debba essere aggiunta anche la felicità, che è un concetto
diverso dal benessere. Una persona è più ricca di un'altra quando è più
felice ed ha ottenuto una migliore qualità della vita. La qualità della vita
diviene quindi una variabile algebrica nei calcoli economici. Il mercato è
vero mercato quando non produce solo ricchezza ma soddisfa anche
attese e valori etici. Il risparmiatore diviene così controllore delle
conseguenze non economiche degli atti e delle azioni economiche.
ECONOMIA VS DISUGUAGLIANZE: Anthony Atkinson
Anthony Atkinson (1944-2017), economista, intellettuale e studioso di
punta della disuguaglianza e dell’economia del benessere, morto all’alba
del nuovo anno, ad Oxford, ci ha aiutato, più di chiunque altro a, “capire
come misurare, analizzare e contrastare povertà e disuguaglianza. Tutta
la sua vita professionale è stata contraddistinta dall’esigenza di tradurre
l’analisi economica in dibattito pubblico e prassi politica.“ Nel suo ultimo
libro “illustra un pacchetto di misure concrete per ridurre le
disuguaglianze che abbraccia tutti i campi dell’azione dei governi, dagli
investimenti pubblici alle politiche per l’innovazione, dalla garanzia di un
rendimento minimo per gli investimenti dei piccoli risparmiatori alle
politiche redistributive di reddito e ricchezza.” Il Forum Disuguaglianza e
Diversità si ispira profondamente ai principi e all’eredità intellettuale di
Anthony Atkinson.
I FONDI EUROPEI, NAZIONALI E REGIONALI … NEL PRPS
ETS = ENTI TERZO SETTORE
FGSA = FONDO GLOBALE SOCIO-ASSISTENZIALE
FNA = FONDO NAZIONALE PER LA NON AUTOSUFFICIENZA
FNPS = FONDO NAZIONALE PER LE POLITICHE SOCIALI
FSE = FONDO SOCIALE EUROPEO
LEA = LIVELLO ESSENZIALE DI ASSISTENZA SANITARIA
LEP = LIVELLO ESSENZIALE DI PRESTAZIONE SOCIALE
PAC = PIANI DI AZIONE E COESIONE
PAI = PROGETTI ASSISTENZIALI INDIVIDUALI
PON = PROGRAMMA OPERATIVO NAZIONALE
POR = PROGRAMMA OPERATIVO REGIONALE
ReD = REDDITO DI DIGNITA’ REGIONALE
ReI = REDDITO DI INCLUSIONE NAZIONALE
SIA = SOSTEGNO INCLUSIONE ATTIVA
UdO = UNITA’ DI OFFERTA
Il SIA del Governo
Linee guida per la predisposizione e attuazione dei progetti di presa in
carico del Sostegno per l’inclusione attiva (SIA)
Indice
1. Introduzione
2. Servizi di segretariato sociale per l’accesso e servizio
professionale per la presa in carico
3. Collaborazione in rete con le amministrazioni competenti in
materia di servizi per l’impiego, tutela della salute, formazione e
istruzione e altri soggetti privati
4. Progetti personalizzati
4.1 Preassesment
4.2 Equipe multidisciplinare per l’attuazione del progetto
4.3 Assessment
4.4 Progettazione
5. Interventi
6. Governance

Il RED della Regione Puglia


LEGGE REGIONALE 14 marzo 2016, n. 3 “Reddito di dignità regionale e
politiche per l’inclusione sociale attiva”.
DISPOSIZIONI GENERALI
Art. 1 Principi
1. La Regione Puglia promuove una strategia complessiva di contrasto al
disagio socioeconomico, alle povertà e all’emarginazione sociale,
attraverso l’attivazione di interventi integrati per l’inclusione sociale attiva,
REGOLAMENTO REGIONALE 23 giugno 2016, n. 8
Legge regionale 14 marzo 2016, n. 3 recante la disciplina del “Reddito di
dignità regionale e politiche per l’inclusione sociale attiva”. Regolamento
attuativo della legge regionale, ai sensi dell’art. 44 della l.r. n. 7/2004 come
modificato dalla l.r. n. 44/2014. Articolo 1 (Ambito di applicazione)
1. II presente regolamento disciplina l’attuazione della Legge Regionale 14
marzo 2016, n. 3, “Reddito di dignità regionale e politiche per l’inclusione
sociale attiva”, di seguito nominata legge regionale
A LIVELLO LOCALE: IL PIANO DI ZONA (ART. 19 LEGGE 328/200)
Nel quale si cerca di integrare a livello locale le diverse politiche (dirette e
prossime) orientate al welfare e il sistema dei servizi sociali con:
- Le politiche abitative; -
Le politiche comunitarie;
- Le politiche per il lavoro;
- Le politiche per l’istruzione;
- Le attività sperimentali in favore dei minori (ad esempio progetto PIPPI)
LA RICERCA SOCIALE ED ETNOGRAFICA
A CHE SERVE LA RICERCA SCIENTIFICA SOCIALE:
1. CONOSCERE I FENOMENI
2. DESCRIVERLI A COLORO CHE NON LI CONOSCONO (O CHE NE DANNO
SPEGAZIONI FUORVIANTI)
3. PREVEDERE LE CONSEGUENZE PRODOTTE DAGLI STESSI FENOMENI
4. PROGETTARE PER CAMBIARE LO STATO DELLE COSE

PRINCIPALI TIPOLOGIE DI RICERCA


• RICERCA TEORICA O COMPILATIVA: Raccolta di documenti, testi della
letteratura sul tema, normative. Sintesi dei principali contenuti relativi
all’oggetto della ricerca. Report di sintesi
• RICERCA APPLICATA (A-TEORICA): Cerca di fare a meno delle teorie,
perché si ritiene che il fenomeno sia sufficientemente conosciuto. Ci si
muove solo a livello empirico, raccogliendo informazioni nei diversi
contesti di osservazione. Può produrre risultati contrastanti a seconda dei
contesti: è il caso dei sondaggi elettorali o delle indagini sulla “qualità della
vita”.
• RICERCA STANDARD: C’è una Teoria assunta come valida in partenza,
dalla quale si ricavano con passaggi logici precisi, ipotesi specifiche e
strumenti di rilevazione. Raccolta dei dati, elaborazione, risposta ai
problemi conoscitivi da cui si è partiti.
• RICERCA SECONDARIA: Consiste nell’utilizzare dati prodotti da altre
ricerche sullo stesso problema che ci interessa o su problemi simili, nel
nostro stesso territorio o nei territori confinanti oppure omogenei a quello
che ci interessa.

RICERCA QUANTITATIVA/RICERCA QUALITATIVA

NELLA RICERCA QUANTITATIVA: C’è un ampio ricorso alla statistica, è


impiegata una matrice di dati. Il «numero», da un lato è garanzia di
oggettività, ma d’altra parte è sterile e incomprensibile se non è
opportunamente «spiegato». La matrice di dati (di numeri reali) è una
tabella di m x n numeri disposti su m righe e n colonne. I numeri che
compaiono nella tabella si dicono elementi della matrice . L'importanza
delle matrici va al di là del fatto che tramite esse è possibile organizzare in
modo semplice dei dati; vengono impiegate ad esempio, oltre che in
matematica, nella statistica, ecc.
PASSAGGI METODOLOGICI DELLA RICERCA QUANTITATIVA
-DEFINIZIONE DELLA MATRICE DEI DATI
- MATRICE
-UNIVERSO/CAMPIONAMENTO: L’universo statistico di una ricerca è
l’insieme dei casi coinvolti nel problema oggetto d’indagine, con una
numerosità uguale a N;
- TECNICHE DI CAMPIONAMENTO
-IPOTESI
-INDICATORI
-VARIABILI
-QUESTIONARIO: Un questionario è un insieme strutturato di domande
“aperte” e/o “chiuse”, poste in sequenza secondo un criterio prestabilito.
Ogni domanda corrisponde a una variabile della ricerca (oppure generale
più variabili della ricerca, se ammette risposte multiple). Ogni domanda
è, pertanto, un sistema di classificazione. Nella costruzione e nell’uso di
una domanda è necessario rispettare le regole della classificazione. Le
domande di un questionario possono
essere “aperte” o “chiuse”. Le prime si caratterizzano per l’assenza e le
seconde per la presenza di alternative di risposta pre-codificate.
L’operazione di classificazione dei casi in esame si effettua, con le
domande “aperte”, dopo la rilevazione e, con le domande “chiuse”, nel
corso della rilevazione.
-ELABORAZIONE (STATISTICA)
-DEFINIZIONE DELLA TESI (EVIDENZA SCIENTIFICA)

LA RICERCA QUALITATIVA
C’è il ricorso alla ricerca sul campo e all’osservazione partecipante.
Non c’è matrice di dati. Si usa per descrivere gli aspetti non
«oggettivamente misurabili» dei fenomeni. Si usa nelle indagini
sociologiche, etnografiche, negli studi di comunità, nelle analisi delle
organizzazioni e dei piccoli gruppi.
ESEMPI DI RICERCA QUALITATIVA
• IL LAVORO DI RICERCA SUL CAMPO (il colloquio, l’intervista)
• L’INCHIESTA SOCIALE,RASSEGNE, CENSIMENTI
• RICERCHE IN PROFONDITA’:
• LA NARRAZIONE AUTOBIOGRAFICA
• IL DOCUMENTARIO
• LE IILLNESS NARRATIIVES
• LE PATOGRAFIIE

L’’ASSESSMENT NEL SERVIZIO SOCIIALE


Raccolta di informazioni e conseguente analisi che riguarda la situazione di
una singola persona o di una famiglia. È un processo cognitivo che implica
pensare quali dati è necessario disporre. L’esito è un progetto o un atto
professionale che definisce la criticità, gli obiettivi da raggiungere e un
piano di intervento per conseguirli»
PASSAGGI METODOLOGICI DELLA RICERCA QUALITATIVA ETNOGRAFICA
1. PREPARAZIONE
2. PIANO DI LAVORO
3. INDIVIDUAZIONE DEGLI STRUMENTI E DELLE TECNICHE DI
DOCUMENTAZIONE
4. IL RAPPORTO CON IL TERRENO
5. L’OSSERVAZIONE: L’antropologia culturale ha definito una particolare
modalità dell’osservazione, l’osservazione partecipante, che si verifica
quando lo studioso è disposto a condividere luoghi, tempi, relazioni,
pratiche (materiali e immateriali) con il gruppo (o comunità) che
intende studiare.
6. L’INTERVISTA: La relazione tra intervistatore e intervistato
è una relazione sociale. In quanto relazione sociale, l’intervista è
interazione simbolica e comunicazione. L’andamento e gli esiti
dell’intervista dipendono dai processi di negoziazione che si attivano tra
intervistatore e intervistato. La relazione tra intervistatore e
intervistato. Come ogni relazione sociale, può essere
simmetrica o asimmetrica: in relazione a fattori esterni alla relazione
relativi alle appartenenze sociali e culturali (di classe economica, ceto
sociale, subcultura) degli attori; in relazione a fattori interni alla relazione,
relativi agli status e ai ruoli, alle competenze relazionali, alle competenze
comunicative degli attori. Può svolgersi, conseguentemente, all’insegna
della cooperazione oppure della competizione. Conduzione dell’intervista.
Per una conduzione ottimale dell’intervista, l’intervistatore deve: ridurre
l’asimmetria, sollecitare la cooperazione.
Per ridurre l’asimmetria deve: controllare l’influenza dei fattori che
determinano la diversità delle appartenenze sociali e culturali; adottare
strategie per annullare o contenere l’influenza dei fattori che determinano
la disparità degli status e dei ruoli, delle competenze relazionali e
comunicative.
Per sollecitare la cooperazione deve: motivare, informare, legittimare,
rassicurare, spiegare. Tipi di intervista.
E’ possibile distinguere diversi tipi d’intervista in base al diverso grado di
standardizzazione. Da un minimo a un massimo di standardizzazione
abbiamo:
• intervista libera;
• intervista guidata;
• intervista focalizzata;
• intervista con questionario non strutturato;
• intervista con questionario semi-strutturato;
• intervista con questionario strutturato.
7. LA DOCUMENTAZIONE E LA DIVULGAZIONE DEI RISULTATI

LE FASI DI UNA RICERCA QUALITATIVA


1. LA RICERCA DI SFONDO (PRELIMINARE)
Si identifica e si analizza il PROBLEMA della ricerca. Si esaminano i DATI sul
fenomeno/tema individuato. Per DATI si intende la letteratura esistente
più significativa, le normative, le statistiche.
Si circoscrive il LUOGO e si pianificano i TEMPI. Si interpellano gli ESPERTI,
sia come bibliografia (articoli, saggi, libri, ecc.), sia mediante intervista.
2. Si formula l’IPOTESI.
Si risolvono le questioni terminologiche. Valutazione delle competenze
necessarie e loro eventuale acquisizione. Aspetti interdisciplinari.
Individuazione delle tecniche di registrazione dei dati (tecniche annotative,
grafiche, audiovisive, ecc.) L’ipotesi sociologica è astratta. Per tradurla in
una traccia di ricerca, è necessario adottare concettualmente una
“scala di astrazione”, secondo il ragionamento logico-deduttivo.
Quest’ultimo è opposto al ragionamento logico-induttivo, che consente
maggiori progressi alla conoscenza.
3. LA COSTRUZIONE DEL MODELLO
Si individuano gli strumenti validi e attendibili per la rilevazione dei DATI e
per la RICERCA SUL CAMPO (la struttura dell’intervista o del
questionario, ecc.). Valutazione della RAPPRESENTATIVITÀ della
documentazione. Si procede con la RACCOLTA COMPLETA DEI DATI in
senso logico (cronologico/ accorpamentoper temi o per aspetti dei temi,
per gruppi omogenei, per dati comparabili, ecc.)
4. ORGANIZZAZIONE DEI RISULTATI
Si procede all’elaborazione dei dati. Si analizzano i risultati. Si comparano
con altre ricerche. Si sottopongono alla VERIFICA, anche con la
partecipazione di esperti. Si formula la TESI. Si decide sulle modalità di
pubblicizzazione/diffusione dei risultati.

Le storie di vita
Sono interviste che vengono condotte sulla base di una traccia più o meno
strutturata – in certi casi analoga a quella di un’intervista guidata, in altri a
quella di un’intervista focalizzata - partendo da un invito volutamente
generico, rivolto dall’intervistatore all’intervistato, a raccontare la vicenda
della propria esistenza, iniziando da un momento qualunque e seguendo
un percorso discorsivo che egli stesso può liberamente scegliere.

Il focus group
Il focus group è una tecnica di raccolta delle informazioni che coinvolge non un
intervistato soltanto, ma più persone contemporaneamente. I partecipanti al focus
group vengono invitati a discutere tra loro di un particolare argomento o insieme di
argomenti tra di essi collegati, quello o quelli che la ricerca ha interesse a «mettere a
fuoco» e ad approfondire. L’assunto su cui il focus group si basa è che
nell’interazione diretta con altre persone sia più facile far emergere ed esprimere in
modo immediato e spontaneo non solo opinioni, ma anche sentimenti, motivazioni,
riferimenti a valori, immagini di realtà e quant’altro potrebbe risultare più difficile da
esternare in un colloquio individuale con un intervistatore. Nel corso della
discussione possono verificarsi le seguenti evenienze, tutte positive dal punto di
vista del ricercatore: i partecipanti, grazie al confronto con gli altri, sono agevolati
nel definire, chiarire, approfondire e comunicare in modo articolato e coerente la
propria posizione; la particolare situazione d’interazione tra «pari» gioca a favore di
un indebolimento dei meccanismi di difesa che spesso sono a monte di sospetti,
timori, esitazioni, reticenze e, più in generale, della tendenza a non rispondere in
modo sincero e collaborativo. la discussione può sollecitare il ricordo e far affiorare
elementi che, diversamente, rimarrebbero inespressi; l’interazione con gli altri
favorisce la riflessione e l’analisi, e può stimolare l’emergere di idee nuove, di
«cose» che altrimenti non sarebbero venute in mente; il rapporto di complicità e di
reciproco sostegno tra i partecipanti aiuta ad affrontare argomenti particolarmente
delicati e imbarazzanti, riducendo in tal modo la propensione di alcuni, consapevole
o inconsapevole che sia, a dare informazioni su di sé in termini di «desiderabilità
sociale».
Capo III
Riservatezza e segreto professionale
25. L’assistente sociale deve adoperarsi perché sia curata la riservatezza della
documentazione relativa agli utenti ed ai clienti, in qualunque forma prodotta,
salvaguardandola da ogni indiscrezione, anche nel caso riguardi ex utenti o clienti,
anche se deceduti.

LA PROGETTAZIONE SOCIALE
Che cos’è un Progetto
È un insieme non divisibile di operazioni da effettuarsi in tempi definiti e con risorse
prestabilite che produce effetti verso specifici beneficiari e su un determinato
contesto.
A che serve progettare
Il Progetto (sociale) è un sistema complesso di azioni che assolve fondamentalmente
a 3 funzioni:
1. PREVENIRE/ CONTENERE/ RIDURRE / CONTRASTARE I PROBLEMI
2. GESTIRE/CURARE AZIONI POSITIVE DI CRESCITA, SVILUPPO, EMANCIPAZIONE DI
PERSONE E COMUNITA’
3. RIPRISTINARE/RECUPERARE UNA SITUAZIONE POSITIVA PREESISTENTE
Cos’è il Project Cicle Management
È un metodo di progettazione costituito da 5 fasi:
FASE 1. IDEAZIONE = idea creativa – ipotesi di progetto studio di fattibilità -
promotori e partner – obiettivi – destinatari – attività – prodotti - risultati – tempi e
luoghi
FASE 2. ATTIVAZIONE = verifica risorse umane, finanziarie e strumentali – compiti e
funzioni (chi fa cosa) – identificazione del problema e delle strategie di intervento –
ottenere un consenso allargato e chiarire la domanda della committenza
FASE 3. PROGETTAZIONE = dettaglio della idea progettuale – cronoprogramma
(Gantt) – dettaglio dei costi
FASE 4. REALIZZAZIONE = attuazione delle azioni previste contestualmente alle
attività istituzionali (gestione amministrativa, monitoraggio, promozione e
comunicazione)
FASE 5. VERIFICA = supervisione in itinere e valutazione conclusiva dei risultati
DEFINIZIONE METODOLOGICA
Si tratta, come abbiamo detto, di un dispositivo metodologico posto in atto da attori
sociali i quali, sulla base di una previsione, identificano strategie ed azioni adeguate
al raggiungimento – in dato tempo e in dato luogo – di obiettivi per i quali esistono o
sono ottenibili risorse specificamente dedicate, al fine di produrre un cambiamento
in ordine alla soluzione di problemi o alla riduzione di disagi umanamente e
socialmente rilevanti
MANAGERIALE
col termine progetto non si intenderà la sola attività di progettazione di un’opera,
design appunto, ma in esso si ingloberanno tutte quelle attività che, nel loro
insieme, costituiscono la realizzazione dell’opera stessa. Attività che vanno dalla sua
concezione originaria allo studio di fattibilità tecnico-economico, alla progettazione,
sino alla costruzione vera e propria, per giungere, in alcuni casi, anche alla messa in
funzione (chiavi in mano) e persino alla gestione dell’opera compiuta.
STORICO-CULTURALE
Opere di civiltà antiche, come le Piramidi, il Colosseo, la Muraglia cinese, gli
Acquedotti romani, sono alcuni fra i più famosi esempi di forme organizzative
complesse, che hanno richiesto la soluzione a problemi legati alla logistica, alla
manipolazione dei materiali, alla gestione della forza lavoro. Tuttavia, bisognerà
attendere i primi del 1900 perché H.L.Gantt elabori un diagramma in grado di
“calendarizzare” le attività
Il PIANO è predisposto dai livelli politico-amministrativi di un territorio, a seguito
della individuazione di un macro-problema. Non ha una durata definita ed è
generale sulla gran parte dei suoi aspetti.
Il PROGRAMMA è l’equivalente del PIANO, ma a livello più decentrato e per contesti
territoriali limitati. Può avere una durata definita ed essere più specifico del PIANO.
Il PROGETTO invece ha le seguenti caratteristiche: E’ un insieme di attività
chiaramente delimitato. Richiede un finanziamento ben definito. È finalizzato al
raggiungimento di uno o più obiettivi. È dotato di coerenza interna. Costituisce
l’unità minima della programmazione. Costituisce uno strumento operativo.
Contiene localizzazioni e decisioni sui costi e sugli effetti che produce.
nel sociale si può progettare: una RICERCA o una RICERCA-AZIONE, un INTERVENTO
specifico, un insieme di ATTIVITA’ o INIZIATIVE, un percorso di FORMAZIONE,
un’esperienza di COMUNICAZIONE pubblica, un’opera INFRASTRUTTURALE, uno
spazio di ASCOLTO – CONFRONTO DISCUSSIONE – CONSULENZA – COLLABORAZIONE
– ANIMAZIONE, ecc.
l’ETICA della progettazione sociale:
1. Servire sempre il pubblico interesse
2. Sostenere la partecipazione dei cittadini
3. Riconoscere la natura generale della programmazione
4. Ampliare le possibilità di scelta e le opportunità per i cittadini
5. Facilitare il coordinamento durante tutto il processo
6. Evitare il conflitto di interessi
7. Offrire un servizio di programmazione diligente e accurato
8. Non cercare di ottenere né offrire favori
9. Non rivelare informazioni per ottenere un guadagno
10. Garantire l’accesso agli atti
11. Assicurare la diffusione di informazioni nel corso delle fasi pubbliche del
progetto
12. Mantenere la fiducia del pubblico
13. Rispettare i codici deontologici professionali
il PROGETTO può essere elaborato solo a partire da DUE precise situazioni:
1. C’ E’ UN BANDO (AVVISO, GARA, PREMIO…) PUBBLICATO SU UNA G. U. – SIA DI
PAB, SIA DI NO PROFIT - AL QUALE POSSIAMO RISPONDERE SOLO CON
DOCUMENTAZIONE REDATTA SU APPOSITA MODULISTICA
2. NON C’ E’ UN BANDO OPPURE C’ E’ UN BANDO APERTO, ANCHE DI PRIVATI, AL
QUALE POSSIAMO RISPONDERE CON UN LIBERO PROGETTO.
DESCRIZIONE:
-TITOLO DEL PROGETTO
-PREMESSA: individuazione di una o più ipotesi di intervento, studio della normativa
di settore
-DESCRIZIONE DEL CONTESTO/ORIGINE: analisi dei bisogni del territorio/ della
comunità dalla quale ha preso l’avvio l’esigenza progettuale, raccolta dei dati utili
all’elaborazione del progetto (risultati di eventuali progetti e ricerche precedenti,
interviste al potenziale target, distribuzione ed elaborazione di questionari,
elaborazione di ipotesi progettuali), analisi della localizzazione del progetto
(dimensioni del bacino territoriale e del bacino d’utenza interessato dalle azioni,
descrizione degli immobili/strutture interessate dalle azioni, sia sul piano dello
svolgimento delle attività sia per quanto concerne eventuali strutture da recuperare
e da attrezzare per le finalità progettuali), analisi della disponibilità attuale di risorse
e di quella prevista a seguito dell’intervento progettuale, analisi della possibile
domanda/offerta dell’intervento;
-FINALITA’ E OBIETTIVI: finalità = hanno un carattere più generale ed etico;
obiettivi= singoli componenti delle finalità generali che consentono di trasferire le
idee dal macro al micro; possono essere misurati mediante gli indici di performance,
ossia tramite la descrizione di un obiettivo e la dimostrazione dell’effettiva
possibilità di realizzazione dello stesso;
- TARGET DELL’AZIONE: beneficiari diretti degli interventi, beneficiari indiretti;
-SOGGETTO PROPONENTE DEL PROGETTO: soggetto/ ente promotore, gestione e
direzione del progetto, soggetti partners in collaborazione continuata (specificare le
modalità di formalizzazione del partenariato: protocolli d’intesa, accordi di
programma, ecc.), soggetti in collaborazione estemporanea;
-DESCRIZIONE DELL’ INTERVENTO: contenuti del progetto, strategie di realizzazione,
metodologie utilizzabili per rendere fruibili i contenuti;
-PIANIFICAZIONE: durata complessiva del progetto, fasi e tempi delle singole azioni
del progetto (diagramma di Gantt)
-FORMAZIONE DEGLI OPERATORI: individuazione del numero degli operatori
coinvolti nelle attività progettuali, indicazione dei criteri di selezione degli operatori,
indicazione delle relative professionalità, indicazione del ruolo nelle attività
(progettista, coordinatore, addetto alle relazioni esterne, operatore sociale,
culturale, contabile, ecc..);
-RISORSE LOGISTICHE E STRUMENTALI: indicazione e descrizione degli ambienti nei
quali si prevede la realizzazione delle attività progettuali, elencazione e descrizione
degli strumenti già disponibili
-CARATTERISTICHE DEL PROGETTO: originalità del progetto all’interno del contesto,
innovatività dell’azione progettuale, multi/inter – disciplinarietà, benchmarking,
interistituzionalità e modalità di lavoro in rete, compatibilità e continuità con le
normative locali, regionali e nazionali, grado di coinvolgimento degli stakeholders e
di altri singoli e gruppi della comunità civile, possibilità del progetto di innescare
processi virtuosi, possibilità del progetto di produrre un risparmio economico per gli
attori nel medio-lungo periodo; valore preventivo delle azioni progettuali; chiarezza
e definizione dei ruoli della leadership, del team del progetto e dei partners.
–VALUTAZIONE: previsione degli attori della valutazione: interni al progetto, esterni
ad esso (sia di tipo istituzionale sia selezionati a campione nel contesto del target);
pianificazione iniziale della valutazione ex- ante, in itinere ed expost, con riferimento
alle modalità di verifica ed alla relativa modulistica; analisi SWOT, per
l’individuazione di punti di forza e dei punti di debolezza del progetto; valutazione
mediante un processo di benchmarking non competitivo, ossia la comparazione con
esempi di successo e la revisione di processi interni all’organizzazione a progetto
concluso.
-COSTI/ FINANZIAMENTI: indicazione del funzionario referente per la contabilità
del progetto, finanziamento complessivo richiesto, individuazione delle possibili
fonti di finanziamento, costo rapportato alle singole voci di spesa, indicazione dei
preventivi di spesa, indicazione delle modalità di rendicontazione delle voci di spesa
-MODALITA’ DI INFORMAZIONE E DI PUBBLICIZZAZIONE DELL’ESPERIENZA
PROGETTUALE E DEI RISULTATI DEL PROGETTO: individuazione di un referente
responsabile per l’informazione, indicazione delle modalità di informazione e
pubblicizzazione, individuazione dei soggetti collaboratori per questa fase
progettuale, trasferimento e diffusione del progetto dopo la valutazione
-ATTENTA E CORRETTA COMPILAZIONE DELLA MODULISTICA PREVISTA DAL
BANDO
Per fare un buon progetto PARTECIPATO, è necessario che esista un TEAM WORK
nel quale vi sia affiatamento e fiducia. Prima di elaborare un qualunque Progetto è
bene aver costituito la CABINA DI REGIA, composta da due o più persone, non scelte
a caso, ma delegate a rappresentare il Team Work. Se il TW è composto da una
partnership fra più Soggetti proponenti, è bene che la CABINA DI REGIA sia
composta da un delegato per ciascuno dei Soggetti. La CABINA DI REGIA (o
coordinamento, gruppo di pilotaggio, ecc..) rappresenta il legame interno al team:
fra il/i Soggetto/i proponente e gli Enti esterni ad esso/i; fra gli agenti e gli attori del
Progetto; gli attuatori e i beneficiari. Ecco perché coloro che compongono la CABINA
DI REGIA devono rappresentare, e non sostituire, il Team.
IL PROJECT MANAGER
Oltre alla Cabina di Regia il PM è l’Organo di coordinamento indispensabile per il
successo di ogni Progetto. In questa fase della nostra FORMAZIONE non possiamo
approfondire molto questa figura, ma è importante sapere che La figura funzionale
preposta a gestire il coordinamento del Progetto è il PROJECT MANAGER (PM). Si
tratta di una figura prettamente esperienziale, che può valere anche per un solo
progetto, chiamata a comprendere l’organizzazione e il contesto nei quali si sviluppa
il Progetto. Deve relazionarsi efficacemente con tutti gli Attori, possedere spirito
d’iniziativa, flessibilità e tolleranza allo stress e alle situazioni di incertezza.
IL BILANCIO DELLE COMPETENZE
Fondamentale in questa fase risulta anche il BILANCIO DELLE COMPETENZE che
ciascuno dei componenti del team può/deve fare per chiarire a sé stesso e agli altri
componenti del team le proprie reali CONOSCENZE – COMPETENZE – ABILITA’.
Il BDC “è un intervento che ha come finalità l’aumento di consapevolezza dell’utente
circa le proprie caratteristiche, risorse e potenzialità (personali, formative e
professionali) in vista della costruzione di un PROGETTO personale che sia
congruente, si avvalga del percorso di consapevolezza sviluppato durante il bilancio,
sia scelto in modo autonomo e pienamente responsabile dal cliente.
Obiettivi del BDC
1. Fornire supporto nella disamina critica del passato e del presente professionale
del Soggetto partendo dalla percezione del Sé e cercando di tradurre le esperienze
maturate in ambito professionale o extraprofessionale in abilità e competenze
spendibili all’interno dei contesti lavorativi;
2. Facilitare l’identificazione dei valori, delle preferenze, degli interessi e delle
aspirazioni del Soggetto;
3. Facilitare la costruzione del Progetto personale e professionale dell’individuo
inteso come negoziazione tra piano ideale e piano reale mediato dalla
revisione/integrazione tra le possibilità individuali e le possibilità contestuali.
Perché si elabori correttamente un Progetto è necessario calcolare anticipatamente
i suoi RISCHI, al fine di prevenirli, contenerli o superarli nel migliore dei modi. Per
fare questo calcolo è necessario conoscere gli elementi fondamentali del RISCHIO.
Tutte dobbiamo saper distinguere il RISCHIO dal CASO: il primo è sempre prevedibile
perché attiene all’azione umana, mentre il secondo non è prevedibile perché attiene
alla fatalità. Alcuni distinguono fra RISCHI GENERICI (ad es. i requisiti non chiari di un
bando, l’uso di prodotti non controllati o malfunzionanti, la mancanza di
comunicazione nel team) e RISCHI SPECIFICI (come i requisiti inappropriati nel
bando, fallimenti nelle tecnologie e forniture, fuoriuscite di personale, budget non
realistico). Per prevedere i primi non ci sono grandi difficoltà, ma per i secondi è
necessario un piano per la gestione del rischio. Secondo alcuni, sono: il CONTRATTO,
il PROCESSO, il PERSONALE, le TECNOLOGIE. Secondo altri esperti, il RISCHIO di un
Progetto è definito dalla probabilità di andare oltre i tempi o i costi previsti
inizialmente (Amato - Chiappi). Mentre, uno dei “classici” modelli, quello di
McFarlan, individua i fattori elementari di Rischio nelle seguenti aree: DIMENSIONE
– INNOVAZIONE – DIFFICOLTA’ TECNOLOGICA GENERALE.
cosa fare?
La Risk Analysis si avvia a diventare una vera e propria scienza, anche se fino ad oggi
rappresenta l’insieme delle conoscenze sul concetto di “Rischio” che le singole
discipline applicano specificamente ai singoli ambiti vitali. Per la stesura di un’analisi
del rischio, in estrema sintesi, il consiglio è quello di avvalersi dellaseguente mappa
concettuale:
EVENTO DANNO CONSEGUENZE FINANZIARIE

1.elusione 3. Protezione 4. assicurazione


2. prevenzione 5. trasferimento ritenzione

CHI LO FA? E COME?


Chi promuove l’analisi è il PROJECT MANAGER, figura che studieremo nello
specifico. Il PM e la Cabina di Regia riuniscono il Team all’inizio del lavoro e
procedono INSIEME ai seguenti passaggi:
1. Si identificano – in brainstorming – i principali rischi del Progetto e li si redigono in
un PIANO
2. Si valutano soggettivamente impatto e probabilità dei singoli rischi
3. Si calcola e si monitora periodicamente l’entità del rischio
4. Si associano i rischi alle attività del Progetto
5. Si collocano i rischi nel tempo
6. Si considerano le possibili strategie di gestione dei rischi ….
i Progettisti hanno un metodo davvero accessibile anche qui si tratta di una tecnica
sostanzialmente di tipo descrittivo, resa graficamente, gestita dal PM oppure da un
facilitatore presente nel team, applicabile ad un Progetto specifico. Si tratta
dell’Analisi SWOT
L’acronimo SWOT significa:
• STRENGHTS: punti di forza
• WEAKNESSES: punti di debolezza
• OPPORTUNITIES: evenienze positive
• THREATS: minacce o evenienze negative
Il processo di realizzazione dell’Analisi SWOT è molto semplice: il gruppo va in
brainstorming per ciascuna di queste aree di interesse per il Progetto e poi si
compila uno schema.

Ripensami non dimenticarlo mai ricordami dovunque tu sarai lo

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