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Montpellier, 23 settembre 2010

Antonio Padoa-Schioppa
Note sull’appello nel pensiero dei Glossatori

1. Premessa. Ritorno con queste note su un tema affrontato in anni ormai


lontani, con il proposito di indicare qui in brevi tratti di sintesi alcuni profili della
disciplina dell’appello elaborata dalle prime generazioni di giuristi della nuova
scienza di matrice bolognese, integrando così le conclusioni della mia ricerca
sull’appello nei Glossatori civilisti1.
Proprio perché l’appello è compiutamente e analiticamente disciplinato dalle
fonti giustinianee, è di particolare interesse mettere in rilievo alcuni punti nei
quali la nuova scienza del diritto si è allontanata dal modello antico ovvero lo ha
integrato con la proposizione di regole ulteriori, nate da questioni discusse nella
Scuola. Vorremmo identificare alcuni tra i possibili motivi di queste divergenze
dal diritto giustinianeo, richiamare alcune differenze di fondo rispetto alla ben
diversa disciplina dell’appello del coevo diritto canonico ed accennare al metodo
seguito dai dottori bolognesi attingendo ai risultati dell’indagine allora compiuta.
Anche gli spunti teorici e interpretativi proposti e in séguito abbandonati sono
rivelatori del percorso intrapreso dalla dottrina. In ciò sono prezioni i manoscritti
contenenti glosse preaccursiane, per i quali resta fondamentale l’indagine
compiuta da Gero Dolezalek2.
Dedico queste pagine alla memoria di un grande studioso, del quale oggi
onoriamo la memoria. André Gouron allo studio dei Glossatori ha dedicato con
intelligenza e passione l’intera esistenza. La sua opera, ricca di una vastissima
messe di contributi originali, resterà fondamentale per chiunque in futuro vorrà
approfondire la conoscenza di un capitolo tra i più importanti della storia del
diritto in Europa.

2. Nullità della sentenza e appello. Un primo punto sul quale il pensiero dei
Glossatori si è soffermato con acume, conseguendo risultati innovatori rispetto al
diritto antico, riguarda il rapporto tra la nullità della sentenza e l’appello. Il diritto
romano aveva sin dall’età classica stabilito la regola per la quale la sentenza
contraria alla legge (“contra constitutiones”, “contra iuris rigorem”: Dig. 49. 8. 1.
2, Macro; Cod. 7. 64. 2, a. 222-235, Alessandro Severo) deve considerarsi nulla:
l’appello pertanto non è necessario, perché nullità significa inesistenza ab
origine3.
Una glossa che una tradizione manoscritta attribuisce allo stesso
caposcuola, Irnerio, interpretò la regola in modo restrittivo: solo la violazione

1
A. Padoa Schioppa, Ricerche sull’appello nel diritto intermedio, II, I Glossatori civilisti,
Milano 1970 (d’ora innanzi: Ricerche II).
2
G. Dolezalek, L. Mayali, Repertorium manuscriptorum veterum Codicis Iustiniani,
Frankfurt am Main, 1985.
3
Per tutti, L. Raggi, Studi sulle impugnazioni civili nel processo romano, Milano 1961, pp.
11; 22; M. Kaser, Das römische Zivilprozessrecht, München 1966, pp. 394; 503. 19962

1
consapevole del diritto avrebbe determinato la nullità della sentenza, non l’errore
incolpevole del giudice4. Forse non è fuori luogo ravvisare in questa precoce
interpretazione della norma romana la traccia ancor viva di una risalente
tradizione altomedievale, che considerava l’errore del giudice essenzialmente
sotto il profilo del suo comportamento doloso, come tale anche penalmente
sanzionabile: così il diritto scritto dei Visigoti, dei Longobardi, dei Franchi5. Ma
la Glossa abbandonò poi questa opinione fondata sull’elemento soggettivo (e
come tale difficilmente accertabile) della conspevolezza del giudice, formulando
invece la tesi per la quale la nullità della sentenza si produceva soltanto in
presenza di un errore manifesto, dunque espresso nella sentenza stessa, e non
invece nel casi di un errore implicito e inespresso6. Il che riduceva di molto la
portata della nullità, se si considera il fatto che le sentenze di questa età erano di
regola non motivate7.
Un indirizzo molto diverso emerge da alcune opere di dottrina, delle quali le
ricerche di André Gouron hanno ormai convincentemente mostrato l’origine
provenzale (Valence) e la data di composizione, intorno all’anno 1150 8, mentre
un più recente scritto dello stesso Gouron ritiene di poterne indentificarne con
buona probalità l’autore nel giurista di Arles Pierre de Cabannes 9 Il Libro di
Ashburnam considera rivedibile una sentenza pur conforme alla legge “nisi aliqua
causa apparuerit per quam necesse sit aliquid temperamenti inmisceri sententie” 10.
Il Libro di Tubinga non solo impone al giudice di valutare se la consuetudine sia o

4
“Cum iudex contra ius constitutionis iudicavit, distinctio est adhibenda talis, scilicet an
causam legibus iuvari scivit aut nescivit. Nam si scivit appellatio necessaria non fuit, cum
sententia non tenuit, nam in dicendo eam fraudem adhibuit […], sed si nescivit sententia tenet
[…], si altera pars non appellet; fuit enim iudicis […] bona fides” (glossa a Cod. 7. 64. 2, quando
provocare non est necesse, l. si cum inter, ed. da G. Pescatore, Die Glossen des Irnerius,
Greifswald 1888, p. 79 s.); cf. Ricerche II, p. 25. Questa tesi è fondata sull’intento di superare la
supposta contraddizione con un passo di Callistrato (Dig. 42. 1. 32), che non viene citato ma che
sicuramente è presente al glossatore: Callistrato affermava che una sentenza contrastante con le
costituzioni, ma pronunciata nella convinzione del giudice che esse non si applichino al caso
(“iudex […] non existimat causam de qua iudicat per eas iuvari”), non è nulla e pertanto è
appellabile e dunque, se non impugnata, forma cosa giudicata. In certo senso l’interpretazione
della Glossa inverte l’effetto della consapevolezza del giudice, ritenendo nulla la sentenza che per
Callistrato sarebbe stata valida; e viceversa.
5
Ci limitiamo a richiamare la Lex Visigothorum 2. 1. 21 (ed. Zeumer, MGH, Legum S. I,
1902, p. 68); Liutprando 28 dell’anno 721; e il Capitolare di Pipino del 751-755 (ed. Boretius-
Krause, MGH, Capitularia rgum Francorum, 1881, nr. 13, p. 32).
6
Per tutti, si veda la Glossa accursiana Remittitur, a Dig. 49. 8. 1. 2 quae sententiae sine
appellatione, l. illud. § item. Altri passi in Ricerche II, p. 28.
7
Sulla motivazione della sentenza nel diritto comune, F. Mancuso, Exprimere causam in
sententia: ricerche sul principio di motivazione della sentenza nell'età del diritto comune classico,
Milano 1999.
8
A. Gouron , La science juridique française aux XIe et XIIe siècles, ora in Id., Etudes sur
la diffusion des doctines juridiques médiévales, II, pp. 3-118, London 1987 (Variorum Reprints,
264). La più recente e articolata trattazione, relativa allla difficile datazione del Libro di Tubinga
e delle Petri Exceptiones, è in A. Gouron, Sur la patrie et la datation du “Livre de Tubingue” et
des “Exceptiones Petri”, in “Rivista internazionale di diritto comune”, 14 (2003), pp. 15-39, ove
una complessa serie di argomentazioni e di indizi porta lo studioso a fissare come data probabile
di composizionne delle due opere l’anno 1150.
9
A. Gouron, “Petrus” demasqué, in “Revue historique de droit français et étranger”, 84
(2004), pp. 577-588.

2
non sia “errore nata […], quia [consuetudo] multotiens veritati repugnat” 11, ma
ritiene sanzionabili le pronuncie giudiziai inficiate da errore commesso dal
giudice “per ignorantiam”12. Inoltre il prologo che alcuni manoscritti premettono
allo stesso Libro di Tubinga e che entrerà nelle Petri Exceptiones, - l’opera in cui
sono fusi i due scritti ora menzionali - contiene una celebre invettiva contro ciò
che nelle leggi risulti “inutile, ruptum, equitative contrarium”, dunque
contrastante con l’equitas: disposizioni di legge - l’autore dichiara senza
esitazione - che “nostris pedibus subcalcamus” 13. Mai un maestro bolognese
avrebbe osato scrivere e neppure pensare un’espressione del genere.
Si coglie qui un indirizzo molto particolare, quasi certamente derivato da
una contaminazione stretta della prima dottrina civilistica francese con i principî
canonistici, specie riguardo all’efficacia addirittura derogante dell’aequitas
rispetto alla legge scritta. Naturalmente queste idee portavano anche ad un diversa
e ben più ampia configurazione dell’appello, almeno in linea di principio, in
quanto non si vede come altrimenti si sarebbe potuta provare l’iniquità (distinta
dalla formale violazione della legge) che veniva ritenuta censurabile e respinta
dalla dottrina.
Non appare casuale che la Summa Codicis Trecensis – della quale, una volta
di più, le indagini di André Gouron hanno argomentato le origini francesi,
identificando persuasivamente anche il suo autore nella persona di un magister
Geraldus (Giraud) provenzale14 – estenda significativamente la portata della
norma del Codice che sanciva la nullità della sentenza contra constitutiones anche
all’ipotesi di una violazione, da parte del giudice, dello ius non scriptum15:
un’estensione che i maestri bolognesi respingeranno, forse per analoghe ragioni,
legate alla non facile prova della violazione di una consuetudine.
La conseguenza radicale della nullità, imposta dalle fonti antiche, che aveva
dalla sua una logica chiara – “quod nullum est, nullum producit effectum” –
venne messa in discussione dai Glossatori. Il primo a farlo fu l’ignoto autore del
Trattato sull’appello Superest videre, scritto probabilmente intorno al 1164, nel
quale si legge che l’interposizione dell’appello ha in taluni casi l’effetto di
convalidare una sentenza contra constitutiones16. Ma fu Azzone a compiere il
passo decisivo: mentre nella Summa Codicis era esposta la tesi tradizionale, in un
passo della Lectura Codicis il grande maestro bolognese dichiarò che qualora la
10
Libro di Ashburham, 9, ed. Mor, Scritti giuridici preirneriani, Milano 1935-38, I, pp. 23-
25.
11
Libro di Tubinga, 123, ed. Mor, Scrtti, I, p. 221.
12
Libro di Tubinga, 124, ed. Mor, I, p. 222.
13
Petri Exceptiones, Proemio, ed. Mor, Scritti, II, p. 47.
14
A. Gouron, L’auteur et la patrie de la Summa Trecensis (1984), ora in Id., Etudes sur la
diffusion des doctrines juridiques médiévales [sopra, nota 8], III, pp. 1-38.
15
Summa Trecensis, 7. 34, de sententiis, n. 4, ed. Fitting, Die Summma Codicis des
Irnerius, Berlin 1894, p. 257: “salvo auem iure tam scripto quam non scripto [iudex] statuere
debet: contra ius enim lata sententia statim infirma est”.
16
“Contingit tamen interdum sententiam contra constitutiones latam confirmari, id est cum
appellatur [..]: Trattato Superest videre, 59, ed. in Ricerche II, p. 243. Sull’interpretazione di
questo passo, Ricerche II, p. 46. Sulla data si veda uno degli ultimi scritti di A. Gouron, Sur un
casse-tête: l’Ordo “si qui de re quacumque”, in “Initium, Revista catalana d’historia del dret”, 11
(2006), pp. 107-119.

3
parte soccombente di una sentenza viziata da nullità interponesse appello con la
formula “dico sententiam ipso iure nullam, et si qua est appello”, e qualora in
conseguenza di ciò il giudice d’appello decidesse che la prima sentenza era
iniusta (anziché nulla) e che pertanto andasse riformata, ciò valeva a convalidare
la prima sentenza17, in pari tempo convalidando anche la sentenza d’appello.
Questa tesi costitusce il presupposto sul quale, più tardi, anche per
influenza della legislazione statutaria, si affermò nell’Italia dei comuni uno
specifico strumento per far valere la nullità della sentenza, la querela nullitatis,
esperibile entro termini più ampi rispetto a quello breve di dieci giorni prescritto
per interporre l’appello. Decorsi tali termini più estesi, la nullità non poteva più
farsi valere. Il superamento del concetto di nullità come inesistenza si affermerà
nel corso del tardo medioevo e sfocerà nella regola moderna che assorbe le
nullità del procedimento e gli errori di diritto nei mezzi ordinari di gravame, tra i
quali anzitutto l’appello. Uno spunto iniziale di questa evoluzione fu dunque
posto dai glossatori.

3. L’appello nelle sentenze interlocutorie. L’inappellabilità della sentenza


interlocutoria era sancita – con talune eccezioni, ad esempio in tema di tortura18 –
nelle fonti giustinanee19. Si tratta di una regola che distingue nettamente il diritto
romano dal diritto canonico classico, ove le interlocutorie erano impugnabili e le
decisioni relative, se non impugnate, passavano senz’altro direttamente in
giudicato20. Anche tra i legisti vi fu chi, nelle prime generazioni, sostenne
l’impugnabilità delle interlocutorie21, ma poi prevalse la tesi negativa espressa da
Giovanni Bassiano22, certo più fedele alle fonti.
Restava però ancora aperto un interrogativo di rilievo, se cioè le questioni
incidentali dovessero decidersi nel corso del processo o invece soltanto alla fine,
insieme con la questione principale. Piacentino sosteneva la prima tesi23, ma
furono prima Bulgaro24 e poi Giovanni Bassiano (come sempre, antagonista del
Piacentino) a far prevalere la seconda tesi. Giovanni introdusse l’importante
distinzione tra le quaestiones incidentes (relative al merito della causa: ad
esempio le questioni sullo stato delle persone) e le quaestiones emergentes
(relative allo svolgersi del procedimento, ad esempio sulla richiesta di
ammissione o di esclusione di un teste). Solo per queste ultime, a suo avviso, la
decisione doveva venire assunta in tempo reale, nel corso del processo, mentre le
17
Azzone, Lectura Codicis, Parisiis 1577, a Cod. /. 64. 1, quando provocare non est
necesse, l. datam.
18
Dig. 49. 5. 2.
19
Cod. 3. 1. 16; Cod. 1. 4. 2; Cod. 7. 65. 3.
20
Decreto di Graziano, C.2 q.6 c.18; E. Jacobi, Der Prozess im Decretun Gratiani, ZSS,
KA, 3 (1913), p. 334.
21
Ricerche II, p. 58 s.
22
Glossa di Accursio, gl. Sententia, a Cod. 7. 62. 6 pr., de appell., l. eos. Altre fonti in
Ricerche II, p. 53 s., nota 85.
23
Piacentino, Summa Codicis, Moguntiae 1536, a Cod. 3. 8 de ordine iudiciorum; Ibidem.,
a Cod. 7. 19 de ordine cognitionum. Già la Summa Codicis Trecensis era stata di questo avviso:
“ubi status questio intervenit, sive in civili sive in criminali causa, ea prius decidenda est (ed.
Fitting, Summa Codicis des Irnerius, Berin 1894, a Cod. 7. 17. de ord. cognit., 4, p. 231),
24
Ricerche II, p. 62 nota 104.

4
prime dovevano decidersi congiuntamente alla questione di fondo, dunque solo
con la sentenza definitiva25.
Il punto è rilevante, perché alle due diverse impostazioni corrispondono due
diverse visioni del processo: il processo concepito come una catena di questioni e
di decisioni distinte anche se tra loro collegate, ovvero come lo strumento per
raggiungere una decisione singola e unitaria, relativa (avrebbe detto Giuseppe
Chiovenda) ad un “bene della vita”. Anche su questo fronte i due diritti, il civile e
il canonico, differiscono tra loro.

4. L’appello nelle sentenze sul possesso. Un punto importante riguarda le


questioni contenziose sul possesso. Una costituzione postclassica dell’anno 386
stabiliva che, in deroga alla regola generale, la proposizione dell’appello avverso
una sentenza sul possesso non avesse effetto sospensivo del primo giudizio – il
quale pertanto doveva ottenere immediata esecuzione anche in pendenza
d’appello – pur mantenendosi aperta e impregiudicata la via per il giudizio
petitorio26. Stranamente i Glossatori, a partire da Bulgaro e sino alla Glossa
accursiana compresa, ritennero che il testo avesse invece vietato l’appello nelle
sentenze sul possesso. Fu una posizione unanime, appena temperata da alcune
eccezioni e limitazioni27: già Bulgaro asseriva, nel celebre primo Ordo iudiciorum
della Scuola da lui composto, che “aliquando causa non est eius momenti, ut
appellatio admitti debeat, ut de possessione momentaria” 28; e dopo di lui tutti, sino
ad Accursio. Ci si interrogò sulla ratio di questo (supposto) divieto e prevalse la
tesi di Azzone che lo giustificava asserendo che comunque sarebbe poi stata la
decisione sulla proprietà a portare chiarezza in modo più completo29.
Una svolta si ebbe soltanto con Jacopo Baldovini, l’acuto interprete
contemporaneo di Azzone di Accursio30. Come riferisce l’allievo di lui Odofredo
nella sua Lectura, Jacopo contestò l’errore comune nel quale si era incorsi
nell’esegesi del testo di Valentiniano II, e lo fece con un riferimento non molto
perspicuo alle parole ita-oportet della costituzione, avvalendosi dell’argumentun
a contrario sensu, “quod est fortissimum”. Egli per primo si avvide delle gravi
conseguenze che sarebbero derivate dal divieto d’appello, dal momento che
spesso chi soccombeva nel giudizio possessorio non aveva poi titolo sufficiente
per vincere la causa nel petitorio, sicché la sua posizione sarebbe risultata
25
Di Giovanni Bassiano si tramandano due diverse formulazioni della distinzione. La più
completa è quella conservata nel manoscritto di Napoli, Biblioteca Nazionale, ms Brancacciano
IV. D. 4, fol. 20 ra, nella quale Giovanni, pur tenendo ferma la distinzione, ritiene che anche per le
questioni emergenti la decisione immediata sia preferibile quando siano prevedibili risposte e
controdeduzioni della controparte (“si ille cui obiciebtur posset posset alteram [questionem]
movere”); forse perché in tal caso la mancata risoluzione della questione impedirebbe alla
controparte di avanzare tali risposte in tempo utile.
26
Cod. 7. 69. 1: “Cum de possessione et eius momento causa dicatur, etsi appellatio
interposita fuerit, tamen lata sententia sortiatur effectum. Ita tamen possessionis reformationem
fieri oportet, ut integra omnis proprietatis causa servetur”.
27
Sulle quali cf. Ricerche II, p. 70 s.
28
Bulgaro, De iudiciis, 11, in Wahrmund, Quellen zur Geschchte des römisch-kanonischen
Prozesses im Mittelalter, IV. 1., p. 8, Innsbruck 1925).
29
Glossa accursiana, gl. Momento a Cod. 7. 69. 1, si de momentaria possessione, l. 1.
30
Su di lui, cf. lo studio di N. Sarti, Un giurista tra Azzone e Accursio: Iacopo di Balduino
(...1210-1235) e il suo Libellus instructionis advocatorum, Milano 1990.

5
irrimendiabilmente compromessa in seguito ad una sentenza negativa di primo
grado. Pertanto secondo Jacopo l’appello doveva essere consentito, sia pure senza
effetto sospensivo31. A sua volta, negli stessi anni del primo Duecento Roffredo da
Benevento dichiarò appellabile la decisione sullo spoglio violento, per il quale
una celebre costituzione dell’anno 389 (Cod. 8. 4. 7) comminava addirittura la
perdita della proprietà32.
Come spiegare questa lettura deviata del testo romano, a lungo condivisa
dalla Scuola su un tema della massima importanza pratica, quale indubbiamente
era quello delle cause possessorie? Forse la ragione del malinteso potrebbe
ricollegarsi alla sopravvivenza nella prassi di una consuetudine radicata - risalente
al diritto dell’Italia longobarda ed attestata negli atti della pratica sin dalla fine
del secolo IX - per la quale la decisione sul possesso era sì reversibile, ma solo
entro un anno e in caso di contumacia dell’avversario, che l’aveva perduto dopo
un’investitura salva querela concessa all’attore, mentre negli altri casi al
soccombente nella causa possessoria restava soltanto la possibilità di esperire il
giudizio petitorio.

4. L’appello penale. Vi è un altro caso rilevante di deviazione della dottrina


dei Glossatori rispetto alla disciplina giustinianea. Esso riguarda l’appello nella
cause penali. Una costituzione del Codice (Cod. 7. 65. 2, di Costantino e Costanzo
II) vietava l’appello avverso le sentenze di condanna per cinque gravi reati
(omicidio, adulterio, avvelenamento, incantesimo, violenza manifesta) allorché la
condanna fosse stata pronunciata sulla base di prove inconfutabili ( “luce
clariores”) e per di più accompagnata dalla confessione del reo, che in tal modo
risultava non soltanto convictus ma anche confessus.
Le prime generazioni della Scuola si limitarono a confermare il divieto
d’appello ove entrambi i requisiti (le prove e la confessione) sussistessero33. Ma
un interessante passo del precoce Libellus de verbis legalibus dichiarò che la
confessione escludeva l’appello solo “in notoriis”, non “in occultis”, con evidente
riferimento alla distinzione canonistica accolta nel Decreto di Graziano 34; mentre
Giovanni Bassiano osservò che la confessione doveva precedere la sentenza 35. Fu
31
Odofredo, Lectura Codicis, a Cod. 7. 69. 1, Si de momentaria possessione, l. Cum, nr. 2:
“unde dominus meus Ja. Bal. ratione istius iniquitatis tollende firmiter asserebat […] posse
appellari a sententia lata super possessorio iudicio”. Si noti che il Baldovini non contesta in toto
l’esegesi corrente, ma argomenta sulla base di un’esigenza di giustizia, peraltro facendo leva sulla
parte finale della costituzione, come si è detto.
32
Roffredo, Libelli iuris civilis, p. VIII, rubr. De const. Si quis in tantam, n. 72, Lugduni
1561, p. 488.
33
Così già Irnerio, in una interessante glossa monacense: “vere victis atque confessis hoc
benficium non datur; quia etsi convicti sunt et tamen si resistendum putaverint vel terrore
tormentorum confessi, ab huiusmodi conscilio [sic: auxilio?] non excluduntur. y” (gl. Sicut enim
a Cod. 7. 65. 2 Quorum appellationes non recipiantur, l. Observare, München, Bayerische
Staatsbibliothek, ms. Clm. 22, fol. 173 va). Si noti che Irnerio ritiene ammissibile l’appello anche
se la confessione vi fu, ma estorta con la tortura, con implicito riferimennto a Cod. 7. 65. 2. 1.
34
Libellus de verbis legalibus, 35, de appellatione, 35, ed. Fitting, Juristische Schriften, p.
194 s. si noti che il passo del Libellus riproduce il dictum di Graziano post C. 2 q. 6 c. 41, ma lo
integra con un’aggiunta sua propria che spiega cosa debba intendersi per crimina ntoria: “id est in
manifestis que in noticiam aliorum iam perlata sunt”. Sul Libellus A. Gouron, Le grammarien
enragé, *** datazione del Libellus in base alla citazione di Graziano?
35
Ricerche II, p. 76, nota 150.

6
ancora Azzone ad esprimere una posizione nuova e rilevante: dichiarò infatti che
il divieto, alle condizioni stabillite nel Codice, non si limitava ai soli cinque reati
ma si doveva intendere esteso ad ogni reato: “pari equitate ad cetera [crimina]
extenditur”, perché “ubi eadem ratio, ibi idem ius”36. Inoltre lo stesso Azzone
sostenne che la confessione era di per sé sufficiente ad escludere l’appello in via
generale, per ogni sentenza penale e civile37. Ed ancora: mentre Modestino ed
Ulpiano avevano negato l’effetto sospensivo soltanto per talune categorie di rei e
di condanne penali38, già il Piacentino e poi Azzone ed Accursio intesero che per
questi reati la condanna fosse comunque inappellabile39.

6. L’appello contro il giudice delegato. Nel trattare la questione dell’appello


avveso le sentenze pronunciate dai giudici delegati il percosrso della dottrina
seguì altre vie. La difficoltà da superare era costituita qui dalla netta
contraddizione tra due testi della Compilazione, il primo dei quali (accolto nel
Digesto: Dig. 49. 3. 1. 1, Ulpiano) indicava come giudice competente a decidere
l’appello il superiore del delegante, mentre una costituzione del Codice (Cod. 7.
62. 32. 1, dell’anno 440, Teodosio II) designava come giudice ad quem il
delegante stesso. Dal momento che la Glossa non concepiva di risolvere le
contraddizioni con il criterio storico, la difficoltà fu affrontata su altre basi:
ricorrendo, come in centinaia di altri casi, allo strumento potente e risolutivo della
distinctio.
Già il glossatore Alberico distinse la delega attribuita in via generale, per
ogni causa, dalla delega ad causam, circoscritta cioè alla decisione di un singolo
caso. E sostenne che la prima dovesse comportare la competenza d’appello del
superiore del delegante “quasi delegans non reservaverit sibi iurisdictionem”,
mentre per la seconda valeva la competenza d’appello del delegante stesso 40. Ma
fu Giovanni Bassiano ad enunciare la tesi destinata ad affermarsi: pur adottando la
medesima distinzione di Alberico egli ne invertì l’applicazione, dichiarando la
competenza in appello del delegante nel caso di delega generale, e quella del
superiore del delegante in caso di delega per una singola causa41. Si può
comprendere questa inversione considerando che il potere di delega in via

36
Azzone, Summa Codicis, 7. 65 Quorum appellationes non recipiantur, nr. 4; Lectura
Codicis, a Cod. 7. 65. 2, ad verbum Maleficium; altre indicazioni in Ricerche II, p. 78 s., note 157
e 157.
37
Azzone, Lectura Codicis, a Cod. 4. 1. 12 De rebus creditis et iureiurando, l. Generaliter,
nr. 7: “ et est generale, ne aliquis appellet ab eo ad quod [ed.: quem] ex consensu suo pervenit:
unde sententia per confessionem tuam contra te lata non rescinditur per appellationem”.
38
Dig. 49. 1. 6; Dig. 28. 3. 6. 9: la negazione dell’effetto sospensivo riguardava le
condanne di primo grado nei confronti di insignes latrones, seditionum concitatores, duces
factionum, dunque per reati di particolare rilevanza per l’ordine pubblico.
39
Piacentino, Summa Codicis, Quorum appellationes non recipiantur: “ratione cause hi
non appellabunt, ut insignes latrones […]; Azzone, Summa Codicis, ibidem, nr. 3; Glossa
accursiana, gl. Propria, ibidem, con una limitazione del divieto d’appello che ne attenua la
portata, perché lo esclude solo per i rei convicti e/o confessi.
40
Glossa accursiana Ab eo, a Dig. 49. 3. 1. 1, quis a quo appell., l. quod, § ab eo; altre
testimonianze della tesi di Alberico in Ricerche II, p. 118 nota 24.
41
Così la Glossa accursiana Ab eo, citata alla nota precedente, che presenta la tesi di
Giovanni in forma di casus.

7
generale appare certo più forte di quello che trasferisce solo la decisione di un
caso singolo.
Va a questo punto richiamata un delicata questione che fu discussa in questo
contesto dai Glossatori, quella della liceità o meno di sudelegare una causa da
parte del delegato. Qui il cammino fu differente e non meno interessante. Un
testo del Codice (Cod. 3. 1. 5, a. 238 dell’imp. Gordiano) vietava in modo chiaro
al giudice delegato la potestà di subdelegare la giurisdizione. Qui Alberico
intervenne nuovamente con la distinzione già menzionata; e asserì che il divieto
del Codice andasse applicato solo ai casi di delega singola, non alle ipotesi di una
delega generale, ove pertanto la sudelegazione doveva ritenersi ammessa42.
Mentre nel primo caso la distinzione introdotta da Alberico era valsa a
superare la contraddizione tra due testi della Compilazione, nel secondo caso la
medesima distinzione servì a circoscrivere il raggio di applicazione di un altro
testo, cioè per limitare un divieto, quello della subdelgazione, che la Scuola
avvertiva come inopportuno. Non a caso poco più tardi Giovanni Bassiano, con
uno spunto realistico in lui molto frequente, risolverà per parte sua la questione
asserendo che i giudici ai quali l’imperatore aveva concesso la delega “ad
universitatem causarum” – il che (egli aggiunge) avveniva ormai costantemente
“in partibus Lombardiae”, dopo la pace di Costanza – doveva equipararsi al
giudice ordinario, e pertanto poteva sudelegare la propria giurisdizione, perché di
fatto aveva acquisito lo status di giudice ordinario43. E così anche la questione
dell’appello trovava soluzione, riconoscendosi – almeno in linea di principio 44 – la
competenza del delegante avverso la sentenza del delegato.
La delega della giurisdizione era larghissimamente praticata anzitutto nel
diritto canonico coevo, ben più che nel diritto secolare. Non stupisce che tanto il
Decreto di Graziano quanto le Decretali abbiano dedicato all’istituto un largo
spazio, dal momento che il ruolo fondamentale esercitato dai papi nella creazione
dello ius novum avvenne nei secoli XII e XIII per la massima parte attraverso le
lettere decretali, dunque per l’appunto con lo strumento della delega, che
conteneva (analogamente ai rescritti del diritto rmano imperiale) la regola
giuridica con la quale il delegato avrebbe dovuto risolvere il caso a lui affidato. E
fu nel dirito canonico che si introdusse in moltissimi casi, nella delega della
giurisdizione papale, la clausola di inappellabilità (“omni appellatione remota”)
per evitare che la causa tornasse nuovamente a Roma, come avveniva di
frequente45. Anche i civilisti richiamarono a loro volta questa clausola,
sottolineando perltro che la sua applicazione doveva nel diritto civile essere più
stretta rispetto al diritto canonico, nel quale in linea generale, essi osservano,
42
Dissensiones dominorum, Collectio Chisiana, § 7; ed. V. Scialoja, in Id., Studi giuridici,
II. 2, p. 333: “Albericus dicit quod si alicui causa specialiter cognoscenda fuuerit commissa ut
ipse cognosceret, alii non debet ei delegare […], sed si generaliter fuerit ei mandata iurisdictio,
alii potest eam delegare”.
43
Giovanni Bassiano, Summa de ordine iudiciorum, § 10, ed. Tamassia-Palmieri, in
Bibliotheca Iuridica Medii Aevi, vol. II, p. 213.
44
Perché nei fatti occorreva vedere quale fosse la disciplina statutaria specifica del luogo,
che poteva anche attribuire l’appello dal delegato agli appositi iudices appellationum presenti in
molte città.
45
Rinvio su ciò al mio scritto La delega "appellatione remota" nelle decretali di
Alessandro III, in Renaissance du pouvoir législatif et genèse de l'Etat sous la direction de A.
Gouron et A. Rigaudière, Montpellier 1988, pp. 179-188.

8
“mitius agitur”46. E’ un altro esempio dell’attenzione con la quale i legisti
consideravano le specificità e le differenze tra i due diritti.

7. L’appello del contumace. Lo sforzo di conciliazione tra testi contrastanti


attraverso lo strumento duttile della distinctio raggiunge un culmine nella
trattazione dedicata dai Glossatori al tema dell’appello del contumace.
Fondamentale fu al riguardo l’intervento dello stesso caposcuola. In una glossa
trasmessa da un manoscritto monacense, Irnerio articolò una sistemazione della
materia in tre distinte categorie: l’assenza del convenuto dopo la litis contestatio
poteva verificarsi per contumacia, per necessità o per negligenza. Nel primo caso
(contumacia, da intendersi come assenza deliberata), il giudice che ne avesse gli
elementi poteva decidere la causa e l’appello era escluso; nel secondo caso, dopo
una eventuale condanna avvenuta in presenza del difensore l’appello era
consentito e così pure l’impugnazione tardiva se in primo grado il difensore non
ci fosse stato; nel terzo caso, l’assente poteva appellare entro dieci giorni dal
momento in cui aveva avuto notizia della sentenza a suo sfavore47.
Questa lineare sistemazione includeva in un unico mosaico testi che,
rispettivamente, vietavano l’appello del contumace (Cod. 3. 1. 13. 4), lo
ammettevano per il contumace impedito ma solo in casi particolari (Dig. 4. 1. 8 e
Cod. 2. 12. 4), lo riconoscevano in via generale per l’assente indifeso (Dig. 49. 4.
1. 15). Non soltanto si conciliavano così regole contrastanti tra loro, ma veniva
formulata una tipologia sistematica dell’assenza nel processo che rendeva
possibile, con l’enunciazione di tre ben ditinte cause d’assenza, individuare la
disciplina dell’appello in caso di conntumacia del condannato in primo grado in
modo assai più precso e generale rispetto alla contraddittoria disciplina della
Compilazione, che naturalmente rifletteva nelle sue aporie l’evoluzione
complessa avvenuta su questo punnto dall’età classica alla postclassica, sino a
Giustiniano48.
Non meraviglia perciò che la trattazione irneriana si sia trasmessa - con
ulteriori arricchimenti sui quali non ci soffermiamo qui, in particolare ad opera
del Piacentino49 - sino alla Glossa accursiana. Questa offre al riguardo,
distinguendo ormai tra ben sei diverse cause d’assenza del contumace, una
compiuta sistemazione destinata a lunga fortuna, sostanzialmente favorevole ad
una assai larga ammissione dell’appello da parte del condannato assente in primo
grado50.
46
Così la Glossa accursiana, gl. Ab eo provocari a Dig. 49. 2. 1. 4, a quibus appllare non
licet, l. tractandum, § interdum; si veda anche Pillio, Quaestiones sabbatinae, Romae 1560, q.
83.
47
Irnerio, Gl. a Cod. 7. 43. 10, quomodo et quando iudex, l. cum non, ed. Pescatore, Die
Glossen des Irnerius, p. 73 s., dal ms München, Bayerische Staatsbibliothek, Clm 22, f. 166 vab.
Ecco l’incipit della distinzione irneriana: “Lite contestata contingit reum abesse quandoque
contumacia, quandoque necessitate, quandoque sola negligentia vel voluntate […] y”.
48
Cf., per tutti, Kaser, Das römische Zivilprozessrecht, München 1966, pp. ********
49
Piacentino, Summa Codicis, 7. 43, quomodo et quando iudex (egli introduce tra la’altro
l’idea che l’assente debbe provare in appello la causa probabilis della propria assenza). Sugli
approfondimenti successivi ad Irnerio, specie per quanto riguarda la distinzione tra assenza
necessaria e assenza giustificata, cf. Ricerche II, pp. 140-142.
50
Fondamentale è, in materia, la gl. appellare, in Glossa accursiana, a Dig. 4. 1. 8, de
restitut., l. inter. Sono qui distinte cinque categorie di assenza, con riferimento all’appello: 1.

9
8. Appello e ius novorum. Il tema delle nuove richieste, delle nuove
allegazioni e delle nuove prove esperibili davanti al giudice d’appello è di
particolare rilievo nella disciplina dell’istituto. Una costituzione postclassica
dell’imperatore Giustino (Cod. 7. 63. 4 dell’anno 520), che per i glossatori costituì
l’aggancio normativo fondamentale, vietava di introdurre in appello nova
capitula, ma ammetteva nuove adsertiones e nuove eccezioni purché connesse
con i capitoli della lite presentati in primo grado51.
Cosa doveva intendersi con l’espressione novum capitulum, non
ulteriormente chiarita dalle fonti antiche? Una glossa molto risalente, attribuita da
un manoscritto ad Irnerio, da un altro manoscritto più verosimilmente al suo
prediletto allievo Jacopo, interpretò il testo romano nel senso di ritenere vietata in
appello una domanda che facesse valere un diritto maturato solo dopo la sentenza
di primo grado52. Ma questa tesi davvero estensiva e in realtà contrastante con la
fonte normativa (perché implicava la possibilità di estendere in appello la
domanda che aveva provocato il processo di primo grado, dunque di introdurre un
nova capitula) fu sostanzialmente limitata dai glossatori Ottone pavese e Carlo di
Tocco. Essi ritennero che vietata in appello fosse la proposizione di un nuovo
fatto, e invece ammessa una diversa azione relativa al medesimo fatto (ad
esempio, il taglio di un albero, per il quale in primo grado si fosse fatta valere
l’azione per il risarcimento del danno in base alla legge Aquilia, in appello
l’interdetto quod vi aut clam): perché al giudice d’appello spetta di decidere se la
prima sentenza sia stata iusta o iniusta53.
Questa tesi fu accolta anche nell’apparato accursiano, nel quale si specifica
che ciò che non può mutare in appello è dunque il petitum (“res noviter petita”,
non si può, ad esempio, chiedere la restituzione di un bue anziché di un asino),
mentre può mutare la causa petendi54. Naturalmente la tesi sostenuta dalla Glossa
ebbe anche in séguito un peso notevole. Anche se intorno al 1260 Odofredo
proporrà una tesi ben più restrittiva: in appello non si doveva modificare la causa
petendi posta a base della prima causa, pur ammettendo la modifica
dell’excusatio addotta in primo grado per respingere il munus della tutela, perché
l’oggetto in questo caso non muta55.

probabilis et necessaria, ut militiae; 2. probabilis tantum, ut studiorum; 3. necessaria tantum, ut


in relegato; 4. voluntaria sine contumacia, ut mercator; 5. per contumaciam, a sua volta distinta
in vera (di colui che “dicit se non venturum”) e ficta (di colui “qui invenitur et dixit se venturum,
vel dixit nihil, non tamen venit”). Secondo questa classificazione, solo per la contumacia ficta era
interdetto l’appello, con ciò ampiando notevolmente l’ammissione dell’appello rispetto alle fonti
antiche. Rinvio anche qui a Ricerche II, pp. 142-146.
51
Cf. le mie Ricerche sull’appello nel diritto intermedio, I, Milano 1967, p. 89 s.;
Gaudemet ****
52
Ricerche II, p. 177, nota 201; p. 227, n. 8.
53
Le due glosse a Cod. 7. 63. 4 de tempor. appell., l. per hanc sono nel ms. Paris,
Bibliothèque Nationale, ms. Lat. 4536, fol. 167 a; cf. Ricerche II, p. 178.
54
Glossa accursiana, gl. ad novum capitulum, a Cod. 7. 63. 4 de tempor. appellationum, l.
per hanc. Accursio respinge la tesi di chi aveva ritenuto di doversi escludere dal giuudizio di
appello la facoltà di “novam intentionem vel exceptionem proponere etiam super eadem re
petenda vel excipienda”, ad esempio
55
Odofredo, Lectura Codicis, a Cod. 7. 63. 4 de tempor. et reparat., l. per hanc, nr. 3, fol.
131 vb.

10
E’ un dibattito che si può ricollegare con l’antica controversia della Scuola
in ordine alla vincolatività o meno, ai fini della pronuncia del giudice, del nomen
actionis indicato dall’attore in una causa civile56.
Le implicazioni di principio che sottostanno alle diverse opinioni sono
molto rilevanti. L’ammissione di nuovi petita (Irnerio/Iacopo), ma anche solo di
nuove causae petendi (Ottone, Carlo di Tocco, Accursio) comportava che in
appello si procedesse ad un nuovo giudizio, mentre la tesi restrittiva (nuove
allegazioni, nuove prove, ma nulla più: così i tertii menzionati da Accursio; così
Odofredo) tendeva a circoscrivere il giudizio d’appello alla funzione più limitata
di controllare il fondamento della prima sentenza. Della diversa disciplina
canonistica introdotta da Alessandro III diremo tra breve.
La medesima alternativa si ritrova nella questione connessa, ampiamente
trattata dalla Scuola, della possibile ammissione di nuovi testimoni in appello. La
costituzione di Giustino (Cod. 7. 63. 4) ammetteva esplicitamente nuove prove nel
giudizio di secondo grado. Senonché il successivo divieto di Giustiniano di
richiedere nel corso della medesima causa la produzione di nuovi testimoni (Nov.
90. 4. 1) doveva valere anche con riferimento al giudizio d’appello?
Un esponente delle prime generazioni della scuola, il misterioso ed
autorevole glossatore Aldrico, ritenne di sì: in appello non potevano dunque a suo
avviso prodursi nuovi testimoni, “quia eadem est ratio prohibicionis”57, sussiste
cioè il sospetto, anche in appello come già in primo grado, che la richiesta di
produrre nuovi testimoni venga fatta da una della parti per sminuire la portata
delle dichiarazioni di testi già escussi.
In séguito fu Giovanni Bassiano ad avversare con forza questa posizione
restrittiva, asserendo (come riferisce il suo grande allievo Azzone, seguendolo su
questo punto) che la causa d’appello costitusce un nuovo giudizio (“est alia a
prima”), sicché non le si applica il divieto della Novella 90. 4: dunque in appello
doveva ritenersi consentito produrre nuovi testimoni, come prescriveva la
costituzione di Giustino. Giovanni ed Azzone richiamarono a sostegno di questa
tesi anche la consuetudine, confermata dalla prassi bolognese: “et sic ex
consuetudine in pluribus locis obtinet”; “et ita observatur in civitate ista” 58. E la
Glossa accursiana fece propria questa posizione59.
Nella Scuola trovò spazio anche una terza soluzione, intermedia rispetto
alle due delle quali si è detto. Essa fu influenzata dal diritto canonico, nel quale

56
Su ciò, rinviamo a A. Errera, Arbor actionum: genere letterario e forma di
classificazione delle azioni nella dottrina dei glossatori, Bologna1995.
57
“Sed Aldri. contra, quia is auth. [Nov. 90. 4] generalis est, in causa prima et
appellationis, qua prohibetur postea dedicere testes […]”: così una glossa a Cod. 63. 4, de
tempor. et repar. , l. per hanc, nel ms di Bamberg, Staatsbibliothek, ms. Jur.21, fol. 164 rb.; così
anche Simone Vicentino, gl. alla l. per hanc cit., in due manoscritti di Padova (Bibl.
Universitaria, ms. 688, fol. 153 (157) va; e di Oxford (Bodleian Library, ms. Laud. Lat. 3, fol.
206 va); cf. su ciò Ricerche II, p. 228 s., n. 10. L’apparato accursiano (gl. sed et si qua alla l. per
hanc cit.) attribuisce invece questa tesi, verosimilmente per errore, ad Alberico.
58
Azzone, Lectura Codicis (a Cod. 7. 62. 6, de appellationibus, l. eos, nr. 2; Id., Summa
Codicis, 7. 63, de tempor. et repar., nr. 5; Id., Brocardica, Venetiis 1581, 17 de sententiis, nr. 26.
Cf. Ricerche II, p. 228, n. 11, per le analoghe conclusioni di Pillio da Medicina.
59
Glossa accursiana, gl. persequatur a Cod. 6. 62. 1 de appell., l. eos, § si quid.

11
una decretale di Alessandro III - entrata nella Compilatio I e poi nel Liber
Extra60 - aveva in quegli stessi anni (1159-1181) sancito che i nuovi testimoni
potevano venire ammessi in appello se chiamati a deporre non già sui capitula
addotti in prima istanza bensì su nova capitula. Non possiamo qui soffermarci qui
sulle interpretazioni che della decretale formularono i canonisti; ma i civilisti ben
si avvidero del contrasto con il dettato del Codice giustinianeo, che vietava in
appello la proposizione di nova capitula.
La doppia questione (quella relativa ai nuovi capitoli e quella relativa ai
nuovi testimoni in appello) fu affrontata suggerendo diverse vie, perspicuamente
esposte in una glossa inedita di Simone Vicentino: vi fu chi ammise nova capitula
in appello solo se collegati strettamente ai vecchi (“loquitur [slc. la decretale
Fraternitatis] de his novis qui emergunt ex veteribus”), chi negò affatto la
proponibiltà di nuovi capitoli nel diritto civile, chi affermò che sui vetera capitula
potevano prodursi in appello soltanto testimoni nuovi, e non più invece quelli già
presenti nel primo grado di giudizio 61. E vi fu chi infine (così Azzone e sulla sua
scia la Glossa accursiana) interpretò restrittivmente la decretale di Alessandro III,
nel senso che il novum capitulum menzionato dal papa corrispondesse
semplicemente a una nuova adsertio, cioè (diremmo) ad un diverso capitolo di
prova, non dunque ad una diversa domanda o pretesa62.
E’ appena il caso di aggiungere che il tema dello ius novorum in appello,
tanto rilevante per la fisionomia giuridica del giudizio di seconda istanza,
continuerà per secoli a sollecitare l’attenzione della dottrina.

9. Reformatio in peius. Un ultimo punto sul quale vorremmo richiamare


l’attenzione riguarda i limiti entro i quali i Glossatori ritennero che in appello si
potesse riformare la prima sentenza, con riferimento alle richieste originarie
dell’attore in prima istanza. Anche qui la via normativa era segnata da una
costituzione di Giustiniano dell’anno 530 (Cod. 7. 62. 39, l. Ampliorem), con la
quale l’imperatore, riformando il diritto precedente, aveva espressamente
consentito al giudice d’appello di tenere conto non solo dei motivi addotti
dall’appellante ma anche delle ragioni del suo avversario, vincitore in prima
istanza, e questo sia in caso di appello incidentale che nell’ipotesi di sua assenza
nel processo di secondo grado. Il punto sul quale i glossatori fermarono
l’attenzione fu quello di una condanna che in primo rado risultasse aver accolto
soltanto in parte le ragioni dell’attore: ad esempio condannando il convenuto a
pagare solo la metà della somma richiesta.
Vi fu chi semplicemente asserì che la costituzione Ampliorem consentiva
ormai al giudice di riformare la prima sentenza accogliendo in toto le ragioni del
vincitore in primo grado, anche se costui non avesse interposto appello 63; e chi,
più sottilmente, sollevò l’obiezione per la quale una domanda accolta solo
parzialmente dal giudice di primo grado doveva ritenersi scomponibile in due
60
Comp. I, 2. 13. 17 = Liber Extra 2. 20. 17, de testibus, c. Fraternitatis.
61
Si veda la gl. a Cod. 7. 63. 4, de tempor. et repar., l. per hanc, Padova, Biblioteca
universitaria, ms. 688, fol. 153 (157) va; cf. Ricerche II, p. 229.
62
Azzone, gl. ad novum capitulum, a Cod. 7. 63. 4, de tempor. et repar, l. per hanc,
Bamberg, Staatsbibliothek, ms. Jur. 21, fol. 164 va; così anche la Glossa accursiana, a Cod.
63
Così una glossa a Cod. 7. 62. 39, de appellationibus, l. ampliorem, conservata in uno dei
manoscritti più antichi del Codice, Montpellier, Ecole de Médecine, ms. H. 83, fol. 172 va.

12
diverse decisioni, l’una delle quali di condanna, l’altra di assoluzione del
convenuto: sicché per quest’ultima il mancato appello del vincitore in primo
grado avrebbe comportato l’impossibilità di riformarla. Fu una obiezione che la
medesima glossa ritenne superabile interpretando la norma giustinianea nel senso
che la condanna parziale riguardasse un’unica domanda, accolta solo
parzialmente dalla sentenza di primo grado, che taceva sulla parte residua, sicché
in virtù della l. ampliorem un appello specifico su questa non era ormai più
necessario64.
Ma la questione si riproponeva (e fu discussa dalla Scuola) anche in una
diversa e più sottile prospettiva: con riferimento ai possibili diversi capi
(capitula) della sentenza di primo grado: solo i capitula dai quali fosse stato
interposto appello risultavano riformabili? Un testo di Modestino risolveva
negativamente il quesito per la restitutio in integrum (Dig. 4. 4. 29. 1); ed Azzone
ritenne il divieto estensibile per analogia al giudizio di appello 65. Ma in
precedenza Pillio da Medicina aveva distinto il caso di un appello generico contro
la prima pronuncia nel suo insieme da quello di un appello specifico contro un
capo della prima sentenza; ed aveva ritenuto che la l. ampliorem valesse per il
primo caso, non per il secondo, sicché l’appello limitato ai soli capi della
sentenza sfavorevoli per l’appellante, in assenza di un appello incidentale del
vincitore non avrebbe potuto peggiorare per l’appellante il nuovo verdetto66.
E’ questo uno spunto che in qualche misura anticipa ciò che per analogia
dottrina posteriore denominerà, per il processo penale, divieto della reformatio in
peius.

10. Conclusioni.
I punti che abbiamo considerato costituiscono un piccolo campionario di
opinioni della Glossa, che solo nella materia degli appelli ha prodotto centinaia di
altre interpretazioni, entro un oceano ben più vasto, ricco di decine di migliaia di
spunti relativi all’intero Corpus iuris giustinianeo. Anche da un campione così
limitato è tuttavia possibile trarre alcuni elementi di giudizio di portata generale.
Essi riguardano il metodo seguito dalla Scuola, il rapporto degli interpreti
con la fonte romanistica e con il diritto canonico, l’influenza della prassi coeva, le

64
Questa interessante serie di spunti si ritrova nella glossa a Cod. 7. 62. 39, de
appellationibus, l. ampliore, conservata in due manoscritti, Padova, Biblioteca universitaria, ms.
688, f. 153 (157) ra e Oxford, Bodleian Libray, ms. Laud Lat. 3, fol. 206 ra, che come già visto
contengono l’apparato di Simone Vicentino. Su entrambe queste glosse e sulle posizioni da
Azzone e di Pillio di cui alle de note seguenti, cf. Ricerche II, p. 224 s.
65
Azzone, Summa Codicis, 7. 62 de appellationibus, nr. 18.
66
“Numquid hoc est intelligendum [cioè quanto prescritto dalla l. ampliorem] sive
simpliciter appellaverit, sive super certo capitulo? Responde nequaquam, sed quum simpliciter
appellaverit; quid enim si pro parte obtinuit et pro parte victus ab ea appellavit, num in alia sibi
preiudicium facit? Non credo, pi”: Gl. a Cod. 7. 62. 39, de appellationibus, l. ampliorem, ms.
Paris, Bibliothèque Nationale, ms. Lat. 4536, fol. 166 rb; edita in A. Padoa Schioppa, Le
Quaestiones super Codice di Pillio da Medicina, in “Studia e documenta historiae et iuris”, 39
(1973), pp. 239-280, a p. 276. Sulla fortuna di questa importante distinzione, presente in Ugolino
e nella Glossa accursiana, cf. Ricerche II, p. 226 s.

13
individualità dei singoli maestri, la portata concreta delle loro opinioni, il ruolo
creativo dell’insegnamento universitario. Ci limitiamo qui a brevissimi cenni.
Quanto al metodo, si è visto che vi sono casi nei quali i glossatori hanno
male inteso la fonte antica, offrendone una interpretazione non corretta dal puunto
di vista esegetico: così, ad esempio, riguardo all’appello nelle sentenze sul
possesso e all’estensione del divieto d’appello in materia penale. Presto o tardi
(talora anche dopo la fine della Scuola dei Glossatori) questi errori saranno
scoperti e rettificati, perché mantenere un’interpretazione di cui si poteva ormai
dimostrare la non corrispondenza con il testo normativo la rendeva, per ciò stesso,
vulnerabile.
Molto più frequente è il ricorso, da parte della Scuola allo strumento sottile
e potente della distinctio. Esso consente di raggiungere due obbiettivi
fondamentali. In presenza di testi tra loro contrastanti, come avviene in centinaia
di casi all’interno della Compliazione di Giustiniano e in particolare tra la
disciplina dell’età classica conservata ne Digesto e quella dell’età postclassica e
giustinianea presente nel Codice, il ricorso al criterio della distinzione permette di
superare la difficoltà considerando ciascuno dei testi confliggenti come relativo ad
una fattispecie distinta. Abbiamo visto che in tal modo la Scuola ha risolto la
questione dell’appello avverso le sentenze del giudice delegato, disciplinata
diversamente nel Digesto rispetto al Codice, o quella delle diverse cause
d’assenza dal processo con diverse conseguenze in tema di appello, o quella dei
limiti entro i quali il giudice ad quem può riformare la sentenza di primo grado.
In altri casi la distinctio opera invece all’interno di un singolo testo. Anche
in assenza di testi contrastanti, la distinzione permette di circoscrivere la portata
della norma limitandone l’applicazione ad una fattispecie più ristretta rispetto alla
formulazione indifferenziata del testo normativo. Così si è operato, ad esempio,
riguardo ai tempi per la decisione delle questioni incidentali, distinguendo le
quaestiones incidentes dalle questiones emergentes; così in tema di ammissiblità
di nuovi testimoni in appello.
Vi è poi molto spesso il ricorso, da parte dei glossatori, al procedimento
inverso. Una norma viene ritenuta applicabile per analogia a fattispecie diverse
da quelle previste nel testo. Un caso evidente è quello dell’estensione ad ogni
reato, teorizzata da Azzone, del divieto di appello nelle sentenze penali sancito
dalla costituzione di Costanzo II per cinque gravi reati. E così pure per
l’estensione dell’inappellabilità ad ogni sentenza civile e penale fondata sulla
confessione del reo e per l’estensione all’appello della disciplina del Digesto
relatva all’inpugnabilità della restitutio in integrum. Quanto alle motivazioni
addotte per queste estensioni, è significativo il ricorso, ad esempio da parte di
Azzone, alla ratio della norma e al principio generale per il quale “ubi eadem
ratio, ibi idem ius”.
I riferimenti al diritto canonico sono particolarmente frequenti da parte dei
civilisti. Non solo l’appello svolgeva un ruolo centrale nel diritto della Chiesa
(basti rammentare l’apporto fodamentale delle 700 decretali di Alessandro III
entrate nelle Collezioni canoniche, ben 88 delle quali riguardano il nostro
istituto), ma anche perché le differenze tra i due diritti erano molto rilevanti in
questa materia, sebbene Graziano avesse incorporato nella versione definitiva del
Decretum una serie di testi sull’appello tratti dalla compilazione giustinianea. A

14
differenza del diritto romano, il diritto canonico dell’età classica ammetteva
l’appello dalle sentenze interlocutorie, che una volta passate in giudicato
condizionavano la sentenza definitiva anche in appello; riconosceva la possibilità
di avanzare un’impugnazione “a quocumque gravamine”, dunque anche avverso
provvedimenti di natura amministraitiva e non giudiziaria, ad esempio in tema di
nomine e di benefici; riconosceva (e larghissimamente praticava) la possibilità di
rivolgersi direttamente, omisso medio, alla giurisdizione della Santa sede anziché
alla giurisdizione ordinaria del vescovo; affidava al papa, nei casi frequentissimi
di delega per una specifica causa, il compito di dettare con una lettera decretale i
criteri giuridici in base ai quali la causa avrebbe dovuto essere decisa dal
delegato; e proprio per questo aveva introdotto la prassi della delega “remota
appellatione”, che impediva, in linea di principio, di impugnare la sentenza del
delegato; aveva introdotto criteri più estensivi riguardo alla proposizione, in
appello, di nuovi capitula e di nuovi mezzi di prova rispetto a quelli fatti valere in
prima istanza; ed altro ancora. Si comprende perciò come i civilisti, sin dalle
prime generazioni e poi sempre pù frequentemente, abbiano dato notizia nelle loro
analisi di queste peculiari caratteristiche dell’appello canonico. Talora essi
proposero un’interpretazione del diritto canonico non dissonante dal diritto
giustinianeo, ad esempio in tema di nova capitula; talora segnalarono che
un’opinione formulata dalla scuola dei legisti era stata accolta dal diritto canonico
in via ufficiale, era stata cioè “canonizzata”, come avvenne riguardo all’obbligo di
interporre appello da parte del procuratore del primo giudizio67.
Nel diritto secolare dell’età della Glossa l’appello esisteva, anche se non
aveva certo un peso paragonabile a quello dell’appello canonico. L’appello dalla
giurisdizione dei consoli del comune all’imperatore, ancora previsto dalla Pace di
Costanza del 118368, di fatto si esaurì sino quasi a scomparire. Ma all’interno
delle città la costituzione comunale prevedeva una seconda istanza, spesso
affidata ad appositi iudices appellationum.69 L’esame della prassi giudiziaria di
una città come Milano mostra che gli appelli avverso le sentenze consolari erano,

67
Liber Extra 1. 38. 14; cf. Ricerche II, p. 130.
68
Pace di Costanza, 25 giugno 1183, § 10 (C. Manaresi, Gli Atti del Comune di Milano
fino all’anno MCCXVI, Milano 1919, n. 139, p. 200).
69
La disciplina normativa cittadina sugli appelli è già presente a Pisa nei Brevi deci consoli
del 1162 e del 1164: I Brevi del consoli del comune di Pisa degli anni 1162 e 1164, a cura di O.
Banti, Roma 1997, p. 48 (Breve del 1162, § 3: “cognitores autem appellationum iurare faciam ut
de legibus ad usibus controversias […] diffininant”); ibid., p. 75 s. (Breve del 1164, § 4: “tres
homines […] eligam […] ut […] eligant […] appellationum tres cognitores, ex quibus sit unus
legis peritus […]”). Nei Costituti pisani la disciplina statutaria degli appelli è ormai estesa:
Constitutum legis, 17 de appellationibus, in I Costituti della legge e dell’uso di Pisa, sec. XII, a
cura di P. Vignoli, Roma 3003, pp. 42-47. Per Milano si può citare il testo della Pace conclusa nel
1225 tra nobili e popolari, riportata dal Corio, nella quale il podestà giurava di “diffinire le
appellatione facte sopra le cause de li homicidii ovvero bandi o incendii, bataglie o altre cause
[…] (in Gli Atti del comune di Milano nel secolo XIII, (1217-1250), a cura di M. F. Baroni,
Milano 1976, n. 148, p. 218 lin. 40). Per Fano, il Formularium di Martino da Fano, scritto
intorno al 1232, delinea un diversa competenza per l’appello civile rispetto all’appello penale (in
L. Wahrmund, Das Formularium des Martinus de Fano, in Quellen zur Geschichte des römisch-
kanonisches Processes im Mittelalter, I. 8, Innsbruck 1905, r. 28; 29; 30; 52; 53). Anche
Rolandino, poco dopo la metà del Duecento, tratta dell’appello: Rolandino, Summa totius artis
notariae, lib. de iudicibus, r. de appellationibus (ed. Venetiis 1546, rist. an. Bologna 1977, fol.
365 r).

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nei secoli XII e XIII, alquanto rari70. E tuttavia l’aggancio della dottrina alla realtà
coeva non mancò di certo: abbiamo visto come Giovanni Bassiano ed Azzone vi
abbiano fatto riferimento, ad esempio in tema di delega della giurisdizione e di
nullità della sentenza. Anche talune tesi sostenute in contrasto con il dettato
normativo possono trovare una spiegazione nella prassi anteriore o coeva: così per
l’asserita inappellabilità delle decisioni sul possesso e delle sentenze penali, di cui
si è detto.
Ma il vero motore dell’approfondimento così capillare di questa tematica,
abbastanza periferica nella prassi dei comuni, va ravvisato nel fattore che è stato
chiamato con il termine di “scolarità”: è stata la spinta impressa dalle esigenze
dell’insegnamento sul Corpus iuris ad aver indotto i maestri bolognesi ad
interrogarsi così a fondo anche su questa materia, come su altre parimenti presenti
nella Compilazione ma non altrettanto rilevanti nella realtà coeva. Il difficile
compito di formare il giurista attraverso l’analisi approfondita dei testi ha
stimolato i maestri a porsi innumerevoli questioni interpretative, che si
rieveleranno di importanza vitale anche al di fuori della scuola.
Qui gioca un ruolo anche la personalità del singolo maestro. Se colpisce del
grande Irnerio la capacità di analisi e di sintesi su un terreno vastissimo e ancora
inesplorato, in Bulgaro l’aggancio alle fonti è quasi sempre molto stretto, accanto
alla eccezionale capacità di dar vita a nuovi generi di letteratura giuridica,
dall’ordo iudiciorum da lui inaugurato alle quaestiones in schola disputatae; ed
in ciò sta forse una ragione della fortuna della sua scuola. Mentre è indubbio che
Giovanni Bassiano abbia segnato una svolta nel privilegiare con realismo
soluzioni dottrinali compatibili con la realtà della prassi coeva: suo è
l’interrogativo retorico così significativo - “nunquid totus mundus errat?” - con il
quale dà conto (e in pari tempo giustifica) istituti ormai vivi e diffusi nel mondo
dei comuni. In Azzone la concretezza delle soluzioni proposte si coniuga con
una non rara affermazione di motivi ideali di giustizia, come là dove egli estende
la portata delle norme antiche sulla legittimazione dei parenti e persino degli
estranei ad interporre appello contro una sentenza capitale. E così via. Ogni
maestro ha il suo carisma.
Che alla base di questo sforzo imponente, decisivo nella storia del metodo
giuridico moderno, vi sia una sorta di dogma, il dogma della coerenza interna
della Compilatione giustinianea - e questo nonostante le centinaia, anzi migliaia di
passi che tale dogma smentiscono, perché relativi a fasi diverse e lontane tra loro
nell’evoluzione plurisecolare del diritto di Roma - è un fatto certo sorprendente.
Chi scrive è convinto che l’esegesi dei testi biblici compiuta per secoli dai padri
della Chiesa – testi per definizione ritenuti non solo conformi alla verità ma tra
loro coerenti: perché Dio, che è verità e che del testo sacro è l’autore, non può

70
Rinvio su ciò alle mie ricerche sulla giustizia milanese dell’età comunale: Aspetti della
giustizia milanese dal X al XII secolo, in "Atti dell'11° Congresso internazionale di studi sull'alto
medioevo", (Milano, 26-30 ottobre 1987), Spoleto 1989, vol. I, pp. 459-549; Note sulla giustizia
milanese nel XII secolo, in Miscellanea Domenico Maffei dicata, Historia, Ius, Studium, 4 voll.,
Goldbach 1995, vol. IV, pp. 219-230; La giustizia milanese nella prima età viscontea (1277-1300),
in Ius Mediolani, studi di storia del diritto milanese offerti dagli allievi a Giulio Vismara , Milano
1996, pp. 1-46.

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contraddirsi – abbia costituito il modello sul quale i glossatori del secolo XII
fondarono il loro lavoro interpretativo. Vale la pena di citare la frase illuminante
di Agostino: “divina eloquia contraria putantur sonare, nisi adsit intellectus”71.
Che poi le tesi sostenute, in questo strenuo sforzo di chiarimento - fondato
in gran parte sullo strumento logico della distinctio - attestino un acuto senso del
significato concreto del diritto, questo fatto a mio avviso innegabile è il segno
della qualità del pensiero e dell’opera dei Glossatori. Le loro discussioni non sono
mai astratte. La possibilità di far valere in appello le nullità della sentenza contra
ius e le condizioni elaborate dalla dottrina per su questo fronte, a cominciare da
quella che limitava la nullità all’ipotesi di un errore manifesto, risolvevano il
problema dell’incertezza, nel tempo, sulla sorte della prima decisione. La
distinzione, quanto alla competenza d’appello, tra gli appelli avverso le pronuncie
dei giudici delegati in via generale e quelli avverso le sentenze dei delegati ad
causam rispondeva all’esigenza di non affidare l’appello ad un giudice troppo
legato al personaggio da lui incaricato. L’estensione del divieto d’appello per le
cause penali minori superava la irrazionale discrasia per la quale in presenza di
prove incontrovertibili si differenziava il regime delle impugnazioni per le diverse
categorie di condannati in materia penale. La definizione dei limiti individuati per
l’ammissione in appello di nuovi testimoni tracciava il delicato confine tra due
modelli: l’appello concepito come semplice verifica della correttezza del primo
giudizio e l’appello come strumento per conseguire un risultato migliore in
termini di giustizia. E così via. Ognuna delle opinioni sostenute, anche se mossa
dallo sforzo di interpretare e di conciliare il dettato normativo dei testi, ha una
valenza concreta, comporta scelte di merito nella disciplina della giustizia.
Nella successiva età del Commento lo spunto ad introdurre categorie e idee
innovative verrà per lo più dalle questioni poste dalla prassi, dal ricchissimo
materiale dei casi concreti che il professore conosce per esperienza diretta, non
solo attraverso i consilia. Nell’età della Glossa, ove pure non mancano le
“questiones de facto emergentes”, il motore essenziale è invece quello della
interpretazione del testo. L’imperativo supremo è quello della sua coerenza. E
verrebbe spontaneo di adottare per i grandi maestri della Scuola bolognese la
stessa espressione che è stata formulata per il poeta, tenuto al rispetto della rima e
del metro: anche il glossatore è “un gigante che danza nelle catene”. Tanto più
alto il suo livello intellettuale ed etico, tanto più felice e armoniosa la danza.
Ma questo non potrebbe dirsi addirittura per ogni giurist

71
Agostino, Sermones de Scriptura, in Migne, PL 38, col. 164.

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