Franco Basaglia
ISBN: 9788868651466
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il 4 febbraio 2014
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LA MAGGIORANZA DEVIANTE
INDICE
L’abito stretto
I colletti neri
La paranoia e la dinamica dell’esclusione
di Edwin Lemert
Dati e procedimenti
Il comportamento pertinente
Il processo generico di esclusione
Crisi nell’organizzazione ed esclusione formale
La natura cospirativa dell’esclusione
Lo sviluppo del delirio
Rafforzamento del delirio
Il contesto socio-culturale più vasto
Conclusioni
La maggioranza deviante
L’inabilità sociale. Il problema del disadattamento
nella società
di Jurgen Ruesch
La scena contemporanea
La misura del problema
La valutazione dell’inabilità sociale
L’individuo disturbato
La situazione e i suoi limiti di tolleranza
Procedure nella valutazione di inabilità sociale
Conclusioni
L’impossibile strategia
Ronald Laing
Ho parlato con un colonnello dell’esercito americano che si occupa del problema dei
«pazzi», come li chiama lui; del problema dei devianti in generale, della gente con i
capelli lunghi che cerca di evitare il servizio militare e dei protestatari in genere. Il
colonnello mi diceva che all’esercito americano non interessa recuperare questa gente,
perché possono farne benissimo a meno. Non hanno bisogno di loro e non li vogliono. Un
esercito moderno, a mio parere, viene sempre più usato per controllare la popolazione
civile del proprio Paese. Gli eserciti che esistono ovunque nel mondo, sono lì
principalmente per mantenere la schiavitù della popolazione delle loro singole nazioni:
infatti, vengono sperimentati gas che agiscono sui centri nervosi in Vietnam, per vedere
come potranno poi essere usati nel migliore dei modi l’anno seguente a Berkeley, Chicago
e Washington. Penso che la Francia, la Germania, gli Stati dell’Europa occidentale e gli
Stati Uniti stiano diventando campi militari, nelle cui fortificazioni l’élite del potere
industriale e militare si ritirerà, permettendo alla gente, fuori, di intrattenersi come vuole,
con grande libertà. Se ci sarà bisogno, di tanto in tanto, di manodopera straordinaria per
qualche emergenza, l’élite potrà sempre uscire e prendersela con razzie all’esterno e sarà
permesso tutto questo grande andare in giro per i campi e tra i fiori, a ballare e fare
l’amore... perché questo non fa nessuna differenza.
Jurgen Ruesch
Ronald Laing
Edwin Lemert
Jurgen Ruesch
Domandiamoci ora quanti sono i socialmente inabili, quanti i marginali e quanti
appartengono al centro della nuova società postindustriale. Se traduciamo queste
percentuali, riferite alla popolazione adulta, in cifre riguardanti la popolazione intera degli
Stati Uniti, il centro rappresenta solo il 10 per cento, mentre il gruppo centrale il 25 per
cento. Quindi circa un terzo della popolazione totale esegue un certo tipo di lavoro per il
quale riceve un compenso. I malati (e fra questi sono inclusi i vecchi), gli incapaci e i
giovani formano il 65 per cento o i due terzi della popolazione totale. Questo gruppo può
essere definito il «mondo del non-lavoro» (leisure world).
Salute e malattia, norma e devianza, dentro e fuori, più e meno, prima e dopo, sono -
nella tendenza totalizzante del capitale - poli contrari e insieme equivalenti di una realtà
unica: percentuali della stessa unità che variano quantitativamente a seconda del ruolo
prevalente giocato dall’uno o dall’altro, nel processo complessivo in cui l’uomo diventa
oggetto del ciclo produttivo.
Il problema del drop-out, del deviante, di colui che non vuole inserirsi o che non può
inserirsi, del misfit al quale l’abito sociale va troppo stretto, si dilata fino al paradosso di
una devianza universale che si annulla nella sua stessa universalità. Quale sarà il numero
di devianti di cui avrà bisogno il capitale? Ruesch afferma che, negli Stati Uniti, il 65 per
cento della popolazione ha un abito sociale troppo stretto. Il potere centrale dei
tecnocrati determina la misura che dovrà adattarsi a tutti. Le mani spariranno vergognose
nelle maniche abbondanti, i passi incerti saranno impacciati da calzoni troppo lunghi, i
polsi robusti usciranno dalle maniche troppo corte e impediranno ogni movimento: e non
si potrà reclamare, per timore di restare senza vestito. Laing, Lemert e Ruesch - in modo
diverso, ciascuno con la propria ideologia pratica - parlano del nostro futuro contenuto
nelle loro interpretazioni. Parlano di giovani che non sopportano la camicia sociale troppo
stretta. Ma nella nostra società ci sono mezzi per identificare il più e il meno e chi indossa
il vestito fatto per altri (una realtà non sua) non se ne accorge più, come il malato
mentale delle istituzioni pubbliche non sa cosa sia indossare un vestito su misura.
L’IDEOLOGIA DELLA DIVERSITÀ
Nell’ambito delle scienze umane, si affrontano spesso problemi teorico-scientifici che non
nascono direttamente dalla realtà in cui si agisce, ma sono importati come problemi tipici
di altre culture (di livelli diversi di sviluppo), trasferiti in un terreno dove si individuano i
segni della loro presenza a condizione di un preciso riconoscimento critico. Questo
meccanismo di identificazione a livello «ideologico» sembra tipico delle culture
subordinate, che hanno una funzione marginale e dipendente nel gioco politico-
economico generale da cui sono determinate, e di cui partecipano secondo gradi diversi
di sviluppo. A un diverso livello socio-economico corrispondono, infatti, forme diverse di
definizioni culturali; come dire che problemi nati in Paesi ad alto sviluppo tecnologico
industriale, vengono assunti come temi artificiali nei Paesi socio-economicamente meno
sviluppati.
Il linguaggio intellettuale risulta quindi spesso dall’assorbimento di culture mutuate da
realtà diverse, diventando patrimonio di un’élite ristretta, una specie di ammiccamento
fra i privilegiati che riescono a decifrare il messaggio e a scoprirne i riferimenti. In questo
modo aumenta l’ambiguità della natura dei problemi, che si rivelano insieme concreti e
artificialmente prodotti: diventano cioè «realtà», attraverso la razionalizzazione
ideologica che ne viene operata.
Esaminiamo il fenomeno delle devianze. Ormai cruciale e decisivo nei Paesi di grande
sviluppo industriale e non ancora esploso in Italia, è stato importato nella nostra cultura
come tema ideologico di un problema altrove reale.
Da noi, il deviante, come colui che si trova al di fuori o al limite della norma, è
mantenuto all’interno o dell’ideologia medica o di quella giudiziaria che riescono a
contenerlo, spiegarlo e controllarlo. Il presupposto qui implicito che si tratti di personalità
abnormi originarie, ne consente l’assorbimento nel terreno medico o penale, senza che la
devianza - quale concreto rifiuto di valori relativi, proposti e definiti come assoluti e
immodificabili - intacchi la validità della norma e dei suoi confini. In questo senso
l’ideologia medica o quella penale servono qui a contenere, attraverso la definizione di
abnormità originaria, il fenomeno, trasponendolo in un terreno che garantisca il
mantenimento dei valori di norma. Non si tratta di una risposta tecnica a un problema di
carattere specialistico, quanto piuttosto di una strategia difensiva, tesa a mantenere lo
status quo, a tutti i livelli. La scienza, in questo caso, assolve il proprio compito, fornendo
codificazioni ed etichette che consentano la netta separazione dell’abnorme dalla norma.
Il fatto risulta evidente nell’alleanza originaria della psichiatria con la giustizia. Lo
psichiatra, nell’espletamento del suo mandato professionale, è contemporaneamente
medico e tutore dell’ordine, nel senso che esprime nella sua azione presuntivamente
terapeutica, sia l’ideologia medica che quella penale dell’organizzazione sociale di cui è
membro operante. Gli è cioè riconosciuto il diritto di mettere in atto ogni tipo di sanzione
attraverso l’avallo che gli dà la scienza, per un arcaico patto che lo lega alla tutela e alla
difesa della norma1. Per questo nella nostra cultura il fenomeno delle devianze resta
compreso nell’ambito di una conoscenza e di una pratica di natura repressiva e violenta,
corrispondente a una fase di sviluppo del capitale in cui il controllo si manifesta ancora
sotto forme arretrate e rigide, nello stigma dello psicopatico e del delinquente.
Negli Stati Uniti, che qui prendiamo come esempio paradigmatico a comprova delle
tesi che andiamo sostenendo, il problema è stato invece razionalizzato in un terreno
multidisciplinare di natura diversa, dove l’ideologia medico-giudiziaria è venuta
identificandosi con quella sociologica, per la necessità di promuovere e garantire la
totalizzazione del controllo di un fenomeno che va dilagandosi con un’esplicita messa in
discussione dei valori sociali di norma. Qui la definizione di abnormità originaria non
risulta più sufficiente a spiegare e contenere un fenomeno che si configura,
esplicitamente, come risultato di un’esclusione-autoesclusione dalla produzione,
affrontate e in parte assorbite dalle organizzazioni sociali di assistenza, presenti nella
tolleranza repressiva del capitalismo avanzato. È la spinta di queste contraddizioni che ha
costretto a una presa di posizione massiva, concretatasi nella legge Kennedy del 1963,
che riconosce il problema della salute mentale come problema eminentemente sociale. Si
è arrivati a comprendere che, nei confronti della produzione, la morbilità può diventare -
esattamente come la salute - uno dei poli determinanti dell’economia generale del Paese.
Lo dimostra l’assorbimento nel ciclo produttivo - attraverso la creazione di nuove
istituzioni terapeutico-assistenziali - delle fasce di «marginali» che prima ne risultavano
escluse, consentendo e assicurando il loro controllo sociale, come controllo tecnico.
Le teorizzazioni scientifiche sulla devianza, nate nella cultura inglese e americana
come risposta a una realtà in atto, e importate in Italia, assumono in definitiva, il
significato di una ideologia di ricambio2, qualora non vengano verificate sul nostro terreno
pratico, in un’azione che ne definisca le premesse, la natura, i limiti e le conseguenze in
rapporto alla nostra realtà. In questo caso la nuova ideologia di tipo sociologico si
troverebbe a sovrapporsi alle arcaiche ideologie psichiatriche, disponendosi come riserva
potenziale di ulteriori elaborazioni ideologiche. Lo stigma generico di devianza si trova
quindi a sostituire quello più specifico e più violento di psicopatia-delinquenza. I rigidi
parametri della scienza medica vengono ammorbiditi dall’ingresso in campo delle
cosiddette scienze umane, che non modificano però l’essenza del fenomeno, ma lo
allargano in una indifferenziata e falsa totalizzazione che sembra apparentemente unire
gli opposti, senza in realtà affrontare il problema delle loro differenze e dei loro rapporti.
Da noi tuttavia il livello di sviluppo del capitale non tende ancora a esprimersi nella
sua dimensione totale e non è dunque richiesto un tipo di controllo totalizzante.
L’ideologia della diversità su cui si fonda la definizione di abnormità originaria con la
quale si definisce la struttura della personalità del deviante-psicopatico - è qui ancora
sufficiente a garantire, per contrasto, l’integrità dei suoi valori.
I progetti di riforme proposti, boicottati, ritirati, riproposti; le linee d’azione
teoricamente accettate e mai messe in pratica; l’assenza di una programmazione reale
che parta dalla nostra situazione per rispondere praticamente alle nostre esigenze;
l’assenza di piani sperimentali che verifichino la validità e l’utilità reale dei nuovi
programmi; l’adeguamento alle nuove teorie, senza che gli atti modifichino la situazione
su cui dovrebbero incidere, e soprattutto la conservazione delle istituzioni nella loro
costante funzione repressiva di controllo, sono la dimostrazione dell’impossibilità di
un’azione di rinnovamento tecnico che non si imponga come necessità economica. È
impossibile - in quanto non necessario al capitale - adeguare un livello di sviluppo a uno
in cui le nuove ideologie tecnico scientifiche operano in risposta a particolari esigenze
socio-economiche, come loro corrispondente razionalizzazione. o, per essere più chiari,
risulta impossibile adottare sistemi di controllo sociale di tipo più avanzato, quando sono
ancora sufficienti, per molti aspetti, i vecchi.
Il manicomio, il carcere, la scuola, le istituzioni che provvedono al controllo delle
devianze ecc., corrispondono al tipo di repressione adeguata al nostro livello di sviluppo
socio-economico. Il resto - l’uso del nuovo linguaggio tecnico che non corrisponde alla
realtà - è frutto di una importazione ideologica che, attraverso l’adeguamento formale
alle nuove tecniche, prepara il terreno a quello che dovrebbe essere il nuovo tipo di
controllo, necessario quando anche la nostra realtà economica sia modificata, secondo la
logica del capitale. Per questo il nuovo linguaggio adottato ora dai tecnici - linguaggio
altrove nato come risposta tecnica ed economica insieme alla realtà socio-economica
venuta maturando - si limita qui a coprire la vecchia, conservandone, sotto le nuove
definizioni formali, la medesima natura, che solo un’azione pratica reale potrebbe
rovesciare. Ma quanto più aumenta la distanza fra il linguaggio e la realtà tanto più si
avrà bisogno di affidarsi alle parole e alla loro costitutiva ambiguità.
Ciò che si verifica nelle programmazioni relative all’assistenza psichiatrica di molte
amministrazioni provinciali, ne è una chiara dimostrazione. Il caso verificatosi nella
provincia di Venezia, sembra un esempio preciso del modo in cui anche la nuova
ideologia, come scelta tecnico culturale, serva a garantire l’inazione, che corrisponde a
una specifica scelta politico-economica.
L’ospedale psichiatrico della città è situato in due isole staccate dal contesto urbano e,
data la particolare configurazione di Venezia, provinciale. Si tratta di due antiche
costruzioni che, come tutta la città, vertono in stato di grave precarietà.
Nel 1967 fu indetto un bando di concorso dalla locale amministrazione provinciale, per
la costruzione di un nuovo ospedale psichiatrico in terraferma. Il bando, per la prima
volta in Italia, esigeva la costruzione di un ospedale aperto, retto a comunità
terapeutica. Con tutte le riserve nei confronti di questa modalità di assistenza, qualora
venga presentata come modello risolutivo del problema psichiatrico, nella situazione
manicomiale italiana di allora poteva risultare un precedente di un certo peso
l’esistenza di un bando di concorso che riconosceva implicitamente al malato di mente
un nuovo status sociale, prima che una nuova legge lo definisse. Furono scelti i
progetti vincitori, ma nel momento in cui si sarebbe dovuto procedere alla costruzione
dell’ospedale, per il quale era già stata acquistata l’area, gli amministratori scoprirono
- documentando la scoperta in un congresso nazionale che ebbe l’avallo delle autorità
politiche e scientifiche - che la costruzione di un nuovo ospedale psichiatrico avrebbe
perpetuato lo stereotipo della malattia mentale nell’istituzionalizzazione del malato.
Diamo interamente il testo, ritenendo che il lettore possa scoprire dalle indicazioni
della nostra analisi, elementi che la nostra «tendenziosità» potrebbe trascurare. Si tratta
di un’indagine sulla paranoia - abitualmente ritenuta come sviluppo di una personalità
abnorme - e del rapporto che la società con essa di norma intrattiene: rapporto di
esclusione che si riproduce e perpetua nella stessa analisi sociologica.
LA PARANOIA E LA DINAMICA DELL’ESCLUSIONE
di Edwin Lemert
Una delle poche generalizzazioni sul comportamento psicotico che i sociologi siano riusciti
a formulare con relativo accordo e una certa sicurezza, è che tale comportamento sia da
ritenersi il risultato o la manifestazione di un disordine nella comunicazione fra individuo
e società. La generalizzazione è naturalmente ampia e, mentre può essere facilmente
esemplificata con materiale tratto da cartelle cliniche, risulta necessario approfondire il
concetto e descrivere il processo attraverso il quale - nella dinamica dei disturbi mentali -
si verifica questa rottura della comunicazione. Fra i modi di affrontare il problema, la
formulazione di Cameron sulla pseudocomunità paranoide è la più seria5.
In sostanza l’idea di pseudocomunità paranoide può essere così definita6:
Paranoide è colui che, in situazioni di stress inusuale, è spinto - a causa della sua
insufficiente capacità di apprendimento sociale - a reazioni sociali inadeguate. Dai
frammenti di comportamento sociale altrui, il paranoide organizza simbolicamente una
pseudocomunità le cui funzioni egli percepisce come focalizzate su di sé. Le sue
reazioni a questa comunità immaginata che vede densa di minaccia, lo spingono a un
conflitto aperto con la comunità reale, costringendolo a un temporaneo o permanente
isolamento da tutto ciò che lo riguarda. La comunità «reale» che è incapace di prender
parte alle sue attitudini e reazioni, entra in azione per mezzo di un energico controllo
o come risposta-rappresaglia dopo che il paranoide «esplode azioni difensive o
vendicative»7.
Che la comunità cui il paranoide reagisce sia una «pseudocomunità» o una comunità
priva di esistenza reale, risulta chiaramente quando Cameron sostiene:
Quando egli [il paranoide] incomincia ad attribuire agli altri atteggiamenti che ha
verso se stesso, egli si trova a organizzarli, involontariamente, in una comunità
funzionale, un gruppo unificato nelle presunte reazioni, atteggiamenti e progetti nei
suoi confronti. In questo modo egli organizza gli individui, alcuni dei quali sono
persone reali, altri soltanto supposte o immaginate, in un insieme unico che soddisfa
per il momento il suo bisogno immediato di chiarificazione, ma non gli dà la minima
sicurezza e contribuisce di solito ad aumentare il suo stato di tensione. La comunità
che egli si costruisce, non soltanto non corrisponde ad alcun tipo di organizzazione cui
anche altri partecipano, ma in pratica si trova in netto contrasto con ogni tipo di
consenso generale. Inoltre, le azioni che egli attribuisce al gruppo non sono in realtà
da questi dette o
fatte; il gruppo non risulta unito in alcuna comune impresa
contro di lui8.
Non si può negare l’intuizione generale dell’analisi di Cameron e l’utilità di alcune delle
sue idee è infatti riconosciuta. Si deve tuttavia sollevare un’obiezione, basata su una
domanda empirica, cioè se, in pratica, le qualità insidiose della comunità cui il paranoide
reagisce, siano una pseudorealtà o una costruzione simbolica. Ci sarebbe poi un altro
punto di vista che è il tema di questo articolo, e cioè che, mentre il paranoide reagisce in
modo diverso all’ambiente sociale che lo circonda, è anche vero che «gli altri» reagiscono
in modo diverso nei suoi confronti, e questa reazione, abitualmente se non sempre,
implica un’azione segretamente organizzata e un comportamento cospirativo in senso del
tutto concreto. Un’ulteriore estensione della nostra tesi è che queste reazioni differenziali
sono il reciproco l’una dell’altra, dato che sono intrecciate e concatenate a ogni fase del
processo di esclusione che nasce in un tipo particolare di rapporto. Il delirio e il
comportamento a esso associato, devono essere compresi in un contesto di esclusione
che riduce il rapporto e rompe la comunicazione.
Spostando così l’attenzione clinica dell’individuo al rapporto e al processo, noi attuiamo
un’esplicita frattura con il concetto di paranoia intesa come disturbo, stato, condizione o
sindrome costituita da sintomi. Inoltre, non risulta necessario postulare un trauma nella
prima infanzia o un arresto dell’evoluzione psicosessuale come responsabili delle
principali caratteristiche della paranoia - benché si sappia che questi e altri fattori ne
possono condizionare il modo di manifestarsi.
Il concetto di paranoia non è né una semplice teoria a priori, né un prodotto di stretta
pertinenza della sociologia. Un notevole insieme di lavori e di ricerche empiriche nel
campo della psichiatria e della psicologia mette in questione il fatto che l’individuo possa
essere un dato sufficiente allo studio della paranoia. Tyhurst, per esempio, conclude la
sua indagine sulla letteratura in merito, sostenendo che la fede nei meccanismi
intrapsichici e nell’«organismo isolato» è stata uno dei maggiori ostacoli al
raggiungimento di utili scoperte su questo tipo di disturbo9. Infatti, come fa osservare
Milner, più è completa l’investigazione dei casi, più frequentemente appaiono circostanze
esterne intollerabili10. Più precisamente, molti studi finiscono con la conclusione che
circostanze esterne - mutamenti nelle norme e nei valori, spostamenti, ambienti estranei,
isolamenti e separazioni linguistiche - possono creare una disposizione paranoide, in
assenza anche di qualsiasi particolare struttura di carattere11.
L’identificazione di reazioni paranoidi in persone anziane, alcolizzati e sordi, aggiunge
dati che generalmente confermano la nostra tesi. Il fatto di riscontrare che profughi,
sottoposti a un alto grado di stress durante la guerra e la prigionia, abbiano sviluppato in
seguito reazioni paranoidi quando si trovavano isolati in ambienti stranieri, richiede di
puntare l’attenzione su dati che esigono spiegazioni in termini diversi da quelli
organicistici o psicodinamici12.
Da ciò che si è detto finora, dovrebbe risultare chiaro che la nostra formulazione e la
nostra analisi vuole soprattutto affrontare ciò che Tyhurst 13 chiama lo schema di
comportamento paranoide, più che l’entità clinica intesa in senso kraepeli- niano classico.
Le reazioni paranoidi, gli stati paranoidi, i disturbi paranoidi della personalità, così come
quella che viene raramente diagnosticata come «paranoia vera», che si riscontrano
sovrapposti o associati a una grande varietà di comportamenti individuali o di «sintomi»,
forniscono un corpo di dati per lo studio, purché essi assumano una priorità su altri
comportamenti in una interazione sociale significativa. Gli elementi del comportamento
su cui si basano le diagnosi di paranoia - deliri, ostilità, aggressività, sospetto, invidia,
ostinazione, gelosia e idee di riferimento - sono facilmente compresi e in certa misura
enfatizzati dagli altri come reazioni sociali, in antitesi con il comportamento bizzarro e
manierato dello schizofrenico o i mutamenti ciclici e affettivi puntualizzati nelle diagnosi
di mania depressiva. Per questo la paranoia suggerisce, più di qualunque altra forma di
disturbo mentale, la possibilità di un’utile analisi sociologica.
Dati e procedimenti
Le prime conclusioni sperimentali qui presentate, sono state ricavate da uno studio sui
fattori che giocano sulla decisione di ricoverare i disturbati mentali in ospedale, studio
iniziato nel 1952 con la collaborazione del County Department of Health di Los Angeles.
Questa ricerca comprendeva interviste per mezzo di questionari, sottoposti ai membri di
quarantaquattro famiglie della contea di Los Angeles che risultavano aver chiesto
attivamente procedure di ricovero, e lo studio di trentacinque casi di affidamenti a
funzionari di salute pubblica. In sedici casi del primo gruppo e in sette del secondo erano
evidenti sintomi paranoidi. In questi casi i membri della famiglia e altri avevano
semplicemente accettato o «normalizzato» il comportamento paranoide, in alcuni anche
per lungo tempo, fino a quando altri elementi nel comportamento o altre esigenze
portavano al giudizio critico che «c’era qualcosa che non andava» nella persona in
questione e, successivamente, che era necessario ricoverarla. Inoltre, questi giudizi critici
sembravano segnalare un cambiamento nell’atteggiamento e nel comportamento della
famiglia nei confronti della persona disturbata, il che poteva essere interpretato come un
ulteriore contributo, secondo modalità diverse, alla forma e all’intensità dei sintomi
paranoidi.
Nel 1958 fu fatto uno studio più approfondito e orientato secondo questa ipotesi, su
otto casi di persone che presentavano notevoli caratteristiche di tipo paranoide. Quattro
di questi erano stati ricoverati nell’ospedale psichiatrico di Napa, in California, dove
furono diagnosticati come schizofrenici paranoidi. Altri due casi furono individuati e
studiati con l’aiuto del procuratore distrettuale di Martinez, California. Una di queste
persone era stata precedentemente ricoverata in un ospedale psichiatrico della California;
l’altro, detenuto per infermità mentale, era stato rilasciato in seguito a un processo con
giuria. Oltre a questi, c’era un cosiddetto caso «della Casa Bianca» che comportava
minacce al presidente degli Stati Uniti, con il conseguente ricovero del soggetto
nell’ospedale St Elizabeth di Washington, D.C. Ultimo era il caso di un professionista, con
una storia di difficoltà croniche sul lavoro, il quale era definito e considerato dai colleghi
come «esaltato», «omosessuale», «irritante», «ipercritico» e «profondamente
sgradevole».
In modo molto approssimativo, i casi costituivano un continuum che, da situazioni
caratterizzate da deliri molto elaborati, andava, passando attraverso altre in cui i fatti
erano difficilmente separabili dal disturbo di interpretazione, fino all’ultimo caso che più
degli altri si avvicinava a ciò che si potrebbe definire un disturbo paranoide della
personalità. Uno dei presupposti nella selezione dei casi era che non fossero presenti
alcuna storia o prova di allucinazioni e che le persone fossero intellettualmente lucide.
Sette dei casi erano uomini, di cui cinque oltre i quarant’anni. Tre erano stati implicati in
numerose cause. Uno aveva pubblicato un piccolo lavoro, a sue spese, denunciando la
psichiatria e gli ospedali psichiatrici. Fra gli uomini, cinque avevano fatto parte o facevano
ancora parte di organizzazioni come: la scuola media superiore di una piccola città; un
ufficio di ricerche governative; una associazione di produttori agricoli, una università e
un’agenzia d’affari.
L’investigazione dei casi era stata il più esauriente possibile, coinvolgendo parenti,
colleghi di ufficio, datori di lavoro, procuratori, polizia, medici, pubblici ufficiali e chiunque
avesse rappresentato un ruolo importante nella vita delle persone in esame. Alcuni dei
casi richiesero duecento ore per la raccolta dei dati. Oltre i dati ricavati dalle interviste,
furono consultati materiale scritto, documenti legali, pubblicazioni, e cartelle
psichiatriche. Il nostro procedimento, in generale, consisteva nell’adottare una
prospettiva di tipo interattivo che ci sensibilizzò al comportamento attinente ai rapporti
sociali, che sta sotto o è associato ai contesti più evidenti e formali del disturbo mentale.
In particolare ci siamo preoccupati di stabilire l’ordine secondo il quale si verificano i deliri
e l’esclusione sociale e a determinare se l’esclusione assuma forma cospirativa.
Il comportamento pertinente
In un altro lavoro14 abbiamo dimostrato che i sintomi psicotici, così come sono descritti
dalla psichiatria accademica, non sono basi da cui poter prevedere mutamenti di
condizione sociale o del grado di partecipazione sociale nelle persone in cui si rivelano.
Apatia, allucinazioni, iperattività, oscillazioni d’umore, tic, tremori, paralisi funzionali o
tachicardie non hanno un significato sociale intrinseco. Allo stesso modo non lo hanno
qualità a ciò attribuite quali «mancanza di insight», «incompetenza sociale» o «incapacità
ad assumere un ruolo», che alcuni sociologi sostengono siano generici punti di partenza
per l’analisi dei disturbi mentali. È piuttosto il comportamento che caricando di tensione i
rapporti sociali, provoca mutamenti di status: cioè l’esclusione ufficiale o ufficiosa dai
gruppi, la definizione di «sfasato» o il giudizio di folle e l’internamento in un ospedale
psichiatrico15. Il che si verifica anche quando sono presenti clamorosi e bizzarri deliri
paranoidi. La definizione degli aspetti socialmente stressanti di questo tipo di disturbo è il
minimo essenziale, se dobbiamo tener conto della sua frequenza in forma parzialmente
compensata o benigna nella società, come pure della sua presenza più nota in quanto
problema psichiatrico ufficiale in un ambiente ospedaliero.
Tuttavia, è necessario andare oltre queste osservazioni elementari per rendere
soprattutto chiaro che la tensione è il prodotto che emerge da un rapporto nel quale il
comportamento di due o più persone sono fattori rilevanti, e dove la tensione è vissuta
sia dall’ego che dall’altro o dagli altri. Il rapporto paranoide comprende comportamenti
alternativi, accompagnati da emozioni e significati che, per essere pienamente compresi,
devono venir descritti cubisticamente, da almeno due delle loro prospettive. Da un lato il
comportamento dell’individuo deve essere visto dalla prospettiva degli altri o del gruppo
e, viceversa, il comportamento degli altri deve essere visto dalla prospettiva dell’individuo
in questione.
Nei confronti degli altri, nel rapporto paranoide l’individuo mostra:
1) disprezzo per i valori e le norme del gruppo primario, rivelato nel dare priorità a valori
definibili verbalmente su quelli impliciti; mancanza di lealtà in cambio di fiducia,
tendenza a vittimizzare o intimidire le persone in posizione di debolezza;
2) disprezzo per l’implicita struttura dei gruppi, che si rivela nell’approfittare di privilegi
non accordatigli e nella minaccia, o nel ricorso reale, a mezzi formali per ottenere ciò
che vuole.
Per quanto riguarda l’analisi dell’esclusione, i secondi punti hanno un più alto grado di
rilevanza rispetto al primo. Più semplicemente, essi significano che, per il gruppo,
l’individuo risulta una figura ambigua, il cui comportamento è incerto e sulla cui lealtà non
si può contare. Insomma è una persona della quale non ci si può fidare, perché minaccia
di smascherare strutture di potere irregolari. Questa pensiamo sia la spiegazione
essenziale del fatto che frequentemente si ritiene che il paranoide sia «pericoloso»16.
Se noi adottiamo l’insieme percettivo dell’ego e vediamo gli altri o i gruppi con i suoi
occhi, diventano rilevanti i seguenti aspetti del loro comportamento:
1) la qualità spuria dell’interazione fra gli altri e l’individuo o fra gli altri mentre
interagiscono in sua presenza;
2) il modo aperto in cui gli altri lo evitano;
3) l’esclusione strutturata dell’individuo da ogni azione reciproca.
Quando chiese di essere ammesso nello staff in modo da poter usare i computer
elettronici dell’università io presi un nuovo atteggiamento... quando feci un’obiezione
sulla sua teoria, egli si turbò, cosi cambiai la mia reazione in «sì e no».
È inutile dire che questo tipo di rapporto spurio è uno dei più difficili da affrontare per
un adulto nella nostra società, poiché esso gli complica o rende impossibile ogni decisione
e anche perché è moralmente odioso19.
Il processo dall’inclusione all’esclusione non è affatto uniforme. Entrambe le parti,
l’individuo e i membri del gruppo, mutano le loro percezioni e reazioni, e l’incertezza è
comune dato che dipende dal reciproco gioco dei valori, dell’ansia, e della colpa da
entrambe le parti. I membri di un gruppo che esclude possono decidere di essere stati
ingiusti e tentare di ridare la loro fiducia all’escluso. Questa apertura potrebbe essere
rifiutata o usata dall’ego come mezzo per un ulteriore attacco. Abbiamo anche riscontrato
che l’ego potrebbe arrendersi agli altri, talvolta in modo abbietto, e cercare di rientrare
nel gruppo, soltanto per essere nuovamente rifiutato. In alcuni casi si raggiunge un
compromesso e si ottiene una parziale reintegrazione dell’ego nelle relazioni sociali
informali. La direzione presa dall’esclusione informale dipende dalle reazioni dell’ego, dal
grado di comunicazione fra coloro che interagiscono, dalla composizione e struttura dei
gruppi informali, e dalle percezioni delle «altre figure chiave» presenti nei punti di
interazione che possono influire direttamente sullo status dell’ego.
Fin qui abbiamo discusso l’esclusione come processo informale. L’esclusione informale
potrebbe verificarsi lasciando intatto lo status formale dell’ego in una organizzazione.
Nella misura in cui questo status si conserva e i compensi sono sufficienti a renderlo
valido entro i suoi termini, può mantenersi una pace inquieta fra l’individuo e gli altri. Ma
l’isolamento sociale dell’ego e le forti costrizioni di cui è oggetto lo rendono un agente
imprevedibile; inoltre il mutamento e le lotte interne di potere, specialmente se si tratta
di grandi e complesse organizzazioni, significano che le condizioni che potrebbero
garantire una certa stabilità possono avere la vita breve.
Le crisi che si verificano in un’organizzazione e che coinvolgono un rapporto paranoide,
possono insorgere secondo modalità diverse. L’individuo può agire in modo da provocare
negli altri ansietà intollerabili, tanto che questi esigono «che si faccia qualcosa». Inoltre,
il suo stesso rivolgersi alla autorità più alta o lanciare degli appelli al di fuori
dell’organizzazione, può mettere in moto procedimenti che non consentono a chi ha il
potere, altre scelte oltre quella di intervenire. In alcune situazioni l’ego si mantiene
relativamente tranquillo e non attacca apertamente l’organizzazione. L’azione nei suoi
confronti è messa in moto dalle ansie sempre crescenti o per calcolo dei colleghi - in
alcuni casi i suoi immediati superiori. Infine, la crisi può precipitare in seguito a regolari
procedimenti organizzativi secondari a promozioni, pensione o trasferimenti.
Presumendo una situazione critica nella quale il conflitto fra l’individuo e i membri
dell’organizzazione spinge a un’azione per escludere formalmente il primo, vi possono
essere diverse possibilità. Una è il trasferimento dell’ego da un dipartimento, sezione o
divisione dell’organizzazione a un’altra, misura questa adottata spesso nei servizi militari
o nelle grosse aziende. Ciò richiede che l’individuo accetti il trasferimento e che vi sia un
dipartimento disposto ad accettare l’individuo. Mentre la cosa si attua in vari modi,
artifici, informazioni rifiutate, corruzioni o minacce sottilmente velate, sono presenti in
maniera cospicua fra i mezzi usati per portare a buon fine il trasferimento. È inutile dire
che esiste un limite all’uso dei trasferimenti come soluzione del problema, limite che si
fonda sull’entità dell’organizzazione e la precedente diffusione di notizie circa l’individuo
da trasferire.
La seconda soluzione che noi definiamo di incapsulamento, tende, in breve, a
riorganizzare e ridefinire lo status dell’ego. Il che ha l’effetto di isolarlo dall’organizzazione
e renderlo direttamente responsabile di fronte a uno o due superiori i quali agiscono
come suoi intermediari. Il trasferimento è spesso reso più accettabile attraverso
l’aumento di alcuni compensi materiali. L’individuo in discussione potrebbe essere
nominalmente promosso o «spinto in su», può venirgli dato un ufficio più grande, una
segretaria personale, o può venir sollevato dai compiti gravosi. Talvolta si crea per lui
uno status speciale.
Questo tipo di soluzione riesce spesso, perché si tratta di una sorta di riconoscimento
formale da parte dell’organizzazione dell’intensa costrizione dell’ego nel suo status e, in
parte, di una vittoria sui suoi nemici. La cosa lo porta infatti a scavalcarli, mettendolo in
comunicazione diretta con le autorità superiori che possono avere rapporti con lui senza
intermediari. Inoltre tale misura solleva i colleghi dall’ulteriore necessità di complottare
contro di lui. Questo genere di soluzione viene talvolta usato per sbarazzarsi di qualche
noioso funzionario d’azienda, ufficiali di alto grado, o di personae non gratae nelle
università.
Un terzo tipo di soluzione al problema della paranoia in un’organizzazione sono il
licenziamento immediato, le dimissioni imposte o il mancato rinnovo della nomina. Infine,
si può organizzare una procedura per cui l’individuo che soffre di un rapporto paranoide
venga collocato in licenza di malattia o costretto a sottoporsi a una cura psichiatrica.
L’esempio limite è la pressione (fatta anche sulla famiglia), o l’azione diretta, tesa a far
ricoverare la persona in ospedale psichiatrico.
L’ordine delle suddette soluzioni al problema del para- noide riflette in modo
approssimativo l’entità dei rischi associati alle alternative date, quanto a probabilità di
fallimento e quanto a ripercussioni nocive per l’organizzazione. In genere, le
organizzazioni sembrano dimostrare una notevole resistenza a prendere o mettere in atto
decisioni che richiedano l’espulsione dell’individuo, o la sua forzata ospedalizzazione,
senza tenere conto delle sue condizioni mentali. Una spiegazione di questo fatto è che
l’individuo in parola potrebbe avere un certo potere dentro l’organizzazione, potere
fondato sulla sua posizione, o su abilità e informazioni di cui egli solo dispone20, e, in
questo caso - a meno che non vi sia una forte coalizione contro di lui - il conservatorismo
generale che caratterizza le decisioni amministrative, può tradursi in suo favore. Il
romanzo di Herman Wouk The Calne Mutiny [L’ammutinamento del Caine] dimostra
drammaticamente alcune delle difficoltà incontrate nel destituire una persona da una
posizione di potere in un’organizzazione militare conservatrice per eccellenza. Un esempio
limite di questo conservatorismo è illustrato dal caso da noi trovato di un
capodipartimento mantenuto nella sua posizione, benché fosse attivamente allucinato ed
esprimesse deliri paranoidi21. Un altro fattore che agisce a vantaggio dell’individuo è che
il licenziamento di una persona in posizione di potere depone a sfavore di coloro che ve lo
hanno collocato. Può andarne di mezzo la solidarietà di gruppo degli amministratori e
l’opposizione può creare simpatia per l’ego a più alti livelli.
Anche quando una persona è quasi totalmente esclusa e di fatto isolata
nell’organizzazione, essa potrebbe tuttavia avere un certo potere esterno. Quando si può
- in qualche modo - invocare il potere esterno, la cosa ha un certo peso;
anche quando una denuncia porterebbe automaticamente a sollevare dei dubbi sul
funzionamento interno della organizzazione. Questo confina con il motivo più importante
per cui si è riluttanti a mandar via una persona vendicativa e che non collabora, anche se
è relativamente poco importante nell’organizzazione. Ci riferiamo qui a una sorta di
potere negativo derivato dalla vulnerabilità delle organizzazioni alla propaganda
sfavorevole e al mettere in mostra le loro vite private; il che è probabile accada qualora
la crisi venga formalmente riconosciuta, o giunge a una revisione del caso o a
procedimenti legali. Questo può verificarsi dove esistano casi di paranoia. Se si tenta il
ricovero, c’è la possibilità che si richieda un processo con giuria popolare, che costringerà
i dirigenti dell’organizzazione a difendere le loro azioni. Se la crisi si trasforma in una
contesa legale del genere, è difficile provare l’infermità mentale e vi possono essere
cause per risarcimento di danni. Anche se vi sono fatti gravi a sostegno dei denuncianti,
una simile contesa può soltanto gettare una luce sfavorevole sulla organizzazione.
Il punto di vista psichiatrico generalmente accettato è che la prognosi per la paranoia sia
scarsa, che le guarigioni delle forme di «paranoia vera» siano rare, ed è sottinteso che i
deliri esprimano più o meno una condizione patologica irreversibile. Ammesso che i
bisogni dell’individuo, le disposizioni e l’isolamento che si autoimpone sono fattori
determinanti nel perpetuare le sue reazioni deliranti, c’è tuttavia un notevole contesto
sociale, attraverso il quale i deliri vengono consolidati e rafforzati. Questo contesto è
facilmente identificabile nelle idee fisse e nelle procedure istituzionalizzate delle
organizzazioni di protezione, custodia e cura nella nostra società. Essi risaltano
maggiormente nei casi in cui i paranoidi siano venuti in contatto con servizi di sicurezza o
siano stati ospedalizzati. L’urto cumulativo e congiunto di questi servizi agisce fortemente
sull’aumento e il rafforzamento del senso massivo di ingiustizia e di bisogno di identità
che sta alla base dei deliri e del comportamento aggressivo del paranoide.
La polizia, nella maggior parte delle comunità, ha un concetto ben definito di questi
«disadattati» come li chiamano, benché non siano chiari i criteri esatti secondo i quali
queste persone vengono giudicate in tal modo. La pazienza dei poliziotti nei confronti di
questi individui è molto ridotta: in alcuni casi essi indagano sull’origine dei loro reclami e
se concludono che la persona in questione è disadattata tendono da allora in poi a
ignorarla. Le sue lettere possono essere buttate via inevase, si può rispondere alle
telefonate con tono protettivo e rassicurante, o con vaghe promesse di prendere
provvedimenti che non verranno mai presi.
Come la polizia, i funzionari della procura distrettuale sono frequentemente costretti
ad avere a che fare con individui che definiscono disadattati o disturbati. Alcuni uffici
delegano un funzionario particolare per trattare questi casi, persona che viene
pittorescamente definita nell’ambiente di lavoro come «l’incaricato dei matti». Alcuni di
questi funzionari sostengono di essere in grado di riconoscere immediatamente le lettere
dei disadattati, il che significa che esse o resteranno inevase o verranno buttate via.
Tuttavia liti in famiglia o con i vicini presentano al riguardo difficoltà per lo più insolubili,
poiché spesso è impossibile determinare quali delle parti sia delirante. In un ufficio, alcuni
querelanti sono chiamati «50-50» il che significa - in gergo - che è impossibile dire se essi
siano da ritenersi mentalmente sani. Se qualcuno pare provochi noie in continuazione, i
funzionari delegati talvolta minacciano di fare delle inchieste che, tuttavia, raramente
vengono fatte.
Entrambi gli staff della polizia e del procuratore distrettuale, operano continuamente in
situazioni nelle quali le loro azioni possono avere ripercussioni legali o politiche dannose.
Essi tendono a operare in stretto collegamento e la loro reazione iniziale nei confronti
degli estranei o degli stranieri è il sospetto o la mancanza di fiducia, finché non venga
dimostrato che sono innocui o amici. Il che si riflette in molte delle loro procedure d’ufficio
e negli atteggiamenti generali - come per esempio annotare accuratamente in una
rubrica i nomi, l’ora e il motivo delle chiamate di chi chiede colloqui ufficiali. In alcuni casi,
in realtà, si comincia a indagare sul querelante prima ancora di trattare con lui qualsiasi
questione.
Quando il paranoide va al di là della polizia locale e dei tribunali, per chiedere
riparazione alle autorità statali o nazionali, può trovare cortesi atteggiamenti evasivi, un
trattamento superficiale del caso, o una mancanza di fiducia divenuta formale. Lettere
scritte a funzionari amministrativi, possono ottenere risposte fino a un certo punto, ma da
allora in poi vengono ignorate. Se le lettere a un’alta autorità contengono minacce,
possono provocare indagini da parte dei servizi di sicurezza, motivate dal fatto che gli
attentati non sono sconosciuti nella vita americana. Talvolta le riparazioni si cercano nel
corpo legislativo, dove possono essere introdotte proposte di leggi personali che, per la
loro stessa natura, non sono che gesti vani.
In generale, i contatti che la persona delirante ha con le organizzazioni formali,
provocano di frequente le stesse risposte superficiali, evasive o diffidenti che hanno
rappresentato un ruolo determinante nel generico processo di esclusione. Esse diventano
parte di uno schema di interazione selettivo o selezionato che crea, per l’individuo, un
ambiente sociale incerto e ambiguo. Fanno poco per correggere e molto per confermare i
suoi sospetti, la sua sfiducia e i suoi modi deliranti di interpretazione. Per di più, anche
l’ambiente dei servizi ospedalieri può contribuire al progresso di un delirio paranoide, così
come Stanton e Schwartz hanno dimostrato nella loro analisi sulla comunicazione
all’interno dell’ospedale psichiatrico. Essi parlano chiaramente di una «patologia della
comunicazione» provocata dall’abitudine dello staff di ignorare i significati espliciti nelle
affermazioni, o nelle azioni dei pazienti e di rispondere invece a dei significati dedotti o
presunti, così da creare un tipo di ambiente in cui «il paranoide si trova perfettamente a
suo agio»25.
Alcuni paranoidi o para-paranoidi diventano noti ad alcune organizzazioni nel loro
circondario o anche in vaste zone nella comunità. Ci sono nella comunità persone e
gruppi che assumono una posizione caratteristica verso questo tipo di individui una
posizione di attesa e preparata. In uno di tali casi, la polizia controllava continuamente i
luoghi frequentati dalla persona e, quando il governatore venne a parlare sulla scalinata
del tribunale, a due poliziotti fu affidato il compito speciale di sorvegliarla dato che si
trovava tra la folla. Più tardi, ogni volta che andava al palazzo del governatore, un certo
numero di poliziotti veniva incaricato di accompagnarla quando si recava alle udienze
della commissione o chiedeva di essere ricevuta dai funzionari26. La notorietà che
quest’uomo aveva raggiunto a causa della sua famosa forza eccezionale nel gettare a
terra i poliziotti come birilli, era per lui un’evidente fonte di piacere, nonostante il
sospetto che la loro presenza sottintendeva.
Si può dedurre che per i paranoidi rappresentare la parte della persona sospettata
diventa un modo di vivere, dato che ciò fornisce loro un’identità altrimenti irraggiungibile.
Le dispute capricciose con i pubblici funzionari, il pubblicare scritti, opuscoli, cause in
persona propria, la tendenza a contestare cose che altri trascurano come poco importanti
o come «scocciature», diventa il tema principale della loro vita, senza il quale facilmente
la loro condizione peggiorerebbe.
Se la paranoia diventa per qualcuno un modo di vita, è anche vero che la persona
difficile con idee di grandezza o di persecuzione può assolvere alcune funzioni marginali
nelle organizzazioni e nella comunità. Una di queste è la funzione di capro espiatorio, dal
momento che il paranoide è fatto oggetto di scenette comiche, o di congetture e
chiacchiere quando la gente si chiede che cosa combinerà ancora. In questo ruolo di
capro espiatorio, il paranoide può aiutare gruppi primari a integrarsi in più ampie
organizzazioni, perché dirigendo le aggressioni e il biasimo verso di sé si rafforzano il
senso di omogeneità e il consenso dei membri del gruppo.
Ci sono anche esempi nei quali gli attacchi e le accuse generici e a mitraglia del
paranoide servono ad articolare l’insoddisfazione di coloro che temono di criticare
apertamente la direzione della comunità, dell’organizzazione o dello Stato, o delle
informali strutture di potere al loro interno. Talvolta i paranoidi sono gli unici che
abbracciano apertamente le idee di fasce di popolazione inarticolate e politicamente non
rappresentate26. Gli «argomenti» che attraggono l’attenzione del paranoide - il doping
negli incontri sportivi, il comunismo internazionale, gli «interessi» monopolistici, il
papismo, l’ebraismo o i «psicopolitici» - spesso riflettono i timori vaghi e informi e le
preoccupazioni dei gruppi periferici, che tendono a convalidare il ruolo di «protettore»
sceltosi dal paranoide. Talvolta, nei giochi di potere all’interno delle organizzazioni e nei
conflitti comunitari, il suo ruolo viene anche astutamente usato da gruppi più
rappresentativi, come strumento per mettere in imbarazzo i loro oppositori.
Le nostre osservazioni si chiudono con lo stesso tono polemico con cui erano cominciate,
cioè sostenendo che i membri delle comunità o delle organizzazioni si uniscono in uno
sforzo comune ai danni del paranoide, prima o indipendentemente da ogni
comportamento vendicativo da parte sua. La comunità paranoide è reale più che pseudo,
per il fatto che è composta di rapporti reciproci e di processi i cui risultati precisi sono
l’esclusione ufficiosa e ufficiale e una comunicazione ridotta.
La dinamica dell’esclusione del paranoide è resa comprensibile, in prospettive più
ampie, se si riconosce che nell’organizzazione sociale americana le decisioni sono prese
nei piccoli gruppi informali, attraverso interazioni maschili casuali e spesso sottili.
L’accesso a questi gruppi è di solito ritenuto un privilegio più che un diritto, privilegio che
tende a essere gelosamente custodito. Le decisioni cruciali, comprese quelle di espellere
qualcuno o di riorganizzarne lo status in più grandi organizzazioni formali, sono prese
segretamente. Il concetto legale della «comunicazione privilegiata» è, in parte, il
riconoscimento formale della necessità di prendere decisioni segrete all’interno delle
organizzazioni.
Inoltre nella nostra società basata sull’organizzazione, vi è l’enfasi posta sul
conformismo e la tendenza sempre crescente delle élite organizzative a far
assegnamento, per le loro finalità, sul potere diretto. Questo viene abitualmente
esercitato allo scopo di isolare e neutralizzare gruppi e individui che oppongono la loro
condotta, sia all’interno che all’esterno dell’organizzazione. Le strutture formali possono
essere manipolate o deliberatamente riorganizzate in modo che i gruppi e gli individui
che oppongono resistenza, vengano allontanati o sia loro impedito l’accesso al potere o ai
mezzi disponibili per favorire gli scopi e i valori devianti da essi perseguiti. Uno dei modi
più immediatamente efficaci per ottenere ciò è interrompere, ritardare o bloccare il fluire
dell’informazione.
È la necessità di razionalizzare e giustificare tali procedimenti su una base democratica
che induce a nascondere certe azioni, a travisare il significato recondito e persino a
ricorrere a mezzi immorali o illegali. La difficoltà di procurarsi una conoscenza sociologica
di queste tecniche, che noi potremmo definire «controlli dietro i controlli» e il rifiuto da
parte di quelli che le usano di riconoscere che esse esistono, sono conseguenze logiche
della minaccia percepita che una tale conoscenza e ammissione può rappresentare per le
strutture di potere informale. L’epifenomeno del potere diventa così una sorta di mondo
indistinto della nostra cultura, che invita a supposizioni e condanne.
Conclusioni
Abitualmente il complesso di regole che definisce i valori di una data società, in rapporto
al tipo di credenze, organizzazione sociale, livello economico, sviluppo tecnologico-indu-
striale, costituisce gli argini che delimitano il terreno normativo. Si tratta di un insieme di
valori relativi che acquistano peso, significato assoluto non appena vengono infranti.
È difficile stabilire il terreno specifico delle devianze se risultano subordinate soltanto a
un esplicito giudizio di valore. Nel caso della psicopatia, il problema - pur nelle sue
ambiguità - è già definito nell’ambito dei parametri medici entro i quali viene catalogato e
rinchiuso. Ma per il deviante non c’è una qualificazione precisa in cui inquadrarlo; o
meglio, non è ancora scientificamente sistematizzata. Si presenta quindi in parte ambiguo
per gli equivoci e gli arbitri che può provocare; in parte ancora scoperto, non essendo del
tutto identificato con l’ideologia che ne è stata costruita.
Potremmo dire che, nella nostra società industriale, la definizione di norma
proveniente da un’analisi della realtà quotidiana e, insieme, dalle rispondenti definizioni
teoriche, coincide esplicitamente con la produzione. Tanto che chiunque ne resti ai
margini, risulta deviante. È qui implicita un’infrazione a valori confermati e rafforzati
attraverso la codificazione scientifica di abnormità per chi li trasgredisce, non avendo un
carattere assoluto, tale da giustificare le conseguenze discriminanti che abitualmente
comportano. Sia per lo psicopatico che per il deviante, si cercano e si raccolgono - con
l’alibi della documentazione clinico-sociale - gli elementi negativi e gli aspetti deteriori
della personalità, per stigmatizzare un comportamento che all’origine può risultare meno
deviante di ciò che diventerà. Non giocare un ruolo attivo o passivo nella produzione o
rifiutare (per scelta o per necessità) quello di consumatore, diventa - attraverso
l’ideologia scientifica appropriata - una conferma della norma e dei suoi limiti.
L’analisi del ruolo dei devianti negli Stati Uniti ci permette di comprendere quanto la
loro esistenza possa risultare minacciosa, quando non venga riassorbita all’interno del
gioco sociale, rappresentando un pericolo inversamente proporzionale alla forza di cui la
società dispone per mantenere al proprio interno presenze antagoniste. Nella forma della
«democrazia capitalistica» il potere riesce infatti a conservare sotto controllo le forze di
opposizione ed è ciò che rende possibile la manipolazione della situazione. La tolleranza
nei confronti delle forze antagoniste risulta direttamente proporzionale alla sicurezza e
alla forza del controllo.
Nel momento in cui la fascia dei devianti si estende e la «distanza» fra normale e
anormale viene ridotta dal potere totalizzante del capitale, è quindi necessario assorbire
il de- viante facendolo entrare, proprio in quanto tale, in una categoria ideologica che
deve definirlo (cioè continuare a produrlo nell’esatta forma necessaria) e insieme
controllarlo. Il deviante come problema reale (che evidenzia la faccia perdente del
capitale in quanto rifiuto dei suoi valori o espressione del suo fallimento) diventa il
problema del deviante come una delle facce del capitale vincente nell’essere assunto
come problema tecnico, per il quale sono pronte soluzioni tecniche appropriate (in
particolare quelle messe in atto dalla psicoanalisi, dalla psichiatria sociale ecc., nate
come risposte a esigenze pratiche e tramutatesi in strumenti di manipolazione).
L’ideologia della devianza come problema interno alla dinamica del capitalismo
avanzato, serve in questo caso a confermare la funzionalità delle contraddizioni
attraverso una loro razionalizzazione.
Quando Parsons 28, nel Sistema sociale, sostiene la funzione dell’ideologia nel rapporto
fra «cultura e controcultura» (fra classe dominante e classe dominata) mette a fuoco un
punto cruciale dell’organizzazione sociale, senza tuttavia darne l’esatta interpretazione:
Ma il problema è come nasce questa ideologia, da chi è promossa e che uso ne viene
fatto, perché nella realtà essa non sembra davvero servire da «ponte» fra cultura e
controcultura, nel senso che la seconda riesca ad affermarsi sulla prima.
Il fenomeno è evidente anche in altri aspetti della vita americana: ad esempio il
problema della povertà e quello dei negri, che possono ritenersi modi diversi dell’unico
problema delle devianze. Si tratta infatti di problemi reali, resi
ideologici attraverso la razionalizzazione che ne viene fatta e che ne muta la natura.
La mole di letteratura americana più recente dedicata all’argomento è impressionante:
essa può apparentemente risultare come una presa di coscienza improvvisa di ciò che
sottende la «società del benessere» e come una analisi spietata delle sue piaghe. In
realtà, nel momento in cui questi aspetti della società americana vengono diffusi e resi
espliciti come problemi di cui essere consapevoli per affrontarli, perdono il carattere
minaccioso con cui si manifestano, per diventare un’ideologia per la quale si cercano
soluzioni della stessa natura.
A New York, fra la pubblicità nei vagoni della metropolitana, si potevano leggere
annunci del genere:
Portare un problema reale a una dimensione ideologica che produrrà una realtà
analoga a quella che esprime, è il segno della forza del capitale che tende a totalizzarsi a
livello di produzione e di controllo.
Quando, con l’Economy Opportunity Act, il presidente degli Stati Uniti dichiara il 3
marzo 1964, in un messaggio al Congresso, «La guerra alla povertà» come programma
nazionale, la povertà americana acquista un ruolo preciso come oggetto delle
organizzazioni assistenziali: si tenta di risolvere una sola faccia del problema, dando con
la mano visibile ciò che si continua a togliere con la mano nascosta. Che poi studiosi,
sociologi, antropologi, psichiatri, organizzatori sociali si dedichino a indagare l’argomento,
non si tratta che di razionalizzazioni che serviranno a occultare sempre più la vera natura
del problema.
Ecco come Oscar Lewis30, esperto in povertà, lo affronta:
Una certa confusione dipende anche dalla tendenza a dirigere l’attenzione e le ricerche
sulla personalità individuale delle vittime della povertà, anziché sulla comunità e sulle
famiglie degli slums e quindi da una mancata distinzione fra la povertà e quella che io
ho chiamato la «cultura della povertà». Questa è una frase che ha avuto successo e
che quindi è stata usata sia propriamente che impropriamente nella letteratura
corrente. Nei miei scritti la frase vuole indicare un modello concettuale specifico per
descrivere in termini positivi una subcultura della civiltà occidentale, subcultura che ha
una propria struttura e una propria ragione d’essere, un modo di vivere tramandato di
generazione in generazione attraverso la famiglia. La cultura della povertà non è
semplicemente un fatto di privazione o di disorganizzazione, termini tutti che
significano la carenza di qualcosa. È una cultura nel vero senso antropologico
tradizionale della parola, in quanto offre a esseri umani un modello di vita e ha quindi
una funzione significativa di adattamento. Questo stile di vita trascende i confini
nazionali e regionali e le differenze urbano-rurali all’interno delle nazioni. Dovunque si
manifesti, i suoi portatori mostrano notevoli somiglianze nella struttura familiare, nei
rapporti interpersonali, nel modo di spendere, nei sistemi di valori e nell’orientamento
temporale.
In questo modo Lewis - nei suoi studi alla riscoperta della povertà - ne fabbrica una
personale fenomenologia, ricercando il contenuto di fondo del povero:
Insieme all’alienazione dalla società più vasta, c’è una ostilità verso le istituzioni di
base di quella che è considerata la classe dominante. La polizia è odiata; il governo e
le persone in buona posizione sociale godono scarsa fiducia; vi è uno scetticismo che
si estende anche alla Chiesa. La cultura della povertà contiene quindi un potenziale di
protesta e di possibile adesione a movimenti politici volti a mutare l’ordine esistente...
Qual è l’avvenire della cultura della povertà? Dobbiamo distinguere fra quei Paesi in
cui essa interessa una sezione relativamente piccola della popolazione e quelli in cui
ne costituisce una larga parte.
Negli Stati Uniti, le soluzioni principali proposte da assistenti sociali che trattano con i
poveri «irrecuperabili» sono state tese a migliorare gradualmente il loro livello di vita
e favorire una loro assimilazione ai ceti medi. Quando possibile, è stato consigliato un
trattamento psichiatrico31. Nei Paesi sottosviluppati, in cui grandi masse di persone
vivono nella cultura della povertà, soluzioni di questo tipo non sembrano applicabili.
Gli psichiatri locali hanno il loro tempo totalmente assorbito nel trattamento di
individui appartenenti ai crescenti ceti medi32. In questi Paesi le persone appartenenti
alla cultura della povertà potranno probabilmente cercare una soluzione più
rivoluzionaria. Con il creare cambiamenti strutturali di base nella società,
ridistribuendo la ricchezza, organizzando i poveri, dando loro il senso di appartenere
alla società e di esercitare un ruolo di potere e di avanguardia, le rivoluzioni spesso
riescono ad abolire alcune caratteristiche di base della cultura della povertà, anche
quando non riescono ad abolire la povertà stessa.
Una conferma è nell’analisi che Oscar Lewis fa della scomparsa della cultura della
povertà dopo la rivoluzione cubana:
Nel 1947 mi assunsi il compito di uno studio negli slums dell’Avana. Di recente ho
avuto l’occasione di rivisitare lo stesso slum e alcune delle stesse famiglie. L’aspetto
fisico del luogo era cambiato solo di poco, se si eccettui un bellissimo asilo d’infanzia
comunale nuovo. Le persone erano povere come prima, ma mi colpì il fatto di trovare
un molto minor grado di disperazione e di apatia, così sintomatico negli slums urbani
degli Stati Uniti. Questo slum era ora altamente organizzato, con comitati di fabbrica,
comitati per l’educazione, comitati di partito. Le persone avevano trovato un nuovo
senso di potere e di importanza in una dottrina che glorifica le classi povere come la
speranza dell’umanità e di più erano armati. Un funzionario cubano mi disse che il
governo di Castro aveva quasi eliminato la delinquenza con il dare armi ai delinquenti!
La grossolanità dell’analisi non arretra neppure di fronte a una realtà che si presenta
agli occhi dello stesso Lewis come qualitativamente diversa. La cosa non serve a far
mutare le sue ipotesi o le sue conclusioni: basta chiudere con una battuta, così come si
prevede concluderà lo studio che attualmente ha in corso all’Avana con un’équipe di
colletti bianchi nordamericani, che vogliono analizzare la trasformazione della cultura
della povertà, in una povertà all’interno di un progetto comune.
Per non trovarsi in contraddizione con la sua ipotesi, afferma più oltre:
E più avanti:
È vero d’altra parte che io ho trovato uno scarso spirito rivoluzionario e scarse tracce
di ideologie radicali fra i portoricani poveri. La maggior parte delle famiglie studiate,
erano politicamente conservatrici e circa la metà erano in favore del partito
repubblicano che rappresenta l’opposizione di destra al partito popolare repubblicano
che domina la scelta politica della comunità.
Nella scelta degli esempi, Oscar Lewis non pare rendersi conto che nel confronto fra il
Lumpenproletariat cubano e quello portoricano c’è di mezzo una rivoluzione socialista. I
portoricani di cui parla qui Lewis rappresentano, nel mondo degli Stati Uniti, la larga
fascia improduttiva per il cui controllo è stata dichiarata la guerra alla povertà. I «poveri
armati» dell’Avana sono invece i soggetti di una rivoluzione ancora in atto che rovescia i
termini del suo astratto concetto di cultura della povertà.
Il problema del controllo delle nascite nei Paesi del Terzo mondo presenta - sotto la
facciata di un intervento umanitario d’avanguardia - la medesima ambiguità. Ambiguità
che risulta palese nella cinica dichiarazione di L.B. Johnson: «Cinque dollari investiti nel
controllo delle nascite, produrranno più benefici nell’America Latina di cinque dollari
investiti nello sviluppo economico». Il ritmo del progressivo aumento della popolazione in
zone sottosviluppate, entra dunque in conflitto con i disegni imperialistici dei gruppi che,
per sopravvivere, devono mantenere regimi borghesi-latifondisti che impediscono lo
sviluppo e l’industrializzazione. Il controllo delle nascite ritarderebbe indefinitamente lo
sviluppo latino-americano. Come per ogni problema, anche questa questione potrà essere
considerata soltanto, una volta rotta la sua funzionalità nel quadro imperialista: in caso
contrario si continuerebbe a illuderci di risolvere il doppio del problema, senza neppure
vederne la faccia reale.
È ancora la situazione dei negri negli Stati Uniti: essi diventano meno minacciosi
quando se ne riconoscono i diritti e se ne ammette l’esclusione. Ma ciò non significa che si
assista a un reale processo di trasformazione: attraverso le ideologie che ne sono state
fatte, il negro, il malato di mente, il deviante, il povero - facce diverse dello stesso
problema - sono riconosciuti dalla nuova sociologia come «parte integrante» del sistema
sociale. Ma non si tratta della conquista di una loro partecipazione attiva. Essi diventano
solo strumenti utili all’intera società, in questa funzione di appartenenza all’«unica classe
media» in cui è sempre più difficile individuare differenziazioni e distanze, ridotta com’è a
una dimensione omogenea, totalmente controllata da un centro di potere sempre più
ristretto.
L’inverno scorso, al Metropolitan Museum di New York, fu allestita un’enorme mostra
fotografica dal titolo Harlem on my mind, in cui veniva ricostruita la carriera del negro,
dai tempi della sua importazione come schiavo a oggi. Con una lucida analisi
immaginativa la mostra era l’espressione della nuova obiettività del potere. Oggetto di
sfruttamento nel lavoro al suo primo apparire nel continente americano, il negro continua
a essere, nelle fasi successive della sua convivenza con i bianchi, oggetto di liberazione
dalla sua stessa schiavitù, oggetto di folklore, oggetto di pietà e, infine, di eversione. In
un intelligente gioco di luci, Harlem on my mind - dopo una ricostruzione pietosa e
nostalgica del dolore e della tristezza dell’anima negra - mostrava alla fine i capi delle
Pantere Nere, da un lato, e i negri integrazionisti dall’altro.
Nell’illusione ottica di un’obiettività reale - elemento tipico della libertà americana -
Harlem on my mind confermava ancora una volta l’assoluta padronanza del potere sul
suo schiavo, del quale eversione e integrazione assumono un significato equivalente.
In fase di capitalismo avanzato l’ideologia della diversità che sanciva l’inferiorità
dell’altro attraverso l’affermazione della propria superiorità, non è dunque più necessaria:
la finalità principale essendo ora il controllo totale. La stessa ideologia della società
malata di Fromm, con la quale si era successivamente tentato di occultare le
contraddizioni del capitale, è stata abbandonata. Nella fase di totalizzazione successiva,
la distanza fra sano e malato è venuta infatti riducendosi: da un lato, venendo
riconosciuta una forma di produttività anche alla malattia33; dall’altro, venendo la
produzione ad assumere man mano la forma del controllo sociale.
Il processo di razionalizzazione è particolarmente evidente nel campo delle devianze,
ancora in fase di sviluppo. L’ideologia della devianza viene fatta coincidere, negli Stati
Uniti, con il problema del deviante, identificando la devianza «primaria» (che corrisponde
all’esclusione dalla produzione) con una devianza «secondaria» di carattere ideologico: lo
stigma.
Se si analizzano le interpretazioni più attuali al proposito, quelle ad esempio proposte
da Jurgen Ruesch, esse possono così riassumersi:
L’analisi storica della malattia mentale e della sua scienza, può chiarire il processo
attraverso il quale - a cicli successivi - si è isolato il malato dall’istituzione in cui viene di
volta in volta identificato, per rioggettivarlo in un’istituzione successiva.
Le catene degli alienati, spezzate da Pinel, avevano liberato il folle dalla
identificazione della pazzia con la delinquenza, consentendo alla psichiatria di
«inventare» - attraverso l’individuazione della soggettività del malato - l’oggetto di sua
pertinenza: l’istituzione psichiatrica come rifugio e protezione per il malato. È tuttavia su
questo terreno «liberato» che il malato mentale diventa successivamente l’oggetto delle
prime indagini della nuova scienza che, riconosciuto il paziente nella sua dignità umana -
quindi come soggetto da svincolare dal livello di oggettivazione in cui si presentava -
viene nuovamente fissato nel ruolo che gli riservano le teorizzazioni via via elaborate.
Chiuso dai limiti delle codificazioni nosografiche, rigide e invalicabili come le mura delle
istituzioni deputate alla sua cura, il malato mentale continua a essere prigioniero del suo
liberatore.
È su questo terreno scientifico - il cui sviluppo si rivela contemporaneo alla prima
rivoluzione industriale - che l’istituzione psichiatrica, nata come luogo di protezione e cura
del malato di mente, si tramuta nel luogo istituito per la protezione della società, dagli
elementi che ne disturbano l’andamento sociale. L’istituzione psichiatrica non è più il
luogo dove si definisce l’oggetto della psichiatria, ma dove si relegano gli indesiderabili,
con motivazioni spesso per lo più estranee alla malattia.
Il ciclo sembra ancora una volta compiuto e l’istituzione è ritornata al suo carattere
segregativo. La psichiatria ha perduto il suo oggetto che continua faticosamente a
costruire e che le continua a sfuggire, e si pone alla ricerca di una nuova istituzione che
non sia più limitata fisicamente a una struttura meramente spaziale. In epoca di
rivoluzione postindustriale, gli scienziati dell’alienazione - consorziati con gli studiosi delle
scienze sociali - stanno organizzando un pool cibernetico dell’alienazione, a difesa
dell’uomo e della sua malattia; andando alla ricerca di un nuovo campo di indagine in cui
ritrovare un nuovo oggetto, in una istituzione totalizzata che sarà ora l’intera società.
La relazione presentata da Jurgen Ruesch34 al congresso Towards a healthy community
a Edimburgo nel settembre del 1969 e che qui riportiamo integralmente, sembra chiarire,
con lucida obiettività, la situazione cui siamo arrivati. Si tratta di una relazione che fu
tema di discussione al congresso, dove erano invitati centocinquanta «esperti» che
dovevano esaminare le condizioni «innaturali» del «nuovo mondo» e studiarne i rimedi,
attraverso nuove forme di manipolazione di tipo interdisciplinare. Ciò che si propone ora è
di aggiustare il tiro, una volta individuato il bersaglio successivo: la creazione di una
scienza nella quale l’uomo possa trovare rifugio, garanzia e protezione dal leisure world in
cui il capitale lo costringe.
L’INABILITÀ SOCIALE. IL PROBLEMA DEL DISADATTAMENTO NELLA SOCIETÀ
di Jurgen Ruesch
La scena contemporanea
Gli hippies
Fra i marginali vi sono alcuni teenager e giovani adulti. Essi non somigliano ai genitori o
ai nonni, che erano stati allevati in un’economia di penuria e guidati secondo etiche
protestanti fondate sul lavoro.
L’attuale generazione di giovani vive in un mondo opulento, non ha mai lottato per la
sopravvivenza economica e rifiuta i valori fondati sul denaro, potere, successo. Essi si
ribellano alla società dei consumi, disprezzano i beni materiali e perseguono il
raggiungimento della propria realizzazione personale e l’esperienza interiore. Il loro
interesse per le finezze della percezione e l’immaginazione è stato avvalorato dall’uso di
droghe che danno un’apertura mentale. Questi hippies o semihippies hanno abbandonato
i sistemi della società tecnologica. Difendono la vita semplice e alcuni vivono in comuni,
caratterizzate da un’opposizione all’organizzazione ufficiale dello Stato. Si oppongono alla
registrazione dei matrimoni, delle nascite, e a sottoscrivere a qualsiasi forma di
previdenza sociale, allo scopo di mantenere l’anonimato di fronte allo Stato. In molti casi
gli hippies vivono dell’assistenza e rappresentano, per la loro condotta antigienica,
malattie veneree e spaccio di droga, un pericolo per la salute pubblica.
La nuova élite
Il centro della società postindustriale è formato da persone che dispongono di abilità
simboliche - sia verbali che matematiche - e che possono usare tali abilità nel campo
della propaganda, nella programmazione di computer, nel controllo delle finanze e nella
strutturazione dell’ordine sociale. La caratteristica che distingue il monopolio simbolico
moderno, rispetto a quello delle classi acculturate del passato, è che il suo nuovo compito
richiede intelligenza. Quando, dopo le rivoluzioni americana e francese, le classi inferiori
oppresse cominciarono a elevarsi, le loro mire erano - necessariamente - di natura
materialistica. Successivamente la generazione più giovane cominciò ad aspirare alle
prerogative della precedente aristocrazia: poter condurre una vita d’ozio, possedere
tenute; occuparsi di filosofia, civiltà antiche, arte, musica e comportamento elegante. La
conoscenza, allora, era relativamente semplice e acquistare la capacità di agire garantiva
la sopravvivenza nella società industriale. Ma ora che la macchina si è sostituita al lavoro
servile e possediamo sorgenti di energia illimitata, le abilità fisiche sono diminuite di
importanza, mentre il pensiero razionale e l’adito all’informazione sono diventati
fondamentali. Sfortunatamente però, non tutti sono provvisti di un’intelligenza adatta ad
affrontare sistemi simbolici complessi, né vivono dall’infanzia in ambienti atti a favorire
uno sviluppo di tal genere.
L’individuo disturbato
Violazione delle convenzioni del tempo. Queste risultano abbastanza chiare. I limiti di
tolleranza da parte del sistema dei funzionari statali, per esempio nello Stato della
California, indicano che l’assenza per più dell’11 per cento del tempo di lavoro non è
tollerata (tab. 3).
Infrazioni dello spazio e delle proprietà. In ogni società ci sono luoghi riservati al culto, al
divertimento, al lavoro, al commercio; all’interno della maggior parte delle abitazioni ci
sono suddivisioni definite come stanza da letto, soggiorno, bagno e cucina. Ma alcuni
individui non rispettano la distinzione abituale fra spazio pubblico e privato, o fra spazio
adibito a uso specializzato o generico.
Conclusioni
Disturbi mentali e
17.000.000 9,7
affettivi
Disturbi cardiaci e
circolatori, compresi
11.917.000 6,8
i disturbi
cerebrovascolari
Artriti e disturbi
11.250.000 6,4
reumatici
Impedimenti acustici 6.000.000 3,4
Disturbi neurologici 4.250.000 2,4
Diabete 1.500.000 0,9
Cancro (calcolati sotto
785.000 0,5
cura)
Totalmente ciechi
350.000 0,2
(legale)
–––––––––––––– –––––
Totale 53.052.000 30,3
Tabella 3.
Tolleranza nei confronti dell’assenza dal lavoro
Fonte: Personnel Transactions Manual, California Civil Service System
%
Giorni
Sfera: del tempo
di assenzaa
lavorativo
Del centro 12b 4,8
Allargata 15c 6
Del centro e allargata 27 10,8
–––––––––––––––––––––––––––
% del bilancio annuo
1. Il problema: Chi è diventato un problema, per chi, in che cosa, quando, dove? E quale
tipo di assistenza richiede?
2. L’etichetta: Quale etichetta si deve apporre al problema in questione, e quali probabili
conseguenze questa etichetta comporta?
3. La popolazione che presenta problemi: Quali sono le caratteristiche delle persone che
abbisognano di assistenza? E che cosa si sa sulle persone che in passato presentarono
problemi analoghi?
4. La situazione problematica: Quali tratti caratterizzano tutta la situazione problematica?
Che cosa provoca, stabilizza o risolve tali situazioni?
5. I limiti di tolleranza: Qual è l’ampiezza del comportamento accettabile, in questo
particolare sistema sociale, e quali ne sono i limiti di tolleranza?
6. Le risorse: Che genere di risorse istituzionali, fisiche, economiche e di mano d’opera
sono potenzialmente disponibili per questo caso?
7. Le aspettative: Quale tipo di aiuto è accettabile da parte dei diseredati, e quale tipo di
aiuto il sistema sociale è pronto a dare?
8. L’intervento: Quale tipo di aiuto è utile in questa situazione? Chi deve portarlo,
quando, dove e per quanto tempo?
9. Misure preventive: Che cosa si deve fare individualmente, collettivamente o
organizzativamente per impedire il ripetersi di una tale situazione?
10. Addestramento ed educazione: Come deve essere addestrato il personale per
apportare l’aiuto richiesto? Come deve essere addestrata la gente che presenta
problemi per accettare l’aiuto?
Il deviante come problema reale, diventa l’ideologia della devianza che, a sua volta, si
concreta nella sistematica proposta di istituzioni a essa deputate, sempre più rispondenti
alla necessità di manipolazione, presuntivamente risolutrice, attraverso il falso dilemma
di «società anemica o comunità terapeutica». Il mondo di Ruesch è l’immensa società
anemica come comunità terapeutica, dove l’interclassismo apparente esprime la forza di
un centro di potere sempre più ridotto; una specie di nuovo feudalesimo tecnocratico.
I manipolatori di questa realtà - i tecnici delle scienze umane - propongono come
alternativa alla società anomica il trattamento dell’uomo e dei suoi conflitti. Le tecniche,
ottenute dagli ultimi orientamenti interdisciplinari della psichiatria, sono il risultato della
confluenza di tutte le scienze umane che si privano del loro «oggetto» - l’uomo - e ne
realizzano il recupero attraverso la produzione, l’organizzazione controllata, la
manipolazione dei suoi conflitti. il nuovo potere centrale - sempre più ridotto e sempre
più esteso - può dominare sotto l’apparenza della protezione, violentare sotto l’apparenza
della cura. La durezza della realtà viene superata dall’illusione che sia stata finalmente
raggiunta una pacificazione fra gli uomini - nuovi servi - ai quali dovrebbe risultare facile
e «naturale», attraverso le tecniche del consenso generale, trovare una motivazione
collettiva, che non può che essere la motivazione del signore. La totalità della servitù
costituisce il nuovo concetto di signoria: il nuovo padrone non è che la totalità dei servi.
Ma c’è il pericolo di sfuggire alla situazione in una sorta di coscienza esistenziale che
richiude in una nuova oggettivazione il ciclo iniziato; di illudersi di poter uscire dal gioco,
tentando di costruire un’organizzazione non organizzata che si mantenga al di fuori del
«potere» e delle sue istituzioni. Quello che un gruppo di persone, rifiutando la
mistificazione della nuova interdisciplinarietà psichiatrica, propone in Inghilterra, è
appunto un’azione antipsichiatrica svincolata dalle limitazioni e dalle influenze delle forze
istituzionali.
Riportiamo qui alcuni passi di un’intervista fatta ad alcuni componenti di quello che è
ormai noto come il network di Londra:
Un’altra voce definisce così la finalità e il significato del network: David Cooper che,
assieme a Ronald Laing, è uno dei fondatori di questo movimento:
DAVID COOPER Il network è un gruppo di persone, in stretta relazione tra di loro, che
operano con un unico progetto e con un’unica finalità. Questa finalità consiste nel trovare
il modo di integrare la pazzia nella società. Siamo cioè semplicemente persone correlate
l’una all’altra che cercano di trovare il modo di vivere con la propria pazzia. Kingsley Hall
è uno dei posti nel mondo dove posso andare, se ho qualcosa che mi disturba, perché
posso trovarvi gente che non interferisce con me e che allo stesso tempo è disponibile nei
miei confronti se ho bisogno di essere circondato da calore umano. Non mi spaventerei,
né sarei imbarazzato qualunque cosa facessi o dicessi. È un posto dove potrei stare in
pace. Ci incontriamo insieme ad altra gente e cerchiamo di ottenere accomodamenti,
come per esempio abitazioni dove, se qualcuno «impazzisce», può farlo con sicurezza,
senza interferenze psichiatriche.
Ho trovato impossibile lavorare negli ospedali psichiatrici del National Health Service,
perché - prima di tutto - all’interno del National Health Service c’è il modello medico con il
ruolo del medico definito molto chiaramente e quello del paziente definito altrettanto
chiaramente. Il medico sostiene che il paziente è pazzo e la cosiddetta sanità del medico
dipende dalla cosiddetta pazzia del malato. Ognuno conferma l’altro reciprocamente. Si
tratta di una situazione terribile, nella quale chi vi partecipa viene rinchiuso in definizioni
che impediscono ogni tipo di realtà umana e ogni realtà esperienziale. Questo è tutto. Ma
credo sia importante, perché mi sembra un lavoro rivoluzionario prima della rivoluzione.
Penso che, in precedenti situazioni rivoluzionarie (in nazioni che hanno già fatto la
rivoluzione) questo lavoro non sia stato fatto. Non c’è modo di esaminare le relazioni
umane prima, all’inizio, durante e dopo la rivoluzione.
Questo è ciò che cerchiamo di fare: basarci su poche esperienze-guida molto
importanti. L’altro fatto è che nelle istituzioni dello Stato borghese burocratico troviamo
sempre ripetizioni della forma familiare, così che l’ospedale psichiatrico si presenta come
una grande famiglia, in senso terribile e non definito. Siccome siamo arrivati a capire, in
questo scorcio di secolo, che la famiglia è l’origine, la genesi focale della pazzia, in
particolare della pazzia chiamata schizofrenia, se noi riproponiamo la forma familiare
nelle istituzioni, questo è il modo più semplice per perpetuare la pazzia, in continuazione
e per sempre.
DOMANDA Come pensate di comunicare la vostra esperienza al di fuori del vostro gruppo
di lavoro?
DAVID COOPER In termini di allargamento a macchia d’olio, con l’estensione del network
ad altri network. Abbiamo già contatti con molte migliaia di persone attraverso gli
approcci dei vari network. Ma penso che la cosa principale sia la pubblicazione di libri che
riflettano la nostra esperienza in un modo o nell’altro e, inoltre, l’uso dei mass media,
radio, televisione ecc.
DOMANDA Quale parte pensa abbiano i devianti in un reale processo di trasformazione?
DAVID COOPER Ritengo che la cosiddetta devianza, nel senso di psicopatia e pazzia, sia di
fatto un tentativo di raggiungere uno stato di salute mentale. La maggiore parte della
gente finisce negli ospedali mentali perché sta cominciando a star meglio, non perché
comincia ad ammalarsi. In questo senso credo che dobbiamo riconoscere ogni segno
incipiente di salute e non rendere invalida la gente per questo. Come la più recente
sociologia medica ha dimostrato, la devianza è di fatto creata dal sistema che etichetta e
categorizza. Io penso sia tempo di smetterla con le etichette.
DOMANDA Nel mondo anglosassone, pensa che fra i devianti, l’azione - per esempio -
degli hippies sia in grado di formulare o di proporsi come un nuovo valore da
contrapporre alla vecchia società?
DAVID COOPER Penso che la maggior difficoltà del movimento hippy sia la tendenza a
ripetere il modello familiare. Se guardiamo agli hippies, in questo momento in Europa,
essi tendono a dipendere in modo diretto, mistificato dai genitori; intendo dire con aiuti
economici che sostengono ciò che fanno, nonostante la loro apparenza di povertà. Inoltre
penso che la forma della tribù hippy sia una ripetizione della forma familiare: sono
presenti nelle comunità hippies le stesse forme di gelosia, le stesse barriere dell’incesto.
Io penso che dobbiamo essere orientati macrosocialmente oltre che microsocialmente.
Dobbiamo avere un centro di coscienza rivoluzionaria e una linea rossa, nel senso di un
attivismo politico. almeno per quanto mi riguarda.
ROY BATTERSBYPenso che il network sia una manifestazione molto importante della crisi
economica e sociale che travaglia l’Inghilterra oggi. Ma penso che questa crisi si manifesti
in sezioni della società che vi reagiscono in modo che non è né economico né politico. In
altre parole, la crisi si mostra prima di tutto nella classe media e, per quanto ne so, il
network ha e ha avuto a che fare per lo più con gente della classe media che attraversa
certi tipi di difficoltà e di disturbi. Si tratta di persone che, da un lato possono «fare il
salto», diventare hippies o, se si trovano invece in una profonda crisi del self, possono
prendere questa strada, se riescono a trovarla. Credo che il network sia composto per lo
più da gente con un certo sviluppo intellettuale che, sin dall’inizio, è stata molto sensibile
alla crisi in via di sviluppo. Persone che hanno potuto vedere nelle loro discipline, come
per esempio la psichiatria, tutte le contraddizioni del sistema, scritte - se vuole -
nell’ospedale psichiatrico o nella stanza di consultazione. Nel loro tentativo di trovare
qualche soluzione alternativa, diversa da quella loro imposta dal sistema, è emerso il
network che è quindi espressione della crisi.
Ritengo che la teoria del network sia limitata, anche se le sue maggiori analisi teoriche
vanno lontano e la gente del network capisce molte delle maggiori contraddizioni del
capitalismo. Ma quello che non capiscono e che non vogliono capire, o verso il quale
prendono una posizione ostile, di tipo marcusiano, è che. la sola forza in grado di
rovesciare il sistema è ancora la classe operaia. L’unico modo per risolvere le sue
contraddizioni, ovunque si trovino (negli ospedali, nelle scuole, nelle fabbriche) è che
queste contraddizioni siano risolte in un nuovo periodo di sviluppo, attraverso una
rivoluzione sociale totale.
Per come capisco io, loro prendono una posizione simile a quella di Marcuse, secondo
la quale la classe operaia è stata comprata da venticinque anni di cosiddetta stabilità
capitalistica: si interessa solo della macchina, del frigo, del tappeto ecc. e credono che la
classe operaia non sia più una forza rivoluzionaria perché essenzialmente non è più
sfruttata. Penso che questo sia il nodo centrale su cui convergono tutte le insufficienze
del network e che per questo siano costretti ad assumere posizioni riformistiche, volenti o
nolenti.
Resta vero che la psichiatria capitalistica è un altro modo per tenere la gente nel suo
ruolo. Marx ha detto che creiamo cose sempre più utili e gente sempre più inutile. E
penso che in un sistema capitalistico la psichiatria svolga la funzione di recuperare la
gente al lavoro il più velocemente e a minor prezzo, per quanto riguarda gli uomini, e il
più efficacemente possibile, per quanto riguarda le loro prestazioni. Bene, ora disponiamo
di una psichiatria che è sempre più in linea con la possibilità di scegliere le persone che
mostrano segni di rivolta, rivolta di solito formulata e capita molto male. È, in un certo
senso, una reazione di orrore, un alzare le mani e dire: «No, non posso». Chiunque faccia
questo, un adolescente, un operaio di fronte a una macchina, una donna di casa che vive
facendo le pulizie e che cerca di allevare i suoi figli. chiunque dica: «No, non posso» entra
immediatamente nella sfera d’azione della psichiatria e verrà trattato in modo punitivo.
Ciò è dovuto certamente all’organizzazione psichiatrica, almeno per come è praticata per
lo più in Inghilterra. Se tu sei un paziente del National Health Service e non puoi
sostenere un trattamento privato e manifesti una crisi del self, ti verranno quasi
certamente date delle medicine, quasi sicuramente - se la crisi è un po’ grave - sarai
sottoposto all’elettroshock. Puoi essere fortunato se riesci ad avere un po’ di cura di
parole, quando lo psichiatra ti spiega qual è il tuo problema. Ma questo non cambia
niente, ed è molto importante notare che il mezzo per valutare i risultati di un
trattamento fisico in Inghilterra, il criterio con il quale viene giudicato il successo della
terapia, è la velocità con la quale si rimanda la gente al lavoro e in famiglia. Si tratta cioè
di una specie di riverniciatura: la vernice è consumata, noi la rimettiamo a posto e
ributtiamo la persona nella società per essere nuovamente usata.
La critica di Roy Battersby al network, in quanto presenza critica nel contesto sociale
inglese, esprime una delle contraddizioni di questo nuovo tipo di istituzione che rifiuta di
istituzionalizzarsi. La certezza del linguaggio di Briskin e Redler e la fiducia in questa
nuova forma di rapporto, trovano in David Cooper e Roy Battersby la consapevolezza dei
limiti di questo tipo di intervento, che non può prescindere dall’accorciarsi della
«distanza» fra il terreno istituzionale e la società globale.
In questo punto si inserisce l’analisi di Ronald Laing, dove l’impotenza individuale si fa
sempre più cosciente e dolorosa, di fronte a ciò che si va concretando come la nuova
ideologia della totalità:
DOMANDA Quale posto pensa occupi la psichiatria nel contesto politico generale?
RONALD LAING Dipende da cosa si intende per politica e da cosa si intende per psichiatria.
Per politica io intendo il sistema di controllo e la lotta per il potere: la lotta per il controllo
e il potere non solo sui mezzi di produzione, ma sulle persone, che sono elementi
essenziali in modo considerevole anche se non esclusivo. Penso che la psichiatria sia una
branca della politica, in quanto è una tecnica che la nostra società ha sviluppato negli
ultimi cento anni. La moderna psichiatria è, infatti, un’invenzione dei tedeschi, come
mezzo per esercitare un controllo sulla gente; sulla gente che vede cose che non
dovrebbe vedere, pensa cose che non si vuole che pensi o esprime idee che non si vuole
che abbia. Nel manuale di stregoneria, per esempio, sulla persecuzione delle streghe da
parte dei domenicani («The malius malifi- caruam») le eresie sono definite come «idee
sbagliate, contrarie all’ordine del mondo, che i perseguitati rifiutavano di cambiare e di
ammettere come erronee». Questa non è una citazione esatta, comunque non mi sembra
troppo imprecisa. Leggiamo su un testo psichiatrico come è definito un delirio: idee
sbagliate che la persona rifiuta di cambiare e, naturalmente, si fa riferimento alla
ragione. Anche l’eresia deve essere irrazionale, perché se l’eretico si affidasse alla
ragione è chiaro che la ragione non può portare nessuno fuori strada!. La psichiatria è
quindi un modo di limitare, contenere e possibilmente eliminare le eresie secolari,
espresse nelle azioni di una persona e gli psichiatri spesso sono preparati ad andare
molto al di là delle azioni personali e scovare anche ciò che uno tiene per sé. Penso ci sia
un altro tipo possibile di psichiatria, a vantaggio dell’individuo, a vantaggio della società.
di una società immaginabile come un’associazione di uomini liberi che vivono assieme,
senza sfruttarsi l’un l’altro. Ma poiché la psichiatria è ora diventata una disciplina molto
potente all’interno del nostro capitalismo avanzato, tecnologico e industriale dell’Europa
occidentale e dell’America, essa ha un posto preciso nell’organizzazione del controllo
necessario a mantenere in vita questo sistema. Per cui, in un certo modo, gli psichiatri
sono una forza politica di élite. Di solito non portano l’uniforme; hanno quasi sempre
rinunciato anche al camice e sono tecnologi sempre più spaventosamente efficaci nel
controllare il comportamento che è fuori dal controllo, fuori dal controllo di altre persone
e dell’individuo stesso. Questo comportamento può non essere necessariamente dannoso
se uno lo guarda da vicino né per sé né per gli altri in senso immediato, ma risulta
minaccioso per il mantenimento del sistema. Un comportamento che sia sentito come
minaccia per l’attuale natura del sistema, deve essere «trattato» in un modo o in un
altro: quindi si dice o che la persona è responsabile del proprio comportamento e deve
essere punita (e si parla di criminali e di delinquenti); o gli diamo un certo spazio e
diciamo che questa persona non è responsabile del proprio comportamento, nel qual caso
deve essere curata. Ma se curi qualcuno, ciò significa che sei delegato dalla società a
esercitare su un essere umano un potere persino più grande di quello che eserciti se lo
punisci. Poiché ci sono limiti a ciò che si può fare a un carcerato in prigione, ma non ci
sono limiti al trattamento cui si può sottoporre un malato in ospedale.
Mai come oggi - diceva Artaud introducendo Il teatro e il suo doppio - si è parlato
tanto di civiltà e di cultura, quando è la vita stessa che ci sfugge. E c’è uno strano
parallelismo fra questo franare generalizzato della vita, che è alla base della
demoralizzazione attuale, e i problemi di una cultura che non ha mai coinciso con la
vita, e che è fatta per dettare legge alla vita. Prima di riparlare di cultura, voglio
rilevare che il mondo ha fame e che non si preoccupa della cultura; solo artificialmente
si tende a stornare verso la cultura dei pensieri che si rivolgono verso la fame43.
Ma se, nel nostro mondo occidentale, è l’intellettuale il falso Messia - per usare le
parole di Cooper - che fa sorgere la speranza e poi la fa scomparire, ciò significa che
l’azione del Messia si mantiene nei limiti della realtà- ideologia continuamente prodotta e
trasformata dal capitale, senza intaccare, rispondere e incidere sul praticamente vero. In
questo caso la colpa non è della speranza, come sostiene un po’ contraddittoriamente
Cooper nell’au- spicarne comunque un successivo appuntamento, ma del falso Messia che
fa nascere, di volta in volta, una nuova falsa speranza, limitata a sempre nuovi gruppi di
manipolatori che - in nome di una ideologica avanguardia rivoluzionaria, si trovano a
partecipare (come movimento di punta all’interno del processo e della logica che si
illudono di combattere) al centro ridottissimo del potere. Su questo terreno ideologico-
reale, ciò che nasce come rottura ideologica-reale, non può che riproporsi come nuova
arma di dominio, all’interno di una logica che tende a usare le contraddizioni e diversità
che essa stessa produce, tentando di razionalizzarle a un successivo, ulteriore livello. Ciò
che produce il falso Messia non è dunque solo una «masturbazione mentale» come dice
Cooper riprendendo le parole di Carmichael, ma una realtà che si limita a essere
capovolta rispetto a quella che vuole distruggere, nel senso che conserva - con segno
opposto - lo stesso carattere non dialettico della realtà ideologica su cui cerca di incidere.
Se non è sul praticamente vero che l’intellettuale agisce, la sua azione resta una risposta
ideologico-reale in un contesto ideologico-reale, dove le contraddizioni sono, ancora una
volta, razionalizzate in nome di una speranza metafisica che rimanda a un domani
sempre inseguito e mai raggiunto, la Soluzione46.
Altrove, nell’agosto del 1970, Fidel Castro, di fronte allo scacco dei dieci milioni non
raggiunti nella zafra, parla al popolo cubano dei problemi della loro realtà pratica:
Siamo stati incapaci di dare battaglia simultaneamente su più fronti. Lo sforzo eroico
per accrescere la produzione, per aumentare il nostro potere di acquisto si è tradotto
in una serie di scompensi per l’economia. I nostri nemici dicono che ci troviamo in
difficoltà e in questo i nostri nemici hanno ragione. Dicono che abbiamo dei problemi,
e hanno ragione. Dicono che c’è del malcontento, e hanno ragione. E se alcune cose
che diciamo il nemico le sfrutterà e questo ci procurerà profonda vergogna, benvenuta
sia questa vergogna, benvenuto il dispiacere se sapremo trasformare la vergogna in
forza, in spirito di lavoro, in dignità, in impulso morale!. Abbiamo alcuni debiti con la
povertà, il sottosviluppo, anche con le sofferenze del popolo. Quando ci troviamo di
fronte a una madre che ha dodici figli, tutti in una sola stanza, e che hanno l’asma e
questo e quest’altro: quando vediamo qualcuno che soffre e che chiede, quando
vediamo la realtà con i nostri occhi, e la realtà qui è determinata dal fatto che
mancano un milione di alloggi, perché le famiglie possano avere case decorose. Un
milione! Con tutto quello che si deve fare per ottenere un milione di case!. Come
risolvere la contraddizione fra le nostre urgenti esigenze nella situazione che abbiamo
appena illustrato rispetto alla crescita della popolazione, della forza di lavoro e alla
richiesta di braccia che esiste da noi? Come ci arrangeremo da oggi al 1975 e poi dal
1975 al 1980? È semplice: non abbiamo altra alternativa che risolvere questo
problema e dobbiamo risolverlo! Non ci resta che risolverlo!
Sono parole troppo semplici per le nostre menti corrotte dai concetti. Parole
demagogiche per i nostri diversi, divisi individualismi dove le teorie non servono alla vita,
ma la vita serve a confermare le teorie. Progetti troppo ingenui per i nostri giudizi
smaliziati, abituati al gioco delle ideologie e alle illusioni dell’autocritica. Ma qui si tenta,
forse, di rispondere al praticamente vero, in una realtà «più aspra, ma anche più onorata
e degna», in cui le contraddizioni sono ritenute costitutive della realtà, che deve essere
affrontata e non soltanto definita e organizzata.
È anche questa una falsa speranza, proposta da un falso Messia?
Per noi, prigionieri di una vita che deve apparire priva di contraddizioni e di conflitti,
questo messaggio è la speranza di una realtà vera, dove non si possano risolvere
ideologicamente le contraddizioni che continuano a conservare la faccia drammatica e
vitale della necessità. Vittoria e sconfitta, successo e fallimento sono termini che
scompaiono all’interno di una lotta comune per una vita umana. Ciò che si vuole per
l’uomo non è la divisione e la definizione delle doti, dei privilegi, dei premi e delle
punizioni: ma una vita che presenti per l’uomo lo stesso carattere totalizzante che il
capitale tende a creare per sé: il più e il meno unificati in un unico rispetto e valore, la
vita di tutti.
La maggioranza deviante è ora l’ultimo ritrovato ideo- logico-reale del nostro mondo
produttivo. Ciò che deve salvarsi è la produzione: se tre quarti del mondo risulta abnorme
rispetto a questo valore dato come assoluto, sono ancora i tre quarti del mondo a
deviare. Ma la totalizzazione cui tende il capitale comporta anche una totalizzazione di ciò
che il capitale tende a totalizzare: cioè la sua contraddizione. Se i limiti del capitale sono
il capitale stesso, ciò significa che la totalizzazione cui tende dovrebbe coincidere anche
con la totalizzazione della sua morte: con la possibilità di una devianza totale dalla sua
logica che sfugge alla sua razionalizzazione nel momento stesso della totalizzazione. Sta
in noi continuare a scoprirne il processo sul terreno pratico, continuando a scindere il
doppio ideologico-reale con cui esso continua a trasformare la realtà per farla identificare
con la sua natura.
L’articolo di Gianni Scalia che chiude il libro vuole essere la testimonianza di una
collaborazione fra persone, provenienti da storie e da terreni specifici diversi, unite e
divise da discussioni e perplessità che hanno reso impossibile una coesione tale da
consentire di amalgamare e definire in termini comuni il loro pensiero. L’inserimento di
questo articolo è dunque la ricerca della possibilità - nel nostro contesto sociale fondato
sulla netta divisione dei ruoli - di una contemporaneità fra analisi teorica e analisi pratica,
dove la teoria sia la comprensione globale della realtà pratica e, insieme, prefigurazione
e progettazione di un’altra realtà che la trascenda; e la pratica la base su cui fondare e
verificare ogni progettazione teorica. Il tentativo è in parte riuscito e, in parte fallito.
Riuscito per quel tanto che, provenendo da terreni specifici diversi, è stato possibile
verificare reciprocamente sul piano teorico-pratico e pratico teorico, la validità del
discorso e dell’ipotesi da cui si era partiti. Fallito perché in questa ricerca non si è ancora
riusciti - per la divisione che scinde ciascuno di noi - a trovare un linguaggio, una pratica,
un progetto che siano realmente comuni. I margini di riserva che ci separano sono ancora
l’oggetto della nostra ricerca, del nostro desiderio di ricerca comune, spesso frustrato
dalla nostra incapacità a superare ciò che ci separa, quando manca un’azione pratica che
si unisca.
F. e F.B.
LA RAGIONE DELLA FOLLIA47
di Gianni Scalia
«De quoi se forme la plus subtile folie que de la plus subti- le sagesse.» La citazione da
Montaigne (e ogni citazione è una interpretazione, ha scritto una volta Lukacs) potrebbe
essere l’inizio del discorso. Che cosa è la ragione? Che cosa è la follia? Scienza della follia
non è contraddizione in termini? E storia della follia non è contraddizione in atto?
Foucault, come è noto, ha potuto fare la storia «strutturale» di ragione e follia, cioè di
Medesimo e Altro, come di incompatibilità compatibili.
La storia della ragione «moderna» e «borghese» è la storia della ragione-follia. Parlare
della ragione è parlare della follia e viceversa. La ragione si afferma e si nega; è se
stessa come altro e altro come se stessa. Si scopre come ragione e non-ragione, o meglio
come ragione capace di comprendere e spiegare la sua «parte» folle. Per Hegel la
ragione «illuministica», è, insieme, lotta contro il mito e fabbricazione del mito di se
stessa, critica e dogma di se stessa: antisuperstiziosa e autosuperstiziosa. Se la ragione
come intelletto si afferma e si nega, è necessaria una ragione come ragione, cioè una
ragione dialettica che spieghi la sua irrazionalità, si riconosca come risultato e non come
presupposto.
La ragione diventa ragione della follia. Comincia la storia moderna della ragione.
Dicevamo: parlare della ragione è parlare della follia, e viceversa. La ragione moderna
scopre di non essere più sovrana, di dividere il suo «regno» con una parte di sé che è
follia; si pone di fronte alla interrogazione sul suo fondamento, sulle capacità di
razionalizzare la dialettica interna di ragione e di non-ragione.
Dopo la Fenomenologia, le citazioni dall’Hegel «maturo» della Enciclopedia sono
d’obbligo. I teoremi definitivi hegeliani possono funzionare da «luogo» logico-storico della
ragione moderna (non più analitica ma dialettica) in tutte le sue forme: celebrazione e
sconfitta, dimostrazione e profezia, anticipazione e conclusione. Richiamandosi proprio a
Pinel, il primo «scienziato» della follia, Hegel scrive:
Hegel è all’inizio e, per così dire, alla conclusione del nostro discorso: la ragione si
contesta e si costituisce nella sua contestazione, la follia è riconosciuta in sé ed è
appropriata dalla ragione. Nella dialettica unitaria di reale e razionale è spiegata la
dialettica di razionale e irrazionale.
Con la critica positiva di Hegel la follia si presenta nei suoi «diritti» di non-ragione e la
ragione si presenta nei suoi «doveri» verso la follia. La risposta a Hegel è la critica
«negativa» della «sinistra» hegeliana, di Schopenhauer o di Kierkegaard, più tardi di
Nietzsche, infine di Freud: la prosecuzione radicale della «potenza del negativo», che
mette in crisi l’autogiustificazione della ragione. È l’esercizio del «sospetto» di fronte alla
ragione «dialettica-troppo-dialettica», la lacerazione delle maschere, il metodo
antisistematico della «genealogia» o della spiegazione «rovesciata» della ragione da
parte della non-ragione.
Ma l’antidialettica resta dentro «l’incanto» della dialettica. La ragione moderna
continua a prodursi e a riprodursi come interpretazione di sé; continua a costruire, nelle
forme razionali e irrazionali, lo spettacolo del suo potere e della sua impotenza, delle sue
riuscite e dei suoi fallimenti, della sua costruzione e della sua distruzione - fino alla
«distruzione della distruzione» che può concludersi nella «scolastica» della riforma e della
eversione, della negazione e dell’utopia, nella violenza presente e nel sogno dei
«futuribili».
Con Freud la ragione moderna compie la sua autocritica, diventa una ragione
ermeneutica. La follia non è più l’altro da sé ma l’altro di sé, della ragione: è la stessa
ragione «trasformata». La rivoluzione freudiana è in questa concezione della ragione
come metamorfosi; non più come a priori o risultato, ma come il «lavoro» stesso dell’Altro
nelle sue trasformazioni.
La ragione si pone la domanda sulla sua validità interpretativa e, insieme, sulla sua
funzione «repressiva»; si pensa non come sapere assoluto ma come «sapere tragico»,
come conoscenza della inevitabilità dei propri conflitti. Si interroga, si mette in questione
come tale, non si giustifica. La follia è all’interno dei sedicenti razionali e sani. Si
introduce la concezione della ragione «decifrante». Non una dottrina o una tecnica
soltanto, ma una ermeneutica della società, della «civiltà», della stessa natura umana. La
ragione freudiana è analogica, non logica, archeologica, non tautologica. È la ragione
rimossa del «rimosso». Si esprime in una serie di rivendicazioni che sono umiliazioni;
definisce se stessa come l’ultimo, e più grave, «colpo di Stato» contro l’«amor proprio»
della ragione e il «narcisismo universale» (dopo l’umiliazione cosmologica e biologica).
L’uomo non è più «sovrano nella propria anima», deve far posto a «ospiti stranieri», «l’io
non è più padrone in casa sua».
L’esplorazione di questo conquistador (e non solo uomo di scienza), di questo
rimescolatore dell’Acheronte, di questo archeologo che ha «dissotterrato un’altra Troia,
che si credeva mitica», non si ferma di fronte alla lucidità prima, al coraggio rassegnato,
spinge la ragione alla sua interna disgregazione, alla scoperta della presenza dell’Altro
immanente, che non è se non la «coscienza normale» rimossa e trasformata, decifrata
nei suoi meccanismi. La serie delle umiliazioni è enorme: abdicazione al privilegio e al
prestigio coscienzialistico, dissociazione di cogito e coscienza, decentramento radicale del
«soggetto», spiegazione del normale da parte del patologico, relazione di processi
psichici e processi «anormali», liquidazione della discriminazione di sano e malato.
Freud ha distrutto la presunzione della scienza della follia, come scienza positiva e
ragione «affermativa»: la presunzione che riconosce la follia per misconoscerla. La follia è
«dentro» noi stessi, si esprime in noi stessi; si espone, perennemente, alla
interrogazione: come rendere l’alienazione disalienante, come liberare la storia dell’uomo
che è storia della repressione, come spiegare il fallimento e la riuscita della lotta contro
la repressione?
Ma la ricerca di Freud è nella forza della decifrazione e della interrogazione
interminabile, e nel pericolo immanente che la stessa ricerca sia sopraffatta dalle
«potenze» della rimozione e della repressione, nella difficoltà permanente della
sostituzione della domanda con una risposta definitiva, della «sovversione» della ragione
e dell’accettazione «terapeutica» della ragione ermeneutica.
Certo, con Freud, non si può opporre ragione e follia; non si può considerare la follia
come parte esterna della ragione. La follia è parte interna, ed è à part entière. Di fronte
alla scienza della follia, al sapere «oggettivo», Freud ha posto il problema di un’altra
scienza, di una scienza dell’interpretazione. Ha dissociato follia e malattia: la malattia
non è follia nel senso di essere la ragione come irrazionalità, e la follia non è malattia nel
senso di essere l’irrazionalità come ragione. Il problema della follia e della malattia è il
problema del rapporto alla «verità» come senso, del modo di apparire, del luogo e del
linguaggio della verità, cui si deve dare la parola - e la cui parola deve essere decifrata. Il
punto di partenza non è «scientifico» (nel senso di psichiatrico). Freud affonda il metodo
nella struttura stessa dell’uomo come essere diviso, contraddittorio, «decentrato», in cui
si può riconoscere il discorso dell’Altro come discorso di sé e viceversa, si possono
riconoscere i meccanismi «incarnati» della rimozione e della repressione.
La ragione ermeneutica è la decifrazione «compromessa» della struttura
contraddittoria dell’uomo condannato ad «alienarsi» altrettanto nelle difese protettrici
della salute che nelle peripezie (labirinti e abissi) della malattia; è la scoperta del
discorso dell’Altro, della dialettica del Desiderio che si postula e si annulla, si sviluppa e si
arresta, progredisce e regredisce, si costituisce nella sua «circolarità» spezzata.
Se la follia è parte interna della ragione, o meglio della «natura» dell’uomo, non viene
dall’esterno e non è silenziosa. La follia parla nel suo linguaggio. Il compito dell’analisi è
di riconoscere nella follia il «suo» linguaggio, di essere in ascolto, di parlare l’«essere
parlato», di restituire o condurre alla verità della parola, di comprendere e far
comprendere il «geroglifico». L’analista, più che scienziato della follia, è colui che dà la
parola alla parola, e permette la prise de la parole. Come dice Lacan, la «rivoluzione» di
Freud è nella costituzione di un’altra scienza come interpretazione della parola dell’Altro,
di una concezione della verità come «senso», non come adaequatio, rappresentazione,
creazione soggettiva. Freud è il contrario di Esiodo, per cui le malattie, mandate da Zeus
sugli uomini, sono «silenziosa» sofferenza, sono mute, perché Zeus ha loro rifiutato la
parola. Freud «ha preso la responsabilità di mostrarci che ci sono le malattie che parlano
e di farci intendere la verità di ciò che dicono».
Questa responsabilità ermeneutica è, insieme, la più alta e la più difficile: è la ricerca
delle «tracce» del senso inscritto nel nostro corpo, nei sogni, nei miti, nell’infanzia, nei
ricordi, nella lingua, nella civiltà, nella nostra sofferenza incarnata; la comprensione di un
discorso che «ritorna» a noi nella sua forma inversa; lo sforzo supremo di ascoltare senza
rispondere con una parola-statuto o verdetto, di mantenere aperto il discorso dell’altro
come discorso dell’Altro, di impedire le «oggettivazioni» scientifiche, razio- nalizzatrici,
repressive e oppressive.
Il limite della ragione ermeneutica si riproduce. È un limite interno (interno-esterno)
alla ragione stessa. La ragione moderna e borghese nella sua autocritica si riconcilia con
se stessa, confonde l’Altro con un «ordine simbolico» e non identifica l’Altro con il
«praticamente vero» del «mondo rovesciato»; non si sottrae al suo «ricupero», operato
non solo (come è stato detto) dalle «puissances refoulan- tes» dei modi di pensare
tradizionali, ma dalla sua stessa difficoltà autocritica; non sottrae, infine, il suo «Wo Es
warr, soll Ich werden» alla autoalienazione - se è vero, come ha scritto il più grande
discepolo, che il fine (proposto all’uomo dalla scoperta di Freud) «est de réintegration et
d’accord, je dirai de réconciliation». La riconciliazione è il risultato della «analisi
terminabile e interminabile»?
Così la responsabilità ermeneutica diventa una dottrina, la interpretazione si converte
in una tecnica di salute (o di salvezza). La ragione psicanalitica ha dato la parola alla
follia, ha tentato di scoprire i meccanismi del suo linguaggio, si è costituita come una
«linguistica» dell’Inconscio. La ragione critica ha riconquistato criticamente i suoi diritti (la
«direzione della cura», le tecniche terapeutiche, i transfert- controtransfert
istituzionalizzati); la ragione «archeologica» si è ricostituita come ragione «teleologica»,
per diventare una ermeneutica come rivelazione della «realtà dell’anima», una
decifrazione della relazione alla verità come Daseinana- lyse o Lebenswelt, o un sapere
tragico come sociologia riformatrice della «società malata», o una lettura «pan-glotti- ca»
della società borghese-capitalistica che si autoregola.
La ragione si è «decentrata», non si è superata. Di fronte alla follia si è ristabilita come
dialettica interna di ratio e irratio, come strategia «binaria» e combinatoria di salute e
malattia. L’Altro è un Altro «diacritico», sia come «differenziale», sia come «refoulé». E di
qui la querelle post-freudiana, i rigori e le facilità del «freudo-marxismo», le sicurezze e le
ambiguità del «revisionismo», contro cui si batte Lacan, l’ottimismo delle tecniche della
integrazione, dei patterns di comportamento, dell’adattamento psico-sociologico, il ritorno
alla tecnocrazia medica, o le continuazioni socio-politiche utopistiche.
Il passaggio freudiano ha lasciato le sue tracce ed è entrato a far parte delle nuove
dotazioni scientifiche della ragione nel suo «progresso». È un caso che Lacan, nel suo
«ritorno a Freud», tra Goethe e Giovanni, abbia scelto l’evangelista: è il Verbo che è
all’inizio, e non l’Azione?
Si transita dalla ontologia del patologico (patologico come essere) alla simbolicità del
patologico (patologico come «significare»): la follia è una comunicazione, una attività o
funzione simbolica. La ragione trova i suoi rimedi. La scienza della follia diventa una
scienza della cultura-società come «sistema simbolico» (sistema delle relazioni
reciproche); si pensa, cioè, come le «rappresentazioni» della follia da parte della ragione
che critica se stessa, interiorizza le proprie «alienazioni», afferma l’immanenza, in se
stessa, dell’altro di sé.
Si passa dall’ordine delle «cose» a quello delle relazioni, dall’ordine delle «cause» a
quello delle «funzioni»; dall’ordine dell’ontologico all’ordine del linguistico. La realtà è
linguaggio, discorso articolato nelle sue componenti e nelle sue funzioni, processo di
comunicazione simbolico, definito nel suo codice e nei suoi messaggi, «offesi» o
«disturbati» ma «significativi» nel sistema delle differenze funzionali. La ragione critica è
diventata simbolica, linguistica, se- miologica; è drammatica e catartica, problematica e
consolante; ha scoperto la propria irrazionalità e la definisce in una relazione interna di
ragione e di non-ragione; ha scoperto la propria radicalità, consapevole di essere una
ragione che non discrimina ma «distingue», taglia e compone, spiega secondo un metodo
funzionale-strutturale, secondo un sistema di differenze, di opposizioni-distinzioni.
È una ragione critica, riformatrice; tollera le proprie intollerabilità e progetta le proprie
intollerabilità in classificazioni e istituzioni. La coscienza della «miseria della psichiatria»
conduce alla necessaria «riforma della psichiatria».
La nuova scienza della follia propone le modificazioni degli strumenti, delle tecniche, della
finalità tradizionali. Le società dello «sviluppo» promuovono le riforme, come espressione
della coesistenza funzionale di malati e sani appartenenti alla stessa società riformata.
La follia e la malattia, come «significanti-significati», non sono più cercate nelle
«cause» (il corpo, la mente.) ma nelle «strutture»; non sono più fatti, ma atti o azioni
simboliche, parte - senza «trascendenze» dall’alto o dal basso - dei sistemi culturali-
sociali. Non sono più natura ma cultura.
Sono scomparse le contraddizioni? Da un lato esistono comprensione e tolleranza,
dall’altro rimangono ossessioni e tabù, paure «arcaiche», interdizioni e restrizioni,
meccanismi del «capro espiatorio». Alla razionalizzazione interessano meno, comunque,
le contraddizioni che le differenze. Si tende a disalienare la alienazione e si producono
nuove alienazioni; si ammorbidiscono o sfumano i confini tra normalità e anormalità e si
definiscono nuove «linee di colore»; si diffonde l’uso delle tecniche psichiatriche,
psicanalitiche, psico-sociologiche; si estende il «morbocentri- smo» e la generale
psichiatrizzazione. Si moltiplicano le tendenze del riformismo istituzionale, progrediscono
le tecniche terapeutiche, individuali e di gruppo, si affermano le soluzioni della
prevenzione e della postcura. Si modificano l’assistenza psichiatrica, il regime asilare e
manicomiale; cresce l’euforia del «progressismo» scientifico-tecnico delle definizioni, del
trattamento (dall’ergoterapia alla psicofarmacologia), delle possibilità innovatrici nelle
istituzioni (comunità aperte, reali o simbolici abbattimenti di «muri», iniziative di
autogestione, di istituzioni extraospedaliere, di cure a domicilio ecc.) Si parla di medicina
e psichiatria sociali, di «settorizzazione», di «centri di igiene»; si manifestano nuove
ambizioni conoscitive (dalla medicina psicosomatica alla biochimica cellulare) o nuovi
progetti tecnico- pedagogici («egualitarizzazione» delle relazioni terapeutiche,
democratizzazione delle comunità psichiatriche ecc.)
Tradizione e innovazione, resistenze e fervori progressisti si mescolano in un clima di
entusiasmo riformistico o di tranquillità istituzionale, di passione polemica e di mon-
danizzazione delle esperienze pilota.
A cominciare dalla fine degli anni Quaranta si estende a livello europeo e americano il
nuovo riformismo psichiatrico, fondato sullo sviluppo sociale, sulla diffusione delle
pratiche «programmatrici», sull’attenzione agli aspetti sociologici della malattia mentale.
Anche in Italia; ma qui la situazione è più difficile, sia dal punto di vista scientifico che
legislativo e pratico-istituzionale; spesso le nuove tendenze sono ostacolate da diverse
ragioni: il «vuoto» scientifico, le contraddizioni dello sviluppo, l’assenza dell’esperienza
psicanalitica nella cultura psichiatrica e medica, la resistenza dell’establishment
accademico e istituzionale, l’indifferenza o l’ostilità del potere, e dell’opposizione politica.
I precedenti più importanti, nell’ambito della psichiatria del dopoguerra, soprattutto
nel senso istituzionale, sono, come è noto, nelle proposte di Maxwell Jones.
Dall’esperienza - ancora più che dalla teorizzazione - maxwel- ljonesiana derivano, in
larga parte, la definizione di malattia mentale come risultato dell’esclusione sociale e
della regressione istituzionale, l’impostazione del rapporto medico-malato non più in
termini diretti, ma mediati attraverso la democratizzazione delle relazioni all’interno della
istituzione e attraverso la ricerca della «consapevolizzazione» e «responsabilizzazione»
dei malati, l’analisi degli elementi di «permissività», di «confronto con la realtà», di
«comu- nitarietà». La modificazione del regime manicomiale viene compiuta mediante la
consapevolezza dell’istituzione psichiatrica come «comunità» gerarchica, autoritaria,
repressiva, che deve essere, invece, continuamente gestita-modi- ficata con la «libertà di
comunicazione» a tutti i livelli, l’esame collettivo degli «eventi», il community meeting, la
messa in atto di tecniche psico-dinamiche, la modificazione dei «ruoli», in un processo di
social learning, considerato come lo strumento più importante della tecnica terapeu- tico-
comunitaria.
La cosiddetta «terza rivoluzione» psichiatrica è promossa, come dicevamo, dalla
scienza, rinnovatrice delle sue conoscenze e delle sue istituzioni, e dalla società
«democratica» del capitalismo organizzato. Di fronte al «riformismo» del potere, che è la
nuova forma della tolleranza, della funzionalizzazione e del controllo, la psichiatria adotta
l’atteggiamento della critica riformatrice o l’atteggiamento della «negazione» e della
ribellione. Le teorizzazioni dottrinali e le proposte istituzionali si moltiplicano, si
distribuiscono tra fervori e denunce, «pedagogia» e nichilismo. Psichiatria sociale,
psichiatria comunitaria, psicoterapia istituzionale, antipsichiatria. Le teorizzazioni si
complicano, si scambiano le parti. Se la psichiatria comunitaria propone la riforma delle
istituzioni «dall’interno» attraverso nuove tecniche di cura, apparati medicosanitari più
complessi e «aggiornati», o attraverso una «espansione» psichiatrica con la politica della
«settorizzazione», o, infine, attraverso un’ampia azione di prevenzione; la psicoterapia
istituzionale propone (come è stato detto) una «istituzione della istituzione», la
modificazione delle istituzioni psichiatriche in «strumenti di guarigione», in comunità o
collettivi di cura, in «comunità che si guarisce», con tecniche psicoanalitiche applicate
sistematicamente, in modo da creare istituzioni non più «segregative» ma curative, nuovi
rapporti tra medici e malati e tra i membri dell’équipe curante. Le tendenze di tipo
analitico (o socio-analitico) propongono - di fronte alla negazione istituzionale
dell’antipsichiatria - di distinguere tra il rapporto «malato-medico» e il rapporto «malato-
istituzione», tra «processo» variabile e «quadro» istituzionale permanente, in modo da
affrontare le situazioni in senso «analitico», non più di tipo «duale» ma più largamente
interindividuale.
Il nuovo riformismo propone la «identità» tra salute mentale e salute fisica, tra
protezione della malattia mentale e protezione della malattia fisica, attraverso la riforma
specifica delle istituzioni psichiatriche nell’ambito delle generali strutture sanitarie, per
assicurare l’interesse della società alla malattia, per difendere e proteggere la malattia
nella società. È un discorso che si esprime in forme ed esiti diversi e contraddittori, anche
opposti: nuovo scientismo e critica della scienza-ideologia, riforma istituzionale e lotta
antiisti- tuzionale, nuova psichiatria e antipsichiatria. È necessario distinguere, e lo
faremo più oltre, parlando delle esperienze più radicali. Certo le nuove teorizzazioni
psichiatriche psico-sociologiche, fenomenologiche, neopositivistiche, strut- turalistiche da
una parte, e le esperienze d’avanguardia dell’antipsichiatria dall’altra sono diverse; ma si
confrontano, si mescolano, si confondono. Ancora una volta si trovano di fronte la nuova
scienza e l’antiscienza, la tendenza neoscientista e la tendenza critico-negativa. Per l’una
si tratta di ridefinire l’oggetto della propria conoscenza, per l’altra di «negare» l’oggetto
della propria conoscenza. Per entrambe si tratta di riconoscere che il proprio oggetto non
è specifico ma generale, cioè sociale. Cioè che l’«oggetto» è «simbolico» della società.
Come vedremo più oltre, proprio nel riconoscimento della «simbolicità» sociale - invece
che nella critica del rapporto sociale «rovesciato», e, perciò «simbolico» - l’enciclopedia
moderna delle «scienze umane» si pone come una specifica-generale Teoria del Sociale.
Per le scienze umane moderne i diversi oggetti delle conoscenze non sono più oggetti,
reali o formali, ma «segni» della società e della «organizzazione» sociale; e le diverse
conoscenze si pongono come modi dell’analisi sociologica, nel rapporto reciproco di
riforma della scienza, riforma della società, riforma delle istituzioni.
Non c’è dubbio che la psichiatria come «scienza umana» abbia realizzato, in forme
diverse, la modificazione della psichiatria tradizionale. Si è negata la concezione della
malattia mentale come «dato» biologico o realtà organica; si è negata la «oggettività»
causalistica; si è eliminata la pretesa «oggettività» delle definizioni nosologiche. La critica
è stata compiuta da diversi punti di vista: psicanalitico, fenomenologico-esi- stenziale,
antropo-analitico, socio-psicologico, linguistico-se- miologico. Si sono cercate le «radici»
della follia e della malattia nei processi-comportamenti comunicativi, nei sistemi simbolici
culturali-sociali, nelle realizzazioni dei comportamenti individuali e di gruppo, negli status
e nei ruoli, nei condizionamenti e nelle stratificazioni socio-economiche, nei caratteri
«nevrotici» della società industriale, nella «miseria» psichica dell’uomo moderno. Si sono
cercati i criteri del normale e dell’anormale nelle «funzioni» del sistema (norma-
deviazione e controllo della deviazione); si sono collegate nevrosi e classi sociali, psicosi
e parentela, schizofrenia e famiglia, schizofrenia e relazione «madre-bambino».
È il nuovo «umanesimo scientifico»: le tendenze socio- psicologiche di tipo americano,
o quelle simbolico-struttura- liste di tipo francese-europeo; le correnti del
comportamentismo «linguistico», del gestaltismo sociologico, della psicanalisi
«culturalistica». Sono le nuove forme del «totalitarismo» psicologico (come è stato
detto), dell’«operazionismo» sociologico e istituzionale, della tecnocrazia medico-
psichiatrica, che propongono nelle nuove tecniche integratrici la «reificazione» delle
«strutture». Secondo l’opinione delle esperienze radicali antipsichiatriche, di cui dovremo
parlare, sono le nuove forme della violenza «sottile». «Nella misura in cui la psichiatria
rappresenta gli interessi o i pretesi interessi dei sani, la violenza nella psichiatria è
essenzialmente la violenza della psichiatria», ha scritto David Cooper.
Fare la storia della follia vorrà dire condurre uno studio strutturale dell’insieme storico
- nozioni, istituzioni, misure giuridiche e poliziesche, concetti scientifici - che tiene
prigioniera una follia il cui stato selvaggio non può ormai essere recuperato in se
stesso; ma, in mancanza di questa inaccessibile purezza primitiva, lo studio strutturale
deve risalire verso la decisione che lega insieme e separa ragione e follia; esso deve
tendere a scoprire lo scambio perpetuo, l’oscura radice comune, il fronteggiarsi
originario che dà senso all’unità, come all’opposizione, del sensato e dell’insensato.
La storia della follia sarebbe la storia dell’Altro - di ciò che, per una cultura, è interno
e, nello stesso tempo, estraneo e perciò da escludere (al fine di scongiurare il
pericolo) ma includendolo (al fine di ridurne l’estraneità); la storia dell’ordine delle
cose sarebbe la storia del Medesimo - di ciò che, per una cultura, è a un tempo
disperso e imparentato, e quindi da distinguere mediante contrassegni e da unificare
entro l’identità.
La struttura fondamentale della follia è iscritta nella natura stessa dell’uomo, in una
discordanza primordiale tra l’Io e l’Essere che esige dall’uomo che egli scelga di essere
uomo. La follia è vissuta tutta nel registro del senso. La sua portata metafisica si
rivela in questo, che il fenomeno della follia è inseparabile dal problema della
significazione per l’essere in generale, cioè del linguaggio per l’uomo. Lungi dall’essere
il fatto contingente della fragilità dell’organismo [dell’uomo], la follia è la virtualità
permanente di uno «spacco» operato nella sua essenza. Lungi dall’essere per la libertà
un «insulto», la follia è la sua più fedele compagna, segue il suo movimento come
un’ombra. E l’essere dell’uomo, non soltanto non può essere compreso senza la follia,
ma non sarebbe l’essere dell’uomo se non portasse in sé la follia come il limite della
sua libertà.
Perché se l’opera di Pinel ci ha, grazie a Dio, resi più umani contro la follia «comune»,
bisogna riconoscere che non ha accresciuto il nostro rispetto per la follia dei rischi
supremi.
A questo punto la follia ci riappare come costitutiva della ragione; l’Altro non è più
«ridotto», ma «irriducibile». Se, nello strutturalismo positivo, la ragione della follia
consiste nella follia razionalizzata; in Lacan, consiste nella ragione che porta in sé lo
«spacco» permanente della follia, come ragione «resa folle». (Viene in mente Nietzsche,
per cui «si deve diventare folli per sbarazzarsi della ragione e avere l’ultima parola»; o
Pascal, per cui «gli uomini sono così necessariamente folli che il non essere folle
equivarrebbe a esserlo secondo un’altra forma di follia».)
5. Le esperienze radicali
La ragione critica, l’autocritica della ragione, la crisi della ragione sono il destino del
sapere moderno.
Di fronte alla follia, la ragione moderna ha assunto tre atteggiamenti: riconoscendo la
follia come parte di sé e negazione dell’«ordine» razionale, ha negato questa negazione e
ha finito per escludere la follia da sé, dalla storia, dalla società; ha dubitato di se stessa,
del suo fondamento, della sua legittimità e «sovranità», della sua possibile
giustificazione; o, infine, ha concluso nel riconoscere nella follia un problema non più
teorico ma pratico, non più conoscitivo ma reale. È sempre rimasta, tuttavia, chiusa nel
suo circolo ermeneutico o simbolico, nella scoperta, cioè, di essere sé come altro in
quanto altro come sé. Certo, il «tragico» costituisce la ragione moderna. Contro la
ragione razionale di Hegel (per ritornare all’inizio del nostro discorso), la ragione degli
anti-Hegel, di Nietzsche o di Freud, è la definizione della ricerca che si sa tragica nella
relazione alla verità: l’analisi «interminabile», o la «volontà di potenza». È la situazione
terribile (secondo Nietzsche) della ricerca dell’uomo, vittima di una colpa non commessa,
o «soggetto» (secondo Freud) di un Altro che lo costituisce; dell’uomo che assume su di
sé non la pena ma la colpa, e supera il limite stesso della sua «fatalità» costitutiva.
Nella tragica condizione umana, conoscitiva e vitale, il tragico è immanente nella
stessa «simbolizzazione», nel circolo ermeneutico senza fine, nel conflitto delle
interpretazioni, nelle risposte o decisioni metaermeneutiche che riconducono al circolo
senza fine. Il tragico dei «tempi moderni» è la consapevolezza del tragico («conoscere è
una tragedia», diceva Nietzsche), il tentativo di trasformarlo, o «appropriarlo», in scienza
dell’azione, in coscienza guarita, in «innocenza del divenire», in società liberata dal
proletariato. Ma il tragico «ritorna» come interpretazione (e non rivoluzione), come
accettazione rassegnata dell’Ananke, come gioco dionisiaco nella «prospettiva» delle
verità, come dissociazione di Kritik e proletariato. E abolire il tragico fa concludere in una
nuova tragedia: l’atroce parodia della «critica dell’economia politica». Dicevamo che la
ragione moderna ha riconosciuto nella follia, come parte di sé, un problema pratico e
reale; ma, ancora in modo simbolico. Continua a giocare su un sistema di «differenze» o
di «alterità», cioè in una dialettica della propria contraddittorietà. Bisogna riprendere - al
di là delle sue incarnazioni - la critica dell’economia politica come critica totale: critica
della società esistente, della sua interpretazione e della sua stessa «trasformazione»
mancata. Scriveva il giovane Marx nei Manoscritti del ‘44:
Scienza e antiscienza della follia hanno compiuto fino in fondo il loro esercizio critico e
autocritico?
Gli «strappatori di maschere» sono arrivati al corto circuito della mistificazione-
demistificazione; gli eversori sono arrivati alla «riproduzione» riformistica della eversione.
Fino ai gesti supremi dell’autocritica, dell’autoaccusa, dell’au- tocondanna. Ma ci si è
abituati alla stessa denuncia come autocorrezione, alla esorcizzazione dei «portatori di
germi», alla progressiva immunologia alle contestazioni, all’abilità di fabbricare insieme
allarmi e apparecchi di sicurezza. Il sistema contraddittorio si rivela anche come un
processo di omeostasi e di entropia.
La scienza e l’antiscienza riescono a rispondere, anche se i giochi non sono «fatti»?
Cos’è la follia? Cos’è la malattia, come sintomo, segno, simbolo? È reale la negazione
scientifica, l’appello al discorso politico?
Come all’inizio della «rivoluzione psichiatrica», a Bice- tre o alla Salpetrière o a Hawell,
come ai tempi di Pinel, Tu- ke, Rusch o Connoly, scienza e pietà, téchne e caritas, analisi
e denuncia nascono e rinascono insieme. La scienza è politica, e la politica è scientifica.
Siamo ricondotti alla «storia» della ragione moderna, in tutte le sue fasi e forme, critiche
e autocritiche. Ma la critica della ragione moderna sta ancora «dentro» la critica
dell’economia politica come critica della ragione e della realtà esistenti, come scoperta
del mondo rovesciato e della complementarietà rovesciata di ragione e follia. L’abbiamo
già detto: si è fatto della malattia il «simbolo» della salute e viceversa: il simbolo del
contrario di sé e di sé come contrario, il simbolo del discorso dell’Altro o della «libertà»
alternativa. La follia è, di volta in volta, il segno dell’antisociale, del non-sociale, del
sociale alternativo.
I discorsi si concludono con una teorizzazione (il sapere positivo o negativo), e con una
tecnicizzazione (la pratica riformatrice o eversiva).
Le esperienze radicali dell’antipsichiatria e della meta- psichiatria sono, forse, la
conclusione in forma contraddittoria del dossier noir delle «scienze umane». Accusano,
senza appello, il sapere tradizionale di essere ideologia del sistema e del potere, tecnica
di controllo dei «devianti», di adattamento degli esclusi (o ribelli), di stabilizzazione dei
conflitti. La psichiatria viene condannata nella sua funzione di privilegio e di «polizia»; la
psicanalisi è contestata nella sua volontà di «risposta» e nell’abdicazione all’esercizio
della domanda, stretta tra privilegio della «relazione duale» e presunzione della
psicanalizzazione di tutta la società. Le armi della critica sono il sospetto e la protesta, la
demistificazione e la denuncia: l’una faccia dell’altra.
Non si esce dall’analisi della malattia «in sé» e della malattia come «rapporto ad altro
rapporto», tra la indefi- nibilità della malattia e la definizione della malattia come altro.
Se l’altro è «la società», tra malattia e società si stabilisce un rapporto che si capovolge
immediatamente: la malattia è postulata come indefinibile in sé e, insieme, definita come
rapporto alla società; da un lato, la società è uno dei termini della relazione, dall’altro, è
costituita come il «tutto» della relazione. La negazione della istituzione è, insieme, una
nuova istituzione «antiistituzionale», o la distruzione «anticipata» della stessa istituzione.
La negazione della specificità scientifica è la nuova specialità che consiste nella
negazione della specialità. (Sono ancora gli psichiatri che hanno l’ultima parola nella
negazione della psichiatria.) E, come abbiamo già detto, la risoluzione del discorso
specifico nel discorso generale politico, apre il problema sul discorso politico.
Ermeneutica archeologica o teleologica, terapia come anamnesi e terapia come
«profezia», scienza che teorizza il proprio statuto negativo e scienza che si ribalta in
politica. Le nuove teorizzazioni e le nuove pratiche lasciano aperti i problemi, non risolti
dalla demitizzazione e dalla ribellione. Le difficoltà si presentano come domande. Non si
possono negare con la negazione. Riforma delle istituzioni o utopia «politica» della
società sana? Cura del malato con il nuovo sapere tecnico, o «uso» politico della malattia
come potenziale eversivo? Follia come antisocietà in quanto prodotto sociale o in quanto
simbolo profetico della «nuova società»? Bisogna difendere la società contro la follia, o
non piuttosto difendere i folli dalla società? Difendere i folli, attribuendo loro «diritti di
cittadinanza», e significato «autentico», nella città riformata (del capitale totale o della
rivoluzione socialista?) oppure sostenere per così dire, l’ex- tracontrattualità della follia di
fronte al patto sociale? Pensare alla terapia come preparazione all’adattamento, o come
preparazione alla «integrazione» nella collettività rivoluzionaria (per cui il processo
«cosciente» della trasformazione della società sostituisce l’interpretazione della malattia
e costituisce l’autentica terapia)? Affermare la follia come la «differenza originaria», il
passato da interpretare; o come l’episodio determinato di una società il cui futuro è da
realizzare?
Il compito della critica è rispondere alle domande che sono problemi reali. Rispondere,
e non solo «vivere» la loro contraddizione. È una ricerca teorica, certo, da riprendere di
nuovo. Non solo la demistificazione della scienza come ideologia, o la denuncia del
sistema delle istituzioni.
Una ricerca difficile, paziente, lunga, che si deve compiere senza ricatti antiteorici e
alibi di praticismo e volontarismo attivistici. La stessa «giustezza» ed efficacia dell’azione
dipendono dallo sforzo teorico, accompagnato dalla esperienza vissuta e dall’intervento
pratico, ma non sostituibile. È sempre più evidente che sono insufficienti sia le
ideologizzazioni immediate, sia gli «impegni» politici variabili con le linee, le congiunture,
le tattiche anche anti-tat- tiche, sia le negazioni indeterminate, altro aspetto delle nuove
«positività» scientifiche e istituzionali.
Non si tratta di sospendere l’azione, o di riempire l’azione con l’elaborazione teorica (o
pseudoteorica) immediata. Si tratta di porre il problema della malattia e della follia, non
sulla malattia e sulla follia; di porre il problema della sua radice come radice della salute
e della ragione, cioè della «follia del capitale». Una metafora, certo: l’enorme metafora
del mondo rovesciato come simbolo esso stesso, come quid pro quo ontologico-sociale,
come produzione materiale e riproduzione simbolica. Il compito è risolvere la metafora;
non confondere il «concreto», il «praticamente vero», con il «simbolo», con la
simbolizzazione sociale e politica.
La dialettica, si sa, è anche pazienza e «umorismo». Come è stato detto, «una vecchia
massima della dialettica è: il superamento delle difficoltà mediante l’accumulazione delle
stesse difficoltà». Brecht ha ripetuto più volte che «per le persone prive di umorismo è
generalmente più difficile capire il Grande Metodo». E ha insegnato che l’umorismo non è
esonerato dal più acuto senso di «tragicità», di paziente impazienza, di ribellione
«durevole», di disperazione-speranza; come non è detto sia privo della consapevolezza
che il sapere tragico è una «saggezza» tragica, come ha scritto quelque part Lukacs.
Se una conclusione ci deve essere a questo scritto (e non solo nel senso «fisico»),
vuole essere affidata ad alcune citazioni che obbediscono al classico «buon uso» della
bibliografia. Una conclusione che è già-politica? Sono citazioni da un medico vietnamita, e
da un grande poeta in una sua prosa «cinese».
Confessiamo che le parole di Brecht ci hanno confortato. In quelle parole non mancano
le esortazioni pratiche, perfino i «precetti» morali; ma c’è, forse, al fondo, per le nostre
questioni, l’invito a esercitare il «grande metodo». Anche la lezione dei medici perodeutes
dell’antichità, o dei medici dai piedi scalzi, è una lezione permanente. Il «lavoratore
sanitario» di cui parla Pham Ngoc Thac ha una forza di persuasione eccezionale sia per il
medico, sia per l’«anti-medico» delle nostre società tardocapitalistiche.
Che possa, e debba parlare di politica, chi non è principe né legislatore, lo sappiamo
bene, da Rousseau in poi. Ma il problema della rivoluzione e il problema della verità sono
lo stesso problema. La rivoluzione non è solo «dire», o «fare» la verità. È essa stessa il
problema della verità. In mancanza, abbiamo teoremi o traumi.
Brecht ci dice che la figura del medico è, insieme, militante e transitoria, se deve
combattere la lotta comune contro la società di poveri, di schiavi, di malati; e che è,
anche, transitoria e permanente. La medicina è-ancora-medicina, finché ci sono «le
guerre di classe»; e non-è-ancora-medici- na nelle società delle «guerre di classe». Ci
dice che la malattia come la salute, la ragione come la follia, sono problemi della
«appropriazione» umana; che il medico deve affermarsi e negarsi nel senso più profondo:
cioè nel senso che deve riconoscere di essere «in stato di guerra», deve capire questa
contraddizione, deve capire che questa contraddizione è in noi stessi, deve rispondere al
fatto che «la vita è alienata» e che la vita alienata è la «vera vita», come diceva il
giovane Marx. E ci dice ancora altro, che non abbiamo finito di meditare.
Non sappiamo se da queste citazioni verranno anche a noi l’accusa di incompetenza e
di irrispetto scientifico. Ma ci aspettiamo anche l’«umorismo», la pazienza e la lettura
dialettica dei (pochi?) lettori dialettici.
Da Strategia di guerriglia contro le malattie, intervista di Pham Ngoc Thac (in Il
Vietnam vincerà, a cura di E. Collotti Pischel):
Si può essere animati dal desiderio di servire il proprio Paese pur continuando a
esercitare la medicina secondo le concezioni classiche: c’è allora una contraddizione
tra gli scopi che ci si propone e i mezzi usati. Per risolvere questa contraddizione,
bisogna fare un nuovo passo, acquisire quello che io definirei «coraggio ideologico» il
quale permette di cambiare l’orientamento fondamentale dell’esercizio della medicina.
C’è una lotta per così dire permanente tra le due concezioni, perfino nella pratica
quotidiana della medicina. In uno stesso medico coabitano le due concezioni. La
medicina in quanto scienza naturale, non può orientare la scelta. Ma l’esercizio
quotidiano della medicina risulta trasformato secondo la scelta fatta. Noi abbiamo
scelto la prima via. Questa scelta. è una scelta politica e non medica. Applicando nel
campo della medicina la strategia della guerra di popolo, i nostri lavoratori sanitari
hanno dato prova di una devozione senza uguali. hanno saputo assumere un’iniziativa
creatrice a tutti i livelli, sia sul piano tecnico, sia su quello organizzativo. Noi
schieriamo un’organizzazione e una concezione rivoluzionarie della medicina. In
definitiva l’uomo rivoluzionario ha vinto la tecnica brutale, nel campo medico come in
tutti gli altri.
Me-ti disse: «La divisione del lavoro è certo un progresso. Ma è divenuta uno
strumento d’oppressione. Se si dice al medico che deve essere anzitutto un buon
tisiologo, si dice con ciò che non deve occuparsi della situazione edilizia che provoca la
tisi. Si dispone la divisione del lavoro in modo tale che lo sfruttamento e l’oppressione
possano sussistervi in
mezzo, come se anch’esse fossero un lavoro cui alcuni abbiano ad accudire».
Il filosofo Me-ti si intratteneva con alcuni medici sulle cattive condizioni dello Stato e li
esortò a collaborare alla loro soppressione. Essi rifiutarono adducendo il motivo che
non erano uomini politici. Al che egli replicò narrando la storia seguente.
Il medico Shin-fu prese parte alla guerra dell’imperatore Ming per la conquista della
provincia di Chensi. Egli lavorava come medico in diversi ospedali militari, e la sua
opera fu esemplare. Interrogato sullo scopo della guerra cui partecipava, diceva:
«Come medico non posso giudicarla, come medico io vedo solo uomini mutilati, non
colonie redditizie. Come filosofo potrei avere un’opinione in proposito, come uomo
politico potrei combattere l’impero, come soldato potrei rifiutarmi di obbedire o di
uccidere il nemico, come coo- lie potrei trovare troppo bassa la mia mercede, ma
come medico non posso far nulla di tutto questo, posso fare solo quello che tutti
costoro non possono, e cioè guarire ferite». Pur- tuttavia si dice che una volta, in una
certa occasione, Shin-fu abbia abbandonato questo punto di vista elevato e coerente.
Durante la conquista da parte del nemico di una città in cui si trovava il suo ospedale,
si dice che sia fuggito precipitosamente per non essere ucciso come seguace
dell’imperatore Ming. Si dice che, travestito, come contadino sia riuscito a passare
attraverso le linee nemiche, come aggredito abbia ucciso delle persone e come
filosofo abbia risposto ad alcuni che gli rimproveravano il suo comportamento: «Come
faccio a continuare a prestare la mia opera come medico, se vengo ucciso come
uomo?»
LA MAGGIORANZA DEVIANTE
1
Quando lo psichiatra ordina che un malato venga contenuto, è la scienza che avalla e
giustifica ogni suo atto, anche se esso è esplicitamente una dichiarazione di impotenza.
2
Questo concetto di ideologia di ricambio è stato elaborato in discussioni con Gianni
Scalia.
3
Cfr. E. GOFFMAN, Mental Symptoms and Public Order in Disorders of Communication,
Research Publications, «Proceedings of the Asso- ciation for Research in Nervous and
Mental Disease», 7-8 dicembre 1962, The Williams & Wilkins Company, Baltimora 1964.
4
Si leggano attentamente le già accennate definizioni di «psicopatie» estratte dal
recente trattato italiano di psichiatria.
5
NORMAN CAMERON, The Paranoid Pseudocommunity, «American Journal of Sociology»,
46, 1943, pp. 33-38.
6
In un articolo successivo, Cameron modificò la sua concezione originale, ma non degli
aspetti sociali della paranoia, che soprattutto ci interessano. CAMERON, The Paranoid
Pseudocommunity Revisited, «American Journal of Sociology», 65, 1959, pp. 52-58.
7
CAMERON, The Paranoid Pseudocommunity cit.
8
Ibid. [il corsivo è nostro].
9
JAMES S. TYHURST , Paranoid Patterns , in Exploration in Social Psychiatry, a cura di
Alexander H. Leighton, John A. Clausen e Robert N. Wilson, Basic Books Inc., New York
1957, cap. II.
10
K.O. MILNER, The Environment as a Factor in the Etiology of Criminal Paranoia ,
«Journal of Mental Science», 95, 1949, pp. 124-32.
11
S. PEDERSON, Psychological Reactions to Extreme Social Displacement (Refugee
Neuroses), «Psychoanalytic Review», 36, 1946, pp. 344-54.
12
F.F. RINE , Aliens’ Paranoid Reaction, «Journal of Mental Science», 98, 1951, pp. 589-
94; i. listivan, Paranoid States: Social and Cultural Aspects, «Medical Journal of
Australia», 1956, pp. 776-78.
13
TYHURST , Paranoid Patterns cit.
14
EDWIN M. LEMERT , Legal Commitment and Social Control, «Sociology and Social
Research», 30, 1946, pp. 370-78.
15
Ibtd.
16
ROBERT A. DENTLER e KAI T. ERIKSON , The Functions of Deviarne in Groups, «Social
Problems», 7, 1959, p. 102.
17
JAMES L. LOOMIS, Communications, The Development of Trust, and Cooperative
Behavior, «Human Relations», 12, 1959, pp. 305-15.
18
ELAINE CUMMING e JOHN CUMMING, Closed Ranks, Harvard University Press, Cambridge
1957, cap. VI.
19
La interazione per alcuni aspetti è simile a quella usata con i bambini, specialmente
l’enfant terrible. La funzione del linguaggio in tale interazione fu studiata da Sapir anni fa.
EDWARD SAPIR, Abnormal Types of Speech in Nootka, «Geological Survey Memoir 62,
Anthropological Series», Canada Department of Mines, Ottawa 1915.
20
Per una analisi sistematica delle difficoltà organizzative nell’allontanare una persona
«non promuovibile» dal suo posto, cfr. B. LEVENSON, Bureaucratic Succession, in Complex
Organizations, a cura di Amitai Etzioni, Holt. Rinehart & Winston Inc., New York 1961, pp.
362-95.
21
Uno dei casi nel primo studio.
22
O. ODEGARD, A Clinical Study of Delayed Admissions to a Mental Hospital, «Mental
Hygiene», 42, 1959, pp. 66-77.
23
Cfr. sopra.
24
ERVING GOFFMAN, The Moral Career of the Mental Patient, «Psychiatry», 22, 1959, pp.
127 e sgg.
25
ALFRED H. STANTON e MORRIS S. SCHWARTZ, The Mental Hospital, Basic Books Inc., New
York 1954, pp. 200-10.
26
Questa tecnica, in forma ancora più sistematica, viene usata talvolta per proteggere
il presidente degli Stati Uniti nei «casi della Casa Bianca».
27
JUDD MARMOR, Science, Health and Group Opposition, documento ciclostilato, Ucla,
scuola per assistenti sociali, 1958.
28
T. PARSONS, Il sistema sociale, Ed. di Comunità, Milano 1965, p. 529.
29
Il corsivo è nostro.
30
OSCAR LEWIS, La cultura della povertà, in «Centro Sociale», n. 74-75, 1967, pp. i-ii.
Traduzione italiana dell’articolo originariamente pubblicato in «Scientific American», n. 4,
1966.
31
Il corsivo è nostro.
32
Il corsivo è nostro.
33
Vedi al proposito l’articolo di F. BASAGLIA , Il malato artificiale, «Nuovi Libri», marzo
1969, e L’utopia della realtà, di F. e F. BASAGLIA , di prossima pubblicazione nel Trattato di
antipsichiatria a cura di D. Cooper, Pantheon Books, New York.
34
Jurgen Ruesch, professore di psichiatria, University of California School of Medicine e
direttore della sezione di psichiatria sociale del Gangley Porter Neuropsychiatric.
35
Leon Redler è uno psichiatra americano che da molti anni vive in Inghilterra ed è
uno degli elementi più attivi del gruppo antipsichiatrico. Assieme a David Cooper, Ronald
Laing, Joseph Berke ha organizzato a Londra nel luglio del ‘67 il congresso La dialettica
della Liberazione.
36
Sidney Briskin è un assistente sociale che ha lavorato nell’industria, e che,
attualmente fa parte del Network.
38
Kingsley Hall è una delle principali comunità antipsichiatriche organizzate dal
Network. Ci risulta che la comunità sia stata recentemente chiusa per sfratto.
39
Roy Battersby è un regista cinematografico che, con la sua personale esperienza
pratica, porta un contributo molto valido al lavoro del network. Fra i film realizzati da
Battersby è importante ricordare People like us, trasmesso dalla televisione inglese nella
rubrica Towards tomorrow . Roy Battersby sta ora realizzando un importante
lungometraggio sulla storia del «corpo», documento nel quale vuole dimostrare come
dalla nascita l’uomo, in quanto corpo, sia sempre oggetto e mero prodotto del capitale.
40
Cfr. gli atti del congresso in Dialettica della liberazione, Einaudi, Torino 1969.
41
Cfr. LAING ed ESTERSON, Normalità e follia nella famiglia, trad. it. Einaudi, Torino 1970.
42
Il corsivo è nostro.
43
ANTONIN ARTAUD, Il teatro e il suo doppio, trad. it. Einaudi, Torino 1968, p. 109.
44
Per quanto riguarda queste due recenti discipline rimandiamo per la Polemologia
alla produzione scientifica sull’argomento di F. Pomari, che si può considerare il cultore
più autorevole in Italia. Per la thanatologia invece non siamo a conoscenza di iniziative
nazionali in merito. Riportiamo perciò una notizia riferita al proposito dall’autorevole
quotidiano francese «Le Monde» (2 aprile 1970, p. 17): «Une discipline récente: la
thanatologie. Les mutations de notre socié- té, en particulier le fait que les populations se
concentrent de plus en plus dans les grandes villes, obligent à se pencher sur les
problèmes qui entourent la mort, le funérailles, l’inhumation et à leur trouver des
solutions raisonnables.
«Dans ce but, des philosophes, des moralistes, des membres du cler- gé, des
médecins, des maires, des directeurs d’hopitaux, des spécia- listes des pompes funèbres,
des hygiénistes, des urbanistes etc. ont décidé d’établir entre eux des contacts
interdisciplinaires afin d’étu- dier tout ce qui, de près ou de loin, se rapporte à la mort.
«Créée en 1966, la Société de thanatologie (ou science de la mort) de langue franjaise
compte étudier ces divers aspects. Elle a, jusqu’à présent, consacré l’essentiel de ses
travaux au suicide, à l’euthanasie, à la peine de mort, aux greffes d’organes et aux
problèmes posés par la mort dans l’écologie urbaine.
«A cet égard, ses différents rapporteurs ont insisté à maintes reprises sur l’insuffisance
d’hygiène généralement constatée en ce qui concerne les morts, sur l’utilité de la
thanatopraxie (conservation et restau- ration des cadavres) et des “athanées” ou
“funerariums” (établisse- ments spécialement adaptés à recevoir décemment et
hygiénique- ment les morts et leurs familles pendant la période allant du décès à
l’enterrement).
«D’autres études concernant notamment l’intéret scientifique des autopsies, la
mutation indispensable des cimetières, les funérailles, la crémation, seront
prochainement entreprises. M.A.R.»
45
DAVID COOPER, in Dialettica della liberazione cit.
46
Del resto la cosa è evidente nell’uso di un linguaggio esoterico da parte di certi
gruppi di intellettuali, dove l’intellettualismo stesso diventa strumento di dominio sulla
classe che presumono di liberare. In che cosa è diverso il linguaggio esoterico di tipo
politico-rivoluzionario, rispetto a quello tecnico professionale come espressione
dell’elaborazione scientifica di un’ideologia al servizio della classe dominante? In questo
caso è la stessa incomprensibilità di linguaggio che crea e conserva la distanza e il
dominio sulla classe cui si presume di unirsi.
47
Questo scritto è apparso sul n. 5 di «Classe e Stato» (dicembre 1968) con lo stesso
titolo: nella presente stesura esso è stato sottoposto a una abbastanza profonda
trasformazione - dovuta anche alle discussioni, consenzienti o dissenzienti, con gli amici
psichiatri - pur mantenendo la propria dichiarata natura teorica.