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La maggioranza deviante

Franco Basaglia

ISBN: 9788868651466

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LA MAGGIORANZA DEVIANTE
INDICE

L’abito stretto

L’ideologia della diversità

I colletti neri
La paranoia e la dinamica dell’esclusione
di Edwin Lemert
Dati e procedimenti
Il comportamento pertinente
Il processo generico di esclusione
Crisi nell’organizzazione ed esclusione formale
La natura cospirativa dell’esclusione
Lo sviluppo del delirio
Rafforzamento del delirio
Il contesto socio-culturale più vasto
Conclusioni

L’obiettività del potere

La maggioranza deviante
L’inabilità sociale. Il problema del disadattamento
nella società
di Jurgen Ruesch
La scena contemporanea
La misura del problema
La valutazione dell’inabilità sociale
L’individuo disturbato
La situazione e i suoi limiti di tolleranza
Procedure nella valutazione di inabilità sociale
Conclusioni

L’impossibile strategia

La malattia e il suo doppio

La ragione della follia


di Gianni Scalia
1. Piccola storia portatile della ragione
2. Freud e i nuovi diritti della ragione
3. Intermezzo istituzionale (o del nuovo riformismo)
4. Critica della ragione e critica della società
5. Le esperienze radicali
6. Il rapporto del non-rapporto
7. Verso una conclusione?
Si troveranno riportati per intero nel presente volume i seguenti scritti:
Jurgen Ruesch, Social Disability: the Problem of Misfits in Society. Relazione presentata
al Congresso «Towards a Healthy Community» organizzato dalla World Federation for
Mental Health and Social Psychiatry, Edinburgo, maggio 1969. Edwin Lemert, Paranoia
and the Dynamics of Exclusion, dal volume Human Deviance, Social Problems and Social
Control, Prentice Hall Inc., Englewood Cliffs, New Jersey 1967. Gianni Scalia, La ragione
della follia, pubblicato in una prima versione in «Classe e Stato», n. 5, dicembre 1968.
Le interviste ai componenti del Network di Londra sono state raccolte nel settembre 1969
da Paolo Tranchina, Mario Mariani e dagli autori.
L’ABITO STRETTO

Ronald Laing

Ho parlato con un colonnello dell’esercito americano che si occupa del problema dei
«pazzi», come li chiama lui; del problema dei devianti in generale, della gente con i
capelli lunghi che cerca di evitare il servizio militare e dei protestatari in genere. Il
colonnello mi diceva che all’esercito americano non interessa recuperare questa gente,
perché possono farne benissimo a meno. Non hanno bisogno di loro e non li vogliono. Un
esercito moderno, a mio parere, viene sempre più usato per controllare la popolazione
civile del proprio Paese. Gli eserciti che esistono ovunque nel mondo, sono lì
principalmente per mantenere la schiavitù della popolazione delle loro singole nazioni:
infatti, vengono sperimentati gas che agiscono sui centri nervosi in Vietnam, per vedere
come potranno poi essere usati nel migliore dei modi l’anno seguente a Berkeley, Chicago
e Washington. Penso che la Francia, la Germania, gli Stati dell’Europa occidentale e gli
Stati Uniti stiano diventando campi militari, nelle cui fortificazioni l’élite del potere
industriale e militare si ritirerà, permettendo alla gente, fuori, di intrattenersi come vuole,
con grande libertà. Se ci sarà bisogno, di tanto in tanto, di manodopera straordinaria per
qualche emergenza, l’élite potrà sempre uscire e prendersela con razzie all’esterno e sarà
permesso tutto questo grande andare in giro per i campi e tra i fiori, a ballare e fare
l’amore... perché questo non fa nessuna differenza.

Jurgen Ruesch

La popolazione moderna è formata da un gruppo centrale che comprende governo,


industria, finanza, scienza, ingegneria, esercito e istruzione. Attorno a questo nucleo
ruota un cerchio di consumatori di beni e di servizi, organizzati da chi sta al centro. Alla
periferia si trovano poi i marginali che non hanno alcuna funzione significativa nella
nostra società. Fra i marginali vi sono alcuni tee- nager e giovani adulti. Essi si ribellano
alla società dei consumi, disprezzano i beni materiali e perseguono il raggiungimento
della propria realizzazione personale e lo sviluppo dell’esperienza interiore. Questi hippies
o semihippies hanno abbandonato la strada imboccata dalla società tecnologica. Un altro
settore di giovani, per la maggior parte studenti, sceglie la linea opposta. Nella loro
rivolta contro la standardizzazione, l’omogeneizzazione e l’ingranaggio sociale, essi
bussano alla porta dell’establishment per imporre la loro voce nella gestione delle
università. Si oppongono alla tecnologizzazione dell’uomo, enfatizzano la diversità
culturale ed esigono un confronto aperto. Se non si accettano le loro richieste, si
abbandonano ad atti distruttivi nel tentativo di rompere la struttura organizzata.
Sia la soluzione dell’abbandono del campo da parte degli hippies, che la richiesta di una
maggiore partecipazione degli attivisti, rappresentano una reazione contro il centro
disumanizzato della nostra società.

Ronald Laing

Non vedo la possibilità che questi comportamenti devianti esercitino un effetto


rivoluzionario sulla struttura del potere statale. Chiunque agisca in modo rivoluzionario è
de- viante nella misura in cui non si conforma alla norma. Ma se le reazioni emotive
individuali abbiano o meno una presa sul sistema per cambiarlo, è un’altra cosa. Penso
che una grande quantità di devianti non incida a questo livello, non produca alcuna presa
sul sistema, capace di provocare un movimento nel sistema stesso. Tuttavia, cosa
dovrebbero fare questi giovani? Devono subire la violenza della catena di montaggio
universitaria, in un modo che risulta senza volto e senza spirito e che distrugge l’anima?
Cercheranno di giocare il sistema, tentando di estrarre un po’ di gioia dalla vita, finché si
può. Questo movimento mostra che nonostante tutto, la cosa è possibile. ossia, se gli
hippies mostrano che questo è possibile, allora i meno avventurosi e coraggiosi, o i meno
disperati, possono cominciare a sentire che anche loro potrebbero permettersi di godere
la vita un po’ di più di quanto non stiano facendo adesso...

Edwin Lemert

Nella nostra società impostata sull’organizzazione, viene enfatizzato il valore del


conformarsi alle regole e la tendenza sempre crescente delle élite organizzative a far
assegnamento, per le loro finalità, sul potere diretto. Il che viene abitualmente esercitato
allo scopo di isolare e neutralizzare gruppi e individui che oppongono resistenza in modo
che sia impedito l’accesso al potere o vengano loro negati i mezzi per favorire gli scopi e i
valori devianti che essi perseguono. Uno dei modi più prontamente efficace per ottenerlo
è interrompere, ritardare o bloccare il fluire delle informazioni. È necessario razionalizzare
e giustificare queste procedure su una base democratica che porti a nascondere certe
azioni, travisare la rappresentazione del significato che le sottende, nonché il ricorso a
mezzi immorali e illegali. La difficoltà di procurarsi una conoscenza sociologica di queste
tecniche, che potremmo definire di «controllo al di là del controllo», e il rifiuto da parte di
quelli che le usano di riconoscere che esse esistano, sono la conseguenza logica della
minaccia percepita che una tale conoscenza e ammissione può rappresentare per le
strutture di potere informale.

Jurgen Ruesch
Domandiamoci ora quanti sono i socialmente inabili, quanti i marginali e quanti
appartengono al centro della nuova società postindustriale. Se traduciamo queste
percentuali, riferite alla popolazione adulta, in cifre riguardanti la popolazione intera degli
Stati Uniti, il centro rappresenta solo il 10 per cento, mentre il gruppo centrale il 25 per
cento. Quindi circa un terzo della popolazione totale esegue un certo tipo di lavoro per il
quale riceve un compenso. I malati (e fra questi sono inclusi i vecchi), gli incapaci e i
giovani formano il 65 per cento o i due terzi della popolazione totale. Questo gruppo può
essere definito il «mondo del non-lavoro» (leisure world).

Salute e malattia, norma e devianza, dentro e fuori, più e meno, prima e dopo, sono -
nella tendenza totalizzante del capitale - poli contrari e insieme equivalenti di una realtà
unica: percentuali della stessa unità che variano quantitativamente a seconda del ruolo
prevalente giocato dall’uno o dall’altro, nel processo complessivo in cui l’uomo diventa
oggetto del ciclo produttivo.
Il problema del drop-out, del deviante, di colui che non vuole inserirsi o che non può
inserirsi, del misfit al quale l’abito sociale va troppo stretto, si dilata fino al paradosso di
una devianza universale che si annulla nella sua stessa universalità. Quale sarà il numero
di devianti di cui avrà bisogno il capitale? Ruesch afferma che, negli Stati Uniti, il 65 per
cento della popolazione ha un abito sociale troppo stretto. Il potere centrale dei
tecnocrati determina la misura che dovrà adattarsi a tutti. Le mani spariranno vergognose
nelle maniche abbondanti, i passi incerti saranno impacciati da calzoni troppo lunghi, i
polsi robusti usciranno dalle maniche troppo corte e impediranno ogni movimento: e non
si potrà reclamare, per timore di restare senza vestito. Laing, Lemert e Ruesch - in modo
diverso, ciascuno con la propria ideologia pratica - parlano del nostro futuro contenuto
nelle loro interpretazioni. Parlano di giovani che non sopportano la camicia sociale troppo
stretta. Ma nella nostra società ci sono mezzi per identificare il più e il meno e chi indossa
il vestito fatto per altri (una realtà non sua) non se ne accorge più, come il malato
mentale delle istituzioni pubbliche non sa cosa sia indossare un vestito su misura.
L’IDEOLOGIA DELLA DIVERSITÀ

Nell’ambito delle scienze umane, si affrontano spesso problemi teorico-scientifici che non
nascono direttamente dalla realtà in cui si agisce, ma sono importati come problemi tipici
di altre culture (di livelli diversi di sviluppo), trasferiti in un terreno dove si individuano i
segni della loro presenza a condizione di un preciso riconoscimento critico. Questo
meccanismo di identificazione a livello «ideologico» sembra tipico delle culture
subordinate, che hanno una funzione marginale e dipendente nel gioco politico-
economico generale da cui sono determinate, e di cui partecipano secondo gradi diversi
di sviluppo. A un diverso livello socio-economico corrispondono, infatti, forme diverse di
definizioni culturali; come dire che problemi nati in Paesi ad alto sviluppo tecnologico
industriale, vengono assunti come temi artificiali nei Paesi socio-economicamente meno
sviluppati.
Il linguaggio intellettuale risulta quindi spesso dall’assorbimento di culture mutuate da
realtà diverse, diventando patrimonio di un’élite ristretta, una specie di ammiccamento
fra i privilegiati che riescono a decifrare il messaggio e a scoprirne i riferimenti. In questo
modo aumenta l’ambiguità della natura dei problemi, che si rivelano insieme concreti e
artificialmente prodotti: diventano cioè «realtà», attraverso la razionalizzazione
ideologica che ne viene operata.
Esaminiamo il fenomeno delle devianze. Ormai cruciale e decisivo nei Paesi di grande
sviluppo industriale e non ancora esploso in Italia, è stato importato nella nostra cultura
come tema ideologico di un problema altrove reale.
Da noi, il deviante, come colui che si trova al di fuori o al limite della norma, è
mantenuto all’interno o dell’ideologia medica o di quella giudiziaria che riescono a
contenerlo, spiegarlo e controllarlo. Il presupposto qui implicito che si tratti di personalità
abnormi originarie, ne consente l’assorbimento nel terreno medico o penale, senza che la
devianza - quale concreto rifiuto di valori relativi, proposti e definiti come assoluti e
immodificabili - intacchi la validità della norma e dei suoi confini. In questo senso
l’ideologia medica o quella penale servono qui a contenere, attraverso la definizione di
abnormità originaria, il fenomeno, trasponendolo in un terreno che garantisca il
mantenimento dei valori di norma. Non si tratta di una risposta tecnica a un problema di
carattere specialistico, quanto piuttosto di una strategia difensiva, tesa a mantenere lo
status quo, a tutti i livelli. La scienza, in questo caso, assolve il proprio compito, fornendo
codificazioni ed etichette che consentano la netta separazione dell’abnorme dalla norma.
Il fatto risulta evidente nell’alleanza originaria della psichiatria con la giustizia. Lo
psichiatra, nell’espletamento del suo mandato professionale, è contemporaneamente
medico e tutore dell’ordine, nel senso che esprime nella sua azione presuntivamente
terapeutica, sia l’ideologia medica che quella penale dell’organizzazione sociale di cui è
membro operante. Gli è cioè riconosciuto il diritto di mettere in atto ogni tipo di sanzione
attraverso l’avallo che gli dà la scienza, per un arcaico patto che lo lega alla tutela e alla
difesa della norma1. Per questo nella nostra cultura il fenomeno delle devianze resta
compreso nell’ambito di una conoscenza e di una pratica di natura repressiva e violenta,
corrispondente a una fase di sviluppo del capitale in cui il controllo si manifesta ancora
sotto forme arretrate e rigide, nello stigma dello psicopatico e del delinquente.
Negli Stati Uniti, che qui prendiamo come esempio paradigmatico a comprova delle
tesi che andiamo sostenendo, il problema è stato invece razionalizzato in un terreno
multidisciplinare di natura diversa, dove l’ideologia medico-giudiziaria è venuta
identificandosi con quella sociologica, per la necessità di promuovere e garantire la
totalizzazione del controllo di un fenomeno che va dilagandosi con un’esplicita messa in
discussione dei valori sociali di norma. Qui la definizione di abnormità originaria non
risulta più sufficiente a spiegare e contenere un fenomeno che si configura,
esplicitamente, come risultato di un’esclusione-autoesclusione dalla produzione,
affrontate e in parte assorbite dalle organizzazioni sociali di assistenza, presenti nella
tolleranza repressiva del capitalismo avanzato. È la spinta di queste contraddizioni che ha
costretto a una presa di posizione massiva, concretatasi nella legge Kennedy del 1963,
che riconosce il problema della salute mentale come problema eminentemente sociale. Si
è arrivati a comprendere che, nei confronti della produzione, la morbilità può diventare -
esattamente come la salute - uno dei poli determinanti dell’economia generale del Paese.
Lo dimostra l’assorbimento nel ciclo produttivo - attraverso la creazione di nuove
istituzioni terapeutico-assistenziali - delle fasce di «marginali» che prima ne risultavano
escluse, consentendo e assicurando il loro controllo sociale, come controllo tecnico.
Le teorizzazioni scientifiche sulla devianza, nate nella cultura inglese e americana
come risposta a una realtà in atto, e importate in Italia, assumono in definitiva, il
significato di una ideologia di ricambio2, qualora non vengano verificate sul nostro terreno
pratico, in un’azione che ne definisca le premesse, la natura, i limiti e le conseguenze in
rapporto alla nostra realtà. In questo caso la nuova ideologia di tipo sociologico si
troverebbe a sovrapporsi alle arcaiche ideologie psichiatriche, disponendosi come riserva
potenziale di ulteriori elaborazioni ideologiche. Lo stigma generico di devianza si trova
quindi a sostituire quello più specifico e più violento di psicopatia-delinquenza. I rigidi
parametri della scienza medica vengono ammorbiditi dall’ingresso in campo delle
cosiddette scienze umane, che non modificano però l’essenza del fenomeno, ma lo
allargano in una indifferenziata e falsa totalizzazione che sembra apparentemente unire
gli opposti, senza in realtà affrontare il problema delle loro differenze e dei loro rapporti.
Da noi tuttavia il livello di sviluppo del capitale non tende ancora a esprimersi nella
sua dimensione totale e non è dunque richiesto un tipo di controllo totalizzante.
L’ideologia della diversità su cui si fonda la definizione di abnormità originaria con la
quale si definisce la struttura della personalità del deviante-psicopatico - è qui ancora
sufficiente a garantire, per contrasto, l’integrità dei suoi valori.
I progetti di riforme proposti, boicottati, ritirati, riproposti; le linee d’azione
teoricamente accettate e mai messe in pratica; l’assenza di una programmazione reale
che parta dalla nostra situazione per rispondere praticamente alle nostre esigenze;
l’assenza di piani sperimentali che verifichino la validità e l’utilità reale dei nuovi
programmi; l’adeguamento alle nuove teorie, senza che gli atti modifichino la situazione
su cui dovrebbero incidere, e soprattutto la conservazione delle istituzioni nella loro
costante funzione repressiva di controllo, sono la dimostrazione dell’impossibilità di
un’azione di rinnovamento tecnico che non si imponga come necessità economica. È
impossibile - in quanto non necessario al capitale - adeguare un livello di sviluppo a uno
in cui le nuove ideologie tecnico scientifiche operano in risposta a particolari esigenze
socio-economiche, come loro corrispondente razionalizzazione. o, per essere più chiari,
risulta impossibile adottare sistemi di controllo sociale di tipo più avanzato, quando sono
ancora sufficienti, per molti aspetti, i vecchi.
Il manicomio, il carcere, la scuola, le istituzioni che provvedono al controllo delle
devianze ecc., corrispondono al tipo di repressione adeguata al nostro livello di sviluppo
socio-economico. Il resto - l’uso del nuovo linguaggio tecnico che non corrisponde alla
realtà - è frutto di una importazione ideologica che, attraverso l’adeguamento formale
alle nuove tecniche, prepara il terreno a quello che dovrebbe essere il nuovo tipo di
controllo, necessario quando anche la nostra realtà economica sia modificata, secondo la
logica del capitale. Per questo il nuovo linguaggio adottato ora dai tecnici - linguaggio
altrove nato come risposta tecnica ed economica insieme alla realtà socio-economica
venuta maturando - si limita qui a coprire la vecchia, conservandone, sotto le nuove
definizioni formali, la medesima natura, che solo un’azione pratica reale potrebbe
rovesciare. Ma quanto più aumenta la distanza fra il linguaggio e la realtà tanto più si
avrà bisogno di affidarsi alle parole e alla loro costitutiva ambiguità.
Ciò che si verifica nelle programmazioni relative all’assistenza psichiatrica di molte
amministrazioni provinciali, ne è una chiara dimostrazione. Il caso verificatosi nella
provincia di Venezia, sembra un esempio preciso del modo in cui anche la nuova
ideologia, come scelta tecnico culturale, serva a garantire l’inazione, che corrisponde a
una specifica scelta politico-economica.

L’ospedale psichiatrico della città è situato in due isole staccate dal contesto urbano e,
data la particolare configurazione di Venezia, provinciale. Si tratta di due antiche
costruzioni che, come tutta la città, vertono in stato di grave precarietà.
Nel 1967 fu indetto un bando di concorso dalla locale amministrazione provinciale, per
la costruzione di un nuovo ospedale psichiatrico in terraferma. Il bando, per la prima
volta in Italia, esigeva la costruzione di un ospedale aperto, retto a comunità
terapeutica. Con tutte le riserve nei confronti di questa modalità di assistenza, qualora
venga presentata come modello risolutivo del problema psichiatrico, nella situazione
manicomiale italiana di allora poteva risultare un precedente di un certo peso
l’esistenza di un bando di concorso che riconosceva implicitamente al malato di mente
un nuovo status sociale, prima che una nuova legge lo definisse. Furono scelti i
progetti vincitori, ma nel momento in cui si sarebbe dovuto procedere alla costruzione
dell’ospedale, per il quale era già stata acquistata l’area, gli amministratori scoprirono
- documentando la scoperta in un congresso nazionale che ebbe l’avallo delle autorità
politiche e scientifiche - che la costruzione di un nuovo ospedale psichiatrico avrebbe
perpetuato lo stereotipo della malattia mentale nell’istituzionalizzazione del malato.

Il rifiuto dell’ospedale psichiatrico come «fonte di malattia» - valido per ogni


programmazione psichiatrica che parta da zero - non può tuttavia prescindere
dall’esistenza di più di centocinquantamila ricoverati nei nostri manicomi, di cui si
conoscono le condizioni igienico-sanitarie e assistenziali specifiche. La teoria poteva
però risultare utile come occasione per accantonare ancora una volta il problema
dell’ospedale e abbracciare le nuove tesi più «moderne» della psichiatria di settore,
proiettata all’esterno, che consentivano di rimandare a una programmazione
successiva l’intero problema dell’assistenza psichiatrica. L’ultima novità è che i due
ospedali psichiatrici di Venezia stanno contemporaneamente crollando. Al di là del
gioco politico che la denuncia della crisi e dei crolli ospedalieri potrebbe nascondere,
l’amministrazione provinciale locale, nel momento in cui si trova a fare i conti con le
contraddizioni che ha prodotto, non riesce a trovare altra soluzione che l’eliminazione
dei malati attraverso la loro distribuzione nei diversi ospedali e l’organizzazione di una
nuova commissione di studio per l’attuazione dei nuovi programmi dell’assistenza
psichiatrica. L’articolo di un giornale locale che qui riportiamo, riferisce gli esatti
sviluppi della situazione.
«Il problema dei manicomi. Tre soluzioni per i malati di San Clemente . Si marcia
contro il tempo, a Ca’ Corner, per trovare lo spazio necessario alla “emigrazione”
forzata dei malati di mente dall’ospedale psichiatrico le cui strutture murarie, come è
stato drammaticamente annunciato dall’assessore Mario Vianello l’altra sera, sono
pericolanti. Novanta malati sono già stati trasferiti in corridoi e lì sono assistiti; altri
480 circa dovranno essere trasferiti entro due mesi, tutto l’ospedale psichiatrico dovrà
essere evacuato fra sei mesi.
«Le prospettive di soluzione sono note: ottenere ospitalità in reparti ospedalieri della
città e della provincia, requisire un albergo o un edificio con le stesse capacità
ricettive, costruire reparti psichiatrici in terraferma. Ora, a quarantotto ore di distanza
dal “rapporto” Vianello al Consiglio provinciale, le possibilità di soluzione del problema
sono queste:
- trasferimento di circa trecento malati “lungodegenti cronici tranquilli” in istituti di
assistenza: si tratta di gente che per ragioni sociali, pur non avendo più bisogno di
assistenza psichiatrica, sono rimasti in ospedale psichiatrico;
- per i veri malati di mente il problema è più difficile: ci sono pochi medici psichiatri
per cui è necessario che il trasferimento dei malati si effettui “in blocco”, inclusi cioè i
medici e gli infermieri. Per questo esodo forzato è necessario poter disporre di un
grande edificio, che secondo indiscrezioni sarebbe già stato scelto. In questo caso
sarebbe garantita la “continuità terapeutica” e il trasferimento sarebbe meno
choccante che non una diaspora disorganizzata;
- iniziare subito la costruzione di reparti psichiatrici in terraferma, nelle aree già
acquisite dalla Provincia nel piano di programmazione e di decentramento dei servizi
di assistenza. Si potrebbe impiegare l’edilizia industrializzata (prefabbricati funzionali e
“garantitissimi”): i reparti sarebbero pronti alla scadenza dei sei mesi indicati dai
tecnici che hanno scoperto la fatiscenza delle travi di San Clemente;
- i presidenti degli ospedali provinciali hanno promesso al medico provinciale prof.
Siggia di dare presto una risposta sulla richiesta di posti letto e di reparti per i malati
di mente» («Il Gazzettino», Venezia, 5 febbraio 1970).
Non si teme di ammettere che trecento malati non sono in realtà malati veri, ma sono
trattenuti in ospedale psichiatrico, sotto le rigide regole dell’internamento,
semplicemente perché non ci sono soluzioni sociali a essi adeguate, mentre
conservano l’etichetta di malattie di cui non soffrono o sono definiti psicopatici asociali
ecc., confermando ancora una volta lo stretto legame fra ordine pubblico e
psichiatria3. Si dichiara che mancano i mezzi per risolvere la situazione attuale,
quando solo un anno fa erano stati fatti vasti programmi «a lungo termine»,
dichiarazioni di principio sulla scelta del tipo di assistenza più moderna e rispondente
alle esigenze più attuali, coinvolgendo autorità accademiche e politiche in un
convegno nazionale. (Quanto più aumenta la distanza fra le parole e la realtà, tanto
più si avrà bisogno di affidarsi alle parole e alla loro costitutiva ambiguità)
La contraddizione risulta evidente agli stessi amministratori, costretti a giustificare
altrove il loro operato ricordando «la capacità dimostrata nei cambiamenti di
programma, per adeguarsi alle conquiste sempre nuove della moderna psichiatria»;
senza avvertire il minimo disagio nell’ostinarsi a mantenere un apparato teorico, di
volta in volta diverso, che contrasta in modo stridente e drammatico con una realtà
immutata.

Questo, un esempio dei disagi che riguardano il problema istituzionale specifico. Ma la


stessa cultura psichiatrica ufficiale si mantiene ancora coerente alla situazione economica
più regressiva. Se si analizzano le elaborazioni teoriche su cui si fonda l’apparato
psichiatrico tradizionale, la definizione di malattia (esattamente come le istituzioni
deputate alla sua custodia e cura) è tuttora impostata sulla violenza e la repressione.
Codificazioni discriminanti, diagnosi che acquistano il significato di un preciso giudizio di
valore, definizioni di stati morbosi che si tramutano in «stigma», sono l’evidenza di ciò
che tuttora sottende la nostra cultura psichiatrica: l’ideologia della diversità come
esasperazione della differenza fra gli opposti, salute e malattia, norma e devianza.
Nella nostra cultura il problema delle devianze che sta affacciandosi come tema di
pertinenza della sociologia, risulta assente dall’ambito disciplinare della psichiatria, dove
appare nella forma delle «personalità psicopatiche» di competenza della medicina.
L’«abnorme» continua cioè a essere inglobato in una sintomatologia clinica che si
mantiene all’interno dei parametri nosografici classici, di natura positivista. L’equivoco
creato dalla classificazione tradizionale - la definizione, mutuata dalla cultura tedesca,
degli psicopatici come persone che soffrono e fanno soffrire gli altri - è servito a
confondere, con un più esplicito giudizio di valore, i termini del problema. Il carattere
classificatorio delle abnormità psichiche si è mantenuto all’interno dell’ideologia medica,
anche di fronte all’irrompere delle tendenze psicodinamiche e di altre teorie, con l’unico
risultato di creare nuove, diverse etichette per stigmatizzare ogni comportamento che si
stacchi dalla norma e insieme dai quadri delle sindromi psichiatriche codificate.
Nella nostra cultura medica le personalità psicopatiche continuano a rappresentare uno
dei capitoli più ambigui, controversi e difficilmente delineabili della nosografia
psichiatrica, tanto che è sempre stato difficile definirne l’esatto e autonomo quadro
sintomatologico. Il termine viene riferito abitualmente a soggetti, raggruppabili secondo
alcune caratteristiche peculiari:

a) un precario inserimento sociale, accompagnato da disturbi del comportamento e da


condotte, per lo più, antisociali;
b) un corredo clinico che, sebbene non sempre definibile come patologico, non consente
di considerare questi soggetti come normali.

Le personalità psicopatiche sono, dunque, definite come personalità al limite della


norma, caratterizzate da turbe del comportamento, disturbi affettivi, con tendenza a
condotte antisociali; il tutto genericamente ricondotto ad anomalie caratteriali, riportabili
a particolari tipologie. La psichiatria italiana si rifà ancora - al proposito - alla suddivisione
schneideriana di queste forme, in dieci gruppi (a loro volta separati in sottogruppi e
associazioni di passaggio) dove l’interesse classificatorio e codificante supera ogni
finalità.
Anche nel caso della successiva definizione di personalità sociopatica dove viene preso
in causa l’elemento sociale come secondo polo del rapporto, l’abnorme continua a essere
riferito all’infrazione di uno schema di valori (medici, psicologici e sociali) che viene
accettato come naturale e irriducibile, mai come qualcosa di relativo al sistema sociale di
cui l’individuo fa parte. Nelle interpretazioni dove questa dimensione penetra nel terreno
medico, è chiaro che essa si riferisce principalmente alle conseguenze che una
personalità psicopatica comporta, più che alle pressioni sociali di cui è oggetto,
mantenendosi con ciò in linea con l’ideologia custodialistico-punitiva che sta tuttora alla
base delle istituzioni destinate a preservare la norma.
Il problema dei devianti ha, dunque, nella nostra cultura, ancora la faccia dello
psicopatico, alle cui spalle risuona l’eco delle classificazioni di Lombroso, con il loro chiaro
scopo di tutelare i sani dai mattoidi, pazzi morali rivoluzionari, dai rivoluzionari e
delinquenti politici per passione, dagli anarchici, per non citare che alcune delle sue
definizioni in cui viene solo puntualizzato il fermo desiderio di sovvertire l’ordine
costituito, altrettanto saldamente difeso da Lombroso.
In queste definizioni non ci sono equivoci: l’ideologia medica consente un giudizio
politico-morale che riconosce alle definizioni scientifiche un autentico carattere classista,
senza coperture o mascherature artificiose. La realtà è che le idee dominanti sono le idee
della classe dominante, la quale non tollera elementi che non rispettino le sue regole. Se
così non fosse - se il trasgressore non venisse punito - perché si dovrebbero osservare,
quando non si riesce a riconoscere un interesse né un valore alla loro applicazione?
Si tratta di giudizi che possono trovare una giustificazione nell’epoca in cui sono stati
formulati (l’atlante del Lombroso sull’Uomo delinquente è del 1897). Quando però in un
recentissimo trattato italiano di psichiatria - fra i tanti che fioriscono in questi ultimi anni -
si leggono affermazioni analoghe, la cosa è più difficile da comprendere. Dalla
classificazione che si continua a fare degli psicopatici, è evidente che essenziale è sempre
stigmatizzare colui che devia dalla norma con giudizi di valore che ne mettano a fuoco
l’amoralità e la dissolutezza, anche se la sanzione resta di natura «medica». Qualunque
cosa faccia lo psicopatico è sempre sbagliata, perché il giudizio precede ogni sua azione
come un marchio di fabbrica: se un atto è sbagliato, è sbagliato anche il suo contrario
perché l’errore iniziale è non aver accettato (e le motivazioni di questo rifiuto possono
essere di natura diversa ma non hanno peso sul giudizio che ne viene formulato) le
regole del gioco.
In questo modo viene definito ipertimico chi è ottimista esuberante fino all’euforia. Chi
dimostra un altruismo eccessivo desta serie preoccupazioni. Chi sostiene le proprie
ragioni soffre di una facile combattività che può degenerare in querele e litigiosità in cui
per la sua incostanza spesso non persevera. (Presenza e assenza di litigiosità hanno qui
un’identica connotazione negativa.) Il depresso avrà caratteristiche opposte all’ipertimico.
C’è poi il fanatico che viene definito come colui che vuole imporre agli altri le proprie
convinzioni che propaganda con tutta la sua forza; in contrapposto un altro tipo di
fanatico si limita a professare le proprie idee con la massima fede e disdegnando gli altri.
In questo gruppo va forse inquadrato il psicopa- ta paranoico... in cui si riscontrano i
seguenti elementi essenziali: ipertrofia dell’io, diffidenza nel confronto degli altri, egoismo
e suscettibilità.
La distanza dal Lombroso è minima. Ci sono gli psicopatici volubili o instabili; gli
anetici (mancano di ogni sentimento superiore e di ogni capacità di apprezzamento
morale...) il concetto di psicopatia anetica è molto vicino a quello di «pazzia morale» dei
vecchi autori. L’istrionico viene anche definito come maniaco della notorietà. Lo
psicopatico, insomma, è privo di volontà, ha un cattivo adattamento dentro il gruppo
socio-culturale. insufficienza di empatia, cioè di una partecipazione affettiva con il
prossimo... è freddo, privo di morale (anche se spesso mascherato dietro affermazioni
teoriche e illusorie che suonano come ispirate a un’intensa vita interiore), non accusa mai
senso di colpa, è incapace di lealtà, di fermezza... ogni azione e decisione sa di
improvvisato, di frammentario, di discontinuo... manca, insomma, di stile nel suo modo di
esistere, nel suo essere nel mondo.
Sono queste le definizioni di uno dei più recenti trattati italiani di psichiatria in tema di
psicopatia. Le classificazioni non arrivano qui a giustificarsi neppure sulla base
dell’assenza di una dialettica «interna» al comportamento psicopatico, il che renderebbe
più attendibile il giudizio negativo espresso per entrambe le facce della sua condotta. Lo
psicopatico è soprattutto diverso, in quanto mette in discussione i fondamenti della
norma che si difende costruendo uno spazio e una categoria medico-legale per
circoscriverlo e isolarlo.
La finalità è l’adattamento dell’abnorme ai parametri dettati dalla norma di una società
in via di sviluppo, dove l’efficienza di un polo della realtà è subordinata all’inefficienza
codificata dell’altro. Se nella società affluente si tende a rompere il rigido legame fra
l’ideologia medica e la legge, per creare un nuovo tipo di interdisciplinarietà con altre
scienze umane, la finalità di questo spostamento non è il miglioramento della vita e delle
condizioni dell’uomo, ma la scoperta di un nuovo tipo di produttività e di efficienza che
riesce a sfruttare anche l’inefficiente e l’improduttivo o a trovargli un nuovo ruolo. La
funzione è sempre adeguata alla struttura e un intervento tecnico risulta efficace solo nel
caso che questa coincidenza venga rispettata. Ciò significa che a un dato livello di
sviluppo economico, corrisponde un linguaggio scientifico adeguato e una adeguata realtà
istituzionale. Le elaborazioni scientifiche di avanguardia o mettono in crisi la struttura su
cui si trovano ad agire per l’impossibilità concreta di portare oltre il proprio discorso
pratico-teorico; o sono assorbite come linguaggio puramente ideologico, che serve da
alibi all’immobilità presente, in attesa di produrre una realtà successiva, adeguata al
successivo livello di sviluppo.
La nostra burocrazia psichiatrica deve quindi continuare a difendere le proprie posizioni
conservatrici, strettamente aderenti al livello di realtà in cui viviamo e operiamo (il livello
di sviluppo socio-economico del nostro Paese, che richiede ancora un tipo di controllo
fondato sull’ideologia della diversità) e, insieme non può non tener conto del significato di
certe esperienze pratiche in atto. Sarebbe più facile adeguarsi a un nuovo linguaggio che
provenisse da un’astratta anticipazione teorica, di quanto non si sia disposti ad accettare
il linguaggio, anche contraddittorio, nato come risposta a una realtà pratica. Se la
funzione tecnica e la struttura sociale devono coincidere perché l’intervento tecnico sia
efficace, risulta implicito che gli psichiatri, nell’espletamento della loro funzione, sono
esplicitamente delegati a tutelare l’ordine e difendere la norma e ne accettano la delega.
In caso che questa coincidenza venga spezzata da un intervento che voglia rispondere
praticamente a dei bisogni veri, l’intervento o serve a smascherare il significato implicito
in questa coincidenza e in questa delega, o produce inevitabilmente un aumento del
fenomeno che l’intervento tecnico vorrebbe ovviare.
La cosa risulta evidente nel dilatarsi delle malattie nel momento in cui - all’interno
della logica del capitale - si creano nuovi servizi deputati alla loro cura. L’aumento,
statisticamente riconosciuto, viene imputato alla nuova acculturazione data dall’esistenza
del nuovo servizio, di cui tutti i malati possono disporre. Ma, in tema di politica sanitaria,
un servizio dovrebbe ridurre il fenomeno per cui è stato creato come risposta a una
carenza tecnico-funzionale. Invece, nel momento in cui il nuovo servizio non può che
tendere - come ogni istituzione inserita nel ciclo produttivo - alla propria sopravvivenza,
la finalità è la produzione nel cui cerchio il malato viene assorbito come un nuovo oggetto
e non come il soggetto per i cui bisogni il servizio è stato creato.
Su una struttura sociale diversa, dove la finalità non sia la produzione, ma l’uomo e le
sue condizioni di vita, di cui la produzione è uno strumento di sopravvivenza,
l’inserimento di un nuovo servizio tecnico produce risultati opposti. A Cuba, per esempio,
il servizio sanitario psichiatrico funziona, oltre che nel grande ospedale dell’Avana in via di
smantellamento, attraverso l’organizzazione di piccoli centri ambulatoriali nelle varie
regioni dell’isola. L’inizio di questa nuova attività aveva creato, nel primo periodo, un
aumento di pazienti mentali che si curavano ambulatorialmente, con loro successiva
riduzione. Questo significa forse che a Cuba non esiste la malattia mentale o che sta
velocemente regredendo? Certamente no. Si tratta soltanto del modo diverso in cui si può
disporre di un servizio in una struttura sociale che tende a rispondere ai bisogni dell’uomo
e non alle esigenze del capitale. Il che, ancora una volta ci conferma il peso che assume
la faccia sociale della malattia nel determinismo della malattia stessa.
Se si considera la malattia mentale una contraddizione dell’uomo che può verificarsi in
qualsiasi tipo di società, si può anche dire che ogni società fa della malattia quello che
più le conviene ed è la faccia sociale che ne viene costruita che sarà poi determinante nel
suo evolversi successivo. È in questi termini che si può parlare di uno stretto rapporto fra
psichiatria e politica, perché la psichiatria difende i limiti di norma definiti da
un’organizzazione politico-sociale. Se è vero che la politica non guarisce i malati mentali,
si può paradossalmente rispondere che però ci si ammala con una definizione che ha un
preciso significato politico, nel senso che la definizione di malattia serve, in questo caso,
a mantenere intatti i valori di norma messi in discussione. Che poi chi cade sotto le
sanzioni più rigide nel momento in cui oltrepassa il confine, sia sempre chi non dispone di
uno spazio privato dove poter esprimere - al sicuro - la propria devianza, non è che una
conseguenza logica di una premessa implicita nel tipo di organizzazione sociale in cui
siamo inseriti.
L’invito alla prudenza nella divulgazione di ciò che è la realtà e del significato e della
funzione delle istituzioni deputate alla tutela della norma nella nostra società, è ancora
sempre un invito a mantenere netta la divisione fra norma e abnorme, e una conferma
dello stretto legame fra psichiatria e ordine pubblico. Il problema dell’assistenza
psichiatrica non è solo un problema tecnico, nella misura in cui si tratta di una tecnica
usata a difesa dei limiti di norma che non hanno e non possono avere un valore
oggettivo.
Lo psichiatra agisce sempre nella sua doppia delega di uomo di scienza e di tutore
dell’ordine. Ma i due ruoli sono in evidente contraddizione reciproca, dato che l’uomo di
scienza dovrebbe tendere a salvaguardare e a curare l’uomo malato, mentre il tutore
dell’ordine tende a salvaguardare e difendere l’uomo sano. Quale dei due poli
contrastanti prevale nel ruolo dello psichiatra? In che modo si può presumere di curare
chi esce dalla norma, se la nostra principale preoccupazione è il nostro adattamento alla
norma e il mantenimento dei suoi confini?
Nessuno sostiene che la malattia mentale non esiste, ma la vera astrazione non è
nella malattia così come può manifestarsi, ma nei concetti scientifici che la definiscono
senza farvi fronte come fatto reale. Che cosa significa schizofrenia, psicopatia o devianza,
se non dei concetti astratti e irreali, l’assolutizzazione di una nostra mancata
comprensione della contraddizione che siamo noi e che è la malattia? Che cosa sono le
definizioni se non il tentativo di risolvere in concetti astratti queste contraddizioni, che si
riducono soltanto a merce, etichetta, nome, giudizio di valore che serve a confermare una
differenza? Il discorso dei nostri tecnici, si muove ancora chiaramente sul terreno
dominato dall’ideologia della diversità, dove l’esasperazione degli opposti serve a
difendere e a tutelare lo sviluppo economico in via di espansione4. Così come le voci del
colloquio ideale fra gli psichiatri della società affluente riportate nell’introduzione del
libro, sono chiaramente l’espressione dell’adeguamento con la nuova critica interna, della
funzione tecnica a quella che va delineandosi come la nuova struttura, modificata dalla
nuova fase di sviluppo del capitale. La distanza è evidente, anche se - al di là delle
apparenze - la sostanza resta immutata, una volta che si riesca a realizzare l’equivalenza
degli opposti.
I COLLETTI NERI

Ideologia della diversità e ideologia dell’equivalenza si trovano a coincidere, nella misura


in cui corrispondono a due diversi momenti concettuali e pratici legati a fasi diverse dello
sviluppo socio-economico. Su queste due diverse razionalizzazioni, si fonda l’evoluzione
della scienza, la cui efficacia reale risulta direttamente dipendente dalla coincidenza fra
struttura socio-economica e funzione istituzionale specifica: cioè, l’intervento tecnico-
scientifico, come nuova ipotesi che mette in discussione la realtà in atto, può trovare la
sua verifica pratica solo nel momento in cui diventa funzionale alla fase successiva dello
sviluppo socio-economico generale, trovando - insieme alla verifica - anche la propria
morte nell’assolutizzazione dell’ipotesi primitiva.
Nel caso specifico delle devianze, è evidente che l’ideologia della diversità serve
ancora a sancire la forma di controllo più adeguata a una particolare fase di sviluppo
tecnico-industriale; così come l’immissione nel campo delle nuove scienze sociali - con la
conseguente dilatazione del problema e quindi del terreno di indagine e di cura - tende a
sostituire, in corrispondenza alle precedenti forme di controllo, le teorizzazioni e le
pratiche precedenti, considerandole fasi superate e non più necessarie e, in questo senso,
definite come puramente ideologiche.
La vecchia ideologia custodialistico-punitiva risulta infatti insufficiente alla
totalizzazione del controllo, in corrispondenza con lo sviluppo del capitale. Per questo è
ora possibile mettere a nudo, attraverso analisi sociologiche e sociopsichiatriche, ciò che
non è più necessario nascondere.
La letteratura nordamericana è particolarmente ricca di analisi che denunciano gli
aspetti più contraddittori della vita sociale degli Usa: indagini sociologiche sui ghetti
negri, contemporanee alle campagne integrazioniste (quando la gente di colore abbia
compreso e accettato il suo posto nella civiltà dei bianchi); analisi sociologiche sulle
condizioni dei malati di mente negli asili psichiatrici (ci si riferisce, in particolare, alle
analisi di E. Goffman); studi sul problema delle devianze, con relativa istituzione di nuovi
centri psichiatrici destinati al loro controllo; critiche all’«oggettiva- zione» dell’uomo
perpetrata dalle vecchie teorie che producono le nuove.
Fra queste analisi può essere utile riportare qui il saggio del sociologo Edwin Lemert
sul problema della paranoia e della dinamica dell’esclusione, poiché associa i due termini
del discorso: quello psichiatrico e quello sociologico. Scrive Lemert:

Gli elementi del comportamento su cui si basano le diagnosi di paranoia - deliri,


ostilità, aggressività, sospetto, invidia, ostinazione, gelosia e idee di riferimento - sono
facilmente compresi e in certa misura enfatizzati dagli altri come reazioni sociali, in
antitesi con il comportamento bizzarro e manierato dello schizofrenico o i mutamenti
ciclici e affettivi puntualizzati nelle diagnosi di mania depressiva. Per questo la
paranoia suggerisce, più di qualunque altra forma di disturbo mentale, la possibilità di
un’utile analisi sociologica.

Diamo interamente il testo, ritenendo che il lettore possa scoprire dalle indicazioni
della nostra analisi, elementi che la nostra «tendenziosità» potrebbe trascurare. Si tratta
di un’indagine sulla paranoia - abitualmente ritenuta come sviluppo di una personalità
abnorme - e del rapporto che la società con essa di norma intrattiene: rapporto di
esclusione che si riproduce e perpetua nella stessa analisi sociologica.
LA PARANOIA E LA DINAMICA DELL’ESCLUSIONE
di Edwin Lemert

Una delle poche generalizzazioni sul comportamento psicotico che i sociologi siano riusciti
a formulare con relativo accordo e una certa sicurezza, è che tale comportamento sia da
ritenersi il risultato o la manifestazione di un disordine nella comunicazione fra individuo
e società. La generalizzazione è naturalmente ampia e, mentre può essere facilmente
esemplificata con materiale tratto da cartelle cliniche, risulta necessario approfondire il
concetto e descrivere il processo attraverso il quale - nella dinamica dei disturbi mentali -
si verifica questa rottura della comunicazione. Fra i modi di affrontare il problema, la
formulazione di Cameron sulla pseudocomunità paranoide è la più seria5.
In sostanza l’idea di pseudocomunità paranoide può essere così definita6:

Paranoide è colui che, in situazioni di stress inusuale, è spinto - a causa della sua
insufficiente capacità di apprendimento sociale - a reazioni sociali inadeguate. Dai
frammenti di comportamento sociale altrui, il paranoide organizza simbolicamente una
pseudocomunità le cui funzioni egli percepisce come focalizzate su di sé. Le sue
reazioni a questa comunità immaginata che vede densa di minaccia, lo spingono a un
conflitto aperto con la comunità reale, costringendolo a un temporaneo o permanente
isolamento da tutto ciò che lo riguarda. La comunità «reale» che è incapace di prender
parte alle sue attitudini e reazioni, entra in azione per mezzo di un energico controllo
o come risposta-rappresaglia dopo che il paranoide «esplode azioni difensive o
vendicative»7.

Che la comunità cui il paranoide reagisce sia una «pseudocomunità» o una comunità
priva di esistenza reale, risulta chiaramente quando Cameron sostiene:

Quando egli [il paranoide] incomincia ad attribuire agli altri atteggiamenti che ha
verso se stesso, egli si trova a organizzarli, involontariamente, in una comunità
funzionale, un gruppo unificato nelle presunte reazioni, atteggiamenti e progetti nei
suoi confronti. In questo modo egli organizza gli individui, alcuni dei quali sono
persone reali, altri soltanto supposte o immaginate, in un insieme unico che soddisfa
per il momento il suo bisogno immediato di chiarificazione, ma non gli dà la minima
sicurezza e contribuisce di solito ad aumentare il suo stato di tensione. La comunità
che egli si costruisce, non soltanto non corrisponde ad alcun tipo di organizzazione cui
anche altri partecipano, ma in pratica si trova in netto contrasto con ogni tipo di
consenso generale. Inoltre, le azioni che egli attribuisce al gruppo non sono in realtà
da questi dette o
fatte; il gruppo non risulta unito in alcuna comune impresa
contro di lui8.

Non si può negare l’intuizione generale dell’analisi di Cameron e l’utilità di alcune delle
sue idee è infatti riconosciuta. Si deve tuttavia sollevare un’obiezione, basata su una
domanda empirica, cioè se, in pratica, le qualità insidiose della comunità cui il paranoide
reagisce, siano una pseudorealtà o una costruzione simbolica. Ci sarebbe poi un altro
punto di vista che è il tema di questo articolo, e cioè che, mentre il paranoide reagisce in
modo diverso all’ambiente sociale che lo circonda, è anche vero che «gli altri» reagiscono
in modo diverso nei suoi confronti, e questa reazione, abitualmente se non sempre,
implica un’azione segretamente organizzata e un comportamento cospirativo in senso del
tutto concreto. Un’ulteriore estensione della nostra tesi è che queste reazioni differenziali
sono il reciproco l’una dell’altra, dato che sono intrecciate e concatenate a ogni fase del
processo di esclusione che nasce in un tipo particolare di rapporto. Il delirio e il
comportamento a esso associato, devono essere compresi in un contesto di esclusione
che riduce il rapporto e rompe la comunicazione.
Spostando così l’attenzione clinica dell’individuo al rapporto e al processo, noi attuiamo
un’esplicita frattura con il concetto di paranoia intesa come disturbo, stato, condizione o
sindrome costituita da sintomi. Inoltre, non risulta necessario postulare un trauma nella
prima infanzia o un arresto dell’evoluzione psicosessuale come responsabili delle
principali caratteristiche della paranoia - benché si sappia che questi e altri fattori ne
possono condizionare il modo di manifestarsi.
Il concetto di paranoia non è né una semplice teoria a priori, né un prodotto di stretta
pertinenza della sociologia. Un notevole insieme di lavori e di ricerche empiriche nel
campo della psichiatria e della psicologia mette in questione il fatto che l’individuo possa
essere un dato sufficiente allo studio della paranoia. Tyhurst, per esempio, conclude la
sua indagine sulla letteratura in merito, sostenendo che la fede nei meccanismi
intrapsichici e nell’«organismo isolato» è stata uno dei maggiori ostacoli al
raggiungimento di utili scoperte su questo tipo di disturbo9. Infatti, come fa osservare
Milner, più è completa l’investigazione dei casi, più frequentemente appaiono circostanze
esterne intollerabili10. Più precisamente, molti studi finiscono con la conclusione che
circostanze esterne - mutamenti nelle norme e nei valori, spostamenti, ambienti estranei,
isolamenti e separazioni linguistiche - possono creare una disposizione paranoide, in
assenza anche di qualsiasi particolare struttura di carattere11.
L’identificazione di reazioni paranoidi in persone anziane, alcolizzati e sordi, aggiunge
dati che generalmente confermano la nostra tesi. Il fatto di riscontrare che profughi,
sottoposti a un alto grado di stress durante la guerra e la prigionia, abbiano sviluppato in
seguito reazioni paranoidi quando si trovavano isolati in ambienti stranieri, richiede di
puntare l’attenzione su dati che esigono spiegazioni in termini diversi da quelli
organicistici o psicodinamici12.
Da ciò che si è detto finora, dovrebbe risultare chiaro che la nostra formulazione e la
nostra analisi vuole soprattutto affrontare ciò che Tyhurst 13 chiama lo schema di
comportamento paranoide, più che l’entità clinica intesa in senso kraepeli- niano classico.
Le reazioni paranoidi, gli stati paranoidi, i disturbi paranoidi della personalità, così come
quella che viene raramente diagnosticata come «paranoia vera», che si riscontrano
sovrapposti o associati a una grande varietà di comportamenti individuali o di «sintomi»,
forniscono un corpo di dati per lo studio, purché essi assumano una priorità su altri
comportamenti in una interazione sociale significativa. Gli elementi del comportamento
su cui si basano le diagnosi di paranoia - deliri, ostilità, aggressività, sospetto, invidia,
ostinazione, gelosia e idee di riferimento - sono facilmente compresi e in certa misura
enfatizzati dagli altri come reazioni sociali, in antitesi con il comportamento bizzarro e
manierato dello schizofrenico o i mutamenti ciclici e affettivi puntualizzati nelle diagnosi
di mania depressiva. Per questo la paranoia suggerisce, più di qualunque altra forma di
disturbo mentale, la possibilità di un’utile analisi sociologica.

Dati e procedimenti

Le prime conclusioni sperimentali qui presentate, sono state ricavate da uno studio sui
fattori che giocano sulla decisione di ricoverare i disturbati mentali in ospedale, studio
iniziato nel 1952 con la collaborazione del County Department of Health di Los Angeles.
Questa ricerca comprendeva interviste per mezzo di questionari, sottoposti ai membri di
quarantaquattro famiglie della contea di Los Angeles che risultavano aver chiesto
attivamente procedure di ricovero, e lo studio di trentacinque casi di affidamenti a
funzionari di salute pubblica. In sedici casi del primo gruppo e in sette del secondo erano
evidenti sintomi paranoidi. In questi casi i membri della famiglia e altri avevano
semplicemente accettato o «normalizzato» il comportamento paranoide, in alcuni anche
per lungo tempo, fino a quando altri elementi nel comportamento o altre esigenze
portavano al giudizio critico che «c’era qualcosa che non andava» nella persona in
questione e, successivamente, che era necessario ricoverarla. Inoltre, questi giudizi critici
sembravano segnalare un cambiamento nell’atteggiamento e nel comportamento della
famiglia nei confronti della persona disturbata, il che poteva essere interpretato come un
ulteriore contributo, secondo modalità diverse, alla forma e all’intensità dei sintomi
paranoidi.
Nel 1958 fu fatto uno studio più approfondito e orientato secondo questa ipotesi, su
otto casi di persone che presentavano notevoli caratteristiche di tipo paranoide. Quattro
di questi erano stati ricoverati nell’ospedale psichiatrico di Napa, in California, dove
furono diagnosticati come schizofrenici paranoidi. Altri due casi furono individuati e
studiati con l’aiuto del procuratore distrettuale di Martinez, California. Una di queste
persone era stata precedentemente ricoverata in un ospedale psichiatrico della California;
l’altro, detenuto per infermità mentale, era stato rilasciato in seguito a un processo con
giuria. Oltre a questi, c’era un cosiddetto caso «della Casa Bianca» che comportava
minacce al presidente degli Stati Uniti, con il conseguente ricovero del soggetto
nell’ospedale St Elizabeth di Washington, D.C. Ultimo era il caso di un professionista, con
una storia di difficoltà croniche sul lavoro, il quale era definito e considerato dai colleghi
come «esaltato», «omosessuale», «irritante», «ipercritico» e «profondamente
sgradevole».
In modo molto approssimativo, i casi costituivano un continuum che, da situazioni
caratterizzate da deliri molto elaborati, andava, passando attraverso altre in cui i fatti
erano difficilmente separabili dal disturbo di interpretazione, fino all’ultimo caso che più
degli altri si avvicinava a ciò che si potrebbe definire un disturbo paranoide della
personalità. Uno dei presupposti nella selezione dei casi era che non fossero presenti
alcuna storia o prova di allucinazioni e che le persone fossero intellettualmente lucide.
Sette dei casi erano uomini, di cui cinque oltre i quarant’anni. Tre erano stati implicati in
numerose cause. Uno aveva pubblicato un piccolo lavoro, a sue spese, denunciando la
psichiatria e gli ospedali psichiatrici. Fra gli uomini, cinque avevano fatto parte o facevano
ancora parte di organizzazioni come: la scuola media superiore di una piccola città; un
ufficio di ricerche governative; una associazione di produttori agricoli, una università e
un’agenzia d’affari.
L’investigazione dei casi era stata il più esauriente possibile, coinvolgendo parenti,
colleghi di ufficio, datori di lavoro, procuratori, polizia, medici, pubblici ufficiali e chiunque
avesse rappresentato un ruolo importante nella vita delle persone in esame. Alcuni dei
casi richiesero duecento ore per la raccolta dei dati. Oltre i dati ricavati dalle interviste,
furono consultati materiale scritto, documenti legali, pubblicazioni, e cartelle
psichiatriche. Il nostro procedimento, in generale, consisteva nell’adottare una
prospettiva di tipo interattivo che ci sensibilizzò al comportamento attinente ai rapporti
sociali, che sta sotto o è associato ai contesti più evidenti e formali del disturbo mentale.
In particolare ci siamo preoccupati di stabilire l’ordine secondo il quale si verificano i deliri
e l’esclusione sociale e a determinare se l’esclusione assuma forma cospirativa.

Il comportamento pertinente

In un altro lavoro14 abbiamo dimostrato che i sintomi psicotici, così come sono descritti
dalla psichiatria accademica, non sono basi da cui poter prevedere mutamenti di
condizione sociale o del grado di partecipazione sociale nelle persone in cui si rivelano.
Apatia, allucinazioni, iperattività, oscillazioni d’umore, tic, tremori, paralisi funzionali o
tachicardie non hanno un significato sociale intrinseco. Allo stesso modo non lo hanno
qualità a ciò attribuite quali «mancanza di insight», «incompetenza sociale» o «incapacità
ad assumere un ruolo», che alcuni sociologi sostengono siano generici punti di partenza
per l’analisi dei disturbi mentali. È piuttosto il comportamento che caricando di tensione i
rapporti sociali, provoca mutamenti di status: cioè l’esclusione ufficiale o ufficiosa dai
gruppi, la definizione di «sfasato» o il giudizio di folle e l’internamento in un ospedale
psichiatrico15. Il che si verifica anche quando sono presenti clamorosi e bizzarri deliri
paranoidi. La definizione degli aspetti socialmente stressanti di questo tipo di disturbo è il
minimo essenziale, se dobbiamo tener conto della sua frequenza in forma parzialmente
compensata o benigna nella società, come pure della sua presenza più nota in quanto
problema psichiatrico ufficiale in un ambiente ospedaliero.
Tuttavia, è necessario andare oltre queste osservazioni elementari per rendere
soprattutto chiaro che la tensione è il prodotto che emerge da un rapporto nel quale il
comportamento di due o più persone sono fattori rilevanti, e dove la tensione è vissuta
sia dall’ego che dall’altro o dagli altri. Il rapporto paranoide comprende comportamenti
alternativi, accompagnati da emozioni e significati che, per essere pienamente compresi,
devono venir descritti cubisticamente, da almeno due delle loro prospettive. Da un lato il
comportamento dell’individuo deve essere visto dalla prospettiva degli altri o del gruppo
e, viceversa, il comportamento degli altri deve essere visto dalla prospettiva dell’individuo
in questione.
Nei confronti degli altri, nel rapporto paranoide l’individuo mostra:

1) disprezzo per i valori e le norme del gruppo primario, rivelato nel dare priorità a valori
definibili verbalmente su quelli impliciti; mancanza di lealtà in cambio di fiducia,
tendenza a vittimizzare o intimidire le persone in posizione di debolezza;
2) disprezzo per l’implicita struttura dei gruppi, che si rivela nell’approfittare di privilegi
non accordatigli e nella minaccia, o nel ricorso reale, a mezzi formali per ottenere ciò
che vuole.

Per quanto riguarda l’analisi dell’esclusione, i secondi punti hanno un più alto grado di
rilevanza rispetto al primo. Più semplicemente, essi significano che, per il gruppo,
l’individuo risulta una figura ambigua, il cui comportamento è incerto e sulla cui lealtà non
si può contare. Insomma è una persona della quale non ci si può fidare, perché minaccia
di smascherare strutture di potere irregolari. Questa pensiamo sia la spiegazione
essenziale del fatto che frequentemente si ritiene che il paranoide sia «pericoloso»16.
Se noi adottiamo l’insieme percettivo dell’ego e vediamo gli altri o i gruppi con i suoi
occhi, diventano rilevanti i seguenti aspetti del loro comportamento:

1) la qualità spuria dell’interazione fra gli altri e l’individuo o fra gli altri mentre
interagiscono in sua presenza;
2) il modo aperto in cui gli altri lo evitano;
3) l’esclusione strutturata dell’individuo da ogni azione reciproca.

I punti descritti finora - il comportamento irresponsabile dell’individuo nei confronti dei


valori del gruppo primario e la sua esclusione da ogni possibilità di azione reciproca - non
producono né mantengono da soli la paranoia.
È necessario ancora che essi emergano in un rapporto interdipendente che richiede
fiducia affinché si realizzi. Il rapporto è qualcosa per cui le finalità di un individuo possono
essere raggiunte soltanto con la collaborazione di altre determinate persone, e nel quale
gli scopi ottenuti da altri sono realizzabili se esiste una collaborazione da parte dell’ego.
Questo lo si deduce dall’assunto generale, secondo il quale la collaborazione poggia su
una fiducia percepita che, a sua volta, è una funzione della comunicazione17. Quando la
comunicazione viene interrotta dall’esclusione, c’è mancanza di fiducia reciprocamente
percepita e il rapporto si rovina o diventa paranoide. Ora considereremo il processo di
esclusione attraverso cui questo tipo di rapporto si sviluppa.
Il processo generico di esclusione

Il processo paranoide incomincia con persistenti difficoltà interpersonali fra l’individuo e la


famiglia, o i colleghi e i superiori nel luogo di lavoro, o i vicini o altre persone nella
comunità. Queste difficoltà, di frequente se non sempre, nascono dalla buona fede o dal
fatto che viene messa a fuoco, attraverso alcuni punti riconoscibili, una reale o temuta
perdita di status per l’individuo. Il che può verificarsi in occasioni come morte di parenti,
perdita di una certa posizione, perdita del titolo professionale, mancata promozione,
mutamenti di età o nel ciclo fisiologico, mutilazioni e cambiamenti nel rapporto familiare
e matrimoniale. I cambiamenti di status si distinguono dal fatto che essi non lasciano
alcuna alternativa accettabile per l’individuo, da cui deriva la loro natura «intollerabile» o
«insopportabile». Per esempio: per chi ha studiato per diventare insegnante, il mancato
conseguimento del diploma significa che non potrà mai insegnare; o l’uomo di
cinquant’anni che si trovi davanti alla mancata promozione, che è l’ordine normale di
progresso ascendente nell’organizzazione e capisce che non potrà «far carriera»; o la
moglie che, sottoposta a un’isterectomia, ricava da questa esperienza un’immagine di sé
mutilata in quanto donna.
In casi in cui non possano essere individuati drammatiche perdite di status, spesso si
riscontra una serie di fallimenti che possono essere stati accettati o ai quali vi può essere
stato un certo adattamento, ma con una tensione maggiore ogni volta che si iniziava un
nuovo status. L’intollerabilità della perdita dello status attuale, che potrebbe apparire di
poco conto agli occhi degli altri, è espressione di un impegno più intenso, nato in alcuni
casi dalla coscienza che, nella nostra società, c’è una tassa sui fallimenti. In alcune
circostanze del genere il fallimento ha seguito l’individuo e la reputazione di «persona
difficile» che l’ha preceduto. Ciò significa che l’individuo si trova spesso nella situazione di
un estraneo in prova, in ogni nuovo gruppo in cui entra, e che i gruppi e le organizzazioni
che siano disposte a correre un rischio per lui, sono poche per quanto riguarda la
eventuale tolleranza delle sue azioni.
Il comportamento dell’individuo - arroganza, insulti, tendenza ad approfittare di
privilegi e a strumentalizzare la debolezza altrui - ha inizialmente una struttura
frammentata e variegata, nel senso che è limitata all’interazione degli status d’obbligo. Al
di là di questa, il comportamento della persona potrebbe essere assolutamente
accettabile - ossequiente, rispettoso, gentile e perfino indulgente. Nello stesso modo, le
altre persone e i membri dei gruppi variano notevolmente nel grado di tolleranza nei
confronti del comportamento in questione, a seconda della misura in cui esso minaccia
valori individuali e dell’organizzazione, ne impedisce le funzioni o mette in moto
imbarazzanti sequenze di azioni sociali. Nel primo periodo generico, la tolleranza da parte
degli altri per il comportamento aggressivo dell’individuo, in generale, è ampia e ha molte
probabilità di venire interpretata come una variazione del comportamento normale, in
particolare in assenza di notizie biografiche sulla persona. Tutt’al più la gente osserva che
«c’è qualcosa che non va in lei», o «deve star male» o «è proprio strambo» o «io proprio
quello non lo capisco»18.
A qualche punto della catena delle interazioni, si verifica nelle percezioni che gli altri
hanno dell’individuo una nuova configurazione, con mutamenti nel rapporto figura-
sfondo. L’individuo, come abbiamo già accennato, è una figura ambigua, paragonabile
alle figure di scale o di cubi abbozzati, che si rovesciano se si fissano attentamente. Da
una variante normale, la persona si trasforma in «uno su cui non si può contare», «uno di
cui non ci si può fidare», «pericoloso» o qualcuno con cui gli altri «non vogliono avere a
che fare». Un chiaro esempio al proposito emerse dalla reazione del capo di un
dipartimento di musica in una università, quando accettò di parlare con un uomo che
aveva lavorato per anni su una teoria per comporre musica matematicamente:

Quando chiese di essere ammesso nello staff in modo da poter usare i computer
elettronici dell’università io presi un nuovo atteggiamento... quando feci un’obiezione
sulla sua teoria, egli si turbò, cosi cambiai la mia reazione in «sì e no».

Come risulta da questo esempio, quando si verifica un nuovo orientamento percettivo,


sia come conseguenza del rapporto continuo o per la successiva conoscenza di
informazioni biografiche, il rapporto cambia di qualità. Nel nostro linguaggio, esso diventa
spurio, cioè caratterizzato da una conversazione protettiva, evasiva, «assecondante»,
guidata verso argomenti prestabiliti, sottoreazione e silenzio, il tutto calcolato in modo
sia da impedire un’interazione intensa, sia da proteggere i valori individuali e del gruppo
restringendone le possibilità di accesso. Quando la interazione si verifica fra due o più
persone in presenza dell’individuo, essa è seguita da un intero repertorio di misteriosi
segni espressivi che hanno un significato solo per loro.
Gli effetti netti di un rapporto spurio sono:

1) arrestare il fluire dell’informazione per l’ego;


2) creare una contraddizione fra le idee espresse e simulare in mezzo a coloro con i quali
egli ha rapporto;
3) rendere la situazione o l’immagine del gruppo tanto ambigua per l’ego quanto lo è per
gli altri.

È inutile dire che questo tipo di rapporto spurio è uno dei più difficili da affrontare per
un adulto nella nostra società, poiché esso gli complica o rende impossibile ogni decisione
e anche perché è moralmente odioso19.
Il processo dall’inclusione all’esclusione non è affatto uniforme. Entrambe le parti,
l’individuo e i membri del gruppo, mutano le loro percezioni e reazioni, e l’incertezza è
comune dato che dipende dal reciproco gioco dei valori, dell’ansia, e della colpa da
entrambe le parti. I membri di un gruppo che esclude possono decidere di essere stati
ingiusti e tentare di ridare la loro fiducia all’escluso. Questa apertura potrebbe essere
rifiutata o usata dall’ego come mezzo per un ulteriore attacco. Abbiamo anche riscontrato
che l’ego potrebbe arrendersi agli altri, talvolta in modo abbietto, e cercare di rientrare
nel gruppo, soltanto per essere nuovamente rifiutato. In alcuni casi si raggiunge un
compromesso e si ottiene una parziale reintegrazione dell’ego nelle relazioni sociali
informali. La direzione presa dall’esclusione informale dipende dalle reazioni dell’ego, dal
grado di comunicazione fra coloro che interagiscono, dalla composizione e struttura dei
gruppi informali, e dalle percezioni delle «altre figure chiave» presenti nei punti di
interazione che possono influire direttamente sullo status dell’ego.

Crisi nell’organizzazione ed esclusione formale

Fin qui abbiamo discusso l’esclusione come processo informale. L’esclusione informale
potrebbe verificarsi lasciando intatto lo status formale dell’ego in una organizzazione.
Nella misura in cui questo status si conserva e i compensi sono sufficienti a renderlo
valido entro i suoi termini, può mantenersi una pace inquieta fra l’individuo e gli altri. Ma
l’isolamento sociale dell’ego e le forti costrizioni di cui è oggetto lo rendono un agente
imprevedibile; inoltre il mutamento e le lotte interne di potere, specialmente se si tratta
di grandi e complesse organizzazioni, significano che le condizioni che potrebbero
garantire una certa stabilità possono avere la vita breve.
Le crisi che si verificano in un’organizzazione e che coinvolgono un rapporto paranoide,
possono insorgere secondo modalità diverse. L’individuo può agire in modo da provocare
negli altri ansietà intollerabili, tanto che questi esigono «che si faccia qualcosa». Inoltre,
il suo stesso rivolgersi alla autorità più alta o lanciare degli appelli al di fuori
dell’organizzazione, può mettere in moto procedimenti che non consentono a chi ha il
potere, altre scelte oltre quella di intervenire. In alcune situazioni l’ego si mantiene
relativamente tranquillo e non attacca apertamente l’organizzazione. L’azione nei suoi
confronti è messa in moto dalle ansie sempre crescenti o per calcolo dei colleghi - in
alcuni casi i suoi immediati superiori. Infine, la crisi può precipitare in seguito a regolari
procedimenti organizzativi secondari a promozioni, pensione o trasferimenti.
Presumendo una situazione critica nella quale il conflitto fra l’individuo e i membri
dell’organizzazione spinge a un’azione per escludere formalmente il primo, vi possono
essere diverse possibilità. Una è il trasferimento dell’ego da un dipartimento, sezione o
divisione dell’organizzazione a un’altra, misura questa adottata spesso nei servizi militari
o nelle grosse aziende. Ciò richiede che l’individuo accetti il trasferimento e che vi sia un
dipartimento disposto ad accettare l’individuo. Mentre la cosa si attua in vari modi,
artifici, informazioni rifiutate, corruzioni o minacce sottilmente velate, sono presenti in
maniera cospicua fra i mezzi usati per portare a buon fine il trasferimento. È inutile dire
che esiste un limite all’uso dei trasferimenti come soluzione del problema, limite che si
fonda sull’entità dell’organizzazione e la precedente diffusione di notizie circa l’individuo
da trasferire.
La seconda soluzione che noi definiamo di incapsulamento, tende, in breve, a
riorganizzare e ridefinire lo status dell’ego. Il che ha l’effetto di isolarlo dall’organizzazione
e renderlo direttamente responsabile di fronte a uno o due superiori i quali agiscono
come suoi intermediari. Il trasferimento è spesso reso più accettabile attraverso
l’aumento di alcuni compensi materiali. L’individuo in discussione potrebbe essere
nominalmente promosso o «spinto in su», può venirgli dato un ufficio più grande, una
segretaria personale, o può venir sollevato dai compiti gravosi. Talvolta si crea per lui
uno status speciale.
Questo tipo di soluzione riesce spesso, perché si tratta di una sorta di riconoscimento
formale da parte dell’organizzazione dell’intensa costrizione dell’ego nel suo status e, in
parte, di una vittoria sui suoi nemici. La cosa lo porta infatti a scavalcarli, mettendolo in
comunicazione diretta con le autorità superiori che possono avere rapporti con lui senza
intermediari. Inoltre tale misura solleva i colleghi dall’ulteriore necessità di complottare
contro di lui. Questo genere di soluzione viene talvolta usato per sbarazzarsi di qualche
noioso funzionario d’azienda, ufficiali di alto grado, o di personae non gratae nelle
università.
Un terzo tipo di soluzione al problema della paranoia in un’organizzazione sono il
licenziamento immediato, le dimissioni imposte o il mancato rinnovo della nomina. Infine,
si può organizzare una procedura per cui l’individuo che soffre di un rapporto paranoide
venga collocato in licenza di malattia o costretto a sottoporsi a una cura psichiatrica.
L’esempio limite è la pressione (fatta anche sulla famiglia), o l’azione diretta, tesa a far
ricoverare la persona in ospedale psichiatrico.
L’ordine delle suddette soluzioni al problema del para- noide riflette in modo
approssimativo l’entità dei rischi associati alle alternative date, quanto a probabilità di
fallimento e quanto a ripercussioni nocive per l’organizzazione. In genere, le
organizzazioni sembrano dimostrare una notevole resistenza a prendere o mettere in atto
decisioni che richiedano l’espulsione dell’individuo, o la sua forzata ospedalizzazione,
senza tenere conto delle sue condizioni mentali. Una spiegazione di questo fatto è che
l’individuo in parola potrebbe avere un certo potere dentro l’organizzazione, potere
fondato sulla sua posizione, o su abilità e informazioni di cui egli solo dispone20, e, in
questo caso - a meno che non vi sia una forte coalizione contro di lui - il conservatorismo
generale che caratterizza le decisioni amministrative, può tradursi in suo favore. Il
romanzo di Herman Wouk The Calne Mutiny [L’ammutinamento del Caine] dimostra
drammaticamente alcune delle difficoltà incontrate nel destituire una persona da una
posizione di potere in un’organizzazione militare conservatrice per eccellenza. Un esempio
limite di questo conservatorismo è illustrato dal caso da noi trovato di un
capodipartimento mantenuto nella sua posizione, benché fosse attivamente allucinato ed
esprimesse deliri paranoidi21. Un altro fattore che agisce a vantaggio dell’individuo è che
il licenziamento di una persona in posizione di potere depone a sfavore di coloro che ve lo
hanno collocato. Può andarne di mezzo la solidarietà di gruppo degli amministratori e
l’opposizione può creare simpatia per l’ego a più alti livelli.
Anche quando una persona è quasi totalmente esclusa e di fatto isolata
nell’organizzazione, essa potrebbe tuttavia avere un certo potere esterno. Quando si può
- in qualche modo - invocare il potere esterno, la cosa ha un certo peso;
anche quando una denuncia porterebbe automaticamente a sollevare dei dubbi sul
funzionamento interno della organizzazione. Questo confina con il motivo più importante
per cui si è riluttanti a mandar via una persona vendicativa e che non collabora, anche se
è relativamente poco importante nell’organizzazione. Ci riferiamo qui a una sorta di
potere negativo derivato dalla vulnerabilità delle organizzazioni alla propaganda
sfavorevole e al mettere in mostra le loro vite private; il che è probabile accada qualora
la crisi venga formalmente riconosciuta, o giunge a una revisione del caso o a
procedimenti legali. Questo può verificarsi dove esistano casi di paranoia. Se si tenta il
ricovero, c’è la possibilità che si richieda un processo con giuria popolare, che costringerà
i dirigenti dell’organizzazione a difendere le loro azioni. Se la crisi si trasforma in una
contesa legale del genere, è difficile provare l’infermità mentale e vi possono essere
cause per risarcimento di danni. Anche se vi sono fatti gravi a sostegno dei denuncianti,
una simile contesa può soltanto gettare una luce sfavorevole sulla organizzazione.

La natura cospirativa dell’esclusione

Una conclusione che si può trarre da quanto accennato è che la vulnerabilità


dell’organizzazione, così come la minaccia di rappresaglie da parte del paranoide,
costituisce una base funzionale alla cospirazione per coloro che cercano di reprimerlo o di
privarlo del posto. Ci sono molte probabilità che appaia nell’organizzazione una coalizione
insieme a un impegno comune di opporsi al paranoide. Il gruppo escludente chiede ai
suoi membri lealtà, solidarietà e segretezza; esso agisce secondo uno schema comune e
utilizza, a gradi diversi, le tecniche di manipolazione e di travisamento.
Cospirazioni in forma rudimentale possono essere scoperte nell’esclusione informale,
separatamente dalla crisi nell’organizzazione. Questo è stato illustrato nel gruppo di
ricerca di un ufficio, nel quale i membri dello staff si riunivano attorno a un refrigeratore
per discutere su un collega indesiderato. Essi inoltre usavano il telefono per organizzare
piccoli intervalli dove prendevano il caffè senza di lui e, in sua presenza, usavano battute
simboliche come canticchiare il tema della canzone di Dragnet quando egli si avvicinava.
Era stata introdotta, con la complicità dei supervisori, una regola d’ufficio che proibiva la
conversazione con estranei, regola apparentemente fatta per tutti ma, in realtà, diretta a
limitare il campo d’azione del compagno isolato. In un altro caso, una scheda di intervista
preparata da un ricercatore fu sostituita durante una riunione indetta senza di lui. Quando
egli chiese spiegazioni alla successiva riunione, i colleghi finsero di non saper niente dei
cambiamenti.
Il comportamento cospirativo entra nella fase più acuta durante le crisi
dell’organizzazione, nelle quali gli escludenti che iniziano l’azione costituiscono un gruppo
pronto a combattere. Si assiste qui a uno sforzo concertato allo scopo di ottenere il
consenso sul giudizio formulato, rafforzare il gruppo ed evitare di mantenere rapporti
stretti con coloro che non vogliono aderire totalmente alla coalizione. Si fanno anche
sforzi per neutralizzare coloro che si mantengono estranei ma che non possono essere
tenuti all’oscuro dei progetti in corso. Così all’esterno risulta un’apparente unanimità
anche se questa non esiste.
Parte del comportamento del gruppo a questo punto è di natura strategica, con calcoli
ben definiti quanto a «che cosa faremo se lui fa così e così». In uno dei nostri casi, un
membro di un consiglio d’amministrazione disse che «si stava giocando una partita» con
la persona in controversia con il gruppo. L’azione progettata può arrivare al punto di
accordarsi sulle esatte parole da usare nel caso l’individuo paranoide affronti o sfidi il
gruppo. Soprattutto c’è una comunicazione continua e precisa fra gli escludenti,
esemplificata, in un caso, dal reciproco scambio di copie di tutte le lettere mandate e
ricevute dalla persona in questione.
La preoccupazione della segretezza in questi gruppi è rivelata da fatti quali il chiudere
attentamente la porta, abbassare la voce quando si parla della persona. Luogo e tempo
degli incontri vengono cambiati dalle normali abitudini; i documenti possono venire
archiviati in posti insoliti e alcuni telefoni non vengono usati durante una crisi paranoide.
L’evidenza del comportamento dell’individuo in questione è, in questo periodo,
enormemente ingigantita; spesso egli risulta l’argomento principale delle conversazioni
tra gli escludenti, mentre l’eco di questi problemi si estende ad altri gruppi che, in alcuni
casi, vengono trascinati nella controversia. A un certo punto si prendono alcune
precauzioni per tenere i membri del gruppo costituito continuamente informati circa i
movimenti della persona e, se possibile, dei suoi piani. In effetti, anche se non
formalmente, ciò significa spiare. I membri di un gruppo schierato, per esempio,
incaricarono una persona esterna all’organizzazione e sconosciuta a colui che li accusava,
di prendere appunti durante un discorso tenuto allo scopo di ottenere l’appoggio in suo
favore di un organismo della comunità. In un altro caso una persona il cui ufficio
comunicava con quello di un capo dipartimento, fu spinta a fungere da informatore per il
gruppo che si adoperava per destituire il capo dalla sua posizione di autorità. Questo
gruppo discusse anche seriamente di collocare una guardia notturna davanti alla casa del
loro presunto malfattore.
In concomitanza con l’ingigantita evidenza del paranoi- de, si verificano distorsioni
della sua immagine, soprattutto insistite nelle cricche più ristrette degli escludenti.
Taglia, forza fisica, astuzia, aneddoti sulle offese da lui recate, vengono esagerati con
un’enfasi tematica centrata sul fatto che si tratta di persona pericolosa. Alcuni individui
offrono l’occasione per questi giudizi dato che, in precedenza, si sono dati ad azioni
violente o minacce, altri invece non le offrono. Nelle interviste si incontrano su questo
punto contraddizioni tipiche, come: «No, non ha mai pestato nessuno qui vicino. Ha avuto
a che fare solo con il poliziotto del palazzo del governatore», oppure: «No, io non ho
paura di lui, ma uno di questi giorni esploderà».
Si può dire, fra parentesi, che l’addotta pericolosità del paranoide, narrata nei romanzi
o in teatro non è mai stata dimostrata sistematicamente. In realtà, l’unico elemento
concreto in proposito, tratto dallo studio di ammissioni ritardate, in gran parte paranoidi,
a un ospedale psichiatrico nella Norvegia, dimostra che «né i paranoici né i paranoidi
sono stati pericolosi, e per lo più neppure particolarmente fasti-diosi»22. La nostra
interpretazione del fatto, come già suggerito, è che la presunta pericolosità del paranoide
non proviene da paura fisica, ma dalla minaccia all’organizzazione che egli rappresenta e
dal bisogno di giustificare una azione collettiva intrapresa contro di lui23.
Tuttavia, non si tratta di un comportamento completamente tattico - come è
dimostrato dall’ansia e dalle tensioni che crescono fra i membri della coalizione, durante
le fasi più critiche dell’interazione. Coloro che vi partecipano possono sviluppare timori del
tutto analoghi a quelli che si verificano fra i cospiratori classici. Il leader di uno di questi
gruppi, parlò del periodo di una crisi del paranoide come di «una settimana di terrore»,
durante la quale egli era distrutto dall’insonnia e «doveva prendere pillole per lo
stomaco». La proiezione fu rivelata da un amministratore il quale, durante una crisi
scolastica provocata dall’allontanamento di un insegnante aggressivo, aveva dichiarato
che egli «guardava le ombre» e «si domandava se sarebbe andato tutto bene quando
fosse tornato a casa, la sera». Questi stati di tensione che agivano insieme a una specie
di chiusura della comunicazione nel gruppo, sono tanto causa quanto effetto
dell’interazione ingigantita del gruppo, la quale altera o ricostruisce simbolicamente
l’immagine di colui contro cui si agisce.
Una volta vinta la battaglia, la versione data dagli escludenti circa la pericolosità della
persona in questione, diventa la ragione effettiva cristallizzata per ogni azione ufficiale. A
questo punto la falsa rappresentazione risulta parte di una manipolazione più deliberata
dell’ego. Dichiarazioni grossolanamente inesatte, più frequentemente definite «pretesti»,
diventano mezzi giustificabili per ottenere la collaborazione della persona, per esempio,
convincerlo a sottoporsi a una visita psichiatrica o a un periodo di osservazione in un
ospedale psichiatrico. Questo aspetto del processo è stato efficacemente descritto da
Goffman con il suo concetto del «vortice degli inganni» attraverso il quale il paziente
entra in ospedale24. Non occorre sviluppare oltre questo concetto, basta confermare la
sua presenza nel processo di esclusione, complicato nei nostri casi, da imposizioni legali e
dal rischio sempre presente di liti.

Lo sviluppo del delirio

L’idea generale secondo cui il paranoide costruisce simbolicamente la cospirazione ai


propri danni, è - secondo la nostra interpretazione - inesatta e incompleta. E neppure
possiamo accettare che egli manchi di insight, come spesso si dice. Al contrario, molti
paranoidi realizzano perfettamente di essere stati isolati ed esclusi attraverso un tipo di
interazione concertata, o di essere stati manipolati. Tuttavia, essi sono imbarazzati a
valutare accuratamente o realisticamente le dimensioni e la forma della coalizione
organizzata contro di loro.
Dato che i canali di comunicazione sono chiusi al para- noide, egli non ha modo di
avere il feedback delle conseguenze del suo comportamento, feedback che risulterebbe
essenziale per correggere le sue interpretazioni dei rapporti e dell’organizzazione sociale
sulla quale deve basarsi per definire il proprio status e darsi un’identità. Egli può solo
vedere il comportamento evidente, senza il contesto non ufficiale. Benché sia in grado di
dedurre con esattezza che la gente si è organizzata contro di lui, per tentare di provarlo
può ricorrere solo al confronto o a procedure formali inquisitorie. Per ricevere un qualsiasi
tipo di comunicazione dagli altri, il paranoide deve provocare forti reazioni, di qui le sue
accuse, la sua schiettezza, i suoi insulti. Di solito questo comportamento non è
deliberato; ciò nonostante, in un caso piuttosto complesso, abbiamo riscontrato che la
persona provocava coscientemente discussioni, per sentire le interpretazioni degli altri del
suo comportamento. «Alcuni mi potrebbero descrivere come percettivo, altri come molto
impercettivo.»
Il bisogno di comunicazione e di identità che ne consegue, aiuta a spiegare la
preferenza del paranoide per le comunicazioni scritte, formali, aderenti alla legge e la
meticolosità con cui molti di questi conservano i documenti dei contratti da loro stipulati
con altri. In un certo senso, il ricorso alle querele è più correttamente inteso come lo
sforzo dell’individuo per costringere altri, da lui scelti, ad avere rapporti da pari a pari e
costruire situazioni in cui non sia possibile evadere. Il fatto che la persona sia raramente
soddisfatta dei risultati ottenuti dalle sue lettere, petizioni, lagnanze e scritti dimostra che
la loro funzione è di servire a stabilire un rapporto e un’interazione con gli altri, come
pure di «mettere le cose a posto». La larga tolleranza professionale degli avvocati nei
confronti del comportamento aggressivo in tribunale, e la natura delle istituzioni
legislative anglosassoni, nate da una rivolta contro un tipo di giustizia cospirativa o da
consiglio segreto garantisce che si presterà ascolto anche al paranoide. Inoltre si deve
rispondere alle sue accuse, altrimenti egli si troverà a vincere per mancata comparizione.
Talvolta il paranoide ottiene delle piccole vittorie, anche se perde le grandi battaglie. Può
riscuotere rispetto misto a invidia, in quanto avversario, e talvolta riesce a dividere con
gli altri, in tribunale, una specie di ca- merateria legale. Il paranoide conquista quindi una
identità attraverso la notorietà.

Rafforzamento del delirio

Il punto di vista psichiatrico generalmente accettato è che la prognosi per la paranoia sia
scarsa, che le guarigioni delle forme di «paranoia vera» siano rare, ed è sottinteso che i
deliri esprimano più o meno una condizione patologica irreversibile. Ammesso che i
bisogni dell’individuo, le disposizioni e l’isolamento che si autoimpone sono fattori
determinanti nel perpetuare le sue reazioni deliranti, c’è tuttavia un notevole contesto
sociale, attraverso il quale i deliri vengono consolidati e rafforzati. Questo contesto è
facilmente identificabile nelle idee fisse e nelle procedure istituzionalizzate delle
organizzazioni di protezione, custodia e cura nella nostra società. Essi risaltano
maggiormente nei casi in cui i paranoidi siano venuti in contatto con servizi di sicurezza o
siano stati ospedalizzati. L’urto cumulativo e congiunto di questi servizi agisce fortemente
sull’aumento e il rafforzamento del senso massivo di ingiustizia e di bisogno di identità
che sta alla base dei deliri e del comportamento aggressivo del paranoide.
La polizia, nella maggior parte delle comunità, ha un concetto ben definito di questi
«disadattati» come li chiamano, benché non siano chiari i criteri esatti secondo i quali
queste persone vengono giudicate in tal modo. La pazienza dei poliziotti nei confronti di
questi individui è molto ridotta: in alcuni casi essi indagano sull’origine dei loro reclami e
se concludono che la persona in questione è disadattata tendono da allora in poi a
ignorarla. Le sue lettere possono essere buttate via inevase, si può rispondere alle
telefonate con tono protettivo e rassicurante, o con vaghe promesse di prendere
provvedimenti che non verranno mai presi.
Come la polizia, i funzionari della procura distrettuale sono frequentemente costretti
ad avere a che fare con individui che definiscono disadattati o disturbati. Alcuni uffici
delegano un funzionario particolare per trattare questi casi, persona che viene
pittorescamente definita nell’ambiente di lavoro come «l’incaricato dei matti». Alcuni di
questi funzionari sostengono di essere in grado di riconoscere immediatamente le lettere
dei disadattati, il che significa che esse o resteranno inevase o verranno buttate via.
Tuttavia liti in famiglia o con i vicini presentano al riguardo difficoltà per lo più insolubili,
poiché spesso è impossibile determinare quali delle parti sia delirante. In un ufficio, alcuni
querelanti sono chiamati «50-50» il che significa - in gergo - che è impossibile dire se essi
siano da ritenersi mentalmente sani. Se qualcuno pare provochi noie in continuazione, i
funzionari delegati talvolta minacciano di fare delle inchieste che, tuttavia, raramente
vengono fatte.
Entrambi gli staff della polizia e del procuratore distrettuale, operano continuamente in
situazioni nelle quali le loro azioni possono avere ripercussioni legali o politiche dannose.
Essi tendono a operare in stretto collegamento e la loro reazione iniziale nei confronti
degli estranei o degli stranieri è il sospetto o la mancanza di fiducia, finché non venga
dimostrato che sono innocui o amici. Il che si riflette in molte delle loro procedure d’ufficio
e negli atteggiamenti generali - come per esempio annotare accuratamente in una
rubrica i nomi, l’ora e il motivo delle chiamate di chi chiede colloqui ufficiali. In alcuni casi,
in realtà, si comincia a indagare sul querelante prima ancora di trattare con lui qualsiasi
questione.
Quando il paranoide va al di là della polizia locale e dei tribunali, per chiedere
riparazione alle autorità statali o nazionali, può trovare cortesi atteggiamenti evasivi, un
trattamento superficiale del caso, o una mancanza di fiducia divenuta formale. Lettere
scritte a funzionari amministrativi, possono ottenere risposte fino a un certo punto, ma da
allora in poi vengono ignorate. Se le lettere a un’alta autorità contengono minacce,
possono provocare indagini da parte dei servizi di sicurezza, motivate dal fatto che gli
attentati non sono sconosciuti nella vita americana. Talvolta le riparazioni si cercano nel
corpo legislativo, dove possono essere introdotte proposte di leggi personali che, per la
loro stessa natura, non sono che gesti vani.
In generale, i contatti che la persona delirante ha con le organizzazioni formali,
provocano di frequente le stesse risposte superficiali, evasive o diffidenti che hanno
rappresentato un ruolo determinante nel generico processo di esclusione. Esse diventano
parte di uno schema di interazione selettivo o selezionato che crea, per l’individuo, un
ambiente sociale incerto e ambiguo. Fanno poco per correggere e molto per confermare i
suoi sospetti, la sua sfiducia e i suoi modi deliranti di interpretazione. Per di più, anche
l’ambiente dei servizi ospedalieri può contribuire al progresso di un delirio paranoide, così
come Stanton e Schwartz hanno dimostrato nella loro analisi sulla comunicazione
all’interno dell’ospedale psichiatrico. Essi parlano chiaramente di una «patologia della
comunicazione» provocata dall’abitudine dello staff di ignorare i significati espliciti nelle
affermazioni, o nelle azioni dei pazienti e di rispondere invece a dei significati dedotti o
presunti, così da creare un tipo di ambiente in cui «il paranoide si trova perfettamente a
suo agio»25.
Alcuni paranoidi o para-paranoidi diventano noti ad alcune organizzazioni nel loro
circondario o anche in vaste zone nella comunità. Ci sono nella comunità persone e
gruppi che assumono una posizione caratteristica verso questo tipo di individui una
posizione di attesa e preparata. In uno di tali casi, la polizia controllava continuamente i
luoghi frequentati dalla persona e, quando il governatore venne a parlare sulla scalinata
del tribunale, a due poliziotti fu affidato il compito speciale di sorvegliarla dato che si
trovava tra la folla. Più tardi, ogni volta che andava al palazzo del governatore, un certo
numero di poliziotti veniva incaricato di accompagnarla quando si recava alle udienze
della commissione o chiedeva di essere ricevuta dai funzionari26. La notorietà che
quest’uomo aveva raggiunto a causa della sua famosa forza eccezionale nel gettare a
terra i poliziotti come birilli, era per lui un’evidente fonte di piacere, nonostante il
sospetto che la loro presenza sottintendeva.
Si può dedurre che per i paranoidi rappresentare la parte della persona sospettata
diventa un modo di vivere, dato che ciò fornisce loro un’identità altrimenti irraggiungibile.
Le dispute capricciose con i pubblici funzionari, il pubblicare scritti, opuscoli, cause in
persona propria, la tendenza a contestare cose che altri trascurano come poco importanti
o come «scocciature», diventa il tema principale della loro vita, senza il quale facilmente
la loro condizione peggiorerebbe.
Se la paranoia diventa per qualcuno un modo di vita, è anche vero che la persona
difficile con idee di grandezza o di persecuzione può assolvere alcune funzioni marginali
nelle organizzazioni e nella comunità. Una di queste è la funzione di capro espiatorio, dal
momento che il paranoide è fatto oggetto di scenette comiche, o di congetture e
chiacchiere quando la gente si chiede che cosa combinerà ancora. In questo ruolo di
capro espiatorio, il paranoide può aiutare gruppi primari a integrarsi in più ampie
organizzazioni, perché dirigendo le aggressioni e il biasimo verso di sé si rafforzano il
senso di omogeneità e il consenso dei membri del gruppo.
Ci sono anche esempi nei quali gli attacchi e le accuse generici e a mitraglia del
paranoide servono ad articolare l’insoddisfazione di coloro che temono di criticare
apertamente la direzione della comunità, dell’organizzazione o dello Stato, o delle
informali strutture di potere al loro interno. Talvolta i paranoidi sono gli unici che
abbracciano apertamente le idee di fasce di popolazione inarticolate e politicamente non
rappresentate26. Gli «argomenti» che attraggono l’attenzione del paranoide - il doping
negli incontri sportivi, il comunismo internazionale, gli «interessi» monopolistici, il
papismo, l’ebraismo o i «psicopolitici» - spesso riflettono i timori vaghi e informi e le
preoccupazioni dei gruppi periferici, che tendono a convalidare il ruolo di «protettore»
sceltosi dal paranoide. Talvolta, nei giochi di potere all’interno delle organizzazioni e nei
conflitti comunitari, il suo ruolo viene anche astutamente usato da gruppi più
rappresentativi, come strumento per mettere in imbarazzo i loro oppositori.

Il contesto socio-culturale più vasto

Le nostre osservazioni si chiudono con lo stesso tono polemico con cui erano cominciate,
cioè sostenendo che i membri delle comunità o delle organizzazioni si uniscono in uno
sforzo comune ai danni del paranoide, prima o indipendentemente da ogni
comportamento vendicativo da parte sua. La comunità paranoide è reale più che pseudo,
per il fatto che è composta di rapporti reciproci e di processi i cui risultati precisi sono
l’esclusione ufficiosa e ufficiale e una comunicazione ridotta.
La dinamica dell’esclusione del paranoide è resa comprensibile, in prospettive più
ampie, se si riconosce che nell’organizzazione sociale americana le decisioni sono prese
nei piccoli gruppi informali, attraverso interazioni maschili casuali e spesso sottili.
L’accesso a questi gruppi è di solito ritenuto un privilegio più che un diritto, privilegio che
tende a essere gelosamente custodito. Le decisioni cruciali, comprese quelle di espellere
qualcuno o di riorganizzarne lo status in più grandi organizzazioni formali, sono prese
segretamente. Il concetto legale della «comunicazione privilegiata» è, in parte, il
riconoscimento formale della necessità di prendere decisioni segrete all’interno delle
organizzazioni.
Inoltre nella nostra società basata sull’organizzazione, vi è l’enfasi posta sul
conformismo e la tendenza sempre crescente delle élite organizzative a far
assegnamento, per le loro finalità, sul potere diretto. Questo viene abitualmente
esercitato allo scopo di isolare e neutralizzare gruppi e individui che oppongono la loro
condotta, sia all’interno che all’esterno dell’organizzazione. Le strutture formali possono
essere manipolate o deliberatamente riorganizzate in modo che i gruppi e gli individui
che oppongono resistenza, vengano allontanati o sia loro impedito l’accesso al potere o ai
mezzi disponibili per favorire gli scopi e i valori devianti da essi perseguiti. Uno dei modi
più immediatamente efficaci per ottenere ciò è interrompere, ritardare o bloccare il fluire
dell’informazione.
È la necessità di razionalizzare e giustificare tali procedimenti su una base democratica
che induce a nascondere certe azioni, a travisare il significato recondito e persino a
ricorrere a mezzi immorali o illegali. La difficoltà di procurarsi una conoscenza sociologica
di queste tecniche, che noi potremmo definire «controlli dietro i controlli» e il rifiuto da
parte di quelli che le usano di riconoscere che esse esistono, sono conseguenze logiche
della minaccia percepita che una tale conoscenza e ammissione può rappresentare per le
strutture di potere informale. L’epifenomeno del potere diventa così una sorta di mondo
indistinto della nostra cultura, che invita a supposizioni e condanne.

Conclusioni

Abbiamo analizzato il processo di esclusione sociale e le modalità in cui esso contribuisce


allo sviluppo dello schema di comportamento paranoide. Mentre le premesse pongono
l’accento sulle forme organizzative dell’esclusione, crediamo tuttavia che queste siano
espressione di un processo generico i cui termini di correlazione emergeranno dallo studio
della paranoia nella famiglia e in altri gruppi. Le reazioni differenziali dell’individuo alle
esigenze dell’esclusione organizzata sono significative nello sviluppo delle reazioni
paranoidi, soltanto in quanto esse determinano parzialmente la qualità «intollerabile» o
«insopportabile» dei mutamenti di status che deve affrontare. Possono essere qui
implicati fattori idiosincratici della storia della vita del tipo messo a fuoco in analisi
psichiatriche più convenzionali, ma a nostro giudizio sono ugualmente importanti quelli
inerenti ai veri e propri mutamenti di status e l’età è uno dei più salienti tra questi. In
entrambi i casi, una volta che appaia un’intollerabilità situazionale, la scena è pronta per
il processo interattivo sopra descritto.
Si noterà che in tutti i casi da noi esaminati, si trattava di persone che rimanevano non
deteriorate, che conservavano un contatto con gli altri e proseguivano attività militanti
dirette a valori e istituzioni sociali accettate. Nelle loro esperienze erano assenti sospetti
generalizzati in luoghi pubblici e aggressioni non provocate nei confronti di sconosciuti.
Questi fatti, oltre la relativa assenza della «vera paranoia» fra la popolazione degli
ospedali psichiatrici ci portano a concludere che la «pseudocomunità» associata a una
aggressione indiscriminata (nel senso di Cameron) è conseguenza più che parte integrale
di schemi paranoidi. Essi sono probabilmente effetti di un deterioramento e una
frammentazione della personalità che appaiono, quando e se appaiono, nel paranoide
dopo lunghi e intensi periodi di stress e di completo isolamento sociale.
Il testo di Lemert si fonda sulla speranza della denuncia e potrebbe concludersi con
l’ironica frase, che conserva la drammaticità della situazione: «Anche i paranoici hanno i
loro nemici». Quello che era ritenuto il «processo patologico» della paranoia, viene qui
interpretato come un processo legato all’insieme di interazioni presenti nel contesto
sociale: il blocco del fluire delle informazioni, l’impossibilità di avere il feedback delle
conseguenze del proprio comportamento (la prova della realtà), la cospirazione che crea
il vuoto attorno al paranoide, fanno parte di una costruzione reale, di cui il delirio è uno
degli elementi. Siamo alla ricerca della malattia nell’ambiente familiare, nei gruppi sociali
che si criticano attraverso ciò che producono.
L’esattezza stilistica della fenomenologia sociologica dei colletti bianchi americani,
porta Lemert a svelare la condizione dei colletti neri. Ma, in questo contesto, non si può
che continuare a parlare di colletti bianchi e di colletti neri, mentre il capitale tende a
totalizzarli entrambi. Quando Lemert libera il colletto nero dal doppio che lo ricopre, gli
dà la dignità umana della sua analisi, ma finisce per rinchiuderlo nello stesso gioco da cui
aveva tentato di scioglierlo.
L’OBIETTIVITÀ DEL POTERE

Abitualmente il complesso di regole che definisce i valori di una data società, in rapporto
al tipo di credenze, organizzazione sociale, livello economico, sviluppo tecnologico-indu-
striale, costituisce gli argini che delimitano il terreno normativo. Si tratta di un insieme di
valori relativi che acquistano peso, significato assoluto non appena vengono infranti.
È difficile stabilire il terreno specifico delle devianze se risultano subordinate soltanto a
un esplicito giudizio di valore. Nel caso della psicopatia, il problema - pur nelle sue
ambiguità - è già definito nell’ambito dei parametri medici entro i quali viene catalogato e
rinchiuso. Ma per il deviante non c’è una qualificazione precisa in cui inquadrarlo; o
meglio, non è ancora scientificamente sistematizzata. Si presenta quindi in parte ambiguo
per gli equivoci e gli arbitri che può provocare; in parte ancora scoperto, non essendo del
tutto identificato con l’ideologia che ne è stata costruita.
Potremmo dire che, nella nostra società industriale, la definizione di norma
proveniente da un’analisi della realtà quotidiana e, insieme, dalle rispondenti definizioni
teoriche, coincide esplicitamente con la produzione. Tanto che chiunque ne resti ai
margini, risulta deviante. È qui implicita un’infrazione a valori confermati e rafforzati
attraverso la codificazione scientifica di abnormità per chi li trasgredisce, non avendo un
carattere assoluto, tale da giustificare le conseguenze discriminanti che abitualmente
comportano. Sia per lo psicopatico che per il deviante, si cercano e si raccolgono - con
l’alibi della documentazione clinico-sociale - gli elementi negativi e gli aspetti deteriori
della personalità, per stigmatizzare un comportamento che all’origine può risultare meno
deviante di ciò che diventerà. Non giocare un ruolo attivo o passivo nella produzione o
rifiutare (per scelta o per necessità) quello di consumatore, diventa - attraverso
l’ideologia scientifica appropriata - una conferma della norma e dei suoi limiti.
L’analisi del ruolo dei devianti negli Stati Uniti ci permette di comprendere quanto la
loro esistenza possa risultare minacciosa, quando non venga riassorbita all’interno del
gioco sociale, rappresentando un pericolo inversamente proporzionale alla forza di cui la
società dispone per mantenere al proprio interno presenze antagoniste. Nella forma della
«democrazia capitalistica» il potere riesce infatti a conservare sotto controllo le forze di
opposizione ed è ciò che rende possibile la manipolazione della situazione. La tolleranza
nei confronti delle forze antagoniste risulta direttamente proporzionale alla sicurezza e
alla forza del controllo.
Nel momento in cui la fascia dei devianti si estende e la «distanza» fra normale e
anormale viene ridotta dal potere totalizzante del capitale, è quindi necessario assorbire
il de- viante facendolo entrare, proprio in quanto tale, in una categoria ideologica che
deve definirlo (cioè continuare a produrlo nell’esatta forma necessaria) e insieme
controllarlo. Il deviante come problema reale (che evidenzia la faccia perdente del
capitale in quanto rifiuto dei suoi valori o espressione del suo fallimento) diventa il
problema del deviante come una delle facce del capitale vincente nell’essere assunto
come problema tecnico, per il quale sono pronte soluzioni tecniche appropriate (in
particolare quelle messe in atto dalla psicoanalisi, dalla psichiatria sociale ecc., nate
come risposte a esigenze pratiche e tramutatesi in strumenti di manipolazione).
L’ideologia della devianza come problema interno alla dinamica del capitalismo
avanzato, serve in questo caso a confermare la funzionalità delle contraddizioni
attraverso una loro razionalizzazione.
Quando Parsons 28, nel Sistema sociale, sostiene la funzione dell’ideologia nel rapporto
fra «cultura e controcultura» (fra classe dominante e classe dominata) mette a fuoco un
punto cruciale dell’organizzazione sociale, senza tuttavia darne l’esatta interpretazione:

Se la cultura del gruppo deviante. rimane una «controcultura» è difficile trovare il


ponte attraverso il quale essa può acquistare un’influenza su circoli più vasti. Questo
ponte è fornito soprattutto dal terzo elemento, cioè dallo sviluppo di un’ideologia - o di
un complesso di credenze religiose - in grado di avanzare con successo una pretesa di
legittimità, nei termini almeno di alcuni simboli dell’ideologia istituzionalizzata
principale.

Ma il problema è come nasce questa ideologia, da chi è promossa e che uso ne viene
fatto, perché nella realtà essa non sembra davvero servire da «ponte» fra cultura e
controcultura, nel senso che la seconda riesca ad affermarsi sulla prima.
Il fenomeno è evidente anche in altri aspetti della vita americana: ad esempio il
problema della povertà e quello dei negri, che possono ritenersi modi diversi dell’unico
problema delle devianze. Si tratta infatti di problemi reali, resi
ideologici attraverso la razionalizzazione che ne viene fatta e che ne muta la natura.
La mole di letteratura americana più recente dedicata all’argomento è impressionante:
essa può apparentemente risultare come una presa di coscienza improvvisa di ciò che
sottende la «società del benessere» e come una analisi spietata delle sue piaghe. In
realtà, nel momento in cui questi aspetti della società americana vengono diffusi e resi
espliciti come problemi di cui essere consapevoli per affrontarli, perdono il carattere
minaccioso con cui si manifestano, per diventare un’ideologia per la quale si cercano
soluzioni della stessa natura.
A New York, fra la pubblicità nei vagoni della metropolitana, si potevano leggere
annunci del genere:

Quale delle tragedie umane preferite?29 Vietnam, Biafra, la controversia arabo-


israeliana, i ghetti negri, la fame dell’India.?
Scegliete la vostra e aiutate, aiutando la Croce Rossa.

Portare un problema reale a una dimensione ideologica che produrrà una realtà
analoga a quella che esprime, è il segno della forza del capitale che tende a totalizzarsi a
livello di produzione e di controllo.
Quando, con l’Economy Opportunity Act, il presidente degli Stati Uniti dichiara il 3
marzo 1964, in un messaggio al Congresso, «La guerra alla povertà» come programma
nazionale, la povertà americana acquista un ruolo preciso come oggetto delle
organizzazioni assistenziali: si tenta di risolvere una sola faccia del problema, dando con
la mano visibile ciò che si continua a togliere con la mano nascosta. Che poi studiosi,
sociologi, antropologi, psichiatri, organizzatori sociali si dedichino a indagare l’argomento,
non si tratta che di razionalizzazioni che serviranno a occultare sempre più la vera natura
del problema.
Ecco come Oscar Lewis30, esperto in povertà, lo affronta:

Una certa confusione dipende anche dalla tendenza a dirigere l’attenzione e le ricerche
sulla personalità individuale delle vittime della povertà, anziché sulla comunità e sulle
famiglie degli slums e quindi da una mancata distinzione fra la povertà e quella che io
ho chiamato la «cultura della povertà». Questa è una frase che ha avuto successo e
che quindi è stata usata sia propriamente che impropriamente nella letteratura
corrente. Nei miei scritti la frase vuole indicare un modello concettuale specifico per
descrivere in termini positivi una subcultura della civiltà occidentale, subcultura che ha
una propria struttura e una propria ragione d’essere, un modo di vivere tramandato di
generazione in generazione attraverso la famiglia. La cultura della povertà non è
semplicemente un fatto di privazione o di disorganizzazione, termini tutti che
significano la carenza di qualcosa. È una cultura nel vero senso antropologico
tradizionale della parola, in quanto offre a esseri umani un modello di vita e ha quindi
una funzione significativa di adattamento. Questo stile di vita trascende i confini
nazionali e regionali e le differenze urbano-rurali all’interno delle nazioni. Dovunque si
manifesti, i suoi portatori mostrano notevoli somiglianze nella struttura familiare, nei
rapporti interpersonali, nel modo di spendere, nei sistemi di valori e nell’orientamento
temporale.

In questo modo Lewis - nei suoi studi alla riscoperta della povertà - ne fabbrica una
personale fenomenologia, ricercando il contenuto di fondo del povero:

Insieme all’alienazione dalla società più vasta, c’è una ostilità verso le istituzioni di
base di quella che è considerata la classe dominante. La polizia è odiata; il governo e
le persone in buona posizione sociale godono scarsa fiducia; vi è uno scetticismo che
si estende anche alla Chiesa. La cultura della povertà contiene quindi un potenziale di
protesta e di possibile adesione a movimenti politici volti a mutare l’ordine esistente...
Qual è l’avvenire della cultura della povertà? Dobbiamo distinguere fra quei Paesi in
cui essa interessa una sezione relativamente piccola della popolazione e quelli in cui
ne costituisce una larga parte.
Negli Stati Uniti, le soluzioni principali proposte da assistenti sociali che trattano con i
poveri «irrecuperabili» sono state tese a migliorare gradualmente il loro livello di vita
e favorire una loro assimilazione ai ceti medi. Quando possibile, è stato consigliato un
trattamento psichiatrico31. Nei Paesi sottosviluppati, in cui grandi masse di persone
vivono nella cultura della povertà, soluzioni di questo tipo non sembrano applicabili.
Gli psichiatri locali hanno il loro tempo totalmente assorbito nel trattamento di
individui appartenenti ai crescenti ceti medi32. In questi Paesi le persone appartenenti
alla cultura della povertà potranno probabilmente cercare una soluzione più
rivoluzionaria. Con il creare cambiamenti strutturali di base nella società,
ridistribuendo la ricchezza, organizzando i poveri, dando loro il senso di appartenere
alla società e di esercitare un ruolo di potere e di avanguardia, le rivoluzioni spesso
riescono ad abolire alcune caratteristiche di base della cultura della povertà, anche
quando non riescono ad abolire la povertà stessa.

La fenomenologia sociologica di Lewis ha messo in luce l’esistenza di una cultura della


povertà. Ciò che tuttavia è da sottolineare è quanto viene qui proposto per la soluzione di
quelli che potremmo definire i «poveri ricchi» e i «poveri poveri».
Per i poveri dei Paesi dell’abbondanza si suggerisce esplicitamente l’integrazione
nell’ambito della medicina sociale, suffragando la nostra tesi secondo cui il deviante,
all’occorrenza, si ripropone come un disadattato da curare, per il cui controllo esistono
ruoli come quello dell’assistente sociale e dello psichiatra. Che poi per i «poveri poveri»
dei Paesi sottosviluppati Oscar Lewis «riconosca» che le rivoluzioni spesso possono
parzialmente modificare la cultura della povertà, la cosa non è sufficiente a far
insospettire lo studioso circa la misura dell’incidenza su questa cultura di ciò che egli
definisce la struttura di base della società, la mancata distribuzione della ricchezza, il
fatto di non appartenere alla società e di non esercitare un ruolo di potere e di
avanguardia. Quello che Oscar Lewis non era riuscito a individuare come origine primaria
della cultura della povertà, viene qui implicitamente riconosciuto - in negativo - come
fonte di riduzione di questa stessa cultura, una volta che la rivoluzione ne abbia
modificato il fondamento.

Una conferma è nell’analisi che Oscar Lewis fa della scomparsa della cultura della
povertà dopo la rivoluzione cubana:
Nel 1947 mi assunsi il compito di uno studio negli slums dell’Avana. Di recente ho
avuto l’occasione di rivisitare lo stesso slum e alcune delle stesse famiglie. L’aspetto
fisico del luogo era cambiato solo di poco, se si eccettui un bellissimo asilo d’infanzia
comunale nuovo. Le persone erano povere come prima, ma mi colpì il fatto di trovare
un molto minor grado di disperazione e di apatia, così sintomatico negli slums urbani
degli Stati Uniti. Questo slum era ora altamente organizzato, con comitati di fabbrica,
comitati per l’educazione, comitati di partito. Le persone avevano trovato un nuovo
senso di potere e di importanza in una dottrina che glorifica le classi povere come la
speranza dell’umanità e di più erano armati. Un funzionario cubano mi disse che il
governo di Castro aveva quasi eliminato la delinquenza con il dare armi ai delinquenti!

La grossolanità dell’analisi non arretra neppure di fronte a una realtà che si presenta
agli occhi dello stesso Lewis come qualitativamente diversa. La cosa non serve a far
mutare le sue ipotesi o le sue conclusioni: basta chiudere con una battuta, così come si
prevede concluderà lo studio che attualmente ha in corso all’Avana con un’équipe di
colletti bianchi nordamericani, che vogliono analizzare la trasformazione della cultura
della povertà, in una povertà all’interno di un progetto comune.
Per non trovarsi in contraddizione con la sua ipotesi, afferma più oltre:

Evidentemente il regime di Castro - modificando alquanto Marx ed Engels - non voltò


le spalle al cosiddetto Lumpenproletariat, in quanto forza insitamente reazionaria e
antirivoluzionaria, ma al contrario trovò in esso un potenziale rivoluzionario e lo
utilizzò.

E più avanti:

È vero d’altra parte che io ho trovato uno scarso spirito rivoluzionario e scarse tracce
di ideologie radicali fra i portoricani poveri. La maggior parte delle famiglie studiate,
erano politicamente conservatrici e circa la metà erano in favore del partito
repubblicano che rappresenta l’opposizione di destra al partito popolare repubblicano
che domina la scelta politica della comunità.

Nella scelta degli esempi, Oscar Lewis non pare rendersi conto che nel confronto fra il
Lumpenproletariat cubano e quello portoricano c’è di mezzo una rivoluzione socialista. I
portoricani di cui parla qui Lewis rappresentano, nel mondo degli Stati Uniti, la larga
fascia improduttiva per il cui controllo è stata dichiarata la guerra alla povertà. I «poveri
armati» dell’Avana sono invece i soggetti di una rivoluzione ancora in atto che rovescia i
termini del suo astratto concetto di cultura della povertà.
Il problema del controllo delle nascite nei Paesi del Terzo mondo presenta - sotto la
facciata di un intervento umanitario d’avanguardia - la medesima ambiguità. Ambiguità
che risulta palese nella cinica dichiarazione di L.B. Johnson: «Cinque dollari investiti nel
controllo delle nascite, produrranno più benefici nell’America Latina di cinque dollari
investiti nello sviluppo economico». Il ritmo del progressivo aumento della popolazione in
zone sottosviluppate, entra dunque in conflitto con i disegni imperialistici dei gruppi che,
per sopravvivere, devono mantenere regimi borghesi-latifondisti che impediscono lo
sviluppo e l’industrializzazione. Il controllo delle nascite ritarderebbe indefinitamente lo
sviluppo latino-americano. Come per ogni problema, anche questa questione potrà essere
considerata soltanto, una volta rotta la sua funzionalità nel quadro imperialista: in caso
contrario si continuerebbe a illuderci di risolvere il doppio del problema, senza neppure
vederne la faccia reale.
È ancora la situazione dei negri negli Stati Uniti: essi diventano meno minacciosi
quando se ne riconoscono i diritti e se ne ammette l’esclusione. Ma ciò non significa che si
assista a un reale processo di trasformazione: attraverso le ideologie che ne sono state
fatte, il negro, il malato di mente, il deviante, il povero - facce diverse dello stesso
problema - sono riconosciuti dalla nuova sociologia come «parte integrante» del sistema
sociale. Ma non si tratta della conquista di una loro partecipazione attiva. Essi diventano
solo strumenti utili all’intera società, in questa funzione di appartenenza all’«unica classe
media» in cui è sempre più difficile individuare differenziazioni e distanze, ridotta com’è a
una dimensione omogenea, totalmente controllata da un centro di potere sempre più
ristretto.
L’inverno scorso, al Metropolitan Museum di New York, fu allestita un’enorme mostra
fotografica dal titolo Harlem on my mind, in cui veniva ricostruita la carriera del negro,
dai tempi della sua importazione come schiavo a oggi. Con una lucida analisi
immaginativa la mostra era l’espressione della nuova obiettività del potere. Oggetto di
sfruttamento nel lavoro al suo primo apparire nel continente americano, il negro continua
a essere, nelle fasi successive della sua convivenza con i bianchi, oggetto di liberazione
dalla sua stessa schiavitù, oggetto di folklore, oggetto di pietà e, infine, di eversione. In
un intelligente gioco di luci, Harlem on my mind - dopo una ricostruzione pietosa e
nostalgica del dolore e della tristezza dell’anima negra - mostrava alla fine i capi delle
Pantere Nere, da un lato, e i negri integrazionisti dall’altro.
Nell’illusione ottica di un’obiettività reale - elemento tipico della libertà americana -
Harlem on my mind confermava ancora una volta l’assoluta padronanza del potere sul
suo schiavo, del quale eversione e integrazione assumono un significato equivalente.
In fase di capitalismo avanzato l’ideologia della diversità che sanciva l’inferiorità
dell’altro attraverso l’affermazione della propria superiorità, non è dunque più necessaria:
la finalità principale essendo ora il controllo totale. La stessa ideologia della società
malata di Fromm, con la quale si era successivamente tentato di occultare le
contraddizioni del capitale, è stata abbandonata. Nella fase di totalizzazione successiva,
la distanza fra sano e malato è venuta infatti riducendosi: da un lato, venendo
riconosciuta una forma di produttività anche alla malattia33; dall’altro, venendo la
produzione ad assumere man mano la forma del controllo sociale.
Il processo di razionalizzazione è particolarmente evidente nel campo delle devianze,
ancora in fase di sviluppo. L’ideologia della devianza viene fatta coincidere, negli Stati
Uniti, con il problema del deviante, identificando la devianza «primaria» (che corrisponde
all’esclusione dalla produzione) con una devianza «secondaria» di carattere ideologico: lo
stigma.
Se si analizzano le interpretazioni più attuali al proposito, quelle ad esempio proposte
da Jurgen Ruesch, esse possono così riassumersi:

1) devianza come limitazione di funzioni, dovuta all’impossibilità da parte di un individuo


con deficit fisico o psichico, di partecipare alla vita sociale da cui viene escluso
(devianza secondaria a una difficoltà primaria);
2) devianza come prodotto della mancanza dei requisiti sociali necessari per essere
accettati e dell’educazione e della cultura che renderebbe edotti circa le risorse sociali
sfruttabili (devianza secondaria alla assenza di uno status sociale che risulta un
prerequisito indispensabile);
3) devianza riscontrabile in individui che, per età o per scelta (barboni, vecchi, giovani,
hippies ecc.) sono esclusi o si escludono dal commercio sociale (devianza secondaria a
un’esclusione imposta o scelta).
Il problema delle devianze viene dunque affrontato facendo coincidere la devianza
primaria con quella secondaria, per potersi occupare della secondaria, cancellando la
primaria in essa costitutivamente implicita.
Pur presente in tutti e tre i casi, la costante non viene mai puntualizzata: i tipi di
devianze descritti si verificano infatti in individui che, per motivi diversi, non partecipano
alla produzione. Si tratta cioè di persone che hanno perduto o non hanno mai posseduto
una forza contrattuale con le fonti produttive. Se la norma è definita in termini di
produttività, la devianza non può che essere definita in maniera analoga: l’ideologia della
devianza come problema socio- psichiatrico non servirebbe allora che ad alimentare la
produzione di un fenomeno, determinandone la forma più adeguata a illuderci di
risolverlo.
Sempre negli Stati Uniti, le misure pratiche adottate ad esempio in campo socio-
psichiatrico, nei confronti del problema dei devianti, confermano questa ipotesi. I nuovi
Community Mental Health Centers hanno la funzione di controllare - attraverso la
dilatazione del problema della prevenzione e della postcura - ogni forma di devianza,
dandole insieme una definizione di carattere socio-psichiatrico. Anche qui l’immissione del
sociale, se visto dall’angolatura finora ipotizzata, serve solo a formulare una
razionalizzazione di tipo interdisciplinare a un fenomeno di diretta origine socio-
economica. Quando i devianti seguiti dai Community Mental Health Centers sono i negri, i
portoricani, gli ebrei, gli italiani che, ai margini della produzione, vengono assistiti dal
Welfare, privi di un progetto che vada oltre la sopravvivenza assicurata dalle
organizzazioni assistenziali, è chiaro che questi Centri di salute mentale fungono, in
definitiva, di controllo per quella fascia di marginali che non può essere assorbita in
istituzioni produttive. Esattamente come da noi serve tuttora di controllo il manicomio.
Creando il problema socio-psichiatrico del deviante e sancendone l’appartenenza
all’interno dell’ideologia interdisciplinare, se ne stabiliscono i limiti e le modalità d’azione,
riducendo e cancellando qualsiasi significato implicito nel suo comportamento.
Nella cultura americana il deviante viene dunque assorbito nell’ambito di un’ideologia
interdisciplinare che dovrebbe garantire, da un lato, una maggiore obiettività al
trattamento, e dall’altro l’individuazione della natura sociale di ogni problema umano. Ma
se ci si limita a considerare il sociale come l’insieme delle interazioni a livello psicologico
e psicodinamico, ciò che appare come un allargamento e approfondimento del problema,
non è che un ulteriore giro circolare all’interno di un campo chiuso, i cui limiti non
vengono varcati. La funzione dell’ideologia del deviante risulta allora perfettamente
rispondente a quella che - a un grado diverso di sviluppo socio-economico - viene tuttora
usata per le personalità psicopatiche, dove risultano ancora controllabili attraverso
tecniche e istituzioni mediche.
Quello che cambia è il tipo di organizzazione del controllo, che viene a configurarsi
diversamente quando si verificano due tipi di modificazioni: o il numero dei cosiddetti
psicopatici aumenta, tanto da risultare impossibile controllarli con tecniche puramente
mediche; o si riduce la distanza fra salute e malattia. In entrambi i casi occorrono nuove
forme di organizzazione sociale che garantiscano il dominio.
LA MAGGIORANZA DEVIANTE

L’analisi storica della malattia mentale e della sua scienza, può chiarire il processo
attraverso il quale - a cicli successivi - si è isolato il malato dall’istituzione in cui viene di
volta in volta identificato, per rioggettivarlo in un’istituzione successiva.
Le catene degli alienati, spezzate da Pinel, avevano liberato il folle dalla
identificazione della pazzia con la delinquenza, consentendo alla psichiatria di
«inventare» - attraverso l’individuazione della soggettività del malato - l’oggetto di sua
pertinenza: l’istituzione psichiatrica come rifugio e protezione per il malato. È tuttavia su
questo terreno «liberato» che il malato mentale diventa successivamente l’oggetto delle
prime indagini della nuova scienza che, riconosciuto il paziente nella sua dignità umana -
quindi come soggetto da svincolare dal livello di oggettivazione in cui si presentava -
viene nuovamente fissato nel ruolo che gli riservano le teorizzazioni via via elaborate.
Chiuso dai limiti delle codificazioni nosografiche, rigide e invalicabili come le mura delle
istituzioni deputate alla sua cura, il malato mentale continua a essere prigioniero del suo
liberatore.
È su questo terreno scientifico - il cui sviluppo si rivela contemporaneo alla prima
rivoluzione industriale - che l’istituzione psichiatrica, nata come luogo di protezione e cura
del malato di mente, si tramuta nel luogo istituito per la protezione della società, dagli
elementi che ne disturbano l’andamento sociale. L’istituzione psichiatrica non è più il
luogo dove si definisce l’oggetto della psichiatria, ma dove si relegano gli indesiderabili,
con motivazioni spesso per lo più estranee alla malattia.
Il ciclo sembra ancora una volta compiuto e l’istituzione è ritornata al suo carattere
segregativo. La psichiatria ha perduto il suo oggetto che continua faticosamente a
costruire e che le continua a sfuggire, e si pone alla ricerca di una nuova istituzione che
non sia più limitata fisicamente a una struttura meramente spaziale. In epoca di
rivoluzione postindustriale, gli scienziati dell’alienazione - consorziati con gli studiosi delle
scienze sociali - stanno organizzando un pool cibernetico dell’alienazione, a difesa
dell’uomo e della sua malattia; andando alla ricerca di un nuovo campo di indagine in cui
ritrovare un nuovo oggetto, in una istituzione totalizzata che sarà ora l’intera società.
La relazione presentata da Jurgen Ruesch34 al congresso Towards a healthy community
a Edimburgo nel settembre del 1969 e che qui riportiamo integralmente, sembra chiarire,
con lucida obiettività, la situazione cui siamo arrivati. Si tratta di una relazione che fu
tema di discussione al congresso, dove erano invitati centocinquanta «esperti» che
dovevano esaminare le condizioni «innaturali» del «nuovo mondo» e studiarne i rimedi,
attraverso nuove forme di manipolazione di tipo interdisciplinare. Ciò che si propone ora è
di aggiustare il tiro, una volta individuato il bersaglio successivo: la creazione di una
scienza nella quale l’uomo possa trovare rifugio, garanzia e protezione dal leisure world in
cui il capitale lo costringe.
L’INABILITÀ SOCIALE. IL PROBLEMA DEL DISADATTAMENTO NELLA SOCIETÀ
di Jurgen Ruesch

La scena contemporanea

Il punto a cui siamo


Finché l’energia muscolare e l’abilità individuale costituivano il fondamento su cui si
costruiva ogni tipo di civiltà, la malattia o l’inabilità al lavoro escludevano dai profitti che
la società poteva offrire. Non c’era alcun dubbio, ad esempio, sul fatto che ciechi, sordi,
ritardati mentali, mutilati, alcolizzati o analfabeti fossero svantaggiati. Ma a metà del
secolo XX, l’energia atomica e l’automazione hanno mutato l’etica della civiltà occidentale
impostata sul lavoro. Oggi si incita la gente ad andare in pensione presto; i guadagni
ricavati dal lavoro sono maggiormente tassati rispetto a quelli provenienti dal capitale; le
recenti organizzazioni dello stato assistenziale e i sussidi per i disoccupati stimolano le
persone a uscire dalle attività produttive. L’opulenza e l’ozio ( leisure) hanno spostato
l’attenzione dal lavoro - cioè dalla produzione - verso la tendenza ad approfondire le
percezioni e le sensazioni - cioè verso l’investimento della propria energia interna. Da una
cultura d’azione ci si è spostati a una cultura d’immagine; e dalla considerazione
dell’apporto attivo e della produzione della gente, si è passati alla valutazione di ciò che
la gente consuma.
Ora soffermiamoci su alcuni punti specifici:

Dalla severità alla tolleranza


Nei secoli passati, le prestazioni individuali erano giudicate secondo standard e norme
ben definiti, sì che si premiava lo sforzo verso la conquista di una maggiore perfezione.
Nell’epoca moderna questa perfezione viene richiesta alle prestazioni delle macchine.
Così, via via che l’importanza dell’uomo in quanto energia muscolare è venuta
riducendosi, si sono abbassati gli standard relativi al comportamento umano ed è andata
aumentando la tolleranza nei confronti della psicopatia.
Nelle società moderne, il comportamento deviante risulta inoltre meno evidente per il
fatto che il luogo di lavoro è spesso separato dal luogo di residenza e le attività sociali
dell’individuo sovente non si svolgono nel circondario. Con la dispersione delle attività
umane, nessuno sembra più in grado di conoscere tutte le facce del comportamento di
una persona; quindi la generazione più vecchia, gli insegnanti, il clero, la famiglia, il
superiore nel posto di lavoro, hanno perso la loro efficacia nel giudicare e controllare la
condotta. L’influenza normativa esercitata reciprocamente dai cittadini ha cessato di
esistere, lasciando il posto ad atteggiamenti di indifferenza e disinteresse, tanto che
possono essere commessi delitti in pubblico, senza che nessuno soccorra la vittima.
Questa nuova tolleranza nei confronti del comportamento deviante ha giovato,
incidentalmente, ai malati mentali, i quali ora possono rimanere nella comunità, senza
più dovere essere nascosti negli ospedali psichiatrici per lunghi periodi.

Dalla responsabilità personale alla responsabilità statale


Nel mondo moderno, la responsabilità delle proprie azioni e il controllo non ufficiale da
parte del gruppo di appartenenza (ingroup), è stato sostituito da una responsabilità
collettiva impersonale e dal controllo da parte del gruppo esterno (outgroup). Come
corollario, i sistemi personali e non appariscenti per mezzo dei quali le persone malate o
incapaci venivano protette dai familiari o dai concittadini, hanno ceduto il passo all’idea
che sarà lo Stato a provvedere per coloro che ne abbiano bisogno. In questo modo i
cronici, i marginali sociali e gli inabili senza famiglia - in precedenza affidati a
organizzazioni caritatevoli e religiose - ora sono passati di competenza delle
organizzazioni sanitarie e assistenziali statali. Pertanto, a tutti i livelli economici, i
problemi fisici, psicologici e sociali dell’individuo sono usciti dalla sfera privata, e, sotto la
responsabilità di professionisti e di istituzioni, vengono trattati con procedure burocratiche
e da catena di montaggio.

Dal gruppo centrale alla persona marginale


Dallo spostamento della responsabilità risultò, per le persone improduttive, un
mutamento di status. Nella vecchia stratificazione verticale della società, ogni casta o
classe era caratterizzata da un grosso centro e da un gruppo marginale minore. Chi
tentava di diventare membro della classe immediatamente superiore, doveva dapprima
accettare uno status marginale, e solo a uno stadio successivo mirava a divenire membro
del gruppo centrale. La mobilità sociale consisteva così in una combinazione di movimenti
verticali e orizzontali. Ma nella società postindustriale, priva di classi, la mobilità sociale
consiste in mosse orizzontali per entrare nella struttura di potere e uscirne. La
popolazione moderna è quindi formata da un gruppo centrale che comprende governo,
industria, finanza, scienza, ingegneria, esercito e istruzione. Attorno a questo centro ruota
un cerchio di consumatori di beni e di servizi, organizzati da chi sta al centro. Alla
periferia si trovano poi i marginali che non hanno alcuna funzione significativa nella
nostra società.

Gli hippies
Fra i marginali vi sono alcuni teenager e giovani adulti. Essi non somigliano ai genitori o
ai nonni, che erano stati allevati in un’economia di penuria e guidati secondo etiche
protestanti fondate sul lavoro.
L’attuale generazione di giovani vive in un mondo opulento, non ha mai lottato per la
sopravvivenza economica e rifiuta i valori fondati sul denaro, potere, successo. Essi si
ribellano alla società dei consumi, disprezzano i beni materiali e perseguono il
raggiungimento della propria realizzazione personale e l’esperienza interiore. Il loro
interesse per le finezze della percezione e l’immaginazione è stato avvalorato dall’uso di
droghe che danno un’apertura mentale. Questi hippies o semihippies hanno abbandonato
i sistemi della società tecnologica. Difendono la vita semplice e alcuni vivono in comuni,
caratterizzate da un’opposizione all’organizzazione ufficiale dello Stato. Si oppongono alla
registrazione dei matrimoni, delle nascite, e a sottoscrivere a qualsiasi forma di
previdenza sociale, allo scopo di mantenere l’anonimato di fronte allo Stato. In molti casi
gli hippies vivono dell’assistenza e rappresentano, per la loro condotta antigienica,
malattie veneree e spaccio di droga, un pericolo per la salute pubblica.

Gli attivisti sociali


Un altro settore di giovani, per la maggior parte studenti, sceglie la linea opposta. Nella
loro rivolta contro la standardizzazione, l’omogeneizzazione e l’ingranaggio sociale, essi
bussano alla porta dell’establishment e chiedono di avere voce in capitolo nella gestione
dell’università. Si oppongono alla tecnologizzazione dell’uomo; sottolineano la diversità
culturale; ed esigono un confronto aperto. Se non si accettano le loro richieste, si
abbandonano ad azioni distruttive nel tentativo di abbattere la struttura organizzativa.
Sia la risoluzione di abbandonare il campo degli hippies, come la richiesta di una
maggiore partecipazione degli attivisti, rappresentano una reazione contro il centro
disumanizzato della nostra società. Se le rivoluzioni del secolo XVIII furono
essenzialmente provocate da disuguaglianze economiche, la nostra rivoluzione
contemporanea è, in gran parte, determinata da disuguaglianze tecnologiche.

La nuova élite
Il centro della società postindustriale è formato da persone che dispongono di abilità
simboliche - sia verbali che matematiche - e che possono usare tali abilità nel campo
della propaganda, nella programmazione di computer, nel controllo delle finanze e nella
strutturazione dell’ordine sociale. La caratteristica che distingue il monopolio simbolico
moderno, rispetto a quello delle classi acculturate del passato, è che il suo nuovo compito
richiede intelligenza. Quando, dopo le rivoluzioni americana e francese, le classi inferiori
oppresse cominciarono a elevarsi, le loro mire erano - necessariamente - di natura
materialistica. Successivamente la generazione più giovane cominciò ad aspirare alle
prerogative della precedente aristocrazia: poter condurre una vita d’ozio, possedere
tenute; occuparsi di filosofia, civiltà antiche, arte, musica e comportamento elegante. La
conoscenza, allora, era relativamente semplice e acquistare la capacità di agire garantiva
la sopravvivenza nella società industriale. Ma ora che la macchina si è sostituita al lavoro
servile e possediamo sorgenti di energia illimitata, le abilità fisiche sono diminuite di
importanza, mentre il pensiero razionale e l’adito all’informazione sono diventati
fondamentali. Sfortunatamente però, non tutti sono provvisti di un’intelligenza adatta ad
affrontare sistemi simbolici complessi, né vivono dall’infanzia in ambienti atti a favorire
uno sviluppo di tal genere.

Educazione universitaria e padronanza simbolica


Sfortunatamente molti si iscrivono al liceo o all’università presumendo che l’istituzione
farà loro apprendere abilità simboliche. Ma un’istituzione orientata verso l’educazione di
massa, non può fornire un sistema di insegnamento capace di impartire le sottigliezze
simboliche, i riti del comportamento o l’abilità nelle relazioni personali. Queste capacità
umane devono essere imparate nel primo decennio di vita, in seno alla famiglia. Ciò che
si può imparare nel secondo o nel terzo decennio è una variazione di quanto si è
imparato prima. I corsi universitari sono in genere difficili ed essenziali e se gli studenti
non sono già in possesso di abilità simboliche, non possono mettere a frutto ciò che viene
loro offerto. La reazione è di delusione, che si concreta poi nella richiesta di un tipo di
istruzione più adeguata alle loro esperienze quotidiane. Non desiderano imparare ciò che
è a loro portata di mano; e ciò che essi richiedono come istruzione non li prepara a
essere parte del centro della società postindustriale. Questo è il dilemma.

La misura del problema

Domandiamoci ora: «Quanti sono i socialmente inabili, quanti i marginali e quanti


appartengono al centro della nostra società postindustriale?» Secondo le cifre ufficiali
relative agli inabili sociali, la loro percentuale è del 6,6 per cento della popolazione degli
Stati Uniti. Inoltre esiste un altro gruppo che ha buona probabilità di diventarlo in futuro,
aggiungendo un ulteriore 12,2 per cento alla cifra precedente (tab. 1). Gli inabili attuali,
insieme con la popolazione in serio pericolo di diventarlo, raggiungono quindi il 20 per
cento della popolazione degli Stati Uniti. Questa cifra è rafforzata dalle statistiche di
coloro che soffrono di malattie croniche, il che dimostra che circa il 30 per cento della
popolazione soffre di qualche disturbo permanente. Questo per quanto riguarda gli inabili
(tab. 2).
Guardiamo ora il centro della nostra società. I requisiti per l’ammissione all’educazione
superiore sono molto rigidi. I procedimenti di selezione automatica scelgono i candidati a
università, istituti professionali, corsi di addestramento, a impieghi di routine o statali. Chi
ottiene un buon punteggio frequenta scuole di prestigio che forniscono il complesso
militare-industriale-scientifico; quelli che ottengono un punteggio inferiore, frequentano
istituti che alimentano l’establishment governativo, educativo e della piccola finanza.
Entrambi i gruppi costituiscono il centro moderno della società. Fra la popolazione adulta
di venticinque anni e più, circa il 18 per cento ha frequentato l’università per un anno o
oltre. In futuro è probabile che la sempre crescente complessità dei sistemi tecnici, sociali
ed educativi richieda un maggior numero di persone con educazione superiore, e le cifre
potrebbero aumentare. Per il momento queste «figure centrali», caratterizzate da Qi di
111 e più, gestiscono e provvedono alla civiltà tecnologica. Attorno a loro c’è un gruppo -
che comprende un ulteriore 49 per cento della popolazione adulta - che ha avuto almeno
un anno di educazione liceale. Queste persone assolvono numerose funzioni utili e
consumano beni capitali e servizi.
Ora passiamo ai marginali, alla periferia. Circa il 33 per cento della popolazione adulta
ha avuto solo l’educazione elementare e, nell’economia moderna, ci sono pochi lavori alla
loro portata. Insieme agli inabili, ai malati, agli incapaci, i non-occupabili vivono di
sovvenzioni pubbliche o private, e il loro ruolo è essenzialmente limitato al consumo dei
servizi sanitari e assistenziali.
Se traduciamo queste percentuali, riferite alla popolazione adulta, in cifre riguardanti
la popolazione complessiva degli Stati Uniti, il centro rappresenta solo il 10 per cento,
mentre il gruppo intermedio il 25 per cento. Quindi circa un terzo della popolazione totale
esegue un certo tipo di lavoro per il quale riceve un compenso. I malati (e fra questi sono
inclusi i vecchi), gli incapaci e i giovani formano il 65 per cento o i due terzi della
popolazione totale. Questo gruppo può essere definito «il mondo dell’ozio» (the leisure
world).

La valutazione dell’inabilità sociale

Due elementi hanno alterato, in modo significativo, la valutazione del funzionamento


sociale: l’introduzione dei computer e i progressi compiuti nel campo delle scienze sociali
e del comportamento. Entrambi hanno contribuito a sostituire le precedenti ipotesi sul
funzionamento psichico con sistemi scientifici. Nel campo delle scienze del
comportamento, il passo più significativo fu la sostituzione delle vecchie teorie esplicative
con modelli scientifici che ci mettono in grado di verificare un certo numero di ipotesi. Fra
questi, i modelli di matematica probabilistica che, se combinati con il computer, ci
consentono di formulare programmi che simulano l’interazione e la comunicazione.
Valendomi di questi progressi, mi sono interessato allo sviluppo di un metodo per la
valutazione del funzionamento sociale, basato sui computer. Il primo passo verso una
tale meta è stabilire criteri che distinguano fra buon funzionamento e menomazione. Il
secondo, consiste nella raccolta di dati empirici su individui che soffrono di qualche
disfunzione. Si valutano i diversi tipi di disturbo che presentano e le situazioni nelle quali
non sono risultati in grado di «funzionare», e l’informazione viene immessa nella memoria
del computer. Il terzo passo consiste nel sostituire l’intervistatore con una macchina. Una
stazione video matrice entrata-uscita, costituita da quattro componenti integrate - lo
schermo video, la penna luminosa, il quadro dei comandi e la scrivente elettrica - è
collegata al computer. Le domande vengono proiettate sullo schermo e il paziente o un
segretario possono battere a macchina le risposte. Con un programma adatto, il disturbo
del paziente può essere esaminato in rapporto alle informazioni già accumulate nel
computer, così che si possono trovare situazioni in grado di tollerare un tale tipo di
disturbo. Il paziente allora può essere indirizzato nella strada adatta, quella specializzata
nella riabilitazione di questa particolare menomazione. La sostituzione dell’intervistatore
con il computer, ci consente di vagliare un gran numero di persone e di dirigerle verso
situazioni in cui potranno funzionare meglio. Dato che l’inabilità è spesso irreversibile, i
pazienti che vogliano guarire dovranno sviluppare conoscenze e abilità in campi in cui le
loro funzioni non risultino disturbate, oppure dovranno cercare situazioni in cui la loro
inabilità venga tollerata. Sorvolando tutti i dettagli tecnici, vorrei limitarmi al primo passo
e delineare alcuni dei criteri che si possono usare per individuare le inabilità sociali. La
stima dell’inabilità sociale si divide in due parti distinte: la stima della persona e quella
della situazione. La stima della persona comporta l’esame del funzionamento fisico,
psicologico e sociale. Quella della situazione implica la valutazione dei requisiti e delle
prestazioni richieste alle persone e la definizione dei limiti di tolleranza del sistema
sociale nei confronti del comportamento disturbato. Un disturbo si trasforma in inabilità
se porta a escludere definitivamente l’individuo dal lavoro, dal divertimento, dalla vita
familiare, precludendogli l’accesso ai compensi materiali ed emotivi che la società può
offrire. Il raffronto fra le caratteristiche dell’individuo e quello che la situazione richiede,
indica il grado di adattamento. Questa operazione è stata intrapresa con l’aiuto di un
computer Ibm modello 360/50.

L’individuo disturbato

Se i disturbi fisici e mentali sono tradizionalmente valutati confrontando il paziente con


standard di funzionamento stabiliti, l’inabilità sociale non può essere sempre valutata
secondo criteri normativi, dato che alcuni standard sono sconosciuti. Tuttavia, se ci
limitiamo allo studio delle assegnazioni di tempo, spazio, energia, denaro; alla
comunicazione, al contatto con l’azione, in qualche modo possiamo aggirare queste
difficoltà.

Violazione delle convenzioni del tempo. Queste risultano abbastanza chiare. I limiti di
tolleranza da parte del sistema dei funzionari statali, per esempio nello Stato della
California, indicano che l’assenza per più dell’11 per cento del tempo di lavoro non è
tollerata (tab. 3).

Infrazioni dello spazio e delle proprietà. In ogni società ci sono luoghi riservati al culto, al
divertimento, al lavoro, al commercio; all’interno della maggior parte delle abitazioni ci
sono suddivisioni definite come stanza da letto, soggiorno, bagno e cucina. Ma alcuni
individui non rispettano la distinzione abituale fra spazio pubblico e privato, o fra spazio
adibito a uso specializzato o generico.

Deviazione nella sfera dell’energia. L’incapacità di distribuire le proprie energie secondo i


vari compiti, può provocare una serie di sintomi come insonnia, tensione, agitazione,
apatia, noia e spossatezza. Benché pochi siano esclusi per eccessiva o insufficiente
energia sviluppata, parole come «iperteso», o «astenico» possono qualificare la persona
come inadatta a certi particolari lavori, in genere facendo passare la cosa per un
allontanamento risultato necessario sul piano medico o psichiatrico.

Carenza nell’organizzazione finanziaria. La distribuzione del denaro secondo i vari settori


della vita non muta eccessivamente, a meno che non si tratti di persone molto ricche.
Nella tabella 4 si mostra la distribuzione annuale dei fondi a tre livelli di reddito. Circa i
due terzi delle spese vanno per cibo, affitto, vestiario e trasporti. Tutte le altre spese
assorbono il terzo rimanente. L’insieme delle spese indica che gli eccessi in un settore
provocano restrizioni negli altri; il che può, a sua volta, provocare uno squilibrio nel
programma economico familiare (tab. 4).
Disturbi di comunicazione. Le modalità di espressione dei devianti possono essere
osservate nel loro vocabolario, nei gesti, nella sintassi, nel contenuto o nei modi di
interpretazione; ciò ha la massima importanza in quegli strati della società che hanno a
che fare con la produzione di immagini. Alcuni tipi di comunicazione deviante sono
punibili a termini di legge, per calunnia o diffamazione; alcune parole a quattro lettere
non si possono pronunciare. Nel complesso, i centri internazionali, cosmopoliti, di
assistenza, e i centri psichiatrici sono più tolleranti nei confronti delle devianze che si
manifestano nella sfera dell’espressione, dato che essi non hanno direttamente a che fare
con l’azione. Ma coloro che devono invece tradurre le parole in azione, sono rigidamente
intolleranti nei confronti dei disturbi di comunicazione.

Azione deviante. Il comportamento nell’azione è giudicato in rapporto all’efficienza


dimostrata nel raggiungere una meta stabilita. Dove è richiesta una grande efficienza,
come ad esempio nel campo dell’ingegneria, chirurgia o aviazione, la tolleranza per le
devianze è minima. Quando si rivela una prestazione deviante in questo genere di
situazioni, si tende a eliminare le persone incapaci o inefficienti, nonostante l’opposizione
dei sindacati o le pressioni dei funzionari statali. Ciò si verifica, di solito, in tempi di crisi o
nel corso di controlli sanitari, il che quindi permette un licenziamento giustificabile sul
piano medico.

Individuazione della persona disturbata. Si ritiene che problemi di distribuzione,


comunicazione e azione arrivino a disturbare quando interferiscono con il lavoro, la vita
familiare, i divertimenti, i rapporti sociali, tanto da rendere necessario un aiuto esterno.
Nell’azione, l’incapacità si rivela attraverso l’impossibilità di lottare con successo; nella
parola è l’inabilità a esprimersi, ad acquisire informazioni, a comunicare. Ma che un
disturbo di funzionamento porti all’esclusione del paziente da un dato sistema sociale,
creando quindi una condizione di inabilità, dipende dalla situazione sociale.

La situazione e i suoi limiti di tolleranza.

Una situazione è definita da Webster come «una combinazione relativa di circostanze a


un dato momento». Questa definizione può essere dilatata fino a includere tutte le
determinanti esterne non personali del comportamento che esistono in un momento dato.
L’esclusione di una persona può avvenire in due modi diversi: stabilendo dei requisiti
prima di ammetterla in un gruppo, situazione o sistema sociale; o attraverso la
valutazione delle prestazioni, dopo che la persona è entrata a farne parte. Di solito viene
incaricata una persona o un comitato di decidere se un dato individuo risulti utile alla
finalità del gruppo o meno, per cui il comportamento che si conforma a tale finalità viene
premiato, e il comportamento che devia dalla meta viene punito.
I requisiti necessari per essere ammessi sono, in genere, illustrati in descrizioni del
tipo di lavoro, cataloghi scolastici, manuali di compagnie assicurative, criteri di abilità per
i militari e negli statuti di club e associazioni (tab. 5).
Una volta assunta una persona in un lavoro, famiglia o gruppo sociale, le sue
prestazioni vengono valutate positivamente in base al suo contributo, o negativamente in
base al grado di devianze dalla norma. Ma la valutazione non è una questione
nettamente definita; numerosi fattori possono renderla variabile e incerta.

Circostanze che possono produrre modificazioni. Potrebbe essere nell’interesse del


sistema ammettere o trattenere persone non qualificate, o escluderne altre altamente
qualificate, infrangendo in tal modo le regole tradizionali. Nei procedimenti legali, ad
esempio, il procuratore distrettuale può ridurre l’accusa da una colpa maggiore a una
minore; o il giudice ha il privilegio di chiedere una più mite sentenza, in presenza di
circostanze attenuanti. Le variazioni dell’interpretazione amministrativa delle regole e i
rapporti interpersonali del paziente o del cliente con l’arbitro portano alle incoerenze.
Fattori quantitativi come il numero delle volte in cui si sono verificate le violazioni,
possono influenzare la decisione. Sul mercato, vi possono essere posti di lavoro disponibili
per i quali non vi sono aspiranti; allora gli standard si abbassano così da coprire anche
questi «posti». Caratteristiche personali come senso di humour, simpatia, spirito di
adattamento, e gli sforzi che l’individuo compie per superare l’handicap di cui soffre,
possono alterare il limite dell’accettazione o del rifiuto. Essere membri di una famiglia
influente, di club, di partiti politici o appartenere al rango militare, occupare una
posizione organizzativa o godere di una fama personale, sono tutti fattori che hanno un
peso. Così, se il disturbo dell’individuo e i limiti di tolleranza stabiliti dal sistema possono
essere predetti, con una certa esattezza, i fattori atti a modificare la situazione
introducono l’incertezza.

Procedure nella valutazione di inabilità sociale.

A molti tecnici si chiede di dare consigli, opinioni, prendere decisioni, aiutare


praticamente individui, gruppi o organizzazioni. Essi sono consultati quando insorge una
crisi, quando è avvenuta un’esclusione o quando qualche pericolo minaccia il gruppo più
ampio. I vecchi procedimenti seguivano il sentiero tradizionale delle scienze fisiche,
consistenti nel sezionare il problema nelle parti che lo costituiscono, e quello delle
scienze mediche consistenti nella diagnosi e nell’intervento. I nuovi metodi, invece, sono
modellati secondo i metodi della ricerca operativa. In questo tipo di approccio, viene
stabilito l’obiettivo generale, l’onere del lavoro viene diviso secondo unità funzionali, e si
costruisce un diagramma che indica le funzioni di ogni passo intrapreso. Un esempio di
tale procedura è dato dalla tabella 6.

Conclusioni

1. Se il termine «disturbo fisico» si riferisce a limitazioni biologiche permanenti, e il


termine «disturbo psicologico» a limitazioni mentali permanenti, il concetto di
«disturbo sociale» si riferisce a disfunzioni permanenti nella sfera dell’azione e della
comunicazione.
2. A seconda delle richieste della situazione, la limitazione della funzione può o no
rendere inabile il paziente. L’inabilità esiste quando il paziente disturbato è
permanentemente escluso da alcune situazioni, impedendogli di dedicarsi a un’attività
remunerativa, partecipare alle questioni familiari, ai divertimenti e alla vita sociale.
3. Il gruppo centrale degli inabili sociali è costituito da persone che hanno subito traumi o
malattie, presentano deficienze sensorie o motorie, o soffrono di qualche forma di
nevrosi o psicosi. A questi dobbiamo aggiungere tutti coloro che, a causa delle
condizioni culturali, educative ed economiche, sono stati soggetti a privazioni sociali e
non sono in grado di usare i servizi tecnici e culturali di cui dispone la nostra civiltà.
4. Il gruppo di confine degli inabili sociali è costituito da vecchi, disoccupati e da tutte
quelle persone incapaci, come ad esempio hippies, vagabondi e tossicomani che non
hanno alcuna funzione significativa nella nostra società.
5. Dall’analisi dell’inabilità sociale, sembrano emergere alcune conclusioni pratiche:
– Dobbiamo aumentare la tolleranza nei confronti del comportamento deviante nelle
situazioni umane, restringendo invece la tolleranza istituzionale per il comportamento
deviante nel campo tecnico: nessuno dovrebbe soffrire per incompetenza, negligenza o
cattiva volontà.
– Dovremo sostituire alle vecchie abitudini che assegnavano alle persone di intelligenza
limitata e limitata capacità di rapporto interpersonale, un ruolo sociale, nuove abitudini
che forniscano a queste persone un posto nella società.
– Tenendo conto del fatto che il centro altamente qualificato della società tecnologica
rimane orientato verso il lavoro, mentre le grandi masse dovranno essere orientate
verso l’ozio, dovremo mutare i nostri programmi scolastici e i sistemi educativi, per
preparare la società a questo rovesciamento dei ruoli. In passato, le classi superiori
giocavano e le classi inferiori lavoravano.
– Nella fase di transizione fra l’etica antica che riconosceva un valore alle imprese
private, alle dimostrazioni di abilità, alla conoscenza e alla superiorità individuali, e le
nuove etiche che riconoscono come valori il collettivismo, la macchina, le sensazioni e
le immagini, troveremo un numero sempre maggiore di individui che non si adeguano
né al vecchio mondo né a quello nuovo. È questo gruppo di marginali che è diventato
un nuovo oggetto di sfida per le discipline della salute mentale.
Tabella 1.
La misura dell’inabilità sociale
Fonti: U.S. Department of Commerce, National Committee Against Mental Illness.

Popolazione degli Stati Uniti, 1965 193.818.000 %

Pazienti psichiatrici visti in


1.196.853 0,617
istituzionipubbliche e private
Persone fisicamente inabilitate 3.376.159 1,742
Persone in conflitto con la legge 3.106.284 1,603
Altri problemi: drogati, alcolizzati,
5.080.588 2,621
suicid
–––––––––– –––––
Totale degli inabili sociali 12.759.884 6,583

Problemi potenziali nella


popolazione:
vecchi, disoccupati, ritardati
mentali
leggeri, immigrati, persone in 25.622.743 13,220
corso
di riabilitazione
Totale degli inabili e dei gruppi
potenzialmente in rischio di
38.382.627 19,803
diventarlo
Tabella 2.
Le principali cause di inabilità
Fonte: National Health Education Committee, Inc.

Popolazione degli Stati


175.277.000 %
Uniti, 1959

Disturbi mentali e
17.000.000 9,7
affettivi
Disturbi cardiaci e
circolatori, compresi
11.917.000 6,8
i disturbi
cerebrovascolari
Artriti e disturbi
11.250.000 6,4
reumatici
Impedimenti acustici 6.000.000 3,4
Disturbi neurologici 4.250.000 2,4
Diabete 1.500.000 0,9
Cancro (calcolati sotto
785.000 0,5
cura)
Totalmente ciechi
350.000 0,2
(legale)
–––––––––––––– –––––
Totale 53.052.000 30,3
Tabella 3.
Tolleranza nei confronti dell’assenza dal lavoro
Fonte: Personnel Transactions Manual, California Civil Service System

%
Giorni
Sfera: del tempo
di assenzaa
lavorativo
Del centro 12b 4,8
Allargata 15c 6
Del centro e allargata 27 10,8

a Su 250 giorni lavorativi l’anno.


b Periodo concesso per malattia.
c Licenza ferie.
Tabella 4.
Spesa media per tutte le famiglie della città
Fonti: Feldman; Heller; Kraft; U.S. Department of Labor.

Famiglia a Famiglia a Famiglia a


reddito basso reddito medio reddito alto

–––––––––––––––––––––––––––
% del bilancio annuo

Bilancio annuo medio (in


5915 8485 12.549
dollari)

Circa due terzi delle spese:


Alimentari (drogheria,
bevande, pasti fuori) 28 23 20
Casa (affitto, ipoteca,
tasse fabbricati,
assicurazione, servizi,
manutenzione) 22 23 20
Vestiario e cure personali 12 11 11
Trasporti 8 10 9

Circa un terzo delle spese:


Tasse (tranne quelle sui 8 12 15
fabbricati)
Assicurazioni sociali (invalidità,
assicurazione sulla vita, tasse 7 5 4
per l’assicurazione sociale)
Cure mediche 8 5 4
Divertimenti 5 6 7
Altre spese 2 3 4
––– –– –––
100 100 100
Tabella 5.
Requisiti per l’ammissione

Qualifiche elencate dalle organizzazioni, che il candidato deve soddisfare.

Età (limiti inferiore e superiore) Salute mentale (mancanza di rapporti


Sesso (maschile o femminile) con la giustizia o con ospedali
Religione psichiatrici)
Razza
Nazionalità
Stato civile
Residenza (tempo o distanza)
Istruzione ufficiale (diplomi) Corporatura (specialmente per fantini,
Occupazione modelle)
Grado di competenza (esperto, Risorse economiche (possiede beni, o
novizio) dispone di beni)
Esame della salute fisica (o Successi nelle gare (premi, medaglie)
mancanza di episodi nocivi) Iscrizioni (società, associazioni)
Licenze (professionali, commerciali)
Esperienza precedente allo stesso livello
Tabella 6.
Gradi del procedimento per accertare la inabilità sociale

1. Il problema: Chi è diventato un problema, per chi, in che cosa, quando, dove? E quale
tipo di assistenza richiede?
2. L’etichetta: Quale etichetta si deve apporre al problema in questione, e quali probabili
conseguenze questa etichetta comporta?
3. La popolazione che presenta problemi: Quali sono le caratteristiche delle persone che
abbisognano di assistenza? E che cosa si sa sulle persone che in passato presentarono
problemi analoghi?
4. La situazione problematica: Quali tratti caratterizzano tutta la situazione problematica?
Che cosa provoca, stabilizza o risolve tali situazioni?
5. I limiti di tolleranza: Qual è l’ampiezza del comportamento accettabile, in questo
particolare sistema sociale, e quali ne sono i limiti di tolleranza?
6. Le risorse: Che genere di risorse istituzionali, fisiche, economiche e di mano d’opera
sono potenzialmente disponibili per questo caso?
7. Le aspettative: Quale tipo di aiuto è accettabile da parte dei diseredati, e quale tipo di
aiuto il sistema sociale è pronto a dare?
8. L’intervento: Quale tipo di aiuto è utile in questa situazione? Chi deve portarlo,
quando, dove e per quanto tempo?
9. Misure preventive: Che cosa si deve fare individualmente, collettivamente o
organizzativamente per impedire il ripetersi di una tale situazione?
10. Addestramento ed educazione: Come deve essere addestrato il personale per
apportare l’aiuto richiesto? Come deve essere addestrata la gente che presenta
problemi per accettare l’aiuto?

La nuova etica fondata sul non-lavoro proposta da Ruesch, sembrerebbe prefigurare


una realtà in cui l’uomo sia finalmente libero dalla schiavitù della fatica. Ma l’artificiosità
di una felicità innaturale, costruita dal capitale per garantire la propria sopravvivenza,
non può non tramutarsi in una nuova forma di schiavitù dell’uomo costretto, da un gruppo
di superuomini, a una vita di piacere e di ozio, altrettanto adialettica e invivibile di quella
della schiavitù del lavoro.
Si chiude così l’analisi dei tre livelli su cui può mantenersi il problema:
– l’analisi medica della psicopatia, dove la medicina è ancora deputata a coprire con le
sue ideologie contraddizioni che non le competono;
– l’analisi sociologica della devianza, dove la sociologia fa da controcanto alla medicina,
capovolgendo i termini del discorso;
– l’analisi del nuovo tecnocrate che non teme di dare alle cose il loro nome: la
constatazione della misura ridottissima del potere centrale autorizza a lasciare la
verità nuda, come simbolo della faccia vincente del capitale.
L’IMPOSSIBILE STRATEGIA

Il deviante come problema reale, diventa l’ideologia della devianza che, a sua volta, si
concreta nella sistematica proposta di istituzioni a essa deputate, sempre più rispondenti
alla necessità di manipolazione, presuntivamente risolutrice, attraverso il falso dilemma
di «società anemica o comunità terapeutica». Il mondo di Ruesch è l’immensa società
anemica come comunità terapeutica, dove l’interclassismo apparente esprime la forza di
un centro di potere sempre più ridotto; una specie di nuovo feudalesimo tecnocratico.
I manipolatori di questa realtà - i tecnici delle scienze umane - propongono come
alternativa alla società anomica il trattamento dell’uomo e dei suoi conflitti. Le tecniche,
ottenute dagli ultimi orientamenti interdisciplinari della psichiatria, sono il risultato della
confluenza di tutte le scienze umane che si privano del loro «oggetto» - l’uomo - e ne
realizzano il recupero attraverso la produzione, l’organizzazione controllata, la
manipolazione dei suoi conflitti. il nuovo potere centrale - sempre più ridotto e sempre
più esteso - può dominare sotto l’apparenza della protezione, violentare sotto l’apparenza
della cura. La durezza della realtà viene superata dall’illusione che sia stata finalmente
raggiunta una pacificazione fra gli uomini - nuovi servi - ai quali dovrebbe risultare facile
e «naturale», attraverso le tecniche del consenso generale, trovare una motivazione
collettiva, che non può che essere la motivazione del signore. La totalità della servitù
costituisce il nuovo concetto di signoria: il nuovo padrone non è che la totalità dei servi.
Ma c’è il pericolo di sfuggire alla situazione in una sorta di coscienza esistenziale che
richiude in una nuova oggettivazione il ciclo iniziato; di illudersi di poter uscire dal gioco,
tentando di costruire un’organizzazione non organizzata che si mantenga al di fuori del
«potere» e delle sue istituzioni. Quello che un gruppo di persone, rifiutando la
mistificazione della nuova interdisciplinarietà psichiatrica, propone in Inghilterra, è
appunto un’azione antipsichiatrica svincolata dalle limitazioni e dalle influenze delle forze
istituzionali.
Riportiamo qui alcuni passi di un’intervista fatta ad alcuni componenti di quello che è
ormai noto come il network di Londra:

DOMANDA In che cosa consiste il lavoro del network?


LEON REDLER36 Il network è un’alternativa alle istituzioni psichiatriche ed è costituito da
un gruppo di persone che vive a Londra e non ha confini netti. Ognuno di noi cerca di
dare un senso alla propria esistenza come punto d’inizio dell’esperienza altrui e facciamo
questo per lo più nel contesto della psichiatria o, per usare l’espressione di David Cooper,
dell’antipsichiatria. È il tentativo di raggiungere e di ritornare a un tipo di totalità che
crediamo possibile, anche se la maggior parte della gente nel mondo l’ha perduta.
SIDNEY BRISKIN37 Un gruppo di sette persone si è riunito e ha avvertito che veniva
esercitata un’enorme violenza sulla gente ricoverata negli ospedali psichiatrici, in quello
che si chiama trattamento. Ci è parso necessario esplorare dettagliatamente questo
aspetto, nella speranza di trovare alcune alternative... Siamo stati in grado di fornire
un’alternativa a chi era in ospedale psichiatrico o a chi sentivamo ci stava andando.
Questi luoghi sparsi per Londra, formavano un centro, un posto dove le persone potevano
vivere senza essere assoggettate al trattamento che sarebbe stato loro inflitto se fossero
state ricoverate in ospedale psichiatrico.

DOMANDA Che cosa rappresenta l’esperienza del network e, in particolare, quella di


Kingsley Hall38 rispetto a quella delle comunità terapeutiche?
SIDNEY BRISKIN Domande come queste mi fanno orrore, perché questo esemplifica
esattamente ciò che stiamo dicendo. La domanda implica il fatto che si vuole in qualche
modo definirci, metterci lì e categorizzarci, confrontando ciò che siamo rispetto a
qualcos’altro.
LEON REDLER Penso che il fulcro delle comunità terapeutiche sia spesso nel
comportamento del paziente anziché sulla sua esperienza. Benché in qualche modo si
tratti di ambienti favorevoli alla discussione fra le persone, mi sembra che spesso venga
esercitato un metodo di controllo sociale più sottile, a volte esplicito, da parte del gruppo
stesso. Per esempio, per citare qualcosa accaduta durante la mia esperienza in una
comunità terapeutica, ricordo un caso di un paziente che era uscito dal recinto
dell’ospedale e aveva fatto l’amore con una paziente. La cosa si è venuta a sapere perché
la paziente ne ha parlato con un’infermiera del reparto. Bene, il mattino successivo il
dottore è entrato nel reparto maschile e ha annunciato solennemente che la cosa era
stata scoperta e ha chiesto l’opinione del gruppo. In qualche modo c’era l’assunzione
implicita che qualunque cosa avesse pensato il gruppo su questa faccenda, il paziente
avrebbe dovuto capire che questo doveva essere anche il suo punto di vista, e qualora
non avesse pensato quello che il gruppo voleva pensasse, ciò significava che c’era in lui
qualcosa che non andava. Il gruppo si sarebbe chiesto perché era così ostinato, perché
non riusciva a capire che aveva fatto qualcosa di sbagliato, e che il suo comportamento
doveva conformarsi alle regole dell’ospedale e a ciò che il gruppo gli diceva di fare. Penso
che questo atteggiamento ci obbliga a porci delle serie domande: se quest’uomo deve
interessarsi o meno a ciò che gli altri pensano sul suo fare l’amore con una donna. Il fatto
è che egli aveva rotto delle regole. Ma non gli si diceva chiaramente: «Tu hai infranto una
regola e quindi devi essere punito, e devi promettere di non farlo più». Questo sarebbe
stato chiaro e abbastanza leale, anche se il paziente avrebbe potuto rifiutare questo
atteggiamento dicendo: «Non penso abbiate alcun diritto di dirmi se devo fare l’amore o
meno». Ma mi sembra invece che l’atteggiamento della comunità sia tornato un passo
indietro, dicendogli che avrebbe dovuto sapere di più, che avrebbe dovuto sapere ciò che
il gruppo voleva. Mi sembra un metodo di controllo sociale che, a essere sinceri, non aiuta
minimamente la persona a esplorare i limiti della sua individualità, personalità ed
esperienza. In un certo ambiente questo può portare alla tirannia da parte del gruppo.
C’è poi un’altra mistificazione potenziale nelle comunità terapeutiche: che spesso, nella
pratica, benché la cosa non sia prevista dalla teoria, il gruppo è guidato in ciò che pensa
dal personale curante. Infatti il medico guida il gruppo in ciò che il medico crede non
dovrebbe pensare, il medico cerca di indicargli - attraverso ciò che dice, il modo in cui lo
dice, il modo in cui si muove e l’espressione della faccia - che è sulla strada sbagliata e
cerca di rimetterlo su quella giusta. Penso che la differenza principale tra questo e il
nostro modo di operare, sia che innanzitutto non ci basiamo sul comportamento ma
sull’esperienza personale e cerchiamo di esplorare in che modo l’esperienza di un
individuo guidi il suo comportamento. Ci interessiamo particolarmente dell’esperienza e
del significato che essa ha per lui e, in qualunque modo egli cerchi aiuto, cerchiamo di
aiutarlo a esplorare la sua esperienza e a darle un senso.
SIDNEY BRISKIN Tutte le istituzioni sono basate su un sistema binario: un «noi» e un
«loro». Nell’esempio che è appena stato dato della comunità terapeutica, «noi» siamo gli
psichiatri, assistenti sociali, psicologi; e «loro» sono le persone che sono state
diagnosticate come aventi una forma di malattia mentale, e sono lì per essere curate. La
differenza essenziale tra questo e Kingsley Hall e le altre «case» che abbiamo
organizzato, è che non c’è questo sistema binario. Noi non abbiamo del personale e, non
avendo personale, non abbiamo pazienti. Le persone che vivono lì non sono pazienti.
Sono persone che possono essere tristi, o star male o essere infelici, confuse e incerte,
ma non sono pazienti. Sono esseri umani che, per una ragione o per l’altra, hanno trovato
difficile o quasi impossibile far fronte alla vita e, secondo il nostro punto di vista, hanno
bisogno di un luogo dove stare e dove poter vivere la loro esperienza.
Leon ha detto che l’accento è sull’esperienza e non sul comportamento. Infatti
guardando al comportamento c’è già un’aspettativa di come la gente dovrebbe
comportarsi. Ora, nell’ospedale psichiatrico, quando una persona entra per una crisi
psicotica, si guarda alla crisi come a qualcosa che non ha funzionato, che ha preso una
via sbagliata; si guarda al comportamento e a quello che la persona dice come a sintomi
di malattia e si cerca di fare quello che si può per liberarsi di questi sintomi e rimettere
l’individuo nella normalità. Noi non sentiamo in questo modo. Pensiamo che ciò che gli
altri possono chiamare normalità e ritorno alla normalità, è nella maggior parte dei casi
un tipo di travestimento, una situazione falsa, confusa e violenta. Quello che ci interessa
è far sì che questa persona, attraverso l’esperienza della sua crisi, sia capace di trovare
un modo più autentico di essere. Penso che un punto importante sia che la psichiatria dei
cosiddetti malati in ospedale, eserciti in realtà un metodo di controllo sociale per
rimettere la persona nuovamente nella situazione precedente il ricovero, per rimandarla
indietro in famiglia, nel lavoro, nella fabbrica, nella scuola; in molti casi, per farlo
ridiventare un ingranaggio confuso della macchina, un confuso automa che prende ordini
dai computer capi. La crisi non è guardata come qualcosa di potenzialmente liberatorio, e
penso che sia proprio questo il punto essenziale su cui noi non siamo d’accordo con la
maggior parte dei medici e delle istituzioni della medicina tradizionale.
LEON REDLER Il fenomeno con il quale gli psichiatri hanno a che fare riguarda la rottura
della regola, l’infrazione di leggi sociali. Alcune di queste leggi sono ovvie, mentre altre
molto sottili: uno che si scosta leggermente dalla norma, per esempio se dice di sentire
voci che gli parlano, o se si sveste camminando per la strada, infrange certe leggi della
società e la società non sa come farvi fronte, ma sente che deve fare qualcosa. Bene, gli
psichiatri, diagnosticando queste persone come malate e segregandole in un ospedale
psichiatrico e dando loro un trattamento, le stanno di fatto punendo per le regole che
hanno infranto e le obbligano a conformarsi a ciò che la società crede vada fatto.
SIDNEY BRISKIN Abbiamo avuto molte esperienze a Londra di situazioni in cui sentivamo
veramente il bisogno di fare qualcosa. La nostra diagnosi della situazione era molto
chiara, ma ci è anche apparso chiaro che noi stessi eravamo stati cosi minati dal sistema
al quale ci opponiamo, che solo parzialmente possiamo operare come esseri umani
integri, perché una parte della corruzione è in noi, e anche noi siamo corrosi e impotenti.
Per questo è stato molto difficile trovare gente che volesse entrare in una situazione,
come Kingsley Hall, e vivere semplicemente con altra gente. La maggior parte delle
persone ha paura. La gente comune e anche i professionisti hanno paura di stare con le
persone diagnosticate come schizofreniche. E la tragedia è che molti di noi, anche se
parliamo come se conoscessimo qualcosa di diverso, siamo coinvolti in modo tale che la
cosa sembra senza speranza.

Un’altra voce definisce così la finalità e il significato del network: David Cooper che,
assieme a Ronald Laing, è uno dei fondatori di questo movimento:

DAVID COOPER Il network è un gruppo di persone, in stretta relazione tra di loro, che
operano con un unico progetto e con un’unica finalità. Questa finalità consiste nel trovare
il modo di integrare la pazzia nella società. Siamo cioè semplicemente persone correlate
l’una all’altra che cercano di trovare il modo di vivere con la propria pazzia. Kingsley Hall
è uno dei posti nel mondo dove posso andare, se ho qualcosa che mi disturba, perché
posso trovarvi gente che non interferisce con me e che allo stesso tempo è disponibile nei
miei confronti se ho bisogno di essere circondato da calore umano. Non mi spaventerei,
né sarei imbarazzato qualunque cosa facessi o dicessi. È un posto dove potrei stare in
pace. Ci incontriamo insieme ad altra gente e cerchiamo di ottenere accomodamenti,
come per esempio abitazioni dove, se qualcuno «impazzisce», può farlo con sicurezza,
senza interferenze psichiatriche.
Ho trovato impossibile lavorare negli ospedali psichiatrici del National Health Service,
perché - prima di tutto - all’interno del National Health Service c’è il modello medico con il
ruolo del medico definito molto chiaramente e quello del paziente definito altrettanto
chiaramente. Il medico sostiene che il paziente è pazzo e la cosiddetta sanità del medico
dipende dalla cosiddetta pazzia del malato. Ognuno conferma l’altro reciprocamente. Si
tratta di una situazione terribile, nella quale chi vi partecipa viene rinchiuso in definizioni
che impediscono ogni tipo di realtà umana e ogni realtà esperienziale. Questo è tutto. Ma
credo sia importante, perché mi sembra un lavoro rivoluzionario prima della rivoluzione.
Penso che, in precedenti situazioni rivoluzionarie (in nazioni che hanno già fatto la
rivoluzione) questo lavoro non sia stato fatto. Non c’è modo di esaminare le relazioni
umane prima, all’inizio, durante e dopo la rivoluzione.
Questo è ciò che cerchiamo di fare: basarci su poche esperienze-guida molto
importanti. L’altro fatto è che nelle istituzioni dello Stato borghese burocratico troviamo
sempre ripetizioni della forma familiare, così che l’ospedale psichiatrico si presenta come
una grande famiglia, in senso terribile e non definito. Siccome siamo arrivati a capire, in
questo scorcio di secolo, che la famiglia è l’origine, la genesi focale della pazzia, in
particolare della pazzia chiamata schizofrenia, se noi riproponiamo la forma familiare
nelle istituzioni, questo è il modo più semplice per perpetuare la pazzia, in continuazione
e per sempre.

DOMANDA Come pensate di comunicare la vostra esperienza al di fuori del vostro gruppo
di lavoro?
DAVID COOPER In termini di allargamento a macchia d’olio, con l’estensione del network
ad altri network. Abbiamo già contatti con molte migliaia di persone attraverso gli
approcci dei vari network. Ma penso che la cosa principale sia la pubblicazione di libri che
riflettano la nostra esperienza in un modo o nell’altro e, inoltre, l’uso dei mass media,
radio, televisione ecc.
DOMANDA Quale parte pensa abbiano i devianti in un reale processo di trasformazione?
DAVID COOPER Ritengo che la cosiddetta devianza, nel senso di psicopatia e pazzia, sia di
fatto un tentativo di raggiungere uno stato di salute mentale. La maggiore parte della
gente finisce negli ospedali mentali perché sta cominciando a star meglio, non perché
comincia ad ammalarsi. In questo senso credo che dobbiamo riconoscere ogni segno
incipiente di salute e non rendere invalida la gente per questo. Come la più recente
sociologia medica ha dimostrato, la devianza è di fatto creata dal sistema che etichetta e
categorizza. Io penso sia tempo di smetterla con le etichette.

DOMANDA Nel mondo anglosassone, pensa che fra i devianti, l’azione - per esempio -
degli hippies sia in grado di formulare o di proporsi come un nuovo valore da
contrapporre alla vecchia società?
DAVID COOPER Penso che la maggior difficoltà del movimento hippy sia la tendenza a
ripetere il modello familiare. Se guardiamo agli hippies, in questo momento in Europa,
essi tendono a dipendere in modo diretto, mistificato dai genitori; intendo dire con aiuti
economici che sostengono ciò che fanno, nonostante la loro apparenza di povertà. Inoltre
penso che la forma della tribù hippy sia una ripetizione della forma familiare: sono
presenti nelle comunità hippies le stesse forme di gelosia, le stesse barriere dell’incesto.
Io penso che dobbiamo essere orientati macrosocialmente oltre che microsocialmente.
Dobbiamo avere un centro di coscienza rivoluzionaria e una linea rossa, nel senso di un
attivismo politico. almeno per quanto mi riguarda.

Il network si analizza e si critica, cercando di individuare i limiti del proprio intervento.


Le parole di Roy Battersby39, altro componente del network, ne sono una conferma: il
discorso si allarga a un problema in cui si esige una maggior partecipazione al tentativo
di un rovesciamento politico, che non si limiti alla sola lotta extraistituzionale,
intravvedendo come ormai il dentro e il fuori si stiano identificando.

ROY BATTERSBYPenso che il network sia una manifestazione molto importante della crisi
economica e sociale che travaglia l’Inghilterra oggi. Ma penso che questa crisi si manifesti
in sezioni della società che vi reagiscono in modo che non è né economico né politico. In
altre parole, la crisi si mostra prima di tutto nella classe media e, per quanto ne so, il
network ha e ha avuto a che fare per lo più con gente della classe media che attraversa
certi tipi di difficoltà e di disturbi. Si tratta di persone che, da un lato possono «fare il
salto», diventare hippies o, se si trovano invece in una profonda crisi del self, possono
prendere questa strada, se riescono a trovarla. Credo che il network sia composto per lo
più da gente con un certo sviluppo intellettuale che, sin dall’inizio, è stata molto sensibile
alla crisi in via di sviluppo. Persone che hanno potuto vedere nelle loro discipline, come
per esempio la psichiatria, tutte le contraddizioni del sistema, scritte - se vuole -
nell’ospedale psichiatrico o nella stanza di consultazione. Nel loro tentativo di trovare
qualche soluzione alternativa, diversa da quella loro imposta dal sistema, è emerso il
network che è quindi espressione della crisi.
Ritengo che la teoria del network sia limitata, anche se le sue maggiori analisi teoriche
vanno lontano e la gente del network capisce molte delle maggiori contraddizioni del
capitalismo. Ma quello che non capiscono e che non vogliono capire, o verso il quale
prendono una posizione ostile, di tipo marcusiano, è che. la sola forza in grado di
rovesciare il sistema è ancora la classe operaia. L’unico modo per risolvere le sue
contraddizioni, ovunque si trovino (negli ospedali, nelle scuole, nelle fabbriche) è che
queste contraddizioni siano risolte in un nuovo periodo di sviluppo, attraverso una
rivoluzione sociale totale.
Per come capisco io, loro prendono una posizione simile a quella di Marcuse, secondo
la quale la classe operaia è stata comprata da venticinque anni di cosiddetta stabilità
capitalistica: si interessa solo della macchina, del frigo, del tappeto ecc. e credono che la
classe operaia non sia più una forza rivoluzionaria perché essenzialmente non è più
sfruttata. Penso che questo sia il nodo centrale su cui convergono tutte le insufficienze
del network e che per questo siano costretti ad assumere posizioni riformistiche, volenti o
nolenti.
Resta vero che la psichiatria capitalistica è un altro modo per tenere la gente nel suo
ruolo. Marx ha detto che creiamo cose sempre più utili e gente sempre più inutile. E
penso che in un sistema capitalistico la psichiatria svolga la funzione di recuperare la
gente al lavoro il più velocemente e a minor prezzo, per quanto riguarda gli uomini, e il
più efficacemente possibile, per quanto riguarda le loro prestazioni. Bene, ora disponiamo
di una psichiatria che è sempre più in linea con la possibilità di scegliere le persone che
mostrano segni di rivolta, rivolta di solito formulata e capita molto male. È, in un certo
senso, una reazione di orrore, un alzare le mani e dire: «No, non posso». Chiunque faccia
questo, un adolescente, un operaio di fronte a una macchina, una donna di casa che vive
facendo le pulizie e che cerca di allevare i suoi figli. chiunque dica: «No, non posso» entra
immediatamente nella sfera d’azione della psichiatria e verrà trattato in modo punitivo.
Ciò è dovuto certamente all’organizzazione psichiatrica, almeno per come è praticata per
lo più in Inghilterra. Se tu sei un paziente del National Health Service e non puoi
sostenere un trattamento privato e manifesti una crisi del self, ti verranno quasi
certamente date delle medicine, quasi sicuramente - se la crisi è un po’ grave - sarai
sottoposto all’elettroshock. Puoi essere fortunato se riesci ad avere un po’ di cura di
parole, quando lo psichiatra ti spiega qual è il tuo problema. Ma questo non cambia
niente, ed è molto importante notare che il mezzo per valutare i risultati di un
trattamento fisico in Inghilterra, il criterio con il quale viene giudicato il successo della
terapia, è la velocità con la quale si rimanda la gente al lavoro e in famiglia. Si tratta cioè
di una specie di riverniciatura: la vernice è consumata, noi la rimettiamo a posto e
ributtiamo la persona nella società per essere nuovamente usata.

La critica di Roy Battersby al network, in quanto presenza critica nel contesto sociale
inglese, esprime una delle contraddizioni di questo nuovo tipo di istituzione che rifiuta di
istituzionalizzarsi. La certezza del linguaggio di Briskin e Redler e la fiducia in questa
nuova forma di rapporto, trovano in David Cooper e Roy Battersby la consapevolezza dei
limiti di questo tipo di intervento, che non può prescindere dall’accorciarsi della
«distanza» fra il terreno istituzionale e la società globale.
In questo punto si inserisce l’analisi di Ronald Laing, dove l’impotenza individuale si fa
sempre più cosciente e dolorosa, di fronte a ciò che si va concretando come la nuova
ideologia della totalità:

RONALD LAING Il network è costituito da un gruppo di persone a Londra (trenta o


quaranta circa) ed è difficile sapere quali siano i suoi confini. Queste persone sono
passate attraverso l’esperienza di vivere insieme per un certo tempo, in questi ultimi
cinque anni. Alcuni sono psichiatri, altri assistenti sociali; alcuni sono cosiddetti
schizofrenici e altri usano questa esperienza per sviluppare o approfondire la loro vita,
come facciamo tutti, ma senza alcun ruolo professionale specifico. Siamo interessati a
lavorare insieme in modi diversi: a volta con le famiglie e con altre strutture sociali.
Tendiamo a creare tra di noi un contesto particolare, tale che chi, per usare
un’espressione inglese, «parte» (nel senso che ha una crisi psicotica, diventa psicotico e
fa un viaggio o comunque entra in uno stato mentale tale da dover essere ricoverato in
ospedale psichiatrico) può trovare un posto dove poter semplicemente essere quello che
è e avere intorno altre persone che gli permettano di fare questo suo «viaggio», senza
che si pretenda di imporgli un trattamento particolare.
Io ho completamente perso il mio posto nel network. Sono stato una delle sette
persone che cinque anni fa hanno fondato un’associazione e hanno dato l’avvio a una
comunità, tuttora funzionante, che è parte di questo network: Kingsley Hall, e penso che
il mio nome sia emerso più di quello degli altri nel network, a causa dei libri che ho
scritto. Ma nel network nessuno ha un ruolo o una posizione definita. è quasi impossibile
per me misurare a che punto sono in rapporto con gli altri. Almeno, per quanto posso
vedere, la mia posizione varia da mese a mese.
Negli ultimi anni abbiamo evitato di cristallizzarci in un’istituzione, organizzazione
formale o clinica, per cui siamo sparsi in giro in posti diversi e in tempi diversi: abbiamo
fatto seminari, conferenze; c’è stato anche un congresso nel ‘6740 dove eravamo circa
duemila persone per dieci sere. Ci incontriamo come le occasioni richiedono e, per quanto
riguarda queste comunità (delle quali Kingsley Hall è forse la principale con quindici
persone che vi abitano in continuazione), devo dire che io stesso vi ho abitato per un
anno. Ora non ci vivo più, anche se ci vado abbastanza di frequente, e da quel posto sono
sorte diverse iniziative come danze indiane, yoga, mostre d’arte ecc. Dato che noi stessi
non siamo un’istituzione sociale, è particolarmente difficile definire le relazioni fra il
network e le istituzioni sociali. Le istituzioni sociali con le quali entriamo in contatto sono
la polizia, elementi diversi dell’autorità locale, funzionari dell’ambiente medico e della
Salute mentale, ospedali psichiatrici, ministero della salute e anche mutue, perché molte
delle persone che abitano nelle nostre comunità non hanno alcun mezzo di
sostentamento e, quindi, facciamo in modo che possano avere i benefici dell’assistenza
sociale. Siamo in contatto con queste istituzioni sociali a seconda delle diverse situazioni
e devo dire che, nell’insieme, le istituzioni con le quali siamo venuti in contatto sono
disposte piuttosto benevolmente verso ciò che loro ritengono stiamo facendo; penso che
le persone nelle istituzioni siano state piuttosto perplesse e confuse, non sapendo cosa
fare di noi. Ma non hanno cercato in alcun modo di distruggerci.
All’interno del network noi cerchiamo di non cadere nei ruoli o, almeno, di evitare
alcuni ruoli che la società impone. Per esempio quello di leader e subalterno, psichiatra e
paziente. All’interno del network, benché alcuni sarebbero praticamente pazienti e alcuni
psichiatri, non c’è scambio di denaro, cioè nessuno paga un altro, nessuno è pagato per
stare a Kingsley Hall. Non c’è personale e nessuno paga per essere là. Questo non
significa che non ci sia una curiosa importazione di queste aspettative riguardanti i ruoli,
e che essi non tendano a riformarsi. Per esempio, uno psichiatra venuto dall’America, nel
suo primo mese di permanenza a Kingsley Hall, ci ha raccontato, in una riunione, che una
donna, tra le persone che vivevano nella comunità, aveva sviluppato il delirio, come
diceva lui, che egli fosse il suo terapeuta, per il semplice fatto di averla vista
regolarmente mentre lei era in uno stato di notevole confusione. La donna, del tutto
naturalmente, aveva cominciato a definire il ruolo di lui come quello del terapeuta; cosa
che non era, in fondo, tanto imprecisa, benché non pagasse o altro. Quindi, nel rifiutare il
ruolo di terapeuta egli stava, di fatto, etichettando la donna come affetta dal delirio di
vederlo come di fatto era (cioè terapeuta). Non è così facile abbandonare tutto
all’improvviso. Inoltre, in questa nazione, ci sono leggi che regolano il rapporto tra
personale e paziente, ad esempio per quanto riguarda le relazioni sessuali. Un membro
del personale di qualsiasi istituzione clinica (anche se il suo ruolo è solo quello di trovare
una sistemazione ai pazienti, anche se non partecipa minimamente al trattamento, anche
se non viene pagato), in rapporto ai pazienti mentali è perseguibile in termini di legge e
può essere messo in prigione se è scoperto ad avere relazioni sessuali con qualcuno
definito come paziente. La dissoluzione della distinzione fra pazienti e personale porta
quindi all’apertura di problemi di questo tipo, difficili da mediare con il mondo esterno e,
a mio avviso, fondamentali.

DOMANDA Quale posto pensa occupi la psichiatria nel contesto politico generale?
RONALD LAING Dipende da cosa si intende per politica e da cosa si intende per psichiatria.
Per politica io intendo il sistema di controllo e la lotta per il potere: la lotta per il controllo
e il potere non solo sui mezzi di produzione, ma sulle persone, che sono elementi
essenziali in modo considerevole anche se non esclusivo. Penso che la psichiatria sia una
branca della politica, in quanto è una tecnica che la nostra società ha sviluppato negli
ultimi cento anni. La moderna psichiatria è, infatti, un’invenzione dei tedeschi, come
mezzo per esercitare un controllo sulla gente; sulla gente che vede cose che non
dovrebbe vedere, pensa cose che non si vuole che pensi o esprime idee che non si vuole
che abbia. Nel manuale di stregoneria, per esempio, sulla persecuzione delle streghe da
parte dei domenicani («The malius malifi- caruam») le eresie sono definite come «idee
sbagliate, contrarie all’ordine del mondo, che i perseguitati rifiutavano di cambiare e di
ammettere come erronee». Questa non è una citazione esatta, comunque non mi sembra
troppo imprecisa. Leggiamo su un testo psichiatrico come è definito un delirio: idee
sbagliate che la persona rifiuta di cambiare e, naturalmente, si fa riferimento alla
ragione. Anche l’eresia deve essere irrazionale, perché se l’eretico si affidasse alla
ragione è chiaro che la ragione non può portare nessuno fuori strada!. La psichiatria è
quindi un modo di limitare, contenere e possibilmente eliminare le eresie secolari,
espresse nelle azioni di una persona e gli psichiatri spesso sono preparati ad andare
molto al di là delle azioni personali e scovare anche ciò che uno tiene per sé. Penso ci sia
un altro tipo possibile di psichiatria, a vantaggio dell’individuo, a vantaggio della società.
di una società immaginabile come un’associazione di uomini liberi che vivono assieme,
senza sfruttarsi l’un l’altro. Ma poiché la psichiatria è ora diventata una disciplina molto
potente all’interno del nostro capitalismo avanzato, tecnologico e industriale dell’Europa
occidentale e dell’America, essa ha un posto preciso nell’organizzazione del controllo
necessario a mantenere in vita questo sistema. Per cui, in un certo modo, gli psichiatri
sono una forza politica di élite. Di solito non portano l’uniforme; hanno quasi sempre
rinunciato anche al camice e sono tecnologi sempre più spaventosamente efficaci nel
controllare il comportamento che è fuori dal controllo, fuori dal controllo di altre persone
e dell’individuo stesso. Questo comportamento può non essere necessariamente dannoso
se uno lo guarda da vicino né per sé né per gli altri in senso immediato, ma risulta
minaccioso per il mantenimento del sistema. Un comportamento che sia sentito come
minaccia per l’attuale natura del sistema, deve essere «trattato» in un modo o in un
altro: quindi si dice o che la persona è responsabile del proprio comportamento e deve
essere punita (e si parla di criminali e di delinquenti); o gli diamo un certo spazio e
diciamo che questa persona non è responsabile del proprio comportamento, nel qual caso
deve essere curata. Ma se curi qualcuno, ciò significa che sei delegato dalla società a
esercitare su un essere umano un potere persino più grande di quello che eserciti se lo
punisci. Poiché ci sono limiti a ciò che si può fare a un carcerato in prigione, ma non ci
sono limiti al trattamento cui si può sottoporre un malato in ospedale.

DOMANDA Il problema della psichiatria viene quindi a essere esplicitamente il problema


del controllo delle devianze, come espressione della necessità di mantenere i limiti della
norma all’interno di una situazione data come immutabile.
RONALD LAING Appunto. Prendiamo per esempio gli hippies. Per quanto riguarda
l’esperienza di questi ultimi anni, mi sembra che la parola hippy abbia perso il suo
significato originario. Infatti, attualmente gli hippies sono molto più interessati nel fare
comuni in città, occupando luoghi abbandonati come case vuote o in demolizione,
collegandosi quindi a uno spazio definito, piuttosto che crescere semplicemente e
narcisisticamente all’interno di loro stessi. Cominciano quindi a esercitare un’interazione
tra sé e gli altri. Parlando a livello locale e soffermandoci in particolare sull’esperimento
del neotribalismo, per dirlo male, essi cercano di badare a se stessi, se uno è malato,
disponendo di risorse all’interno del proprio gruppo, senza doversi rivolgere a un
complesso ospedaliero impersonale, per quanto ben attrezzato. Si occupano quindi della
nascita, della malattia, della morte, dell’educazione e tutto. Siccome non vedo la
possibilità che tutto questo abbia di esercitare un effetto eversivo sulle strutture del
potere statale, non penso che il Pentagono se ne preoccupi.
Ho parlato con un colonnello dell’esercito americano che si occupa del problema dei
«pazzi», come li chiama lui, del problema dei devianti, in generale, della gente con i
capelli lunghi che cerca di evitare il servizio militare e dei protestatari in genere. Il
colonnello mi diceva che all’esercito americano non interessa recuperare questa gente,
perché possono farne benissimo a meno. Non hanno bisogno di loro e non li vogliono. Un
esercito moderno, a mio parere, viene sempre più usato per controllare la popolazione
civile del proprio Paese. Gli eserciti che esistono ovunque nel mondo, sono lì
principalmente per mantenere la schiavitù della popolazione delle loro singole nazioni:
infatti vengono esperimentati gas che agiscono sui centri nervosi in Vietnam, per vedere
come potranno poi essere usati nel migliore dei modi l’anno seguente a Berkeley, Chicago
e Washington. Penso che la Francia, la Germania, gli Stati dell’Europa occidentale e gli
Stati Uniti stanno sempre più diventando campi militari nelle cui fortificazioni l’élite del
potere industriale e militare si ritirerà, permettendo alla gente, fuori, di intrattenersi
come vuole, con grande libertà. Se avrà bisogno, di tanto in tanto, di manodopera
straordinaria per qualche emergenza, l’élite potrà sempre uscire e prendersela con razzie
all’esterno e sarà permesso tutto questo grande andare in giro per i campi e tra i fiori, a
ballare e a fare l’amore. perché questo non fa nessuna differenza.
Questo non significa svalutare il movimento dei de- vianti di oggi, ma non riesco a
pensare ad alcuna strategia efficace per distruggere il sistema dall’interno. ad alcuna
azione. Esso potrebbe crollare per l’enormità delle contraddizioni delle forze economiche,
ma al di fuori di qualsiasi controllo o manipolazione che possa provocare il caos
all’interno; o può darsi che il gruppo dirigente si divida, lottando, come sembra sia
sempre successo nella storia. Ma nel frattempo, ciò che il movimento hippy può
significare per una sentinella o per esempio per un ragazzo di diciotto anni dell’Illinois, è
importante. Cosa devono fare questi giovani? Devono subire la violenza della catena di
montaggio universitaria in un modo che risulta senza volto e senza spirito e che distrugge
l’anima? Cercheranno di giocare il sistema, tentando di estrarre un po’ di gioia dalla vita,
finché si può. Questo movimento mostra che, nonostante tutto, la cosa è possibile. Ossia
se gli hippies mostrano che questo è possibile, allora i meno avventurosi e coraggiosi, o i
meno disperati, possono cominciare a sentire che anche loro potrebbero permettersi di
godere la vita un po’ di più di quanto non stiano facendo adesso. Gli hippies dicono: «Ma
basta. ma va’. tutto questo non è indispensabile. il mondo è lì, cerchiamo di scoprirlo. di
capire.»
Perciò non penso ci sia una correlazione, in senso immediato fra il comportamento dei
devianti e una diretta azione eversiva. La correlazione è indiretta. Per esempio non penso
ci sia un rapporto immediato tra l’ospedalizzazione di Artaud per sette o otto anni e
l’azione eversiva proposta - verso gli anni Venti-Trenta - dai rivoluzionari trotzkisti,
dadaisti e surrealisti, movimenti dai quali proveniva. Credo che la cosa possa essere
posta così: un visionario che non è capace di portare la cravatta e il vestito a posto,
radersi, camminare e rivolgersi alla gente normale in modo normalmente accettabile,
viene recluso. Ma ogni società ha bisogno di sognatori e di visionari. Per devianti io
intendo un tipo di persone che sono in un’impasse tale che si ficcano su una sedia senza
potersi muovere e non possono più parlare, non hanno altre risorse e alternative e questa
è la loro fine. Ma chiunque agisca in modo rivoluzionario è un deviante, perché non si
conforma alla norma. Tuttavia, se le reazioni emotive individuali abbiano o meno una
presa sul sistema per cambiarlo, è un’altra cosa. Penso che una gran quantità di devianti
non incida a questo livello, non produca alcuna presa sul sistema, capace di provocare un
movimento nel sistema stesso.
D’altra parte non penso ci sia alcuna possibilità, in questo senso, neppure da parte
della classe lavoratrice. La classe operaia negli Stati Uniti, almeno per quel che ho capito
io, è più a destra forse di ogni altra classe, o comunque ci sono più elementi di destra che
non nei sindacati inglesi. I rappresentanti organizzativi della classe lavoratrice non hanno
alcuna fiducia in un cambiamento rivoluzionario, qualunque esso sia. La situazione, per
quel che ne so, è ancora diversa in Italia e in Francia, per cui diventa molto ambiguo
stabilire quali siano le mete rivoluzionarie, perché si può sempre dire che quando si
presenta un’opportunità di cambiamento, noi non la sfruttiamo per semplice
opportunismo. La classe operaia industriale, man mano che diventa meno povera e più
opulenta - come posso dedurre dagli scarsi dati sociologici in mio possesso - è piuttosto
intollerante nei confronti di qualsiasi forma di devianza, perché si tratta di persone che
tendono verso la classe media, vogliono mantenere la loro posizione e si sentono
minacciati per paura di perdere ciò che hanno già ottenuto. È molto più facile, per
esempio, per una ricca famiglia americana tollerare che uno o più dei loro figli diventino
hippies ed «escano fuori», perché - dopo tutto - essi non devono dire: «Ci siamo
sacrificati per voi, ti abbiamo mandato a scuola ecc. ecc. e tu ci tratti così. Noi che ti
avevamo dato un buon avvio nella vita e ora tu, che dovresti diventare un medico, un
avvocato, invece finisci per non fare niente».
Quando uno ha tutti i soldi che vuole perché gli antenati li avevano già fatti, i figli
allora possono indulgere con se stessi: è un privilegio dei ricchi essere eccentrici e de-
vianti, perché loro possono permetterselo. In Marocco, per esempio, dove sono stato di
recente, ci sono moltissimi hippies americani. Alcuni non hanno soldi, ma hanno un
passaporto americano e una famiglia da qualche parte e sanno che se la polizia
marocchina semplicemente li tocca, non hanno che da alzare il telefono e il padre e
qualcun altro andrà dall’ambasciatore americano, dal ministro degli Interni, dal capo della
polizia. Per questo possono andare in giro con quella arrogante noncuranza che un
marocchino non può permettersi: un marocchino non può andare in giro così, senza paura
e senza soldi. Di fatto però questi hippies non hanno denaro con sé e sono preparati a
prendere le cose come vengono. Ma hanno sempre il loro passaporto americano e un
appoggio in caso di necessità, e anche se non usano questi appoggi hanno sempre la
possibilità di farlo. Il corpo diplomatico americano non permette a una nazione straniera
di trattare un cittadino americano nel modo in cui il singolo cittadino americano chiede di
essere trattato. Questa nazione non può permetterlo: un americano fa comunque parte di
una nazione dominante.
Non solo le classi alte e medie, ma in particolare gli aristocratici europei, che da secoli
hanno un comportamento, a modo loro, folle, hanno sempre potuto tollerare un altissimo
grado di eccentricità, perché hanno raggiunto una posizione tale da non doversi
preoccupare per quanto riguarda il potere, i soldi ecc. Per questo possono tollerare uno
standard altamente variabile di condotta tra di loro, condotta che a nessun costo
permettono ai loro servi, ai loro schiavi e agli operai. È la vita dei lavoratori che si cerca
di regolarizzare al massimo. La loro vita è irreggimentata e deve esserlo se le fabbriche
devono funzionare. Ma se aveste rendite private e cugini ovunque e se sono distribuite
tra tutti i cugini, zii, zie ecc., il tutto anche per evitare le tasse, con una distribuzione del
capitale in azioni e investimenti diversi, allora non dovete preoccuparvi di tagliarvi i
capelli, né di portare scarpe o meno.
...Io comunque sono pessimista su qualsiasi tipo di strategia concepibile per
impossessarsi del potere. Gli hippies dicono: «Vogliamo il mondo e lo vogliamo tutto
adesso e lo avremo e non ci interessa niente della sua gara. Loro possono continuare a
giocare a livello mondiale, noi semplicemente saltiamo fuori».
...Nella mia vita stessa sono uscito dal sistema e dalle istituzioni e sono entrato nel
contesto della società che permette una maggiore disponibilità su come posso spendere il
mio tempo e con chi. Quando ho incominciato a praticare la psichiatria, per me la
psichiatria era del tutto innocentemente un ramo della medicina ed ero particolarmente
interessato alla neurologia e alle relazioni tra mente, ossia funzioni mentali, e sistema
nervoso. In seguito mi sono lasciato coinvolgere dalla psichiatria. Ora, l’unico posto dove
si possano incontrare pazienti, almeno come psichiatra, è il reparto di un ospedale
psichiatrico o di una clinica e si presume che le persone più gravemente malate siano
quelle ricoverate in ospedale. Ma in un ospedale psichiatrico un medico non incontra
pazienti, fa il giro dei reparti, va in giro molto spesso in gruppo con i neolaureati che
fanno pratica con il camice bianco, lo stetoscopio, il martelletto per i riflessi, l’uniforme di
medico e consulta le infermiere, le suore ecc., chiedendo: «Come sta questo paziente
oggi?» o: «Come stai?» e così via. Quindi può parlare con il paziente e chiedergli: «Di che
cosa ti lamenti? Che cosa ti senti?» Poi si possono fare vari test mentali per stabilire
come la sua mente funzioni in termini di memoria, orientamento nel tempo e nello
spazio, dove si trova e così via. Questo è il modo in cui la maggioranza degli psichiatri
passa il suo tempo per quanto concerne la pratica psichiatrica. Io volevo riuscire a
conoscere qualche cosa di più su queste persone che sono ricoverate come pazienti, e
quello che sono riuscito a fare a Glasgow è stato passare praticamente tutto il mio tempo
nei reparti più regrediti, con le pazienti per le quali si davano meno speranze, in
ospedale. Ho preso dodici donne che rispondevano al maggior grado di gravità e le ho
messe in una stanza: in poco più di un anno tutte queste pazienti, che erano ricoverate in
ospedale da un minimo di sei anni fino a oltre diciotto, furono tutte dimesse. Questo
semplicemente perché avevano avuto una stanza tutta per loro e due infermiere.
Tuttavia nel giro di un anno - a quel tempo io me n’ero già andato - tutte e dodici
rientrarono in ospedale. Questo fatto mi suggerì che io dovevo spostare il centro della
mia attenzione dal paziente, alla malattia, prima di tutto. Parlando con queste persone
ero, infatti, divenuto molto dubbioso sull’esistenza della malattia, così come viene
comunemente intesa in senso medico e cominciai a interessarmi del paziente come
persona in sé, come qualcuno che si trova in una trappola e subisce una costrizione
interna ed esterna: io cercavo allora di tirarlo fuori da questa trappola. Poi sono passato
all’ospedale, alla relazione fra paziente e personale, al reparto come organizzazione e poi
alla struttura dell’ospedale e così via. Ero arrivato a questo punto, quando mi sono reso
conto che tutte le nostre osservazioni si fanno in ospedale e non in circostanze naturali e
volevo trovare cosa succedeva di fatto nella società che induceva alcuni a entrare in
ospedale. E ho trovato che non c’era la minima informazione psichiatrica al proposito:
anzi sembrava che gli psichiatri non volessero neanche saperne. Questo mi ha portato a
studiare con Esterson, Cooper e altri, la famiglia e le circostanze a essa correlate41.
Ciò che volevamo rendere chiaro era che i segni e i sintomi, normalmente guardati
come patognominici (che provocano la malattia) del processo schizofrenico (dovuti cioè
interamente a processi patologici che si impossessano della persona per ragioni
sconosciute, possibilmente genetiche e costituzionali e forse per ragioni legate alla sua
storia passata, comunque un processo che comincia e si sviluppa interferendo con le sue
capacità di vedere chiaramente, di pensare chiaramente, ricordare chiaramente ecc.)
porta alla manifestazione di una sindrome chiamata «schizofrenia». Questi segni e
sintomi, il comportamento guardato come l’espressione di questi segni e sintomi, se
guardati in tal senso risultano socialmente incomprensibili, ma possono essere correlati a
ciò che avviene nella società. È un luogo comune nella psichiatria clinica ritenere che il
contenuto di una mania prenda una forma fornita dal contesto culturale; ma a noi non
interessa il contenuto di ciò che è chiamato mania, a noi interessa la sua forma reale, la
sua struttura reale e se guardiamo a questo nelle circostanze naturali, se guardiamo una
persona nel gruppo sociale in cui vive in società, allora il suo comportamento che era
stato preso come processo e non come prassi, come segno di malattia e non come una
forma comprensibile e una strategia di interazione con gli altri, il suo comportamento -
dicevo - in questo senso assume un più alto grado di comprensibilità. Però non c’è
nessuna utilità nell’affermare questo punto se chi ascolta non è disposta a crederlo. È una
cosa molto semplice da dire, ma è stata intenzionalmente attaccata e incompresa e
disprezzata da molti psichiatri che dicono: «Dovete avere statistiche di controllo, avete
bisogno di più casi ecc.» Abbiamo riportato in un libro undici casi presi da più di cento,
con i quali volevamo dimostrare come il comportamento che, avvicinato come un insieme
di sintomi di un processo patologico non significava nulla, risultava molto più
comprensibile socialmente come prassi, di quanto molti psichiatri siano arrivati a
comprendere considerandolo un processo patologico. Questo significa che si comincia ora
a dissolvere l’intera categoria della malattia e non si parla neanche più dell’eziologia e
della causa, ma ci si chiede quali siano le circostanze sociali che fanno sì che questo
comportamento che sembra incomprensibile preso al di fuori del suo contesto, diventi
intelligibile quando è posto nel suo contesto. Questo significa anche che, invece di
cercare l’eziologia della schizofrenia, noi diciamo che la schizofrenia è un’attribuzione
inventata prima di tutto da uno psichiatra svizzero nel 1911 e che, come reale entità non
esiste, come molte altre cose nella storia della medicina. Essa è un’attribuzione da parte
degli psichiatri per spiegare un comportamento che secondo loro non ha senso e che loro
considerano come deviante, male adattato socialmente o disfunzionale ecc. Quindi si
tratta semplicemente di una denigrazione di questo comportamento e di questa persona,
si tratta di una serie di attribuzioni di disprezzo che invalidano una persona, o meglio
rendono questa persona invalida togliendo significato all’esperienza e al comportamento
che essa esprime. In altre parole, dobbiamo cercare le origini della schizofrenia non
esclusivamente nel comportamento di alcune persone che. hanno avuto la sfortuna di
essere definite come pazienti, ma all’origine stessa della psichiatria occidentale.
Dobbiamo risalire alla funzione svolta dalla psichiatria nella società occidentale e al fatto
che la società occidentale ha generato degli esperti che sono riusciti a trovare un modo
per invalidare certe persone e certe esperienze, che non hanno posto nel giardino ben
ordinato del paesaggio della società42.
...Infatti, una volta che uno sia diventato psichiatra, che sia passato attraverso la
preparazione medica (e per diventare psichiatra devi passare un tempo di qualificazione
professionale dopo la laurea e l’effetto di questo è che quando finalmente hai sviluppato
un atteggiamento mentale che ti rende possibile superare gli esami senza vomitare sulle
carte su cui stai studiando, per gli esami stessi, e che sono anche il modo di venir fuori da
tutto questo), sei in pericolo di essere preso nel meccanismo che ti rende del tutto
incompetente sul modo di metterti in contatto vero con gli altri, con i pazienti. è un
training di inettitudine sociale e di imbecillità. che definisce tutto il sistema.

L’antipsichiatria si scontra con lo stesso fenomeno contro cui si era scontrato il


movimento psichiatrico comunitario e quella che si è definita come lotta antistituzionale:
la violenza delle istituzioni; la mancanza di libertà dell’individuo nel vivere la propria
singola esperienza; la setto- rizzazione dell’uomo che dalla psichiatria tradizionale veniva
ridotto a portatore di sintomi e dalla psichiatria comunitaria a soggetto di un
comportamento comune; la ricerca dell’integrità perduta dell’individuo, per ricostruire una
psichiatria che sia fatta per lui e per la sua esperienza.
Il linguaggio è quasi identico: si rivendica la liberazione dell’uomo dal dominio
dell’uomo e le parole sono sempre le stesse.
La dinamica dell’assistenza psichiatrica nazionalizzata inglese, nata a difesa e tutela
del malato contro le istituzioni destinate alla sua cura, è venuta organizzandosi,
attraverso le nuove istituzioni, come una nuova forma di controllo e di dominio. La
«filosofia» della comunità terapeutica coincide ora con la «filosofia» della comunità, e le
motivazioni personali dell’uno continuano a mantenersi antagoniste alle motivazioni
personali dell’altro, sotto l’apparenza di un comportamento generico che si presenta come
comune.
La medicina nazionalizzata rivela in questo modo i limiti di un intervento politico
(l’impostazione per legge di una «forma» di organizzazione «socialista», attuata da un
Paese capitalista) usato settorialmente come semplice intervento tecnico. Se all’inizio,
con la promulgazione del National Act del ‘59, le strutture sanitarie anglosassoni erano
riuscite ad assolvere la loro funzione, compromettendo la comunità esterna nella gestione
della malattia, non hanno sostenuto la fase successiva di espansione della società
industriale e si sono gradualmente convertite in un servizio di controllo; hanno perduto il
carattere dinamico in cui era implicita la loro terapeuticità, acquistando una nuova
funzione burocratico-organizzativa, utile al sistema sociale come comunità di uomini cui
doveva invece servire.
È un continuo fenomeno di capovolgimento in cui le accuse reciproche si intrecciano e
si accavallano. È la caccia agli errori di chi ci precede, senza includere noi stessi in questa
critica, consentendoci di salvarci, come se non fossimo presi in questo stesso gioco. Che
cosa, se non il bisogno di difesa personale, spinge Sidney Briskin a reagire («domande
come queste mi fanno orrore») nel sentire paragonato il suo lavoro a un altro? L’accento
cade sull’esperienza e non sul comportamento. Ma in che modo il network riuscirà a
salvaguardare una sola esperienza che voglia sottrarsi alla totalizzazione dei
comportamenti progettata dal capitale? In che cosa è diverso il dominio del terapeuta che
si dichiara non-terapeuta, nel rapporto con il paziente-non-pa- ziente, nel suo essere colui
per mezzo del quale il malato può vivere la propria esperienza?
Siamo ancora a una fase di capovolgimento del più e del meno. Il capitale tende già a
unificarli. Il rovescio della devianza è qui la malattia come valore; la crisi psicotica come
salute; l’integrazione della pazzia nella società, dopo la sua secolare segregazione; la
convivenza con la follia dopo la sua totale esclusione. La conferma dell’esasperazione dei
contrari.
LA MALATTIA E IL SUO DOPPIO

Mai come oggi - diceva Artaud introducendo Il teatro e il suo doppio - si è parlato
tanto di civiltà e di cultura, quando è la vita stessa che ci sfugge. E c’è uno strano
parallelismo fra questo franare generalizzato della vita, che è alla base della
demoralizzazione attuale, e i problemi di una cultura che non ha mai coinciso con la
vita, e che è fatta per dettare legge alla vita. Prima di riparlare di cultura, voglio
rilevare che il mondo ha fame e che non si preoccupa della cultura; solo artificialmente
si tende a stornare verso la cultura dei pensieri che si rivolgono verso la fame43.

Lo strano parallelismo tende a esprimersi e a perpetuarsi ovunque e se si analizza il


processo attraverso il quale il capitale riesce a trasformare la contraddizione - che non
può non produrre all’interno della sua dinamica - nell’oggetto della sua autoriparazione
(quindi in una sua ulteriore conferma) si può cominciare a comprendere come si svolga
praticamente la trasformazione del reale in una realtà-ideologia che tende a produrre una
doppia realtà, attraverso la creazione delle qualità in essa più adeguate a questa
perpetua trasformazione.
È questo doppio che deve essere possibile comprendere, e la ricerca nel terreno
pratico di uno dei momenti di questo processo sempre in atto; l’individuazione del
passaggio dall’esperienza umana a un comportamento comune sempre più disumano,
potrebbe darci il segno di ciò che sarebbe l’uomo in una realtà dove il doppio conservasse
il carattere della contraddizione, vivibile attraverso una dialettica umana.
Ma la difficoltà di questa comprensione sta nel fatto che è attraverso l’esperienza che
vengono stimolati e prodotti conflitti per i quali sono pronte tecniche sempre più
avanzate, che si traducono in nuove forme di manipolazione sociale: cioè parametri
pratico-ideologici in cui distruggere l’esperienza per portarla al livello di un
comportamento comune che, sotto l’apparenza della collettivizzazione del benessere, ne
è solo il doppio, cioè, l’ideologia-realtà come la forma più adeguata alla conservazione e
allo sviluppo del sistema in cui è inserita. Si vive la realtà prodotta come realtà reale, e la
scienza non fa che fornire giustificazioni e verifiche pratiche alla irrealtà del prodotto.
Il ruolo delle «scienze umane» a questo proposito è esplicito. Si arriva a fondare una
«scienza della guerra» (la polemologia) per tentare un’analisi a livello psicodinamico dei
conflitti inconsci che la produrrebbero, con relativa terapia; o la «scienza della morte» (la
thanatologia)44 in cui si tende a ridurre la morte al problema della sua semplice
organizzazione. Si tratta, è chiaro, della manipolazione ideologica di contraddizioni reali -
i conflitti e la morte - attraverso la definizione, creazione e delimitazione del doppio della
loro natura. La malattia, la devianza, la fame, la morte devono diventare altro da ciò che
sono, perché la contraddizione che esse rappresentano possa risultare una conferma della
logica del sistema in cui sono inglobate. Alla morte si può allora rispondere con la scienza
della morte; alla fame con l’organizzazione della fame: mentre la morte resta morte e la
fame, fame. Non esistono risposte ai bisogni: ciò che si tenta è sempre e solo la loro
organizzazione e razionalizzazione. La Fao, come risposta ideologica alla realtà della
fame, lascia inalterata la realtà dell’affamato, lasciando inalterato il processo che produce
insieme fame e abbondanza. Così l’organizzazione della malattia non è la risposta
all’ammalato e chi tenta - in questo contesto - di rispondere direttamente al bisogno
primario (chi tenta di rispondere alla malattia e non alla sua definizione e organizzazione)
viene accusato di negare l’esistenza del bisogno stesso, quindi di negare l’esistenza della
malattia nel momento in cui non la riconosce nel doppio che ne è stato fabbricato.
È attraverso questo processo di razionalizzazione e organizzazione dei bisogni che
l’individuo è privato della possibilità di possedere se stesso (la propria realtà, il proprio
corpo, la propria malattia). In questo senso il possedere si trasforma automaticamente in
un essere posseduto, poiché non si tratta del superamento di una contraddizione, ma
della razionalizzazione in termini di produzione di cui è oggetto. In questa dinamica
l’individuo non può arrivare a possedere la propria malattia, ma vive la sua collocazione
nel mondo come malato; vive cioè il ruolo passivo che gli viene imposto e che conferma
la frattura fra sé e la propria esperienza.
La malattia diventa comportamento malato, falso rapporto sostitutivo di un rapporto
inesistente: occasione e conferma di dominio. L’ideologia-realtà che ne deriva non è più
la malattia, la devianza come esperienza e contraddizione primaria; ma l’oggetto della
polemologia, della thanatolo- gia, della medicina sociale come scienze della malattia, dei
conflitti, della devianza, della morte alla cui manipolazione sono deputate.
Il malato, il deviante esistono come esistono la malattia e la devianza. Ma se la finalità
in cui ogni intervento viene assorbito è il controllo come strumento di dominio - una volta
rivelatasi insufficiente l’ideologia della diversità come definizione e delimitazione della
contraddizione - ci sono altri modi per inglobare l’abnorme nel sistema produttivo:
l’equivalenza del più e del meno, del dentro e fuori, del positivo e negativo, della salute e
della malattia, della norma e della devianza non è che l’organizzazione produttiva della
diversità.
In questo nuovo terreno il povero povero, l’escluso, il diverso possono solo diventare il
povero ricco per le cui contraddizioni Oscar Lewis suggerisce esplicitamente un
trattamento psichiatrico, come forma di controllo. All’interno di questa apparente
totalizzazione - che conserva, al di là della definizione dell’equivalenza degli opposti, la
loro netta separazione - si tende alla costituzione di un’illusoria classe media universale
dove tutti siano inclusi; ma dove l’esistenza delle diversità che sottendono l’unità
apparente, creerà i presupposti per la produzione del nuovo povero povero di cui il nostro
sistema sociale ha bisogno.
In questa realtà, si può presumere che la maggioranza deviante esclusa dal linguaggio
simbolico usato da chi sta al centro del potere, possa ritrovare la speranza di un suo
linguaggio simbolico?
Nel luglio del 1967, in un congresso organizzato a Londra, cui partecipavano più di
duemila intellettuali, David Cooper così chiudeva il suo discorso d’apertura:
In questo congresso ci siamo interessati dei mezzi nuovi con i quali l’intellettuale può
agire per trasformare il mondo e con i quali possiamo muoverci evitando quella
«masturbazione intellettuale» di cui Carmichael ci accusa. Ci siamo resi conto che i
gruppi radicali nel mondo capitalista erano divisi in maniera convenzionale in base a
convenzioni personali e non ideologiche. Esiste sempre qualche specie di falso Messia
che fa sorgere la speranza e poi la fa scomparire. Non è colpa del Messia, è colpa della
«Speranza». La speranza deve avere un’ulteriore opportunità, un altro
appuntamento.45

Ma se, nel nostro mondo occidentale, è l’intellettuale il falso Messia - per usare le
parole di Cooper - che fa sorgere la speranza e poi la fa scomparire, ciò significa che
l’azione del Messia si mantiene nei limiti della realtà- ideologia continuamente prodotta e
trasformata dal capitale, senza intaccare, rispondere e incidere sul praticamente vero. In
questo caso la colpa non è della speranza, come sostiene un po’ contraddittoriamente
Cooper nell’au- spicarne comunque un successivo appuntamento, ma del falso Messia che
fa nascere, di volta in volta, una nuova falsa speranza, limitata a sempre nuovi gruppi di
manipolatori che - in nome di una ideologica avanguardia rivoluzionaria, si trovano a
partecipare (come movimento di punta all’interno del processo e della logica che si
illudono di combattere) al centro ridottissimo del potere. Su questo terreno ideologico-
reale, ciò che nasce come rottura ideologica-reale, non può che riproporsi come nuova
arma di dominio, all’interno di una logica che tende a usare le contraddizioni e diversità
che essa stessa produce, tentando di razionalizzarle a un successivo, ulteriore livello. Ciò
che produce il falso Messia non è dunque solo una «masturbazione mentale» come dice
Cooper riprendendo le parole di Carmichael, ma una realtà che si limita a essere
capovolta rispetto a quella che vuole distruggere, nel senso che conserva - con segno
opposto - lo stesso carattere non dialettico della realtà ideologica su cui cerca di incidere.
Se non è sul praticamente vero che l’intellettuale agisce, la sua azione resta una risposta
ideologico-reale in un contesto ideologico-reale, dove le contraddizioni sono, ancora una
volta, razionalizzate in nome di una speranza metafisica che rimanda a un domani
sempre inseguito e mai raggiunto, la Soluzione46.
Altrove, nell’agosto del 1970, Fidel Castro, di fronte allo scacco dei dieci milioni non
raggiunti nella zafra, parla al popolo cubano dei problemi della loro realtà pratica:

Siamo stati incapaci di dare battaglia simultaneamente su più fronti. Lo sforzo eroico
per accrescere la produzione, per aumentare il nostro potere di acquisto si è tradotto
in una serie di scompensi per l’economia. I nostri nemici dicono che ci troviamo in
difficoltà e in questo i nostri nemici hanno ragione. Dicono che abbiamo dei problemi,
e hanno ragione. Dicono che c’è del malcontento, e hanno ragione. E se alcune cose
che diciamo il nemico le sfrutterà e questo ci procurerà profonda vergogna, benvenuta
sia questa vergogna, benvenuto il dispiacere se sapremo trasformare la vergogna in
forza, in spirito di lavoro, in dignità, in impulso morale!. Abbiamo alcuni debiti con la
povertà, il sottosviluppo, anche con le sofferenze del popolo. Quando ci troviamo di
fronte a una madre che ha dodici figli, tutti in una sola stanza, e che hanno l’asma e
questo e quest’altro: quando vediamo qualcuno che soffre e che chiede, quando
vediamo la realtà con i nostri occhi, e la realtà qui è determinata dal fatto che
mancano un milione di alloggi, perché le famiglie possano avere case decorose. Un
milione! Con tutto quello che si deve fare per ottenere un milione di case!. Come
risolvere la contraddizione fra le nostre urgenti esigenze nella situazione che abbiamo
appena illustrato rispetto alla crescita della popolazione, della forza di lavoro e alla
richiesta di braccia che esiste da noi? Come ci arrangeremo da oggi al 1975 e poi dal
1975 al 1980? È semplice: non abbiamo altra alternativa che risolvere questo
problema e dobbiamo risolverlo! Non ci resta che risolverlo!

Sono parole troppo semplici per le nostre menti corrotte dai concetti. Parole
demagogiche per i nostri diversi, divisi individualismi dove le teorie non servono alla vita,
ma la vita serve a confermare le teorie. Progetti troppo ingenui per i nostri giudizi
smaliziati, abituati al gioco delle ideologie e alle illusioni dell’autocritica. Ma qui si tenta,
forse, di rispondere al praticamente vero, in una realtà «più aspra, ma anche più onorata
e degna», in cui le contraddizioni sono ritenute costitutive della realtà, che deve essere
affrontata e non soltanto definita e organizzata.
È anche questa una falsa speranza, proposta da un falso Messia?
Per noi, prigionieri di una vita che deve apparire priva di contraddizioni e di conflitti,
questo messaggio è la speranza di una realtà vera, dove non si possano risolvere
ideologicamente le contraddizioni che continuano a conservare la faccia drammatica e
vitale della necessità. Vittoria e sconfitta, successo e fallimento sono termini che
scompaiono all’interno di una lotta comune per una vita umana. Ciò che si vuole per
l’uomo non è la divisione e la definizione delle doti, dei privilegi, dei premi e delle
punizioni: ma una vita che presenti per l’uomo lo stesso carattere totalizzante che il
capitale tende a creare per sé: il più e il meno unificati in un unico rispetto e valore, la
vita di tutti.
La maggioranza deviante è ora l’ultimo ritrovato ideo- logico-reale del nostro mondo
produttivo. Ciò che deve salvarsi è la produzione: se tre quarti del mondo risulta abnorme
rispetto a questo valore dato come assoluto, sono ancora i tre quarti del mondo a
deviare. Ma la totalizzazione cui tende il capitale comporta anche una totalizzazione di ciò
che il capitale tende a totalizzare: cioè la sua contraddizione. Se i limiti del capitale sono
il capitale stesso, ciò significa che la totalizzazione cui tende dovrebbe coincidere anche
con la totalizzazione della sua morte: con la possibilità di una devianza totale dalla sua
logica che sfugge alla sua razionalizzazione nel momento stesso della totalizzazione. Sta
in noi continuare a scoprirne il processo sul terreno pratico, continuando a scindere il
doppio ideologico-reale con cui esso continua a trasformare la realtà per farla identificare
con la sua natura.
L’articolo di Gianni Scalia che chiude il libro vuole essere la testimonianza di una
collaborazione fra persone, provenienti da storie e da terreni specifici diversi, unite e
divise da discussioni e perplessità che hanno reso impossibile una coesione tale da
consentire di amalgamare e definire in termini comuni il loro pensiero. L’inserimento di
questo articolo è dunque la ricerca della possibilità - nel nostro contesto sociale fondato
sulla netta divisione dei ruoli - di una contemporaneità fra analisi teorica e analisi pratica,
dove la teoria sia la comprensione globale della realtà pratica e, insieme, prefigurazione
e progettazione di un’altra realtà che la trascenda; e la pratica la base su cui fondare e
verificare ogni progettazione teorica. Il tentativo è in parte riuscito e, in parte fallito.
Riuscito per quel tanto che, provenendo da terreni specifici diversi, è stato possibile
verificare reciprocamente sul piano teorico-pratico e pratico teorico, la validità del
discorso e dell’ipotesi da cui si era partiti. Fallito perché in questa ricerca non si è ancora
riusciti - per la divisione che scinde ciascuno di noi - a trovare un linguaggio, una pratica,
un progetto che siano realmente comuni. I margini di riserva che ci separano sono ancora
l’oggetto della nostra ricerca, del nostro desiderio di ricerca comune, spesso frustrato
dalla nostra incapacità a superare ciò che ci separa, quando manca un’azione pratica che
si unisca.
F. e F.B.
LA RAGIONE DELLA FOLLIA47
di Gianni Scalia

La ragione è sempre esistita, ma non sempre nella forma razionale.


Marx a Ruge, settembre 1843.

La ragione è presso di sé nella non ragione come non-ragione.


MARX, Manoscritti del ‘44.

1. Piccola storia portatile della ragione

«De quoi se forme la plus subtile folie que de la plus subti- le sagesse.» La citazione da
Montaigne (e ogni citazione è una interpretazione, ha scritto una volta Lukacs) potrebbe
essere l’inizio del discorso. Che cosa è la ragione? Che cosa è la follia? Scienza della follia
non è contraddizione in termini? E storia della follia non è contraddizione in atto?
Foucault, come è noto, ha potuto fare la storia «strutturale» di ragione e follia, cioè di
Medesimo e Altro, come di incompatibilità compatibili.
La storia della ragione «moderna» e «borghese» è la storia della ragione-follia. Parlare
della ragione è parlare della follia e viceversa. La ragione si afferma e si nega; è se
stessa come altro e altro come se stessa. Si scopre come ragione e non-ragione, o meglio
come ragione capace di comprendere e spiegare la sua «parte» folle. Per Hegel la
ragione «illuministica», è, insieme, lotta contro il mito e fabbricazione del mito di se
stessa, critica e dogma di se stessa: antisuperstiziosa e autosuperstiziosa. Se la ragione
come intelletto si afferma e si nega, è necessaria una ragione come ragione, cioè una
ragione dialettica che spieghi la sua irrazionalità, si riconosca come risultato e non come
presupposto.
La ragione diventa ragione della follia. Comincia la storia moderna della ragione.
Dicevamo: parlare della ragione è parlare della follia, e viceversa. La ragione moderna
scopre di non essere più sovrana, di dividere il suo «regno» con una parte di sé che è
follia; si pone di fronte alla interrogazione sul suo fondamento, sulle capacità di
razionalizzare la dialettica interna di ragione e di non-ragione.
Dopo la Fenomenologia, le citazioni dall’Hegel «maturo» della Enciclopedia sono
d’obbligo. I teoremi definitivi hegeliani possono funzionare da «luogo» logico-storico della
ragione moderna (non più analitica ma dialettica) in tutte le sue forme: celebrazione e
sconfitta, dimostrazione e profezia, anticipazione e conclusione. Richiamandosi proprio a
Pinel, il primo «scienziato» della follia, Hegel scrive:

La follia contiene essenzialmente la contraddizione di un sentimento, diventato


corporeo ed esistente, contro la totalità delle mediazioni, che costituisce la coscienza
concreta. Lo spirito, determinato come tale che è soltanto, in quanto un tale essere
sta nella sua coscienza senza soluzione, è malato. Il vero trattamento psichico
mantiene fermo anche il punto di vista, che l’alienazione non è la perdita astratta della
ragione, né dal lato dell’intelligenza né da quello del volere e della sua capacità di
deliberare; ma è soltanto alienazione, soltanto contraddizione nella ragione, che
ancora esiste: come la malattia fisica non è la perdita astratta, cioè intera, della
sanità (tale perdita sarebbe la morte), ma è una contraddizione in se stessa. Siffatto
trattamento umano, cioè benevolo e razionale insieme - bisogna riconoscere i grandi
meriti che si è acquistato in questo campo il Pinel -, presuppone il malato come un
essere razionale, e ha così il punto d’appoggio per prenderlo da quel lato; come dal
lato corporeo, l’ha nella vitalità, la quale, essendo vitalità, contiene ancora in sé la
sanità.

Hegel è all’inizio e, per così dire, alla conclusione del nostro discorso: la ragione si
contesta e si costituisce nella sua contestazione, la follia è riconosciuta in sé ed è
appropriata dalla ragione. Nella dialettica unitaria di reale e razionale è spiegata la
dialettica di razionale e irrazionale.
Con la critica positiva di Hegel la follia si presenta nei suoi «diritti» di non-ragione e la
ragione si presenta nei suoi «doveri» verso la follia. La risposta a Hegel è la critica
«negativa» della «sinistra» hegeliana, di Schopenhauer o di Kierkegaard, più tardi di
Nietzsche, infine di Freud: la prosecuzione radicale della «potenza del negativo», che
mette in crisi l’autogiustificazione della ragione. È l’esercizio del «sospetto» di fronte alla
ragione «dialettica-troppo-dialettica», la lacerazione delle maschere, il metodo
antisistematico della «genealogia» o della spiegazione «rovesciata» della ragione da
parte della non-ragione.
Ma l’antidialettica resta dentro «l’incanto» della dialettica. La ragione moderna
continua a prodursi e a riprodursi come interpretazione di sé; continua a costruire, nelle
forme razionali e irrazionali, lo spettacolo del suo potere e della sua impotenza, delle sue
riuscite e dei suoi fallimenti, della sua costruzione e della sua distruzione - fino alla
«distruzione della distruzione» che può concludersi nella «scolastica» della riforma e della
eversione, della negazione e dell’utopia, nella violenza presente e nel sogno dei
«futuribili».

Con l’Illuminismo e la crisi dell’Illuminismo, con la rivoluzione borghese e con la


ragione moderna e critica, nascono la filosofia e la scienza della follia: la definizione dei
«diritti» degli uomini-folli come citoyens della città razionale, l’attribuzione di uno
«statuto», la fabbricazione di un «documento» esemplare. È l’affermazione di una ragione
illuminata che accoglie la sua parte irrazionale, la sua «metà» infestata, esorcizzata e
condannata, magica o misteriosa. La storia delle società è la storia delle «epoche» della
ragione: le epoche della ragione sono anche le epoche della follia - di ciò che i Condorcet
non ammettevano e annettevano nei loro tableaux. La follia non è più mitica, ma
razionale. Si dissociano follia e magia; malattia e peccato; guarigione e «salvezza». La
follia si umanizza, e si naturalizza; non appartiene più al soprannaturale ma al naturale: è
la parte non-sociale della società, la parte disumana dell’umano, la funzione irrazionale
della razionalità. La ragione si fa scientifica e pietosa, tollerante e definitoria, «benevola
e razionale insieme».
Ma la ragione moderna è condannata, dall’inizio, alla ricerca interminabile: il
riconoscimento della follia è, insieme, la sua accettazione e il suo «travestimento» - la
definizione e l’oggettivazione, la giustificazione e l’invalidazione della follia, a cui è offerta
la legittimità e di cui è sancita l’esclusione.
La cosiddetta «prima rivoluzione psichiatrica» è l’espressione della nuova ragione
tollerante, pietosa, operosa, scientifica. I folli sono coloro che hanno perduto (ma
possono riconquistare) i «valori» della ragione, cioè i princìpi che regolano e le finalità
che definiscono il nuovo equilibrio.
Si sviluppano, insieme, la ragione critica, la politica illuminata, l’etica della pietà,
l’epistemologia e la legislazione della «malattia»; l’oggettività del dato sperimentale e
verificabile, la lucidità dello «sguardo clinico». Si discute della riforma della società e della
riforma della medicina, della riforma della medicina e del «sogno» di una società senza
malattie. Lo scienziato riformatore produce il nuovo statuto del folle come malato; il
politico riformatore produce l’utopia della società sana. («Un homme n’est fait ni pour les
métiers, ni pour l’hopital, ni pour les ospices, tout cela c’est affreux»: Saint-Just riprende
il «mito» platonico della «repubblica» senza medici e senza ospedali). La rivoluzione
borghese si esprime nella contraddizione e nella incontraddittorietà, nella antinomia
reversibile di riforma della scienza e di utopia sociale; dalla parte del metodo, nella
contraddizione fra terrore e riforma, e dalla parte della finalità, nella contraddizione tra
riforma e utopia.
Esiste una specie di «scena primitiva» della scienza della follia - che tutte le storie
della disciplina ricordano: il conflitto tra il riformatore Pinel, liberatore dei folli di Bice- tre,
e il «convenzionale» Couthon; le preoccupazioni reciproche, e le reciproche definizioni,
dei folli: oppressi o nemici del popolo? È un dialogo emblematico. Couthon: «Malheur à
toi, si tu nous trompes et si, parmi les fous, tu caches des ennemis du peuple». Pinel:
«Citoyen, j’ai la con- vinction que ces alienés ne sont si intraitables que parce qu’on les
prive d’air et de liberté». Couthon: «Eh bien! Fais-en ce que tu voudras, mais je crains
bien que tu ne sois victime de ta présomption». (C’è anche un’altra «scena»,
propriamente drammaturgica: lo psicodramma ante litte- ram di Sade a Charenton.)
Riforma e terrore, riforma e utopia nascono insieme. Pietà e scienza, umanità e tecnica
sono funzioni gemelle.
Nelle sue variabili razionali e irrazionali, scientifiche e politiche, riformatrici e
utopistiche, la ragione «critica» continua a essere il soggetto del discorso. Costruisce le
definizioni conoscitive, tecniche, istituzionali, le regole di conoscenza e le norme di
condotta; stabilisce le decisioni nella classificazione e nella valutazione, i criteri nuovi di
«senso» (sano e malato, normale e patologico). Distribuisce le parti, attribuisce i ruoli,
costituisce le relazioni e le «classi». È, alternativamente e totalmente, condanna ed
elogio, intolleranza e tolleranza, esclusione e «pianificazione» della follia.
Nascono la scienza della follia come «metodo» del potere-ragione, e la
istituzionalizzazione della follia come «luogo» definito dal potere-ragione. La ragione
moderna si costituisce ed esibisce nel suo spettacolo; trova il limite e la conferma della
propria razionalità; produce la nuova irrazionalità e inizia il regno della ragione, cioè della
scienza e delle istituzioni della follia. Al limite, la ragione «si rovescia» radicalmente, si
pensa come limite della ragione, esprime il furore e l’orrore della ragione sconfitta dalla
natura o dalla società «cattive», feroci, atroci. È l’orrore «descritto» da Sade; è l’accusa e
la condanna dei folli. Ci si fa folli per opporsi a una società diventata razionalmente folle:
da Rousseau («il farsi folli per diventare sani»), a Sade a Nietzsche, dal «pan- tragismo»
romantico alla esaltazione surrealistica della follia «poetica», alla «sostituzione»
avanguardistica del sogno alla veglia, della notte al giorno, dell’invisibile possibile al
visibile reale. Come scriveva Nietzsche, «a tutti i distruttori non restò nient’altro, se essi
non erano realmente folli, che diventare pazzi o farsi passare per tali».

2. Freud e i nuovi diritti della ragione

Con Freud la ragione moderna compie la sua autocritica, diventa una ragione
ermeneutica. La follia non è più l’altro da sé ma l’altro di sé, della ragione: è la stessa
ragione «trasformata». La rivoluzione freudiana è in questa concezione della ragione
come metamorfosi; non più come a priori o risultato, ma come il «lavoro» stesso dell’Altro
nelle sue trasformazioni.
La ragione si pone la domanda sulla sua validità interpretativa e, insieme, sulla sua
funzione «repressiva»; si pensa non come sapere assoluto ma come «sapere tragico»,
come conoscenza della inevitabilità dei propri conflitti. Si interroga, si mette in questione
come tale, non si giustifica. La follia è all’interno dei sedicenti razionali e sani. Si
introduce la concezione della ragione «decifrante». Non una dottrina o una tecnica
soltanto, ma una ermeneutica della società, della «civiltà», della stessa natura umana. La
ragione freudiana è analogica, non logica, archeologica, non tautologica. È la ragione
rimossa del «rimosso». Si esprime in una serie di rivendicazioni che sono umiliazioni;
definisce se stessa come l’ultimo, e più grave, «colpo di Stato» contro l’«amor proprio»
della ragione e il «narcisismo universale» (dopo l’umiliazione cosmologica e biologica).
L’uomo non è più «sovrano nella propria anima», deve far posto a «ospiti stranieri», «l’io
non è più padrone in casa sua».
L’esplorazione di questo conquistador (e non solo uomo di scienza), di questo
rimescolatore dell’Acheronte, di questo archeologo che ha «dissotterrato un’altra Troia,
che si credeva mitica», non si ferma di fronte alla lucidità prima, al coraggio rassegnato,
spinge la ragione alla sua interna disgregazione, alla scoperta della presenza dell’Altro
immanente, che non è se non la «coscienza normale» rimossa e trasformata, decifrata
nei suoi meccanismi. La serie delle umiliazioni è enorme: abdicazione al privilegio e al
prestigio coscienzialistico, dissociazione di cogito e coscienza, decentramento radicale del
«soggetto», spiegazione del normale da parte del patologico, relazione di processi
psichici e processi «anormali», liquidazione della discriminazione di sano e malato.
Freud ha distrutto la presunzione della scienza della follia, come scienza positiva e
ragione «affermativa»: la presunzione che riconosce la follia per misconoscerla. La follia è
«dentro» noi stessi, si esprime in noi stessi; si espone, perennemente, alla
interrogazione: come rendere l’alienazione disalienante, come liberare la storia dell’uomo
che è storia della repressione, come spiegare il fallimento e la riuscita della lotta contro
la repressione?
Ma la ricerca di Freud è nella forza della decifrazione e della interrogazione
interminabile, e nel pericolo immanente che la stessa ricerca sia sopraffatta dalle
«potenze» della rimozione e della repressione, nella difficoltà permanente della
sostituzione della domanda con una risposta definitiva, della «sovversione» della ragione
e dell’accettazione «terapeutica» della ragione ermeneutica.
Certo, con Freud, non si può opporre ragione e follia; non si può considerare la follia
come parte esterna della ragione. La follia è parte interna, ed è à part entière. Di fronte
alla scienza della follia, al sapere «oggettivo», Freud ha posto il problema di un’altra
scienza, di una scienza dell’interpretazione. Ha dissociato follia e malattia: la malattia
non è follia nel senso di essere la ragione come irrazionalità, e la follia non è malattia nel
senso di essere l’irrazionalità come ragione. Il problema della follia e della malattia è il
problema del rapporto alla «verità» come senso, del modo di apparire, del luogo e del
linguaggio della verità, cui si deve dare la parola - e la cui parola deve essere decifrata. Il
punto di partenza non è «scientifico» (nel senso di psichiatrico). Freud affonda il metodo
nella struttura stessa dell’uomo come essere diviso, contraddittorio, «decentrato», in cui
si può riconoscere il discorso dell’Altro come discorso di sé e viceversa, si possono
riconoscere i meccanismi «incarnati» della rimozione e della repressione.
La ragione ermeneutica è la decifrazione «compromessa» della struttura
contraddittoria dell’uomo condannato ad «alienarsi» altrettanto nelle difese protettrici
della salute che nelle peripezie (labirinti e abissi) della malattia; è la scoperta del
discorso dell’Altro, della dialettica del Desiderio che si postula e si annulla, si sviluppa e si
arresta, progredisce e regredisce, si costituisce nella sua «circolarità» spezzata.
Se la follia è parte interna della ragione, o meglio della «natura» dell’uomo, non viene
dall’esterno e non è silenziosa. La follia parla nel suo linguaggio. Il compito dell’analisi è
di riconoscere nella follia il «suo» linguaggio, di essere in ascolto, di parlare l’«essere
parlato», di restituire o condurre alla verità della parola, di comprendere e far
comprendere il «geroglifico». L’analista, più che scienziato della follia, è colui che dà la
parola alla parola, e permette la prise de la parole. Come dice Lacan, la «rivoluzione» di
Freud è nella costituzione di un’altra scienza come interpretazione della parola dell’Altro,
di una concezione della verità come «senso», non come adaequatio, rappresentazione,
creazione soggettiva. Freud è il contrario di Esiodo, per cui le malattie, mandate da Zeus
sugli uomini, sono «silenziosa» sofferenza, sono mute, perché Zeus ha loro rifiutato la
parola. Freud «ha preso la responsabilità di mostrarci che ci sono le malattie che parlano
e di farci intendere la verità di ciò che dicono».
Questa responsabilità ermeneutica è, insieme, la più alta e la più difficile: è la ricerca
delle «tracce» del senso inscritto nel nostro corpo, nei sogni, nei miti, nell’infanzia, nei
ricordi, nella lingua, nella civiltà, nella nostra sofferenza incarnata; la comprensione di un
discorso che «ritorna» a noi nella sua forma inversa; lo sforzo supremo di ascoltare senza
rispondere con una parola-statuto o verdetto, di mantenere aperto il discorso dell’altro
come discorso dell’Altro, di impedire le «oggettivazioni» scientifiche, razio- nalizzatrici,
repressive e oppressive.
Il limite della ragione ermeneutica si riproduce. È un limite interno (interno-esterno)
alla ragione stessa. La ragione moderna e borghese nella sua autocritica si riconcilia con
se stessa, confonde l’Altro con un «ordine simbolico» e non identifica l’Altro con il
«praticamente vero» del «mondo rovesciato»; non si sottrae al suo «ricupero», operato
non solo (come è stato detto) dalle «puissances refoulan- tes» dei modi di pensare
tradizionali, ma dalla sua stessa difficoltà autocritica; non sottrae, infine, il suo «Wo Es
warr, soll Ich werden» alla autoalienazione - se è vero, come ha scritto il più grande
discepolo, che il fine (proposto all’uomo dalla scoperta di Freud) «est de réintegration et
d’accord, je dirai de réconciliation». La riconciliazione è il risultato della «analisi
terminabile e interminabile»?
Così la responsabilità ermeneutica diventa una dottrina, la interpretazione si converte
in una tecnica di salute (o di salvezza). La ragione psicanalitica ha dato la parola alla
follia, ha tentato di scoprire i meccanismi del suo linguaggio, si è costituita come una
«linguistica» dell’Inconscio. La ragione critica ha riconquistato criticamente i suoi diritti (la
«direzione della cura», le tecniche terapeutiche, i transfert- controtransfert
istituzionalizzati); la ragione «archeologica» si è ricostituita come ragione «teleologica»,
per diventare una ermeneutica come rivelazione della «realtà dell’anima», una
decifrazione della relazione alla verità come Daseinana- lyse o Lebenswelt, o un sapere
tragico come sociologia riformatrice della «società malata», o una lettura «pan-glotti- ca»
della società borghese-capitalistica che si autoregola.
La ragione si è «decentrata», non si è superata. Di fronte alla follia si è ristabilita come
dialettica interna di ratio e irratio, come strategia «binaria» e combinatoria di salute e
malattia. L’Altro è un Altro «diacritico», sia come «differenziale», sia come «refoulé». E di
qui la querelle post-freudiana, i rigori e le facilità del «freudo-marxismo», le sicurezze e le
ambiguità del «revisionismo», contro cui si batte Lacan, l’ottimismo delle tecniche della
integrazione, dei patterns di comportamento, dell’adattamento psico-sociologico, il ritorno
alla tecnocrazia medica, o le continuazioni socio-politiche utopistiche.
Il passaggio freudiano ha lasciato le sue tracce ed è entrato a far parte delle nuove
dotazioni scientifiche della ragione nel suo «progresso». È un caso che Lacan, nel suo
«ritorno a Freud», tra Goethe e Giovanni, abbia scelto l’evangelista: è il Verbo che è
all’inizio, e non l’Azione?

Si transita dalla ontologia del patologico (patologico come essere) alla simbolicità del
patologico (patologico come «significare»): la follia è una comunicazione, una attività o
funzione simbolica. La ragione trova i suoi rimedi. La scienza della follia diventa una
scienza della cultura-società come «sistema simbolico» (sistema delle relazioni
reciproche); si pensa, cioè, come le «rappresentazioni» della follia da parte della ragione
che critica se stessa, interiorizza le proprie «alienazioni», afferma l’immanenza, in se
stessa, dell’altro di sé.
Si passa dall’ordine delle «cose» a quello delle relazioni, dall’ordine delle «cause» a
quello delle «funzioni»; dall’ordine dell’ontologico all’ordine del linguistico. La realtà è
linguaggio, discorso articolato nelle sue componenti e nelle sue funzioni, processo di
comunicazione simbolico, definito nel suo codice e nei suoi messaggi, «offesi» o
«disturbati» ma «significativi» nel sistema delle differenze funzionali. La ragione critica è
diventata simbolica, linguistica, se- miologica; è drammatica e catartica, problematica e
consolante; ha scoperto la propria irrazionalità e la definisce in una relazione interna di
ragione e di non-ragione; ha scoperto la propria radicalità, consapevole di essere una
ragione che non discrimina ma «distingue», taglia e compone, spiega secondo un metodo
funzionale-strutturale, secondo un sistema di differenze, di opposizioni-distinzioni.
È una ragione critica, riformatrice; tollera le proprie intollerabilità e progetta le proprie
intollerabilità in classificazioni e istituzioni. La coscienza della «miseria della psichiatria»
conduce alla necessaria «riforma della psichiatria».

3. Intermezzo istituzionale (o del nuovo riformismo)

La nuova scienza della follia propone le modificazioni degli strumenti, delle tecniche, della
finalità tradizionali. Le società dello «sviluppo» promuovono le riforme, come espressione
della coesistenza funzionale di malati e sani appartenenti alla stessa società riformata.
La follia e la malattia, come «significanti-significati», non sono più cercate nelle
«cause» (il corpo, la mente.) ma nelle «strutture»; non sono più fatti, ma atti o azioni
simboliche, parte - senza «trascendenze» dall’alto o dal basso - dei sistemi culturali-
sociali. Non sono più natura ma cultura.
Sono scomparse le contraddizioni? Da un lato esistono comprensione e tolleranza,
dall’altro rimangono ossessioni e tabù, paure «arcaiche», interdizioni e restrizioni,
meccanismi del «capro espiatorio». Alla razionalizzazione interessano meno, comunque,
le contraddizioni che le differenze. Si tende a disalienare la alienazione e si producono
nuove alienazioni; si ammorbidiscono o sfumano i confini tra normalità e anormalità e si
definiscono nuove «linee di colore»; si diffonde l’uso delle tecniche psichiatriche,
psicanalitiche, psico-sociologiche; si estende il «morbocentri- smo» e la generale
psichiatrizzazione. Si moltiplicano le tendenze del riformismo istituzionale, progrediscono
le tecniche terapeutiche, individuali e di gruppo, si affermano le soluzioni della
prevenzione e della postcura. Si modificano l’assistenza psichiatrica, il regime asilare e
manicomiale; cresce l’euforia del «progressismo» scientifico-tecnico delle definizioni, del
trattamento (dall’ergoterapia alla psicofarmacologia), delle possibilità innovatrici nelle
istituzioni (comunità aperte, reali o simbolici abbattimenti di «muri», iniziative di
autogestione, di istituzioni extraospedaliere, di cure a domicilio ecc.) Si parla di medicina
e psichiatria sociali, di «settorizzazione», di «centri di igiene»; si manifestano nuove
ambizioni conoscitive (dalla medicina psicosomatica alla biochimica cellulare) o nuovi
progetti tecnico- pedagogici («egualitarizzazione» delle relazioni terapeutiche,
democratizzazione delle comunità psichiatriche ecc.)
Tradizione e innovazione, resistenze e fervori progressisti si mescolano in un clima di
entusiasmo riformistico o di tranquillità istituzionale, di passione polemica e di mon-
danizzazione delle esperienze pilota.
A cominciare dalla fine degli anni Quaranta si estende a livello europeo e americano il
nuovo riformismo psichiatrico, fondato sullo sviluppo sociale, sulla diffusione delle
pratiche «programmatrici», sull’attenzione agli aspetti sociologici della malattia mentale.
Anche in Italia; ma qui la situazione è più difficile, sia dal punto di vista scientifico che
legislativo e pratico-istituzionale; spesso le nuove tendenze sono ostacolate da diverse
ragioni: il «vuoto» scientifico, le contraddizioni dello sviluppo, l’assenza dell’esperienza
psicanalitica nella cultura psichiatrica e medica, la resistenza dell’establishment
accademico e istituzionale, l’indifferenza o l’ostilità del potere, e dell’opposizione politica.
I precedenti più importanti, nell’ambito della psichiatria del dopoguerra, soprattutto
nel senso istituzionale, sono, come è noto, nelle proposte di Maxwell Jones.
Dall’esperienza - ancora più che dalla teorizzazione - maxwel- ljonesiana derivano, in
larga parte, la definizione di malattia mentale come risultato dell’esclusione sociale e
della regressione istituzionale, l’impostazione del rapporto medico-malato non più in
termini diretti, ma mediati attraverso la democratizzazione delle relazioni all’interno della
istituzione e attraverso la ricerca della «consapevolizzazione» e «responsabilizzazione»
dei malati, l’analisi degli elementi di «permissività», di «confronto con la realtà», di
«comu- nitarietà». La modificazione del regime manicomiale viene compiuta mediante la
consapevolezza dell’istituzione psichiatrica come «comunità» gerarchica, autoritaria,
repressiva, che deve essere, invece, continuamente gestita-modi- ficata con la «libertà di
comunicazione» a tutti i livelli, l’esame collettivo degli «eventi», il community meeting, la
messa in atto di tecniche psico-dinamiche, la modificazione dei «ruoli», in un processo di
social learning, considerato come lo strumento più importante della tecnica terapeu- tico-
comunitaria.
La cosiddetta «terza rivoluzione» psichiatrica è promossa, come dicevamo, dalla
scienza, rinnovatrice delle sue conoscenze e delle sue istituzioni, e dalla società
«democratica» del capitalismo organizzato. Di fronte al «riformismo» del potere, che è la
nuova forma della tolleranza, della funzionalizzazione e del controllo, la psichiatria adotta
l’atteggiamento della critica riformatrice o l’atteggiamento della «negazione» e della
ribellione. Le teorizzazioni dottrinali e le proposte istituzionali si moltiplicano, si
distribuiscono tra fervori e denunce, «pedagogia» e nichilismo. Psichiatria sociale,
psichiatria comunitaria, psicoterapia istituzionale, antipsichiatria. Le teorizzazioni si
complicano, si scambiano le parti. Se la psichiatria comunitaria propone la riforma delle
istituzioni «dall’interno» attraverso nuove tecniche di cura, apparati medicosanitari più
complessi e «aggiornati», o attraverso una «espansione» psichiatrica con la politica della
«settorizzazione», o, infine, attraverso un’ampia azione di prevenzione; la psicoterapia
istituzionale propone (come è stato detto) una «istituzione della istituzione», la
modificazione delle istituzioni psichiatriche in «strumenti di guarigione», in comunità o
collettivi di cura, in «comunità che si guarisce», con tecniche psicoanalitiche applicate
sistematicamente, in modo da creare istituzioni non più «segregative» ma curative, nuovi
rapporti tra medici e malati e tra i membri dell’équipe curante. Le tendenze di tipo
analitico (o socio-analitico) propongono - di fronte alla negazione istituzionale
dell’antipsichiatria - di distinguere tra il rapporto «malato-medico» e il rapporto «malato-
istituzione», tra «processo» variabile e «quadro» istituzionale permanente, in modo da
affrontare le situazioni in senso «analitico», non più di tipo «duale» ma più largamente
interindividuale.
Il nuovo riformismo propone la «identità» tra salute mentale e salute fisica, tra
protezione della malattia mentale e protezione della malattia fisica, attraverso la riforma
specifica delle istituzioni psichiatriche nell’ambito delle generali strutture sanitarie, per
assicurare l’interesse della società alla malattia, per difendere e proteggere la malattia
nella società. È un discorso che si esprime in forme ed esiti diversi e contraddittori, anche
opposti: nuovo scientismo e critica della scienza-ideologia, riforma istituzionale e lotta
antiisti- tuzionale, nuova psichiatria e antipsichiatria. È necessario distinguere, e lo
faremo più oltre, parlando delle esperienze più radicali. Certo le nuove teorizzazioni
psichiatriche psico-sociologiche, fenomenologiche, neopositivistiche, strut- turalistiche da
una parte, e le esperienze d’avanguardia dell’antipsichiatria dall’altra sono diverse; ma si
confrontano, si mescolano, si confondono. Ancora una volta si trovano di fronte la nuova
scienza e l’antiscienza, la tendenza neoscientista e la tendenza critico-negativa. Per l’una
si tratta di ridefinire l’oggetto della propria conoscenza, per l’altra di «negare» l’oggetto
della propria conoscenza. Per entrambe si tratta di riconoscere che il proprio oggetto non
è specifico ma generale, cioè sociale. Cioè che l’«oggetto» è «simbolico» della società.
Come vedremo più oltre, proprio nel riconoscimento della «simbolicità» sociale - invece
che nella critica del rapporto sociale «rovesciato», e, perciò «simbolico» - l’enciclopedia
moderna delle «scienze umane» si pone come una specifica-generale Teoria del Sociale.
Per le scienze umane moderne i diversi oggetti delle conoscenze non sono più oggetti,
reali o formali, ma «segni» della società e della «organizzazione» sociale; e le diverse
conoscenze si pongono come modi dell’analisi sociologica, nel rapporto reciproco di
riforma della scienza, riforma della società, riforma delle istituzioni.
Non c’è dubbio che la psichiatria come «scienza umana» abbia realizzato, in forme
diverse, la modificazione della psichiatria tradizionale. Si è negata la concezione della
malattia mentale come «dato» biologico o realtà organica; si è negata la «oggettività»
causalistica; si è eliminata la pretesa «oggettività» delle definizioni nosologiche. La critica
è stata compiuta da diversi punti di vista: psicanalitico, fenomenologico-esi- stenziale,
antropo-analitico, socio-psicologico, linguistico-se- miologico. Si sono cercate le «radici»
della follia e della malattia nei processi-comportamenti comunicativi, nei sistemi simbolici
culturali-sociali, nelle realizzazioni dei comportamenti individuali e di gruppo, negli status
e nei ruoli, nei condizionamenti e nelle stratificazioni socio-economiche, nei caratteri
«nevrotici» della società industriale, nella «miseria» psichica dell’uomo moderno. Si sono
cercati i criteri del normale e dell’anormale nelle «funzioni» del sistema (norma-
deviazione e controllo della deviazione); si sono collegate nevrosi e classi sociali, psicosi
e parentela, schizofrenia e famiglia, schizofrenia e relazione «madre-bambino».
È il nuovo «umanesimo scientifico»: le tendenze socio- psicologiche di tipo americano,
o quelle simbolico-struttura- liste di tipo francese-europeo; le correnti del
comportamentismo «linguistico», del gestaltismo sociologico, della psicanalisi
«culturalistica». Sono le nuove forme del «totalitarismo» psicologico (come è stato
detto), dell’«operazionismo» sociologico e istituzionale, della tecnocrazia medico-
psichiatrica, che propongono nelle nuove tecniche integratrici la «reificazione» delle
«strutture». Secondo l’opinione delle esperienze radicali antipsichiatriche, di cui dovremo
parlare, sono le nuove forme della violenza «sottile». «Nella misura in cui la psichiatria
rappresenta gli interessi o i pretesi interessi dei sani, la violenza nella psichiatria è
essenzialmente la violenza della psichiatria», ha scritto David Cooper.

4. Critica della ragione e critica della società

Tutto va per il meglio nel peggiore dei mondi possibili.


BAUDELAIRE

Che senso hanno la teorizzazione e la pratica riformatrici?


La società e la ragione esistenti si producono e riproducono come contraddizione
totale. È la «razionalità irrazionale» del sistema. Alla «razionalizzazione» si oppongono, in
modi diversi, il nuovo razionalismo e il nuovo irrazionalismo. La ragione moderna si
afferma e si nega, accusa e si accusa; la scienza si presenta come scienza critica e come
critica della scienza. Le critiche contro la ragione-ratio si fanno acute, lucide, disperate.
La disperazione nutre la speranza; la speranza si carica, e si incarica, della disperazione.
Si tenta di rovesciare la realtà, e si rovescia la ragione. La ragione si esprime nella
costituzione dei suoi nuovi diritti, oppure nella negazione dei suoi diritti. Le
rappresentazioni della realtà esistente sono costruite in nome della ragione critica,
«positiva» o «negativa». Sono le rappresentazioni che di se stessa compie la ragione che
interiorizza la non-ragione fino a considerarla parte costitutiva di sé, alterità-alienità,
«modo di esistere», funzione simbolica. La follia e la malattia sono l’espressione della
costruzione o della distruzione che la ragione compie di sé: l’alibi può essere l’Altro
«oggettivo», la struttura ontologica della «società malata», la «presa di coscienza»
analitica, la partecipazione al «vissuto» malato, la comprensione del comportamento-
gioco della malattia.
L’analisi dei «teorici critici» della società (Adorno, Horkheimer, Marcuse.) è perfetta,
negli stessi suoi limiti. Nella società industriale, tecnocratica, «unidimensionale», la
ragione si è formalizzata, si è separata dalla praxis sociale, e si è unificata
«formalmente» con la praxis sociale. È diventata «vuota»: ma è un vuoto riempito di un
pieno «vizioso»: la ragione formale è strumentale, appropriata dal potere, cioè dalla
ragione esistente; e la ragione esistente ha confermato, insieme, il proprio potere di
affermazione e la propria impossibilità conclusiva alla critica. Si è adempiuto il processo
per cui la ragione, ridotta a modello formale e a funzione strutturale, si è confermata
come «valore». Ha continuato a distinguere, nel suo interno, tra razionalità e
irrazionalità, e si è costituita come «cattiva unità» di razionalità e irrazionalità. Nella sua
«falsa unità» ha compiuto tutti i passaggi che servivano per il dominio, mantenendo, in
nuova forma, la discriminazione: ha espulso la follia, ha regolato i rapporti tra sé e la
follia, si è identificata con la follia stessa in un ultimo atto di autodifesa.
Nell’analisi dei «dialettici negativi» sembra che si tocchi l’estremo della critica della
ragione. La follia è il risultato della società razionalizzata: il segno di una ribellione e il
segno dell’impotenza della negazione; l’espressione della razionalizzazione della realtà
esistente e, insieme, la manifestazione di una «liberazione» extra- o meta-razionale. Ma
così, da un lato, la ragione è condannata, dall’altro è salvata come ideale «negativo»,
futuro, utopia o speranza. La negazione si finalizza, nega la realtà e finisce per rovesciarsi
nel suo contrario, cioè, paradossalmente, in una riconciliazione negativa con la realtà. La
follia assume, per così dire, la funzione polemica di ricordare alla ragione che è
irrazionale, e, insieme, la funzione pedagogica di ricordare alla ragione che possiede una
razionalità superiore, comprensiva, «dialettica».

La ragione dialettica è l’irragionevolezza di fronte alla ragione dominante: solo in


quanto la confuta e la supera, diventa essa stessa razionale. La dialettica non può
arrestarsi davanti ai concetti di sano e malato, e neppure davanti a quelli,
strettamente affini, di ragionevole e irragionevole. Una volta che ha riconosciuto per
malato l’universale dominante e le sue proporzioni, vede la sola cellula di guarigione
in ciò che, commisurato a quell’ordine, appare malato, eccentrico, paranoide o
addirittura folle; ed è vero oggi, come nel Medioevo, che solo i pazzi dicono la verità al
dominio. Sotto questo aspetto, il compito del dialettico sarebbe quello di consentire
alla verità del pazzo di pervenire alla coscienza della propria ragione, senza la quale -
del resto - perirebbe nell’abisso di quella malattia che il sano buon senso degli altri
impone senza pietà (Adorno).

Alla «dialettica negativa» si oppone lo strutturalismo si- stematico-positivo. Se la


dialettica negativa concepisce i rapporti tra ragione e follia come rovesciamento della
ragione razionale e affermazione della ragione non-razionale quale «potere di
negazione»; lo strutturalismo positivo concepisce tali termini come complementari nella
unità formale della struttura o modello, cioè nella Relazione «in sé». La dialettica
negativa è sostituita da una dialettica strutturale come sistema indifferente di differenze.
Foucault ha fatto seguire alla Storia della follia, un’altra opera, Le parole e le cose. È il
tentativo di fare la storia della società e della cultura occidentale, borghese-capitalistica
come storia del rapporto tra Medesimo e Altro; ma è un tentativo a un tempo esemplare
e fallito. Se da un lato Foucault attribuisce alla nuova scienza della struttura il potere di
cogliere il «modello» dell’unità di ragione e follia, dall’altro «sposta» perpetuamente
questa unità al limite. Assicura alla ragione la razionalità della collaborazione (e
complicità) con la «non-ragione»; e sostiene che «mai la psicologia potrà dire la verità
sulla follia poiché è la follia che detiene la verità della psicologia». Potrà dire la verità la
scienza della struttura nelle varie forme di strutturalismo: strutturalismo «positivo» di
Lévi-Strauss, e di Foucault; strutturalismo «negativo» di Lacan; liquidazione dello
strutturalismo «dall’interno», in Derrida?
È sufficiente ricordare alcune citazioni dei due libri di Foucault, per rendersi conto che
lo «studio strutturale» non riesce.

Fare la storia della follia vorrà dire condurre uno studio strutturale dell’insieme storico
- nozioni, istituzioni, misure giuridiche e poliziesche, concetti scientifici - che tiene
prigioniera una follia il cui stato selvaggio non può ormai essere recuperato in se
stesso; ma, in mancanza di questa inaccessibile purezza primitiva, lo studio strutturale
deve risalire verso la decisione che lega insieme e separa ragione e follia; esso deve
tendere a scoprire lo scambio perpetuo, l’oscura radice comune, il fronteggiarsi
originario che dà senso all’unità, come all’opposizione, del sensato e dell’insensato.

La storia della follia sarebbe la storia dell’Altro - di ciò che, per una cultura, è interno
e, nello stesso tempo, estraneo e perciò da escludere (al fine di scongiurare il
pericolo) ma includendolo (al fine di ridurne l’estraneità); la storia dell’ordine delle
cose sarebbe la storia del Medesimo - di ciò che, per una cultura, è a un tempo
disperso e imparentato, e quindi da distinguere mediante contrassegni e da unificare
entro l’identità.

In Lévi-Strauss la conclusione positiva appare più evidente: la follia, la malattia,


l’anormalità sono l’altro «diverso», distinto-opposto, complementare, riducibile nel
«sistema simbolico» come «sistema totale», che definisce la loro complementarietà con
la ragione, la salute, la normalità. Rifiutando il «sostanzialismo», la follia e la malattia
sono collocate e spiegate nel «sistema di differenze ed eguaglianze» (come nel «gioco»
saussuriano della «lingua»), secondo il principio della «complementarietà».
Ma in Lacan lo strutturalismo esplode. Si riprende il discorso freudiano, condotto a un
livello più radicale della «complementarietà» strutturale e, si direbbe, al di là della
querelle tra strutturalismo «metodologico» o «metafisico» (di cui anche presso di noi
abbiamo avuti gli echi). È in discussione l’interpretazione della struttura come «modello»
(che ha già superato, a quanto sembra, per la pressione o «concorrenza» marxista-
strutturale, il dibattito tra costruzione formale e realtà oggettiva): cioè l’affermazione
della «complementarietà» e l’affermazione della «asimmetria», della strategia binaria e
dell’articolazione ternaria, dell’Altro «differenziale» e dell’Altro «refoulé» e «barré». Il
ritorno a Freud è, forse, il contributo più importante che Lacan ha dato alla psicanalisi. La
sua forza è nella polemica contro la psicanalisi ufficiale o eterodossa, soprattutto contro
l’ideologia «americana». Lacan si batte contro la lettura «cosista» di Freud - in senso sia
neopositivistico, sia comportamentistico o fenomenologico-esistenziale - contro la
«psicologia dell’Io», la teorizzazione di una «sfera libera di conflitti», contro la riduzione
della psicanalisi a tecnica di adattamento e di integrazione «culturalistica», contro la
elaborazione di modelli di comportamento (come espressione della ideologia della «libera
impresa» o delle human relations); ed è qui, forse, il significato di «trasgressione» che
molti riconoscono nel lacanismo, e che raggiunge le critiche gauchistes, sottraendosi, del
resto, se non alle implicazioni, alle riduzioni socio-politiche, come ai flirt fenomeno-
logico-trascendentali, considerati un tentativo di Weltan- schauung teleologica, secondo
cui sarebbe possibile la «costituzione» ermeneutica dell’Inconscio. È un errore fondarsi su
formule divulgate e risolvere la ricerca di Lacan in una traduzione «panlinguistica» del
freudismo. Lacan ripropone la problematica di Freud a un livello, per così dire, ultimativo,
in cui il confronto, il consenso e il dissenso devono manifestarsi attraverso un nuovo
rigore, e non secondo le suggestioni del «freudo-marxismo», le facilitazioni pan-politiche,
sia pure calcolando il quoziente di esotericità, e non solo di tecnicità, di manierismo, e
non solo di stile, del laca- nismo. Se, da una parte, Lacan nel suo ritorno a Freud (come
«senso», e non come «cosa»), tenta di ridare al freudismo il dovuto: il principio
dell’analisi come interpretazione, l’ascolto della «parola» del malato e il tentativo di
restituirle senso, la concezione della dialettica del Desiderio e non del bisogno, il rifiuto
delle identificazioni «immaginarie», la centralità dell’articolazione dell’ordine simbolico
ecc.; dall’altro lato, il discorso lacaniano finisce per «costituirsi» come un discorso
ontologico-negativo. La follia è considerata come «iscrizione» fondamentale della verità,
e non «causalità» psichica (materialistica o idealistica), nel senso profondo di una
«struttura» risolta nel processo della «coscienza infelice»; ferita e «rottura», differenza
originaria, «discordanza primordiale», «rischio supremo». È, si direbbe, un ultimo gesto
della ragione ermeneutica e simbolica che pone il problema del senso del Desiderio come
relazione alla Verità, della Verità come Altro «irriducibile», come difficoltà costitutiva della
«scelta di essere uomo», come interrogazione interminabile e inesauribile sul «Chi sono?»

La struttura fondamentale della follia è iscritta nella natura stessa dell’uomo, in una
discordanza primordiale tra l’Io e l’Essere che esige dall’uomo che egli scelga di essere
uomo. La follia è vissuta tutta nel registro del senso. La sua portata metafisica si
rivela in questo, che il fenomeno della follia è inseparabile dal problema della
significazione per l’essere in generale, cioè del linguaggio per l’uomo. Lungi dall’essere
il fatto contingente della fragilità dell’organismo [dell’uomo], la follia è la virtualità
permanente di uno «spacco» operato nella sua essenza. Lungi dall’essere per la libertà
un «insulto», la follia è la sua più fedele compagna, segue il suo movimento come
un’ombra. E l’essere dell’uomo, non soltanto non può essere compreso senza la follia,
ma non sarebbe l’essere dell’uomo se non portasse in sé la follia come il limite della
sua libertà.

Perché se l’opera di Pinel ci ha, grazie a Dio, resi più umani contro la follia «comune»,
bisogna riconoscere che non ha accresciuto il nostro rispetto per la follia dei rischi
supremi.

A questo punto la follia ci riappare come costitutiva della ragione; l’Altro non è più
«ridotto», ma «irriducibile». Se, nello strutturalismo positivo, la ragione della follia
consiste nella follia razionalizzata; in Lacan, consiste nella ragione che porta in sé lo
«spacco» permanente della follia, come ragione «resa folle». (Viene in mente Nietzsche,
per cui «si deve diventare folli per sbarazzarsi della ragione e avere l’ultima parola»; o
Pascal, per cui «gli uomini sono così necessariamente folli che il non essere folle
equivarrebbe a esserlo secondo un’altra forma di follia».)

5. Le esperienze radicali

...vous n’avez d’avantage que la force.


BRETON
In alcuni la scienza è critica della scienza come critica della società. Quello che rifiutano è
di essere considerati, e di considerarsi, «scienziati» della follia. Per loro, certo, la follia, la
malattia esistono. Ma prima, dentro, sotto c’è la dimensione politica, sociale, istituzionale
della follia. Procedendo nelle riduzioni, si trovano di fronte a una irriducibilità. Sembra si
siano toccati gli orli di una nuova definizione; e, invece, s ta per «eliminare» e, insieme,
per continuare a far vivere coloro che non si sono adattati, che non hanno accettato - e
non sono stati accettati. In questo spazio totale, colpa e malattia, deviazione dalla
norma, «destino» sono la stessa cosa. Il malato è il risultato ultimo di un meccanismo di
esclusione, di violenza, di controllo; non è solo «oggetto» di conoscenza, è un «soggetto»
che è stato oggettivato. Goffman analizza le istituzioni nella loro struttura e nel loro
funzionamento, nella loro natura di organizzazione autoritaria, gerarchica, burocratica;
nelle loro caratteristiche di manipolazione dei bisogni, di coercizione delle attività, di
definizione delle azioni permesse o interdette, di «stigmatizzazione». La
istituzionalizzazione si compie nella selezione del «predegente» e si conclude
nell’«internamento», si realizza nella strategia oppressiva: l’ideologia custodialistica, le
iniziazioni, le cerimonie, i riti, la violenza esplicita o implicita della gestione, la completa
oggettivazione del Sé del malato, la «messa fra parentesi» del malato nella «sindrome
psichiatrica» e nella «regressione istituzionale».
In Cooper e Laing la psichiatria diventa una «disciplina antitetica», una «disciplina per
la disintegrazione» del sapere psichiatrico. La residua scientificità è destinata alla
integrale «depsichiatrizzazione». Il traguardo è duplice: negare la scienza psichiatrica,
negare le istituzioni. I rapporti con la psicanalisi non sono facili: da un lato, si accettano
l’esigenza «interpretativa» e certe proposte o esperienze anche cliniche; dall’altro, si
contesta alla psicanalisi di essere diventata, in molte mani, un sistema «normativo» di
atti e apparati di cura, di soluzioni strettamente «duali», una tecnica di conclusivo
adattamento e, infine, di sopravvalutare la «rimozione» e di sottovalutare, in certe
condizioni di «libertà» istituzionale, il défoulement.
Per l’antipsichiatria la radice della malattia è il meccanismo di violenza della società in
cui viviamo, che si manifesta nei processi di esclusione e di «invalidazione» sociale, di
«categorizzazione» scientifica, di segregazione istituzionale da parte dei sani, attraverso
concettualizzazioni tecniche, atti «terapeutici», apparati di gestione. La violenza nella
psichiatria è la violenza della psichiatria, secondo Cooper, come abbiamo già detto. La
violenza psichiatrica riproduce la violenza nella società esistente. E la società esistente,
sostiene ancora Cooper, sulla indicazione del Lévi- Strauss di Tristes tropiques , è una
società «antropoemica» (che «rigetta da sé tutto ciò che non può essere portato ad
accettare le regole del suo gioco. Su questa base esclude i fatti, le teorie, gli
atteggiamenti e le persone - le persone della classe sbagliata, la razza sbagliata, la
scuola sbagliata, la famiglia sbagliata, la sessualità sbagliata, la mentalità sbagliata») ed
è anche una società «antropofagica». Esclude e include, rigetta e ingoia, vomita e
digerisce. «Nel manicomio tradizionale d’oggi, nonostante gli enunciati di progresso, la
società ha il meglio dei due mondi: la persona che è “rigettata” dalla famiglia, fuori dalla
società, è “ingoiata” dall’ospedale, e quindi digerita e metabolizzata fuori dell’esistenza
individuale. Questa deve essere considerata violenza.» È la tesi, già sartriana, sul «male
sociale» come «proiezione»; e l’antipsichiatria accentua la dimensione della produzione e
riproduzione della violenza inscritta negli stessi meccanismi economico-sociali e politici
della società capitalistica.
L’antipsichiatria contesta la «legislazione» scientifica che, razionalizzando la follia,
concede il diritto di cittadinanza formale e, insieme, nasconde la «natura» della malattia.
Il problema della malattia e della follia non è una quaestio iuris, l’assicurazione dei
«diritti» del malato e, insieme, la garanzia della società di fronte al malato; è un
problema di organizzazione della società. Sui malati pesano la violenza esplicita del
sistema sociale, la violenza della razionalità scientifica, il complesso normativo dell’azione
istituzionale, i meccanismi di attribuzione dei ruoli, da parte dei sani, e di
«identificazione», da parte dei malati, nei ruoli attribuiti.
L’antipsichiatria è diretta, dunque, contro il sapere psichiatrico tradizionale e contro il
nuovo riformismo. Si presenta come critica della pretesa «oggettività» della psichiatria,
nelle forme neoscientiste (fondate sul modello «estrapolato» delle scienze naturali) e
nelle forme neorazionalistiche; e vuole realizzarsi nell’azione antiistituzionale, cioè nella
negazione delle istituzioni psichiatriche come luoghi di riproduzione del sistema della
violenza (dalla famiglia alla società globale), nella negazione della funzione di delegati
del potere assegnati agli psichiatri e delle stesse pratiche e tecniche terapeutiche che
«addomesticano», invece di promuovere, la libertà del malato. E in questo senso
l’antipsichiatria propone nuove strutture aperte e mobili, sperimentate in diverse
esperienze, per esempio nell’«Unità Villa 21», di cui parla Cooper nel suo libro. Questi
esperimenti sono, evidentemente, difficili; lo stesso Cooper, in proposito, conclude: «Un
passo avanti significa in definitiva un passo fuori dell’ospedale verso la comunità». Se non
si vuole ricadere nel riformismo psichiatrico- istituzionale, le difficoltà della negazione si
rivelano nella loro evidenza: le strutture «libere», da un lato conducono a una nuova
istituzione, oppure alla distruzione di ogni «isti- tuzionalità», e dall’altro lato conducono
alla ricerca ulteriore della possibilità di comunità in cui - al di fuori di ogni processo di
esclusione e di invalidazione - si realizzi la soluzione libera della crisi del malato, la sua
conversione o, come dice Laing, la «metanoia». L’antipsichiatria appare divisa tra pars
destruens e pars construens; si orienta verso una teorizzazione che attribuisce alla
malattia una potenziale «liberazione» nell’espressione della sua praxis «negativa», cioè
attribuisce alla follia una libertà (in parte in senso sartriano), di cui è possibile fare un
«uso» eversivo contro la ragione dei sani.
In particolare in Laing sono messi in rilievo i fenomeni della «reificazione» delle
persone in oggetti, la repressione e oppressione compiute sugli esclusi-sfruttati, la
«ideolo- gizzazione» che oppone un Noi (positivo) a un Loro (negativo). La malattia è
«una etichetta, che costituisce un fatto sociale, il quale a sua volta è un evento politico».
L’antipsichiatria è anche una «politica dell’esperienza». Il malato è considerato come
«anormale» dalla società normale, cioè «fuori rotta» rispetto al gruppo e alla società cui
appartiene; ma è la società e il gruppo «normali» che sono «fuori rotta». Gli individui che
hanno la tendenza a mettersi «fuori formazione» sono, o possono essere, nella posizione
«giusta» per comprendere la reale anormalità della società normale. «Schizofrenico
potrebbe essere semplicemente colui che non è riuscito a sopprimere i suoi istinti normali
per conformarsi a una società anormale.» «Siamo ancora vivi per metà, e abitiamo nel
cuore di un decrepito capitalismo.»
È nel discorso politico che sembra concludersi l’antipsichiatria, cioè in un discorso di
«opposizione» alla società razionale e sana, nella presunzione di una «dialettica della
liberazione», non nell’ambito specialistico ma nell’ambito socio-politico generale, fino alle
dichiarazioni, appunto, antipsichiatriche che propongono, a un tempo, la giustificazione
teorica, la sfida dell’impegno antiistituzionale, la volontà di una nuova «utopia», di tipo
eversivo e non più razionalisti- co-riformistico.
Si dissocia la identificazione, compiuta dal sapere tradizionale, tra malattia e
anormalità, in quanto la salute autentica si oppone sia alla malattia (considerata come a-
nor- malità), sia alla normalità considerata come salute dalla società sana; si teorizza la
reversibilità antinomica di ragione e follia nel sistema della violenza; si postula la
relazione di follia e «libertà», cioè la possibilità di un processo di liberazione secondo una
nozione di libertà come praxis, progetto del «campo di possibilità» attraverso e nelle
difficoltà. Si direbbe che la follia finisca per apparire - al contrario della psicanalisi
lacaniana, in cui essa è il segno del discorso dell’Altro - come il simbolo della «libertà»,
interrotta e perduta, non soppressa, della coscienza come praxis rovesciata ma
potenzialmente rovesciante la «illibertà» del sistema sano. È su questa parte negatrice
che l’antipsichiatria può pronunciare la sua critica della ragione, nei termini stessi della
ragione critica, e può postulare, fenomenologicamente e «drammaticamente», la stessa
autocritica. Ma la ragione negativa rovescia antinomicamente, e non dialetticamente, le
«posizioni» di razionale e irrazionale, di sano e malato. L’autocritica della ragione si
conclude nella identificazione rovesciata di ragione e follia: la ragione si rovescia
razionalisticamente nel suo contrario. È l’operazione estrema della ragione che inverte le
parti, scambia i termini, cambia il «significato» ai termini della relazione secondo una
logica dell’antitesi e non della sintesi. Il rovesciamento è, piuttosto, un capovolgimento.
Nel suo estremismo polemico contro la società degli «altri», o, forse, per disperazione
epistemologica, in cui la praxis è la «politica dell’esperienza», propone il «mutamento»
delle prospettive, attraverso la dialettica antidialettica dell’antinomia reversibile, del
ribaltamento dei concetti e delle definizioni del «nemico», con la conclusione di
raddrizzare, rovesciandolo specularmente, il rapporto funzionale di sano e malato proprio
della società capitalistica organizzata.
L’antipsichiatria, certo, rivela le radici non-scientifiche della scienza, denuncia, al di là
della stessa critica alla psichiatria tradizionale, gli errori e gli inganni del «modernismo»
psichiatrico. La follia e la malattia non sono problemi scientifici, ma ermeneutico-politici,
secondo la sequenza: categorizzazione-fatto sociale-evento politico. Per l’antipsichiatria
l’andare avanti è «fermarsi» di fronte alla irriducibilità del rapporto radicale Noi-Loro, alla
fondamentale «intersoggettività». «L’irrazionalità [della malattia] è radicalmente una
antilogica e non una logica malata, e la violenza del paziente è una controviolenza
necessaria» (Cooper).
Da qui nasce la consapevolezza della crisi della scienza e della istituzione psichiatrica
come crisi permanente, piuttosto che la proposta dell’azione antiistituzionale che non può
che limitarsi a «capovolgere il negativo del mondo manicomiale nel positivo di una
istituzione psichiatrica in cui il malato mentale risulti un uomo che ha il diritto di essere
curato». Si è consapevoli del superamento della stessa «identificazione del malato
mentale con l’escluso sociale», per cui è possibile «fare un passo successivo» che «spinge
alla ricerca del rapporto fra l’escluso e ciò che lo esclude», attraverso il riconoscimento
della «crisi permanente» teorico-pratica, della contemporaneità fra gestione e negazione
della gestione, fra «cura» e «messa fra parentesi» della malattia, fra promozione e rifiuto
dell’atto terapeutico. Nelle esperienze antipsichiatriche la negazione della ragione, da
parte della ragione stessa, ha dimostrato la positività del «negativo»; nella esperienza
metapsichiatrica si esprime la consapevolezza del «negativo» come contraddizione
insuperabile. Si arriva al traguardo della stessa «impotenza» del proprio potere di
negazione; si afferma la contemporaneità dell’«essere complici» e dell’«agire-
distruggere», del vivere - secondo le parole di Fanon - una «scommessa assurda nel voler
far esistere dei valori mentre il non-diritto, l’ineguaglianza, la morte quotidiana dell’uomo
sono eretti a princìpi legislativi»; si condivide, con i malati, il rifiuto della «serietà e della
rispettabilità scientifica»; si sostiene che «finché si resta all’interno del sistema, la nostra
situazione non può che continuare a essere contraddittoria: l’istituzione è
contemporaneamente negata e gestita, la malattia è contemporaneamente messa fra
parentesi e curata, l’atto terapeutico contemporaneamente rifiutato e agito».
Sono citazioni dall’Istituzione negata, un libro scritto da Franco Basaglia e dai suoi
collaboratori dell’ospedale psichiatrico di Gorizia. È un discorso aperto e complesso,
riassuntivo delle esperienze radicali, sviluppato senza «superare» le difficoltà della ricerca
teorica e dell’azione pratica, anzi riconoscendo la razionalizzazione delle stesse proposte
riformatrici, la nuova istituzionalizzazione della negazione istituzionale, la riproduzione
della negazione stessa. A questo livello, l’antipsichiatria diventa metapsichiatria: è,
insieme, psichiatria, antipsichiatria, negazione dell’antipsichiatria. La validità «residua» è
nel trasformarsi in discorso politico tout court. Si sostiene che le istituzioni psichiatriche
sono l’espressione funzionale del sistema sociale e del potere politico; si orienta la ricerca
non sulla malattia in sé (in quanto l’«in sé» si rivela il risultato delle categorizzazio- ni),
ma sulla malattia come relazione costitutiva e contraddittoria con la realtà sociale, come
«oggettivazione» dovuta insieme all’esclusione, alla istituzionalizzazione e alla gestione
del malato; si condanna ogni definizione della malattia come non-relazione sociale. In
questo senso il discorso critico e autocritico non può non concludersi in un discorso
politico, che è, a un tempo, di demistificazione teorica e di denuncia pratica del sistema
del potere e delle istituzioni, delle strutture di violenza aperta o indiretta, materiale o
«culturale». La malattia è collocata nel contesto sociale, istituzionale, ideologico;
l’istituzione è considerata il luogo di riproduzione della violenza del sistema e di
oggettivazione scientifico-tecnica del malato; gli psichiatri appaiono i teorici della
«ideologia», i delegati del potere, i gestori della istituzione (chiusa o aperta).
La consapevolezza della contraddittorietà dello stesso discorso che «contraddice», si
risolve nella critica del discorso specifico, che conduce, a sua volta, al discorso generale o
politico. Si aprono le difficoltà del discorso politico in quanto tale, e, in esso, le difficoltà
dell’ulteriore discorso scientifico.
Questa tesi, portata alle conseguenze ultime, esce dal «circolo» di affermazione-
negazione? Si possono evitare le interrogazioni dopo la negazione? Sono sufficienti per
rispondere, o per cominciare a rispondere, il riformismo e l’avanguardia, la nuova scienza
e l’eversione, il «suicidio» epistemologico e la contestazione globale. Non si ripresentano,
ancora, le due ipotesi contenute nella concezione della scienza della follia come
«tecnologia medica» o come «ideologia politica»?

6. Il rapporto del non-rapporto

La ragione critica, l’autocritica della ragione, la crisi della ragione sono il destino del
sapere moderno.
Di fronte alla follia, la ragione moderna ha assunto tre atteggiamenti: riconoscendo la
follia come parte di sé e negazione dell’«ordine» razionale, ha negato questa negazione e
ha finito per escludere la follia da sé, dalla storia, dalla società; ha dubitato di se stessa,
del suo fondamento, della sua legittimità e «sovranità», della sua possibile
giustificazione; o, infine, ha concluso nel riconoscere nella follia un problema non più
teorico ma pratico, non più conoscitivo ma reale. È sempre rimasta, tuttavia, chiusa nel
suo circolo ermeneutico o simbolico, nella scoperta, cioè, di essere sé come altro in
quanto altro come sé. Certo, il «tragico» costituisce la ragione moderna. Contro la
ragione razionale di Hegel (per ritornare all’inizio del nostro discorso), la ragione degli
anti-Hegel, di Nietzsche o di Freud, è la definizione della ricerca che si sa tragica nella
relazione alla verità: l’analisi «interminabile», o la «volontà di potenza». È la situazione
terribile (secondo Nietzsche) della ricerca dell’uomo, vittima di una colpa non commessa,
o «soggetto» (secondo Freud) di un Altro che lo costituisce; dell’uomo che assume su di
sé non la pena ma la colpa, e supera il limite stesso della sua «fatalità» costitutiva.
Nella tragica condizione umana, conoscitiva e vitale, il tragico è immanente nella
stessa «simbolizzazione», nel circolo ermeneutico senza fine, nel conflitto delle
interpretazioni, nelle risposte o decisioni metaermeneutiche che riconducono al circolo
senza fine. Il tragico dei «tempi moderni» è la consapevolezza del tragico («conoscere è
una tragedia», diceva Nietzsche), il tentativo di trasformarlo, o «appropriarlo», in scienza
dell’azione, in coscienza guarita, in «innocenza del divenire», in società liberata dal
proletariato. Ma il tragico «ritorna» come interpretazione (e non rivoluzione), come
accettazione rassegnata dell’Ananke, come gioco dionisiaco nella «prospettiva» delle
verità, come dissociazione di Kritik e proletariato. E abolire il tragico fa concludere in una
nuova tragedia: l’atroce parodia della «critica dell’economia politica». Dicevamo che la
ragione moderna ha riconosciuto nella follia, come parte di sé, un problema pratico e
reale; ma, ancora in modo simbolico. Continua a giocare su un sistema di «differenze» o
di «alterità», cioè in una dialettica della propria contraddittorietà. Bisogna riprendere - al
di là delle sue incarnazioni - la critica dell’economia politica come critica totale: critica
della società esistente, della sua interpretazione e della sua stessa «trasformazione»
mancata. Scriveva il giovane Marx nei Manoscritti del ‘44:

La ragione è presso di sé nella non-ragione come non-ragione. L’uomo che ha


riconosciuto di condurre una vita alienata, conduce in questa vita alienata come tale la
sua vera vita umana. L’autoaffermazione, l’autoconferma in contraddizione con se
stessa, sia con il sapere sia con l’essere dell’oggetto, è quindi il vero sapere, la vera
vita.

Su questo testo non si finisce di meditare. Non è concesso separare o identificare


ragione e non-ragione; non è concesso stabilire fra i due termini, con la pretesa o
l’invocazione di «toccar terra », rapporti di unità indeterminata, o di «dualismo»
speculare, o di antinomia reversibile. È concessa soltanto la critica come comprensione
della loro radice comune, della loro totalizzazione rovesciata. Né è concesso di rifiutarsi
alle «prove» del sapere tragico. Si tratta di non confondere il «valore» (cioè il «mondo
rovesciato», come «praticamente vero», nei rapporti degli uomini e dei loro prodotti,
degli uomini tra loro, degli uomini con loro stessi) con il «simbolo».
La critica marxiana definisce la realtà rovesciata: la ragione e la follia sono i due modi
del rovesciamento. Non si può stare né dalla parte di Hegel, né dalla parte degli
antiHegel, né dalla parte del razionale, né dalla parte dell’irrazionale: entrambi sono
aspetti del mondo rovesciato, riprodotto, allargato, che produce la ratio e l’irratio, l’ordine
e il disordine. Bisogna tenere insieme «i due capi della catena», e riconoscere la
contraddizione della stessa «catena». Sia nel razionale, sia nell’irrazionale è la
contraddizione irrisolta del mondo rovesciato come loro rapporto: il mondo reale è
rovesciato, e il mondo rovesciato è reale; non si può concedere né alla irrazionalità del
rovesciato in quanto razionale, né alla razionalità del rovesciato in quanto irrazionale. Il
mondo rovesciato è il razionale come ragione fondata sul reale esistente, ed è
l’irrazionale come realtà fondata sulla ragione esistente. Il rovesciamento è duplice e
totale, nella unità dell’esistente rovesciato. Ragione e follia sono date insieme; e questa
concezione critica permette poche possibilità di manovra «dialettica-troppo-dialettica».
La ripresa della critica dell’economia politica è il compito che ci attende. Non si tratta
di una «fondazione marxista» delle scienze umane (della psicanalisi, della psichiatria.) -
delle scienze «ortopediche», secondo la definizione di Lacan e del maggio francese; non
si tratta di una «enciclopedizzazione» delle scienze umane a sfondo socio-politico
(quando non è materialistico-cosmologico). Non è lecito dissolvere la critica marxiana
nella ragione ermeneutica, né sottrarla, come dicevamo, alle «prove» del sapere tragico;
non è permesso, neppure, accomodare o aggiustare questa critica attraverso addizioni
eclettiche o «rovesciamenti» eversivi. Non è lecito giocare su un doppio tavolo,
opponendo questa critica come «scienza critica» alla «critica scientifica». La critica
dell’economia politica rimane ancora intatta, perché deve essere prodotta di nuovo, come
critica totale, non come scienza delle scienze o come superiore antiscienza.
Una volta Marx ha parlato della «follia del capitale»: in senso traslato e letterale. (Si
devono prendere sul serio le pretese metafore marxiane. Follia del capitale è
esattamente il contrario di «capitale folle».) Cioè, ha parlato della realtà come realtà
«rovesciata» (raddoppiata, sdoppiata, sostituita). La realtà, che si produce e riproduce, si
contraddice nella sua riproduzione allargata. È, insieme, prodotto degli uomini e
produttrice dei suoi produttori: appunto, perché rovesciata. In questo rovesciamento (che
non è una sostituzione simbolica, ma un risultato concreto, «praticamente vero»), in
questa totale pars pro toto, non si può escludere una parte; non si può rifiutare, per così
dire, la prova della totalità. Già Nietzsche diceva che escludere una parte significa
escludere il tutto. Il rovesciamento è totale come totalità rovesciata, in tutte le sue
dimensioni e livelli: nel sistema del lavoro, della comunicazione, del linguaggio, dei
bisogni, della «sessualità», del potere.
La ripresa della critica è la comprensione della «follia del capitale», cioè del sistema
contraddittorio di ratio-irratio. Non si può continuare a manovrare i concetti-termini di
ragione e follia, di salute e malattia come «entità», di volta in volta, separate o
identificate, combinate o sostituite, antinomicamente opposte e reversibilmente
riconciliate. Il procedimento ermeneutico o simbolico non è critico-dialettico. (E la logica
della ragione moderna o borghese procede secondo i «modelli» della unità indistinta,
della dualità speculare, o dell’antinomia reciproca.) Ragione e follia, salute e malattia
sono gli aspetti costitutivi e, insieme, le risposte «complementari» alla «follia del
capitale».
Di volta in volta, la malattia è vista come l’Altro della salute, e la salute come l’Altro
della malattia; l’Altro è colto, in modo simbolico, come un sistema di differenze o un
sistema di «rimozione», come Altro «distinto-opposto» o come Altro «barré», come
alternanza diacritica o alterità «rimossa» (che ritorna); come dinamica archeologica o
ideologica, come «dialettica» regressiva o progressiva. La dichiarazione di «non-chiusura»
(e, insieme, di «sistematicità») dell’insieme simbolico (magari sostenendo la reversibilità
di fatum e libertà, con cui si è aperto il tragico moderno-borghese), è l’espressione della
reale riproduzione «simbolica» della società rovesciata.
Questo compito dialettico-critico non è esercitato dalle «scienze umane»; c’è la
demistificazione e la denuncia, la ricerca in senso «simbolico» - la definizione della
simbolicità della stessa società, piuttosto che dei rapporti sociali di produzione e di
comunicazione rovesciati; non si tenta l’analisi della follia e della malattia nella loro
relazione costitutiva alla «follia del capitale».
La società della divisione sociale e tecnica del lavoro, dello «scambio degli
equivalenti», della finalità «produttiva», è la società della alienazione e della reificazione:
i rapporti tra gli uomini come rapporti tra cose, e i rapporti tra cose come rapporti
«personali»; il rovesciamento tra fini e mezzi; la formazione di un universo «cosale-
fantasmagori- co», secondo l’astrazione reale e la realtà astratta della merce, dello
scambio, della stessa produzione. Il lavoro in atto si oggettiva e si estranea nella sua
forma parziale, predeterminata, rovesciata, «economica» (cioè produttiva e valorizzante),
in un processo prodotto e riprodotto di alienazione totale. La legge universale è la legge
del «valore» che costituisce l’essere-merce e il non-essere-merce dell’essere merce
dell’uomo: la forza-lavoro potenziale e attuale, individuale e sociale, inclusa ed esclusa e
«recuperabile », secondo il sistema della «equivalenza» generale. L’essere-uomini dei
«malati» o dei «sani», come essere-merce degli uomini, costituisce e definisce,
positivamente-negativamente, l’appropriazione e l’espropriazione dell’autoproduzione
uma- na-sociale, dei rapporti tra uomo e uomo, tra uomo e suoi prodotti. È stato detto
che si è «folli» e «malati» in relazione a una società determinata (Bastide). La follia e la
malattia sono l’espressione costitutiva-contraddittoria della realtà «doppiamente»
esistente come rapporto rovesciato di relazioni sociali e modo di produzione capitalistico,
di «tempo di lavoro» e «tempo di vita», di lavoro-attività e di lavoro come
«valorizzazione». Tutto ciò che è umano è nella forma del capitale, cioè del «valore»:
come il rapporto del non-rapporto.

7. Verso una conclusione?

.nelle nostre città la guerra c’è sempre.


BRECHT

Scienza e antiscienza della follia hanno compiuto fino in fondo il loro esercizio critico e
autocritico?
Gli «strappatori di maschere» sono arrivati al corto circuito della mistificazione-
demistificazione; gli eversori sono arrivati alla «riproduzione» riformistica della eversione.
Fino ai gesti supremi dell’autocritica, dell’autoaccusa, dell’au- tocondanna. Ma ci si è
abituati alla stessa denuncia come autocorrezione, alla esorcizzazione dei «portatori di
germi», alla progressiva immunologia alle contestazioni, all’abilità di fabbricare insieme
allarmi e apparecchi di sicurezza. Il sistema contraddittorio si rivela anche come un
processo di omeostasi e di entropia.
La scienza e l’antiscienza riescono a rispondere, anche se i giochi non sono «fatti»?
Cos’è la follia? Cos’è la malattia, come sintomo, segno, simbolo? È reale la negazione
scientifica, l’appello al discorso politico?
Come all’inizio della «rivoluzione psichiatrica», a Bice- tre o alla Salpetrière o a Hawell,
come ai tempi di Pinel, Tu- ke, Rusch o Connoly, scienza e pietà, téchne e caritas, analisi
e denuncia nascono e rinascono insieme. La scienza è politica, e la politica è scientifica.
Siamo ricondotti alla «storia» della ragione moderna, in tutte le sue fasi e forme, critiche
e autocritiche. Ma la critica della ragione moderna sta ancora «dentro» la critica
dell’economia politica come critica della ragione e della realtà esistenti, come scoperta
del mondo rovesciato e della complementarietà rovesciata di ragione e follia. L’abbiamo
già detto: si è fatto della malattia il «simbolo» della salute e viceversa: il simbolo del
contrario di sé e di sé come contrario, il simbolo del discorso dell’Altro o della «libertà»
alternativa. La follia è, di volta in volta, il segno dell’antisociale, del non-sociale, del
sociale alternativo.
I discorsi si concludono con una teorizzazione (il sapere positivo o negativo), e con una
tecnicizzazione (la pratica riformatrice o eversiva).
Le esperienze radicali dell’antipsichiatria e della meta- psichiatria sono, forse, la
conclusione in forma contraddittoria del dossier noir delle «scienze umane». Accusano,
senza appello, il sapere tradizionale di essere ideologia del sistema e del potere, tecnica
di controllo dei «devianti», di adattamento degli esclusi (o ribelli), di stabilizzazione dei
conflitti. La psichiatria viene condannata nella sua funzione di privilegio e di «polizia»; la
psicanalisi è contestata nella sua volontà di «risposta» e nell’abdicazione all’esercizio
della domanda, stretta tra privilegio della «relazione duale» e presunzione della
psicanalizzazione di tutta la società. Le armi della critica sono il sospetto e la protesta, la
demistificazione e la denuncia: l’una faccia dell’altra.
Non si esce dall’analisi della malattia «in sé» e della malattia come «rapporto ad altro
rapporto», tra la indefi- nibilità della malattia e la definizione della malattia come altro.
Se l’altro è «la società», tra malattia e società si stabilisce un rapporto che si capovolge
immediatamente: la malattia è postulata come indefinibile in sé e, insieme, definita come
rapporto alla società; da un lato, la società è uno dei termini della relazione, dall’altro, è
costituita come il «tutto» della relazione. La negazione della istituzione è, insieme, una
nuova istituzione «antiistituzionale», o la distruzione «anticipata» della stessa istituzione.
La negazione della specificità scientifica è la nuova specialità che consiste nella
negazione della specialità. (Sono ancora gli psichiatri che hanno l’ultima parola nella
negazione della psichiatria.) E, come abbiamo già detto, la risoluzione del discorso
specifico nel discorso generale politico, apre il problema sul discorso politico.
Ermeneutica archeologica o teleologica, terapia come anamnesi e terapia come
«profezia», scienza che teorizza il proprio statuto negativo e scienza che si ribalta in
politica. Le nuove teorizzazioni e le nuove pratiche lasciano aperti i problemi, non risolti
dalla demitizzazione e dalla ribellione. Le difficoltà si presentano come domande. Non si
possono negare con la negazione. Riforma delle istituzioni o utopia «politica» della
società sana? Cura del malato con il nuovo sapere tecnico, o «uso» politico della malattia
come potenziale eversivo? Follia come antisocietà in quanto prodotto sociale o in quanto
simbolo profetico della «nuova società»? Bisogna difendere la società contro la follia, o
non piuttosto difendere i folli dalla società? Difendere i folli, attribuendo loro «diritti di
cittadinanza», e significato «autentico», nella città riformata (del capitale totale o della
rivoluzione socialista?) oppure sostenere per così dire, l’ex- tracontrattualità della follia di
fronte al patto sociale? Pensare alla terapia come preparazione all’adattamento, o come
preparazione alla «integrazione» nella collettività rivoluzionaria (per cui il processo
«cosciente» della trasformazione della società sostituisce l’interpretazione della malattia
e costituisce l’autentica terapia)? Affermare la follia come la «differenza originaria», il
passato da interpretare; o come l’episodio determinato di una società il cui futuro è da
realizzare?
Il compito della critica è rispondere alle domande che sono problemi reali. Rispondere,
e non solo «vivere» la loro contraddizione. È una ricerca teorica, certo, da riprendere di
nuovo. Non solo la demistificazione della scienza come ideologia, o la denuncia del
sistema delle istituzioni.
Una ricerca difficile, paziente, lunga, che si deve compiere senza ricatti antiteorici e
alibi di praticismo e volontarismo attivistici. La stessa «giustezza» ed efficacia dell’azione
dipendono dallo sforzo teorico, accompagnato dalla esperienza vissuta e dall’intervento
pratico, ma non sostituibile. È sempre più evidente che sono insufficienti sia le
ideologizzazioni immediate, sia gli «impegni» politici variabili con le linee, le congiunture,
le tattiche anche anti-tat- tiche, sia le negazioni indeterminate, altro aspetto delle nuove
«positività» scientifiche e istituzionali.
Non si tratta di sospendere l’azione, o di riempire l’azione con l’elaborazione teorica (o
pseudoteorica) immediata. Si tratta di porre il problema della malattia e della follia, non
sulla malattia e sulla follia; di porre il problema della sua radice come radice della salute
e della ragione, cioè della «follia del capitale». Una metafora, certo: l’enorme metafora
del mondo rovesciato come simbolo esso stesso, come quid pro quo ontologico-sociale,
come produzione materiale e riproduzione simbolica. Il compito è risolvere la metafora;
non confondere il «concreto», il «praticamente vero», con il «simbolo», con la
simbolizzazione sociale e politica.

La dialettica, si sa, è anche pazienza e «umorismo». Come è stato detto, «una vecchia
massima della dialettica è: il superamento delle difficoltà mediante l’accumulazione delle
stesse difficoltà». Brecht ha ripetuto più volte che «per le persone prive di umorismo è
generalmente più difficile capire il Grande Metodo». E ha insegnato che l’umorismo non è
esonerato dal più acuto senso di «tragicità», di paziente impazienza, di ribellione
«durevole», di disperazione-speranza; come non è detto sia privo della consapevolezza
che il sapere tragico è una «saggezza» tragica, come ha scritto quelque part Lukacs.
Se una conclusione ci deve essere a questo scritto (e non solo nel senso «fisico»),
vuole essere affidata ad alcune citazioni che obbediscono al classico «buon uso» della
bibliografia. Una conclusione che è già-politica? Sono citazioni da un medico vietnamita, e
da un grande poeta in una sua prosa «cinese».
Confessiamo che le parole di Brecht ci hanno confortato. In quelle parole non mancano
le esortazioni pratiche, perfino i «precetti» morali; ma c’è, forse, al fondo, per le nostre
questioni, l’invito a esercitare il «grande metodo». Anche la lezione dei medici perodeutes
dell’antichità, o dei medici dai piedi scalzi, è una lezione permanente. Il «lavoratore
sanitario» di cui parla Pham Ngoc Thac ha una forza di persuasione eccezionale sia per il
medico, sia per l’«anti-medico» delle nostre società tardocapitalistiche.
Che possa, e debba parlare di politica, chi non è principe né legislatore, lo sappiamo
bene, da Rousseau in poi. Ma il problema della rivoluzione e il problema della verità sono
lo stesso problema. La rivoluzione non è solo «dire», o «fare» la verità. È essa stessa il
problema della verità. In mancanza, abbiamo teoremi o traumi.
Brecht ci dice che la figura del medico è, insieme, militante e transitoria, se deve
combattere la lotta comune contro la società di poveri, di schiavi, di malati; e che è,
anche, transitoria e permanente. La medicina è-ancora-medicina, finché ci sono «le
guerre di classe»; e non-è-ancora-medici- na nelle società delle «guerre di classe». Ci
dice che la malattia come la salute, la ragione come la follia, sono problemi della
«appropriazione» umana; che il medico deve affermarsi e negarsi nel senso più profondo:
cioè nel senso che deve riconoscere di essere «in stato di guerra», deve capire questa
contraddizione, deve capire che questa contraddizione è in noi stessi, deve rispondere al
fatto che «la vita è alienata» e che la vita alienata è la «vera vita», come diceva il
giovane Marx. E ci dice ancora altro, che non abbiamo finito di meditare.
Non sappiamo se da queste citazioni verranno anche a noi l’accusa di incompetenza e
di irrispetto scientifico. Ma ci aspettiamo anche l’«umorismo», la pazienza e la lettura
dialettica dei (pochi?) lettori dialettici.
Da Strategia di guerriglia contro le malattie, intervista di Pham Ngoc Thac (in Il
Vietnam vincerà, a cura di E. Collotti Pischel):

Si può essere animati dal desiderio di servire il proprio Paese pur continuando a
esercitare la medicina secondo le concezioni classiche: c’è allora una contraddizione
tra gli scopi che ci si propone e i mezzi usati. Per risolvere questa contraddizione,
bisogna fare un nuovo passo, acquisire quello che io definirei «coraggio ideologico» il
quale permette di cambiare l’orientamento fondamentale dell’esercizio della medicina.
C’è una lotta per così dire permanente tra le due concezioni, perfino nella pratica
quotidiana della medicina. In uno stesso medico coabitano le due concezioni. La
medicina in quanto scienza naturale, non può orientare la scelta. Ma l’esercizio
quotidiano della medicina risulta trasformato secondo la scelta fatta. Noi abbiamo
scelto la prima via. Questa scelta. è una scelta politica e non medica. Applicando nel
campo della medicina la strategia della guerra di popolo, i nostri lavoratori sanitari
hanno dato prova di una devozione senza uguali. hanno saputo assumere un’iniziativa
creatrice a tutti i livelli, sia sul piano tecnico, sia su quello organizzativo. Noi
schieriamo un’organizzazione e una concezione rivoluzionarie della medicina. In
definitiva l’uomo rivoluzionario ha vinto la tecnica brutale, nel campo medico come in
tutti gli altri.

Da Me-ti. Libro delle svolte di Brecht:

Fe-hu-wang chiese: «Che interesse hanno al rivolgimento i lavoratori della testa,


fuorché l’interesse di tutti?» Me-ti rispose: «Pigliamo i medici. il peggio di tutto è che i
medici non possono far nulla per impedire le malattie. I medici dicono che sui loro
tavoli tutti gli uomini sembrano loro uguali. Ai medici si spedisce a domicilio il malato
in uno stato che non è il suo solito: in forma di un corpo nudo, privo di occupazioni,
senza un passato e un futuro determinati. Non viene eliminata la causa della malattia,
ma tutt’al più l’effetto di questa causa, cioè appunto la malattia. «La posizione dei
medici si rivela nel modo più chiaro in guerra. Essi non possono far nulla per impedire
la guerra, possono soltanto rappezzare le membra sfracellate. E nelle nostre città la
guerra c’è sempre».

Me-ti disse: «La divisione del lavoro è certo un progresso. Ma è divenuta uno
strumento d’oppressione. Se si dice al medico che deve essere anzitutto un buon
tisiologo, si dice con ciò che non deve occuparsi della situazione edilizia che provoca la
tisi. Si dispone la divisione del lavoro in modo tale che lo sfruttamento e l’oppressione
possano sussistervi in
mezzo, come se anch’esse fossero un lavoro cui alcuni abbiano ad accudire».

Il filosofo Me-ti si intratteneva con alcuni medici sulle cattive condizioni dello Stato e li
esortò a collaborare alla loro soppressione. Essi rifiutarono adducendo il motivo che
non erano uomini politici. Al che egli replicò narrando la storia seguente.
Il medico Shin-fu prese parte alla guerra dell’imperatore Ming per la conquista della
provincia di Chensi. Egli lavorava come medico in diversi ospedali militari, e la sua
opera fu esemplare. Interrogato sullo scopo della guerra cui partecipava, diceva:
«Come medico non posso giudicarla, come medico io vedo solo uomini mutilati, non
colonie redditizie. Come filosofo potrei avere un’opinione in proposito, come uomo
politico potrei combattere l’impero, come soldato potrei rifiutarmi di obbedire o di
uccidere il nemico, come coo- lie potrei trovare troppo bassa la mia mercede, ma
come medico non posso far nulla di tutto questo, posso fare solo quello che tutti
costoro non possono, e cioè guarire ferite». Pur- tuttavia si dice che una volta, in una
certa occasione, Shin-fu abbia abbandonato questo punto di vista elevato e coerente.
Durante la conquista da parte del nemico di una città in cui si trovava il suo ospedale,
si dice che sia fuggito precipitosamente per non essere ucciso come seguace
dell’imperatore Ming. Si dice che, travestito, come contadino sia riuscito a passare
attraverso le linee nemiche, come aggredito abbia ucciso delle persone e come
filosofo abbia risposto ad alcuni che gli rimproveravano il suo comportamento: «Come
faccio a continuare a prestare la mia opera come medico, se vengo ucciso come
uomo?»
LA MAGGIORANZA DEVIANTE

L’ideologia della diversità

1
Quando lo psichiatra ordina che un malato venga contenuto, è la scienza che avalla e
giustifica ogni suo atto, anche se esso è esplicitamente una dichiarazione di impotenza.
2
Questo concetto di ideologia di ricambio è stato elaborato in discussioni con Gianni
Scalia.
3
Cfr. E. GOFFMAN, Mental Symptoms and Public Order in Disorders of Communication,
Research Publications, «Proceedings of the Asso- ciation for Research in Nervous and
Mental Disease», 7-8 dicembre 1962, The Williams & Wilkins Company, Baltimora 1964.
4
Si leggano attentamente le già accennate definizioni di «psicopatie» estratte dal
recente trattato italiano di psichiatria.

La paranoia e la dinamica dell’esclusione


di Edwin Lemert

5
NORMAN CAMERON, The Paranoid Pseudocommunity, «American Journal of Sociology»,
46, 1943, pp. 33-38.
6
In un articolo successivo, Cameron modificò la sua concezione originale, ma non degli
aspetti sociali della paranoia, che soprattutto ci interessano. CAMERON, The Paranoid
Pseudocommunity Revisited, «American Journal of Sociology», 65, 1959, pp. 52-58.
7
CAMERON, The Paranoid Pseudocommunity cit.
8
Ibid. [il corsivo è nostro].
9
JAMES S. TYHURST , Paranoid Patterns , in Exploration in Social Psychiatry, a cura di
Alexander H. Leighton, John A. Clausen e Robert N. Wilson, Basic Books Inc., New York
1957, cap. II.
10
K.O. MILNER, The Environment as a Factor in the Etiology of Criminal Paranoia ,
«Journal of Mental Science», 95, 1949, pp. 124-32.
11
S. PEDERSON, Psychological Reactions to Extreme Social Displacement (Refugee
Neuroses), «Psychoanalytic Review», 36, 1946, pp. 344-54.
12
F.F. RINE , Aliens’ Paranoid Reaction, «Journal of Mental Science», 98, 1951, pp. 589-
94; i. listivan, Paranoid States: Social and Cultural Aspects, «Medical Journal of
Australia», 1956, pp. 776-78.
13
TYHURST , Paranoid Patterns cit.
14
EDWIN M. LEMERT , Legal Commitment and Social Control, «Sociology and Social
Research», 30, 1946, pp. 370-78.
15
Ibtd.
16
ROBERT A. DENTLER e KAI T. ERIKSON , The Functions of Deviarne in Groups, «Social
Problems», 7, 1959, p. 102.
17
JAMES L. LOOMIS, Communications, The Development of Trust, and Cooperative
Behavior, «Human Relations», 12, 1959, pp. 305-15.
18
ELAINE CUMMING e JOHN CUMMING, Closed Ranks, Harvard University Press, Cambridge
1957, cap. VI.
19
La interazione per alcuni aspetti è simile a quella usata con i bambini, specialmente
l’enfant terrible. La funzione del linguaggio in tale interazione fu studiata da Sapir anni fa.
EDWARD SAPIR, Abnormal Types of Speech in Nootka, «Geological Survey Memoir 62,
Anthropological Series», Canada Department of Mines, Ottawa 1915.
20
Per una analisi sistematica delle difficoltà organizzative nell’allontanare una persona
«non promuovibile» dal suo posto, cfr. B. LEVENSON, Bureaucratic Succession, in Complex
Organizations, a cura di Amitai Etzioni, Holt. Rinehart & Winston Inc., New York 1961, pp.
362-95.
21
Uno dei casi nel primo studio.
22
O. ODEGARD, A Clinical Study of Delayed Admissions to a Mental Hospital, «Mental
Hygiene», 42, 1959, pp. 66-77.
23
Cfr. sopra.
24
ERVING GOFFMAN, The Moral Career of the Mental Patient, «Psychiatry», 22, 1959, pp.
127 e sgg.
25
ALFRED H. STANTON e MORRIS S. SCHWARTZ, The Mental Hospital, Basic Books Inc., New
York 1954, pp. 200-10.
26
Questa tecnica, in forma ancora più sistematica, viene usata talvolta per proteggere
il presidente degli Stati Uniti nei «casi della Casa Bianca».
27
JUDD MARMOR, Science, Health and Group Opposition, documento ciclostilato, Ucla,
scuola per assistenti sociali, 1958.
28
T. PARSONS, Il sistema sociale, Ed. di Comunità, Milano 1965, p. 529.
29
Il corsivo è nostro.
30
OSCAR LEWIS, La cultura della povertà, in «Centro Sociale», n. 74-75, 1967, pp. i-ii.
Traduzione italiana dell’articolo originariamente pubblicato in «Scientific American», n. 4,
1966.
31
Il corsivo è nostro.
32
Il corsivo è nostro.
33
Vedi al proposito l’articolo di F. BASAGLIA , Il malato artificiale, «Nuovi Libri», marzo
1969, e L’utopia della realtà, di F. e F. BASAGLIA , di prossima pubblicazione nel Trattato di
antipsichiatria a cura di D. Cooper, Pantheon Books, New York.
34
Jurgen Ruesch, professore di psichiatria, University of California School of Medicine e
direttore della sezione di psichiatria sociale del Gangley Porter Neuropsychiatric.
35
Leon Redler è uno psichiatra americano che da molti anni vive in Inghilterra ed è
uno degli elementi più attivi del gruppo antipsichiatrico. Assieme a David Cooper, Ronald
Laing, Joseph Berke ha organizzato a Londra nel luglio del ‘67 il congresso La dialettica
della Liberazione.
36
Sidney Briskin è un assistente sociale che ha lavorato nell’industria, e che,
attualmente fa parte del Network.
38
Kingsley Hall è una delle principali comunità antipsichiatriche organizzate dal
Network. Ci risulta che la comunità sia stata recentemente chiusa per sfratto.
39
Roy Battersby è un regista cinematografico che, con la sua personale esperienza
pratica, porta un contributo molto valido al lavoro del network. Fra i film realizzati da
Battersby è importante ricordare People like us, trasmesso dalla televisione inglese nella
rubrica Towards tomorrow . Roy Battersby sta ora realizzando un importante
lungometraggio sulla storia del «corpo», documento nel quale vuole dimostrare come
dalla nascita l’uomo, in quanto corpo, sia sempre oggetto e mero prodotto del capitale.
40
Cfr. gli atti del congresso in Dialettica della liberazione, Einaudi, Torino 1969.
41
Cfr. LAING ed ESTERSON, Normalità e follia nella famiglia, trad. it. Einaudi, Torino 1970.
42
Il corsivo è nostro.
43
ANTONIN ARTAUD, Il teatro e il suo doppio, trad. it. Einaudi, Torino 1968, p. 109.
44
Per quanto riguarda queste due recenti discipline rimandiamo per la Polemologia
alla produzione scientifica sull’argomento di F. Pomari, che si può considerare il cultore
più autorevole in Italia. Per la thanatologia invece non siamo a conoscenza di iniziative
nazionali in merito. Riportiamo perciò una notizia riferita al proposito dall’autorevole
quotidiano francese «Le Monde» (2 aprile 1970, p. 17): «Une discipline récente: la
thanatologie. Les mutations de notre socié- té, en particulier le fait que les populations se
concentrent de plus en plus dans les grandes villes, obligent à se pencher sur les
problèmes qui entourent la mort, le funérailles, l’inhumation et à leur trouver des
solutions raisonnables.
«Dans ce but, des philosophes, des moralistes, des membres du cler- gé, des
médecins, des maires, des directeurs d’hopitaux, des spécia- listes des pompes funèbres,
des hygiénistes, des urbanistes etc. ont décidé d’établir entre eux des contacts
interdisciplinaires afin d’étu- dier tout ce qui, de près ou de loin, se rapporte à la mort.
«Créée en 1966, la Société de thanatologie (ou science de la mort) de langue franjaise
compte étudier ces divers aspects. Elle a, jusqu’à présent, consacré l’essentiel de ses
travaux au suicide, à l’euthanasie, à la peine de mort, aux greffes d’organes et aux
problèmes posés par la mort dans l’écologie urbaine.
«A cet égard, ses différents rapporteurs ont insisté à maintes reprises sur l’insuffisance
d’hygiène généralement constatée en ce qui concerne les morts, sur l’utilité de la
thanatopraxie (conservation et restau- ration des cadavres) et des “athanées” ou
“funerariums” (établisse- ments spécialement adaptés à recevoir décemment et
hygiénique- ment les morts et leurs familles pendant la période allant du décès à
l’enterrement).
«D’autres études concernant notamment l’intéret scientifique des autopsies, la
mutation indispensable des cimetières, les funérailles, la crémation, seront
prochainement entreprises. M.A.R.»
45
DAVID COOPER, in Dialettica della liberazione cit.
46
Del resto la cosa è evidente nell’uso di un linguaggio esoterico da parte di certi
gruppi di intellettuali, dove l’intellettualismo stesso diventa strumento di dominio sulla
classe che presumono di liberare. In che cosa è diverso il linguaggio esoterico di tipo
politico-rivoluzionario, rispetto a quello tecnico professionale come espressione
dell’elaborazione scientifica di un’ideologia al servizio della classe dominante? In questo
caso è la stessa incomprensibilità di linguaggio che crea e conserva la distanza e il
dominio sulla classe cui si presume di unirsi.
47
Questo scritto è apparso sul n. 5 di «Classe e Stato» (dicembre 1968) con lo stesso
titolo: nella presente stesura esso è stato sottoposto a una abbastanza profonda
trasformazione - dovuta anche alle discussioni, consenzienti o dissenzienti, con gli amici
psichiatri - pur mantenendo la propria dichiarata natura teorica.

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