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A mio padre,

invisibile muratore
che mi guida la penna
sulla superficie del mondo
INDICE

PROLOGO.......................................................................................................................4

CAPITOLO 1. IL CONTESTO: MOVENTE DELLA SCRITTURA.....................15


1.1 IL CONTE DI MONTECRISTO...................................................................15
1.1.1 Deserto.........................................................................................15
1.1.2 Prigione........................................................................................19
1.2 IL CASTELLO DEI DESTINI INCROCIATI..............................................34
1.2.1 Silenzio.........................................................................................34
1.2.2 Labirinto.......................................................................................49
1.3 PER UNA LETTERATURA CHE CHIEDA DI PIÚ...................................63
1.3.1 Il contesto.....................................................................................63

CAPITOLO 2. LA STRATEGIA: SCRITTURA E FABULAZIONE.....................74

2.1 SCRITTURA.................................................................................................74
2.1.1 Dall‟opaco....................................................................................74
2.1.2 Le regole e la scacchiera..............................................................86
2.2 FABULAZIONE.........................................................................................105
2.2.1 Il gioco di superficie...................................................................105
2.2.2 Lo scacco matto in Bauci ..........................................................120
2.3 INTERMEZZO SU GIANNI CELATI.......................................................133
2.3.1 La flânerie tra le tracce di aprico come recupero della
narrazione orale. Da Verso la foce a I narratori delle pianure..............133

CAPITOLO 3. LA FUNZIONE: LETTURA COME UTOPIA DISCONTINUA


E FRAMMENTARIA.................................................................................................149

3.1 I MONDI IM-POSSIBILI E IL LETTORE.................................................149

3.2 L‟UTOPIA DISCONTINUA, PULVISCOLARE E IMMANENTE: LA


LETTURA DELLE TRACCE DI APRICO COME RITORNO ALLA
NARRAZIONE DEI GIUSTI............................................................................182

EPILOGO.....................................................................................................................215

BIBLIOGRAFIA.........................................................................................................223

RINGRAZIAMENTI..................................................................................................243
Il pallone si innalza rapidamente
e scivola sopra i comignoli.
Il ragazzo guarda le case che si allontanano
e la vena del canale
che si fa sempre più esile e indistinta.
Il volo in pallone è molto bello.
Ti trasporta nei luoghi lontani dalla realtà
senza che tu lo voglia o lo possa controllare;
bisogna lasciarlo andare perché anche lui ormai,
con tutti gli anni che ha,
fa parte del cielo.
Le case sono andate in polvere,
la gente è saltata in aria,
lo hai visto anche tu,
è stata una grande paura.

Io vado in pallone,
per conto mio so come salvarmi.
Ormai soltanto l’assurdo è la speranza,
l’estrema salvezza.

G. PARISE, Il ragazzo morto e le comete


PROLOGO

Tra le Città invisibili


ce n‟è una su trampoli,
e gli abitanti guardano dall‟alto la propria assenza. […]
Penso che quel vuoto che non occupo
possa esser riempito da un altro me stesso. […]
Un me stesso che può scaturire solo da quel vuoto1.

Leggendo Le città invisibili2 di Italo Calvino si entra in uno spazio che non è di
questo mondo, si vagabonda con Marco Polo in città inesistenti e impossibili, tra
paesaggi incongrui e contraddittori, dove emergono cose fuori posto e fuori tempo.
Leggendo Le città invisibili ci si specchia nella propria assenza di fabulatori nel mondo
e si subisce un intervento sul corpo che è richiesta di farsi attivi lettori di tracce. Di
fronte a questo libro, pubblicato per la prima volta da Einaudi ormai quasi quarant‟anni
fa, gli occhi del lettore restano sconvolti, la sua testa è investita di domande: persino,
fuori dalle pagine, la città reale sembra diversa; si notano residui marginali
dall‟intrinseca carica rivoluzionaria – a livello percettivo – che prima passavano
inosservati. Li si raccoglie, si vorrebbe narrare a partire da essi.
Un iniziale confronto anche soltanto superficiale con quest‟opera esige
un‟esplorazione reiterata dello spazio letterario aperto da Calvino: è proprio il testo Le
città invisibili a richiedere intrinsecamente al lettore una sua attenta rilettura. Le pagine
sono per metà bianche, perché? Le città hanno un aspetto straniante sullo sguardo, lo
sconvolgono; per quale motivo? Perché il libro è composto da capitoli in corsivo che si
alternano alle descrizioni di città?
Il Lettore Empirico che, finite le centosettanta pagine, – mi riferisco alla stampa
einaudiana della prima edizione – voglia essere fedele a quello che ha appena letto e
voglia nello stesso tempo rispettarne il senso, non può evitare di tornare sui suoi passi,
non può lasciar da parte l‟unica richiesta da cui è investito da parte dell‟Autore
Modello, nelle ultime righe: diventare Lettore Modello. Calvino esige dal suo Lettore
Empirico che, qualora volesse farsi Lettore Modello – e questo compito,

1
I. Calvino, Situazione 1978, in Eremita a Parigi, Mondadori, Milano 1994, p. 193.
2
I. Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972.

4
responsabilmente, non può essere lasciato da parte – metta in giro una fabulazione che
sia, se non all‟altezza di quella che Marco Polo fa con i suoi racconti a Kublai Kan nei
capitoli numerati, perlomeno libera e attiva. Il motivo per cui io ho dovuto lavorare su
questo testo è che l‟effetto di questo libro è pratico: insegna una prassi della superficie.
La superficie è la pagina scritta.
Potrebbe forse sembrare tautologico, ma l‟unica ragione per cui questo lavoro su
Le città invisibili ha preso avvio è la lettura del testo: un‟esigenza interna del libro di
Calvino richiede al lettore di farsi a sua volta fabulatore, cioè di iniziare a scrivere, a
partire da quello che ha incontrato nella sua esplorazione del terreno letterario grazie al
Narratore Marco Polo. Perciò posso dire che questa tesi è una risposta che io restituisco
alla domanda che il libro mi poneva, dato che Le città invisibili sono costruite per
indurre una fabulazione che vada fuori dal testo, sul lettore. Gianni Celati, nella sua
illuminante recensione a Le città invisibili, punto di riferimento centrale in questo
lavoro, scrive, non a caso:

Lo sviluppo esterno che un testo produce, sia sotto forma di commento, come il mio, sia sotto forma di
parafrasi, sia semplicemente sotto forma di resoconto, mentalizzazione, attività discorsiva od onirica,
chiacchiera, maldicenza o delirio, è sempre fabulazione: sviluppo delle operazioni del testo fuori dal
testo3.

Le città invisibili è un testo che ha dato luogo a innumerevoli interpretazioni: c‟è chi ha
voluto sottolineare la matrice semiologica e strutturalista delle pagine calviniane4 e chi
ne ha evidenziato la postmodernità5; altri si sono soffermati sulle ascendenze oulipiane e
quindi sull‟idea di letteratura come macchina combinatoria6. Quello che ho potuto
constatare è che la critica su Calvino negli ultimi trent‟anni è passata da un estremo
all‟altro, contraddicendosi e smentendosi ogni volta, e gli studi che veramente sono stati
fedeli al testo sono pochi, tutti accomunati non tanto dall‟esigenza di piegare Le città
invisibili a una qualche teoria preconcetta, quanto soprattutto dall‟idea di far parlare il
libro e l‟autore stesso, far dialogare la sua cospicua opera saggistica con la sua narrativa.

3
G. Celati, Il racconto di superficie, in M. Barenghi e M. Belpoliti (a cura di), “Alì Babà”. Progetto di
una rivista, 1968-1972, in “Riga”, 14, Marcos y Marcos, Milano 1998, p. 192.
4
Cfr. R. Donnarumma, Da lontano. Calvino, la semiologia, lo strutturalismo, Palombo, Palermo 2008.
5
Cfr. U. Musarra-Schroeder, Il labirinto e la rete. Percorsi moderni e postmoderni nell’opera di Italo
Calvino, Bulzoni editore, Roma 1996.
6
R. Aragona (a cura di), Italo Calvino: percorsi potenziali, Manni, Lecce 2008.

5
Principalmente mi sono appoggiato a critici autorevoli come Barenghi7 e Milanini8, per
altro curatori dell‟opera completa di Calvino pubblicata nella collana dei Meridiani da
Mondadori, seguendo poi studi più specialistici come quelli di Belpoliti9, Musarra-
Schroeder10, Bertone11, Bertoni12, Calligaris13, Lavagetto14, Porro15, Dini16, Pierangeli17 e
Serra18. Notevole è stato l‟aiuto degli articoli in riviste, e degli atti di convegno, oltre ai
vari saggi contenuti in volumi collettanei. Rimando, a tal proposito, alla bibliografia
posta al termine del lavoro.
Tuttavia l‟originalità di questo studio va forse trovata altrove. Dato che la critica,
nel tempo che separa il 1972 – anno di pubblicazione delle Città invisibili – da oggi, si è
confrontata con il testo da svariate prospettive, in apparenza esaurendole, poteva
sembrare impossibile scrivere qualcosa che illuminasse il testo di Calvino di nuova luce.
Invece la pubblicazione nel 1998 su “Riga” – rivista di una piccola casa editrice
milanese, Marcos y Marcos – dei protocolli delle discussioni che proprio Italo Calvino,
con Gianni Celati, Carlo Ginzburg, Enzo Melandri, Guido Neri, Lino Gabellone e altri19
tennero tra il 1968 e il 1972 a proposito di un‟ipotesi di rivista letteraria chiamata “Alì
Babà”, e, di conseguenza, da parte mia, l‟attento vaglio del materiale qui contenuto –
prima inedito – ha permesso di studiare Le città invisibili da un nuovo punto di vista.
Questo è proprio l‟intento della tesi: proporre una nuova lettura de Le città invisibili di
Italo Calvino, forte dello studio dei protocolli di quelle discussioni: gli intellettuali
riuniti – e mi riferisco soprattutto ai due protagonisti dei dibattiti, Calvino e Celati – non
si limitarono a discutere di aspetti superficiali, ma teorizzarono una nuova idea di
letteratura, una poetica, e intorno a questa lavorarono su concetti come quelli di modello

7
M. Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, Il Mulino, Bologna 2007.
8
C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, Garzanti, Milano 1995.
9
Cfr. M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, Einaudi, Torino 2010 e cfr. M. Belpoliti, Settanta, Einaudi,
Torino 2010.
10
Cfr. U. Musarra-Schroeder, Il labirinto e la rete. Percorsi moderni e postmoderni nell’opera di Italo
Calvino, cit.
11
G. Bertone, Italo Calvino. Il castello della scrittura, Einaudi, Torino 1994.
12
R. Bertoni, Int’abrigu int’ubagu, Tirrenia stampatori, Torino 1993.
13
C. Calligaris, Italo Calvino, Mursia, Milano 1973.
14
M. Lavagetto, Dovuto a Calvino, Bollati Boringhieri, Torino 2001.
15
M. Porro, Letteratura come filosofia naturale, Medusa, Milano 2009.
16
M. Dini, Calvino critico. I percorsi letterari, gli scritti critici, le scelte di poetica, Transeuropa, Ancona
1999.
17
F. Pierangeli, Italo Calvino. La metamorfosi e l’idea del nulla, Rubbettino, Catanzaro 1997.
18
F. Serra, Calvino, Salerno Editrice, Roma 2006.
19
M. Barenghi e M. Belpoliti (a cura di), “Alì Babà”. Progetto di una rivista, 1968-1972, in “Riga”, 14,
Marcos y Marcos, Milano 1998.

6
strutturale, contesto, strategia, funzione, effetto, straniamento, lettura, poeticità del
linguaggio politico, archetipo e mito. L‟opera letteraria fu assimilata a un gioco, come
quello degli scacchi e il rapporto scrittore-lettore paragonato a quello tra i due giocatori
di una partita. Calvino qui si espose più che altrove, prese posizioni nette a proposito
della funzione politica della letteratura e dei rapporti dell‟opera con il lettore.
Del resto, che ci sia una stretta relazione tra la nascita delle Città invisibili e
queste discussioni, è reso evidente non soltanto dal periodo in cui i dibattiti ebbero
luogo, cioè gli anni tra il 1968 e il 1972 – corrispondenti agli anni di gestazione de Le
città invisibili –, ma, in primo luogo, dalle parole di Celati che vede Le città invisibili
“come parabola narrativa di tutto il progetto, sia per la questione della «distanza» come
principio logico del raccontare, che lì è addirittura paradigmatico, sia per la questione
appunto del tema delle città, che potrebbe diventare uno dei nostri temi emblematici”20
e, in secondo luogo, dallo stesso Calvino che scrive a Celati il 12 marzo 1972:

Le note che citi e chiosi da Gabellone sono per me molto sollecitanti e aspetto di vedere lo scritto di
Gabellone completo. Non solo mi possono dar spunto a nuove variazioni sulle Città invisibili, che sto per
riprendere in mano (accantonati forse definitivamente i tarocchi), ma anche per una possibile ripresa (o
meglio inizio) del mio discorso sull‟utopia 21.

Niente meglio delle parole di Gianni Celati nella nota a Il bazar archeologico contenuta
in “Riga” può spiegare il collegamento diretto tra le riflessioni compiute a Bologna da
Calvino e la nascita de Le città invisibili:

Il progetto si riferiva ad una serie di temi collegati attorno al nucleo delle tracce, dei residui, dei
frammenti di ordini invisibili che non ha niente a che fare con i criteri dell‟evidenza, né con la conoscenza
sistematica dell‟oggetto di studio. Ed è la regione dell‟archeologia, o del risvolto della storia, dove molte
discipline […] ci sembrava trovassero un terreno comune, e inoltre da dove sorgeva un richiamo verso
quello sfondo di infinite tracce eteroclite che è la città moderna. […] Alcuni mesi dopo l‟abbandono di
questo progetto di rivista, Calvino pubblicherà Le città invisibili, dove molti temi archeologici da noi
discussi verranno rielaborati in chiave più o meno semiotica 22.

Celati ancora nella lettera che invia nel novembre del 1997 in occasione della
pubblicazione dei materiali inediti in “Riga” spiega che i libri di Calvino successivi al

20
G. Celati, Lettera da Ithaca del 23 febbraio 1972, in M. Barenghi e M. Belpoliti (a cura di), “Alì
Babà”. Progetto di una rivista, 1968-1972, cit., pp. 158-159.
21
I. Calvino, Lettera da Parigi del 12 marzo 1972, in M. Barenghi e M. Belpoliti (a cura di), “Alì Babà”.
Progetto di una rivista, 1968-1972, cit., pp. 166.
22
G. Celati, Nota a “Il bazar archeologico”, in M. Barenghi e M. Belpoliti (a cura di), “Alì Babà”.
Progetto di una rivista, 1968-1972, cit., pp. 220-222.

7
1970 sarebbero impensabili senza quei lunghi dibattiti. Calvino, dice Celati, interruppe
le discussioni proprio perché voleva dedicarsi soltanto a Le città invisibili “libro
cominciato due anni prima, in cui faceva rifluire molti pensieri nati per la rivista”23.
L‟aspetto più originale di questa tesi è però stata la fusione della poetica nata da
questi dibattiti – della teoria della letteratura qui formulata –, con le riflessioni compiute
da Celati sul libro di Calvino nel suo studio-recensione intitolato Il racconto di
superficie24. Attraverso un dialogo tra le riflessioni di Celati e i dibattiti di Bologna, ho
cercato di applicare in concreto i concetti di modello strutturale, strategia, contesto,
regole e funzione dell‟opera, insieme ai concetti di scrittura, fabulazione, game e play, a
Le città invisibili, per chiarine la natura di opera come gioco di superficie, per
estrapolarne la teoria della letteratura implicita (soprattutto nei corsivi), cioè per
interpretarla nella sua essenza, per cercare di capire la funzione di quest‟opera e il suo
effetto sul lettore. Ho provato a evidenziare il senso politico del testo di Calvino: la
politicità de Le città invisibili è direttamente collegata all‟effetto di straniamento che
provoca sul lettore; se questo libro può essere considerato un libro politico, si vedrà, è
perché cerca di operare sul contesto, vuole essere terreno di lotta.
Inoltre ho voluto accostare l‟opera di Calvino ad autori solitamente poco
considerati, dimenticati, come Manganelli, D‟Arzo, lo stesso Celati (Parise e Delfini in
nota), convinto di poter collegare meglio tra di loro certe immagini – tutte accomunate
dall‟essere parte di quell‟“inferno dei viventi” di cui scrive Calvino nell‟ultimo corsivo
– come quelle di carcere, deserto, silenzio e labirinto, ma soprattutto nel rispetto
dell‟ideale dello scrittore ligure che in La letteratura come proiezione del desiderio
scriveva:

La biblioteca ideale a cui tendo è quella che gravita verso il fuori, verso i libri «apocrifi», nel senso
etimologico della parola, cioè i libri «nascosti». La letteratura è ricerca del libro nascosto lontano, che
cambia il valore dei libri noti, è la tensione verso il nuovo testo apocrifo da ritrovare o da inventare25.

Proprio per gettare nuova luce su alcuni aspetti de Le città invisibili ho parlato de Le
interviste impossibili26 e di Centuria27 di Giorgio Manganelli, di All’insegna del “Buon
23
G. Celati, Il progetto “Alì babà”, trent’anni dopo, in M. Barenghi e M. Belpoliti (a cura di), “Alì
Babà”. Progetto di una rivista, 1968-1972, cit., p. 320.
24
G. Celati, Il racconto di superficie, in ”Il Verri”, XVIII, 1, marzo 1973, pp. 93-114. Ora in M.
Barenghi e M. Belpoliti (a cura di), “Alì Babà”. Progetto di una rivista, 1968-1972, cit., pp. 176-196.
25
I. Calvino, La letteratura come proiezione del desiderio, in Saggi 1945-1985, tomo I, Mondadori,
Milano 1995, p. 251.

8
Corsiero”28 di Silvio D‟Arzo, di Narratori delle pianure29 e Verso la foce30 di Gianni
Celati.
Le basi filosofiche del metodo da me adottato sono da trovare nella poetica –
meglio sarebbe dire teoria della letteratura – sviluppata da Calvino e Celati nei dibattiti
sulla rivista “Alì babà”. Mi sono inoltre servito di due testi, come Spazi altri31 di
Foucault e Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov32 di Benjamin per chiarire da una
parte la natura dello spazio letterario de Le città invisibili e dall‟altra l‟idea di narrazione
orale in Celati. Il concetto di mondi im-possibili, mutuato dal testo Mondi di
invenzione33 di Pavel e da Heterocosmica34 di Doležel, è servito nell‟ultimo capitolo per
chiarire la natura eterotopica de Le città invisibili in rapporto al lettore empirico, così
come l‟idea di Carnevale bachtiniana per capire lo straniamento, e le riflessioni di Eco
per comprendere il ruolo del lettore nel testo.
Credo inoltre che sia soprattutto il metodo seguito nell‟analisi dell‟opera
calviniana, dettato direttamente dalla struttura del libro, un tratto originale del lavoro.
La tesi è divisa in tre capitoli: nel primo ho affrontato il problema del movente della
scrittura calviniana. Ho cioè esplorato lo spazio letterario e saggistico che precede Le
città invisibili per rintracciare in esso delle immagini che, ricordando lo sfacelo senza
fine né forma, deserto e inferno, senso di vuoto e vertigine, da cui si ritrae Kublai Kan
per ascoltare i racconti di Marco Polo, rappresentano il contesto da cui Calvino prende
avvio per scrivere. Ho studiato soprattutto l‟ultimo racconto di Ti con zero, del 1967, Il
conte di Montecristo e l‟opera sui tarocchi viscontei dal titolo Il castello dei destini
incrociati, affiancata al testo sui tarocchi marsigliesi La taverna dei destini incrociati,
entrambe elaborate prima del 1972, anno d‟uscita de Le città invisibili. In un dialogo tra
queste opere e il triangolo iniziale de Le città invisibili ho cercato di chiarire il motivo,
cioè il movente, per cui Calvino ha scritto quel libro nel 1972. Infatti, sostengo che il
fallimento nel tentativo di fuga di Faria e Dantès dalla fortezza d‟If – pur nel passo in
26
G. Manganelli, Le interviste impossibili, Adelphi, Milano 2009.
27
G. Manganelli, Centuria, Adelphi, Milano 2010.
28
S. D‟Arzo, All’insegna del “Buon Corsiero”, Vallecchi, Firenze 1942. Citerò però da S. D‟Arzo,
All’insegna del “Buon Corsiero”, Otto/Novecento, Milano 2009.
29
G. Celati, Narratori delle pianure, Feltrinelli, Milano 2008.
30
G. Celati, Verso la foce, Feltrinelli, Milano 1992.
31
M. Foucault, Spazi altri, Mimesis, Milano 2008.
32
W. Benjamin, Considerazioni sull’opera di Nicolo Leskov, in Angelus Novus. Saggi e frammenti
Einaudi, Torino 1995.
33
T. Pavel, Mondi di invenzione, Einaudi, Torino 1992.
34
L. Doležel, Heterocosmica, fiction e mondi possibili, Bompiani, Milano 1999.

9
avanti compiuto con l‟ipotesi di una casella vuota come punto di fuga e punto di non
coincidenza tra prigione perfetta e prigione reale – e il fallimento nel tentativo di
ordinazione del caos labirintico da parte di Calvino sia ne Il castello sia ne La taverna
(entrambi sono sconfitte nel tentativo di sottrarsi al silenzio), – pur nel passo in avanti
compiuto grazie da una parte all‟ordine e dall‟altra alla casella vuota posta al centro dei
tarocchi – si sia invece risolto in successo ne Le città invisibili, dove la struttura
dell‟opera presenta sia ordine, sia la casella vuota, e riesce perciò a sfuggire a quel
contesto di prigionia rappresentato ne Il conte di Montecristo dalla fortezza d‟If come
nastro di Möbius, ne Il castello e ne La taverna dal silenzio, cioè riesce a scappare dal
labirinto, dalla prigione e perciò dall‟inferno del sistema neocapitalistico. Questo
avviene sul versante del lettore quando dalla casella vuota, esplorata la superficie del
nastro, guarda quest‟ultimo da lontano come nodo, e inizia a narrare, diventando Lettore
Modello. Sostengo che la scacchiera de Le città invisibili, modello strutturale, sia
proiettata sul nastro di Möbius, proprio al fine di trovare in questa struttura topologica la
casella vuota. Mettere la casella vuota significa lasciare nell‟opera spazio al lettore,
affinché quest‟ultimo lo riempia di senso, e di narrazione, mettendo da parte il silenzio.
Nel secondo capitolo, seguendo Celati, ho trattato da una parte della scrittura –
prima in Dall’opaco, dove lo scriba si rivela nella sua attività più propria, cioè come
amministratore del territorio, e poi ne Le città invisibili –, scrittura che è meta-gioco,
teoria della letteratura, amministra il terreno di gioco e ne stabilisce le regole, e avviene
nei capitoli in corsivo dell‟opera – cioè nella cornice della scacchiera (infatti è fuori dal
gioco, non gioca) –, e dall‟altra della fabulazione, che è gioco, strategia efficiente,
esplorazione della superficie della scacchiera e punta ad indurre una fabulazione fuori
dal testo. Attraverso l‟itinerario sulla scacchiera come superficie di gioco Marco Polo
Narratore con lo scacco matto in Bauci, casella vuota, vince su Kublai Kan Lettore
Modello, indicandogli come iniziare a narrare proprio a partire dallo spazio vuoto e
dalla traccia in esso racchiusa. Il tema delle tracce come residui attraversa tutto il
secondo capitolo, poiché queste ultime, come caselle vuote e parole senza referente,
servono, una volta distese, per fare in modo che anche il Lettore Empirico inizi a
narrare. Sempre nel capitolo centrale si mostrerà la natura di specchio dello spazio delle
Città invisibili, come spazio letterario eterotopico-utopico che, giustapponendo luoghi
contraddittori, mondi im-possibili, provoca un effetto di straniamento sul lettore. Questo

10
trauma ha lo scopo di sovvertire i modelli di percezione dello spazio dominanti nella
società neocapitalistica e fa in modo che il lettore guardi diversamente la città reale.
Dato che la scacchiera è proiettata sul nastro di Möbius a un certo punto fa il giro
e si scaglia sul lettore. Questo avviene nel secondo triangolo, che è il terzo capitolo, in
cui si tratterà dell‟utopia discontinua e frammentaria come utopia della lettura,
spiegando così la funzione dell‟opera di Calvino e verificandone l‟effetto. Nell‟ultimo
capitolo si parlerà dell‟archetipo come strategia primaria dell‟opera e del mito come sua
realizzazione narrativa. Certamente chiarifica il metodo seguito nel corso del lavoro lo
schema che Calvino acclude a una lettera scritta a Cesare Milanese il 18 agosto 1974:

Costruendo quel sistema d‟alternanza dei capitoletti delle varie serie, ho cercato di mettere in pratica il
sistema più semplice perché le serie non fossero tutte raggruppate e separate ma si allacciassero l‟una
all‟altra formando una continuità mossa e variata. Perciò ho stabilito l‟ordine che rappresento nello
schema qui accluso. Le verticali sono le serie e le orizzontali i capitoli numerati con i numeri romani: dico
i capitoli normali di cinque capitoletti. Ma siccome le prime orizzontali sono più corte, ho riunito in un
capitolo introduttivo il «triangolo» iniziale e in un capitolo conclusivo il «triangolo finale», i quali
naturalmente sono venuti più lunghi, di dieci capitoletti ciascuno 35.

Al primo capitolo, cioè al triangolo iniziale, formato da dieci città, corrisponde il primo
capitolo della tesi, dedicato al contesto (deserto, inferno, sfacelo, labirinto, silenzio,
senso di vuoto, prigione) come movente della scrittura. Ai capitoli dal secondo
all‟ottavo, cioè al rettangolo centrale, corrisponde il secondo capitolo della tesi,
dedicato, infatti, alla scrittura (che avviene sui bordi del rettangolo, cioè nella cornice) e

35
I. Calvino, Lettere 1940-1985, Mondadori, Milano 2001, pp. 1249-1250.

11
alla fabulazione (che si muove nel rettangolo centrale giocando nella scacchiera finché
trova Bauci, la casella vuota). All‟ultimo capitolo, cioè al triangolo finale, corrisponde
l‟ultimo capitolo della tesi, dedicato al problema della funzione dell‟opera e di
conseguenza, come si vedrà, alla lettura come utopia discontinua. L‟idea è che questa
scacchiera sia proiettata sul nastro di Möbius trovato sia ne Il conte di Montecristo sia in
Dall’opaco, come ultima propaggine del contesto infernale da sfidare. Per questo il
primo triangolo è rivolto a nadir, è opaco, buio, mentre nel rettangolo centrale il nastro
fa il giro e ritorna su se stesso: ma questa volta il lettore è dall‟altra parte, è lettore
attivo. Nello schema inviato da Calvino a Milanese mi sono permesso di evidenziare la
casella vuota di Bauci. Ma per comprendere dove sta la cornice, quindi la scrittura, in
questo schema, e per vedere meglio quale città invisibile corrisponde ad ogni casella, è
bene osservare lo schema proposto da Milanini nel suo saggio L’utopia discontinua36.

36
C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, cit., pp. 130-131.

12
Il primo capitolo della tesi prende le mosse dal primo corsivo – la mezza casella
tratteggiata –, passa da Diomira e arriva, dopo aver attraversato tutto il triangolo
iniziale, al secondo corsivo, dopo Isaura. Il secondo capitolo della tesi inizia vagliando
il bordo del nastro che è il bordo della scacchiera, cioè la cornice della scacchiera, e
parlando della scrittura, che appunto avviene nei capitoli in corsivo, indaga le regole del
gioco, il meta-gioco, la teoria della letteratura dei corsivi, indicati nello schema di
Milanini con i rettangoli tratteggiati. Di seguito attraversa la scacchiera vera e propria,
seguendo Marco Polo nel suo itinerario di flâneur nel rettangolo centrale, cioè nel suo
gioco, e quindi parla della fabulazione come gioco di superficie, fino a quando incontra
Bauci e lo scacco matto che avviene lì. Qui c‟è l‟intermezzo su Gianni Celati, perché il
testo manda fuori di sé una fabulazione indotta che è esplorazione della superficie
tracciata, alla ricerca di narrazioni orali, nel mondo reale. Il terzo capitolo della tesi
parte dal penultimo corsivo, passando da Laudomia lo attraversa tutto e finisce su
Berenice e il corsivo finale. L‟ultimo triangolo è il triangolo della lettura, perché manda
il lettore fuori dal testo, con il giro del nastro, affinché diventi a sua volta narratore:
questo è il senso dell‟utopia discontinua.
Nello schema proposto da Ossola37 si distingue bene la suddivisione tra triangolo
iniziale, rettangolo centrale e triangolo finale, con il secondo come scacchiera che
racchiude al centro la casella vuota, che ho evidenziato.

37
C. Ossola, L’invisibile e il suo “dove”: “geografia interiore” di Italo Calvino, in “Lettere italiane”,
XXXIX, 2, aprile-giugno 1987, p. 242.

13
Soltanto dopo aver percorso tutte le 64 caselle della scacchiera – formata da 55 città-
caselle immaginarie, suddivise in undici rubriche (Le città e la memoria, Le città e il
desiderio, Le città e i segni, Le città sottili, Le città e gli scambi, Le città e gli occhi, Le
città e il nome, Le città e i morti, Le città e il cielo, Le città continue, Le città nascoste),
e da 18 corsivi, due per ogni capitolo, quindi da 9 tasselli completi tratteggiati – sarà
possibile comprendere il senso di questa partita a scacchi e chi sarà il vincitore.

14
CAPITOLO 1. IL CONTESTO: MOVENTE DELLA SCRITTURA

§1.1 Il conte di Montecristo

1.1.1 Deserto

Se di qualcosa avevo paura, erano i


deserti1.

Marco Polo – intervistato da Giorgio Manganelli2 a proposito del suo rapporto con
Rustichello nelle galere di Genova – risponde, riferendosi al pisano imprigionato da un
decennio: “Io gli riempii quel carcere deserto e desolato e tetro di immagini gloriose e
mirabili [corsivo mio]”3. Per far questo bastò al mercante veneziano inventare, come un
mago, – mediante i racconti sul suo viaggio in Oriente – mondi. Felice la reazione
dell‟ascoltatore:

Io non sono più in carcere, sono in una reggia, questi non sono muri screpolati, sono arazzi, questa non è
broda, è vivanda da re, questa non è umida ombra, è luce sfolgorante di pennoni [corsivi miei]4.

S‟incontrano così almeno tre dei motivi che guideranno la prima parte di questo
lavoro: il deserto, il carcere e l‟ombra; una sintesi, insomma, della situazione di Calvino

1
G. Manganelli, Le interviste impossibili, cit., p. 59.
2
Ci si serve, per introdurre la figura di Manganelli (1922-1990), di un breve passo tratto dal testo di M.
Belpoliti, Settanta, cit., p. 179: “Manganelli è […] un «malinconico tapiro», come lo ha definito con una
pregnante immagine animale Pietro Citati, ed è segnato da una immobilità mobile: la sua prosa, quella
narrativa e quella saggistica, è un ossimoro: ferma e insieme in movimento; nel campo degli umori è un
pancreatico (i suoi umori, lenti e implacabili, digeriscono ma anche corrodono).”
3
G. Manganelli, Le interviste impossibili, cit., p. 64.
4
Ibidem.

15
sul finire degli anni Sessanta5. Non ch‟egli fosse detenuto, perso tra le sabbie e men che
meno vivesse in qualche oscuro bugigattolo di periferia; anzi, proprio nel 1967 Calvino
si traferisce a Parigi, dove resterà fino al 1980. È questa l‟area limitata in cui lo studio si
muoverà6, quasi volendo esplorare lo spazio letterario che circonda Le città invisibili7,
dall‟ultimo racconto di Ti con zero8 all‟opera che ha portato lo scrittore ligure alla
ribalta nel panorama culturale internazionale, Se una notte d’inverno un viaggiatore9.
Se dev‟essere in primo luogo il testo a guidare l‟interpretazione, allora si noti
subito che qui non si sta facendo altro che interrogare quello “sfacelo senza fine né
forma”10, rovinoso e incancrenito, da cui Kublai Kan11 si ritrae per ascoltare i racconti
del suo ambasciatore, cioè il contesto che muove la “scrittura”. Il parallelo con il testo
di Manganelli è suggerito appunto dal comune luogo di avvio della narrazione: il
deserto. C‟è una bella immagine, proprio al termine della prima sezione qui presa in
5
Cfr. I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., pp. 1061-1062. Rivolgendosi a Mario Boselli, da Parigi, il
23.10.1969 lo scrittore sanremese scrive: “Il nucleo drammatico della disperazione di fronte
all‟invivibilità del mondo contemporaneo e dell‟impossibilità di partecipazione attiva perché tutte le vie
appaiono chiuse a un futuro desiderabile, risponde probabilmente alla mia posizione d‟oggi. E dico
probabilmente perché so che se decidessi di pensarla fino in fondo, d‟enunciarla più esplicitamente, di
dichiararla programmaticamente (cioè di «ideologizzarla») questa disperazione diventerebbe un‟altra
cosa, forse perderebbe la forza attiva che può avere, (attiva verso cosa? questo non lo so) che può avere
soltanto se lascio che venga fuori dal processo della scrittura”. Cfr. anche R. Bertoni, Int’abrigu
int’ubagu. Discorso su alcuni aspetti dell’opera di Italo Calvino, Tirrenia Stampatori, Torino 1993, p.
107: “In «Conte di Montecristo» […] la tensione del testo è spostata sul piano della metaletteratura; la
situazione di crisi psicologica, che rimane sul fondo, nel testo implicito, si caricherà nelle opere
successive, come si vedrà, di significati simbolici ulteriori, riemergendo sempre più apertamente nel testo
esplicito”.
6
Cfr. M. Dini, Calvino critico. I percorsi letterari, gli scritti critici, le scelte di poetica, cit., p. 92:
“L‟aspetto comunicativo, il bisogno di socialità costituisce un punto fermo della ricerca letteraria in
Calvino e si esprime «nella consapevolezza mai smentita dell‟interdipendenza necessaria tra i due ruoli di
chi scrive e di coloro che leggono» [V. Spinazzola, l’io diviso di Italo Calvino, in G. Falaschi (a cura di),
Atti del Convegno internazionale (Firenze, Palazzo Medici-Riccardi 28-28 febbraio 1987), Garzanti,
Milano 1988, pp. 87-88;106], consapevolezza che tenderà a radicarsi ulteriormente, anche dopo il venir
meno della fiducia nella funzione mediatrice della politica tra prassi letteraria e prassi sociale, e la
rivendicazione del prima assoluto della letterarietà. Alla fine degli anni Sessanta, grazie anche alle
sollecitazioni indotte dai movimenti contestatari, Calvino sarà spinto a rivedere il proprio ruolo
intellettuale non più e non solo nell‟ottica tradizionale del rapporto letteratura-società, ma in quella più
attuale del rapporto tra scrittura e lettura, tra produttore e ricevente”. È nell‟ambito di questo
cambiamento che questo studio si muove.
7
I. Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972.
8
I. Calvino, Ti con zero, Einaudi, Torino 1967.
9
I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Einaudi, Torino 1979.
10
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 13.
11
Parlando di imperatore dei tartari che si ritrae dal deserto che ha colpito i propri possedimenti, non può
non venire in mente il testo di Buzzati Il deserto dei tartari, Mondadori, Milano 1940, con Giovanni
Drogo che, rintanato nella fortezza in attesa di una missione mai venuta finisce col mostrare che dal suo
deserto non è possibile sfuggire. Si vedrà nei prossimi capitoli che non si può dire lo stesso per Kublai
Kan. Se nel personaggio di Buzzati il deserto esterno finisce per corrodere anche l‟interno della fortezza
condannando Giovanni Drogo ad un‟infera perpetua attesa (attesa di cosa?, di una narrazione, forse?), in
Kublai subentra la possibilità di sfuggire al deserto dell‟impero attraverso i resoconti del veneziano.

16
esame, che fa ben capire come, in qualche modo, Kublai Kan grazie all‟ascolto delle
parole di Marco Polo veda ergersi, sopra il deserto che ha colpito il suo impero – si
vedrà successivamente cosa possa significare questo –, quindi in contrasto con esso, le
città narrate:

Nella mente del Kan l‟impero si rifletteva in un deserto di dati labili e intercambiabili come grani di
sabbia da cui emergevano per ogni città e provincia le figure evocate dai logogrifi del veneziano12.

È lo stesso testo de Il Milione13 di Marco Polo a parlare “di come si cavalca per lo
diserto” nelle prime pagine del viaggio verso Oriente: “L‟uomo va .iij. giornate che
l‟uono non truova acqua, se non verde come erba, salsa e amara. […] In queste .iij.
giornate no à abitazione, ma tutto diserto e grande secchitade; bestie non v‟à, ché no
v‟averebboro che mangiare. […] Di capo di queste .iij. giornate finisce lo regno di
Creman e truovasi la città di Gobiam”14. Non appena si provasse a leggere il testo di
Calvino qui in questione tenendo a fianco Il Milione ci si renderebbe conto, proprio in
questo punto, di una vicinanza curiosa tra l‟immagine che Gobiam – la città a cui Marco
Polo sta qui per giungere – da di sé, e Despina, in Le città e il desiderio 3. È possibile
leggere infatti in quest‟ultima rubrica che Despina è “città di confine tra due deserti”,
così come Gobiam si raggiunge attraversando un deserto e, inoltre, “quando l‟uomo si
parte de Gobia[ m ], l‟uomo va bene per uno diserto viij. giornate, nel quale à grande
sechitadi, e non v‟à frutti né acqua, se non amara, come in quello di sopra”15.
Il salto compiuto dalla prima cornice alla terza città del desiderio è giustificato
dall‟insistenza, in questo primo triangolo del testo16, sul tema del caos e del disordine17
dell‟impero, che non solo si rinviene nella parte metatestuale d‟esordio e di chiusura del

12
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 30.
13
Marco Polo, Il Milione, Mondadori, Milano 1982.
14
Ibid., pp. 45-46.
15
Ibid., p. 47.
16
Cfr. anche le parole del cammelliere in I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 17, Le città e il desiderio.
1.: “Prima d‟allora [prima di arrivare alla città di Dorotea] non avevo conosciuto che il deserto e le piste
delle carovane. […] Nel seguito degli anni i miei occhi sono tornati a contemplare le distese del deserto e
le piste delle carovane”
17
Potrebbe darsi che l‟insistenza sul tema del “disordine” nelle prime pagine delle Città Invisibili sia
legata al tema del desiderio, proprio la rubrica dove, non per caso, Despina si colloca. G. Parise scrive, e
aiuta la nostra lettura, nel saggio La vita è disordine, in Quando la fantasia ballava il “boogie”, Adelphi,
Milano 2005, p. 92: “Disordine sommo è il nostro aprire gli occhi ai disordini e casualità del mondo,
disordine è il nostro sviluppo, disordine i nostri primi istinti e desideri o voluttà”.

17
triangolo, ma che pare meglio chiarirsi proprio in Despina quando Marco Polo dice:
“Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone”18.
Che ci sia una stretta relazione tra deserto infernale e città, una relazione che per
ora si potrebbe dire di opposizione, è peraltro testimoniato dalle parole del Marco Polo
manganelliano nel testo già citato: “Quando entravamo nel fragore d‟una città, lì dove i
demoni non osavano entrare, era una festa!”19. I diavoli non varcano le mura. Eppure,
nel più celebre dei passi calviniani, nelle parole che solitamente la critica pone al
termine dei propri studi per dire della logica conclusione del testo, Calvino, attraverso il
veneziano, dice, a proposito dell‟inferno che “se ce n‟è uno, è quello che è già qui,
l‟inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme”20. Non è dunque un
inferno strettamente cittadino? Che cos‟è quest‟inferno? È fuori o dentro la città?
Possiamo chiamarlo prigione, ombra oppure deserto?
Lasciando da parte, per ora, la risposta a queste domande che non potrà evitare di
prendere in considerazione la situazione intellettuale di Calvino, si consideri che queste
pagine serviranno soprattutto a chiarire il senso del momento disperato d‟esordio, a
capire cosa l‟autore voglia dire parlando di “senso di vuoto”21. S‟interroga il movente
della scrittura calviniana22 e, nello stesso tempo, dell‟ascolto che il Kan fa delle parole
di Marco Polo. È un‟atmosfera comune che pervade lettore e autore23. Si esamina il
contesto, causa efficiente della funzione dell‟opera Le città invisibili, ciò che muove

18
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 26. Cfr. M. Carlino, Il discorso-silenzio e i racconti “possibili” di
Calvino, in M. Boselli (a cura di), Italo Calvino/1, in “Nuova Corrente”, XXXIV, 99, gennaio-giugno
1987, p. 118: “I deserti circondano le città e le città i deserti”.
19
G. Manganelli, Le interviste impossibili, cit., p. 60.
20
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 170.
21
Rimando, a proposito del nulla che è all‟origine del gesto della narrazione di Marco Polo nelle Città
invisibili, (ma che è, del resto, la molla dei racconti che Marco Polo fa a Rustichello delle proprie imprese
ai confini del mondo, in Manganelli), a un bel passo di G. Celati in Verso la foce, Feltrinelli, Milano
1992, p.115: “Si è disposti all‟osservazione quando si ha voglia di mostrare ad altri quello che si vede. È
il legame con gli altri che dà colori alle cose, le quali altrimenti appaiono smorte. C’è sempre il vuoto
centrale dell’anima da arginare, per quello si seguono immagini viste o sognate, per raccontarle ad altri
e respirare un po’ meglio [corsivo mio]”.
22
Forse non soltanto dello scrittore sanremese se si considera che in E. Jabes, a tal proposito, si legge, ne
Il libro della sovversione non sospetta, SE, Milano 2005, a p. 13: “Ti è stato dato un unico luogo: la
speranza d‟un luogo clemente al di là delle sabbie. Miraggio del riposo. [corsivo mio]”. Il richiamo al
miraggio, peraltro, rimanda alla doppia natura di Despina come città che tiene lontano il deserto: a chi
viene da terra, in cammello, Despina appare come “un bastimento che lo porti via dal deserto”, mentre al
marinaio Despina appare come “una lunga carovana che lo porta via dal deserto del mare”. Cfr. I.
Calvino, Le città invisibili, cit., p. 25. Cfr. inoltre M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, cit., p. 72: “La
Fortezza di If è la scrittura”.
23
Cfr. M. Belpoliti, Settanta, cit., p. 228: “Vuoto, vertigine, smarrimento, sono le sensazioni che prova
non solo Kublai Kan, ma il lettore stesso”.

18
Calvino a scrivere. Non riguarda né solo l‟imperatore né solo Calvino: è qualcosa che ci
prende, “una vertigine che fa tremare i fiumi e le montagne”24.

1.1.2 Prigione

Persone libere se ne danno,


ma liberate, in nessun luogo25.

È ancora Manganelli, in Centuria26 – tra gli interlocutori27 di Calvino certamente il


più viscerale – a parlare di qualcosa che ricorda il clima sia di Rustichello nel carcere di
Genova sia di Kublai Kan nei confronti del suo impero in rovina. Lo stesso Calvino
nella sua introduzione riporta alla novantasettesima delle centurie, all‟“infernale
Creazione del Mondo”28. Si tratta di una visita guidata all‟inferno: “Lassù, a sinistra,
vedete quelle serie di celle; sono chiuse da cancelli di ferro inconsumabile, perché la
sofferenza di chi vi soggiorna deve essere seguita dai guardiani. È previsto che le celle
possano essere roventi o ghiacce, a seconda dei casi. I cancelli sono murati, non hanno
serrature. Più in basso vedete quei rettangoli, simili a lapidi; di lì si scende in una cella
in forma di tomba, ma il cui fondo è fuoco purissimo. Agevoli da aprire all‟esterno, una
volta sola, impossibili dall‟interno; una feritoia consente di seguire quel che vi avviene.
[…] Signori, vedo che si è fatto tardi, e d‟altra parte il luogo è infinito. Richiederà del
tempo imparare a percorrerlo e soprattutto ad usarlo. Vorrei pregarvi di essere pronti,

24
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 13. Si accosti questo passo (e l‟idea di “impero senza fine né
forma”) con le parole di Manganelli in Centuria, Adelphi, Milano 2010, p. 210: “Qui si apre una voragine
dai lati perfettamente lisci e verticali, e che tuttavia dovrà essere percorsa a piedi, sempre cadendo e mai
cadendo; praticamente non ha fondo”.
25
G. Manganelli, Centuria, cit.
26
Ibid., p. 226.
27
Cfr., a tal proposito, nel bel libro di M. Belpoliti, Settanta, cit., p. 179: “C‟è da credere che in questo
periodo Calvino, che scruta curioso il paesaggio letterario italiano alla ricerca di possibili interlocutori, di
compagni di strada, abbia cominciato a considerare Manganelli come uno dei propri punti di riferimento,
un autore-interlocutore su cui prendere le proprie misure. Dal 1965 sino almeno alla metà degli anni
Settanta e oltre, Manganelli è infatti il suo interlocutore «da lontano», l‟unico o quasi, almeno in Italia,
con cui sembra condividere un‟idea di letteratura in cui «il fantastico» e il «gioco combinatorio» occupino
un ruolo essenziale”.
28
I. Calvino, Introduzione, in G. Manganelli, Centuria, cit., p. 13.

19
domani, un‟ora prima del consueto. Domani è il giorno della Creazione del Mondo
[corsivi miei]”29. Torna anche qui, come nell‟intervista impossibile già citata, l‟idea
dell‟”invenzione di mondi” contrapposta al carcere infernale d‟origine. Lasciando da
parte, per ora, la delicata questione del narratore come “mago autore di mondi”, è
opportuno concentrarsi invece su un‟altra questione. Per farlo basti notare quanto la
lettura di questo piccolo romanzo-fiume manganelliano – che dice di un inferno colmo
di celle da cui è impossibile uscire perché “le tenebre sono aumentabili indefinitamente”
e “chi sarà coinvolto nelle tenebre le vedrà crescere, ininterrottamente, eternamente. [...]
Le dimensioni sono enormi.”30 – insieme all‟intervista a Marco Polo, richiami il
racconto che qui è in esame: Il conte di Montecristo31.
Due cose sono immediatamente chiare: in primo luogo, l‟inferno contiene in sé
delle tenebre che si estendono nello spazio lungo il tempo, non permettono di vedere
uno spiraglio di luce e in più racchiudono celle che, come seguendo l‟andamento del
luogo in cui sono ubicate, parrebbero crescere a loro volta in estensione all‟infinito. Non
a caso in un‟altra centuria, si legge: “La prigione conteneva un‟altra prigione di poco
minore, ma assolutamente identica, e questa ne conteneva altra ulteriormente minore,
fino a che, al centro di un numero incalcolabile di prigioni se ne collocava un‟ultima,
che verosimilmente era destinata al prigioniero perfetto della prigione suprema”32.
In secondo luogo, data la mancanza di precisi limiti spaziotemporali (è infinito),
quest‟inferno-prigione è difficilmente percorribile33 – imparare a muoversi in esso
richiede tempo e dimestichezza, e forse questi non bastano –, e ricorda proprio il passo
già citato della voragine senza fondo, che fa cadere l‟uomo continuamente senza che
mai egli, in realtà, possa cadere in via definitiva, un arrampicarsi sugli specchi a testa in
giù, verso un fuori che, a ben vedere, porta sempre più dentro.
Il discorso cioè, dopo aver esordito sullo sfacelo infernale da cui lo sguardo del
Kan si allontana nell‟udire i racconti dell‟ambasciatore, entrando nell‟universo
calviniano che precede la genesi (o che, forse, propriamente gli dà il via) delle Città
invisibili, si avvicina al tema del carcere, che non è altro dal tema del deserto e

29
G. Manganelli, Centuria, cit., pp. 209-210.
30
Ibidem.
31
I. Calvino, Il conte di Montecristo, in Ti con zero, Einaudi, Torino 1967. Citerò però da I. Calvino, Il
conte di Montecristo, in Tutte le cosmicomiche, Mondadori, Milano 2009.
32
G. Manganelli, Centuria, cit., pp. 221-222.
33
Difficilmente percorribile come il Castello d‟If per l‟Abate Faria. Più avanti si approfondirà la
questione.

20
dell‟inferno (del nulla), dato che si è mostrato che il disordine della distesa dei
possedimenti di Kan è dato soprattutto dal presenza del deserto34 (dalla cui sabbia arida
la città sfugge) e dell‟inferno, e si è pure visto che è proprio di quest‟ultimo contenere in
sé prigioni e prigionieri (si è letto che il Rustico da Pisa manganelliano cerca di sfuggire
a muri screpolati che Marco Polo addita anche come “carcere deserto”). È come se si
stesse vagliando la medesima area, ma su vari livelli. Nell‟inferno (caos, sfacelo), che è
pure deserto, c‟è il carcere.
La condizione di carcerato è comprensibile maggiormente continuando a leggere
Manganelli e Calvino insieme. Da due prigionieri, Marco Polo e Rustichello, si passa ad
altri due carcerati, questa volta propriamente calviniani, Edmond Dantès e l‟Abate
Faria, nell‟ultimo racconto della raccolta Ti con zero:

Ogni cella sembra separata dall‟esterno solo dallo spessore d‟una muraglia, ma Faria scavando scopre che
in mezzo c‟è sempre un‟altra cella, e tra questa e l‟esterno un‟altra ancora. L‟immagine che ne ricavo è
questa: una fortezza che cresce intorno a noi, e più tempo vi restiamo rinchiusi più ci allontana dal fuori35.

Che questo sia un carcere infernale è dato dall‟espansione continua della propria
estensione, non dall‟esistenza di una semplice cella, ma dall‟apparente impossibilità di
un‟uscita. Dantès e l‟abate Faria sono quindi nelle tenebre36. Per ora importa costatare
questo stato di stallo che vede i due personaggi del racconto di Calvino cercare invano
una via di fuga dalla fortezza in cui sono rinchiusi. Ci si deve occupare della forma e
della struttura che questo carcere ha, e vedere se e come i due prigionieri cerchino di
scappare e se vi riescano. In questo modo si continua a seguire il filo conduttore già
indicato all‟inizio, cioè questa prima parte d‟interrogazione delle Città invisibili
continua a muoversi soltanto nel primo triangolo. Ci si muove nello sfacelo informe, si
esplora la vertigine e la corruzione dell‟impero del Kan che lo porta a trovar sollievo nei
racconti di Marco Polo, così come Rustichello si rifugiava nel “deposito di leggende”
narratogli dal veneziano.

34
Cfr. M Belpoliti, Settanta, cit., p. 228: “È a metà degli anni Sessanta che Calvino comincia a insistere
sempre più sull‟immagine del Mondo come deserto, come vasta distesa di sabbia”.
35
I. Calvino, Il conte di Montecristo, cit., p. 278.
36
Sembrano trovarsi in quelle “tenebre esteriori, […] zero assoluto, in smarrito abitacolo spaziale” di cui
parla Manganelli nel risvolto di copertina di Centuria che accompagnava la stampa del 1979.

21
E ritornando, ancora una volta, all‟intervista impossibile, si legge sulle labbra di
Marco Polo questa frase: “Io sono in prigione, ma io sono in una reggia”37. Tra prigione
e reggia38 c‟è quindi un rapporto. Ne Le città invisibili, quando Kublai Kan inizia ad
ascoltare i resoconti del veneziano – allontanando così il momento disperato d‟origine –
, è nella reggia. Ugualmente Rustichello, pur essendo imprigionato, dal momento in cui
segue i racconti del veneziano, si sente in una reggia. Ora non importa che relazione ci
sia tra questa reggia, vera o immaginata, e il carcere, ma interessa che prima ci siano
questa prigionia, questo disordine e deserto e inferno, ai quali segue una qualche forma
di liberazione (di cui si tratterà successivamente). O forse carcere e reggia sono la
medesima cosa, ma guardati da diversi punti di vista? Saranno soltanto i testi a indicare
la soluzione a questi interrogativi.
In un dialogo tra le parole di Manganelli e quelle di Calvino è forse possibile
procedere nell‟interrogazione del problema: “Dall‟interno, la prigione deve apparire
come totalmente e unicamente interno, priva di qualsivoglia concretezza esteriore”39.
Dantès – che è anche il narratore in prima persona – non sa per ora dire, dalla sua cella,
com‟è fatto il castello d‟If dov‟è imprigionato e ritiene che l‟unica strategia possibile
per sfuggire alla propria prigionia sia quella di capire com‟è fatta la prigione, cioè
definire il contesto. Il problema è topologico40. Si è all‟interno e si vorrebbe uscire.
Dalla posizione nella cella si ricavano, con lo sguardo, poche notizie sulla struttura del
carcere e le poche che si ottengono sono soltanto ipotesi imprecise, supposizioni sulla
sua topologia: “Le mura sono talmente spesse che potrebbero contenere altre celle e
scale e corpi di guardia e santabarbare; oppure la fortezza essere tutta muro, un solido
pieno e compatto, con un uomo vivo seppellito nel mezzo [corsivi miei]”41 Ma Dantès
non è solo nel carcere. A volte compare nella sua cella, intento a scavare tra i muri della
fortezza, l‟Abate Faria. (In questo personaggio si distingue con più chiarezza come il
tentativo di sfuggire possa essere interpretato pure come una lotta contro la durezza

37
G. Manganelli, Le interviste impossibili, cit., p. 65.
38
Reggia e prigione nell‟ordine della città di Tamara, in Le città e i segni. 1., sono vicine. Cfr. I. Calvino,
Le città invisibili, cit., p. 22.
39
G. Manganelli, Centuria, cit., p. 222.
40
Cfr. B. Ferraro, Il castello dell’If e la sua struttura in “Le città invisibili” di Italo Calvino, in
“Letteratura italiana contemporanea”, VIII, 22, settembre-dicembre 1987, p. 96: “Accanto all‟idea
dell‟evasione e della ricerca materiale di una fuga dal labirinto coesiste, ad essa abbinata, la
concettualizzazione della nozione labirintica e della «struttura topologica» che diventa «struttura
metafisica»”.
41
I. Calvino, Il conte di Montecristo, cit., p. 272.

22
della pietra, contro la pesantezza della roccia: che la soluzione sia uno scavare o non
piuttosto un elevarsi al di sopra di essa non è qui che si stabilisce42). L‟Abate Faria
prova ad evadere alzando macigni e raschiando il cemento, bucando il terreno con vari
arnesi: ma ogniqualvolta s‟imbatte nell‟ultima picconata che dovrebbe finalmente
aprirgli la strada alla fuga, ecco che si trova in una cella ancor più interna di prima.
Quindi Faria crede di camminare verso il fuori, in realtà si dirige ancor più verso il
dentro. L‟Abate sembra percorrere quella voragine senza fondo, dirupo perfetto nella
sua levigatezza e verticalità, che il condannato all‟inferno percorre a piedi senza mai
precipitare e sempre tuttavia cadendo. Com‟è possibile che, convinto di dirigersi alla
luce, all‟esterno e quindi alla liberazione il prigioniero finisca per cascare ancor più
nelle tenebre, in una cella ancor più interna e infernale? Il piccone dell‟abate trafora le
mura e i palchi di volta in ogni direzione, ma il suo cammino pare sempre avvolgersi su
se stesso, come in un gomitolo.
Questo girare e rigirare del povero abate sulla superficie e negli interstizi del
carcere potrebbe essere apparente e il segreto stare nel fatto che è la prigione, come un
gomitolo o tanti gomitoli raggruppati, a girare su se stessa: “Si scorge un sistema di
sfere girevoli, che oscillano lentamente in uno spazio deserto”43. Laggiù il vuoto arido
da cui lo sguardo prova a ritrarsi44, e nel deserto il carcere, cella più interna di quel
grande sistema di sofferenza che è l‟inferno: non è poi così caotico, disordinato45. (Il
disordine sta, piuttosto che nella cosa stessa, nella percezione che il prigioniero ha della
cosa. Si avvicina, per questo senso di disorientamento, l‟immagine del labirinto46 di cui
si parlerà nel paragrafo successivo). A vincere, contro i tentativi di Faria, è sempre la
fortezza. Già all‟abate questa prigionia come vorticoso girare tra le mura deve apparire

42
Ancora una volta il deserto di pietra arida e rocciosa e il carcere infernale tornano a somigliarsi. Nel
personaggio di Faria che lotta contro la durezza della pietra si vedono anticipate alcune tematiche che
Calvino affronterà nelle Lezioni americane.
43
G. Manganelli, Centuria, cit., p. 221.
44
Cfr. I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 22, Le città e i segni. 1.: “Fuori s‟estende la terra vuota fino
all‟orizzonte”.
45
Frattale nel caos: infatti, si legge in I. Calvino Il conte di Montecristo, cit. p. 276: “La fortezza non ha
punti privilegiati: ripete nello spazio e nel tempo sempre la stessa combinazione di figure.”
46
Sul problema del labirinto – che si affronterà in maniera approfondita successivamente – cfr. U.
Musarra-Schroeder, Il labirinto e la rete. Percorsi moderni e postmoderni nell’opera di Italo Calvino,
cit., p. 77: “Nel livello dei fatti narrati il labirinto, simboleggiando il caos e la complessità del mondo, è
rappresentato dalla struttura architettonica impenetrabile e complicatissima della fortezza-prigione” e, per
l‟abate Faria in particolare: “L‟abate, che procede in maniera deduttiva, parte da uno schema o modello
semplificatorio disegnato sulle mura della sua cella, scava numerosi corridoi, che non corrispondono mai
al disegno iniziale e che, invece di portarlo verso l‟uscita, s‟aggirano su se stessi in modo da rendere ogni
tentativo di fuga impossibile”.

23
come la discesa in una spirale che porta sempre più in basso. Un sistema a bambole
matrioske, dove ogni cella ne contiene un'altra che ne contiene un'altra. Faria potrebbe
essere partito dal livello superiore, paradossalmente il più prossimo all‟uscita ma, per un
errore di valutazione (o per la struttura topologica della prigione, o paradossalmente, per
volontà dello stesso prigioniero?), dirigendosi verso il fuori avrebbe invece scavato
sempre più verso l‟interno e di lì verso ogni altra scatola cinese, in un vorticoso duello
con i dati dell‟esperienza nella ricerca del modello aderente alla realtà.
Dantès lo guarda passare e si serve dei suoi errori; gli basta sapere che l‟altro sta
cercando il modo di fuggire per convincersi che una via per farlo esista. Ma i due sono
nelle tenebre: l‟espandersi dei reticoli ingannevoli pare inevitabile. Che sia, questa, la
prigione suprema manganelliana47? È quello che prova a capire anche Dantès.
A tal proposito lo scrittore milanese scrive: “Si è spesso posto il quesito: a chi mai
sia destinato il carcere supremo”48. Questo è una dimora definitiva, nessuno ne può
uscire, anzi, nessuno ne vuole uscire e tutti a esso ambiscono. Ma interessa sottolineare
qui un‟altra questione. Caratteristica di questa prigione definitiva, che può spiegare
l‟atteggiamento di Faria, è il fatto per cui “per chi è dentro il carcere è formato solo di
un interno” e per questo “è possibile che il carcerato abbia la sensazione, forse esatta, di
essere contemporaneamente rinchiuso e libero, giacché non gli è consentito di conoscere
il fuori, e dovunque verrà a trovarsi, anche dopo lunghi viaggi, egli sarà sempre
dentro”49.
Faria è l‟uomo-lettore cui Calvino si rivolge. Convinto della sua libertà e, tuttavia,
non mai liberato. “Noi siamo in realtà dentro la prigione, che si estende a partire dal
proprio esterno, e non ha confini”50. Siamo nell‟inferno e nel disordine. Questo
problema topologico è subito politico51. Convinti di esser liberi eppure non liberati,

47
Cfr., a tal proposito, M. Belpoliti, Settanta, pp. 197-203.
48
G. Manganelli, Centuria, cit., p. 223.
49
Ibid., p. 224.
50
Ibid., p. 236.
51
È fondamentale, per capire che rapporto ci sia tra il problema topologico e il problema politico ne Il
conte di Montecristo, una lettera che Calvino scrive a Falaschi nel 1972. Si legga quindi I. Calvino,
Lettere 1940-1985, cit., pp. 1180-1181: Calvino, dopo aver confessato che quel testo può essere
considerato il suo “testamento gnoseologico” scrive: “È giusto principio di metodo negare che ciò che si
combatte possa essere sistema, per distinguerne le componenti, le contraddizioni, le brecce, e batterlo
pezzo a pezzo. […] Il Montecristo nasce in questo contesto, vuole indicare il modo giusto in cui il sistema
assoluto, la prigione perfetta va ipotizzata proprio per dimostrare che la prigione reale non è perfetta:
cioè il modello di sistema totalitario, astratto e l‟empiria delle verifiche dell‟Abate Faria devono operare
contemporaneamente, il sistema deduttivo ha continuamente bisogno dell‟esperimento induttivo che lo
confermi o lo smentisca. […] Accetto e adopero il modello del mondo neocapitalistico come “sistema”

24
alcuni finiscono col cercare l‟inferno supremo (ci vivono in mezzo senza saperlo), che
corrisponde a quella smania di potere vista nel Kublai imperatore52. Sono imprigionati
allo stesso titolo Kublai Kan e Rustichello (Marco Polo con lui), così come lo stesso
Calvino avverte.
Questa spirale non è la prigione perfetta. Spirale nella quale vorticosamente si
cammina sempre più verso l‟interno e il basso, e dalla quale non è possibile evadere
verso l‟esterno. Faria vive la prigione come una spirale e cerca la prigione perfetta. La
sua ricerca non è propriamente un tentativo di fuga. Egli non vuole liberarsi.
“Solo se nella progettazione o costruzione della fortezza è stato commesso un
errore o una dimenticanza l‟evasione è possibile”53. Nell‟atteggiamento di Dantès si
vede l‟inizio di una fuga possibile nel pensiero, quell‟evasione per cui, lavorando di
ipotesi il francese riesce a volte a costruirsi un‟immagine del castello talmente
persuasiva da fare in modo ch‟egli si muova a tutto agio in essa. Si presentano due
strade: pensare la fortezza o come un luogo che è solo dentro se stesso, senza un fuori –
e questa alternativa corrisponde alla rinuncia alla fuga, alla ricerca della fortezza
perfetta (Faria) – oppure “studiare un percorso dal dentro al fuori che prescinda dal
valore che «dentro» e «fuori» hanno acquistato nelle mie emozioni; che valga anche se
al posto di «fuori» dico «dentro» e viceversa”54. Questo passo è fondamentale; ed è
l‟unico passo che Dantès avrebbe potuto fare per iniziare la sua fuga o, meglio, per
capire come si scappa, senza tuttavia riuscirci, pur restando fermo. La differenza tra
Faria e Dantès è che il primo è così preso dalla non-fuga, la ricerca della prigione
perfetta, da non rendersi conto della complessità del problema, é così dentro, così
interno ormai il suo corpo al meccanismo della fortezza, che lui crede di “esser-fuori”,
ma gravita sempre più verso l‟interno, nella spirale, senza tuttavia mai arrivare alla

per poterlo smontare e scomporre. È anche il problema dell’utopia (Fourier), dell’utopia negativa, cui
accenno una risposta nel mio nuovo libro [corsivi miei]”. In queste ultime parole si vede il collegamento
con Le città invisibili. E inoltre, sempre in I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., p. 1062: “Io credo che il
finale del Montecristo sia la vera conclusione etico-gnoseologica a cui sono arrivato, cioè io vedo la
progettazione congetturale della prigione assoluta come una professione di fede nella deduttività, nella
necessità di costruire modelli teorici formalmente perfetti della realtà oggettiva con cui si vogliono fare i
conti. […] Dei dati dell‟esperienza (i tentativi dell‟abate Faria) è pur indispensabile valersi per verificare
il modello formale confrontandolo continuamente con la realtà empirica. Solo così si potranno scoprire i
punti deboli della realtà empirica cioè quelli in cui l’operare storico può trovare una breccia per andare
avanti [corsivo mio]”.
52
Non a caso il testo precisa che, laddove uscisse dal carcere, Faria vorrebbe liberare Napoleone per
“influire su un‟eventuale rivincita dell‟impero”. Cfr. I. Calvino, Il conte di Montecristo, cit., p. 281.
53
I. Calvino, Il conte di Montecristo, cit., p. 277.
54
Ibid., p. 279.

25
meta. Mentre Dantès capisce che il trucco sta nel fare l‟impossibile, guardare fortezza e
Abate55 dall‟esterno così da porsi in un punto equidistante da entrambi e individuare
l‟errore di metodo di Faria e i suoi errori particolari. Il segreto è ritrarsi, come farà poi il
Kan: guardare la prigione come un luogo senza relazione con sé né all‟interno né
all‟esterno.
Così si vede che il potenziale prigioniero perfetto è Faria, che il castello d‟If, per
lui, potrebbe essere la prigione perfetta, ma non così per Dantès. Questo discorso vale
per Faria perché nel suo atteggiamento si scorge qualcosa che somiglia alla ricerca vera
e propria del carcere definitivo da parte di alcuni personaggi manganelliani che “si
suppone si facciano rinchiudere artatamente nelle varie carceri, per poter intraprendere
la lenta ascesa verso la meta. Sviluppando questa fantasia, qualcuno ha supposto che gli
innumerevoli luoghi di pena del paese siano disposti gerarchicamente, e che solo chi
abbia percorso tutti i gradi carcerari potrà giungere a realizzare quel che pare un sogno
temerario”56. Ma anche questa ricerca non giunge a buon fine: “In realtà, nessuno è mai
giunto se non a distanza di molti, forse infiniti, gradi dal grande carcere”57.
E qual è il momento in cui, forse, per la prima volta Dantès ha ipotizzato che
quella potesse non essere una spirale ma qualcos‟altro, e ancor meno una fortezza
perfetta, ma qualcosa di diverso, che ha sì la caratteristica di portare apparentemente
verso il fuori mentre porta sempre più verso il dentro? Si cita per intero il passo per
l‟importanza che ha nel discorso complessivo su Le città invisibili:

Alle volte sento grattare il soffitto; cade una pioggia di calcinacci; s‟apre una breccia; ne spunta la testa di
Faria capovolta. Capovolta per me, non per lui; striscia fuori dalla sua galleria, cammina a testa in giù
senza che nulla si scomponga nella sua persona: né i bianchi capelli, né la barba verde di muffa, né i
brandelli di tela di sacco che ricoprono i suoi lombi macilenti. Percorre come una mosca il soffitto e le
pareti; si ferma, conficca il piccone in un punto, s‟apre un pertugio; scompare58.

È qui che Dantès si accorge che il luogo in cui lui e Faria si trovano potrebbe non
essere la prigione perfetta da cui è impossibile scappare, ma è sempre possibile pensare

55
Ibid., p. 276: “Faria è un personaggio necessario perché io possa rappresentare alla mia mente
l‟evasione in una luce obiettiva.”
56
G. Manganelli, Centuria, cit., p. 226.
57
Ibidem.
58
I. Calvino, Il conte di Montecristo, cit., p. 275.

26
la cella ugualmente come il lato rivolto verso nadir (e quindi umbratile, capovolto sul
vuoto) del nastro di Möbius59.
Ecco perché Faria cammina a testa in giù e scava ma non trova, cerca in
profondità: questo è l‟errore di Faria; si comporta così perché non vuole fuggire, ma
vuole entrare ancor più nell‟inferno, vuole la perfezione della prigione suprema.
Calvino dice: la fuga possibile dell‟ipotesi di Dantès non può essere un cercare la
profondità. Così si entra ancor più nel disordine, nel caos. In questa zona d‟ordine che è
il nastro occorre trovare un punto di fuga. Si è nel primo triangolo opaco del nastro di
Möbius, a mostrarlo è la contraddittoria posizione di Faria che allo sguardo di Dantès è
capovolto sul vuoto a testa in giù e mentre sembra dirigersi verso l‟esterno in realtà
s‟inabissa sempre più nel castello d‟If. Tenendo ferma quest‟immagine si vedono tre
cose: senso di vuoto, vertigine, ma, intorno, disordine e caos (perché è così che si vive
la spirale che gira su se stessa e così si osserva l‟impero-realtà là sotto) e questo è parte
dell‟inferno da cui anche Kublai sfugge. Questa incancrenito disordinato senso di vuoto
è il movente della scrittura di Calvino60, è il contesto che muove la penna dello scrittore
ligure.
Dantès accorgendosi della struttura a nastro di Möbius della fortezza non può dire
tuttavia se in essa vi sia quella dimenticanza o errore che gli permetterebbe la fuga. Sa
che la spirale dell‟abate non è la fortezza perfetta, perché Faria sempre di nuovo appare
ogni volta “più stanco, scheletrico, invecchiato”61 e provato dall‟umidità e dal gelo dei
meandri del castello e non invece lieto e gaio se ne sta fermo a godersi la prigionia nella
perfezione infernale . “La condizione di carcerato supremo comportava una sorta di
cupa e costante letizia, dalla quale, come da una catena amorosa, egli non voleva

59
Cfr. B. Ferraro, Il castello dell’If e la sua struttura in “Le città invisibili” di Italo Calvino, cit., p. 97:
“A un processo geometrico-matematico di tal fatta Calvino già accennava in Il conte di Montecristo, in
cui Edmond Dantès teorizza la cosiddetta superficie di Möbius (tanto usata nei disegni di Escher)”. Cfr.
anche U. Musarra-Schroeder, Il labirinto e la rete, cit., p. 80: “Il percorso immaginato da Dantès ha ormai
perso ogni linearità; è un «eterno» procedere circolarmente, come in una spirale in cui (come nell‟anello
di Möbius disegnato da Escher) l‟«esterno» coincide con l‟interno e viceversa”. Sul nastro di Möbius cfr.
C. B. Boyer, Storia della matematica, Mondadori, Milano 1990, pp. 614-617. Cfr. anche M. Gardner,
Enigmi e giochi matematici, BUR, Milano 2001, pp. 53-61. Cfr. M. J. Calvo Montoro, “Le città
invisibili”: prosa con metamorfosi, in R. Aragona (a cura di), Italo Calvino: percorsi potenziali, cit., pp.
73-88.
60
Cfr. F. Pierangeli, Una traccia di curiosità tra i sentieri invivibili delle città di Calvino, in M. Pepe (a
cura di), Conversazioni su Italo Calvino, Atti del convegno dell‟Università degli Studi di Roma “Tor
Vergata”, Edizioni Nuova Cultura, Roma 1992, p. 42: “Il momento di vuoto disperato di Kublai è analogo
a quello personalissimo di Calvino”.
61
I. Calvino, Il conte di Montecristo, cit., p. 276.

27
liberarsi in alcun modo”62. Che la spirale non sia la fortezza perfetta è quindi desumibile
non da altro che dal fatto che Faria, che a quella tende, continui sempre a cercare,
mentre se già vi fosse non cercherebbe nulla.
La condizione del potenziale carcerato perfetto è quella di chi si trova nella spirale
e vuole entrare e invece esce, e cerca di uscire e invece entra, e non sa nemmeno se si
trovi dentro o fuori, cerca il vertice ultimo della voragine, ma il circolo della spirale lo
prende e quindi continua a cercare. La condizione del carcerato perfetto sarebbe una
sorta d‟infera pacatezza. La condizione del potenziale fuggitivo è quella di Dantès che
“trasforma”, ritraendosi, la spirale in nastro di Möbius e inizia a interrogarsi sulla fuga
da questa struttura topologica – contesto –, ma “che sia mai codesta liberazione,
nessuno sa dire”63.
Si legge:

Se riuscirò col pensiero a costruire una fortezza da cui è impossibile fuggire, questa fortezza pensata o
sarà uguale alla vera - e in questo caso è certo che di qui non fuggiremo mai; ma almeno avremo
raggiunto la tranquillità di chi sa che sta qui perché non potrebbe trovarsi altrove.

Qui c‟è l‟idea di prigioniero perfetto nella prigione perfetta ed è un‟ipotesi che
Dantès scarta, almeno per Faria, perché non può dirsi perfetto in quanto continuamente
procede nel cercare vorticoso nella spirale,

- O sarà una fortezza dalla quale la fuga è ancora più impossibile che di qui – e allora è segno che qui una
possibilità di fuga esiste: basterà individuare il punto in cui la fortezza pensata non coincide con quella
vera per trovarla64.

Ecco che Dantès prova ad abbozzare una parte della strategia: ricercare il punto di
non coincidenza tra la fortezza perfetta e quella in cui si trovano lui e Faria. Bisogna
quindi stabilire, in via definitiva, la forma della fortezza perfetta, cioè del contesto: è il
nastro di Möbius. Appurato che la forma a nastro di Möbius sarebbe la fortezza perfetta,
perché rappresenta un continuo girare su e giù, dentro e fuori, Dantès deve cercare di
capire se, dalle informazioni che gli vengono dai tentativi falliti dal compagno, è
veramente così. Se, accorgendosi della topologia reale della fortezza e, quindi,
ponendosi sul bordo del nastro per guardare la struttura nella sua interezza, Dantès ha
62
G. Manganelli, Centuria, cit., p. 224.
63
Ibid., p. 226.
64
I. Calvino, Il conte di Montecristo, cit., p. 284.

28
fatto un primo importante passo verso la fuga, e se questo vale anche per l‟idea per cui
la dimenticanza, – il punto di non coincidenza tra fortezza perfetta e fortezza reale –,
sarebbe il punto di fuga, ecco che però Dantès compie un errore quando, seguendo
l‟abate Faria, si mette in cammino con lui alla ricerca del tesoro di Montecristo. Questo
perché l‟intento è: “Una volta entrato in possesso del tesoro […] liberare l‟Imperatore
dell‟Elba, dargli i mezzi per rimettersi alla testa del suo esercito” 65. Nel momento in cui
il piano della fuga-ricerca nell‟isola d‟If-Montecristo include la ricerca-fuga di
Napoleone dall‟isola dov‟è confinato, questo progetto si condanna al fallimento. Non è
laggiù nell‟impero corrotto che la liberazione è possibile. Altrimenti si tornerebbe al
punto di partenza di Kublai, al passato da cui si fugge, a quell‟“orgoglio per l‟ampiezza
sterminata dei territori che abbiamo conquistato, ai “dispacci che ci annunciano il
franare degli ultimi eserciti nemici di sconfitta in sconfitta”, ai “re mai sentiti nominare
che implorano la protezione delle nostre armate avanzanti” e, infine, “al trionfo sui
sovrani avversari” che però “ci ha fatto eredi della loro lunga rovina”66, a
quell‟apparente senso di potere e dominio sull‟impero, a cui seguono inevitabilmente il
senso di vuoto, il deserto incancrenito e informe. Questa eventuale rivincita dell‟impero
sostenuta da Faria e da Dantès che lo segue, questo scavare gallerie nella fortezza è teso
all‟inferno, è come se si protendesse da quel soffitto che è il lato a nadir del nastro di
Möbius e sentisse in uno stesso tempo, senso di vuoto, perché sotto vede il deserto, e
tuttavia bramasse un vizioso ritorno al punto di partenza, al passato e alla memoria67.
Faria crede di essere fuori, di uscire, in realtà non si allontana di un centimetro dal lato
umbratile del nastro di Möbius.

65
Ibid., p. 280.
66
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 13.
67
Non a caso le prime due città invisibili sono collocate nella rubrica Le città e la memoria. È dal passato
che ci si deve allontanare, ma è nel passato che Faria finisce per bloccarsi. Cfr. I. Calvino, Le città
invisibili, cit., p. 15, Le città e la memoria. 1. sulla infelicità di chi “partendosi di là e andando tre giornate
verso levante” finisce per invidiare quelli che, arrivati a Diomira, “pensano d‟aver già vissuto una sera
uguale a questa e d‟essere stati quella volta felici” e p. 16, Le città e la memoria. 2. dove Isidora, città dei
sogni dell‟uomo “che cavalca lungamente per terreni selvatici” - ecco il deserto - ha solo una differenza
con la città sognata: quest‟ultima “conteneva lui giovane; a Isidora arriva in tarda età. Nella piazza c‟è il
muretto dei vecchi che guardano passare la gioventù; lui è seduto in fila con loro. I desideri sono già
ricordi.” Queste parole sembrano rappresentare la parabola dell‟Abate Faria che, desiderando la prigione
suprema (la cella ultima, l‟inferno), finisce per trovarsi fermo sempre nello stesso punto, esausto, ridotto a
uno scheletro e invecchiato. Il passato lo risucchia.

29
Ma quando Dantès, ancora sul bordo del nastro, protende lo sguardo alla struttura
carceraria, capisce che l‟unica via per sfuggire sarebbe quella per cui la prigione non
fosse totalmente nastro di Möbius, ma contenesse in sé un‟imperfezione:

Se fuori c‟è il passato, forse il futuro si concentra nel punto più interno dell‟isola d‟If, cioè la via d‟uscita
è una via verso il dentro68.

“Il centro è dappertutto dove io sono; andare più profondo vuol dire scendere in
me stesso”69. Questo è vero. La via di fuga è una piega bucata nel nastro (nelle pagine
delle Città invisibili?), che richiede l‟intervento (la cooperazione) del lettore per essere
riempita70. Il punto d‟arrivo cui si tende è “il luogo della molteplicità delle cose
possibili”71,“la pagina senza la quale tutte le possibili continuazioni del romanzo fuori
della fortezza diventano impossibili”72. Questa è la fuga dall‟impero in rovina, dalla
nostra realtà, fuga dall‟esistenza e nell‟inesistenza (possibilità), nella casella vuota sul
nastro di Möbius73.

Quell‟ente nonesistente, quel vuoto, forse nulla, che la prigione gelosamente racchiude è il luogo dove noi
vorremmo evadere, non fossimo impediti dalle muraglie di esistenza, che, in questo ideale mondo,
verrebbero ad essere uguali od omogenee alla materia di cui noi tutti, ignari carcerati, siamo materiati74.

Per quale motivo, allora, se Dantès vede lo spiraglio di una fuga dal carcere non
riesce a fuggire, ma lo lasciamo nell‟ultima riga ancora fermo a riflettere sulle
possibilità di fuga?

68
I. Calvino, Il conte di Montecristo, cit., p. 279.
69
Ibid., p. 280.
70
Cfr. M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, cit., p. 73: “La scrittura è immaginazione; scrivere è infatti
lambire il punto cieco, lo strappo nella rete, la casella vuota, il bianco del foglio. Ed è sul foglio che la
Fortezza di If, istoriata nella mente da Dantès, non coincide più con quella vera, lì è l‟occasione da
trovare, l‟inizio da intraprendere”.
71
I. Calvino, Il conte di Montecristo, cit., p. 280. Cfr. C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo
Calvino, cit., p. 127: “Il modello della «rete dei possibili», borgesianamente concentrato entro il cerchio
breve di poche pagine nel Conte di Montecristo e in altre cosmicomiche, diviene la struttura portante dei
libri elaborati da Calvino a partire dagli anni Settanta”.
72
Ibid., p. 283. Si tratta di uscire dal nastro, “perforare la pagina”, fino al lettore come cooperatore della
scrittura del testo. Cfr. anche U. Musarra-Schroeder, cit., p. 82: “Per Dantès l‟evasione dalla fortezza d‟If
è perciò anche un‟evasione dalla costruzione testuale lineare di Dumas, un‟evasione resa possibile proprio
da una riscrittura che, utilizzando nuovi codici, propone anche nuove soluzioni”.
73
Si condivide qui la posizione di quei critici di cui si parla in M. Dini, Calvino critico, cit., p. 132: che
“ritengono che nel Conte di Montecristo […] Calvino abbia voluto fornire una “indicazione di metodo”
cioè “fondare in campo puramente teorico la possibilità logica di un mondo diverso, che neghi quello
presente e che, dichiarandosi utopistico, si proietti nella direzione di un futuro attualizzabile
possibile”[cfr. F. Bernardini Napoletano, I segni nuovi di Italo Calvino, Bulzoni, Roma 1977, p. 111]”.
74
G. Manganelli, Centuria, cit., p. 236.

30
Forse la chiave per capire questo finale sta ancora una volta nell‟intervista
impossibile di Manganelli e riporta il discorso, forte di queste acquisizioni, nella prima
cornice delle Città invisibili: come fugge Rustichello dal carcere deserto e desolato?
Come Kublai Kan sfugge “al morso delle termiti” che ha preso il suo impero,
discernendo (sul nastro di Möbius) “la filigrana d‟un disegno così sottile”?
Marco Polo fabulatore che narra percorre il nastro, vaglia la superficie del nastro
con Kublai, ma lascia alla collaborazione del Kublai-lettore (e del lettore empirico) il
compito di trovare la casella vuota. Rustico da Pisa si sente in una reggia, e quindi in
qualche modo al sicuro dal deserto, dalla desolazione, dalla tetraggine del carcere in cui
è imprigionato, grazie alle immagini gloriose e mirabili delle narrazioni di Marco Polo
che dice, concludendo: “Io sono incatenato, ma io opero prodigi, io detto veritiere
meraviglie ma io sono una meraviglia, una favola”75. Rustico da Pisa e Kublai Kan non
sono così diversi. Entrambi in una reggia ascoltano un narratore davanti a loro e
dialogano con lui. Si rifugiano nella fabula: “Solo nei resoconti di Marco Polo” Kublai
riesce a fuggire dal deserto e dallo sfacelo del suo impero. Marco gli consiglia di
ritrarsi, di percorrere con lui le cinquantacinque città invisibili e Kublai non esita, inizia
ad ascoltarlo, a leggere, a spostarsi sul nastro alla ricerca della casella vuota. Non
importa la verità della narrazione, non serve che i racconti siano realistici. “Per lui
cambiava la favola o cambiava la verità, ma le due cose erano identiche nella sua
testa”76. Qui sta la fuga dall‟esistenza intesa come verità della narrazione. Entrano in
gioco gli inesistenti, gli impossibili, le contraddizioni. “Capisce: gli altri, le allegorie, i
simboli, li fantasticano; a me era capitato di viaggiarci in mezzo”77, dice Marco Polo a
Manganelli. La verità non importa, l‟operatore della credenza è messo da parte78:

Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quel che dice Marco Polo quando gli descrive le città visitate
nelle sue ambascerie, ma certo l‟imperatore dei tartari continua ad ascoltare il giovane veneziano con più
curiosità e attenzione che ogni altro suo messo o esploratore [corsivo mio]79.

75
G. Manganelli, Le interviste impossibili, cit., p. 65.
76
Ibid., p. 64.
77
Ibidem.
78
Cfr. A. Asor Rosa, Stile Calvino, Einaudi, Torino 2001, p. 147: “Se compito di Marco Polo è infatti
quello di descrivere al Kan le città del suo impero, non è detto che tali descrizioni rispondano al vero,
oppure siano credute vere, oppure siano indispensabili per conoscere la verità, oppure sia indispensabile
che ci sia una verità perché quelle descrizioni siano credute vere o, meglio, perché quelle descrizioni
siano vere”.
79
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 13.

31
Il problema di Faria e Dantès che li lascia incatenati nella prigionia dell‟infero opaco
deserto, che li tiene costretti alla superficie umbratile del nastro di Möbius, appare
subito ben evidente non appena si osservi con occhio attento tutto il racconto. Faria e
Dantès si sono mai parlati? È mai stato Faria narratore e Dantès lettore o viceversa?
Questa è la stessa identica situazione in cui si trova Kublai Kan di fronte ai suoi
ambasciatori (escluso Marco Polo). Questi ambasciatori – così come Faria cercatore
della prigione perfetta nei confronti di Dantès – non fanno altro che ricordare a Kublai
lo sfacelo del suo impero: nelle loro lunghe relazioni si manifesta soltanto l‟esistente, il
passato, ciò da cui l‟imperatore si ritrae invece grazie a Marco Polo. L‟impero-realtà
incancrenita – che, si vedrà, è la situazione politica del paese da cui Calvino vuole
distanziarsi – è ciò che si vuole dimenticare e combattere, l‟inferno-deserto, il passato. Il
Kan non capisce quello che gli altri suoi messi gli riferiscono: si esprimono a lui in
lingue incomprensibili a loro stessi. “Ma quando a fare il suo resoconto era il giovane
veneziano, una comunicazione diversa si stabiliva tra lui e l‟imperatore”80. Marco Polo
non riporta al suo imperatore scarne notizie che l‟altro dovrebbe stare ad ascoltare
passivamente. Anzi, disponendo davanti a sé come pezzi degli scacchi oggetti recuperati
nel corso del suo viaggio, il veneziano chiede all’imperatore di giocare al suo gioco.
Sulla superficie del nastro di Möbius, qui nel bordo che fa quasi cadere chi sta appeso
su di esso a testa in giù, Marco Polo appoggia, come su una scacchiera, i pezzi degli
scacchi, e li muove sulle caselle delle città. Inizia, in qualche modo, la fuga.
Mentre Dantès e Faria non si parlano, schiavi di scavi e ipotesi non potranno
trovare la casella vuota – quella che Dantès ha intuito essere la via di fuga – perché se
tendendo l‟orecchio Dantès può udire suoni che “descrivono attorno a me forme e spazi
variabili e sfrangiati”81, non ha invece nessuna fabula da seguire.
Il Conte di Montecristo è importante perché inizia ad approcciare, grazie al
contesto di prigionia, nel personaggio di Dantès, una strategia82, pur mancando scrittura
(regole) e fabulazione (gioco), quelle che invece troviamo ne Le città invisibili83. Qui

80
Ibid., p. 29.
81
I. Calvino, Il conte di Montecristo, cit., p. 273.
82
Cfr. R. Bertoni, Int’abrigu int’ubagu, cit., p. 104: “Calvino-Minosse soltanto “addita” l‟uscita, tenendo
le chiavi in un luogo non troppo lontano dai prigionieri e da essi per il momento irraggiungibile”.
83
Cfr. P. V. Mengaldo, L’arco e le pietre, in La tradizione del Novecento, Feltrinelli, Milano 1975, pp.
410-411: “La parabola de Il conte di Montecristo (in Ti con zero) in cui il calcolo probabilistico delle
possibilità di evasione dal castello d‟If diviene nello stesso tempo calcolo delle modalità di composizione

32
Dantès comprende che è fondamentale, sul nastro di Möbius, trovare la casella vuota, il
punto in cui il nastro di Möbius perfetto non coincide con il nastro di Möbius de Le città
invisibili. Dal castello d‟If diventa impossibile evadere se non c‟è narrazione84. Dantès e
Faria restano fermi imprigionati sul bordo del nastro perché mancano di riflettere sulle
regole del gioco e non possono nemmeno giocare: quello che avviene invece nelle parti
corsive delle città. Il gioco si svolge nella fabula, è una partita a scacchi, è cercare la
casella vuota sotto lo scacco matto. Invece nel castello d‟If accade – confessa Dantès
parlando dell‟abate –, che:

Tra noi scambiamo sempre meno parole; o continuiamo conversazioni che non ricordo d‟aver mai
cominciato85.

Si presenta il problema del silenzio, quello che deve aver avvertito anche Rustichello
prima della venuta di Marco Polo nella sua cella, e che il mercante veneziano ha
riempito di storie favolose da ascoltare. Stessa sensazione deve aver provato Kublai Kan
in “una sera con l‟odore degli elefanti dopo la pioggia e della cenere di sandalo che si
raffredda nei bracieri”86.
Si scopre così che l‟evasione dal deserto-inferno in sfacelo, è anche una fuga dal
silenzio87. Il castello d‟If, dimora in cui due uomini silenziosamente si trovano e cercano
di sfuggire pur non riuscendoci per via della quiete silenziosa, ricorda un altro testo di
Italo Calvino, di due anni successivo a questo racconto deduttivo: Il castello dei destini
incrociati88. Ricorda quel castello dove, incontratisi per caso alcuni personaggi dopo
aver attraversato ed essersi persi nello stesso bosco, provano a raccontarsi l‟un l‟altro –
essendo stati privati della parola (come Dantès e Faria) – le loro storie, tramite l‟utilizzo
di un mazzo di tarocchi. Non si esce ancora dal primo triangolo del nastro di Möbius in
Le città invisibili. È possibile fuggire dal silenzio-carcere attraverso una fabula originata
da semplici carte ma non proferendo parola? Questo si vedrà nel prossimo paragrafo.

del libro che ha per oggetto quell‟evasione trova […] nelle Città Invisibili una sua realizzazione
strutturale.”
84
M. Dini, Calvino critico, cit., p. 63: “La ricerca delle possibilità di fuga dalla fortezza d‟If corrisponde
alla ricerca delle possibilità formali e strutturali di composizione dell‟opera stessa”.
85
I. Calvino, Il conte di Montecristo, cit., p. 276.
86
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 13.
87
Cfr. M. Carlino, Il discorso-silenzio e i racconti “possibili” di Calvino, cit., p. 118: “Il deserto è il
silenzio, lo spazio dell‟assenza”.
88
I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, in Tarocchi. Il mazzo visconteo di Bergamo e New York,
Franco Maria Ricci editore, Parma 1969.

33
§1.2 Il castello dei destini incrociati

1.2.1 Silenzio

Il silenzio si avvicina,
caro Calvino, forse a un così vasto,
non ventoso, spaziale silenzio,
solo la pura immaginazione si adatta:
cioè la costruzione di un mondo
del tutto al di fuori della realtà?89.

La scelta di prendere in considerazione Il castello dei destini incrociati90 prima de


Le città invisibili, mentre, di solito, buona parte della critica fa risalire questo testo al
1973, è dovuta a due motivi principali: in primo luogo, seppur in un‟edizione lussuosa e
quindi poco fruibile dai lettori, il testo esce la prima volta nel 1969 presso l‟editore
Franco Maria Ricci in un volume sui tarocchi viscontei. Il testo del 1973 è però
composto di due parti: Il castello dei destini incrociati e La taverna dei destini
incrociati. Quindi sembrerebbe giustificata la scelta, per completezza, di riferirsi
all‟edizione del 1973 uscita da Einaudi. Invece, proprio leggendo la Nota scritta da
Calvino in quest‟occasione si viene a conoscenza di due fatti rilevanti per collocare
quest‟opera nel contesto della biografia intellettuale calviniana. Lo scrittore sanremese
confessa che “l‟idea di adoperare i tarocchi come una macchina narrativa combinatoria
mi è venuta da Paolo Fabbri che, in un «Seminario internazionale sulle strutture del
racconto» del luglio 1968 a Urbino, tenne una relazione su Il racconto della
cartomanzia e il linguaggio degli emblemi”91. Importante è quindi la data, che precede
sicuramente il periodo di gestazione del testo uscito nel 1972 – o che, quantomeno lo
affianca – e il fatto che Calvino confessi di aver fatto tesoro soprattutto

89
G. Parise, Postscriptum alla lettera del 5 novembre 1963 indirizzata a Italo Calvino.
90
I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, Einaudi, Torino 1973.
91
Ibid., p. 124.

34
dell‟insegnamento per cui “il significato d‟ogni singola carta dipende dal posto che essa
ha nella successione di carte che la precedono e la seguono”92.
In secondo luogo, proseguendo nella lettura della Nota, si può trovare un‟altra
preziosa indicazione, che si cita per intero per l‟importanza che ha all‟interno di questo
paragrafo:

Ho cominciato con i tarocchi di Marsiglia, cercando di disporli in modo che si presentassero come scene
successive d‟un racconto pittografico. Quando le carte affiancate a caso mi davano una storia in cui
riconoscevo un senso, mi mettevo a scriverla; accumulai così parecchio materiale; posso dire che gran
parte della Taverna dei destini incrociati è stata scritta in questa fase; ma non riuscivo a disporre le carte
in un ordine che contenesse e comandasse la pluralità dei racconti; cambiavo continuamente le regole del
gioco, la struttura generale, le soluzioni narrative93.

Calvino inizia a lavorare alla Taverna e svolge quasi tutto il lavoro in questa
prima fase, ma l‟impossibilità di definire uno schema unitario, di costruire un
“contenitore” dei racconti incrociati, come nel Castello, si mostra subito come
fallimento del progetto di ordine dello scrittore e, quel che più importa, non viene
risolto nella definitiva redazione successiva del 1973. Calvino non riesce, con La
taverna, a comporre tutte le storie in una rete coerente e ordinata, in un gioco sensato di
cui lo schema a reticolo delle carte costituisca la struttura latente; i “narratori” non
procedono in linea retta né secondo un percorso regolare. Alcune carte si ripresentano in
ogni racconto o più di una volta nel medesimo. Questo vale sia per la redazione
precedente a quella del Castello del 1969, sia per la redazione successiva che lo scrittore
confessa di aver pubblicato solo per liberarsene, per non seguitare a rimettere mani al
materiale accumulato: lo stesso Calvino ammette quindi il fallimento.
A problemi di tipo pittografico e affabulatorio subentrano poi intricate questioni a
livello dell‟orchestrazione stilistica. “Così passavo giornate a scomporre e ricomporre il
mio puzzle, escogitavo nuove regole del gioco, tracciavo centinaia di schemi, a
quadrato, a rombo, a stella, ma sempre c‟erano carte essenziali che restavano fuori e
carte superflue che finivano in mezzo, e gli schemi diventavano così complicati
(acquistando talora anche una terza dimensione, diventando cubici, poliedrici) che mi ci
perdevo io stesso”94. Questa frase è troppo simile alle parole de Il conte di Montecristo
quando si legge: “Io partendo dal disordine di questi dati, vedo in ogni ostacolo isolato
92
Ibidem.
93
Ibid., pp. 124-125.
94
Ibid., p. 126.

35
l‟indizio di un sistema d‟ostacoli, sviluppo ogni segmento in una figura regolare, saldo
queste figure come facce d‟un solido, poliedro o iperpoliedro, iscrivo questi poliedri in
sfere o ipersfere, e così più chiudo la forma della fortezza più la semplifico, definendola
in un rapporto numerico o in una formula algebrica”95, per non fare in modo che si
consideri come il tentativo di risolvere il medesimo problema: nel testo del 1967, i
personaggi di Calvino (e dietro questi lo stesso scrittore) si trovano imprigionati in una
fortezza dalla quale uscire significherebbe, trovato un ordine in un modello perfetto
della prigione perfetta, rintracciare il punto in cui la realtà non coincide con quel
modello, cioè la casella vuota. Dantès, pur individuando un tratto della strategia, non
riesce a evadere perché privato, come personaggio, della possibilità di individuare la
casella vuota sul nastro di Möbius della fortezza, a causa della mancanza di narrazione,
per via del silenzio. Faria, d‟altro canto, procede in questo modo: “Riscontra una
difficoltà, studia una soluzione, esperimenta la soluzione, urta contro una nuova
difficoltà, progetta una nuova soluzione, e così via. Per lui, una volta eliminati tutti i
possibili errori e imprevidenze, l‟evasione non può non riuscire: tutto sta nel progettare
ed eseguire l‟evasione perfetta”96. Dev‟essere stato il medesimo metodo utilizzato da
Calvino per gestire le carte e aggirare l‟impasse, un metodo a congetture e confutazioni
destinato però al disastro. La ricercata necessità generale di costruzione finalizzata a
condizionare l‟incastro di ogni storia nell‟altra sfugge, ne La taverna, dalle mani dello
scrittore sanremese.
Il lavoro compiuto da Calvino con i tarocchi per comporre la sua opera è il
medesimo che il Dumas del suo racconto di due anni prima deve affrontare per portare a
termine il suo romanzo: “Dumas sceglie, scarta, ritaglia, incolla, interseca; se una
soluzione ha la preferenza per fondati motivi ma esclude un episodio che gli farebbe
comodo d‟inserire, egli cerca di mettere insieme i tronconi di provenienza disparata, li
congiunge con saldature approssimative, s‟ingegna a stabilire un‟apparente continuità
tra segmenti di futuro che divergono. Il risultato finale sarà il romanzo Il conte di
Montecristo da consegnare alla tipografia”97. Lo scrittore proietta la questione del porre
ordine al caos sui propri personaggi finzionali, che siano l‟alter ego del reale Alexandre
Dumas o dei personaggi nati per mano di quest‟ultimo. “I diagrammi che io e Faria

95
I. Calvino, Il conte di Montecristo, cit., p. 278
96
Ibid., p. 277.
97
Ibid., p. 282.

36
tracciamo sulle pareti della prigione assomigliano a quelli che Dumas verga sulle sue
cartelle per fissare l‟ordine delle varianti prescelte”98. Queste due righe del racconto del
1967 sono, all‟interno della poetica calviniana, fondamentali per comprendere come lo
scrittore sanremese “si diverta” a trasferire problematiche reali, problemi politici e
letterari nel medesimo tempo, all‟interna della propria produzione e come attui pure il
tentativo di una riflessione e forse di una soluzione a determinate questioni. Lo si vede
bene in questo caso: se poteva apparire arbitraria la scelta di avvicinare l‟episodio
narrato di Faria-Dantès alla problematica generale della scrittura in Calvino e, in
particolare, nelle Città Invisibili, qui è lo stesso autore a dirci che il lavoro dello
scrittore (per esempio di Dumas) non si differenzia dal tentativo di fuga da parte dei due
personaggi. La prigione, parte di quel sistema che è il deserto-inferno (forse fuori, forse
dentro la città) è un‟immagine, come quella del caos, dello sfacelo informe, per dire di
una situazione reale, di un problema vero, letterario, politico che Calvino avverte, di cui
ha parlato nelle lettere citate nel primo paragrafo. Lo scrittore ha smesso di credere in
una soluzione immediatamente pratica come poteva essere la militanza nel partito
comunista, non si affida nemmeno alle rivolte studentesche (benché né sia affascinato)99
e, mentre viene accusato da certa parte della cultura italiana di essere distante dagli
eventi politici di fine anni Sessanta100, ecco che scrive questi racconti. Personaggi che
ipotizzano fughe da prigioni, in racconti che riscrivono romanzi stranieri. A ben vedere,
il Calvino che aderisce a questo progetto di letteratura combinatoria, cioè che scrive due
diversi romanzi attraverso l‟utilizzo delle carte dei tarocchi viscontei e marsigliesi, più
che impegnato in un gioco fine a sé stesso, sembra fortemente interessato invece a dare
forma e ordine ad un caos che avverte intorno a sé. Calvino ama nascondersi dietro
costruzioni apparentemente così astratte da parer sintomi di un atteggiamento vile dal

98
Ibidem.
99
Cfr. I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., pp. 1008-1010, dove Calvino il 27.7.68 scrive a Rago: “Tornati
a Parigi nei giorni bellissimi della Sorbona occupata e delle prime occupaz. di fabbriche. […] Viviamo là
le ultime giornate della straordinaria città senza macchine né metro, con le code ai negozi, poi il discorso
di De Gaulle, le macchine dei gollisti clacsonanti che cercano di penetrare nel Quartier e sono scacciate,
la Sorbona che sembra una fortezza assediata, coi katanghesi appostati e i giovani che s‟aspettano il
peggio e maledicono i comunisti. Nottate in cui non si fa che girare a piedi tra continui allarmi in un clima
di eccitazione straordinario. […] In fondo mi trovo nella posizione ideale dello spettatore, succedono cose
che mi interessano profondamente, che corrispondono nelle linee generali a quelle che auspicavo (anche
se non avrei saputo prevederle chiaramente) e nelle quali non si chiede – anzi si esclude – la mia
partecipazione. È uno sgravio di coscienza assolutamente distensivo; cosa potrei chiedere di più?”.
100
Ci si riferisce in particolare a Pier Paolo Pasolini. Cfr. C. Benedetti, Pasolini contro Calvino. Per una
letteratura impura, Bollati Boringhieri, Milano 1998.

37
punto di vista dell‟impegno intellettuale. Invece, armato di carta e penna, ipotizza, per i
suoi lettori, una via di fuga. Risolto in fallimento l‟episodio di Faria e Dantès – per via
del silenzio – ora Calvino si inoltra in un‟altra prova, permette un passo in più ai suoi
personaggi sul nastro di Möbius. Le dame e i cavalieri riuniti intorno alla tavolata del
castello-locanda iniziano a raccontarsi l‟un l‟altro storie.
La scelta, per cui, di utilizzare Il castello dei destini incrociati e La taverna dei
destini incrociati come chiave di lettura di una piccola parte de Le città invisibili è
spinta dal fatto che sono due opere pensate e costruite, con o senza fallimenti, prima
delle Città invisibili, e non importa che soltanto una stretta schiera di lettori abbiano
potuto fruirne101, ed eventualmente solo del primo. È rilevante invece che nell‟itinerario
di crescita intellettuale di Calvino, egli si sia posto determinati problemi, che ha cercato
di risolvere prima in queste opere, e solo successivamente ha visto la luce il testo sulle
città invisibili dove, forse, agli stessi ostacoli ha trovato soluzioni differenti.
Anzi, si crede qui che proprio il fallimento sia del Castello – ordinato in una
struttura perfetta, ma privo della casella vuota –, sia della Taverna – risolta in un caos
solo minimamente formato in una costruzione coerente, ma nel quale è però presente la
casella vuota – sia il movente di certe scelte compiute da Calvino nelle Città Invisibili (a
livello dell‟organizzazione del testo e del dialogo dei personaggi), per cui una lettura dei
due testi affiancata da certi contributi esterni potrà essere chiarificatrice del primo
triangolo del testo del 1972. Si prendono Il castello e La taverna insieme,
considerandole entrambe le metà di questo fallimento annunciato. Qui sotto sono
riprodotti i reticoli di carte che lo stesso Calvino pose nel suo testo.

101
Ci si contrappone qui alla presa di posizione di G. Bonura, Invito alla lettura di Calvino, Mursia,
Milano 1972, che a p. 89 scrive: “Dobbiamo confessare una nostra idiosincrasia di natura classista, che
non fa onore all‟oggettività del critico ma che, secondo noi, lo giustifica sul piano politico. La nostra
idiosincrasia, o colpa, è questa: ci siamo rifiutati di parlare nel luogo e nel momento opportuni di Il
castello dei destini incrociati perché questo libro è apparso, in edizione lussuosissima, presso l‟editore
Franco Maria Ricci nel 1969. […] Ora, che senso ha parlare di un libro che gran parte (per non dire tutti)
dei nostri lettori non avrebbe avuto modo di leggere?”.

38
Mosaico di carte de Il castello dei destini incrociati.

Mosaico di carte de La taverna dei destini incrociati.

39
S‟è detto in precedenza che il problema dei personaggi del racconto del 1967 – a
differenza del rapporto che s‟instaura tra Rustichello e Marco Polo in Manganelli o tra
Marco Polo e Kublai Kan nelle Città – è la mancanza di un dialogo costruttivo di una
narrazione. Questa mancanza si configura come silenzio, e quest‟ultimo è parte del
deserto infernale. Ci s‟inoltra nella problematica del silenzio considerandolo parte
integrante dello sfacelo senza fine né forma da cui si ritrae Kublai, nelle parole di Marco
Polo. Importa il legame silenzio-inferno e vedere com‟è possibile sfuggirne, osservare
se le carte emblemi bastano a questo scopo.
C‟è un letterato di Reggio Emilia, di tre anni più vecchio di Calvino, che scrive
all‟inizio degli anni quaranta un racconto lungo dal titolo All’insegna del “Buon
Corsiero”102, uscito nel 1942: si tratta di Silvio D‟Arzo103 (pseudonimo di Ezio
Comparoni). Si ricorre a questo racconto non solo per la “sua prosa umbratile,
avviluppata, morbidissima”104, ma soprattutto per il “silenzio profondissimo, che per un
attimo discende sulla locanda” che “è molto più di un tacere: è il segreto stesso della
realtà, che rivela di non appartenere a questo mondo, ma all‟altro mondo misterioso che
costeggia il nostro, diviso da una lievissima e invalicabile quinta d‟aria”105.
Prima di tutto, l‟ambientazione del racconto del 1942 (una locanda) è facilmente
accostabile alla ricca corte del Castello che somiglia, per un senso di casualità e di
disordine, a “una locanda di passo, dove persone tra loro sconosciute, di diversa
condizione e paese, si trovano a convivere per una notte”106, un ristoro di boccacciana
memoria sulle cui tavole imbandite s‟intrecciano entrambe le storie. Si è in un castello e
a un tempo in una locanda, come prima si era in un castello e a un tempo in una
prigione (e come Rustichello era in una prigione e nello stesso tempo in una reggia). Il
narratore non riesce a capire se il castello si sia lentamente degradato a locanda o se
viceversa la taverna abbia invaso le antiche sale signorili della reggia. Qui dame,
cavalieri e osti camuffati come là marchese, locandieri e avventurieri s‟incrociano in
pagine dalle comuni caratteristiche infernali. Quando, ne Il castello dei destini
incrociati il narratore si trova in mezzo a una buona compagnia d‟altri viaggiatori

102
S. D‟Arzo, All’insegna del “Buon Corsiero”, Vallecchi, Firenze 1942. Citerò però da S. D‟Arzo,
All’insegna del “Buon Corsiero”, Otto/Novecento, Milano 2009.
103
D‟Arzo è diventato celebre grazie al suo racconto Casa d’altri definito da Montale “un racconto
perfetto”. Cfr. S. D‟Arzo, Casa d’altri, Einaudi, Torino 2007.
104
P. Citati, D’Arzo, angelo sparito in volo, in “la Repubblica”, 28 marzo 1995.
105
Ibidem.
106
I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, cit., p. 4.

40
vorrebbe scambiare con loro i resoconti delle avventure trascorse. Ma accade che
nessuno riesca a proferire parola. Gli ospiti si esprimono a gesti, in questo modo
comunicano ai servi. Uno strano mutismo è sceso sui personaggi di Calvino, dopo la
traversata di un fitto bosco. Questi personaggi, che siano viandanti o facoltosi cavalieri,
restano seduti, muti, e possono soltanto guardarsi in viso. Allo stesso modo, Silvio
D‟Arzo, scrive: “Le parole, intanto, che fino allora avevano reso intima e familiare,
quasi come una grande casa, la locanda, adesso si andavano lentamente spegnendo”107.
La traversata del bosco ha causato, per ciascuno dei commensali calviniani, la perdita
della favella. Il rapporto è diretto e, se non si può far risalire a un mero e semplice
rapporto di causa-effetto, è possibile, invece, legarlo e appoggiarlo subito al labirinto
che il fitto bosco rappresenta. Quel silenzio non è altro dall‟attraversamento
dell„“intrico di rami protesi su una rada vegetazione di foglie e fiorellini selvatici”108,
non diverso dal Nove di Bastoni dove “il segmento verticale che incrocia gli altri legni
obliqui suggeriva appunto l‟idea della strada che penetra nel folto della foresta”109.
Propria della prigione-labirinto di Dantès-Faria è questa privazione della parola, così
come proprio di questo bosco-labirinto è il silenzio. Interessa perciò, trovato il legame
che si instaura tra la prigione del 1967 e il bosco del 1969, vedere in che modo questo
silenzio è infernale, parte del deserto demoniaco. Si lascia da parte, considerandola solo
nel prossimo paragrafo, la questione che riguarda la somiglianza tra questo intrico
ingannevole del bosco e le difficoltà di Calvino nel trovare un disegno ordinato per le
carte, il tentativo di sfidare il labirinto boschivo sovrapponendogli una struttura
altrettanto intricata. Si parla ora solo ed esclusivamente del silenzio e del suo luogo.
Per restare nei testi, il limite del Castello del 1969 è che tra questo fitto bosco
umbratile e il silenzio successivo non vediamo nulla più di un collegamento arbitrario, e
ancor meno si potrebbe riportare questo silenzio all‟inferno iniziale di cui si diceva
sopra. L‟uscita dalle pagine di Calvino per accostarsi a un racconto di qualche decennio
precedente è giustificata, oltre che dalla ricorrenza dei temi, dei tempi e dei luoghi tra
Comparoni e Calvino, dal fatto che lo scrittore sanremese conosceva la produzione di

107
S. D‟Arzo, All’insegna del “Buon Corsiero”, cit., p. 25.
108
I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, cit., p. 8.
109
Ibidem.

41
Silvio D‟Arzo se in una lettera del 23 dicembre 1952 scriveva a Bassani: “Ho letto il
D‟Arzo e mi sembra molto buono”110.
Si tratta di trovare la fonte del silenzio in D‟Arzo che non è diversa dalla fonte del
mutismo in Calvino e vedere se il tentativo di sfuggirvi con le carte è sufficiente e
eventualmente se già in D‟Arzo s‟intravede la fuga. Da dove proviene il silenzio? Per
capirlo basta leggere lo scrittore emiliano con attenzione, sempre rimanendo all‟interno
del primo triangolo de Le città invisibili a quell‟istante in cui gli ambasciatori
riferiscono notizie in lingue incomprensibili al Kan e Marco Polo è “nuovo arrivato e
affatto ignaro delle lingue del Levante”111: scende perciò il mutismo reciproco, all‟inizio
e solo per qualche istante. Si cerca cosa precede il silenzio nella locanda, che sia quella
di Comparoni o di Calvino non importa, si osserva cosa si muove là sotto, nel deserto
fuori dal nastro e cosa tiene fermi e impossibilitati a scappare Dantès e Faria. I
personaggi di D‟Arzo avvertono una strana sensazione:

«Non senti questo silenzio?» gli chiese infine a modo di risposta la ragazza. «La Marchesa vuol sapere
cos‟è questo silenzio.» […] Dopo un attimo non fu che buio anch‟essa. Il cortile, cui la luna liberatasi
dagli stracci di nuvole biancastre, veniva a dare ora un aspetto di cosa già sognata, non appariva più
quello cordiale e solido di sempre, benché nessuna causa, causa almeno precisa e raccontabile, fosse
venuta a mutarlo nel frattempo: lo strano, forse - sempre che d‟assurdo e di strano sia lecito parlare in
quest‟avventura terrena d‟altri tempi - lo si poteva cogliere soltanto nei viaggiatori e nei lacchè che, come
abbiamo già avuto occasione di vedere, facevano quasi da sfondo umano alla locanda112.

Qualcosa di difficilmente definibile portano con sé gli ospiti della locanda raccolti
intorno al tavolo. I personaggi di D‟Arzo interrogandosi gli uni gli altri sul motivo che
tramuta “quel cicaleccio, quell‟animazione, quel così fitto e vario chiacchierio” tipico
delle locande in “uno strano, particolarissimo silenzio che sembrava nascere e salire via
via dalle cose stesse, dai sassi, dalla strada, dalla pianura circostante forse, come la
prima nebbia verso sera: una cosa concreta, in un certo senso, che pigliava gli uomini e
le cose, e li immergeva e giungeva quasi a turbare, a certi tratti” 113, trovano risposta
qualche pagina più avanti, col presentarsi sulla scena del testo e nella taverna stessa di
un personaggio che attraverserà l‟intera storia e che soltanto nelle ultime righe del libro
rivelerà la sua vera identità: “Era entrato, infatti, e si era diretto lentamente ma non
incerto al tavolo che i servi avevano già preparato per la dama, un uomo che dai modi o

110
Cfr. I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., pp. 368-369.
111
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 29.
112
S. D‟Arzo, All’insegna del “Buon Corsiero”, cit., pp. 24-25.
113
Ibid., p. 20.

42
dallo sguardo o, forse, infine anche da un sesto senso si rivelò subito per il
Funambolista”114. I presenti avvertono la sensazione che il tempo abbia cessato di
scorrere attorno a loro. In questa parte del racconto c‟è un suggerimento ulteriore
all‟interpretazione delle parole di Calvino nelle prime pagine de Le città invisibili in
riferimento al senso di vuoto115. L‟immagine del funambolo turba per la confidenza
ch‟egli ha con questa condizione disperata, ma porta sgomento anche per qualcosa che i
personaggi non riescono a decifrare, qualcosa che s‟avverte, ma non è nominabile:
“Benché, infatti, il pensiero che un uomo ignoto e solo avrebbe la sera dopo attraversato
il vuoto di una piazza, da nessun‟altra magia o miracolo aiutato che non fosse la sua
volontà o, forse, il suo bastone, riempisse di qualcosa di vago e triste l‟anima, tuttavia
nessuno di quelli che lo videro entrare così assente e così remoto nel cortile, e preceduto
da una lunga ombra sopra i sassi, aveva mai immaginato o sospettato di provare
qualcosa di simile al vederlo [corsivi miei]”116.
L‟intera vicenda narrata ruota attorno a questa figura di straniero e alla sua
intromissione nelle vicende dei personaggi della locanda del “Buon Corsiero”. Per il
discorso che si sta facendo, importa questa relazione che si instaura tra il funambolo e
l‟incantato silenzio che segna di sé la sua misteriosa presenza. Questa inattesa figura
dovrà percorrere a braccia aperte sopra un filo di corda la distanza che separa il palazzo
dell‟Orologio dal Rettorato, e tutto il romanzo breve è giocato sull‟attesa di questo
evento oltre che su vicende sentimentali che qui non interessano.
Un episodio del romanzo lega il silenzio che circonda la sua figura al Castello e
alle Città Invisibili. È il momento in cui, entrato nella vecchia rimessa, dove i paesani
giocano a carte, il funambolo sfida al gioco dei dadi Sertorio e man mano che la partita
avanza “il silenzio cresceva intanto come una strana nebbia dietro loro”117. La sfida al
funambolo si configura come sfida al silenzio, a forza di lanci di dadi. “Sicché tutto si
riduceva ai gesti di quelle due mani sopra il tavolo”118. Ma Sertorio, abituato a vincere
barando, questa volta perde. La partita a dadi, non a caso inviluppata nel silenzio, è la
114
Ibid., p. 25.
115
Cfr. P. Citati, D’Arzo, angelo sparito in volo, cit.: “Egli porta in sé il segreto definitivo: la felicità e il
terrore racchiude in sé la morte; conosce il Paradiso e l'Inferno. O per meglio dire, il Paradiso e l'Inferno
sono, per lui, il medesimo luogo: un abisso popolato di vuoto, nutrito di vuoto, dominato dal vuoto,
gremito di figure vuote e spettrali”.
116
S. D‟Arzo, All’insegna del “Buon Corsiero”, cit., pp. 25-26. Proprio perché il funambolo affronta il
senso di vuoto in solitudine la sua impresa è destinata al fallimento.
117
Ibid., p. 57.
118
Ibidem.

43
medesima partita a carte, scambio di tarocchi che i personaggi del Castello inscenano
grazie al mazzo visconteo, per rimediare al silenzio e cercare in qualche modo di
raccontare le loro vicende, e questo gesticolare per vincere in un gioco, riporta il
discorso alle Città Invisibili, quando Marco Polo, incapace di esprimersi a parole a
Kublai Kan, impossibilitato a instaurare una narrazione scritturale, si limita a
gesticolare: “Marco Polo non poteva esprimersi altrimenti che con gesti, salti, grida di
meraviglia e d‟orrore, latrati o chiurli d‟animali”119. Questa situazione d‟impasse
comunicativa s‟avverte pure ne Il castello dove si legge che “quando uno degli ospiti
voleva chiedere al vicino che gli passasse il sale o lo zenzero, lo faceva con un gesto, e
ugualmente con gesti si rivolgeva ai servi”120 oppure quando ne La taverna il narratore
dice: “Faccio dei gesti per dire che ho perduto la parola, anche gli altri stanno facendo
gli stessi gesti, sono muti, abbiamo perso la parola tutti, nel bosco”121.
Che relazione c‟è tra il funambolo e il silenzio dei commensali? In che modo
questo personaggio può aiutare a chiarire il rapporto tra il nulla, il deserto, la prigione e
soprattutto l‟inferno con il silenzio? Dato che i gesti non bastano a sfuggire, le carte
invece, gli emblemi serviranno a scappare dalla prigione, dal silenzio, dal deserto?
Le risposte a questi quesiti sono riposte tra le righe del racconto di D‟Arzo e
nell‟ultima riga in particolare, dove il personaggio toglie la maschera. L‟apice del
silenzio si raggiunge quando il mutismo dei locandieri si diffonde alla folla degli
spettatori, nel giorno della grande performance:

Il silenzio passava sulla piazza come un‟ala. Si spandeva poi stupefatto nel cielo a calme onde. Poi, […] a
un tratto si fece quasi doloroso perché il Funambolo aveva ora appoggiato una gamba sul filo in mezzo al
vuoto122.

Ecco che il silenzio, che stava prima sospeso tra le cose, ora si concentra tutto
nella sua figura: puro, assoluto, vertiginoso123. In questo passo si legano chiaramente il
senso di vuoto e il silenzio: quest‟ultimo sembra naturalmente scaturire dal primo ed
esserne parte. Questa dimestichezza con il vuoto del funambolo genera il silenzio
fintanto che le due cose, silenzio e vuoto, vengono a sovrapporsi completamente. Il
personaggio di Lelio per gelosia decide di tagliare la corda del funambolo con un gesto
119
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 29
120
I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, cit., p. 5.
121
Ibid., pp. 51-52.
122
S. D‟Arzo, All’insegna del “Buon Corsiero”, cit., p. 89.
123
Cfr. P. Citati, D’Arzo, angelo sparito in volo, cit.

44
che fa cadere il funambolo a terra. Questo gesto è la stessa cosa del gesto che vuol
rompere il silenzio comunicativo, tra Marco Polo e Kublai oppure tra i commensali. Ma
ancora una volta si ha la prova che il gesto non è sufficiente, il silenzio sotto forma di
funambolo ritorna.
Preme tuttavia soprattutto stabilire un rapporto di prossimità tra questo silenzio
funambolico e il deserto-inferno de Le città, e legare così la difficoltà di sfuggire dalla
prigione di Dantès e Faria per via del silenzio, all‟impossibilità di sfuggire al silenzio
con semplici emblemi ne Il castello e in una certa parte de Le città. Ci si incammina
ancor più sulla superficie, dove giace il movente della scrittura calviniana e che si trova
rappresentato con diverse figure nelle sue opere dal 1967 in poi: castello-prigione-
nastro-silenzio, bosco-silenzio-labirinto, che sono ne Le città invisibili, sfacelo-deserto-
inferno. Grazie a queste figure più avanti uscendo dai testi si spiegherà il movente
politico della scrittura calviniana.
Finalmente è possibile avvicinare il silenzio della taverna-castello calviniana alla
sua intima essenza. Del bosco labirintico si tratterà in seguito. Si è visto in D‟Arzo
scendere una nebbia di silenzio in una locanda e su ogni cosa, al presentarsi tra le
pagine di una figura ancora non svelatasi: il funambolo. Personaggio che intrattiene un
rapporto quotidiano con il vuoto e ne è quasi parte. Poi questo funambolo subisce
l‟attacco per gelosia dello stalliere Lelio. Cade a terra e sotto gli occhi sgomenti della
folla pare morto. Che relazione ci sarebbe quindi tra inferno e silenzio dei personaggi?
Che cos‟ha da spartire il deserto-inferno con il mutismo dei locandieri ne Il castello dei
destini incrociati o ne La taverna dei destini incrociati? A cos‟è servito prendere in
considerazione questo romanzo breve di Comparoni?
Si viene infine al punto: parte di questa storia è il racconto dei preparativi per il
matrimonio della figlia dell‟oste. Tra le varie cerimonie si terrà anche una
rappresentazione teatrale in piazza, il cui regista è il lacchè Androgeo, personaggio
avvezzo sin dall‟inizio alla “distrazione, a quel suo sprofondarsi del tutto nel sogno o
nel ricordo di una cosa, che il Marchese soleva chiamare scherzosamente «la
poesia»”124. L‟ultimo capitolo del libro dello scrittore emiliano mostra la prima scena di
questo spettacolo. Due maschere iniziano un dialogo che tuttavia non rispetta il copione.
A rendersene conto prima di tutti è chi tra i due è l‟attore vero, che si irrita per via della

124
S. D‟Arzo, All’insegna del “Buon Corsiero”, cit., p. 16.

45
condotta fuori dagli schemi dell‟altro “attore”. Poi subentra di nuovo Lelio, colui il
quale aveva sabotato lo spettacolo del funambolo, e rompendo il silenzio degli spettatori
“colla gioia del tutto fisica di un muto che riacquista a un tratto la parola, si era liberato
da involto e da tricorno e, indicando in furia scomposta il Gentiluomo, aveva
cominciato a gridare quasi folle:

«Attenti amici non è un attore, quello. Quello è l‟Uomo in viola, il funambolo, vi dico. E io sono andato a
tagliargli la fune dal Gran Turco. Gliel‟ho tagliata con un vostro coltello da cucina, sì, un coltello…». E
poi, di mano in mano crescendoli il coraggio, e abituandosi via via alla nuova voce: «Deve trattarsi del
Diavolo, per forza. Perché io gli ho tagliata la fune sotto i piedi e l‟ho vista cadere con questi occhi. Vi
dico che l‟ho visto andare a finire sopra i sassi. Sì, sui sassi. Ma lui è apparso più tardi[…]. E mi è
riapparso alla maniera di…»125.

Si raggiunge in questo modo indubbiamente la connessione tra inferno (Diavolo)


e silenzio126. Tutta quella silenziosa nebbia che il funambolo portava con sé era data dal
suo essere demoniaco. Così come Kublai si ritrae dal deserto-inferno del suo impero per
seguire i racconti di Marco e vincere il silenzio, così come l‟impossibile fuga dal
castello d‟If diventa impossibile fuga dal silenzio, così come i locandieri del Castello e
della Taverna invano mediante gesti tentano di sottrarsi al mutismo, nel racconto di
Silvio D‟Arzo la vittoria sul mutismo è, già subito, sconfitta dell‟inferno che il Diavolo
simbolizza. Chi smaschera il Diavolo è il servitore che per gelosia provò a ucciderlo.
Tuttavia ai fini di questo discorso è rilevantissimo un ulteriore aspetto dello
smascheramento: il luogo dove ciò avviene e la fonte di questo spazio. Per la prima
volta, nel discorso generale su Le città invisibili seppur in un altro testo – quindi non
propriamente in Calvino – si trova l‟indicazione per la fuga dal silenzio-inferno-deserto:
si è visto, infatti, che è riprendendosi dal silenzio generale che Lelio addita
smascherandola la figura del funambolo-diavolo. Si rompe il vuoto e lo si riempie, per
così dire; si dà al silenzio una tonalità non più infera, comunicativa. Il silenzio diventa
spazio da colmare di narrazione, superficie da perlustrare incamminandosi e diventa:
“Un silenzio però che si intuiva subito diverso da quello che aveva quasi portato con sé
il Funambolista: umano, ecco, un silenzio dirò come abitato, dal momento che s‟intuiva
che, oltre il porticato, al di là delle finestre e dei balconi verdi d‟edera, uomini stavano,

125
Ibid., p. 123.
126
Cfr. M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, cit., p. 80: “Il Diavolo della carta […] è quello che si annida nel
fondo della «materia prima dello scrivere». Se Il Diavolo è la topologia del sotto, lo scrittore appartiene a
quella del sopra: la superficie della scrittura”.

46
sia pur dimentichi, vivendo. Anche il rumorio di cucciolo che lappi il latte che il
ruscello faceva a tratti contro le rive e qualche pietra, qua e là affiorante come un
ricordo a fior dell‟acqua, erano qualcosa di vagamente, di dolcemente umano e
confortante”127. C‟è un nulla all‟origine e c‟è un nulla come esito 128. Se il primo è
fallimento e silenzio infernale, il secondo è lo spazio della casella vuota da percorrere
come lettori.
Interessa la scena in cui si svolge la dissimulazione del funambolo e chi ne è
l‟artefice. Si cerca il creatore dello spazio della possibile fuga dal silenzio-inferno. Per
tutto il racconto, il personaggio di Androgeo è impegnato a costruire il palco per la
rappresentazione teatrale. Non si cura di null‟altro che della buona riuscita della messa
in scena. Mentre le peripezie di Lelio, Sertorio e gli altri sono indissolubilmente legate e
turbate dalla presenza del funambolo, si può facilmente notare – D‟Arzo stesso lo
suggerisce – “come Androgeo soltanto abbia mostrato una indifferenza assoluta pel
Funambolo, conservandosene in tutto indipendente: e di qui essere indotto a concludere,
magari, che questa singolare figura di lacchè, – che si mostra del tutto superiore al senso
d‟inquietudine e disagio entrato nel cortile col Funambolo, che non si cura nemmeno di
andare a vedere il Funambolo sul filo, ma che abbiamo visto rapito, d‟altra parte,
davanti a una corona di colli e, peggio, un rospo – oltrepassi i limiti, per dir così, di una
natura umana ed entri in quelli del simbolo piuttosto”129.
Viene quindi il sospetto, grazie al suggerimento del narratore, che dietro la figura
di Androgeo si nasconda qualcosa in grado di far fronte alla presenza del funambolo-
diavolo. Pare perciò che il motivo per cui, per tutto il romanzo, Androgeo abbia
ignorato il silenzio infernale portato con sé da “un insolito avventore (Il Diavolo)” che
“si sia presentato alla […] locanda-castello”130 possa essere non tanto una mera
indifferenza, quanto piuttosto il suo atteggiamento volto all‟ascolto di fantasie e
all‟allestimento di una rappresentazione poetica del mondo. Androgeo, come Marco
Polo, scrive, e in lui già si vede il passaggio dalla figura del lettore a quella di
fabulatore: è prima di tutto poeta e con sguardo di scrittore crea, in mezzo alla nebbiosa

127
S. D‟Arzo, All’insegna del “Buon Corsiero”, cit., p. 27.
128
Cfr. M. Porro, Letteratura come filosofia naturale, cit., p. 63: “L‟assenza non ci attende solo al
termine del percorso, ma è fondamento, come sotto lo scritto continua ad agitarsi lo spettro della pagina
bianca”.
129
S. D‟Arzo, All’insegna del “Buon Corsiero”, cit., p. 116.
130
I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, cit., p. 46.

47
atmosfera di tutto il racconto, lo spiraglio per la rivelazione del demoniaco e la sua
sconfitta per mezzo del personaggio di Lelio131. Non si cura del silenzio che con sé porta
il funambolo, ma fa trasparire lo scacco al silenzio che la lettura permette sulla
superficie di gioco. Nel racconto di D‟Arzo è già racchiuso perciò il segreto delle Città
Invisibili. Marco Polo narra e racconta di città impossibili e lascia al lettore Kublai il
compito di trovare lo spazio da riempire con una lettura-scrittura successiva,
rivolgendosi così al lettore empirico. Qui Androgeo combatte il silenzio demoniaco del
funambolo costruendo, per tutto il racconto, lo spazio da riempire di narrazione da parte
del lettore-scrittore (Lelio): e si vince mutismo e si scaccia l‟inferno.
Il senso della figura di Androgeo si rivela così essere non quello di “un uomo
strano solamente, dall‟aspetto a volte leggiadro e a volte goffo, e che questo, ecco, non
sia più che una maniera umana per svelarsi, o un pretesto anche, se si vuole, per poter
meglio manifestarsi agli uomini: ma che in realtà vi si nasconda o vi si adombri la
Poesia stessa o l‟Arte o cose simili”132. D‟Arzo consegna una possibile chiave di lettura
del suo testo, e aiuta inoltre questo discorso: a rompere il silenzio e scacciare il deserto-
inferno è la magia della poesia133 e con essa della scrittura134. Non è qui che si
approfondisce questo problema: basta per ora aver appurato questo stretto legame tra
silenzio, inferno, senso di vuoto e deserto. L‟inferno porta con sé il silenzio. Ma già si
sa che sia ne Il castello dei destini incrociati sia ne La taverna dei destini incrociati
questo silenzio subentra nel bosco. Sarà perciò giocoforza interrogare le caratteristiche
di questo bosco in Calvino, dove la sfida al silenzio, nei locandieri-castellani, si
configura come sfida al bosco-labirinto-silenzio mediante emblemi135. Cos‟è il bosco?
Questa domanda troverà una risposta nel prossimo sotto-paragrafo.

131
Cfr. M. Dini, Calvino critico, cit., p. 87: “Alla scrittura Calvino sembra affidare un compito
terapeutico, catartico, purificatorio nel momento in cui le attribuisce la funzione di portare alla luce il
«brulicare demoniaco» che è dentro ogni individuo”.
132
S. D‟Arzo, All’insegna del “Buon Corsiero”, cit., pp. 116-117.
133
Cfr. M. Belpoliti, Settanta, cit., p. 220: “L‟idea stessa del silenzio attraversato da risonanze è prossima
alla poesia”.
134
Cfr. I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, cit., pp. 100-101: “Il Diavolo dovrebb‟essere la carta
che nel mio mestiere s‟incontra più sovente: la materia prima dello scrivere non è tutto un risalire alla
superficie di grinfie pelose, azzannamenti cagneschi, cornate caprine, violenze impedite che annaspano
nel buio?”.
135
Cfr. le bellissime parole che Goffredo Parise scrive a Calvino all‟inizio del gennaio 1964: “Ma il
silenzio, gelido vento, di tanto in tanto attraversato da risonanze, da piccoli diapason, da lilliput avvolti
nel sudario dei bagni turchi, il silenzio dico è la tentazione maggiore. Ed è una tentazione estetica prima
di tutto, non tanto una necessità filosofica (com‟è però)”.

48
Un‟ultima annotazione: ne Il castello dei destini incrociati tra i tarocchi del mazzo
visconteo miniati da Bonifacio Bembo, soltanto due sono andati perduti: tra questi,
proprio Il Diavolo (oltre a La torre). Si consideri perciò l‟accostamento del testo
calviniano al racconto di Silvio D‟Arzo, attraverso la figura del funambolo, anche come
un tentativo di ridare un‟immagine a quel tarocco che forse lì nella locanda, nascosto tra
i cavalieri e gli avventori, è fonte prima del loro silenzio, e parte del bosco-labirinto
infernale.

1.2.2 Labirinto

L‟uomo cammina per giornate


tra gli alberi e le pietre.
Raramente l‟occhio si ferma su una cosa,
ed è quando l‟ha riconosciuta
per il segno d‟un'altra cosa. […]
Tutto il resto è muto e intercambiabile136.

Nella Nota all‟edizione del 1973 de Il castello dei destini incrociati Italo Calvino,
dopo aver spiegato i vari tentativi fallimentari di organizzare i tarocchi marsigliesi
seguendo ferree regole d‟incastro delle storie le une nelle altre, scrive: “A più riprese, a
intervalli più o meno lunghi, in questi ultimi anni, mi cacciavo in questo labirinto che
subito m‟assorbiva completamente. […] Passava qualche mese, magari un anno intero
[…] ricominciavo a comporre schemi, a correggerli, a complicarli: m‟impelagavo di
nuovo in queste sabbie mobili, mi chiudevo in un‟ossessione maniaca”137.
Impossibilitato a gestire e intrecciare i tarocchi marsigliesi in maniera così rigorosa
come le figure miniate viscontee ne Il castello, dove ogni carta ricorre una sola volta e
storie differenti si formano leggendo i tarocchi da destra a sinistra o viceversa, dall‟alto
al basso e via dicendo, lo scrittore sanremese confessa, per la Taverna, la sua totale

136
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 21.
137
I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, cit., p. 127.

49
sconfitta immaginandola come una perdita di sé nel labirinto sabbioso della struttura
imperfetta del testo138.
Ritorna l‟immagine dell‟arido deserto d‟esordio che in questo libro assume una
particolare valenza: “La Luna è un deserto […], da questa sfera arida parte ogni
discorso e ogni poema”139. Calvino conferma quanto già acquisito: all‟origine della
narrazione c‟è l‟inferno, sotto forma di deserto. Questa sabbioso movente della scrittura
si configura adesso come labirinto da sfidare, caos da riordinare contro cui, forse,
l‟intellettuale italiano fino a 1972 fallirà. È facile osservare come il labirinto in
questione sia rappresentato, nel testo, dal bosco, e un passo della Storia dell’ingrato
punito è chiarissimo a tal proposito: “Ora il bosco ti avrà. Il bosco è perdita di sé,
mescolanza. Per unirti a noi devi perderti, strappare gli attributi di te stesso, smembrarti,
trasformarti nell‟indifferenziato, unirti allo stuolo delle Ménadi che corre urlando nel
bosco”140.
Del resto, già si è detto delle infere caratteristiche del bosco che priva della parola
cavalieri e dame, cortei reali e semplici viandanti e il cui attraversamento comporta
difficili prove per i personaggi, incontri inattesi, apparizioni improvvise e duelli. Sono
questi eventi incontrollabili a non permettere di riordinare i movimenti, a confondere i
pensieri dei viaggiatori e a ricordare lo stato dello scrittore quando dice: “Stavo
diventando matto? Era l‟influsso maligno di queste figure misteriose che non si
lasciavano manipolare impunemente?”141. Che si tratti di quei momenti in cui, – si segue
qui di nuovo la Nota – svegliatosi di notte per effettuare la correzione decisiva e resosi
poi conto che quest‟ultima comporta una serie interminabile di spostamenti, o di altri
istanti in cui coricatosi col sollievo d‟aver trovato la formula perfetta e alzatosi al
mattino per strappare deluso i fogli, Calvino si sente in ogni caso condannato al silenzio
dalla vertigine dei grandi numeri che si sprigiona dalle operazioni combinatorie che sta
cercando di compiere. Si può dunque pensare che il senso di disorientamento e il
mutismo cui sono condannati i suoi personaggi non siano altra cosa dal senso del
fallimento provato da Calvino di fronte ai tarocchi. Per questo un‟analisi del bosco
come labirinto servirà a chiarire ulteriormente il movente infernale-caotico della

138
In questo senso si può dire che “Calvino è stato plagiato dal fascino delle concettose metodologie degli
strutturalisti del racconto”. Cfr. G. Bonura, Invito alla lettura di Italo Calvino, cit., p. 94.
139
I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, cit., p. 39.
140
Ibid., p. 13.
141
Ibid., p. 127.

50
scrittura calviniana, e un‟osservazione della tecnica adoperata dai suoi personaggi per
sfuggire al silenzio e raccontare tramite emblemi permetterà di chiarirne gli eventuali
limiti e pregi. Le domande che guidano questa parte del lavoro sono perciò due: che
cos‟è il labirinto per Calvino (ovvero per i personaggi de Il castello e de La taverna)? È
possibile sfuggire al bosco-silenzio-labirinto del caos-realtà-inferno142 tramite emblemi?
Non ci si sposta da Le città invisibili e si svolge l‟interrogazione di quel momento
in cui “Marco Polo non poteva esprimersi altrimenti che […] con oggetti che andava
estraendo dalle sue bisacce: piume di struzzo, cerbottane, quarzi, e disponendo davanti a
sé come pezzi degli scacchi”143. Così come in questa fase della narrazione le città sono
designate da salti di pesci che sfuggono al becco dei cormorani per cadere in una rete, o
da uomini nudi che attraversano fuochi senza bruciarsi, o da teschi che stringono tra i
denti verdi di muffa perle candide e rotonde, ne Il castello sono le carte che creano
come segni, per successiva giustapposizione le une alle altre, i racconti: “Il Gran Kan
decifrava i segni, però il nesso tra questi e i luoghi visitati rimaneva incerto. […] Ma,
palese o oscuro che fosse, tutto quel che Marco mostrava aveva il potere degli emblemi,
che una volta visti non si possono dimenticare né confondere”144. La giustapposizione di
segni diventa tentativo di organizzare il labirintico caos del reale.
La nozione del labirinto rappresenta da una parte il mondo disintegrato, il bosco,
lo sfacelo dell‟impero, dall‟altra connota un percorso tentato in mezzo a questa
labirintica realtà, un cammino tortuoso e intricatissimo, capace, forse, di condurre
Calvino e i suoi personaggi in mezzo al caos, cioè l‟intreccio dei tarocchi sul tavolo.
Bisogna vedere quale dei due avrà la meglio. Dal secondo punto di vista il labirinto
come suo attraversamento diventa cioè principio d‟ordine celato nel caos, rete intricata
sovrapposta al mondo altrettanto deforme. Importa ora trattare del labirinto nel primo
senso, chiarendo quindi la natura del bosco.
Necessariamente un percorso labirintico deve pure seguire l‟interpretazione dei
tarocchi da parte del narratore, che procede per ipotesi tentando di orientarsi
nell‟organizzazione pittorica delle carte poste sulla tavola145. La voce narrante e gli altri

142
M. Porro, Letteratura come filosofia naturale, cit., pp. 62-63, così chiama questo bosco: “Regno del
continuo, dell‟indistinto, caos informe e invisibile: zona oscura, alterità irrazionale, limite invalicabile”.
143
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 29.
144
Ibid., p. 30.
145
Cfr. M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, cit., p. 11: “Il labirinto, da immagine dello smarrimento,
diventa gioco matematico e combinatorio”.

51
commensali provano a sfidare il disordine e la confusione iniziali mediante i loro
racconti: quello che è nuovamente narrabile forse potrebbe salvarsi, se all‟interno delle
storie la ricerca non diventasse a sua volta un gironzolare disorientato nel labirinto. Ne
Il castello dei destini incrociati il bosco ha le caratteristiche dell‟ Irrweg dove ogni
possibile percorso porta a un punto morto (tranne uno, ammesso che esista), intricato
groviglio o rete dove ogni punto è collegabile a un altro, e ogni percorso è lecito: su e
giù o dall‟alto al basso, da destra a sinistra o viceversa, proprio come nel reticolo di
tarocchi che, a questo punto, può essere considerato una sorta di mappa del labirinto,
schema da sovrapporre al caos dell‟impero, per gestire e combattere la sua complessità.
Già nei personaggi di Dantès e Faria s‟iniziò a configurare questo tipo di sfida
lanciata alla prigione-realtà, configuratasi poi come tentativo di ipotizzare un modello
perfetto della prigione e vedere se la prigione reale fosse tale. Si giunse all‟immagine
del nastro di Möbius come struttura topologica da cui sfuggire e contro la quale, invece,
in assenza di un buco nella complessa struttura reticolare, privati della casella vuota (il
capitolo dell‟evasione) sulla mappa, la fuga divenne per i personaggi del 1967
impossibile. Riguardando la struttura del castello d‟If, alla ricerca delle sue
caratteristiche labirintiche, ne emergono alcune che si vedono bene essere parte
integrante del bosco-labirinto: si vede Faria inoltrarsi nelle viscere della fortezza senza
più modo di ritrovare una rotta, come in un labirinto senza uscita, una rete infinitamente
estensibile, senza esterno e senza interno, che si apre ad ogni direzione (benché il suo
procedere non fosse tanto un tentativo d‟evasione quanto una ricerca della prigione
perfetta), e questo labirinto è scuro, freddo, “procediamo nel buio”146 dice Dantès della
sua tentata fuga a fianco di Faria, così come ne La taverna si legge “Veniamo fuori dal
buio”147. Questo labirinto buio è silenzioso, i due prigionieri non si parlano, lo si è detto
sopra, inferno significa mutismo, “ognuno vorrebbe raccontare agli altri cosa gli è
successo a lui, cosa gli è toccato di vedere, coi suoi occhi nel buio, nel silenzio […] la
mia voce non la sento, non mi esce voce dalla gola, non ho voce, non sento nemmeno la
voce degli altri”148. La fortezza d‟If è come il castello di Dunsinane assalito dalla foresta
di Birnam che “si muoverà risalendo le pendici della collina, schiere e schiere d‟alberi

146
I. Calvino, Il conte di Montecristo, cit., p. 281.
147
I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, cit., p. 51.
148
Ibidem.

52
verranno avanti sulle radici arrancate fuori della terra, protendendo i rami come nel
Dieci di Bastoni all‟assalto della fortezza”149.
In questo modo si cerca di vedere meglio l‟aspetto dell‟impero incancrenito di
Kublai, che viene ad assomigliare al labirintico bosco che ha reso muti i convitati e che
è buia vertiginosa prigione: “Non è fuori dell‟illuminata metropoli che la foresta estende
le sue ombre, ma dentro. […] La metropoli che egli ha sempre creduto compatta e
trasparente come una coppa intagliata nel cristallo di rocca, si rivela porosa e
incancrenita come un vecchio sughero ficcato lì alla meglio per tappare la breccia nel
confine umido e infetto del regno dei morti”150. Si è nell‟abisso della morte: labirinto-
bosco-carcere-deserto-inferno-silenzio-metropoli reale (città)151.
È importante ora vedere se i viaggiatori che si sono rifugiati o nel castello o nella
taverna, riescono effettivamente a vincere, mediante il labirinto artificiale dei tarocchi, il
caos che minaccia fuori dalla locanda. Se il funambolo e il suo silenzio, nel racconto di
D‟Arzo, hanno avuto la meglio – tranne che nel momento dello smascheramento dove
non a caso il personaggio di Lelio riacquista la parola – poiché il racconto si conclude
con l‟inizio della caccia al Diavolo e finisce nel bianco del foglio, è da osservare ora se
bastano queste carte-emblemi per vincere il silenzioso labirintico bosco152. Guardando la
struttura de Il castello dei destini incrociati così come Calvino stesso la pone davanti
agli occhi del suo lettore, si nota subito questo: il “quadrato magico” dei tarocchi
viscontei, il cruciverba di figure, dove per ogni sequenza di carte si può leggere in ogni
senso è così perfettamente costruito, così maniacalmente ordinato, da sembrare una
prigione153. Dal testo non si esce, il lettore non ha spazio per scrivere, non c‟è la casella

149
Ibid., p. 114.
150
I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, cit., pp. 81-85.
151
Si chiarisce qui un quesito del primo paragrafo: il deserto, labirinto, sfacelo o cancrena che sia, si trova
nella città nella misura in cui si parla della città reale, della metropoli. Infatti, di realtà si parla nelle
cornici delle Città invisibili, corsivi (scrittura) che sono sul bordo del nastro e da questo margine i due
personaggi possono riflettere sui problemi dell‟inferno-impero e quindi cercare di vincere lo sfacelo
dell‟impero-realtà mediante la narrazione (tramite, appunto, le città im-possibili, contraddittorie, che
vagliano una dopo l‟altra il nastro). Cfr., a tal proposito, M. Porro, Letteratura come filosofia naturale,
cit., p. 64: “Sotto e dentro la Città, come sotto la Scrittura, si agita la zona oscura, inconscio e Natura,
caos delle origini o entropia terminale. Da questa alterità bisogna prendere distanza”.
152
Cfr. G. Bertone, Il castello della scrittura, cit., p. 120: “Se il mutismo è l‟epoché che affligge per
incantesimo […] l‟atto del raccontare, l‟asse del discorso si sposta sul piano bidimensionale
dell‟immagine riquadrata, incorniciata dentro e fuori i tarocchi, nei quali i «narratori» si compiacciono di
specchiare i propri tratti fisionomici”.
153
Cfr. G. Bonura, Invito alla lettura di Italo Calvino, cit., p. 94: “Resuscitare la spontaneità del racconto
deve essere stata l‟ambizione segreta di Calvino. Ma non si possono resuscitare i morti se non per finta,
facendo appello, appunto, a una finzione, a un artificio”.

53
vuota. Sembra proprio un labirinto artefatto, esito del lavoro combinatorio di Calvino. È
la mappa del labirinto reale disegnata per ipotesi nella mente di Dantès e da cui, senza
scrittura e senza lettura cooperativa, è impossibile fuggire: altro nastro di Möbius
sovrapposto a una realtà altrettanto disorientante. È una rete rizomatica dove questo
eccesso di percorsi possibili si configura come una serie di percorsi imposti, e la libertà
dell‟attività di lettura va perduta154.
Non a caso ne la Storia dell’ingrato punito, dove la foresta è luogo della
dispersione e del disorientamento, il protagonista perde la strada e si inoltra nel
disordine, nella caotica indifferenziazione del bosco; così ne la Storia della sposa
dannata, dove il protagonista si trova davanti, nel bosco, il Diavolo in persona (a
conferma l‟ipotesi di sovrapposizione e derivazione tra le figure del bosco-silenzio e
quella del diavolo come funambolo). La scelta della ricchezza, da parte del protagonista
de la storia del Ladro di sepolcri lo fa precipitare nel caos, nella disintegrazione del
bosco, come Faria e Dantès perdevano sé medesimi, una volta partiti per cercare il
tesoro di Montecristo.
Il mosaico delle carte del castello è composto da cinque serie di tarocchi, della
quale ognuno contiene sedici carte più una, disposte in verticale e in orizzontale l‟una
parallelamente all‟altra e incrociantesi l‟un l‟altra155. Questa distesa di carte, che copre la
superficie del caos indifferenziato, non ha però alcuna finestra aperta al centro. Il
momento che rivela il fallimento del progetto calviniano di strutturazione del disordine
della realtà è quello in cui il narratore del Castello, apprestandosi alla narrazione della
propria storia, non è capace di separarla dall‟insieme delle storie altrui e la perde156. Si
può leggere, infatti: “La foresta, il castello, i tarocchi m‟hanno portato a questo
traguardo: a perdere la mia storia, a confonderla nel pulviscolo delle storie, a
liberarmene. Quello che rimane di me è solo l‟ostinazione maniaca a completare, a

154
Cfr. M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, cit., p. 20: “La scelta della griglia come mappa della
narrazione” è “una scelta certo non indolore”.
155
Questo è l‟aspetto più evidente dell‟incrocio tra due problemi tipicamente calviniani: il sogno di
costruire una macchina o congegno capace di dare direzione alla fabula e il problema del raccontare. Cfr.
F. Serra, Calvino, cit., p. 316: “La contrainte del libro è il fatto che i personaggi debbano usare i tarocchi
per un preciso motivo, per una precisa costrizione fisica: in quanto sono diventati tutti muti. Impediti a
esprimere con le parole la propria storia”. Per raccontare resta la possibilità di trasformarsi in immagini,
ma questo è un limite.
156
Cfr. I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., p. 1098: “A me invece pare che il caos nel Castello sia
continuamente presente, più che altrove, forse.”

54
chiudere, a far tornare i conti”157. Il narratore cioè, come lettore delle storie altrui158, a
forza di cercare di interpretare e orientarsi nella confusione intrecciata di carte sul
tavolo, finisce col perdere la capacità di scrivere. La sua iperattività di interprete lo
imprigiona e lo costringe al silenzio. Questo fallimento annunciato dall‟unico
commensale che rimane totalmente muto, e che personifica noi lettori159, è dovuto al
limite che i tarocchi finiscono per imporre se guardati come segni che hanno la qualità
degli emblemi. L‟ostacolo sta nelle carte, o meglio, nel modo in cui le carte sono
adagiate sulla superficie160. Il problema sta nel fatto che chi ha gestito e deciso
l‟organizzazione reticolare delle carte, sin dall‟inizio, è Calvino. Questo segnare le vie e
accompagnare ogni racconto del libro con carte che – benché i significati attribuibili ad
ognuna (se avulsa dal resto) siano molteplici – sono necessariamente seguite e precedute
da altre carte, che non è il lettore a scegliere, è ciò che fa di questo testo, tutto
coercizione e razionalità161, tutto predeterminazione, un labirinto senza uscita162. Dove
dovrebbe il lettore trovare lo spiraglio per collaborare alla scrittura del testo? Come
potrebbe il lettore prendersi spazio nell‟intrico ancor più organizzato, e quindi ancor più
difficile da superare, della realtà? Se questo disordine calcolato e premeditato finisce
per diventare un labirinto artificiale meglio costruito della prigione-realtà allora la
funzione dell‟artista come costruttore di modelli conoscitivi razionali, che come griglie

157
I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, cit., p. 46.
158
Cfr. C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, cit., p. 137: “L‟anonimo viaggiatore
che ci rivolge la parola dalle pagine del Castello e della Taverna è innanzi tutto un lettore, uno che re-
interpreta allusioni altrui alla luce delle proprie esperienze esistenziali e cartacee”. Inoltre “tutta la forma
che il racconto prende nel libro è quindi di tipo congetturale: un susseguirsi d‟ipotesi di lettura dei
tarocchi disposti sul tavolo a comporre le varie storie”. Vedi F. Serra, Calvino, cit., pp. 318-319.
159
Si veda G. Bertone, Il castello della scrittura, cit., p. 127: “I fatti vengono abbandonati alla probabilità
dell‟interpretazione, cioè allo sforzo del cavaliere-interprete, ch‟è prima di tutto lettore dei volti e delle
carte, di recuperare dentro di sé le parole pronunciate (o pronunciabili) in quella data situazione. Tale
lavoro è simile a quello che il vero lettore fa quando lascia riecheggiare dentro di sé le parti orali del testo.
Naturalmente anche quest‟operazione è frutto di una simulazione autoriale”.
160
Cfr. P. Dallamano, Il castello dei destini incrociati, in “Paese sera: supplemento libri”, 19 dicembre
1973: “Trovo, tutto sommato, questo sussidio delle immagini alla lunga superfluo, un po‟ vincolante.
Perché il gioco non è tanto gioco”.
161
Cfr. M. Lavagetto, Dovuto a Calvino, cit., p. 29: “In questo gomitolo indirimibile non c‟è allora né
inizio né fine, ma solo una serie di punti intermedi, di intersezioni, di intrecci, di lacune che si aprono alle
spalle di ogni parola narrativa appena pronunciata: la storia rimanda a un‟altra storia in una sorta di
vortice e il gesto della scrittura è allora un gesto di arbitrio, l‟informazione – determinata e mutilante –
di uno degli specchi che chi scrive trova intorno a se stesso e che moltiplicano all‟infinito l‟immagine
della sua mano che sta scrivendo [corsivi miei]”.
162
Cfr. M. Dini, Calvino critico, cit., p. 88: “Pensare alla letteratura solo in termini di processo
combinatorio fra unità linguistiche di numero limitato, cioè come fatto tutto interno al linguaggio senza
particolari rapporti con il fuori, potrebbe rivelarsi un circolo vizioso”.

55
strutturali aiutino il movimento dell‟uomo nel mondo, finisce per essere annullata, si
conclude in una sconfitta163.
Il castello dei destini incrociati è tutto scrittura164, è, per così dire, saturo di
scrittori165. Il lettore empirico che si pone di fronte a questo libro, per quanto ne possa
essere affascinato, per quanto possa divertirsi nel guardare le immagini dei tarocchi
posti a margine del testo, finirà per piegarsi totalmente alla scrittura che i personaggi
fanno delle loro storie – al Bagatto Calvino che già prima ha deciso la successione delle
carte166 – e laddove provasse a identificarsi nel narratore, l‟unico vero lettore del testo,
finirebbe, appunto, con l‟essere incapace di collaborare attivamente, così come il
narratore stesso. La struttura del Castello costringe il lettore in essa e non gli lascia vie
di fuga, la successione delle carte sul tavolo è un labirinto elevato di potenza,
sovrapposto al reale, che pilota la lettura.
“Il nuovo dato riceveva un senso da quell‟emblema e insieme aggiungeva
all‟emblema un nuovo senso”167, si legge nella cornice finale del primo triangolo delle
città: il fatto che il significato del singolo tarocco dipenda dalla posizione che ha nel
succedersi delle carte precedenti e successive, porta a esiti disgregatori della funzione
attiva del lettore. Per chiarire ulteriormente la questione e ricordare che è sempre de Le
città invisibili che si sta parlando, si leggano le ultime righe del primo triangolo:

- Il giorno in cui conoscerò tutti gli emblemi, - chiese a Marco, - riuscirò a possedere il mio impero,
finalmente?
E il veneziano: - Sire, non lo credere: quel giorno sarai tu stesso emblema tra gli emblemi168.

163
Cfr. P. Milano, in “L‟espresso”, 9 dicembre 1973: “La letteratura degli schemi narrativi, dei giuochi di
invenzione obbligata, delle sequenze e delle architetture è uno dei mille prodotti della nostra attuale «fuga
dalla storia»”. Cfr. anche G. Pandini, in “Uomini e libri”, 47, 1974: “Il risultato di una letteratura che si
affida al gioco combinatorio, sia pure popolare o nato nel segno di un gioco collettivo com‟è quello delle
carte, non elude il disagio di una letteratura puramente formale, nata dal «calcolo» logico-matematico
delle possibilità”. Vedi anche C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, cit., p. 142: “I
racconti del Castello e della Taverna sono davvero […] specchi non innocenti, che ci restituiscono con
monotonia […] una reiterata immagine di sconfitta”.
164
Cfr. G. Mariotti, in “Corriere della sera”, 16 dicembre 1973: “Così giocando con muti tarocchi,
Calvino svela la narrazione a se stessa”. Vedi pure M. Porro, Letteratura come filosofia naturale, cit., p.
62: “Narrare è leggere figure e ascoltare è vedere, ma narrare è seguire un percorso, spostarsi”.
165
Cfr. M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, cit., p. 77: “Qui, come nelle Città invisibili, Calvino sta
disegnando la scrittura mediante il mondo”.
166
Cfr. quanto si legge a questo proposito, in G. Bonura, Invito alla lettura di Italo Calvino, cit., p.94:
“Così Il castello è un luogo di falsa libertà immaginativa. La figura del mosaico non si contrappone alla
figura della piramide, ma ne è un capriccioso corollario incapace di mettere in crisi la legge della
gerarchia. Il narratore moderno si ricongiunge, per vie imprevedibili ma tracciate in anticipo, al
romanziere onnisciente della borghesia”.
167
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 30.
168
Ibidem.

56
Qui è contenuta la spiegazione del fallimento del narratore del Castello che finisce col
confondersi nell‟intreccio delle carte, che si perde e che, al termine della Taverna in
Anch’io cerco di dire la mia si identifica totalmente con i tarocchi, in questi si
confonde169, poiché: “Il Cavaliere di spade, L’eremita, Il bagatto sono sempre io come
di volta in volta mi sono immaginato d‟essere mentre continuo a star seduto menando la
penna su e giù per il foglio”170. Il tentativo di costruire uno spazio labirintico artificiale
da contrapporre al caos del mondo, mediante emblemi (le carte), fallisce e con esso è
sconfitto Kublai Kan di fronte al suo impero, si trova esso stesso a rischiare d‟essere
tarocco tra i tarocchi. Il bosco labirintico che pareva essere stato arginato mediante
artificiose strutture di segni posti sul tavolo inizia ne La taverna dei destini incrociati ad
invadere la locanda, annunciando così il fallimento del progetto ordinatore della prima
parte del testo. All‟interno della taverna, il narratore sente vicina la minaccia del caos:
“Entriamo, fuori c‟è buio, qui si vede qualcosa, in mezzo al fumo, la luce è fumosa,
forse di candele. […] C‟è dei bastoni, rami fitti, tronchi, foglie, come fuori prima, delle
spade che ci danno addosso colpi taglienti, d‟in mezzo alle foglie, le imboscate nel buio
dove c‟eravamo perduti”171. Nella taverna crolla ogni regola di composizione del
mosaico dei tarocchi, i commensali si strappano l‟un l‟altro le carte di mano che si
sparpagliano casualmente, si disfano insieme il teatro dei tarocchi e il teatro del mondo
per confondersi poi, fino a coincidere. La foresta, labirinto vegetale che rappresenta il
mondo caotico e confuso172, fusione di labirinto-Irrweg e labirinto-rete, dove solo un
percorso porta all‟uscita e alla fuga (si vedrà se esiste questo filo), è luogo catastrofico,
informe e continuo, spazio chiuso di smarrimento e distruzione.
Il labirinto come rete nella quale ogni percorso è possibile, e quindi da cui è
impossibile uscire, pare avere perciò la meglio: l‟ordine esasperato del castello, della
diposizione perfetta delle carte sul tavolo si rivela portatore di un disegno così infallibile
da essere infernale: un insieme infinito, o quasi, di intrecci possibili che non portano
fuori dalla pagina. Il senso di smarrimento provato dal narratore in questa prima parte

169
Cfr. su questo punto C. MIlanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, cit. p. 133: “Marco
Polo e Kublai Kan […] devono ammettere che ogni sforzo di astrazione simbolica, qualora assuma
pretese totalizzanti, rischia di trasformare lo stesso soggetto pensante in un «emblema tra gli emblemi».”
170
I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, cit., p. 104.
171
Ibid., p. 51.
172
Cfr. C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, cit., p. 141: “La foresta è insomma la
metafora di un‟opacità della mente, della perdita individuale e collettiva d‟ogni punto d‟orientamento
etico e culturale”.

57
del testo si capovolge su tutti i personaggi della Taverna – tranne forse qualche
eccezione – e si configura come caotica composizione del mosaico, invasione, da parte
del bosco, della taverna. Il Castello si conclude con la fine del gioco e il
rimescolamento delle carte: questo gioco è fine a se stesso e, in una straordinaria
eterogenesi dei fini, si è concluso nella costruzione di una fortezza di carte dalla
perfezione infera, in un labirinto ancor più inespugnabile della realtà.
Importa però, prima di concludere questa parte, riguardare un saggio scritto da
Calvino nel 1962, La sfida al labirinto173, perché potrebbe aiutare a chiarire il punto
d‟arrivo del testo del 1969 e a vederne gli sviluppi successivi. Nel numero del
Menabò174 dove quest‟intervento è pubblicato, si parla della questione dell‟impegno e
della funzione della letteratura nel mondo industrializzato. Calvino ritiene possibile una
sorta di padronanza della realtà da parte dello scrittore moderno e la pensa come ricerca
di un ordine o una ragione in ciò ch‟è caotico e insensato (nei testi, l‟impero di Kublai).
Questa funzione di accrescimento della conoscenza affidata alla letteratura è politica. Se
quella che Calvino chiama la letteratura della resa al labirinto tende a limitarsi a una
mimesi dell‟esterno oggettuale o dell‟interno soggettivo, la letteratura della sfida al
labirinto di fronte alla complessa devastazione della contemporaneità ha invece due
possibilità: affrontare questa complessità del reale e cercare di costruire “la mappa del
labirinto la più particolareggiata possibile”, oppure “perdersi nel labirinto” e
“rappresentare questa assenza di vie d‟uscita come la vera condizione dell‟uomo”175.
Tuttavia non è possibile tener distanti questi atteggiamenti a lungo, perché “nella spinta
a cercare la via d‟uscita c‟è sempre anche una parte d‟amore per i labirinti in sé; e del
gioco di perdersi nei labirinti fa parte anche un certo accanimento a trovare la via
d‟uscita”176. Si prefigura quindi in questo saggio l‟esito del lavoro di Calvino nel
Castello dei destini incrociati: la mappatura del labirinto ha finito per coincidere con la
perdita nel labirinto. Ma il suggerimento ulteriore che permetterebbe di collocare questo
testo in un itinerario di crescita intellettuale dello scrittore sanremese, tra Il conte di
Montecristo e Le città invisibili177, e di fare come da snodo fondamentale nella scrittura

173
I. Calvino, La sfida al labirinto, in Saggi 1945-1985, tomo I, Mondadori, Milano 1995, pp. 105-123.
174
Per la precisione, “Il menabò 5”, Einaudi, Torino 1962.
175
I. Calvino, La sfida al labirinto, in Saggi 1945-1985, tomo I, cit., p. 122.
176
Ibidem.
177
Cfr. G. Bonura, Invito alla lettura di Calvino, cit., p. 90: “Il castello dei destini incrociati […] è una
tappa cruciale poiché se Calvino non avesse scritto questo libro, probabilmente non avrebbe scritto

58
calviniana, è appena più sotto: “Quel che la letteratura può fare è definire
l‟atteggiamento migliore per trovare la via d‟uscita, anche se questa via d‟uscita non
sarà altro che il passaggio da un labirinto all‟altro. È la sfida al labirinto che vogliamo
enucleare e distinguere dalla letteratura della resa al labirinto”. Così soltanto si supera
quell‟«atteggiamento disperato»”178 con cui Kublai Kan guarda il suo impero in sfacelo.
Appurato, perciò, che le carte-emblemi de Il castello dei destini incrociati non
sono sufficienti per vincere questa sfida e finiscono per arrendersi al labirinto, ci si
chiede: qual è il passo avanti compiuto da Calvino in questo testo rispetto a Il conte di
Montecristo? Dove si vede una possibilità di fuga dall‟intrico delle carte e dal silenzioso
labirinto boschivo? Se Dantès inizia a intuire una strategia di fuga dalla prigione-inferno
accorgendosi della struttura a nastro di Möbius del castello e comprendendo che solo
laddove ci fosse una non coincidenza tra fortezza perfetta e fortezza reale, una casella
vuota, la fuga sarebbe possibile, ma rimane fermo nel silenzio con Faria nella parte
rivolta a nadir del nastro, che cosa accade ne Il castello dei destini incrociati, che passo
compie Calvino in più? Da una parte si vede una struttura reticolare perfetta, satura,
senza caselle vuote ma ordinata. Dall‟altra una confusa accozzaglia di carte si ripete per
formare l‟intreccio dei racconti della Taverna, ma c‟è la casella vuota centrale. Qual è
dunque la differenza? Questo è il testo in cui Calvino inizia a far giocare i suoi
personaggi, e fondamentale è che iniziano ad essere definite le regole del gioco, e una
regola in particolare, quella della casella vuota in un contesto dis-ordinato. Inizia, cioè,
la scrittura del testo. Qui sta il progresso compiuto da Calvino. Il silenzio è vinto, ma
fino a un certo punto: il problema è che ciò avviene mediante carte e questo è un limite.
Si tratta di superare la rigida strutturazione del gioco, pur continuando a scrivere.
All‟eccesso di scrittura avvertito in quelle pagine dovrebbe subentrare una scrittura
come regolazione della lettura, invito alla lettura attiva, non invece intesa come
privazione della libertà di cooperare alla scrittura, da parte del lettore. Confrontando la
Storia dell’Orlando pazzo per amore con Due storie in cui si cerca e ci si perde, si
prova ad andare a vedere la differenza, se esiste, tra Il castello e La taverna. Nel primo
testo ogni spazio vuoto è riempito di carte dall‟autore e con lui dai commensali: il

neanche Le città invisibili”. Cfr. anche V. Spinazzola, in “L‟Unità”, 9 gennaio 1974: “Il castello dei
destini incrociati, nella sua costruzione elaboratamente ingegnosa e nei risvolti di smarrimento e inserti
autocritici, può rappresentare una autentica tappa liberatoria lungo un itinerario di scelte ancora da
giocare”.
178
I. Calvino, La sfida al labirinto, in Saggi 1945-1985, tomo I, cit., p. 122.

59
centro del quadrato magico incrocia i tarocchi che raccontano la storia di Orlando folle e
questo punto diventa proprio l‟apice del caos labirintico, vortice buio di disperazione,
perché pur essendo “punto d‟intersezione di tutti gli ordini possibili”179 rimane di
competenza unica dell‟autore empirico, e per il lettore è confusione. Non a caso
Orlando, persa la ragione, si ritrova a percorrere il deserto da cui la fabula dovrebbe
allontanare, una realtà infernale e desertica dichiara la sconfitta di questo mosaico di
carte: “La Terra conquistatrice è prigioniera della Luna. Orlando percorre una Terra
ormai lunare”180. La figura di Orlando folle è quella dello scrittore che ha preso
coscienza del fallimento del suo progetto e si sente impazzire. In questo personaggio
ricorre di nuovo la stessa immagine di Faria che capovolto sul vuoto a testa in giù,
mentre sembra dirigersi verso l‟esterno, in realtà s‟inabissa sempre più nel labirinto
della prigione: allo stesso modo l‟Orlando fallisce in amore con Angelica poiché, partito
per cercarla, ne scova l‟unione con Medoro e finisce come Faria a testa in giù sul nastro,
solo un poco più sereno del personaggio di due anni prima, per via della strada percorsa,
sebbene invano:

Nell‟ultima carta si contempla il paladino legato a testa in giù come L’appeso. E finalmente ecco il suo
viso diventato sereno e luminoso, l‟occhio limpido come neppure nell‟esercizio delle sue ragioni passate.
Cosa dice? Dice: - Lasciatemi così. Ho fatto tutto il giro e ho capito. Il mondo si legge all‟incontrario.
Tutto è chiaro181.

Al contrario, nella storia di Faust e Parsifal, al termine del racconto si ottengono due
nuove notizie sul nastro e sulla fuga. Faust inizia a vedere la scacchiera con le città, si
spinge fino alla negazione del mondo come tale – o, meglio, lo riconosce come impero
in sfacelo – nel momento in cui lo addita come “un pulviscolo senza senso e senza
forma”182 e riconosce nella griglia artificiosa e reticolare sovrapposta al caos la sua
utilità per sfuggire; vede che il nastro, se percorso come un testo composto da tante
caselle possibili – come potevano essere già le carte – è la via giusta per l‟evasione, si fa
portavoce, riconoscendolo, dell‟unico percorso possibile per uscire dal labirinto: “Il
mondo non esiste, – Faust conclude […], – non c‟è un tutto dato tutto in una volta: c‟è
un numero finito d‟elementi le cui combinazioni si moltiplicano a miliardi di miliardi, e

179
I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, cit., p. 33.
180
Ibidem.
181
Ibid., p. 34.
182
Ibid., p. 97.

60
di queste solo poche trovano una forma e un senso […] come le settantotto carte del
mazzo di tarocchi nei cui accostamenti appaiono sequenze di storie che subito si
disfano”183. Per capire l‟originalità della proposta di fuga dal labirinto che Calvino fa, si
legga di seguito al passo appena citato questa parte del saggio L’utopia pulviscolare:

Evasione? Sull‟accezione negativa che la parola evasione ha nel linguaggio della critica storico-letteraria
ho sempre avuto le mie riserve. Per chi è prigioniero evadere è sempre stata una bella cosa, e anche
un‟evasione individuale può essere un primo passo necessario per mettere in atto un‟evasione collettiva.
Questo deve valere anche a livello delle parole e delle immagini fantasmatiche: dalla prigione delle
rappresentazioni del mondo che ribadiscono a ogni frase la tua schiavitù, evadere vuol dire proporre un
altro codice, un‟altra sintassi, un altro lessico attraverso cui dare forma al mondo dei tuoi desideri. […] Il
fine, il mondo rigenerato era pensato – anzi: visto – dall‟utopia nelle sue risultanze esteriori: una città, una
convivenza, un insieme di comportamenti184.

E quindi l‟apparente fine catastrofico del testo con Macbeth che dice: “Sono stanco che
Il Sole resti in cielo, non vedo l‟ora che si sfasci la sintassi del Mondo, che si mescolino
le carte del gioco, i fogli dell‟in-folio, i frantumi di specchio del disastro”185, è invece il
proposito di costruire una sintassi diversa186, altra da quella dell‟impero desertico, che
permetta l‟evasione, che ad ogni riga indichi la casella vuota, porti verso essa e che
faccia quindi della spaziatura della superficie del nastro il modo per fuggire dalla
labirintica prigione della realtà, attraverso le città im-possibili. Parsifal infine conferma
l‟importanza della casella vuota sul nastro come unico luogo per scappare dal labirinto
sia delle carte sia della realtà e di conseguenza come fondamento per la pratica
cooperazione del lettore alla scrittura del testo: “Questa sarebbe la conclusione […] di
Parsifal: – Il nocciolo del mondo è vuoto, il principio di ciò che si muove nell‟universo
è lo spazio del niente, attorno all’assenza si costruisce ciò che c’è, in fondo al gral c‟è il
tao, – e indica il rettangolo vuoto circondato dai tarocchi [corsivo mio]”187. Non è una
conclusione nichilistica. Questo vuoto finale è diverso dal senso di vuoto d‟esordio: è lo
spazio del possibile della lettura. Se però le carte non bastano a questo scopo, ma anzi
limitano la lettura, sarà importante per Calvino ridisegnare il senso della scrittura e

183
Ibidem.
184
I. Calvino, Per Fourier 3. Commiato. L’utopia pulviscolare, in Saggi 1945-1985, tomo I, cit., p. 310.
185
I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, cit., p. 120.
186
Cfr. M. Dini, Calvino critico, cit., p. 66: “Smontare i testi nelle loro componenti primarie, mettendone
a nudo i meccanismi interni di costituzione, porta a destrutturare e demistificare i linguaggi tradizionali
per rivelarne l‟inadeguatezza ad esprimere la crescente complessità del mondo contemporaneo […] Alle
operazioni di analisi e di dissezione, come le definisce Calvino, è dunque connaturato un forte elemento
di contestazione politico-sociale”.
187
I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, cit., p. 97.

61
mostrare come questa, riformulata, possa essere il primo gesto per percorrere il nastro
alla ricerca del punto di fuga. Primo passo che dal buio, desertico, labirintico,
carcerario, silenzioso, mondo reale porti alla vicinanza con Il sole, primo gradino della
scala che dall‟Abisso della Morte porta all‟Albero della Vita. E la scrittura188 come
primo movimento liberatore sulla superficie e soprattutto come gesto d‟esordio di fuga
dal buio e silenzioso bosco sarà argomento del prossimo capitolo.

188
Cfr. M. Dini, Calvino critico, cit., p. 81: “La scrittura diventa il luogo della sopravvivenza nel
momento in cui, paradossalmente, sembra presupporre la cancellazione del soggetto scrivente, il suo
assorbimento nell‟universo dei segni grafici”.

62
§ 1.3 Per una letteratura che chieda di più

1.3.1 Il contesto

Credi di più nella letteratura,


che sarà il poco che ci resta
negli anni terribili
che ci tocca di vivere189.

In questo paragrafo s‟intende chiarire il senso di quanto scritto sopra a proposito


degli spazi nei quali i personaggi delle opere di Calvino di fine anni Sessanta si
muovono. Si cerca cioè di uscire, per così dire, dai testi narrativi che precedono
immediatamente le Città invisibili per individuare nei saggi scritti da Calvino nei
medesimi anni i sintomi di disagio intellettuale e da questi una direzione di lavoro.
Saranno importanti quindi una serie di saggi nati prima del 1972 come Cibernetica e
fantasmi, Per una letteratura che chieda di più, La letteratura come proiezione del
desiderio, Lo sguardo dell’archeologo, Per chi si scrive?190, lasciando per ora da parte i
tre scritti su Fourier, di cui si parlerà trattando dell‟utopia. Il tentativo è perciò di
contestualizzare le figure dei primi due paragrafi: deserto, prigione, labirinto, silenzio.
Questo malumore testuale calviniano da dove arriva, cosa significa?
Non interessa confermare con la saggistica la narrativa, bensì sondare lo stato
d‟animo dello scrittore Calvino che si mette a lavorare a Le città invisibili: vedere se le
immagini infernali de Il conte di Montecristo, Il castello dei destini incrociati, e
dell‟impero di Kublai in sfacelo, abbiano una corrispondenza nella realtà. Già sopra si è
accennato al fatto che il movente della scrittura calviniana è un problema politico-
letterario che si riflette nel testo come dilemma topologico. Per chiarire la questione è
utilissimo leggere i protocolli delle discussioni tenute da Calvino con Gianni Celati e
altri intellettuali italiani (Carlo Ginzburg, Enzo Melandri, Guido Neri) alla fine degli

189
Cfr. I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., p. 957.
190
Cfr. I. Calvino, Saggi 1945-1985, tomo I, cit., pp. 199-327.

63
anni Sessanta a Bologna. Le trascrizioni del dibattito, effettuate da Celati, sono
disponibili soltanto dal 1998, quando una piccola casa editrice milanese, Marcos y
Marcos, pubblica i materiali concernenti il progetto della rivista “Ali babà”191, altresì
chiamata “Apocripha” o “Insiemi mobili”, mai realizzata192. Queste pagine gettano
nuova luce non soltanto – ed è quello che riguarda questo paragrafo – sul clima
culturale antecedente la pubblicazione delle Città, ma sulle vere e proprie riflessioni
teorico-letterarie compiute da Calvino e Celati a Bologna dal 1968 al 1972,
fondamentali per comprendere il testo del 1972193:

I gruppi immediatamente precedenti […] sembrano aver esaurito ogni risorsa. […] Il ventennio della
restaurazione capitalistica [Calvino propone di sostituire il termine con «ventennio postbellico»] si
conclude con un nulla di fatto nell‟ambito delle produzioni letterarie; soprattutto per l‟impossibilità di
ricavare indicazioni probanti per un confronto e coordinamento tra discorso letterario e discorso politico.
Si riscontra la carenza assoluta d‟una dimensione immaginaria dell‟emergenza politica, l‟assenza d‟una
strumentazione tecnica e concettuale che permetta d‟investire immaginativamente i fatti che accadono
sotto i nostri occhi194.

Queste sono parole del dicembre del 1968: la critica va alla neoavanguardia italiana195
dimentica delle esigenze promosse dalla prassi196, cioè incapace di gettare le basi di una
letteratura produttrice di stimoli o parole politiche; il limite delle poetiche
d‟avanguardia sta nel crogiolarsi in un atteggiamento di disperazione da cui si rischia di
non poter uscire, perché non all‟altezza di una proposta positiva di cambiamento del
modo di rapportarsi al reale197. Calvino e Celati avvertono cioè intorno a loro il deserto,

191
Si legga il capitolo dal titolo Nella grotta di Ali Babà, in M. Belpoliti, Settanta, cit., pp. 141-176.
192
M. Barenghi e M. Belpoliti (a cura di), “Alì Babà”. Progetto di una rivista, 1968-1972, in “Riga”, 14,
Marcos y Marcos, Milano 1998.
193
Cfr. S. Perrella, Calvino, Laterza, Bari 1999, p. 98: “Se gli scambi con i suoi giovani amici non
sfociarono in nessuna rivista, furono però molto importanti per la gestazione dei suoi libri, soprattutto per
Le città invisibili”.
194
I. Calvino, G. Celati, G. Neri, Protocollo d’una riunione tenuta a Bologna nel dicembre 1968, in M.
Barenghi e M. Belpoliti (a cura di), “Alì Babà”. Progetto di una rivista, 1968-1972, cit., p. 57.
195
Cfr. a tal proposito U. Eco, Il gruppo 63. Lo sperimentalismo e l’avanguardia, in Sugli specchi e altri
saggi, Bompiani, Milano 1985, pp. 93-104. Vedi anche M Belpoliti, Settanta, cit., pp. 223-229.
196
Chiarisce i termini della questione lo stesso Calvino in una lettera a Celati del 16 gennaio 1969. Cfr.
M. Barenghi e M. Belpoliti (a cura di), “Alì Babà”. Progetto di una rivista, 1968-1972, cit., p. 74: “La
lotta politica è solo un caso della prassi. Molti ve ne sono per cui la letteratura può servire magari di più.
Direi: «dalla prassi (vita privata o lotta politica, insomma l‟invivibilità del presente)»”. Celati intende la
prassi come attività umana finalizzata alla liberazione dalla necessità, dal necessario.
197
Cfr. I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., p. 1108. In questa missiva del 9 luglio 1971 a Paolo Valesio,
Calvino scrive: “L‟essermi tenuto in disparte dalle cose che si sono sviluppate clamorosamente e poi
hanno fatto cilecca – in scala minima l‟autoaffondamento della neoavanguardia, in scala gigantesca,
anche se con meno autocoscienza dello scacco, l‟incapacità del movimento studentesco e della «nuova
sinistra» a essere qualcosa di più di un sintomo – non mi rallegra affatto; non mi sento meno bruciato di
chi si è bruciato davvero”.

64
il silenzio perché la letteratura pare essersi completamente ripiegata su se stessa,
separandosi dalla realtà198. Basti leggere un passo di Per una letteratura che chieda di
più: “Nella letteratura c‟è la diffusa sensazione d‟un fallimento, d‟un bisogno di
ricominciare da zero. […] Questo si verifica al livello della gioventù più
intellettualmente esigente […] perché se la letteratura è vissuta come ragione
rivoluzionaria […] lo è come richiesta ancora da assolvere, esigenza in larga parte in
bianco, pagina ancora da scrivere”199. Si percepisce la mancanza di un progetto letterario
all‟altezza delle necessità politiche contemporanee e il conseguente disordine culturale:
“Ce ne siamo accorti da un pezzo: il magazzino dei materiali accumulati dall‟umanità
[…] non si riesce più a tenerlo in ordine”200. È un senso di confusione come quello
dell‟imperatore dei tartari che osserva il suo impero in rovina. La questione è quella già
vista parlando della Sfida al labirinto, del ruolo della letteratura nel mondo
industrializzato e neocapitalistico, e quel che è importante capire è che la mancata
rappresentazione realistica del mondo alla maniera, per esempio, del Pasolini di Ragazzi
di vita201 o della Vita violenta202, non significa rassegnazione in merito alla questione
dell‟impegno, bensì si imposta come ricerca attraverso dei “modelli” conoscitivi
strutturati razionalmente moltiplicabili all‟infinito. “La macchina letteraria può
effettuare tutte le permutazioni possibili di un dato materiale; ma il risultato poetico sarà
l‟effetto particolare d‟una di queste permutazioni sull‟uomo dotato d‟una coscienza e
d‟un inconscio, cioè l‟uomo empirico e storico”203. Nella poetica calviniana
fondamentale diventa l‟azione umana nel mondo finzionale204. Calvino può quindi

198
Cfr. I. Calvino, Per chi si scrive?, in Saggi 1945-1985, tomo I, cit., p. 201: “Negli ultimi quindici anni
[…] lo scrittore […] tiene conto d‟uno scaffale in cui hanno il primo posto le discipline in grado di
smontare il fatto letterario nei suoi elementi primi e nelle sue motivazioni. […] A questa biblioteca di
specializzazioni multiple si tende non tanto ad aggiungere uno scaffale letterario quanto a contestarne la
collocazione: la letteratura vive oggi soprattutto della propria negazione. […] L‟antiletteratura è una
passione troppo esclusivamente letteraria per essere all‟altezza dei bisogni culturali attuali”.
199
Cfr. I. Calvino, Per una letteratura che chieda di più, in Saggi 1945-1985, tomo I, cit., pp. 240-241.
200
I. Calvino, Lo sguardo dell’archeologo, in Saggi 1945-1985, tomo I, cit., p. 324.
201
P. P. Pasolini, Ragazzi di vita, Garzanti, Milano 1955.
202
P. P. Pasolini, Una vita violenta, Garzanti, Milano 1959.
203
I. Calvino, Cibernetica e fantasmi, in Saggi 1945-1985, tomo I, cit., p. 221.
204
Cfr. M. Bresciani Califano, Uno spazio senza limiti, Casa Editrice Le Lettere, Firenze 1993, p. 95:
“La sola azione politica che Calvino ritiene di dover (affidare alla letteratura) è quella di accrescere la
conoscenza, di fornire strumenti nuovi di previsione e di immaginazione che consentano una lotta più
efficace, in quanto più consapevole”. Si pensi all‟azione di Dantès prima e di Marco Polo poi.

65
essere considerato un intellettuale “impegnato”205 nella misura in cui attua la ricerca di
un senso nel caos e nell‟insensatezza del mondo206.
La realtà che Calvino sfida, come dice in Cibernetica e fantasmi è un “mondo in
cui è facile perdersi, disorientarsi, e l‟esercizio del ritrovare l‟orientamento acquista un
valore particolare, quasi d‟un addestramento per la sopravvivenza”207. Il disorientamento
precede l‟orientamento, ma senza smarrimento la liberazione non avrebbe senso. Il
problema in cui s‟è però impelagato Calvino, per esempio, ne Il castello e ne La
taverna, è che in fondo il medesimo orientamento si capovolge in disorientamento,
come il mosaico delle carte sovrapposto al caos del reale diventava a sua volta labirinto,
e perciò da una parte il labirinto porta alla perdizione, dall‟altra chiama il visitatore a
risolverlo, a costruirne la mappa distruggendolo. Una volta attraversato, il labirinto
viene meno. Quindi il problema è: se la realtà è labirintica, cosa può fare la letteratura?
“Il gioco può funzionare come sfida a comprendere il mondo o come dissuasione dal
comprenderlo, la letteratura può lavorare tanto nel senso critico quanto nella conferma
delle cose come stanno e come si sanno”208. Il gioco matematico combinatorio, per cui, è
sfida dell‟umana intelligenza all‟impenetrabilità del mondo. Ma questo non basta,
perché la questione, in realtà, non è gnoseologica, bensì politica. S‟è visto sopra che la
razionale costruzione di un modello combinatorio da sovrapporsi al reale alla fine è
inutile, in quanto l‟intrico di carte stese sul banco dallo scrittore toglieva al lettore la
funzione fondamentale che deve invece avere: “A questo punto è l‟atteggiamento della
lettura che diventa decisivo; è al lettore che spetta di far sì che la letteratura esplichi la
sua forza critica, e ciò può avvenire indipendentemente dalla intenzione dell‟autore”209.

205
Cfr. M. Dini, Calvino critico, cit., p. 8: “Noi crediamo che, pure in un mondo mal padroneggiabile,
«incancrenito» e «spappolato» riprendendo due immagini ricorrenti nell‟ultimo Calvino, l‟iniziale idea di
una letteratura impegnata a disegnare un nuovo modello di società abbia continuato ad agire, anche solo
come aspirazione teorica e astratta, magari mascherandosi e assumendo forme sempre diverse, con la
forza dei propositi più radicati”.
206
Cfr. A. Asor Rosa, Stile Calvino, cit., p. XII: “L‟impegno civile dello scrittore Calvino non può essere
iscritto, - soprattutto dopo il 1956 e la sua uscita dal Partito comunista, - sotto il segno prevalente
dell‟«impegno»[…]. «Civile» è stata soprattutto la sua concezione di letteratura: intesa esattamente, - in
quanto ricerca, progetto, costruzione, - come un‟operazione di civiltà, rivolta a saldare sul piano morale le
scelte individuali con le grandi scelte collettive e storiche. La lotta con il silenzio, la sfida ai limiti del
dicibile, queste caratteristiche così peculiari della sua arte […] presentano valenze che vanno ben al di là
del mero gioco letterario”.
207
I. Calvino, Cibernetica e fantasmi, cit., p. 224.
208
Ibidem.
209
Ibidem.

66
L‟autore deve farsi da parte, nascondersi nel testo210, non invece saturarlo
completamente com‟è avvenuto nel 1969. A questo punto diventa vero per Calvino
quanto egli stesso scrive ne La macchina spasmodica parlando di Gadda. Si cita
interamente il passo perché mostra perfettamente il senso dell‟esito fallimentare del
lavoro di ordinazione del caos tentato dallo scrittore ligure con Il castello dei destini
incrociati:

L‟oggetto dello scrivere di Gadda è il sistema di relazione tra le cose, che attraverso una genetica
combinatoria mira a una mappa o catalogo o enciclopedia del possibile, e, risalendo una genealogia di
cause e concause, a collegare tutte le storie in una, nell‟intento eroico di liberarsi del groviglio dei fatti
subiti passivamente contrapponendo loro la costruzione d‟un «groviglio conoscitivo» - o, noi diremmo,
d‟un «modello» - altrettanto articolato. Intento continuamente frustrato: la complessità dei vorticosi
processi di trasformazione s‟espande in labirinti concentrici e non tarda ad avere ragione del più ostinato
ottimismo gnoseologico211.

Il lavoro svolto nel testo del 1969 sembra perciò a Calvino prezioso nella misura in cui,
scrive, “l‟analisi del processo combinatorio mi è apparsa solo come un metodo tanto più
necessario in quanto mai esaustivo per addentrarci nello sterminato intrico del
possibile”212. Allo scritture ligure interessa la possibilità, contro la realtà.
Si viene al punto, si cerca di dare nomi e luoghi reali a quelle figure di prigione,
deserto, inferno, labirinto e silenzio di cui i testi erano pregni: il periodo che precede
l‟uscita de Le città invisibili è un momento critico per la società italiana213. È crollato
l‟ideale della inarrestabilità del progresso e dello sviluppo economico, a proposito del
Sessantotto studentesco “si constata senza recriminazioni il fatto che i giovani e gli
studenti che lottano non si interessano di letteratura (almeno in Italia) […]. I letterati si
mettono a parlare anche di politica (come avviene su «Quindici») generalmente
improvvisando o ricadendo negli slogan dei linguaggi di partito” 214, ci sono state le

210
Cfr. Ibid., p. 215: “L‟io dell‟autore nello scrivere si dissolve: la cosiddetta «personalità» dello scrittore
è interna all‟atto dello scrivere, è un prodotto e un modo della scrittura”.
211
I. Calvino, La macchina spasmodica, in Saggi 1945-1985, tomo I, cit., p. 253.
212
Ibidem.
213
Cfr. C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, cit., p. 142: “La genesi polemica del
libro risulta evidente, ove si pensi al facile corso che ebbero nel periodo post-sessantottesco ideologie e
parole d‟ordine totalizzanti. Ad esse Calvino contrappose una saggezza disincantata, pur senza rinunciare
a una critica radicale del conservatorismo scettico”.
214
I. Calvino, G. Celati, G. Neri, Protocollo d’una riunione tenuta a Bologna nel dicembre 1968, cit., p.
57.

67
rivolte operaie e le bombe neofasciste. Calvino è malinconico, perplesso215 e prendendo
atto del fallimento delle utopie politiche del dopoguerra e degli anni Sessanta, non
rinunciando alla ricerca intellettuale, lascia da parte sì il rapporto diretto tra letteratura e
politica, ma per affrontare le medesime questioni dal punto di vista metaletterario, nel
testo. Il passaggio di decennio dagli anni Sessanta ai Settanta è un periodo “caldo”, per
così dire, dove grandi trasformazioni socio-economiche si affiancano alla crisi delle
vecchie classi dirigenti, alla prevalenza delle ideologie estremistiche e alla generalizzata
contestazione dei valori estetico-morali prevalenti nei decenni precedenti: ogni discorso
che riguardi la letteratura tende a politicizzarsi banalmente, a diventare ideologico216.
Per cui, come si legge nei protocolli delle discussioni a Bologna, “diviene
necessaria la ridefinizione della letteratura come luogo di significati e forme che non
valgono solo per la letteratura; con altri termini: come luogo dei fondamenti mitici
dell‟operare umano”217. Calvino e Celati intendono il mito non al modo romantico, ma
come cosmologia (rifacendosi a Levi-Strauss) e quindi, quel che è più importante, il
mito “come classificazione dei ruoli della prassi e dei punti di riferimento del reale,
assolve alla funzione di denominatore comune delle esigenze che la prassi promuove; è
l’energetica primaria che pervade non solo il discorso letterario, ma anche quello
politico ed ogni forma di discorso umano [corsivo mio]”218. Il mito esprime e cerca di
dar voce al riferirsi della realtà ai bisogni del soggetto.
Gli intellettuali riuniti a Bologna propongono una poetica del discorso umano la
quale, demistificando l‟apparente univocità del linguaggio politico, porti alla
rivendicazione della sua fondamentale metaforicità ovvero poeticità. Quest‟ultimo viene
perciò a presentarsi “come proiezione e strategia del desiderio umano e invettiva contro
ciò che al desiderio ripugna”219, mentre quando il linguaggio politico è ridotto a slogan,
vengono bloccate le sue possibilità di “propulsione liberatoria”. È una lotta contro la
separatezza del linguaggio politico tesa a riportarlo alla sua essenziale poeticità. Questo
discorso non è altro dal movente della narrazione di Marco Polo a Kublai, è un esigenza
215
Scrive a Pietro Citati da San Remo il 30 marzo 1972: “Basta la lettura del giornale ogni mattina a
nutrire la mi ansia con le immagini di un mondo minaccioso e allucinante.” Cfr. I. Calvino, Lettere 1940-
1985, cit., p. 1158.
216
Il rapporto negativo col mondo, l‟integrazione mancata sul terreno storico-sociale, lo scarto tra mondo
letterario e mondo reale è uno degli aspetti più caratteristici della letteratura calviniana.
217
I. Calvino, G. Celati, G. Neri, Protocollo d’una riunione tenuta a Bologna nel dicembre 1968, cit., pp.
57-58.
218
Ibid., p. 58.
219
Ibidem.

68
che Calvino confessa nuovamente un anno dopo ne La letteratura come proiezione del
desiderio quando scrive:

Il richiamo all‟elemento del desiderio che trova nella letteratura le forme per proiettarsi al di là degli
ostacoli incontrati sulla sua strada, appare una proposta tutta attuale, basata com‟è sulla ripugnanza per
l‟invivibilità del presente e sulla tensione verso il progetto d‟una società desiderabile220.

In questo modo Calvino disegna benissimo il progetto di una letteratura che chieda di
più e che “conta per l‟esigenza su cui si apre. […] Una letteratura che deve servire ad
alzare continuamente la posta”221, e che si configuri quindi, come quella auspicata da
Vittorini, come cultura o “letteratura antiautoritaria; come scandaglio per una
rivoluzione ideologica che […] esplodesse dal di dentro”222. L‟intellettuale sanremese lo
ribadisce nuovamente, qui c‟è tutto il senso del progetto politico-letterario sotteso alle
Città invisibili:

Forse l‟analisi critica che cerco è quella che non punta sul «fuori» direttamente, ma esplorando il
«dentro» del testo riesce, proprio approfondendosi nella sua marcia centripeta, ad aprire sul «fuori» dei
colpi d‟occhio inattesi223.

L‟intento degli intellettuali Calvino e Celati è riproporre un discorso umano


capace di usare i suoi fondamenti mitici e la sua vocazione mitopoietica come
energetica del desiderio: questo significa prefigurazione del desiderio realizzato224. E dal
momento che questa ridefinizione di discorsi è già subito “aggressione alla dimensione
infernale in cui si vive, diviene automaticamente politica”225. Proprio perché esiste una
mitopoieticità o letterarietà intrinseca a ogni utilizzo della parola, cioè si assume che le
funzioni del linguaggio umano hanno un fondamento unitario, è possibile guardare ogni
discorso come discorso letterario e concentrarsi sulla funzione del discorso – tutto
l‟apparato teorico degli intellettuali tende alla definizione di funzione dell‟opera –, cioè
si cerca di recuperare il contatto con la prassi. La funzione, che consiste

220
I. Calvino, La letteratura come proiezione del desiderio, cit., p. 243.
221
I. Calvino, Per una letteratura che chieda di più, cit., p. 241.
222
Ibidem.
223
I. Calvino, La letteratura come proiezione del desiderio, cit., p. 249.
224
Si legga, su questo, I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 20: “A chi si trova un mattino in mezzo ad
Anastasia i desideri si risvegliano tutti insieme e ti circondano. La città ti appare come un tutto in cui
nessun desiderio va perduto e di cui tu fai parte. […] La tua fatica che dà forma al desiderio prende dal
desiderio la sua forma”.
225
I. Calvino, G. Celati, G. Neri, Protocollo d’una riunione tenuta a Bologna nel dicembre 1968, cit., p.
58.

69
nell‟adattamento di un modello strutturale al contesto, non è altro che la finalità della
strategia, ma quest‟ultima è determinata sia dalle regole del gioco (la scrittura, il game
ovvero meta-gioco, per Celati) sia dall‟incidenza dei fattori variabili del contesto.
Lasciando la questione delle regole e della scrittura al prossimo capitolo, ci s‟interroga
qui sul contesto, rappresentato nei testi dal nastro di Möbius, dal labirinto, dalla
prigione, dal deserto infernale.
Gli studiosi impostano perciò la questione: “Il problema fondamentale che si pone
(trascurato dalle poetiche attuali) è quello di definire i rapporti tra struttura letteraria e
contesto”226. Accostando questo passo tratto dai protocolli con le parole di Calvino nel
saggio dal titolo Lo sguardo dell’archeologo quando scrive “noi crediamo che le
poetiche letterarie possano rimandare a una poetica del fare: anzi del farsi. […] Quel
che ci sta a cuore […] è il contesto in cui la letteratura prende senso. È su questo
contesto che vogliamo operare”227 si vede bene che ciò che preme al gruppo di
intellettuali è il rapporto tra opera e contesto che si determinano l‟un l‟altro,
reciprocamente: così come il contesto228 condiziona modificandola la struttura
dell‟opera – poiché la specificazione delle variabili che costituiscono il modello
strutturale, ovvero l‟adozione di un particolare modello da parte di un autore avviene
secondo le regole del contesto, – ogni nuovo testo (ben inteso, se si tratta di letteratura),
muta il contesto (e così le opere precedenti dell‟autore) – contesto di cui, alla poetica del
farsi, interessa soprattutto il lettore –, mediante l‟effetto.
Certo il fatto che Calvino si sia dedicato in questo periodo a Il castello dei destini
incrociati è legato all‟idea per cui “la progettazione letteraria deve aprirsi a riproporre
tutti i discorsi inventati dall‟uomo, tutti i modelli letterari che abbiamo ereditato dalle
varie tradizioni, a scoprirne i fondamenti archetipici e a svilupparne le potenzialità”229.
Questo vaglio delle possibilità della letteratura nel libro del 1969 era però limitato
dall‟utilizzo delle carte e dalla prevalenza della scrittura, benché iniziasse ad affiorare
ne La taverna la casella vuota. Ora importa osservare cos‟è il contesto, che ruolo ha in
questa poetica.

226
Ibid., p. 61.
227
I. Calvino, Lo sguardo dell’archeologo, in Saggi 1945-1985, tomo I, cit., p. 327.
228
Cfr. I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., p. 1142: “Molto più importante mi sembra studiare il contesto
storico, culturale e letterario in cui l‟opera di quell‟autore si situa”.
229
I. Calvino, G. Celati, G. Neri, Protocollo d’una riunione tenuta a Bologna nel dicembre 1968, cit., p.
61.

70
Al punto 4.7 della trascrizione celatiana si viene a conoscenza del fatto che la
causa efficiente della funzione – che è finalità della strategia230 – è nel contesto231.
Stesso discorso valeva nei paragrafi precedenti: nel Conte di Montecristo v‟è parte della
strategia, ma la prigione è sola intuita come nastro di Möbius dal personaggio di Dantès
– ed è pensato come contesto –, mentre ne Il castello dei destini incrociati si delinea il
modello strutturale, la griglia con la casella vuota – quella che diventerà la scacchiera
del gioco degli scacchi –, benché manchi strategia – poiché manca il nastro come
contesto. Calvino del resto non poteva evitare questo scacco: la strategia è sempre
trascendentale rispetto alla struttura, perché determinata dalle regole del gioco, ma
anche dai fattori mutevoli del contesto. Al termine della prima relazione delle
discussioni Celati addita come esempio di operazione letteraria in grado di dar vita a
una nuova letteratura rinforzata dal rifacimento di elementi mitici già dati, poiché si
crede che il modello mitico imitato sia già dotato di senso e di strategia – grazie alle
quali si può assolvere alla funzione –, il racconto di Calvino dal titolo Il conte di
Montecristo. La forza di questo racconto sta (e Calvino è ben contento della citazione
dell‟amico) nella sua capacità di fondare il discorso in un contesto convenzionale,
rendendolo perciò intelligibile e leggibile, ma non per questo meno eversivo. Anzi, la
mutazione delle catene di varianti – e queste ultime sono i diversi tipi di specificazione
degli stessi elementi d‟una struttura combinatoria, che a sua volta forma il modello –
può essere naturale o arbitraria. Nel secondo caso la mutazione si attua come
“intervento sul contesto nel tentativo d‟una sua ristrutturazione. […] Per questo ogni
grande prodotto letterario contiene in sé una teoria della letteratura che non è solo una
teoria della letteratura; cioè postula un nuovo contesto strutturando sparsi materiali in
un vasto modello concettuale che equivale ad una cosmologia”232. Si crede che questo
apparato teorico sia perfetto per la comprensione de Le città invisibili: opera che
ipotizza nuovi luoghi, che cerca spazio, grazie alla strutturazione di vari materiali e
finisce per essere cosmologica; libro che detiene il privilegio di essere rifacimento del
230
Per una definizione della strategia si legga il punto 4.5. Cfr. I. Calvino, G. Celati, Guido Neri,
Protocollo d’una riunione tenuta a Bologna nel dicembre 1968, cit., p. 62: “Un modello strutturale per
adattarsi ad un contesto deve adottare una strategia”. Della finalità della strategia, altresì chiamata
funzione, si parlerà successivamente.
231
Su questo si legga anche I. Calvino, Cibernetica e fantasmi, cit., p. 217: “La battaglia della letteratura
è appunto uno sforzo per uscire fuori dai confini del linguaggio; è dall‟orlo estremo de dicibile che essa si
protende; è il richiamo di ciò che è fuori dal vocabolario che muove la letteratura”.
232
I. Calvino, G. Celati, G. Neri, Protocollo d’una riunione tenuta a Bologna nel dicembre 1968, cit., pp.
70-71.

71
Milione di Marco Polo e richiamo a nomi di donne mitiche233. Ma soprattutto testo
costruito come teoria della letteratura su se stesso234.
Il problema è quello di inventare nuove strategie efficienti. La novità sta nella
trascendentalità della strategia non soltanto in confronto alla struttura, ma anche rispetto
al contesto particolare in cui si sviluppa. Si tratta di agire sul contesto pur non avendo
presente un particolare contesto, ma il lettore in generale. E questa è la scommessa di
Dantès, di Calvino. Nei primi due paragrafi di questo lavoro s‟è visto soprattutto il
rapporto tra strategia e contesto e s‟è fatto vedere, additando la casella vuota come
fondamentale vuoto per la cooperazione del lettore, che usare strategicamente la
scrittura potrebbe significare fare in modo ch‟essa sia matrice di mosse che vanno fuori
dalla pagina; s‟è inoltre intuito un particolare modello strutturale, ne La taverna.
Per concludere si leggono due passi tratti dal saggio Per chi si scrive? che ben
chiariscono la questione del rapporto tra letteratura e politica così com‟è impostato da
Calvino in questi anni. La possibilità della letteratura che interessa lo scrittore
sanremese è quella che mette in discussione la scala dei valori e il codice dei significati
statuiti. A Calvino preme la previsione di un lettore politico che sia più colto di quanto
non sia lo scrittore medesimo che ad esso tende, la presupposizione di un lettore ancora
inesistente, oppure un mutamento nel lettore di oggi235:

Per prima cosa occorre che la letteratura riconosca quanto il suo peso politico è modesto: la lotta si decide
in base a linee strategiche e tattiche generali e a rapporti di forza; in questo quadro un libro è un granello
di sabbia, specie un libro letterario. L‟effetto che un‟opera letteraria […] può avere sulla lotta generale in
corso è di portarla su un livello di consapevolezza più alto, di aumentarne gli strumenti di conoscenza, di
previsione, d‟immaginazione, di concentrazione. […] Politicamente rivoluzionaria non è tanto l‟opera
quanto l‟uso che se ne può fare. […] Lo scrittore che si considera in lotta […] deve in primo luogo tener
presente il contesto generale in cui l‟opera si situa, deve essere consapevole che il fronte passa anche
all‟interno della sua opera. […] L’opera stessa è e dev’essere terreno di lotta [corsivo mio]236.

233
Cfr. G. Barberi Squarotti, Il teorema e il labirinto della scrittura, in “Nuova civiltà delle macchine”,
V, 1 (17), 1987, p. 48: “Nomi delle più lontane e disperse e anche invisibili città […] nascono dalla forza
mitopoietica della letteratura”.
234
Cfr. M. Dini, Calvino critico, cit., p. 12: “Il racconto assume spesso, in Calvino, cadenze saggistiche
(diventa meta-racconto) – è il caso delle Città invisibili –, così il saggio tende a sconfinare nel racconto:
letteratura e riflessione sulla letteratura si ricongiungono in tal modo con sorprendente e perfetta
circolarità”.
235
Cfr. G. Patrizi, Il significato del grigio. Calvino e le forme del saggio, in M. Boselli (a cura di), Italo
Calvino/2, in “Nuova Corrente”, XXXIV, 100, luglio-dicembre 1987, p. 305: “A distanza di qualche
anno, calvino risponde alla domanda «per chi si scrive un romanzo?», che si scrive per un lettore che
cambi se stesso, nella lettura. Se un lettore, esemplifica nel ‟68, accetta o meno una forma letteraria,
accetta o meno i contenuti del romanzo, la scelta è al tempo stesso estetica e morale”.
236
I. Calvino, Per chi si scrive?, cit., pp. 203-204.

72
È per questo che, visto già il contesto, nel prossimo capitolo, approfondendo i concetti
di scrittura, regole, fabulazione e gioco, così come sono stati teorizzati da Calvino e
Celati, si entrerà nell‟opera che a cui questo studio è dedicato, si inizierà a vagliare il
rettangolo centrale de Le città invisibili.

73
CAPITOLO 2. LA STRATEGIA: SCRITTURA E FABULAZIONE

§ 2.1 Scrittura

2.1.1 Dall’opaco

Vi è un momento
che appartiene ancora alla notte,
ma non ormai è prossimo al giorno,
in cui i due fantasmi si incontrano. […]
In realtà,
se non avviene quell‟incontro,
il giorno si rifiuta di iniziare,
e la notte ha il diritto di non appartarsi;
e in ogni caso la notte,
accolta nello spazio apparentemente illimitato del giorno,
disegna la propria presenza in innumere ombre1.

Prima di tutto si tenga presente quanto già detto sopra: la strategia dipende sia dai
fattori variabili del contesto, sia dalle regole del gioco. Chiarito il primo, fuori dal testo,
nel senso sia di “opere precedenti” – contesto delle e nelle opere precedenti (labirinto,
prigione, silenzio, variabili l‟uno nell‟altro) –, sia di “contesto politico-culturale”, è
bene trattare ora delle regole.
Nell‟Adelphiana 1971 esce un testo inedito di Calvino, dal titolo Dall’opaco2. Se
il personaggio di Dantès ipotizzava solamente, per via del luogo in cui si trovava, cioè
del contesto, una strategia, ora qui la strategia è direttamente connessa con le regole del
gioco. Avendo già visto in che misura il contesto (prigione, labirinto, deserto)
1
G. Manganelli, Centuria, cit., pp. 268-269.
2
I. Calvino, Dall’opaco, in Adelphiana 1971, Adelphi, Milano 1971, ora in La strada di San Giovanni,
Mondadori, Milano 1990. Citerò da quest‟ultimo.

74
“determina” la strategia, ora qui si tratta di capire quali sono le regole che a loro volta la
influenzano, pur sapendo che non è possibile dedurre la strategia solo dalle regole e
neppure soltanto dal contesto. Secondo l‟interpretazione che Celati fa de Le città
invisibili la porzione di spazio che nel testo è dedicata alle regole è quella in corsivo,
della cornice, dove da un lato vengono delimitate e organizzate le parti del libro,
dall‟altro avviene lo “svelamento dell‟attività dello scriba: appunto scrittura”3. La
scrittura avviene nei capitoli non numerati, dove il Kan e Marco Polo dialogano 4. Nella
complessiva sfaccettatura dell‟opera sono questi capitoli a inquadrare quelli non in
corsivo dedicati alla fabulazione e a fornire loro uno spazio in cui interpretare il gioco
vero e proprio delle città5. Qui le regole del gioco interessano nella misura in cui
contribuiscono alla definizione della strategia, insieme al contesto o, meglio, danno
luogo alla possibilità di una strategia, pur non potendola generare direttamente – questo
è compito del fabulatore e del lettore. Questo racconto del 1971 è importante perché la
strategia è intuita per mezzo di regole, pur rimanendo sempre lontana dall‟essere
chiarita. Si vede bene che la strategia è trascendentale rispetto al modello strutturale
assunto, tant‟è che sulla medesima strategia lavorano personaggi diversi in strutture
differenti, pur avendo presente il medesimo contesto. Si indaga qui quella parte
rilevante della strategia che sono le regole, per vedere solo in un secondo momento se è
possibile individuare una strategia efficiente.
Riepilogando gli esiti delle riflessioni precedenti si può dire quanto segue: nel
contesto delle opere antecedenti le Città invisibili, s‟è trovato il testo del 1967 dal titolo
il Conte di Montecristo e il testo del 1969 intitolato il Castello dei destini incrociati.
Questo è il contesto su cui si deve lavorare. Nelle opere il personaggio di Dantès è
implicato in un contesto di prigionia e silenzio, così come Faria e nello stesso modo i
commensali del Castello e della Taverna erano bloccati in un castello-locanda caotico e
labirintico. Si chiarisce quindi il fatto che il contesto, causa efficiente della funzione del
testo, è questo insieme di luoghi labirintici, caotici, silenziosi, desertici. Se ne è

3
G. Celati, Il racconto di superficie, in M. Barenghi e M. Belpoliti (a cura di), “Alì Babà”. Progetto di
una rivista, 1968-1972, cit., p. 185.
4
Cfr. F. Ravazzoli, Alla ricerca del lettore perduto in Le città invisibili di Italo Calvino, in “Strumenti
critici”, XII, 35, febbraio 1978, p. 106: “Quanto ai ruoli attanziali svolti nei corsivi non v‟è dubbio che
Marco sia il narratore per eccellenza e Kublai l‟ascoltatore”.
5
Ibid., p. 104. Parlando del testo in corsivo la Ravazzoli scrive: “Esso è dunque un metaracconto il cui
soggetto è l‟atto del raccontare. In un certo senso, le città sono invisibili solo nei corsivi, perché de facto
innominate”.

75
mostrata la corrispondenza con la realtà nel terzo paragrafo. Se questo è il contesto, cioè
un insieme di luoghi, e se su questo contesto si deve lavorare, si vedrà in che modo la
scrittura intesa come regolazione degli spazi può iniziare ad impostare la via d‟uscita.
Di questa scrittura intesa come regolamentazione del gioco già si disse quando si notò
che Dantès intuì la “struttura” della prigione perfetta come nastro di Möbius. Che
Dantès si renda conto che la fuga sarebbe possibile in un ideale nastro non perfetto, è
parte della strategia e in particolare delle regole.
Che cosa sono le regole del gioco? Sono quelle considerazioni svolte nei capitoli
non numerati che “hanno prima di tutto la funzione di definire il campo di avvenimenti
in cui installarsi, e poi la proprietà di essere teoria del gioco stesso e matrice delle mosse
consentite”6. La caratteristica delle regole da tener sempre presente è che le regole
valgono solo negativamente, fissano il punto dove si può arrivare. L‟affermazione
celatiana che meglio introduce al testo del 1971 è quest‟ultima, riferita alla scrittura,
cioè alle regole del gioco, parte della strategia: “La scrittura non è altro, culturalmente,
che uno strumento burocratico di amministrazione dei territori”7. Secondo Celati nella
modernità la scrittura assume un primato che finisce per vincolare sempre più lo scriba e
lo rende gregario e burocrate. Il fallimento della scrittura colpevole di saturare
completamente il testo s‟era già visto, in relazione al tema del silenzio e del labirinto,
parlando del Castello dei destini incrociati. Il problema è quello del testualismo,
dell‟impossibilità di far circolare la fabulazione cioè, in altri termini, incapacità di
convocare il lettore nella cooperazione alla scrittura del testo: è la mancanza della
casella vuota, la totale saturazione, la riduzione all‟ordine come rinuncia al dialogo col
lettore. Interessa la scrittura intesa come regolazione del territorio e come, ad un tempo,
inizio della fuga e impossibilità della fuga. A questo proposito l‟immagine del nastro di
Möbius sarà centrale in questo paragrafo.
La scrittura si svolge sul bordo del nastro, è riflessione sul mondo e sul testo nel
medesimo tempo, ed è inoltre, nel percorso complessivo sulla superficie del nastro, non
distante dal punto in cui si trovava Faria, benché inizi a inoltrarsi nelle vicinanze della
casella vuota, poiché è parte della strategia. Non a caso il testo del 1971 esordisce così:

6
G. Celati, Il racconto di superficie, cit., pp. 178-179.
7
Ibid., p. 187.

76
Se allora mi avessero domandato che forma ha il mondo avrei detto che è in pendenza, con dislivelli
irregolari, con sporgenze e rientranze, per cui mi trovo sempre in qualche modo come su un balcone,
affacciato a una balaustra, e vedo ciò che il mondo contiene disporsi alla destra e alla sinistra a diverse
distanze, su altri balconi o palchi di teatro soprastanti o sottostanti, d‟un teatro il cui proscenio s’apre sul
vuoto […] e così anche adesso se mi chiedono che forma ha il mondo […] devo rispondere che il mondo
è disposto su tanti balconi che irregolarmente s‟affacciano su un unico grande balcone che s’apre sul
vuoto dell’aria [corsivi miei]8.

Lo scriba che dal bordo del nastro s‟affaccia sul mondo prova lo stesso senso di vuoto
di Kublai Kan all‟inizio delle città e, per la precisione, nella prima cornice, proprio nel
primo tratto di bordo. Affacciati sul margine del nastro scriba e lettore soffrono di
vertigini e disorientamento. Il nulla all‟origine dell‟opera fa paura. Questo mondo è il
contesto: deserto, labirinto, prigione. Lo scriba tenta di definire la posizione in cui si
trova, cioè il modo in cui è orientato, e spiega che in questo punto del nastro è sempre
possibile sapere dove sono levante e ponente: alla sinistra c‟è il levante, alla destra il
ponente. Questo è l‟orientamento originario dello scriba, dal quale può iniziare a parlare
delle proprietà dello spazio e delle sue dimensioni. S‟immagini quindi lo scriba
sporgersi dal nastro, con alla sinistra l‟oriente e alla destra levante. “La prima cosa da
dire è che la dimensione dell‟avanti a me non sussiste, in quanto lì sotto comincia subito
il vuoto”9. La dimensione dell‟avanti coincide con quella del sopra, che si perde “nel
vuoto zenith”, mentre “la dimensione dell‟indietro non va mai molto indietro perché
incontra […] uno scoglio, un pendio scosceso”10 e, più importante, “c‟è la dimensione
che si prolunga alla sinistra e alla destra e che […] corrisponde più o meno al levante e
al ponente”11. Il mondo descritto là sotto dallo scriba è un mondo-prigione12 “tutto
all‟aperto che dà il senso d‟essere chiusi stando all‟aperto […] uno spazio che è esterno
anche quando è dentro un interno […] un mondo dove tutto si vede e non si vede al
medesimo tempo”13. Lo scriba affacciato dal nastro sul mondo lo vede sfaldarsi nella
frana dello spazio e del tempo: ecco nuovamente l‟impero-realtà franare incancrenito
davanti agli occhi di Kublai Kan.

8
I. Calvino, Dall’opaco, cit., p. 103.
9
Ibid., p. 106.
10
Ibidem.
11
Ibid., p. 107.
12
Cfr. I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., p. 968. In una lettera che Calvino scrive a Cesare Garboli da
Parigi il 2 dicembre 1967: “Ciò che conta […] è capire il mondo che ci contiene, […] capire il mondo-
prigione”.
13
I. Calvino, Dall’opaco, cit., pp. 108-109.

77
La descrizione delle regole del gioco e la descrizione dello spazio del gioco
tendono a coincidere14. Questo è comprensibile non appena si definisce di che gioco si
sta parlando: è la scacchiera degli scacchi, modello dell‟impero del Kan. Il gioco degli
scacchi è il modello strutturale. Nei capitoli non numerati la scrittura si sviluppa come
itinerario in cui viene definito il modello. La enunciazione del modello è la stessa cosa
dell‟amministrazione del territorio riferita ad un contesto: il tentativo di ipotizzare uno
spazio ideale15, una superficie spartita in caselle, dove in una e in tutte c‟è la casella
vuota. Nella ricerca di una definizione del concetto di scrittura si trova una preziosa
indicazione nelle ultime righe del testo del 1971. Le si legge, per poi tornare indietro a
guardare che tipo di superficie amministra questa scrittura:

«D‟int ubagu», dal fondo dell‟opaco io scrivo, ricostruendo la mappa d‟un aprico che è solo un
inverificabile assioma per i calcoli della memoria 16.

Lo scriba si rivela nell‟attività di scrittura come colui che “dal fondo dell‟opaco”
ipotizza la mappa d‟un aprico. L‟opaco (ubagu in dialetto) è lo spazio dove il sole non
batte, mentre l‟aprico è la superficie soleggiata17. La scrittura muove dall‟opaco e
inscrive uno spazio, cioè la superficie di gioco e le sue regole18 – in questo modo il
modello strutturale inizia ad adattarsi al contesto –. Questo “gioco di inscrizione sulla
carta” “è l‟unico gioco che ci si può attendere perché è l‟unico gioco che si fa quando si
scrive: è una specie di letteralismo”19. Ma la scrittura si occupa solo della forma
normativa del gioco, è soltanto il modello, appunto un assioma non verificabile,

14
Cfr. M. Belpoliti, Settanta, cit., p. 379: “L‟ambizione del senex Kublai Kan è quella di impossessarsi
delle regole del gioco per possedere l‟intera mappa del territorio, per prevedere le mosse sulla scacchiera.
Kublai Kan esprime l‟istanza razionalistica di Calvino, la sua propensione all‟ordine; quello che
l‟imperatore combatte è il pulviscolo informe che ha già invaso il suo impero”.
15
Cfr. M. Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, cit., p. 114: “Dall’opaco, vero tour de force di
intelligenza visiva e acume analitico, ricostruisce le coordinate mentali originarie dell‟autore – le forme a
priori, per dir così, della sua concezione del mondo – quali sono state determinate dal paesaggio nel quale
è cresciuto. […] Tale paesaggio – e di conseguenza l‟intuizione dello spazio di Calvino – è
contraddistinto, nella raffinata astrazione topologica di Dall’opaco, da un predominio delle linee sule
superfici, e delle superfici sui volumi, fino alla virtuale riduzione dello spazio a due sole dimensioni”.
16
I. Calvino, Dall’opaco, cit., p. 116.
17
Cfr. G. Lombardo, Strategie autobiografiche in Calvino: un’ipotesi di lettura, in R. Aragona (a cura
di), Italo Calvino: percorsi potenziali, cit., p. 129: “Il fatto che l‟opaco si presenti come il rovescio
dell‟aprico lo rende un negativo, ed è da questo negativo che nascono il self di Calvino e la sua scrittura,
da un‟ombra, dalla mancanza di luce”.
18
Cfr. P. P. Pasolini, Descrizioni di descrizioni, Garzanti, Milano 1996, p. 62. Qui Pasolini definisce la
scrittura di Calvino ne Le città invisibili “una scrittura metallica, quasi cristallina, ma leggera,
incredibilmente leggera: la scrittura del gioco [corsivo mio]”.
19
G. Celati, Il racconto di superficie, cit., p. 176.

78
un‟ipotesi20. La scrittura è matrice di mosse, dice quello che si può o non si può fare nel
gioco cioè, descrivendone la superficie, per ciò stesso ne stabilisce le regole. La scrittura
si configura come ricerca di un ordine, costruzione di un modello21. Il primo gesto di
scrittura è quello di Dantès che ipotizza la prigione perfetta, che legato al contesto
labirintico cerca di individuare una strategia di fuga stabilendo l‟ideale modello della
fortezza per poi vedere la corrispondenza o meno di questa con quella reale. La scrittura
per ciò stesso è ricerca di una grammatica che significa subito annullamento del
divenire in una totalità astratta: la scacchiera. “Il modello del Kan è un‟astrazione
descrittiva, grammatica o criterio burocratico del gioco che lo amministra a distanza”22.
La scrittura è immobile, ferma sul bordo del nastro23, organizza lo spazio del gioco ma,
come Faria a testa in giù sul nastro, nello spazio della fabulazione, che è il racconto, non
si sposta di un passo. Il limite della scrittura che costringe lo scriba al ruolo di gregario,
sta nel non giocare, nel continuare a riflettere sulle regole senza mai spostarsi24. Con la
continua definizione di regole e amministrazione del territorio finisce per non muoversi.
L‟importanza della scrittura, che la rende parte della strategia in stretta
connessione al contesto, è quindi da trovare altrove: del resto, è vero che la scrittura non
gioca, ma senza superficie e regole sarebbe impossibile pure per il fabulatore giocare.
La scrittura da sola non racconta, ma il racconto senza scrittura non sarebbe. Per cui è
rilevante vedere se l‟ipotesi di Dantès-scrittore di un modello adatto alla fuga, come
nastro di Möbius, sia qui confermata dallo scriba che si rivela come tale al lettore

20
Cfr. G. Patrizi, L’utopia di Calvino tra razionalità e illuminismo, in C. De Caprio e U. M. Olivieri (a
cura di), Il fantastico e il visibile (Giornata di studi su l‟itinerario di Calvino dal neorealismo alle “Lezioni
americane”, Napoli, 9 maggio 1997), Libreria Dante & Descartes, Napoli 2000, p. 123: “Dall’opaco, uno
scritto del ‟71, fondamentale perché è una sorta di messinscena di uno sguardo sulla realtà, che proprio
perché si ferma a cogliere un mondo frammentato e parziale, attraverso la giustapposizione di questi
frammenti, attraverso soprattutto un processo di deduzione di altro dal frammento – di ciò che c‟è intorno
al frammento – riesce a costruire un‟immagine approssimativa di totalità: un‟immagine artificiosa, però,
un‟immagine che è solo mentale, che appartiene ad un‟avventura dell‟immaginazione o della riflessione”.
Ferma al modello astratto la scrittura non può da sola affidarsi alla spaziatura dei frammenti, delle tracce,
che è compito invece della fabulazione.
21
Cfr. M. Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, cit., p. 102: “Potremmo parlare di una sorta di
autobiografismo trascendentale, cioè di una riduzione del recupero memoriale all‟individuazione dello
schema a priori […] che sottostà al rapporto presente del soggetto con la realtà. […] Se ragionassimo in
termini di città, sarebbe il modello”.
22
G. Celati, Il racconto di superficie, cit., p. 186.
23
Cfr. M. J. Calvo Montoro, Le città invisibili: prosa con metamorfosi per il Nastro di Möbius, in R.
Aragona (a cura di), Italo Calvino: percorsi potenziali, cit., p. 73: “Un‟operazione che Celati considera
fondante nel modo di sviluppare lo spazio di frontiera, l‟orlo sul quale avviene il processo della scrittura
nel libro di Calvino”.
24
Cfr. M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, cit., p. 76: “Il limite dell‟operazione è dichiarato nell‟ossessione
stessa di ridurre il mondo a scacchiera, a gioco degli scacchi, al modello dei modelli”.

79
empirico. Se “il dominio grammaticale degli spazi scritti, l‟esercizio del potere assoluto
sulla scrittura è un‟illusione della superficie”25 è bene però vedere in che misura questo
intarsio come impostazione di una scacchiera è parte della strategia, qual è la sua utilità.
Senza Dall’opaco, testo nel quale lo scriba si rivela nell‟attività che gli è più propria,
cioè nella grammatica dello spazio, la comprensione ultima de Le città invisibili così
come sono state interpretate da Gianni Celati, sarebbe difficile. Qui, invece,
chiaramente – ancor più rispetto alla limitata immagine di Faria a testa in giù che crede
di uscire e invece entra – viene a definirsi la superficie su cui si proietta la scacchiera
delle Città, cioè, in altri termini, si spiega l‟aspetto spaziale della strategia adottata dal
gioco degli scacchi per adattarsi al contesto labirintico: il nastro di Möbius. In questo
modo si chiarisce da una parte il ruolo attivo, nella strategia, delle regole, cioè la loro
importanza (il ruolo della scrittura) come definizione del territorio, ma dall‟altra si
mostra pure la loro condanna ad essere solo grammatica, quel momento del testo in cui
“si sta solo e sempre a dirsi come è fatto il gioco ma non si gioca mai”26. Le città
invisibili con i soli corsivi non assolverebbero alla funzione che un‟opera deve avere,
non giocherebbero e terrebbero fuori il lettore dal libro. Ridotto al solo game, alla sola
teoria della letteratura, quel testo non potrebbe essere terreno di lotta. In Dall’opaco si
vede bene questa doppia valenza della scrittura: chi scrive definisce un territorio (nastro
di Möbius), ma rimane fermo nell‟opaco, nel lato rivolto a nadir della superficie
complessiva del nastro27. Dal punto di vista della fabulazione, nella scrittura non c‟è
movimento e quindi nessuna via di fuga, mentre dal punto di vista della scrittura
quest‟ultima serve soltanto, come sguardo dal margine del nastro sul mondo-impero-
inferno-vuoto da una parte, e sul nastro come superficie dell‟aprico e dell‟opaco nello
stesso tempo, dall‟altra. Per ora non importa dire quali sono le regole, bensì che cosa
s‟intende per regolamentazione del territorio, sua amministrazione.
Che tipo di territorio amministra la scrittura de Le città invisibili? È una
scacchiera, s‟è detto, ma non solo: il modello si complica non appena s‟intenda che la
scacchiera non è su uno spazio piano, bensì proiettata su una particolare superficie a una
sola faccia, cioè il nastro di Möbius. Se grazie a questa superficie sia possibile una fuga

25
G. Celati, Il racconto di superficie, cit., p. 187.
26
Ibidem.
27
Cfr. M. Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, cit., p. 104: “Appiattito su due dimensioni, il
soggetto si scopre a percorrere avanti e indietro, con un crescente senso di precarietà e instabilità, e in un
regime di accentuata tensione immaginativa, un nastro, o forse un gomitolo di nastri di Möbius”.

80
dall‟inferno-prigione d‟esordio di cui il nastro stesso è parte, come ultima propaggine
del mondo, ordine nel carcere, si vedrà parlando della fabulazione, caratteristica dei
racconti di Marco Polo. È importante capire che il nastro come territorio costruito dallo
scriba autorivelantesi (il narratore di Dall’opaco), è qualcosa che fa parte, se perfetto,
del mondo-prigione, del labirinto, ne è il congegno ossia ultima fonte di disperazione,
mentre se imperfetto, quindi se contiene la casella vuota, è la negazione di sé come
infinito vorticare dentro e fuori senza uscire dal testo: è invito alla fabulazione, cioè
adattamento del gioco degli scacchi ad un contesto: strategia.

Ammesso che io stia sempre guardando verso lo sbocco d‟una qualsiasi vallata e abbia alle spalle il
torrente scosceso ed ombroso, nulla prova che io sia sul punto d‟avanzare sempre più allo scoperto
anziché indietreggiare verso il fondo-valle, perciò è giusto dire che il me stesso rivolto verso l’aprico è
pure un me stesso che si ritrae nell’opaco28.

Lo scriba, già dal momento in cui ipotizza la mappa della prigione, dato che si limita a
dominare grammaticalmente il territorio, è sia rivolto verso l‟aprico – poiché genera lo
spazio per la fabulazione, la chiama a sé – sia immancabilmente fermo nell‟opaco, cioè
nel lato del nastro dove il sole non batte – quello di Faria, per intendersi. Qui si
intravede il passaggio dal primo triangolo del testo, che è interamente dedicato al
movente della scrittura, il contesto – cioè a ciò che della scrittura è complice nello
stabilire la strategia (complicità come causa efficiente) – al rettangolo centrale, dove il
nastro, girandosi su se stesso, si rivolge alla luce. Il contesto come opaco collabora
un‟ultima volta alla determinazione della strategia, insieme alla scrittura. Della porzione
di mondo che lo scriba amministra dal bordo egli constata “l‟estrema rarità dell‟opaco e
la più ampia estensione dell‟aprico”29: ecco una definizione della scacchiera delle città,
ancora difficile da capire a questo punto, ma dalla quale perlomeno si può intuire che la
presenza di raggi sulla superficie del nastro è qualcosa che va già oltre la scrittura; per la
prima volta viene qui rivelato il segreto della fabulazione, cioè della strategia efficace.
“Il mondo che esiste è l‟opaco e l‟aprico ne è solo il rovescio”30: cosa significa?
La superficie del nastro rivolta a nadir, dove la luce non arriva, è intrinsecamente parte
del sistema di sofferenza che è la realtà, mentre la fuga consisterebbe nel suo
rovesciamento, nel percorrere il nastro alla ricerca delle superfici soleggiate, dei varchi

28
I. Calvino, Dall’opaco, cit., p. 116.
29
Ibid., p. 113.
30
Ibid., p. 116.

81
da cui entra il sole. La contraddizione della scrittura che deriva dalla sua presunzione di
dominio sul mondo-libro sta nel credere di poter ridurre e quindi annullare il divenire
mediante modelli fino al punto in cui “queste caselle non numerate” divengono “i segni
d‟un annullamento nella totale illusorietà del mondo”31. Non si può attuare la fissazione
delle metamorfosi del possibile in una grammatica che sia esaustiva, si finisce soltanto
con l‟annullare il divenire in “«forme» quasi platoniche”32. Le regole da sole non
forniscono una strategia, ma solo un insieme di astrazioni che di per sé non portano da
nessuna parte. La scacchiera come modello strutturale in cui incasellare l‟intero divenire
finirebbe per essere quel mosaico di carte del castello che non lasciava spazio al lettore:
un saturo perfetto labirinto sovrapposto astrattamente al caos del mondo senza nessuna
funzione. Ma per assolvere alla funzione, che è la finalità della strategia, quel modello
strutturale che è il gioco degli scacchi deve adottare una strategia cioè una veste, deve
farsi come superficie vuota alla costruzione della quale il lettore deve collaborare.
Il mondo additato dai personaggi di Calvino come caos, disordine, labirinto,
prigione coincide con il lato opaco del mondo di cui parla lo scriba ed è, rispetto alla
superficie di mondo rivolta all‟aprico, il suo rovescio. In realtà, alla fine del pezzo del
1971 lo scriba arriva alla conclusione che “il solo mondo che esiste è l‟opaco e l‟aprico
ne è solo il rovescio, l‟aprico che opacamente si sforza di moltiplicare se stesso ma
moltiplica solo il rovescio del proprio rovescio”33. Queste apparenti contraddizioni sono
comprensibili se si osserva che questa superficie continuamente ripiegantesi e rigirantesi
su se stessa, dove ogni lato soleggiato si trasforma subito in lato umbratile e viceversa, è
una superficie a una sola faccia34. “Il concetto di faccia risulta dall‟osservazione di una
superficie dallo spazio tridimensionale che la circonda”35. In altri termini, lo scriba può
fare queste considerazioni perché è sul bordo, poiché pur essendo sul margine del nastro
ne è in qualche modo già fuori. Per una creatura bidimensionale, come Marco Polo o
Kublai Kan, che viva nella superficie il concetto di faccia non ha senso. Faria non
poteva sentirsi a testa in giù. Questa superficie matematica è priva di spessore. “La
31
G. Celati, Il racconto di superficie, cit., p. 187.
32
Ibid., p. 186. Su questo si legga P. P. Pasolini, Descrizioni di descrizioni, cit., p. 63. Pasolini parla, a
proposito di quella che definisce “letteratura archeologica di Calvino di uno “scontro inconciliabile tra
due opposti: la realtà e il mondo delle idee. […] Tutte le città che Calvino sogna, in infinite forme,
nascono invariabilmente dallo scontro tra una città ideale e una reale”.
33
I. Calvino, Dall’opaco, cit., p. 116.
34
Cfr. R. Courant e H. Robbins, Che cos’è la matematica?, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pp. 326-
331.
35
K. Devlin, Il linguaggio della matematica, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 268.

82
superficie interna e quella esterna non si distinguono perché l‟una scivola nell‟altra” 36.
La caratteristica curiosa del nastro di Möbius che sarà fondamentale più avanti e che lo
distingue dai normali nastri cilindrici – oltre al fatto di avere un solo bordo – è la sua
non orientabilità, ed eccone scovato il suo aspetto labirintico. Non si può stabilire, nel
nastro, un senso orario o antiorario, destrorso o sinistroso. Essere nel nastro è come
essere su un foglio senza rovescio, che a tratti è buio, a tratti è soleggiato: a volte
l‟inferno ritorna, altre volte la fuga sembra possibile, a tratti si scende nelle viscere, a
tratti si vedono spiragli di luce37.
Per il fatto di essere sul bordo, sospeso sul vuoto, lo scriba può far fare un grosso
progresso alla strategia, può vedere il nastro così com‟è, amministrarlo, gestire le sue
regole, capirle, e tuttavia questa scrittura amministrativa del territorio non è sufficiente
per muoversi sul nastro, non si muove d‟un centimetro:

E se partendo da quella posizione iniziale considero le fasi successive dello stesso me stesso, ogni passo
in avanti può essere pure un ritrarsi, la linea che traccio s‟avvolge sempre più nell‟opaco, ed è inutile che
cerchi di ricordare a che punto sono entrato nell‟ombra, già c‟ero fin dal principio, è inutile che cerchi in
fondo all‟opaco uno sbocco all‟opaco38.

Lo scriba prende coscienza del fatto che la scrittura da sola, le regole solamente, non
bastano alla definizione di una strategia ottimale di fuga dalla prigione-labirinto-inferno.
La non orientabilità inganna, confonde, rende il nastro un labirinto perfetto, luogo del
disorientamento per eccellenza. Ritorna lo smarrimento di Faria nel castello d‟If: si
crede di uscire, di andare avanti, invece si entra, si va indietro. Il nastro di Möbius come
prigione perfetta torna a incastrare lo scriba e di conseguenza il lettore, come fu per
Dantès e Faria. Ma lo scriba fa una mossa centrale, mossa dei cui effetti s‟è già parlato,
stabilisce una regola senza la quale nessuna fuga sarebbe possibile. S‟è indicato l‟aprico
come luogo soleggiato, l‟opaco come luogo oscuro: questo è possibile solo grazie
all‟unico elemento continuo di questo territorio regolamentato dallo scriba: “L‟arco che
il sole percorre salendo e scendendo dalla sinistra alla destra”39.

36
G. Celati, Il racconto di superficie, cit., p. 182.
37
Cfr. A. Asor Rosa, Stile Calvino, cit., p. 79: “L‟«aprico» e l‟«opaco», l‟«abrigu» e l‟«ubagu», sono al
tempo stesso due forme del mondo, due visioni del mondo, due forme dell‟essere: stanno dentro e stanno
fuori”.
38
I. Calvino, Dall’opaco, cit., p. 116.
39
Ibid., p. 111.

83
La non orientabilità del nastro di Möbius è vinta grazie ad un elemento dello
spazio tridimensionale: il sole. Conta non tanto l‟esistenza ipotetica della fonte di luce
quanto “come i suoi raggi cadono sulle superfici del mondo, o direttamente variando
intensità inclinazione frequenza, o indirettamente secondo angoli di riflessione
variabili”40; importa cioè il rapporto del nastro col sole, il fatto che sulla superficie sia
possibile grazie ai raggi del sole definire parti in ombra e parti in luce. Grazie alla stella
è inoltre possibile orientare il nastro, cioè stabilire a partire da un qualsiasi punto d‟esso
l‟est e l‟ovest. Di questo mondo-nastro lo scriba dice “che s‟allunga e contorce come
una lucertola in modo d‟offrire al sole il massimo della sua superficie […] tendendo a
far coincidere l‟opaco con l‟esistenza del mondo […] tendendo a far coincidere l‟aprico
con la lotta per l‟esistenza”41. Nell‟opera Le città invisibili vista dallo scriba viene
definita la superficie del nastro di Möbius rivolta all‟aprico come terreno di lotta e,
quindi si scova un primo tratto della strategia ideale, dato che la finalità della strategia è
la funzione e quest‟ultima ha un peso diretto nella prassi. Ecco finalmente definita
quella parte della strategia di adattamento del modello strutturale al contesto che si dice
scrittura, la regolamentazione del gioco:

Sento questo rovescio del mondo nascosto al di là dello spessore profondo di terra e di roccia, ed è già la
vertigine che romba al mio orecchio e mi spinge verso l‟altrove
Ora allora questa ricostruzione del mondo compiuta in assenza del mondo andrebbe ricominciata col
dirmi appiattito nella mia immobilità di lucertola sulla pendenza scoscesa «int‟abrigu» ma nello stesso
momento col dirmi spinto vertiginosamente verso l‟altrove, e qui aprire una graffa per distinguere un
altrove come aprico assoluto che s‟apre sul mare solcato da lontani battelli e un altrove come opaco
assoluto che s‟apre a chi guarda al di là d‟un estremo crinale montuoso
o forse gli altrove convergono, la nave che vedo prendere il largo e sparire nel riflesso del sole, approderà
a porti opachi42.

La situazione dello scriba immobile, rispetto all‟aprico e all‟opaco, è più che mai
controversa. Da una parte è spinto verso l‟altrove come aprico assoluto che è l‟insieme
delle “favole dell‟altrove che qualcuno ha narrato e che lo scriba accoglie come
citazioni nel suo discorso: appunto fabulazione”43. Dall‟altra, però, la scrittura
rimanendo per sua essenza sempre e soltanto un‟astrazione distante dalle mosse
concrete, dal play, cioè dalla fabulazione, resta solo criterio burocratico del gioco,
teoria, grammatica. Ma quest‟ordine-grammatica inseguito da Marco Polo e Kan,

40
Ibidem.
41
Ibid., p. 113.
42
Ibid. pp. 114-115.
43
G. Celati, Il racconto di superficie, cit., p. 185.

84
“grammatica su cui si fonda la scrittura” che “è uno strumento amministrativo
insostituibile per le società occidentali”44, è legato all‟esercizio del potere. “Esercizio
del potere come scorporazione ed emarginazione dell‟empirico per poterlo controllare
sotto forma non empirica”45: questo fa ogni grammatica, ogni scrittura come
regolamentazione del terreno di gioco. Il dominio grammaticale dello spazio scritto è
illusione della superficie, la scrittura non basta46, l‟amministrazione che pretende di
esercitare nei confronti della superficie di gioco la porta al fallimento come avvenne col
mosaico di carte sulla tavola dei commensali amministrata dal Calvino scrittore. Questo
è il punto cui giunge chi crede che tutto sia contenuto nel testo, nella scrittura, ossia
nelle regole del gioco. Regole e partita sono due cose differenti. La regola, la scrittura,
quando si pretende autonoma da qualsiasi fabulazione fallisce, resta all‟opaco appesa
come Faria, anzi, protesa assolutamente all‟opaco come altrove assoluto che dà
vertigine. Lo scriba resta sul bordo, fonda le regole del gioco, genera il terreno di gioco
ma non gioca, e così non si sposta sulla superficie, dal bordo guarda il mondo in sfacelo
e il nastro, e non sa se l‟altrove verso cui si sente proteso è un punto della superficie
ancor più buio e scuro della prigione di Faria o non piuttosto un primo ritaglio di
superficie aperta, o addirittura una loro paradossale coincidenza.
Visto quindi cosa si intende per scrittura come regolamentazione del terreno di
gioco è importante entrare nel testo e vedere quali sono le regole del gioco delle Città
invisibili, quali regole stabiliscono Kublai Kan e Marco Polo nelle parti in corsivo e
capire meglio il gioco degli scacchi come modello strutturale.

44
Ibid., p. 186.
45
Ibidem.
46
Cfr. G. Celati, Recensione inedita, in M. Barenghi, G. Canova, B. Falcetto (a cura di), La visione
dell’invisibile, Mondadori, Milano 2002, pp. 109-110: “Questo Kan-narratore è dunque vittima del
processo di derealizzazione proprio del pensiero moderno, che emargina l‟empirico per poterlo descrivere
come forma non empirica. […] Il gioco dell‟atlante del Gran Kan si attua solo attraverso questo processo
di derealizzazione che abolisce il reale. […] L‟unica importanza è avere una griglia, nomi di donna o
caselle come elementi discreti, applicabili a tutto, capaci d‟introdurre un invisibile ordine nel disordine
concreto e tangibile del mondo, capaci di ricondurre l‟infinito paradosso dell‟esperienza alla razionalità
cristallina del nulla”.

85
2.1.2 Le regole e la scacchiera

Due re nemici giocano a scacchi,


mentre in una valle vicina
i loro eserciti combattono e si fanno a pezzi.
Giungono messaggeri con notizie della battaglia;
i re non paiono sentirli,
e chini sulla scacchiera d‟argento
muovono i pezzi d‟oro.
Man mano appare chiaro
che le vicissitudini della battaglia
seguono quelle del gioco47.

Si procede qui al vaglio del bordo del nastro di Möbius, su cui è proiettata la
scacchiera delle Città invisibili. Su questo bordo vengono definite le regole del gioco.
Avendo già spiegato cosa significhi amministrare il terreno di gioco attraverso la
scrittura, si tratta ora di vedere quali sono le regole dei corsivi. Quali regole stabilisce la
scrittura ne Le città invisibili? Il gioco della scrittura è un gioco di delimitazione dello
spazio48. La scrittura “determina”, benché non totalmente, “la condotta del giocatore
all‟interno di uno spazio piano e senza spessore”49. La scrittura dei corsivi attua
l‟intarsio della scacchiera che ha un numero limitato di caselle e a cui il Kan crede di
poter ridurre l‟impero, attraverso “un trattatismo sostenuto ed opaco”50. All‟interno dei
capitoli non numerati s‟imposta la definizione del modello strutturale, cioè, in altri
termini, si procede a scegliere il modello del gioco degli scacchi come struttura
combinatoria, e di quest‟ultimo verranno poi specificate le variabili, a seconda delle
regole del contesto. Le regole del contesto rispondono alle esigenze della funzione
dell‟opera e l‟adattamento della struttura combinatoria a queste esigenze avviene
attraverso la strategia, la quale è perciò completamente autonoma rispetto alla struttura.
Prima di tutto bisogna capire quali sono le regole e questo porterà direttamente il
discorso ad una maggior vicinanza con la strategia efficiente, la cui finalità è la
funzione.

47
E. Morgan, L’ombra delle mosse, in Borges-Ocampo-Casares, Antologia della letteratura fantastica,
Einaudi, Torino 2007, p. 351.
48
Cfr. M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, cit., p. 74: “Il libro stesso è una morfologia spaziale”.
49
G. Celati, Il racconto di superficie, cit., pp. 177-178.
50
Ibid., p. 178.

86
La superficie, nella forma essenziale dello spazio vuoto accuratamente spartito, viene proposta come il
modello (scacchiera) e insieme le regole da seguire in questo gioco51.

La superficie di cui si parla è quella amministrata dalla scrittura come regolazione,


che s‟è visto essere il nastro di Möbius. La proiezione della scacchiera, modello
strutturale, sul nastro, è parte integrante dell‟adozione della strategia. È già strategia
benché ancora non si possa dire se sia o meno efficiente. Si potrebbe dire, anticipando,
che la proiezione della scacchiera sul nastro non è efficiente finché il nastro di Möbius
non viene percorso, cioè finche non avviene l‟esplorazione della superficie alla ricerca
della casella vuota: in altri termini, finché non si gioca. Non basta dire che quella è la
strategia e che il modello strutturale è il gioco degli scacchi, per concludere la partita.
Bisogna sapere le regole a cui attenersi, quindi finire di definire la strategia per poi
vedere in che modo, eventualmente, la partita giocata da Marco Polo e Kublai Kan 52
assolva ad una determinata funzione, seguendo una particolare strategia, in base a
contesto – ossia lato opaco del nastro di Möbius come ultima propaggine della prigione
labirintica – e alle regole stabilite dalla scrittura – che in questo modo amministra il
terreno di gioco della scacchiera-nastro. S‟indaga la teoria del gioco dei capitoli in
corsivo, le regole del gioco, ben sapendo che non basta la sola conoscenza di queste
ultime per dar luogo ad una strategia efficace. La strategia punta a far adattare il
modello strutturale al contesto. Questo s‟è già osservato parlando delle scrittura, che è
quella parte della strategia che gestisce il terreno di gioco e che quindi, mostrando che il
terreno di gioco è la superficie del nastro, fa in modo che il modello strutturale si adegui
al contesto del mondo in sfacelo. Tutto ciò però non basta poiché è necessario stabilire
anche le regole vere e proprie che perlomeno negativamente dicano come muoversi
sulla scacchiera.
Il vaglio del bordo compiuto in questo paragrafo è possibile solo se per così dire
avviene saltando da una parte all‟altra del bordo, senza però mai uscire dal rettangolo
centrale delle Città. Il Kan confessa subito a Marco Polo la sua vocazione riflessiva, “il
mio sguardo è quello di chi sta assorto e medita”53 mentre il veneziano d‟altro lato rivela
subito la caratteristica già sottolineata dello scriba che può soltanto osservare fermo le

51
Ibidem.
52
Cfr. R. Donnarumma, Da lontano. Calvino, la semiologia, lo strutturalismo, cit., p. 56: “Propriamente,
Marco e Kublai sono funzioni, o giocatori. Il loro confronto teatralizza un nuovo rapporto col lettore”.
53
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 33.

87
città, “da un osservatorio situato come il tuo”54. Marco Polo quindi scova la vocazione
scritturale di Kublai Kan, che è colui che ascolta sì i racconti dell‟ambasciatore, ma è
anche chi per primo riflette, teorizza, sul gioco. A dir la verità dietro a Kublai Kan c‟è la
riflessione calviniana, tutta nelle parti in corsivo, sulla letteratura, sul ruolo del lettore,
mentre dietro a Marco Polo c‟è il Calvino fabulatore, che mostra la funzione della
letteratura nei capitoli numerati55. Kublai Kan non è solo un lettore e Marco Polo non è
solo un narratore56. Dire narratore, si badi, è diverso dal dire scrittore. Scrittore, se il
termine “scrittura” è inteso come sopra, è chi amministra il territorio, ma fino al punto
di non raccontare. Quando nei paragrafi precedenti si diceva che il lettore deve
cooperare alla scrittura del testo, in maniera più appropriata si sarebbe dovuto usare il
termine “fabulazione”. Marco Polo spiega che ciò che lui cerca, come fabulatore, è
“sempre qualcosa davanti a sé”57, cioè un movimento, uno spostamento sulla superficie,
cerca cioè di uscire dalla scrittura ed è l‟unico tra i due che vi riesce, mentre Kublai
rimane bloccato, fino a un certo punto, sul bordo, come scriba.
Nella prima cornice del rettangolo centrale il silenzio, quel tratto infernale visto
prima tra Dantès e Faria, poi tra i commensali del Castello e della Taverna, dà, per così
dire, un ultimo colpo di coda dato che “tra loro era indifferente che quesiti e soluzioni
fossero enunciati ad alta voce o che ognuno dei due continuasse a rimuginarli in
silenzio”58, mentre già nella cornice successiva il silenzio è rotto dato che “col passare
del tempo, nei racconti di Marco le parole andarono sostituendosi agli oggetti e ai
gesti”. Tuttavia, una volta che o Marco ha imparato la lingua di Kublai o il secondo ha
imparato a capire la lingua dell‟altro, la comunicazione si rivela meno felice di prima tra
i due. Il dialogo s‟instaura, nonostante il silenzio, attraverso un rituale per il quale,
dovendo Marco parlare della vita nelle città, si esprime a gesti, con commenti muti e
sono le mani a diventare fondamentali59. Il silenzio infernale è vinto mediante un

54
Ibidem.
55
Cfr. M. Belpoliti, Settanta, cit., p. 225: “Forse, oltre alle due figure opposte, ma compenetrate, di
Marco e del Kan, bisogna presupporre una terza figura che è l‟unione dei due, una figura che si manifesta
nella forma «esterna» del racconto, nella sua organizzazione, nelle cornici, schemi, numerazioni, titoli, e
che viene a coincidere con l‟Autore, in definitiva con Calvino”.
56
Ibidem. “Il risultato è un taccuino tutto pieno di frammenti diurni e notturni, di sogni e immaginazioni a
occhi aperti, di cui il giovane Marco Polo, incarnazione del «puer aeternus», diventa il mobile e inventivo
narratore, mentre il Gran Kan, «senex saturnino», è il sedentario e perplesso, ma curioso, ascoltatore”.
57
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 34.
58
Ibid., p. 33.
59
Cfr. W. Benjamin, Considerazioni sull’opera di Nicolo Leskov, in Angelus Novus. Saggi e frammenti
Einaudi, Torino 1995, p. 273. Calvino qui riporta al centro della narrazione la mano e i suoi gesti:

88
diverso tipo di silenzio, che si potrebbe definire silenzio rituale. “Una nuova specie di
dialogo si stabilì tra loro: le bianche mani del Gran Kan, cariche d‟anelli, rispondevano
con movimenti composti a quelle agili e nodose del mercante”60. Questa è una prima
regola, parte della strategia, fondata sulle necessità della prassi. Il gesto rituale che
riempie il silenzio non è il gesto di chi lancia la carta sul tavolo. Il suo intento non è
mimetico o indicale, va già oltre la scrittura, è rituale. Perciò se ne parlerà nella parte di
questo studio dedicata alla funzione dato che il rito, mediando tra il desiderio umano e
le necessità della natura, viene ad essere parte integrante della strategia primaria, già
applicata, dell‟opera letteraria. Lasciando per ora da parte il problema di questo silenzio
rituale all‟origine della funzione, s‟osservano le altre regole.
Accade che per la prima volta in tutto il testo lo scriba-lettore Kublai Kan tenti di
farsi fabulatore cioè di scrivere il testo, e tuttavia Marco Polo mostra il fallimento di
questo primo tentativo, dovuto più all‟impazienza del Kan, che non al suo ascolto delle
narrazioni dell‟ambasciatore, come lettore: “D‟ora in avanti sarò io a descrivere le città
e tu verificherai se esistono e se sono come io le ho pensate”61. L‟errore di Kublai è
distrarsi e Marco Polo per spiegare il fallimento dell‟imperatore enuncia una regola:
“Dal numero delle città immaginabili occorre escludere quelle i cui elementi si
sommano senza un filo che li connetta, senza una regola interna, una prospettiva, un
discorso. È delle città come dei sogni: tutto l‟immaginabile può essere sognato ma
anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio,
una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure”62. La regola non è
altro dal distinguere le caselle sul terreno di gioco tra caselle bianche e nere: il che non
vuol dire che alcune città siano paradisiache, mentre altre infernali, anzi: questo
significa che ogni tratto della scacchiera – ogni città – per il suo essere proiettato sul
nastro, ha un lato nero e uno bianco, un quadretto opaco, un altro soleggiato. Quindi la
prima regola è la suddivisione tra caselle bianche e caselle nere. Le città invisibili, si
dice, sono accomunate dal fatto di prefigurare il desiderio realizzato, ma sempre tuttavia

“Anima, occhio e mano sono messi, in queste parole, in un solo e medesimo nesso. Influenzandosi
reciprocamente essi determinano una prassi. Oggi questa prassi non ci è più consueta. La parte della mano
nella produzione si è fatta più modesta e il posto che teneva nella narrazione è vuoto. (Poiché la
narrazione, nel suo lato materiale, non è già opera della voce sola. Nell‟autentico narrare interviene bensì
anche la mano, che coi suoi gesti, sperimentati nel lavoro, sostiene in cento modi le parole)”.
60
I. Calvino, Le città invisibili, p. 46.
61
Ibid., p. 49.
62
Ibid., pp. 49-50.

89
minacciate dalla dimensione infernale in cui si vive. Ogni città contiene la
contraddizione, una cosa e il suo opposto, un lato apricale e uno ombroso.
Questo si vede bene in un quadro di Paul Klee63 del 1937, dal titolo Überschach
dove pare che ogni casella sia bianca e insieme nera, eppure quest‟alternanza finisce col
creare l‟effetto di una normale scacchiera, con caselle solo bianche e solo nere. Importa
notare che sotto la pedina rossa più grande, che potrebbe essere il re, prevale il bianco,
la casella vuota. La cornice dipinta da Klee rende bene l‟essere fuori dal gioco della
scrittura. La coppia di opposti aprico-opaco combatte in ogni singola casella-città64 e
tutta la scacchiera è coinvolta in questo gioco fino allo scacco matto, in Bauci, qui già
prefigurato dalla prevalenza dell‟aprico sotto il re.

Paul Klee, Überschach, 1937.

La proiezione della scacchiera sul nastro spiega tutto ciò. Nella cornice successiva
il Gran Kan sogna una città, si approssima cioè al momento in cui anch‟egli si farà

63
Cfr. P. Milano, Commento a due voci sulle città di Calvino, in M. Barenghi, G. Canova, B. Falcetto (a
cura di), La visione dell’invisibile, cit., p. 119: “Come Paul Klee, mi sembra, il Marco Polo di Calvino
vuol dipingere ciò che non si vede: tracciare una geografia delle città dell‟animo”.
64
C‟è una compresenza tra inferno e mondo ideale.

90
lettore-fabulatore, ma non esplora veramente lo spazio, rimane fermo a descrivere la
città dove sono gli altri a partire.
Lo scriba Kublai Kan rivela però una delle regole principali per capire l‟intero
testo nel capitolo in corsivo seguente, quando dice, rivolto a Marco Polo: “Le tue città
non esistono. Forse non sono mai esistite. Per certo non esisteranno più. Perché ti
trastulli con favole consolanti?”65. L‟aspetto di fabula, di racconto, intrinseco alle città,
le rende irreali, possibili (non necessarie) o impossibili (non esisteranno). In altri
termini, “non ha importanza che Marco Polo dica il vero o il falso” 66, a Calvino non
importa una rappresentazione mimetica del mondo, non vuole rappresentare “l‟impero
che marcisce come un cadavere nella palude”67 ma, come dice mediante le parole di
Marco Polo, è vero che “l‟impero è malato e […] cerca d‟assuefarsi alle sue piaghe” ed
è proprio per questo che tra il buio tutt‟intorno del mondo il fabulatore aguzza “lo
sguardo sulle fioche luci lontane”, scruta “le tracce di felicità che ancora si
intravvedono [corsivo mio]”68. E nelle righe successive l‟intento liberatorio della
fabulazione è svelato nella sua bellezza allo scriba che si ostina a postulare il disegno
perfetto dell‟impero. Lo scriba, s‟è già visto, con la sua regolazione astratta di territori
dà luogo soltanto ad una città buia e opaca, “la città una e ultima che innalza le sue
mura senza macchia”, mentre il fabulatore fa questo: “Io raccolgo le ceneri delle altre
città possibili che scompaiono per farle posto e non potranno più essere ricostruite né
ricordate”69. La fabulazione dà luogo alla possibilità di altre città, tiene in vita lo spazio
della città del possibile e della lettura. Già prima si rivelò un aspetto fondamentale della
fabulazione, di cui si dice solo ora per lo stretto legame che ha con quest‟altra cornice:

Ma ciò che rendeva prezioso a Kublai ogni fatto o notizia riferito dal suo inarticolato informatore ero lo
spazio che restava loro intorno, un vuoto non riempito di parole. Le descrizioni di città visitate da Marco
Polo avevano questa dote: che ci si poteva girare in mezzo col pensiero, perdercisi, fermarsi a prendere il
fresco, o scappare via di corsa70.

Le città im-possibili che originano dalla fabulazione dell‟ambasciatore veneziano


non sono sature, non dicono al lettore quello che deve pensare, gli lasciano spazio,

65
I. Calvino, Le città invisibili, p. 65.
66
G. Celati, Il racconto di superficie, cit., p. 186.
67
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 65.
68
Ibidem.
69
Ibidem.
70
Ibid., p. 45.

91
forniscono al lettore la casella vuota71. Dal punto di vista grafico la casella vuota è lo
spazio bianco della pagina72: il fabulatore dice al lettore di continuare, di farsi a sua
volta fabulatore73. Non appena Kublai Kan vede questo, prova a farsi a sua volta
narratore, ma è troppo presto, e soprattutto Kublai non conosce la regola del desiderio e
della paura vista sopra. Ancora una volta si presenta il tentativo dell‟imperatore dei
tartari di farsi fabulatore e ancora una volta, come prima, lo scriba fallisce, le città che
pensa sono diverse da quelle che l‟ambasciatore visita. In questa cornice Calvino
inscena il contrasto tra la scrittura e la fabulazione, tra lo scriba e il fabulatore: il primo
costruisce un modello di città per dedurre da questo ogni possibile città; questo modello
ha la proprietà di contenere tutto quello che risponde alla norma. Attraverso la
previsione di ciò che eccede la norma il Kan pretende, calcolando le combinazioni più
probabili – dato che le città reali si allontanano in modi diversi dalla norma – di scoprire
le città che esistono. Il Kan tende quindi ad aggiungere eccezioni al suo modello
normale, mentre Marco Polo fa l‟opposto: pensa un modello di città che sia tutta
eccezioni, preclusioni, contraddizioni, incongruenze e controsensi (questo è il compito
del fabulatore), di modo che, con la diminuzione degli elementi eccezionali sia più
probabile che la città pensata in questo modo esista sul serio.

Dunque basta che io sottragga eccezioni al mio modello, e in qualsiasi ordine proceda arriverò a trovarmi
davanti una delle città che, pur sempre in via d‟eccezione, esistono. Ma non posso spingere la mia
operazione oltre un certo limite: otterrei delle città troppo verosimili per essere vere74.

Qui è evidentemente collocato nel suo luogo più proprio, cioè quella parte della
strategia che è la scrittura come insieme di regole, il problema dell‟adattamento del
modello strutturale al contesto. Il testo si ripiega su se stesso, Calvino fa in modo che i
suoi stessi personaggi riflettano sul farsi dell‟opera, ma il dibattito non si risolve,

71
Cfr. U. Musarra-Schroder, Il labirinto e la rete, cit., p. 83: “Il testo letterario, come struttura conclusa
da un lato e come apertura e quindi possibilità d‟evasione dall‟altro, costituisce una delle ambiguità
testuali e tematiche di Le città invisibili”.
72
Cfr. M. Belpoliti, Settanta, cit., p. 379: “Il percorso narrativo di Calvino nelle Città invisibili è dunque
discreto e discontinuo; tra una parola e l‟altra, tra una riga e l‟altra, tra un brano in prosa e l‟altro, c‟è lo
spazio bianco, il vuoto. L‟intero libro galleggia su questo vuoto. Le città sono isole di parole dell‟oceano
bianco del foglio”.
73
C. Calligaris, Italo Calvino, cit., p. 103: “Il racconto di Marco attende da chi l‟ascolta l‟attribuzione di
un senso ed anche i tratti di penna che lo compiano. Gli emblemi si stendono su frammenti di pagina,
lasciando attorno allo stampato ampi spazi bianchi che attendono la penna del lettore (il lettore che
barthesianamente aspira alla scrittura); e il gran Kan non sfugge al fascino della pagina bianca”.
74
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 75.

92
almeno a questo punto, né a favore dello scriba né a favore del fabulatore. Questo si
capisce non appena s‟intenda che questo libro, Le città invisibili di Italo Calvino, non
sarebbe quello che è, senza scrittura e senza fabulazione. Implicitamente Calvino sta
dicendo che il suo testo è entrambe le cose: teoria, astrazione, modelli (senza specificare
il modello adottato, fin qui), ma anche racconto, fabulazione75. Nessuna regola è qui
stabilita, ma si imposta il problema centrale della strategia da adottare. Da questo
momento in poi tutte le cornici corsive della città mostrano Kublai Kan impegnato,
come scriba, a stabilire certe regole del gioco e quindi, automaticamente, a impostare
l‟inizio della partita, che senza il contesto di disperazione iniziale, senza lo sguardo
sull‟impero in rovina, non avrebbe senso.
Lo sguardo del Gran Kan sull‟impero cresciuto in villaggi semideserti verso il
fuori, sguardo che vede “un impero ricoperto di città che pesano sulla terra e sugli
uomini, stipato di ricchezze e d‟ingorghi, stracarico d‟ornamenti e d‟incombenze,
complicato di meccanismi e di gerarchie, gonfio, teso, greve”76 ricorda moltissimo il
Calvino della prima lezione americana, sulla Leggerezza. Se è il peso stesso dell‟impero
che lo sta schiacciando, Calvino scriba, sotto le vesti del Kan, rivela una preziosa regola
del gioco, la regola della leggerezza. Lo scrittore sanremese scrive: “La mia operazione
è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle
figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso
alla struttura del racconto e al linguaggio”77.
Questo discorso si ricollega direttamente al problema dei rapporti tra letteratura e
impegno; all‟esordio della sua attività di scrittore la rappresentazione della
contemporaneità era un imperativo categorico: ma i fatti della vita che avrebbe dovuto
rappresentare, che fossero drammatici o meno, toglievano a Calvino la possibilità di
narrare con agilità: “Forse stavo scoprendo solo allora la pesantezza, l‟inerzia, l’opacità
del mondo: qualità che s‟attaccano subito alla scrittura, se non si trova il modo di
sfuggirle [corsivo mio]”78. Lo si è già spiegato prima: è proprio della scrittura, come
riflessione dal bordo del nastro sia sul mondo, sia sul testo, rimanere impelagata nel lato

75
Cfr. I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., p. 1222. Italo Calvino scrive ad Angel Rama: “E forse c‟è
anche qui l‟altro punto fondamentale che tu tratti nel tuo saggio, la narrazione che include il commento su
se stessa”.
76
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 79.
77
I. Calvino, Lezioni americane, in Saggi 1945-1985, tomo I, cit., p. 631.
78
Ibid., p. 632.

93
umbratile della superficie della scacchiera, cioè in altri termini, è proprio della scrittura
soltanto riflettere sulla fabulazione, sul gioco, senza mai giocare. Si scrive dal fondo
dell‟opaco. Nell‟opacità del mondo sta il movente della scrittura che porta quest‟ultima
alla vicinanza col racconto, senza il quale sarebbe soltanto teoria. L‟opaco in cui ferma
rimarrebbe la scrittura se non fosse assistita dalla fabula è il lato umbratile del nastro
che fa subito parte del mondo-inferno-prigione e, ora si scopre, è peso: “In certi
momenti mi sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pietra: una lenta
pietrificazione più o meno avanzata a seconda delle persone e dei luoghi, ma che non
risparmiava nessun aspetto della vita”79. A pietrificare il mondo-impero è la Medusa80, a
cui nessuno sembra poter sfuggire. Invece c‟è un eroe che, sostenendosi “su ciò che vi è
di più leggero, i venti e le nuvole”81 guardando in una visione indiretta la Medusa
specchiata sullo scudo di bronzo, le taglia la testa: Perseo. E proprio dal sangue che
versa la morte del mostro nasce Pegaso, il cavallo alato che, con un colpo di zoccolo sul
Monte Elicona dà vita alla fonte da cui bevono le Muse. Calvino inscena la nascita della
poesia che combatte l‟opacità e il peso del mondo e che, rifiutandone la visione diretta,
non si ritrae con codardia dalla realtà “del mondo di mostri in cui gli è toccato di
vivere”82, ma con gentile e rinfrescante gentilezza verso il mostro fa il miracolo di
trasformare ramoscelli marini in coralli. Si ricordi Androgeo, il poeta di Silvio D‟Arzo.
Kublai Kan capisce che il peso dell‟impero lo sta schiacciando inesorabilmente e finisce
per sognare “città leggere come aquiloni, città traforate come pizzi, città trasparenti
come zanzariere, città nervatura di foglia, città linea della mano, città filigrana da
vedere attraverso il loro opaco e fittizio spessore [corsivo mio]”83. Si è in un momento
fondamentale del libro. Se si potesse lasciare la scrittura per vedere cos‟avviene nella
parte della fabulazione si vedrebbe che due o tre pagine dopo, dalle labbra di Marco
Polo fabulatore esce il racconto desiderato dal Kan, la casella vuota. Ma non si deve
troppo anticipare il discorso: qui basti constatare l‟esigenza del Kan-Calvino di lasciare
79
Ibidem.
80
Cfr. M. Belpoliti, Settanta, cit., p. 224: ”La Medusa di cui parla Calvino nelle Lezioni americane –
siamo nel 1984-85 – è prima di tutto quella della politica, quella degli « anni di ferro », come li ha definiti
lui stesso, anni segnati dall‟appartenenza al Partito Comunista, dal nome di Stalin”.
81
I. Calvino, Lezioni americane, in Saggi 1945-1985, tomo I, cit., p. 632.
82
Ibid., p. 633.
83
I. Calvino, Le città invisibili, cit., pp. 79-80. Cfr. M. Belpoliti, Settanta, cit., p. 227: “La pesantezza del
vivere, l‟opacità del mondo, galleggiano nell‟aria grazie a un magnifico artificio, a una magia che si
compie non solo nell‟orchestrazione del racconto, ma soprattutto nella scrittura: evocatrice, imprendibile,
poetica, che alterna periodi paratattici a lungi elenchi di cose e oggetti. Le città invisibili sono un piccolo
poema in prosa”.

94
la pesantezza del mondo e affidarsi alla poesia84, la quale guarda l‟impero in sfacelo con
occhi diversi, poesia che è fabula, poemetto in prosa: il Kan si avvicina sempre più al
momento in cui anch‟egli sarà fabulatore-lettore, sognando Lalage città che “in mezzo a
una terra piatta e gialla, cosparsa di meteoriti e massi erratici” mostra da lontano le sue
guglie elevarsi abbastanza in alto da permettere alla Luna di posarsi su di esse.
“Riconoscente la Luna ha dato alla città di Lalage”85 il privilegio di crescere in
leggerezza86:

Nei momenti in cui il regno dell‟umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare
come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell‟irrazionale. Voglio dire che
devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi
di conoscenza e di verifica. Le immagini di leggerezza che io cerco non devono lasciarsi dissolvere come
sogni dalla realtà del presente e del futuro… [corsivo mio]87.

Se la regola rivelata dallo scriba Kan è che soprattutto queste città invisibili sono
poesie, cos‟è per Calvino la poesia88? E cosa significa crescere dal di dentro? Se a
questa seconda domanda si potrà rispondere solo parlando della funzione e dell‟effetto
dell‟opera, ora si prova a rispondere perlomeno alla prima, in riferimento a Le città
invisibili. In una lettera del 5 novembre 1971 a Franco Fortini Calvino scrive che il
modello dei modelli è la poesia89, sola in grado di parlare del “nesso mutamento della
società-totalità-individuo”, “mentre il linguaggio politico resta parziale […] onesto se
usato con la coscienza della sua parzialità, mistificante altrimenti”90. Si vede qui bene

84
Cfr. F. Serra, Calvino, cit., p. 324. Serra sostiene qui che Le città invisibili siano il libro in assoluto più
lirico di Calvino, per via dell‟insistenza sul tema dell‟urto tra alto e basso, bellezza e caos. Anche la
forma stessa dell‟opera, tutta fondata sulla discontinuità, è poetica.
85
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 80.
86
Ancora nella lezione sulla Leggerezza Calvino scrive: “Leopardi, nel suo ininterrotto ragionamento
sull‟insostenibile peso del vivere, dà alla felicità irraggiungibile immagini di leggerezza: gli uccelli una
voce femminile che canta da una finestra, la trasparenza dell‟aria, e soprattutto la luna. La luna, appena
s‟affaccia nei versi dei poeti, ha avuto sempre il potere di comunicare una sensazione di levità, di
sospensione, di silenzioso e calmo incantesimo. […] Il miracolo di Leopardi è stato di togliere al
linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare alla luce lunare”. Cfr. I. Calvino, Lezioni americane, cit.,
pp. 651-652.
87
Ibid., p. 635.
88
Sull‟importanza che Calvino attribuisce alla poesia si legga la lettera che scrive a Gianni Celati da
Parigi il 2 marzo 1969. Cfr. I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., p. 1031: “In questo momento sento quanto
è stato importante l‟aver avuto come primo orizzonte letterario fondamentale quello della poesia: […] è
solo nella poesia che non ci sono trucchi, o almeno che i trucchi (tematici, topici) sono più difficili”.
89
Cfr. S. Perrella, Calvino, cit., p. 118. Calvino trova “un‟ancora di salvezza nella poesia. Ma non nella
poesia soltanto come fenomeno tecnico; piuttosto nella poesia come idea della poesia, come forza
sintetica e concentrazione, come ritmo del pensiero, come rimando di temi che s‟intrecciano tra loro, ma
come avviene alle rime delle poesie”.
90
Cfr. I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., p. 1125.

95
esserci una conferma di quanto detto sopra: Le città invisibili rientrano perfettamente
nel progetto degli intellettuali riuniti per teorizzare una poetica del discorso umano, di
riformulare il linguaggio politico mostrandone la sua poeticità91. Lo stesso Calvino
confessa che le città sono poesie92, in senso politico, dicendo che il suo è “un libro che
va proprio letto pezzo per pezzo, come poesie”93 oppure scrivendo che “il libro è nato un
pezzetto per volta, a intervalli anche lunghi, come poesie che mettevo sulla carta,
seguendo le più varie ispirazioni”94. La natura di poemetti in prosa o apologhi o
onirigrammi delle Città invisibili fa in modo ch‟esse riscoprano, mettendola in atto, la
poeticità del linguaggio politico, la sua vocazione mitopoietica a la sua importanza
come energetica del desiderio, lotta contro la dimensione infernale del mondo. Si riporta
in primo piano l‟importanza della letteratura nei suoi rapporti con la politica se riesce a
dar voce “a ciò che è senza voce, quando dà un nome a ciò che non ha ancora un nome,
soprattutto a ciò che il linguaggio politico esclude o cerca d‟escludere”, se cioè, assume
una funzione esistenziale, come ricerca della leggerezza95 e reazione al peso della vita,
del mondo96. È battaglia contro la banalizzazione di ogni discorso politico in slogan,

91
Ibid., p. 887. Calvino spiega a Guido Morselli in una lettera del 5 ottobre 1965: “Credo cioè che si può
fare opera di letteratura creativa con tutto, politica compresa, ma bisogna trovare forme di discorso più
duttili, più vere, meno organicamente false di quello che è il romanzo oggi. Trattando i problemi che
stanno a cuore si possono scrivere saggi che siano opere letterarie di gran valore, valore poetico dico, con
non solo idee e notizie, ma figure e paesi e sentimenti. Delle cose serie bisogna imparare a scrivere così e
in nessun altro modo”. Si legga anche la lettera di Italo Calvino a Gianni Celati del 16 gennaio 1969. Cfr.
I. Calvino, Lettera da Parigi del 16 gennaio 1969, in M. Barenghi e M. Belpoliti (a cura di), “Alì Babà”.
Progetto di una rivista, 1968-1972, cit., p. 73: “Letteratura come lirica è pur stato un modello serio di
letteratura, in certi momenti del nostro secolo, una seria difesa di ciò che era serio da ciò che non lo era”.
92
I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., p. 1089. Calvino il 12.9.70 scrive a Pietro Citati: “…quel che mi
sono messo a scrivere quest‟estate, spingendomi come non mai verso il preziosismo l‟alessandrinismo il
poemetto in prosa: un rifacimento del Milione di Marco Polo tutto di brevi descrizioni di città
immaginarie”. Cfr. M. Belpoliti, Settanta, cit., p. 373: “L‟alessandrinismo delle Città invisibili nasce dalla
sconfitta politica dell‟utopia studentesca e operaia che Calvino segue co grande attenzione, prima a Parigi
e poi in Italia”.
93
I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., pp. 1194-1195.
94
I. Calvino, Italo Calvino on Invisible Cities, in “Columbia. A magazine of Poetry and Prose”, 8, 1983,
pp. 37-42.
95
Cfr. M. Belpoliti, Settanta, cit., p. 376: “La leggerezza è il problema con cui Calvino si confronta:
leggerezza dello scrivere, leggerezza della struttura narrativa, leggerezza come tema e motivo portante.
La leggerezza è prima di tutto un tema politico. Essere leggeri e sottili è per Calvino […] il necessario
contrappeso a un‟epoca segnata dalla pesantezza della politica […] dal comunismo staliniano, dalla lotta
politica tra i due blocchi contrapposti, prima, e del fallimento del comunismo, poi. Con gli anni Sessanta
si apre la possibilità di uscire da questa cappa plumbea, dal mondo coeso e compatto che ha segnato la
sua giovinezza. Calvino ha l‟impressione che la sua strategia migliore consista proprio nel rendersi
leggero, scattante e tagliente, intellettualmente preciso e mobile per sfuggire non solo al destino storico,
ma anche alla peciosità e all‟opacità stessa del reale”.
96
I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., p. 1322: “Aprico esiste solo in poesia”.

96
tesa alla riscoperta dei fondamenti mitici della strategia del desiderio umano97. Tutto
questo rende chiara quindi la regola per cui le città invisibili sono soprattutto poesie,
fabule poetiche98.
La presenza della strategia efficiente è così palese nelle cornici centrali di questo
tratto del bordo della scacchiera che sembra difficile parlare solo delle regole senza
vederle già subito applicate efficacemente. Per esempio, la cornice successiva presenta
Marco Polo che “descrive un ponte, pietra per pietra”99. Si azzarda qui una
interpretazione di questo passo: il Kan chiede all‟ambasciatore quale sia la pietra che
sostiene il ponte, cioè qual è la città che permette al lettore di elevarsi ad un altro livello
di percezione. Qui si dice pietra, ma già la pietra non è più tale se porta verso l‟alto. Si
pensi al quadro di Magritte in copertina100: una pietra leggera, che vola. Marco Polo
risponde che non è una o l‟altra città che conta, ma il disegno complessivo, l‟arco che le
città formano. Quest‟arco è il nastro. Ed è arco in due sensi: arco del ponte che rialza
dalla pesantezza del mondo e arco che scaglia fuori da sé, arco che lanciando la freccia
al lettore si buca, si dà la casella vuota. “Preferisco calcolare lungamente la mia
traiettoria di fuga, aspettando di potermi lanciare come una freccia e scomparire
all‟orizzonte”101. Il ruolo di fabulatore è letteralmente scagliato sul lettore. Ogni fabula
è importante e porta il lettore a cooperare, ogni fabula ha in sé lo spazio bianco.
L‟insieme dei racconti costituisce la superficie della fabulazione su cui il lettore si
muoverà. Ogni città serve alla costruzione di questa leggera superficie di pietre che
sospese nell‟aria non sono già più tali. Ed è solo grazie all‟insieme di tutte le
cinquantacinque città che è possibile il capovolgimento, il nastro torna all‟inizio e

97
Cfr. I. Calvino, Usi politici giusti e sbagliati della letteratura, in Saggi 1945-1985, tomo I, p. 359: “La
letteratura è come un orecchio che può ascoltare al di là di quel linguaggio che la politica intende; è come
un occhio che può vedere al di là della scala cromatica che la politica percepisce”.
98
A questo proposito è interessante quanto si legge in M. Corti, Il viaggio testuale, Einaudi, Torino 1978,
p. 127. Rispondendo al quesito “in che senso il «fare» poetico può esso stesso essere una realtà nuova? In
altre parole, in che senso produrre linguaggio poetico è produrre realtà?” la Corti spiega: “La struttura
narrativa coniugata secondo i modi della possibilità, appare una struttura aperta costruibile per contiguità
di segmenti tematici possibili; il procedimento suggerito dal modello è cioè lo stesso riscontrabile in
ambito di accostamenti formali nel testo poetico. Il modello prosastico è più indicativo, vorrei dire
didattico ed illuminante in rapporto alle conseguenze operative: il tipo di possibilità prospettato […] è
nient‟altro che una nuova forma di struttura coniugata secondo i modi della irrealtà in quanto presuppone
la coesistenza di più «mondi possibili», esclusa dalla logica nei riguardi della realtà. […] Ciò che è
impossibile nel reale, è invece possibile nell‟universo della fantasia e della memoria”.
99
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 89.
100
Sulla sopracoperta della prima edizione de Le città invisibili è posta una riproduzione de Il castello dei
Pirenei di René Magritte.
101
I. Calvino, Lezioni americane, cit., pp. 669-670.

97
fabulatore ora è pure il lettore. La regola qui enunciata è che tutta la scacchiera
dev‟essere percorsa prima di arrivare allo scacco matto, alla casella vuota da riempire di
narrazione. In nessuna singola città o cornice c‟è la chiave di tutto il libro, ma nel
disegno complessivo che scriba e fabulatore insieme tratteggiano come nastro
incasellato di fabule.
La visita di Quinsai da parte dell‟imperatore e del forestiero, nella cornice
seguente, rende bene l‟idea dell‟inizio della narrazione attuata da Kublai Kan, che infatti
sorprende Marco Polo con la sua descrizione102, ed è, per una volta, lui a portare
l‟ambasciatore in viaggio nella fabula. Tuttavia questo movimento si rompe subito,
Kublai Kan torna al silenzio, torna a farsi scriba-lettore e, anzi, a interrogare
l‟ambasciatore su Venezia. L‟unica città di cui Marco Polo non parla mai, che
l‟ambasciatore veneziano confessa essere parte di ogni descrizione, la città sempre
implicita che serve per distinguere la qualità di ogni altra città, che cos‟è nel disegno
complessivo dell‟opera? Perché Marco Polo si ostina a non descriverla così com‟è, tutta
quanta? Facendosi lettore attivo Kublai Kan implora il narratore di rivelargli
l‟archetipo103, la funzione della catena di varianti, che è immediatamente strategia
primaria, primaria funzione letteraria. La rivelazione dell‟archetipo è il ritrovamento del
linguaggio simbolico, ossia il trauma cui ogni opera tende. La lotta dell‟imperatore per
la rivelazione della funzione sottesa è il tentativo di venire alla conoscenza della
strategia efficiente, del modello mitico originario. La verità è che questo modello è
frantumato in ogni città, ve n‟è traccia in ogni casella. In verità Marco Polo, da gran
fabulatore qual è, risponderà all‟imperatore, ma solo più avanti, disegnando un
movimento fondamentale per il lettore, tracciando il gesto centrale che il lettore deve
fare dal nastro, attraverso la casella vuota fino alla fabulazione e al farsi a sua volta
narratore. Questo avviene quando di Marco Polo si legge che “era al di là di quello
schermo d‟umori volatili che il suo sguardo voleva giungere: la forma delle cose si
distingue meglio in lontananza”104. Qui è rivelato un tratto della strategia efficiente che
consiste nell‟uscire dal testo, vederlo come nastro di Möbius e già non più soltanto

102
Tant‟è che Marco Polo dice: “Mai avrei immaginato che potesse esistere una città simile a questa”.
Cfr. I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 93.
103
Che Venezia sia una sorta di città archetipale lo dice lo stesso Calvino in una lettera a Giovanni
Falaschi del 17.11.74. Cfr., I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., p. 1258: “Insisti sulla presenza della città
della memoria, archetipale, la Venezia dell‟infanzia, come unico dato positivo; e questo certo nel libro
c‟è”.
104
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 105.

98
nastro di Möbius, ma qualcos‟altro. Qui l‟ambasciatore suggerisce il passo che ogni
lettore deve compiere sul testo: guardare il nastro a distanza. Si approfondirà la
questione nel sotto-paragrafo dedicato allo scacco matto. Calvino dice di guardare da
lontano la struttura complessiva del libro Le città invisibili per afferrare la sua funzione.
Che forma ha il nastro di Möbius visto a distanza? Si vedrà successivamente. Uscire dal
testo, abbandonare le due dimensioni della pagina, e guardare il nastro dalle tre
dimensioni. Lo si vede come nastro e non solo. Infine questo gesto di presa di distanza,
questo prendere il volo somiglia tanto al volo di Perseo coi sandali alati che ora dall‟alto
vede il mondo su cui gravano “le esalazioni che ristagnano sui tetti delle metropoli, il
fumo opaco che non si disperde, la cappa di miasmi che pesa sulle vie bituminose […] il
bruciaticcio delle vite bruciate che forma una crosta sulle città”105.
C‟è un grosso cambiamento a livello grafico nel corsivo successivo: quello che
fino a quel momento era stato un insieme di metanarrazione – attuato da un narratore
superiore che si potrebbe far risalire a Calvino – e dialogo diretto, con prevalenza della
prima106, ora diventa dialogo diretto tra Marco Polo e Kublai Kan e così sarà anche nella
cornice successiva e solo ed esclusivamente in queste due parti del testo. I due iniziano
a parlarsi. Il silenzio è vinto definitivamente, rotto anche il silenzio rituale: la scrittura
sta per arrivare al momento di convocazione ultima a sé della fabula. Qui si vede la
grossa differenza tra due personaggi come Kublai Kan e Marco Polo da una parte e
Edmond Dantès e l‟Abate Faria dall‟altra: la narrazione prende spazio dalla scrittura
perché a un certo punto la prima s‟interrompe, definite le regole si ferma, lascia che il
gioco cominci. L‟importanza di questa cornice sta nel tentativo, non a caso nato in
questo momento di dialogo, di definire il luogo in cui i due si trovano. È molto
somigliante al racconto il Conte di Montecristo, dove la ricerca della mappa della
prigione era finalizzata alla fuga, ma se l‟abate errava – poiché voleva la prigione
perfetta manganelliana – mentre Dantès intuiva il nastro e la strategia, ma non poteva
affinare la fuga – per via del silenzio – qui invece il momento in cui s‟avvia il dialogo
vero è proprio è immediatamente precedente all‟istante in cui verrà trovato e definito il
modello del gioco degli scacchi. Si nota bene che evasione dall‟inferno delle città

105
Ibid., p. 106.
106
Cfr. F. Ravazzoli, Alla ricerca del lettore perduto in Le città invisibili, cit., p. 105: “ I corsivi ospitano
due strutture essenziali sul piano del discours narrativo: la voce dell‟autore (il commento di Calvino e la
viva voce dei due attanti, il dialogato; il discorso indiretto in opposizione a discorso diretto; la terza
persona […] opposta al duello io-tu del dialogo”.

99
invivibili significa anche fuga dal silenzio. La reggia nella quale i due si trovano viene
sottoposta a un vaglio, a un‟interrogazione che si cerca di seguire: Kublai ha la
sensazione che l‟altro, nel narrare, non si sia mai mosso dal suo giardino. È nel narrare
che non ci si muove dal giardino. Quest‟ultimo promana dalla fabula di Marco Polo,
dalle sue parole udite dall‟imperatore. Nella reggia si trova un giardino che appare come
un luogo contraddittorio: non si sa se sia dentro o fuori, se Marco Polo si muova
soltanto in esso o se veramente lo abbandoni con le sue narrazioni. Queste insicurezze e
contraddittorietà contaminano anche Kublai Kan che non sa se si trova nel suo calmo
giardino o non piuttosto a cavalcare alla testa del suo esercito. “Forse questo giardino
esiste solo all‟ombra delle nostre palpebre abbassate”, dice Marco, “Forse questo nostro
dialogo si sta svolgendo tra due straccioni soprannominati Kublai Kan e Marco Polo,
che stanno rovistando in uno scarico di spazzatura, ammucchiando rottami arrugginiti,
brandelli di stoffa, cartaccia, e ubriachi per pochi sorsi di cattivo vino vedono intorno a
loro splendere tutti i tesori dell‟Oriente” ribatte Kublai.

Forse del mondo è rimasto un terreno vago ricoperto da immondezzai, e il giardino pensile della reggia
del Gran Kan. Sono le nostre palpebre che li separano, ma non si sa quale è dentro e quale è fuori107.

Potrebbe essere persino vera l‟ipotesi dell‟imperatore, e ricordare l‟effetto che la


narrazione di Marco Polo aveva sul Rustichello manganelliano. Non c‟è contraddizione
tra l‟essere nella reggia o in un giardino e l‟essere degli straccioni. La verità è che qui si
mostra l‟effetto della narrazione sul lettore. A svelare il segreto è Marco Polo, il
fabulatore, che indica il mondo-impero incancrenito come qualcosa di esterno. La sua
fabulazione, esplorazione della superficie del nastro, si rivela essere qualcosa che ha
effetti sul luogo stesso nel quale i due si trovano. Il giardino stesso è già parte della
fabula. La reggia non è più tale quando Marco racconta, come la prigione non era più
tale per Rustichello all‟udire i racconti dell‟altro prigioniero. Per questo potrebbe non
essersi mai mosso realmente dal luogo, giardino o reggia che sia, poiché il movimento
cui dà luogo la fabulazione avviene al di dentro, mentre è fuori che il terreno è in rovina
e ricoperto di deserto. La fuga nella fabula è per questo una fuga al di dentro. Se apri gli
occhi l‟impero è rovinosamente destinato allo sfacelo e la reggia rischia di far parte di
questo fallimento, ma a occhi chiusi, seguendo con l‟orecchio il ritmo della narrazione,

107
I. Calvino, Le città invisibili, cit., pp. 109-110.

100
la reggia diventa giardino, dotato di per sé di perfezione. Dalla prigione, alla reggia, fino
al giardino. Il giardino “è uno spazio della mente dove regna la stessa calma di qui, la
stessa penombra, lo stesso silenzio percorso da fruscii di foglie. Nel momento in cui mi
concentro a riflettere, mi ritrovo sempre in questo giardino, a quest‟ora della sera, al tuo
augusto sospetto”108. D‟altro canto il giardino, pur essendo luogo della fabulazione, è
sempre minacciato dall‟opacità della scrittura, che è solo riflessione. Il limite del
giardino è d‟essere sul bordo, di far parte dei corsivi. Il giardino è luogo di confine tra la
scrittura e la fabulazione: in esso giace la porta per passare dall‟una all‟altra, ai
personaggi piacendo. Il giardino è quindi fuori luogo, è per metà di Kublai e per metà di
Marco.

POLO: - …Forse questo giardino affaccia le sue terrazze solo sul lago della nostra mente…
KUBLAI: - … e per lontano che ci portino le nostre travagliate imprese di condottieri e di mercanti,
entrambi custodiamo dentro di noi quest‟ombra silenziosa, questa conversazione pausata, questa sera
sempre uguale109.

La persistenza dei due nella scrittura si scioglie nel fallimento. Lo scriba Kublai sa bene
che senza dar via al gioco non potrebbe sfuggire all‟opacità del mondo, ombra da cui la
scrittura stessa muove per fare in modo che il modello si adatti al contesto, cioè per
trovare il modello adatto da proiettare sulla superficie del nastro. La teoria del gioco
rivela la sua inutilità senza il gioco, l‟esito paradossale a cui porta la continua
teorizzazione è che si arriva al punto in cui i due personaggi si autoelidono come tali110:

KUBLAI: - Abbiamo dimostrato che se noi ci fossimo, non ci saremmo"


POLO: - Eccoci qui, difatti111.

108
Ibid., p. 109.
109
Ibid., p. 123.
110
Cfr. G. Barberi Squarotti, Il teorema e il labirinto della scrittura, cit., p. 47: “Progressivamente i due
interlocutori arrivano a chiarirsi che non esiste altro che l‟invenzione della letteratura da parte di Marco e
l‟ascolto di tale invenzione da parte dell‟imperatore. La realtà non esiste o, se esiste, non è definibile,
circoscrivibile, descrivibile: è un altrove, che è sempre irraggiungibile. […] Né i due conversatori
possono essere certi di essere davvero il mercante veneziano e l‟imperatore del Catai: tutto potrebbe
essere un sogno della letteratura, che è capace di combinare gli elementi costitutivi dell‟idea di città nei
modi più diversi. […] La certezza della storia e del mondo è perduta: ciò che si può fare ancora, a questo
punto, è affidarsi all‟invenzione della letteratura, si tratti dei personaggi che si chiamano Kublai Kan e
Marco Polo e che potrebbero essersi inventati come tali, oppure dello splendido giardino del palazzo
imperiale, che potrebbe non essere altro che il frutto di una creazione della letteratura”.
111
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 123.

101
Calvino si diverte a mostrare la sostanza finzionale dei personaggi al punto che lo stesso
Marco ammette la propria inesistenza, si sente materia finzionale. L‟importanza di
quest‟ultimo passo prima dell‟inizio della definizione del modello e del conseguente
inizio della partita, sta nel mostrare il limite della scrittura come tale. La “riduzione del
racconto alle regole che lo determinano”112 costringe al silenzio, il meta-gioco non è il
gioco. In esso si resta fuori dal contesto, le sole regole non portano alla strategia perché
quest‟ultima non è deducibile dalle prime. Non si può credere di poter amministrare il
gioco dal di fuori, senza giocare. Questo continuo ripiegarsi del testo nella riflessione su
se stesso porta addirittura allo smembramento dei personaggi del testo provocato dalle
loro stesse riflessioni. Qui sta l‟opacità della scrittura, il limite di una rigida regolazione
degli spazi già constatato nel Castello dei destini incrociati. La sola scrittura non basta.
Essa è solo matrice di mosse, imposta soltanto la scacchiera vuota, non va oltre “le unità
discrete senza alcun significato proprio ma che possono ordinare tutte le città del
possibile”, resta astrazione. È errato credere che “calcolando le combinazioni delle
mosse lecite a partire dalle regole (norme, codici) d‟un gioco”, se ne deduca (si possa
prevedere) “la strategia ottimale (eccezioni, trasgressione)”113. In questo modo, mostra
Celati, mantenendo “la correlazione tra gioco e prodotto letterario, tutte le teorie del
testualismo contemporaneo saltano in area, perché basate su una identificazione tra
regole e partita”114.
È lo stesso Kublai Kan a portare al culmine questo fallimento. Il corsivo
successivo mostra “Marco Polo, informatore muto” che dispone oggetti sul pavimento
di maiolica nei pressi del trono del Gran Kan, “sulle piastrelle bianche e nere e via via
spostandoli con mosse studiate, l‟ambasciatore”115 prova a raccontare al monarca le
vicissitudini del suo viaggio. Mentre il veneziano inizia a giocare, abbandona già in
qualche modo la scrittura muovendosi nello spazio della fabulazione, dall‟altra parte c‟è
Kublai “attento giocatore di scacchi” che seguendo le mosse di Marco si rende conto
che certi pezzi implicano o escludono la vicinanza di altri e soprattutto si spostano
seguendo certe linee. Ecco le regole del gioco più importanti: come si muovono le
pedine sulla scacchiera, come in questo modo le pedine si possono “mangiare” le une le

112
G. Celati, Il racconto di superficie, cit., p. 191.
113
Ibid., p. 192.
114
Ibidem.
115
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 127.

102
altre. All‟imperatore importa il modo di disporsi degli oggetti rispettivamente, e arriva a
questa conclusione che è l‟unica conclusione che ci si potrebbe aspettare dallo scriba
come tale, come amministratore di territori:

«Se ogni città è come una partita a scacchi, il giorno in cui arriverò a conoscerne le regole possiederò
finalmente il mio impero, anche se mai riuscirò a conoscere tutte le città che contiene»116.

La regolamentazione del terreno di gioco tocca il suo apice, il punto più alto di
astrazione, quando l‟imperatore crede di poter fare a meno degli oggetti che Marco
porta dalle sue ambascerie, per limitarsi soltanto ai pezzi della scacchiera, ai cavalli, alle
regine a cui sarebbe possibile attribuire sempre un significato differente. Mentre Marco
Polo propone di giocare, o meglio, già fin da subito gioca, lo scriba-Kan bada troppo
alle regole, in essere rimane bloccato come in una palude di teoria. È solo Marco a
muovere i pezzi sulla scacchiera e in questo modo a descrivere attraverso gli scacchi le
città invisibili:

Disponendo sulla scacchiera torri incombenti e cavalli ombrosi, addensando sciami di pedine, tracciando
viali dritti o obliqui come l‟incedere della regina, Marco ricreava le prospettive e gli spazi di città bianche
e nere nelle notti di luna117.

Qui a giocare è soltanto Marco Polo-fabulatore, mentre l‟altro continua a riflettere, a


cercare altre regole per il gioco. Il limite di Kublai si vede bene in questo passo: “Al
contemplarne questi paesaggi essenziali, Kublai rifletteva sull‟ordine invisibile che
regge le città”118, momento in cui l‟imperatore esita ad abbandonarsi alla fabulazione ed
è scriba più che mai. Tutto bloccato e immobile nella scrittura, di fronte al paesaggio
che Marco lo invita a esplorare, dirimpetto alla superficie del nastro, il Kan si ostina
nell‟astrazione. E finalmente il modello del gioco degli scacchi si adatta al contesto, si
proietta sul nastro che in Dall’opaco lo scriba aveva amministrato come territorio, e
però non è possibile ancora sapere se questa strategia sia o meno la strategia efficiente:
“Nessun modello reggeva il confronto con quello del gioco degli scacchi”119. L‟unico

116
Ibidem.
117
Ibidem.
118
Ibid., p. 128.
119
Ibidem.

103
modo per trovare la strategia migliore è iniziare a giocare 120, Kublai Kan deve accettare
questo patto con Marco Polo, ed è da questo punto in poi che lo scriba-lettore potrebbe
farsi a sua volta fabulatore, laddove seguisse il primo vero giocatore, cioè il fabulatore
originario, nella strategia che gli propone:

Forse […] bastava giocare una partita secondo le regole, e contemplare ogni successivo stato della
scacchiera come una delle innumerevoli forme che il sistema delle forme mette insieme e distrugge121.

I due personaggi iniziano a giocare a scacchi, iniziano cioè a muoversi nel nastro,
abbandonando il bordo. L‟imperatore, nel tentativo d‟immedesimarsi nel gioco, non
capisce quale sia il fine di ogni partita, il perché del gioco. Le regole da lui stabilite
nella cornice con l‟aiuto di Marco Polo non dicono ancora quale sia la posta in gioco.
La partita a scacchi rischia sempre di essere un gioco fine a se stesso, la casella vuota
che resta sotto il piede del re che il vincitore scaglia via dalla scacchiera può apparire
soltanto come un mero nulla, un tassello di legno piallato; quella che dovrebbe essere la
conquista definitiva finisce per essere fallimento ultimo e inutilità del gioco, illusorietà
di tutto il testo. Kublai Kan non vuole capire che quel tassello vuoto lo riguarda più di
tutti, non si rende conto che nel gioco degli scacchi la finalità della strategia, la
funzione, è l‟alterazione di un equilibrio iniziale tra lui e il suo avversario. Se la
scrittura, nei corsivi, si ferma a questo punto, nel rettangolo centrale del testo, è
importante vedere dove porti la partita giocata dai due, cosa significhi veramente
giocare, sulla superficie a una faccia della scacchiera proiettata sul nastro di Möbius. In
che modo il modello strutturale del gioco degli scacchi si adatta al contesto, cioè come
la strategia raggiunge la sua finalità che è la funzione, la fornitura di un linguaggio
supplementare? Dov‟è la casella vuota? Si osserva perciò la partita per vedere qual è la
strategia efficiente e di conseguenza la funzione di questa strategia, l‟effetto dell‟opera.

120
Cfr. F. Pierangeli, Italo Calvino. La metamorfosi e l’idea del nulla, cit., p. 76: “La lunga partita a
scacchi intrapresa da Kublai e Marco è l‟immagine più compiuta del tentativo di dar forma razionale al
mondo infero”.
121
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 128.

104
§ 2.2 Fabulazione

2.2.1 Il gioco di superficie

Il gioco proprio della scrittura


è la distanza delle tracce,
morte appena solcano il piano,
pellicola in cui il sogno si distende
perdendo la propria profondità di sogno,
divenendo assenza o perdita del sogno 122.

Per trovare la fabulazione, la scrittura deve uscire da se stessa. Non basta svelare
le norme per giocare. Non è possibile ridurre la fabulazione alla parola scritta, alla
scrittura, o a una grammatica del testo: le fabule che si originano dalla bocca di Marco
Polo sono racconti soprattutto uditi: “Chi comanda al racconto non è la voce: è
l‟orecchio”123. Le città fanno parte del regno della fabulazione124. Lo scriba Kublai,
proprio quando si sente più perduto, nel momento in cui si rende conto del fallimento
della scrittura come tale e non vede nella casella vuota nient‟altro che un tassello bianco
o nero, assiste e viene coinvolto nel capovolgimento di tutto il discorso dal suo
interlocutore, dal fabulatore Marco Polo. La sacralità del momento è evidente: “Allora
Marco Polo parlò: La tua scacchiera, sire, è un intarsio di due legni: ebano e acero”125.
Qual è la strategia efficiente perché l‟opera assolva la sua funzione? Una qualche forma
di strategia deve pur essere usata dai giocatori, e dal giocatore per eccellenza, cioè il
fabulatore. Dietro questa strategia effettivamente applicata dal fabulatore Marco Polo,
122
G. Celati, Il racconto di superficie, cit., p. 191.
123
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 143.
124
Cfr. E. Gioanola, Modalità del fantastico nell’opera di Italo Calvino, in G. Bertone (a cura di), Italo
Calvino. La letteratura, la scienza, la città (Atti del convegno nazionale di studi di Sanremo, 28-29
novembre 1986), Marietti, Genova 1988, p. 25: “Nella sostanza però Calvino sta sviluppando tutte le
potenzialità implicite nel genere fantastico, nella più ampia sperimentazione tematica ma anche nella
rigorosa convergenza verso la desemantizzazione delle unità narrative: Le città invisibili in questo senso
propongono nella maniera più limpida e suggestiva il primato della fabula, capace di far essere
l‟inesistente e di rendere visibile l‟invisibile”.
125
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 139.

105
c‟è la strategia adottata da Calvino per costruire le sue città invisibili e per avere effetto
sul lettore. S‟indagano perciò le regole effettivamente messe in circolo dal fabulatore
nel momento in cui si mette a narrare, nel rettangolo centrale. Prima di tutto si deve dire
che si possono distinguere nel testo undici rubriche che suddividono le cinquantacinque
città invisibili. Ogni categoria è composta da cinque città126. I numeri dei capitoli, è bene
notare, si frammentano in serie: non c‟è quindi una particolare strada da seguire, un
itinerario d‟agnizione che porti a qualche svelamento, bensì diversi percorsi, diverse
piste che s‟intersecano su di un piano, sul nastro. Questa superficie è uno spazio vuoto
spartito con molta attenzione dallo scriba prima, e ora il fabulatore ci si muove sopra,
sotto, dentro e fuori127. Quello che fa il narratore raccontando è scivolare in mezzo a
serie discontinue128. Il racconto è un viaggio sulla superficie del nastro. Il nulla gestito
precedentemente dalla scrittura viene ora percorso e su ogni tassello ci si sposta, con
delle pedine, cioè si gioca129: ogni tassello racchiude tracce, “che vanno seguite ad una
ad una, fino a ricavarne una storia con l‟osservarle minuziosamente”130. In
quest‟operazione il fabulatore non è da solo, ha con sé lo scriba-lettore, a cui indica,
vagabondando da una serie all‟altra, un senso, nella spaziatura delle tracce. S‟interroga
lo spazio de Le città invisibili di Italo Calvino, così come il fabulatore lo mostra al
lettore. Nella prima parte di questa indagine si seguono le riflessioni condotte da Gianni
Celati sulla strategia sottesa alle regole. Dopodiché si proporrà un‟ipotesi di lettura dello
spazio letterario, del testo.
Gianni Celati inizia da Diomira. Il senso è un effetto di superficie131: per
comprendere il testo, spiega Celati, è inutile applicare un‟interpretazione semantica,
poiché questo libro non ha profondità, nessun senso originario; non sono metafore,
quelle calviniane. Importa soltanto il valore letterale delle parole, si tratta di esplorare
tutta la superficie scritta, in larghezza, per afferrarne il senso. Che la scacchiera su cui

126
Cfr. F. Serra, Calvino, cit., p. 326: “A ogni città corrisponde un racconto, e ogni racconto s‟inserisce
dentro una rubrica che funge da titolo, seguito da un numero da uno a cinque”.
127
Cfr. M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, cit., p. 76: “È lungo lo spazio bidimensionale della superficie,
spazio discontinuo, tutto istoriato dalle parole e dai segni delle città, che si svolge il viaggio testuale di
Marco Polo”.
128
Cfr. P. Milano, Commento a due voci sulle città di Calvino, in M. Barenghi, G. Canova, B. Falcetto (a
cura di), La visione dell’invisibile, cit., p. 120: “Ogni città, oltre a essere se stessa, è membro di una serie,
quindi, oltre che considerata, va paragonata”.
129
Cfr. F. Pierangeli, Italo Calvino. La metamorfosi e l’idea del nulla, cit., p. 79: “Calvino, dunque,
sostituisce alla parola «nulla» il piacere di descrivere la varietà caotica del mondo”.
130
G. Celati, Il racconto di superficie, cit., p. 188.
131
Cfr. M. Lavagetto, Dovuto a Calvino, cit., p. 118: “Le superfici parlano, raccontano storie”.

106
Kublai Kan e Marco Polo giocano sia proiettata su un nastro di Möbius significa questo:
non è una metafora, ma è un procedimento che effettivamente lo scriba propone in
Dall’opaco e che, se connesso come s‟è fatto qui al testo di un anno successivo,
permette di spiegare le contraddizioni del testo: “Le due serie sono in realtà due aspetti
di un‟unica serie i quali trapassano l‟uno nell‟altro, come nell‟anello di Möbius”132. La
superficie dello spazio delle città è dislocata, in senso foucaultiano133: cioè “definita
dalle relazioni di prossimità tra punti o elementi; formalmente, si può descriverli come
delle serie, degli alberi, dei tralicci”134. Ogni città è in una serie, ha un nome di donna,
ma è come un albero – e il giardino è l‟insieme di tutto questo –; queste città sono
spalmate, per così dire, tutte sul nastro, una a fianco all‟altra135. L‟universo incorporeo
di profondità del libro è ridotto “alla superficie del suo spazio materiale di artefatto
cartaceo”136. Le città sono ridotte a poche serie di riquadri, “il racconto complessivo sta
[…] nella spaziatura d‟un piano”137. Se la scrittura, amministrando il terreno di gioco, lo
delimitava, lo intarsiava di caselle, ora la fabulazione gioca in quello spazio
precedentemente suddiviso in caselle, ci si muove sopra, in superficie. La scrittura ha
prima “scelto” il terreno di gioco da amministrare, poi su questo territorio ha proiettato
la scacchiera delle città, lo schema, il modello strutturale, affinché si potesse adattare al
contesto. Ma l‟unica possibilità di trovare la strategia efficiente, che cioè assolva alla
funzione dell‟opera come terreno di lotta, è giocare, spostarsi sul terreno di gioco alla
ricerca di un senso138.

132
G. Celati, Il racconto di superficie, cit., p. 182. Su questo cfr. B. Ferraro, Il castello d’If e la sua
struttura in “Le città invisibili” di Italo Calvino, cit., p. 109: “L‟atlante di Kublai Kan on le sue regioni
utopiche ci permette di parlare dell‟influsso che la topologia può aver esercitato sulla composizione e
distribuzione delle città: è importante tener presenti (per tornare al punto di partenza e quindi alla fortezza
dell‟If) le proprietà che in topologia governano i cambiamenti, le trasformazioni e le varianti, tanto da
lasciarci incapaci di distinguere, come nel caso della superficie di Möbius, il «fuori» dal «dentro»”.
133
Cfr. M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, cit., p. 48: “La carta geografica è l‟«indicazione» di una
descrizione; cartografare significa infatti dislocare su una superficie, mettere in atto una topologia.
L‟opera di Calvino è segnata da questa necessità topologica e cartografica, poiché scrivere per Calvino è
dislocare”.
134
M. Foucault, Spazi altri, in Eterotopia, Mimesis, Milano-Udine 2010, p. 9.
135
Cfr. M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, cit., p. 74: “Nel libro ogni descrizione di città è descrizione di
un luogo. Libro topologico per eccellenza, dei luoghi orientati – ogni città è infatti dislocata secondo un
preciso ordine interno ed esterno – si regge nel vuoto di un disegno sottile”.
136
G. Celati, Il racconto di superficie, cit., p. 176.
137
Ibid., p. 178.
138
Cfr. F. Pierangeli, Italo Calvino. La metamorfosi e l’idea del nulla, cit., p. 80: “L‟uomo […] per
rendere leggero questo infinito peso della realtà (il caos) […] ha inventato il racconto. […] Marco Polo
scopre finalmente il suo gioco: è il giovane capace di narrare”.

107
Quello che la fabulazione mette in giro è il racconto di superficie, come racconto
di ciò che avviene sulla superficie. La fabulazione segue la sua partita e ce la mostra.
Muovendosi di casella in casella si cerca la strategia efficiente per uscire dal testo. Si
diceva di Diomira: essa è, secondo Celati, il luogo nel quale “la regressione delle
superfici è descritta come l‟atto di supporre una regressione delle superfici”139. Cosa
significa? Celati spiega140 che la serie è “un piano percorso da certe catene di attributi
dello stato di cose, in simultaneità. L‟effetto si produce alla frontiera tra le serie […]
percorrendo le due catene simultanee con l‟occhio ad entrambe. Il senso si ha così come
effetto di posizione di attributi delle cose nello spazio del discorso” 141. Il senso insiste e
sussiste nella superficie del discorso.
In Diomira avviene esattamente così: a un viaggiatore, visitandola in una sera di
settembre e udendo un grido di donna, viene da invidiare coloro i quali pensano “d‟aver
già vissuto una sera come questa ed essere stati quella volta felici”142. In questa fabula
pare che il discorso tenda ad una pienezza aforistica – e il senso dell‟aforisma dovrebbe
retrocedere dalla superficie ad uno spazio più essenziale, profondo –: lo si vede
soprattutto a livello sintattico. Tuttavia avviene che proprio “la manifestazione delle
serie metaforiche come effetti di discorso” comporti “la perdita d‟ogni loro latenza”143.
Dato che il viandante arriva al punto di pensare che altri pensino d‟aver già vissuto una
sera simile e li invidia, ecco che la serie dove il viandante ode il grido di donna e la serie
che sarebbe un suo possibile referente vengono manifestate alla superficie del discorso,
emergono alla superficie come profondità e “il sopra ripete il sotto”144, cioè il sotto qui
non c‟è proprio: è tutto sulla pagina. Il procedimento lo spiega benissimo Celati:
“tradurre una metafora di penetrazione nel profondo in una descrizione di meccanismi,
congegni (materiali o verbali) per riportare ciò che è nel profondo alla superficie del
discorso”145. Stesso ragionamento si può fare per Isaura: il profondo – in questo caso gli
dei nei pozzi, come l‟acqua – è una serie metaforica, serie del discorso su cui il
fabulatore gioca, dal momento in cui la trasforma in tanti congegni, cioè in tante ipotesi
non metaforiche. Questi congegni sono oggetti senza latenze. Si presenta

139
G. Celati, Il racconto di superficie, cit., p. 179.
140
Seguendo Deleuze.
141
Ibid., p. 177.
142
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 15.
143
G. Celati, Il racconto di superficie, cit., p. 179.
144
Ibidem.
145
Ibid., p. 180.

108
un‟“opposizione tra metafora e congegno e tra le due relative immagini del prodotto
letterario: a) quello di profondità, basato sulle sue valenze metaforiche come unità
indivisa, metafora globale e continua; b) quello di superficie come frammentazione: un
meccanismo è un insieme di parti che funzionano tutte assieme ma tra cui vi è
discontinuità, disgiunzione e dislocazione”146. Se l‟idea della scrittura come qualcosa
che riporta alla luce una sorta di parola originaria viene associata, come fa Calvino, al
congegno, se ne rivela l‟illusorietà, lo svelamento del profondo con congegni che lo
riportano alla superficie dice che quel profondo, se esiste, è tutto spalmato sul terreno di
gioco, frammentato galleggia sul nastro: la parola del racconto è vista quindi come
ricostruita, cioè utilizzo di materiali di recupero che ne mostrano la non originarietà. La
letteratura riscrive a partire da materiali originari. Questi materiali sono assimilabili alle
pedine di gioco, “unità già date da manipolare”147. Queste unità passano da una serie
all‟altra, e l‟unica “trasformazione ammessa è quella del riordinamento di una serie di
disordine in un nuovo ordine. Questo è il tipo di ricostruzione operato dal congegno-
gioco [corsivo mio]”148. Si legga a tal proposito di Clarice: “Un certo numero d‟oggetti
si sposta in un certo spazio, ora sommerso da una quantità d‟oggetti nuovi, ora
consumandosi senza ricambio: la regola è mescolarli ogni volta e riprovare a metterli
assieme”149.
Cosa s‟intende per congegni-gioco, meccanismi che manipolano le unità già date,
il già detto? Come il fabulatore muove le pedine, le unità già date per raccontare?
Secondo Celati il meccanismo fondamentale con cui si sviluppa la “scrittura” del libro è
quello delle cartoline che indicano che il gioco non consiste in altro che nella spaziatura
di due serie di volta in volta, in un certo ritaglio di superficie del nastro. Ma le due serie,
a dir la verità, sono il dritto e il rovescio del nastro, il tratto di casella buio e il tratto di
casella soleggiato: non c‟è reale distinzione tra interno ed esterno, sono retro e davanti
della stessa faccia di una pagina. “La superficie scritta non è altro che il valore letterale
delle parole”150. Il paradosso del divenire, la contraddizione, risale alla superficie della
pagina proprio grazie alla forma a nastro di Möbius del libro, figura senza spessore. Si
legga di Moriana: “Da una parte all‟altra la città sembra continui in prospettiva

146
Ibidem.
147
Ibid., p. 181.
148
Ibidem.
149
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 114.
150
G. Celati, Il racconto di superficie, cit., p. 183.

109
moltiplicando il suo repertorio d‟immagini: invece non ha spessore, consiste solo in un
dritto e un rovescio, come un foglio di carta, con una figura di qua e una di là, che non
possono né staccarsi né guardare”151. Grazie a quegli oggetti arbitrari che isolando due
serie nello spazio della superficie del nastro ne fanno apparire loro contiguità e
successione, per merito quindi del fabulatore che manipola unità già date, i paradossi
del divenire risalgono alla superficie: Calvino-fabulatore portando a galla i residui
metaforici li mostra nella loro letteralità, cioè come figure senza spessore. Il congegno
per eccellenza che come tale è in grado di far affiancare le due serie nella loro contiguità
è la superficie scritta del libro. Ogni pagina è una cartolina dove s‟incrociano serie
differenti mostrando che le parole sono soltanto “segni puramente sintattici o
equireferenziali”152. Lo spazio della fabulazione, ne Le città invisibili è uno spazio di
perpetue metamorfosi, in virtù del fatto che, ecco il paradosso, realmente nulla si
trasforma, “le parole e le serie sono tutte uguali. […] Questa è l‟assenza di spessore"153.
Indagando gli effetti del meccanismo, e quindi già scrutando in qualche modo parte
della funzione dell‟opera, si vede che l‟avventura di superficie del fabulatore sul nastro
porta ad un effetto su tutti: l‟illimitato divenire viene alla luce come tale, grazie al
linguaggio che gioca con le serie, dividendole, moltiplicandole, passando da presente a
passato e viceversa, dal continuo al discontinuo, su su fino all‟illimitata metamorfosi;
l‟essere si manifesta man mano per simulacri cangianti, ma questo puro divenire dal
punto di vista logico è paradossale. Attraverso le doppie serie è allora spiegabile la
contraddizione, o meglio, è possibile prendere atto delle contraddizioni e distendersi
completamente sull‟infinito divenire. Le città invisibili sono invisibili perché
contraddittorie; non solo non sono identiche a città reali, ma neppure a loro stesse, sono
continuamente cangianti, cartoline affiancate le une alle altre dove si vede la continua
trasformazione degli attributi delle cose senza controllo.
L‟illimitato divenire rivela la sua ricchezza non appena si colga quanto Celati
stesso suggerisce: “L‟illimitato divenire è poi proliferazione narrativa”154. Se la scrittura,
come modello che vorrebbe contenere tutta l‟infinita metamorfosi del possibile per
riassestarla in una visione coerente, resta ferma sul bordo del nastro, tutto cambia invece

151
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 111.
152
G. Celati, Il racconto di superficie, cit., p. 183.
153
Ibidem.
154
Ibid., p. 184.

110
quando si guarda il riquadro vuoto di ogni casella, non appena si vagli la superficie del
nastro, per solcarne le tracce ed osservarle con minuzia. “Il senso […] si coglie […]
nella spaziatura delle tracce”155. I fittissimi dettagli delle città aboliscono la possibilità di
percepire globalmente il senso. Ogni luogo ed ogni oggetto è occasione, ognuno è
simile all‟altro e pure discontinuo. Ma cosa significa esplorare la superficie del nastro
per cogliere il senso nella spaziatura delle tracce? Che movimento compie il fabulatore
tra le caselle, alla ricerca del senso? Rispondendo a questa domanda non soltanto si
capirà il tipo di sguardo con cui il fabulatore si muove sulla scacchiera, ma anche lo
spazio in cui si muove156.
S‟è detto che le pagine delle città invisibili, la superficie scritta, è lo spazio che,
rendendo contigue le serie, porta alla luce l‟illimitato divenire. Si crede qui che, in un
altro testo di Celati, Il bazar archeologico157, sia contenuto il segreto per la
comprensione ultima dell‟itinerario del fabulatore nelle città invisibili, per capire il
gioco e la partita giocata. Si legge, infatti: “Nelle figure di finzione l‟importanza sta
nella peripezia attraverso cui ci portano, la danza a cui ci persuadono, i movimenti a cui
ci conducono”158. Nelle pagine di Calvino quindi il fabulatore si metterebbe in cammino
su “un diverso itinerario, diverso rispetto all‟utopia […]: non più una quête indirizzata
che porta a una verità da visitare, al centro d‟una città utopica […] Ma una quête senza
meta, spazializzazione e flânerie, ininterrotta visita ai luoghi molecolari d‟una città
eterotopica dove galleggiano all‟infinito residui di estraneità, oggetti e tracce di ciò che
si è perduto”159. Quest‟idea di itinerario non teleologico, attraverso una “città di cui si
scoprono sempre nuove linee che si classificano come seriazione”160 si applica

155
Ibid., p. 188.
156
Il “mercante navigatore” è per Benjamin uno dei “due grandi tipi fondamentali” di narratori, insieme
all‟”agricoltore sedentario”. Cfr. W. Benjamin, Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, cit., p. 249.
Di Leskov si legga, ad esempio Il viaggiatore incantato. Cfr. N. Leskov, Il viaggiatore incantato,
Valentino Bompiani Editore, Milano 1942, p. 237: “E il viaggiatore incantato, come se di nuovo sentisse
in sé l‟afflato dello spirito profetico, cadde in uno stato di estasi tranquilla, che nessuno dei presenti si
permise di turbare. E che cosa si sarebbe potuto chiedergli di più? Aveva raccontato il suo passato, con
tutta la sincerità della sua anima semplice, e le sue profezie rimangono per ora nelle mani di Colui che
cela i suoi disegni ai dotti e ai saggi, e li rivela talvolta soltanto agli innocenti”.
157
G. Celati, Il bazar archeologico, cit., pp. 200-222.
158
Ibid., p. 216.
159
Ibidem.
160
Cfr. la lettera che Gianni Celati scrive da Ithaca a Italo Calvino il 23 febbraio 1972, in M. Barenghi e
M. Belpoliti (a cura di), “Alì Babà”. Progetto di una rivista, 1968-1972, cit., p. 157.

111
perfettamente al viaggio di Marco Polo fabulatore ne Le città invisibili161. Il vaglio della
superficie somiglia a un vagabondaggio primaverile162 sulla pianura condominiale, è la
perlustrazione della scacchiera proiettata sul nastro, è il gioco proprio del fabulatore.
Dove porti questo gioco si vedrà più tardi.
Certamente il punto centrale da comprendere per continuare il ragionamento è
quando Celati scrive: “Dal punto di vista della poetica, la città eterotopica viene
incessantemente visitata in questo modo”163. Prima di procedere nell‟esposizione della
spazializzazione grazie a Celati, è bene cercare di capire che tipo di spazio è lo spazio
letterario delle città invisibili. Per far questo ci si serve del concetto di eterotopia di
Foucault.
Il testo di Foucault di cui ci si serve è Spazi altri164. Qui Foucault parla di quegli
spazi, spazi del fuori, che hanno:

La curiosa proprietà di essere in relazione con tutti gli altri luoghi, ma con una modalità che consente loro
di sospendere, neutralizzare e invertire l‟insieme dei rapporti che sono da essi stessi delineati, riflessi e
rispecchiati165.

Sono spazi che hanno un qualche legame con gli altri luoghi e Foucault ne distingue di
due tipi: le utopie, che non hanno luogo reale e sono spazi “fondamentalmente ed
essenzialmente irreali”166. Mentre esistono, secondo il filosofo francese, luoghi reali,
delle specie di contro-luoghi, che sono – questo è importantissimo – utopie
effettivamente realizzate, dal momento che ogni altro luogo reale da essi rappresentato è
nello stesso tempo sovvertito e contestato. Sono luoghi fuori luogo e Foucault li chiama
eterotopie. Importa che non sia possibile attuare una netta distinzione tra questi luoghi
assolutamente altri e le utopie, poiché c‟è tra questi due gruppi una specie di esperienza
mediana: lo specchio. Lo specchio è un‟utopia poiché non ha luogo pur essendo luogo,
ma è pure un‟eterotopia poiché esiste realmente e sviluppa, nel luogo che io occupo di
fronte ad esso – come lettore, per esempio – un effetto di ritorno.

161
Cfr. V. Spinazzola, L’io diviso di Italo Calvino, cit., p. 102: “Le metafore del viaggio, del
vagabondaggio avventuroso si risolvono in una quête senza meta”.
162
Cfr. A. Delfini, Vagabondaggio primaverile, Via del Vento, Pistoia 2007. Si veda anche A. Delfini,
Racconti, Garzanti, Milano 1963.
163
G. Celati, Il bazar archeologico, cit., p. 216.
164
M. Foucault, Spazi altri, in Eterotopia, Mimesis, Milano-Udine 2010.
165
Ibid., p. 12.
166
M. Foucault, Spazi altri, in Spazi altri, Mimesis, Milano 2008, p. 23.

112
Non si crede di dire troppo con questo passaggio, cioè mostrando il carattere
sconvolgente e contestatario nei confronti della città reale come utopia, nel momento
stesso in cui viene rappresentata e sovvertita, nello spazio del testo, da parte delle Città
invisibili: lo spazio letterario de Le città invisibili è uno specchio167 in questo senso,
spazio eterotopico168 e utopico insieme. La sostanza di specchio169 della sua produzione
la rivela lo stesso Calvino nella sua lezione sulla Leggerezza: “Per tagliare la testa di
Medusa senza lasciarsi pietrificare, Perseo si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i
venti e le nuvole; e spinge il suo sguardo su ciò che può rivelarglisi solo in una visione
indiretta, in un’immagine catturata da uno specchio [corsivo mio]”170. Le città invisibili
di Italo Calvino sono immagini catturate dalla superficie specchiante del nastro di
Möbius sulle città reali. Si procede quindi a vedere in che modo questo spazio è
eterotopico e utopico nello stesso tempo, spingendo fuori di sé. Si accantona per ora la
167
Cfr. I. Calvino, Le città invisibili, cit., pp. 59-60: “Gli antichi costruirono Valdrada sulle rive d‟un lago
con case tutte verande una sopra l‟altra e vie alte che affacciano sull‟acqua i parapetti a balaustra. Così il
viaggiatore vede arrivando due città: una diritta sopra il lago e una riflessa capovolta. Non esiste o
avviene cosa nell‟una Valdrada che l‟altra Valdrada non ripeta, perché la città fu costruita in modo che
ogni suo punto fosse riflesso dal suo specchio, e la Valdrada giù nell‟acqua contiene non solo tutte le
scanalature e gli sbalzi delle facciate che s‟elevano sopra il lago ma anche l‟interno delle stanze con i
soffitti e i pavimenti, la prospettiva dei corridoi, gli specchi degli armadi. Gli abitanti di Valdrada sanno
che tutti i loro atti sono insieme quell‟atto e la sua immagine speculare, cui appartiene la speciale dignità
delle immagini, e questa loro coscienza vieta di abbandonarsi per un solo istante al caso e all‟oblio.
Anche quando gli amanti danno volta ai corpi nudi pelle contro pelle cercando come mettersi per
prendere l‟uno dall‟altro più piacere, anche quando gli assassini spingono il coltello nelle vene nere del
collo e più sangue grumoso trabocca più affondano la lama che scivola tra i tendini, non è tanto il loro
accoppiarsi o trucidarsi che importa quanto l‟accoppiarsi e il trucidarsi delle loro immagini limpide e
fredde nello specchio. Lo specchio ora accresce il valore alle cose, ora lo nega. Non tutto quel che sembra
valere sopra lo specchio resiste se specchiato. Le due città gemelle non sono uguali, perché nulla di ciò
che esiste o avviene a Valdrada è simmetrico: a ogni viso e gesto rispondono dallo specchio un viso o
gesto inverso punto per punto. Le due Valdrade vivono l’una per l’altra, guardandosi negli occhi di
continuo, ma non si amano [corsivi miei]”.
168
Cfr. U. Musarra-Schroder, Il labirinto e la rete, cit., p. 90: “Lo spazio descritto in Le città invisibili
può essere considerato come […] uno spazio eterotopico in quanto caratterizzato da contraddizioni
logiche interne e in quanto le sue componenti […] si escludono l‟un l‟altra”. Secondo Brian McHale nel
romanzo postmoderno lo spazio è “eterotopico”: spazi che nel mondo reale non hanno nessun rapporto fra
di loro vengono sovrapposti o posti uno accanto all‟altro. Cfr. Br. McHale, Postmodern Fiction, Methuen,
New York-London 1993, pp. 43-45. Anche Mario Boselli parla dello spazio eterotopico nei testi di
Calvino contrapponendolo alla consolazione utopistica. Cfr. M. Boselli, “Ti con zero” o la precarietà del
progetto, in “Nuova Corrente, XVI, 49, settembre-dicembre 1969, pp. 127-148.
169
Cfr. G. Manganelli, Profondo in superficie, in M. Belpoliti (a cura di), Italo Calvino. Enciclopedia:
arte, scienza e letteratura, “Riga”, 9, Marcos y Marcos, Milano 1995, p. 201: “La rivelazione della
chiarezza era […] la capacità, la vocazione fatale a vedere per l‟appunto ciò che sta oltre, accanto,
attorno, dietro alla pagina: una pagina a più dimensioni, a infinite dimensioni, illusionistica, allucinatoria,
enigmatica, ma sempre tale in virtù della chiarezza. Il modello di codesta chiarezza è lo specchio:
superficie apparentemente univoca, coerente, ma capace di ospitare una folla di immagini, tutte
chiarissime, ansiose di essere nominate e descritte, ma impossibile, irraggiungibili al tatto: immagini non
cose. […] Fece proprio il malizioso comandamento di Hofmannstal: «La profondità va nascosta. Dove?
Alla superficie». E che altro fa lo specchio?”.
170
I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 632.

113
questione dello specchio per riprenderla solo alla fine del capitolo, parlando della
casella vuota.
Ogni cultura produce eterotopie. Foucault distingue, nelle società primitive, le
eterotopie di crisi, ossia luoghi riservati a quegli individui che rispetto alla società loro
contemporanea, vivono in stato di crisi. Queste vengono oggi sostituite dalle eterotopie
di deviazione, tra cui si annovera anche la prigione. È curioso che la prigione della
fortezza d‟If, l‟ipotizzata prigione perfetta da Dantès, il nastro di Möbius, sia annoverata
tra le eterotopie. Si vedrà più avanti che l‟uscita dal nastro, dal testo, è possibile proprio
in virtù dell‟eterotopicità dello spazio, grazie al punto virtuale dello specchio – cioè, in
altri termini, in virtù del fatto che il nastro è bucato, grazie al fatto che in esso giace una
casella vuota e quindi la prigione reale non è la prigione perfetta – che riporta il lettore
alla propria assenza.
Ogni eterotopia ha una determinata funzione all‟interno della società e la
medesima eterotopia è in grado di sviluppare funzionamenti diversi in culture differenti.
Si crede però che il terzo principio sia tra i più rilevanti per capire la sostanza
eterotopica delle città invisibili: “L‟eterotopia ha il potere di giustapporre, in un unico
luogo reale, diversi spazi, diversi luoghi che sono tra loro incompatibili”171, quindi
contraddittori. Contraddittorietà realizzata spazialmente: non era forse questa la
prerogativa delle serie contigue di cui s‟è detto sopra? Certo, qui si parla di luogo reale.
Ma non è forse il libro Le città invisibili un luogo reale, tanto quanto uno specchio che
smentisce esso stesso la sua realtà poiché pur essendo un luogo172 non ha però un luogo?
La prima scommessa vinta da quest‟ipotesi è che il giardino è indicato da Foucault
come esempio di luogo eterotopico. È curioso che si parli proprio del giardino orientale,
come quello di Kublai Kan – nello spazio letterario de Le città invisibili –, e che si dica
che questo giardino racchiude, al proprio centro, uno spazio sacro, l‟ombelico, il centro
del mondo, attorno al quale tutta la vegetazione è ripartita. Si torna mirabilmente al
rettangolo vuoto al centro dello schema de La taverna dei destini incrociati, al nocciolo
171
M. Foucault, Spazi altri, cit., p. 16.
172
Cfr. M. Foucault, Il linguaggio dello spazio, in Eterotopia, cit., p. 28: “Tale è il potere del linguaggio:
pur intessuto di spazio, lo suscita, lo pone attraverso un‟apertura originaria e lo preleva per riprenderlo a
sé. Ma di nuovo esso è votato allo spazio: dove potrebbe vagare e posarsi, se non in quel luogo che è la
pagina, con le sue linee e la sua superficie, se non in quel volume che è il libro?”. Cfr. anche M. Sironi,
La questione Frye, in M. Barenghi e M. Belpoliti (a cura di), “Alì Babà”. Progetto di una rivista, 1968-
1972, cit., p. 98: “Il testo stesso è pensabile come luogo, come spazio articolato secondo interne variabili
intensità, e la sua presenza stabilisce da principio una differenza rispetto a un fuori, e insieme la
possibilità sul suo confine, d‟un rapporto tra il dentro e il mondo esterno”.

114
del mondo, allo spazio del niente, all‟assenza attorno alla quale si costruisce ciò che c‟è,
alla casella vuota173.
Non si dimentichi che il giardino è stato prima additato come luogo fuori luogo,
per il fatto d‟essere già frutto e luogo della fabulazione per eccellenza e tuttavia
descritto nella parte dedicata alla scrittura de Le città invisibili. Si tenga conto inoltre
che è nel giardino che i due stanno giocando la partita a scacchi – cioè è nel giardino
che Marco Polo narra – e che il punto più centrale del giardino potrebbe essere la casella
vuota della scacchiera sotto lo scacco matto. Si viene a conoscenza inoltre del fatto che
il giardino così inteso è un‟eterotopia felice e universalizzante. È quindi nel giardino che
lo spazio eterotopico de Le città invisibili attuando la contestazione e il sovvertimento
ritrova un legame con l‟utopia e l‟uscita dal testo ch‟essa implica. Ma dire giardino è
dire luogo della fabulazione, scacchiera, nastro. Il giardino conserva la casella vuota.
Nel giardino risiede la casella vuota. Il giardino, per il fatto di rappresentare
un‟eterotopia felice e per essere, in questo caso, irreale, cioè del testo (unico luogo
reale, come libro), è utopico. In esso l‟eterotopia spinge fuori di sé attraverso la casella
vuota, si mostra specchio nello specchio, luogo del capovolgimento174.
Quinto principio riguardante le eterotopie, che conferma l‟ipotesi dello spazio de
Le città invisibili come spazio eterotopico-utopico, è che “presuppongono sempre un
sistema d‟apertura e di chiusura che, al contempo, le isola e le rende penetrabili. […] O
vi si è costretti […] oppure occorre sottomettersi a riti e purificazioni. Non è possibile
entrarvici se non si possiede un certo permesso e se non si è compiuto un certo numero
di gesti”175. Qui si spiega il senso del silenzio rituale che mostra Kublai Kan e Marco
Polo uno di fronte all‟altro a muovere le mani. Il silenzio rituale è il presupposto
dell‟entrata nello spazio eterotopico letterario delle città invisibili, mediando tra il
desiderio umano e le necessità di natura. Senza i gesti compiuti con le mani, da
entrambi, né solo dal fabulatore, né solo dal lettore scriba, nessuna eterotopia sarebbe

173
Cfr. M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, cit., p. 56: “Calvino ha posto al centro di questa struttura
cristallina una casella vuota, il tao, il punto cieco, la casella vuota […] che con la sua presenza consente
alla struttura-emblema di funzionare” e continua Belpoliti, Calvino questo spazio “ha cercato
continuamente d‟iscriverlo nella sua opera, di farne il centro assente, come nel rettangolo vuoto
circondato dai tarocchi nel Castello o nel cristallo delle Città invisibili”.
174
Cfr. I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., p. 1108. In questa lettera scritta a Paolo Valesio il 9.7.71
Calvino scrive: “L‟utopia era per me sotto tutti i punti di vista il non-luogo dove solo potevo abitare”.
175
M. Foucault, Spazi altri, cit., p. 18.

115
possibile. Senza sfogliare il libro nessun lettore empirico potrebbe iniziare a deambulare
nello spazio delle città invisibili.
“L‟ultimo elemento che contraddistingue le eterotopie inerisce al fatto che esse
sviluppano con lo spazio restante una funzione che si dispiega tra due poli estremi
[corsivo mio]”176. Le eterotopie possono da una parte “creare uno spazio illusorio che
indica come ancor più illusorio ogni spazio reale”177, dall‟altra possono creare “un altro
spazio, uno spazio reale, così perfetto, così meticoloso, così ben arredato al punto da far
apparire il nostro come disordinato, maldisposto e caotico”178. In questo secondo caso la
eterotopia è detta “di compensazione”. Resta da capire quale di queste due funzioni lo
spazio eterotopico-utopico delle città invisibili assolve e, anticipando, si dice che è la
prima. Ora importa approfondire il tema dello spazio eterotopico così come viene
discusso da Calvino, Celati e Gabellone proprio nei dibattiti sulla rivista “Ali Babà”,
poiché questo potrebbe servire a cogliere la ricchezza delle tracce di senso sparse sulla
superficie delle città invisibili, quindi a confermare la loro valenza di specchio.
Nelle città eterotopiche galleggiano residui di sistemi mitici. Questo sarà di
centrale importanza in questo lavoro sulle città, quando si vedrà che una città in
particolare sembra suggerire l‟uscita dal testo nel contesto, da parte del lettore. Non è
possibile ricondurre queste emergenze mitiche ad una combinatoria suprema in grado di
spiegarle tutte, è come dire che la fabulazione genera un senso che la scrittura col suo
astratto modello della scacchiera non può tenere tutto in sé. Il senso, ai confini tra le
serie, è sempre e solo ritrovato, cioè inventato dal fabulatore e dal lettore che legge. Il
senso riposa negli oggetti da ritrovare, in quelle cartoline che sono le pagine delle
città179. Il modello non le esaurisce, già subito si proiettano fuori dal nastro. “È l‟idea di
una non determinabile o non numerabile serie di diramazioni e quindi della non
riducibilità di tutti i luoghi del possibile storico ad uno schema”180. Di nuovo: la
strategia è trascendentale rispetto alla struttura. L‟ordine-grammatica della scrittura
fallisce. I residui metaforici che gravitano in superficie, sulla pagina, non sono
controllabili da nessuna grammatica o norma, da nessun modello. Tutto si comprende

176
Ibid., p. 19.
177
Ibidem.
178
Ibidem.
179
Cfr. G. Patrizi, Il significato del grigio. Calvino e le forme del saggio, cit., p. 307: “Dalla narrazione
come bricolage nasce il mito, sacralizzazione dell‟iterazione della narrazione seriale”.
180
Cfr. la lettera che Gianni Celati scrive da Ithaca a Italo Calvino il 23 febbraio 1972, in M. Barenghi e
M. Belpoliti (a cura di), “Alì Babà”. Progetto di una rivista, 1968-1972, cit., pp. 157-158.

116
meglio: “I capitoli di Marco Polo [sono] scintillanti miniature costruite per
accumulazione di dettagli”181. Questo comporta che l‟estensione delle città invisibili sia
al limite, cioè esperienza del limite. Il limite di una funzione è ciò cui essa tende, pur
non arrivandoci mai, è postulato, serve per calcolare l‟incalcolabile. Il limite è
un‟operazione che si fa solo quando la funzione non arriva in un certo punto. La soglia
di ogni città è soltanto postulabile, è la soglia di un calcolo infinitesimale spiegabile
solo come passaggio al limite. Che le città siano soprattutto infinitesimali significa che
le loro componenti sono suddivisibili infinitamente, e questo non permette di dire che
l‟esame delle componenti è terminato. Ecco un primo passo verso l‟utopia
dell‟infinitesimale. “Appena faccio luce su qualcosa, c‟è sempre un lato d‟ombra che
sorge compatto come nuova estraneità”182. La quête continua, all‟infinito, ogni serie
produce nuovi passaggi di senso, la metamorfosi è illimitata. Il viaggio del fabulatore
sul nastro non ha termine. S‟immagini un girovagare perpetuo fatto d‟incontri, presenze
subito smentite da altre vicine e contradditorie differenze. Per via delle tracce affioranti
infinitamente non è possibile individuare un tracciato che porti da qualche parte, verso
una qualche città utopica. Tutto è in superficie, non v‟è profondità, e il nastro è in sé
eterogeneo, il frammento ha la meglio sul modello. I percorsi nelle città e tra le città
invisibili si divaricano, si confondono intrecciandosi. Lo spazio eterotopico è lo spazio
emarginato, ignorato dalla tradizione.

Ecco un poro più grosso: forse è stato il nido d‟una larva; non d‟un tarlo, perché appena nato avrebbe
continuato a scavare, ma d‟un bruco che rosicchiò le foglie e fu la causa per cui l‟albero fu scelto per
essere abbattuto… Questo margine fu inciso dall‟ebanista con la sgorbia perché aderisse al quadrato
vicino, più sporgente183.

Lo sguardo dell‟archeologo sta attento ai margini dei tasselli della scacchiera, ne scruta
la ricchezza, il loro rivoltarsi al modello astratto costruito dalla mente dello scriba.
L‟eidetismo della superficie che il fabulatore percorre infittisce i dettagli che bisogna
percorrere e impedisce una percezione globale, lancia uno sguardo diverso sulla città
reale, uno sguardo sconvolto e straniato. Il fabulatore per cogliere il senso si accontenta
di guardare da una serie all‟altra per poi riabbandonarsi di nuovo all‟illimitato divenire.
181
G. Celati, Il racconto di superficie, p. 178. Cfr. M. Belpoliti, Settanta, cit., p. 165: “La forma letteraria
è quella dell‟accumulo di dettagli”.
182
Cfr. la lettera che Gianni Celati scrive da Ithaca a Italo Calvino il 23 febbraio 1972, in M. Barenghi e
M. Belpoliti (a cura di), “Alì Babà”. Progetto di una rivista, 1968-1972, cit., p. 159.
183
I. Calvino, Le città invisibili, cit., pp. 139-140.

117
Il paradosso è accettato con la sua ricchezza, il lato scuro di ogni tassello, di ogni pezzo
di città è una nuova combinatoria che non esaurisce il tutto, ma si offre così com‟è. La
spaziatura del piano è infinita, il nastro torna su se stesso e il giro ricomincia. Zaira a tal
proposito, suggerisce Celati, è illuminante:

Per dire qualcosa di Zaira, per spiegare le sue, memorie bisogna soltanto spiegarle nel senso di
distenderle: percorrere le sue linee inscritte, come le fibre del tassello del Kan, le griglie delle finestre, gli
scorrimano delle scale, tutte le peripezie d‟un itinerario di segni. […] Il senso […] sta […] negli spazi
delle memorie da distendere come un tappeto. La parabola di Zaira è questa: la superficie non si svela, si
ripercorre [corsivo mio]184.

La centralità delle tracce sta nell‟avere un carattere ostensivo, grazie alla loro letteralità,
superficialità. Le caselle-città sono inscritte dal fabulatore, il gioco che il fabulatore fa
sulla superficie della scacchiera è un gioco di inscrizione. In altri termini, il fabulatore,
vagando nei suoi viaggi sulla superficie del nastro, lascia sempre degli spazi vuoti185; a
livello grafico è ben evidente nel libro de Le città invisibili: metà della pagina è riempita
di parole, dalla fabula, ma l‟altra metà è bianca186. Allora questa caratteristica grafica
suggerisce qualcosa di più sul ruolo delle tracce: queste indicando zone, angoli, intrichi,
deviazioni inaspettate nella pagina “depositano e distendono la continua metamorfosi
del linguaggio in spaziature, le quali come il tassello del Kan sono classi vuote” 187. Nel
gioco degli scacchi si finisce sempre scoprendo, sotto il re, un tassello vuoto. La
fabulazione nel suo girare e rigirare tra le tracce lascia sempre la casella vuota dietro di
sé. E proprio qui sta la vittoria della fabula sulla scrittura, in quel vuoto riposa il motivo
del successo del fabulatore Marco Polo sullo scriba Kan: è una vittoria che è un ritrarsi
dalla pretesa di riempire di senso e saturare ogni angolo, ogni tassello della scacchiera.
La vittoria del fabulatore è l‟invito che quest‟ultimo fa allo scriba-lettore a leggere di

184
G. Celati, Il racconto di superficie, cit., p. 188.
185
Cfr. M. Foucault, Il linguaggio dello spazio, cit., p. 30: “Qui la «descrizione» non è riproduzione,
piuttosto decifrazione: impresa meticolosa per […] fare del libro il luogo bianco in cui tutto, dopo la de-
scrizione, può trovare uno spazio universale d‟iscrizione. È lì indubbiamente l‟essere del libro, oggetto e
luogo della letteratura”.
186
Cfr. A. Ferlenga, Invisibili profondità, in M. Barenghi, G. Canova, B. Falcetto (a cura di), La visione
dell’invisibile, cit., p. 144: “Il senso delle città sarebbe dunque da ricercare nel vuoto che sta tra le cose
dove esso fluttua, in attesa di essere svelato e fissato, come un‟aura intermittente che carica edifici o spazi
di significati percepibili solo a patto che qualcosa, un dispositivo, una tecnica, un espediente, favorisca a
reazione tra due mondi non sempre connessi (quello dei significati e quello degli oggetti) facilitando così
la riconoscibilità urbana degli oggetti e il loro radicamento ai luoghi. […] E la capacità di interpretare
l‟interspazio tra le cose diventa fondamentale, specialmente quando il moltiplicarsi della sua muta
presenza è uno dei fenomeni più evidenti dei nuovi organismi urbani”.
187
G. Celati, Il racconto di superficie, cit., p. 189.

118
più di quello che c‟è scritto188, a guardare meglio sulla superficie del tassello. Lo spazio
referenziale sulla casella è lasciato vuoto, in questo sta il segreto de Le città invisibili.
La spazializzazione del fabulatore sulla superficie fa questo: infittendo i dettagli sul
nastro, portando la profondità alla superficie, lascia al lettore il compito di riempire di
nuovo la casella di senso189. In una lettera a Giovanni Falaschi del 17 novembre 1974
Calvino scrive:

Certo Kublai trova sotto il pezzo degli scacchi un tassello vuoto, il nulla, ma il corsivo continua alla fine
del capitolo e si scopre che questo apparente nulla è pieno di dati della vita reale, che ci si può leggere
dentro infinitamente190.

Nell‟itinerario senza meta di flâneur che Marco Polo fa sulla superficie del nastro,
grazie alla fabulazione, le tracce si infittiscono man mano, la spazializzazione trova
sempre nuovi spazi del diverso: angoli di strada, ripostigli, soffitte, immondezzai,
vecchi che giocano a carte. La ricchezza di questi residui sta nella loro discontinuità,
nella loro marginalità: sono scarti eterocliti che aprono uno sguardo differente e che
conservano in sé, secondo Celati, per la loro vecchiaia e per il fatto di essere fuori
luogo, energie rivoluzionarie. Lo spazio eterotopico è lo spazio del qui-altrove191. Lo
sguardo dell‟archeologo introduce “il principio della differenza dell‟altro rispetto all‟io,
della differenza dell‟altrove rispetto al qui”192, crea cioè lo spazio per le alternative alla
storia, giacché dice che i suoi elementi sono suddivisibili all‟infinito, e quindi il senso
delle città invisibili come città dell‟infinitesimale è comprensibile se le si vede come
frutto spaziale della postulazione archeologica di sempre nuove aperture del possibile193.
Cosa ciò significhi si mostra immediatamente.

188
Cfr. U. Volli, Il testo urbano: visibilità e complessità, in M. Barenghi, G. Canova, B. Falcetto (a cura
di), La visione dell’invisibile, cit., p. 156: “A Calvino interessava mostrare non le città ma la narrazione, a
descrizione”, cioè la fabulazione come spaziatura delle tracce, poiché è da queste tracce che è indotta la
fabulazione del lettore.
189
Cfr. M. Belpoliti, Settanta, cit., p. 380: “Ogni città è costruita attraverso la giustapposizione di dettagli,
ed è un dettaglio essa stessa. […] Il dettaglio è appunto un taglio. […] Così sono le singole città. Sono
dettagli di dettagli”.
190
Cfr. I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., p. 1257.
191
Non a caso tra i possibili nomi per la rivista Calvino propose anche “Altronde”, “Altrimenti”, “Altrui”.
Cfr. I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., p. 1151.
192
G. Celati, Sull’archeologia, in M. Barenghi e M. Belpoliti (a cura di), “Alì Babà”. Progetto di una
rivista, 1968-1972, cit., p. 154.
193
Cfr. L. Gabellone, Aporie del raccontare, in M. Boselli (a cura di), Italo Calvino/1, cit., p. 125: “La
letteratura […] è stata per Calvino lo spazio problematico attraverso cui cercare, secondo regole ricorrenti
che ne dichiarano il carattere di gioco e sfida, vie di uscita e possibilità di fuga.[…] Fuga vuol dire in

119
2.2.2 Lo scacco matto in Bauci

Verso sera, uno dei re


scaglia a terra la scacchiera,
perché l‟altro gli ha dato scacco matto,
e poco dopo un cavaliere insanguinato
gli annuncia: il tuo esercito è in fuga,
hai perso il regno194.

Ma come finisce la partita? Cosa succede non appena sotto il re rimane la casella
vuota? Perché la strategia applicata nel gioco dal fabulatore è efficiente? Il problema è
quello di capire come si esce dal testo, com‟è chiamato l‟intervento del lettore, cioè la
questione è quella del passaggio dalla strategia alla finalità della strategia, alla funzione.
Questo sotto-paragrafo è per metà nel rettangolo centrale del testo e per metà già si
capovolge sul triangolo finale, triangolo dedicato all‟utopia discontinua e alla lettura.
S‟è visto che il gioco svolto sulla superficie dal fabulatore è un gioco di
esplorazione dello spazio alla ricerca delle tracce che nessun modello è in grado di
controllare, che nessuna scrittura può amministrare. È un itinerario senza meta sulla
superficie del nastro, che a volte dà sul lato opaco, altre volte sul lato soleggiato della
scacchiera. Per il fatto di configurarsi come gioco degli scacchi non può però essere
privo del momento finale dello scacco. In quest‟attimo non si entra in una qualche città
utopica rispetto alle altre, poiché tutte sono egualmente eterotopiche ed utopiche, ma
avviene qualcos‟altro. Si mostra il senso in superficie, cioè il testo si buca e lancia fuori
di sé il lettore. È bellissimo il modo in cui Calvino accompagna il lettore195. La città
centrale dello schema tracciato dallo scriba è Bauci196, l‟unica città invisibile197 in senso

Calvino trasformazione della scrittura in esplorazione di territori, in sperimentazione cartografica del


possibile: in altre parole, è un modo di divenire attraverso la letteratura”.
194
E. Morgan, L’ombra delle mosse, in Borges-Ocampo-Casares, Antologia della letteratura fantastica,
cit., p. 351.
195
Cfr. R. Donnarumma, Da lontano. Calvino, la semiologia, lo strutturalismo, cit., p. 52: “Il percorso
entro il libro coinvolge Marco in quanto narratore e Kublai in quanto suo uditore; e più di tutti chiama in
causa il pubblico”.
196
Cfr. C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, cit., p. 144: “Calvino […] lasciò
infatti al centro del reticolo da lui tracciato (nel punto di simmetria del diagramma) una casella semivuota,
uno spazio dove appena si proietta un‟ombra”.
197
Cfr. P. Odifreddi, Se una notte d’inverno un calcolatore, in R. Aragona (a cura di), Italo Calvino:
percorsi potenziali, cit., p. 160: “La città centrale […] è quella invisibile che dà il titolo al libro”.

120
pieno198. Si cita per intero per l‟importanza di questa città in tutto il discorso. Il senso si
rivela con un effetto di superficie, cioè quell‟invisibilità è portata alla luce come tale, e
già quella città non è più invisibile:

Dopo aver marciato sette giorni attraverso boscaglie, chi va a Bauci non riesce a vederla ed è arrivato. I
sottili trampoli che s‟alzano dal suolo a gran distanza l‟uno dall‟altro e si perdono sopra le nubi
sostengono la città. Ci si sale con scalette. A terra gli abitanti si mostrano di rado: hanno già tutto
l‟occorrente lassù e preferiscono non scendere. Nulla della città tocca il suolo tranne quelle lunghe gambe
da fenicottero a cui si appoggia e, nelle giornate luminose, un‟ombra traforata e angolosa che si disegna
sul fogliame.
Tre ipotesi si danno sugli abitanti di Bauci: che odino la Terra; che la rispettino al punto d‟evitare
ogni contatto; che la amino com’era prima di loro e con cannocchiali e telescopi puntati in giù non si
stanchino di passarla in rassegna, foglia a foglia, sasso a sasso, formica per formica, contemplando
affascinati la propria assenza [corsivo mio]199.

Bauci è la casella vuota par excellence, invisibile non solo perché contradditoria e
immaginaria, ma anche perché pur essendo parte del testo, e quindi pur essendo una
delle sessantaquattro caselle della scacchiera, è il tassello che scaglia fuori di sé. Per
afferrare quanto si vuole dire basti andare nuovamente all‟ultimo tratto della cornice del
rettangolo centrale. A parlare è Marco Polo, che indica a Kublai, nel momento dello
scacco, la casella di Bauci: “Il tassello sul quale si fissa il tuo sguardo illuminato fu
tagliato in uno strato del tronco che crebbe in un anno di siccità: vedi come si
dispongono le fibre? Qui si scorge un nodo appena accennato: una gemma tentò di
spuntare in un giorno di primavera precoce, ma la brina della notte l‟obbligò a desistere
[corsivo mio]”200. Questo è pure il momento in cui l‟imperatore dei tartari si rende conto
che l‟altro parla fluentemente la sua lingua, è l‟istante che più differenzia questo testo
dai precedenti di Calvino. Il silenzio è vinto in via definitiva, il dialogo si fa narrazione
orale e quindi Kublai Kan ascolta l‟altro che racconta. Lo scriba-lettore che ha
accompagnato l‟ambasciatore nelle sue esplorazioni ne ascolta i racconti a tutte
orecchie, e l‟altro, lasciando vuoto lo spazio della referenza vuole che sia il lettore a

198
Cfr. M. Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, cit., p. 82: “Al centro esatto delle Città invisibili –
come più tardi nel cruciverba di tarocchi della Taverna dei destini incrociati - c‟è una casella vuota. Il
punto mediano della serie di descrizioni, sia nella successione lineare (la ventottesima città dell‟indice, su
un totale di cinquantacinque), sia nella rappresentazione spaziale (il centro dello schema a tavoliere
romboidale sotteso all‟ordinamento per rubriche), è costituito da Bauci, al città che guarda senza essere
vista”.
199
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 83.
200
Ibid., p. 139.

121
riempirlo201. Si comprende quindi come il muoversi sulla superficie sia sì un girovagare
senza mete, ma questo perché il fine del fabulatore che viaggia è raggiunto
ogniqualvolta finendo il suo racconto ne induce un altro nel lettore. Il fabulatore
viaggiando nella narrazione lascia sempre degli spazi vuoti202, che sulla pagina sono il
bianco: riempire l‟altra parte del foglio è compito del lettore empirico203. Quindi il gesto
a cui è chiamato il lettore non è uno scavo della profondità, ma al Kan è richiesto di
estendersi sulla superficie alla ricerca di altri residui, di altre tracce. Marco Polo gliene
indica alcune, ma l‟uscita dal testo avviene quando si legge:

La quantità di cose che si potevano leggere in un pezzetto di legno liscio e vuoto sommergeva Kublai204.

Cosa si trova nello spazio vuoto, come viene riempito dal lettore? Cos‟è ogni città, e
cosa per eccellenza è Bauci? A cos‟è servita l‟esplorazione della superficie attuata dal
fabulatore?
Bauci – come tutte le altre città – è un nome proprio205: e il nome è quell‟elemento
del discorso che è senza referente, una classe vuota che va riempita con le eccedenze
della lettura. Le caselle-città sono inscritte, s‟è detto, e gli spazi referenziali sono lasciati

201
Cfr. M. Mazzocut-Mis, La città e la conchiglia. Suggestioni a partire dalla morfologia di Calvino, in
“Itinera. Rivista di filosofia e teoria delle arti e della letteratura”, Milano 2002, pp. 2-3: “Il vuoto è la base
«non base» per ricostruire l‟influenza delle forme […] sulla mente dell‟uomo, sul suo modo di
apprendere”.
202
Cfr. R. Pierantoni, Metafore di una mappa, in G. Bertone (a cura di), Italo Calvino. La letteratura, la
scienza, la città (Atti del convegno nazionale di studi di Sanremo, 28-29 novembre 1986), cit., p. 90:
“Guardando le mappe di Calvino ci si rende conto che ci sono dei «buchi», ci sono delle cose non dette”.
203
Cfr. C. Calligaris, Italo Calvino, cit., p. 105: “Calvino assimila la lezione barthesiana […] e opta per
una letteratura che esalti la creatività del soggetto lettore”.
204
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 140.
205
Cfr. Ibid., p. 99-100: “A lungo Pirra è stata per me una città incastellata sulle pendici d‟un golfo, con
finestre alte e torri, chiusa come una coppa, con al centro una piazza profonda come un pozzo e con un
pozzo al centro. Non l‟avevo mai vista. Era una delle tante città dove non sono mai arrivato, che
m‟immagino soltanto attraverso il nome: Eufrasia, Odile, Margara; Getullia. Pirra aveva il suo posto in
mezzo a loro, diversa da ognuna di loro, come ognuna di loro inconfondibile agli occhi della mente.
Venne il giorno in cui i miei viaggi mi portarono a Pirra. Appena vi misi piede tutto quello che
immaginavo era dimenticato; Pirra era diventata ciò che è Pirra; e io credevo d‟aver sempre saputo che il
mare non è in vista della città, nascosto da una duna della costa bassa e ondulata; che le vie corrono
lunghe e diritte; che le case sono raggruppate a intervalli, non alte, e le separano spiazzi di depositi di
legname e segherie; che il vento muove le girandole delle pompe idrauliche. Da quel momento in poi il
nome Pirra richiama alla mia mente questa vista, questa luce, questo ronzio, quest‟aria in cui vola una
polvere giallina: è evidente che significa e non poteva significare altro che questo. La mia mente continua
a contenere un gran numero di città che non ho visto né vedrò, nomi che portano con sé una figura o
frammento o barbaglio di figura immaginata: Getullia, Odile, Eufrasia, Margara. Anche la città alata su
golfo è sempre là, con la piazza chiusa intorno al pozzo, ma non posso più chiamarla con un nome, né
ricordare come potevo darle un nome che significa tutt‟altro”.

122
vuoti, affinché sia la lettura a colmarli. “La casella è una matrice di possibilità di
lettura”206. Il funzionamento delle tracce e della loro esplorazione s‟intende non appena
le si consideri come classi nulle, cioè parole senza referente, come, per esempio,
“unicorno”. Le tracce che solcano ogni tassello non hanno nessun significato207, se non
quello di spingere fuori di sé per essere riempite di senso. Ogni tassello funziona come
induttore di fabulazione208, ma di una narrazione diversa da quella presa dentro dalla
scrittura: una fabulazione che avviene fuori dal testo209. Quindi proprio il rivolgersi del
testo e del nastro più in se stesso, il suo piegarsi più su se stesso, è un perforarsi del
libro e di conseguenza un rivolgersi verso il fuori, verso il colpo d‟occhio inaspettato
nel mondo reale. Si suggerisce qui un ritorno al Castello dei destini incrociati per
chiarire la natura della casella vuota e di Bauci.
Si crede, infatti, che una sorta di fusione tra il mosaico saturo di carte ma ordinato
de Il castello e il mosaico con la casella vuota, ma disordinato de La taverna possa
spiegare il senso della città di Bauci. Si vada ai testi. Ne La storia d’un ladro di sepolcri
si parla d‟un città sospesa che si trova sulla cima di un albero. Questa città è raffigurata
dall‟arcano de Il mondo ed è una città galleggiante su onde e nuvole, i cui tetti toccano
la volta del cielo. Poi si leggono parole tanto misteriose, quanto chiarificatrici:

- Chi scende nell‟abisso della Morte e risale l‟Albero della Vita, - con queste parole immaginavo fosse
accolto l‟involontario pellegrino, - arriva nella Città del Possibile, da cui si contempla il tutto e si
decidono le scelte210.

La somiglianza di questa città a Bauci è sorprendente: anch‟essa tra le nubi211, così in


alto da essere fuori dal mondo, sostenuta forse da trampoli, e da lassù qualcuno guarda
la realtà. Una città che si trova in cima a un albero, “città sospesa sui rami più alti come

206
G. Celati, Il racconto di superficie, cit., p. 189.
207
Cfr. G. Gramigna, Una logica del meraviglioso, in B. Cottafavi e M. Magri (a cura di), Narratori
dell’invisibile. Simposio in memoria di Italo Calvino, Mucchi Editore, Modena 1987, p. 55: “Traccia è ciò
che non ha un codice stabile, che può subire ad ogni istante una variazione interpretativa”.
208
Cfr. M. Lavagetto, Dovuto a Calvino, cit., p. 17: “Anche da un tassello nero o bianco, osservando la
grana del legno, le sue porosità, le sue anomalie, il lavoro dell‟ebanista, Polo estrae un racconto”.
209
Cfr. M. Porro, Letteratura come filosofia naturale, cit., p. 65: “Marco lo invita a osservare meglio il
tassello ed ecco una «quantità di cose», fibre, nodi, la storia del legno, sapori, mondo percettivo da
riguadagnare nella varietà di sfumature evanescenti del suo rivelarsi”.
210
I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, cit., p. 27.
211
Cfr. C. Ossola, L’invisibile e il suo «dove»: «geografia interiore» di Italo Calvino, cit., p. 240: “Il
«privilegio» e il disegno delle Città invisibili è di «crescere in leggerezza», sino a che […] si perverrà al
centro dello schema delle simmetrie, a Bauci, città che appunto come Il Mondo è sospesa sopra le nubi,
centro e totalità, punto d‟assenza”.

123
un nido d‟uccelli”212 che si eleva dalle altre serie piatte del nastro e ne esce. Ma cosa
significa che quest‟ultima è la città del possibile? Per trovare una risposta si rilegga
quanto dice Parsifal dialogando con Faust a proposito del centro del mosaico di carte213:

- Il nocciolo del mondo è vuoto, il principio di ciò che si muove nell‟universo è lo spazio del niente,
attorno all’assenza si costruisce ciò che c’è, in fondo al gral c’è il tao, - e indica il rettangolo vuoto
circondato dai tarocchi214.

Al di là di un supposto significato profondo ci s‟attiene qui alle parole di Italo Calvino


medesimo che permette di disambiguare il passo appena citato scrivendo in La
letteratura come proiezione del desiderio: “La ricerca del Graal altro non è che la
ricerca del racconto”215. La fabulazione presa dentro alla scrittura, gioco di superficie
che Marco Polo gioca nelle città, cerca di uscire dalla pagina, si cerca fuori dal testo,
vuole che il lettore si faccia a sua volta narratore, che si faccia del possibile il
costruttore. Tutto l‟itinerario dell‟ambasciatore veneziano, il suo girovagare nella
superficie a nastro di Möbius della scacchiera è un solcare le tracce dei tasselli,
lasciando vuoto lo spazio della referenza216, quindi inscrivere queste tracce di modo che
quei riquadri, quelle città, siano soprattutto induttori di fabulazione217. Un uso strategico
della “scrittura” è quello per cui essa si fa induttore di altre cose che vanno fuori dalla
pagina, che la bucano. Spiega Celati:

Tutte queste città sono, mi sembra, riduzioni a formule o parabole minime delle possibilità fabulatorie.
Sono fatte per indurre racconti, per scambiarsi memorie, ma includono anche le regole di questa
operazione. Il racconto è fuori dalla scrittura proprio perché ne è l’effetto [corsivo mio]218.

La superficie testuale induce effetti che, andando fuori dalla pagina arrivano nel corpo.
Cosa ciò significhi si spiegherà nel terzo capitolo. La pagina cerca di dare il via ad
operazioni del testo fuori dal testo. Se c‟è una fabulazione sulla pagina, quella di cui è

212
I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, cit., p. 58.
213
Cfr. M. Porro, Letteratura come filosofia naturale, cit., p. 65: “Al centro delle carte un vuoto, spazio
bianco e inarticolato […]. E un altro vuoto si disegna al centro delle Città invisibili”.
214
I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, cit., p. 97.
215
I. Calvino, La letteratura come proiezione del desiderio, cit., p. 249.
216
Cfr. M. Carlino, Il discorso-silenzio e i racconti “possibili” di Calvino, cit., p. 121: “Le lacune o
soluzioni di continuità non cadono solo agli estremi del segmento testuale; sono disseminate, per contro,
anche in itinere”.
217
Cfr. R. Bertoni, Int’abrigu int’ubagu. Discorso su alcuni aspetti dell’opera di Italo Calvino, cit., p.
115: “Sono quegli «spiragli» a proporre un punto di fuga (la «maglia rotta nella rete») che dalla prigione-
Nulla conduca negli interstizi vivibili del Mondo”.
218
G. Celati, Il racconto di superficie, cit., p. 190.

124
protagonista Marco Polo, l‟importanza di questa fabulazione sta però nel provocare
qualcosa che vada al di là della sua irrealtà e contraddizione interna. La fabulazione
delle città inaugura qualcosa che la supera, distanzia tracce o le avvicina per provocare
effetti di senso. Le tracce depositate sulla casella vuota vorrebbero dar luogo a un luogo
reale, provocare effetti in esso, cambiarne le coordinate. Di Eudossia219 narra il
fabulatore: “Ogni abitante di Eudossia confronta all‟ordine immobile del tappeto una
sua immagine della città, una sua angoscia, e ognuno può trovare nascosta negli
arabeschi una risposta, il racconto della sua vita, le svolte del destino”220. Come porta la
casella vuota a far sì che vi sia un effetto sul lettore, che il lettore venga chiamato in
causa? In che modo Bauci esemplifica tutto ciò?
Bauci è la casella sulla quale avviene lo scacco matto di Marco Polo
all‟imperatore221. Ed è proprio il tassello sul quale l‟ambasciatore fa notare all‟altro un
nodo, appena accennato. Il senso di questo nodo qual è? Non è un senso metaforico da
cercare oltre il tassello, ma proprio questo nodo, il nodo del tassello indica qualcosa di
più. Se la ricerca del Graal come ricerca del fondo della casella vuota è, dice Calvino,
ricerca del racconto, della fabulazione indotta, tentativo di fare in modo che il lettore
cooperi alla “scrittura del testo”, ci si chiede qui, dov‟è trovato quel racconto, il lettore
come può farsi scrittore, come avviene questo passaggio?
Cercando un altro nodo nei testi di Calvino e, quindi, sulla superficie del suo
discorso, se ne trova uno che permette di dar vita ad un corto circuito che chiarisce tutto
il ragionamento. Calvino scrive nel 1983 un saggio dal titolo Ditelo coi nodi222. Il
linguaggio dei nodi è qui indicato come primordiale forma di narrazione orale. Calvino
parla dei narratori polinesiani che “recitavano i loro poemi a memoria, aiutandosi con
cordicelle intrecciate, i cui nodi venivano sgranati tra le dita seguendo gli episodi della

219
Su Eudossia cfr. G. Conte, Il tappeto di Eudossia, in G. Bertone (a cura di), Italo Calvino. La
letteratura, la scienza, la città, cit., p. 48: “Dobbiamo dire allora, forse, che gli uomini non vogliono
specchiare il loro caos ma vogliono specchiare la propria esigenza di luce”.
220
I. Calvino, Le città invisibili, cit., pp. 103-104. Secondo Foucault il tappeto è ciò che il giardino cerca
di riprodurre. Il giardino quindi, luogo della fabulazione, cerca di rimettere in circolo il tappeto come
luogo della fabulazione indotta, attraverso lo spazio. Cfr. G. Celati, Il racconto di superficie, cit., pp. 188-
189: ”Il senso […] sta […] negli spazi delle memorie da distendere come un tappeto: in un‟inscrizione di
qualcosa, graffi che una presenza un giorno ha prodotto, ma che al momento della lettura s‟è perduta per
sempre, è diventata assenza”.
221
Cfr. C. Ossola, L’invisibile e il suo «dove»: «geografia interiore» di Italo Calvino, cit., p. 247: “Bauci,
città eponima di ogni «città invisibile» […] è il centro invisibile del «quadrato magico», ma anche il
punto vuoto, il gran tao che s‟apre alla fine del viaggio verso l‟interno”.
222
I. Calvino, Ditelo coi nodi, in Saggi 1945-1985, tomo I, cit., pp. 469-472.

125
narrazione. Il fascio di cordicelle era per la memoria orale uno strumento
indispensabile, un modo di fissare il testo prima d’ogni idea di scrittura [corsivo
mio]”223.
L‟importanza dell‟oralità sta nella sua capacità di rimandare all‟origine mitica
della parola, che invece la scrittura ha perduto. Il testo di Calvino prova a ritornare a
quella fonte che è la realtà immaginaria dell‟opera, tenta di ritornare all‟energetica che
pervade ogni discorso, sia letterario, sia politico: il mito. Ma lo scrittore e il fabulatore
non possono troppo. Tutto ora si gioca nello sguardo del lettore224. Il fabulatore gli dice:
“Guarda, osserva questo nodo, nella traccia di questo tassello; e inizia di nuovo a
raccontare”225. Il lettore, proprio quando guarda quel nodo come origine della narrazione
orale si sente investito del compito di farsi a sua volta fabulatore. E allora l‟effetto della
scrittura è il racconto.

È solo spiegando le tracce che si arriva a far quadrare l‟eccedenza della lettura con il vuoto della scrittura.
Spiegare ancora vuol dire seguire tutte le corrispondenze tra discorso e disegno, tra disegno e parole
indotte, tra parole indotte e quella manifestazione discorsiva della memoria che si chiama fabulazione. La
fabulazione nasce da questo continuo scambio di fattori in una proporzione che colma una diseguaglianza
iniziale. La fabulazione è dunque prima di tutto scambio226.

Ricollegandosi alla partita a scacchi si ricordi che nel gioco degli scacchi la finalità
della strategia, ossia la funzione, è l‟alterazione di un equilibrio iniziale tra i due
giocatori. Le posizioni si scambiano. Percorso il rettangolo centrale del nastro il lettore
si trova dall‟altra parte, si scopre fabulatore227. C‟è uno scambio di parole che con ogni
parola produce nel lettore un racconto228. Con questo si chiarisce la “fabulazione

223
Ibid., pp. 469-470. Cfr. M. Dini, Calvino critico, cit., p. 31: ”In Calvino l‟attenzione alle dinamiche
della produzione orale, al bisogno di raccontare coma fatto antropologico-esistenziale è costante fin
dall‟inizio”.
224
Cfr. M. Lavagetto, Dovuto a Calvino, cit., p. 15: “Calvino ha prefigurato le relazioni che intercorrono
tra il lettore e Le città invisibili: le parti sono esattamente determinate e il ruolo attivo dell‟imperatore-
interprete è lo stesso che impone questo libro imprendibile e misterioso”.
225
Cfr. M. Carlino, Il discorso-silenzio e i racconti “possibili” di Calvino, cit., pp. 122-123: “La scrittura
di Calvino […] individua insomma il lettore modello in colui che percepisce e riattiva, a sua volta, il
campo di tensione letteraria tra discorso e silenzio”. Cfr. W. Benjamin, Considerazioni sull’opera di
Nicola Leskov, cit., p. 264: “Non c‟è racconto a cui non si possa porre la domanda della sua
continuazione”.
226
G. Celati, Il racconto di superficie, cit., p. 190.
227
Cfr. C. Calligaris, Italo Calvino, cit., pp.105-106: “Nelle Città invisibili la pagina è per metà bianca, lo
scrittore rinuncia a dire e proporre per lasciare il compito di dire e proporre al lettore. […] Il non-inferno
in mezzo all‟inferno […] è piuttosto il sorgere hic et nunc di attimi di libera attività artistica (produzione
non alienata), il rifiuto del lavoro alienato nel farsi scrittore del lettore”.
228
Cfr. F. Pierangeli, Italo Calvino. La metamorfosi e l’idea del nulla, cit., p. 80: “Il racconto è dunque il
mondo del possibile, delle infinite possibilità”.

126
indotta” che significa offerta, da parte del fabulatore “di parole, frasi, oggetti o nomi
inscritti in una casella, come un catalogo di possibilità narrative”229. I racconti già
conosciuti vengono modificati da quelli letti, e non sono già più soltanto nostri.
Affinché i racconti indotti nel lettore dal fabulatore vengano intesi è necessario liberarsi
di un certo tipo di linguaggio, quello imposto dalla società neocapitalistica, e scoprire il
linguaggio simbolico del mito. La fabulazione dell‟ambasciatore è inaugurale: instaura e
induce una fabulazione che va fuori dalla pagina, “è segno d‟un taglio e d‟un nuovo
inizio”230. Inizio nel mondo reale, rivelazione dell‟archetipo e suo influsso sul corpo:
sovversione e rivoluzione. L‟opera è così terreno di lotta, la contraddizione ne è la
forza. Il testo si sviluppa fuori di sé:

È nel corpo e nel sogno che il gioco deposita le sue tracce, che la fabulazione provoca i suoi effetti
ultimi231.

Quando esce dal testo attraverso e grazie alla casella vuota il lettore vede il nastro da
lontano e questo gli si mostra diversamente: il nastro di Möbius da lontano appare come
un nodo232, da quest‟ultimo il lettore deve iniziare a narrare oralmente racconti sempre
diversi233, il testo esce da sé sul lettore, e il gioco della fabulazione, sulla superficie del
nastro ha termine, ora tocca al lettore diventare a sua volta scrittore. Conta perciò il
racconto indotto, ossia l‟effetto, il trauma dello straniamento che le tracce, parole senza
referente, luoghi contraddittori, producono nello sguardo di chi legge. Passando
attraverso “la presenza (non negativa) del Nulla”234, ossia la casella vuota, il tutto che
l‟involontario pellegrino contempla una volta arrivato nella Città del Possibile è

229
G. Celati, Il racconto di superficie, cit., p. 190.
230
Ibid., p. 191.
231
Ibid., p. 193.
232
A tal proposito sono illuminanti le opere di Escher sul nastro di Möbius, dove si vede con chiarezza
che il nastro, da lontano, sembra un nodo aperto.
233
Cfr. M. Barenghi e M. Belpoliti (a cura di), “Alì Babà”. Progetto di una rivista, 1968-1972, cit., pp.
158-159. Nella lettera che Gianni Celati invia da Ithaca il 23 febbraio 1972 a Calvino scrive: “Anche
questa storia mi spiega il mio interesse per le tue città invisibili, che vedevo poi come parabola narrativa
di tutto il progetto, sia per la questione della «distanza» come principio logico del raccontare, che lì è
addirittura paradigmatico, sia per la questione appunto del tema della città, che potrebbe diventare uno dei
nostri temi emblematici”. Cfr. M. Mazzocut-Mis, La città e la conchiglia. Suggestioni a partire dalla
morfologia di Calvino, cit., p. 4: “Il nulla si riempie di vita, o meglio di vite infinite, una nell‟altra, una
accanto all‟altra, una diversa dall‟altra, grazie ad una combinatoria non calcolabile”.
234
Cfr. la lettera che Calvino scrive a Sandro Briosi da Parigi il 10 maggio 1976. I. Calvino, Lettere 1940-
1985, cit., p. 1303.

127
l‟unione tra lettore e fabulatore235: gli è aperto lo spazio della possibilità236, contro la
realtà237. In una lettera del 20 giugno 1974 a Gore Vidal Calvino scrive: “Il fine che
ognuno di noi deve raggiungere dev‟essere che writer and reader become one, or One.
E […] diremo che questo Uno è il Tutto”238.
Infine preme ritornare al testo di Foucault per chiarire la natura insieme utopica ed
eterotopica del testo Le città invisibili e le conseguenze che la superficie del nastro ha
sul lettore. S‟è visto precedentemente che il libro Le città invisibili può essere
considerato come lo specchio di cui parla il filosofo francese nella sua conferenza Spazi
altri. S‟è mostrato che le caratteristiche che Foucault attribuisce allo spazio eterotopico
ineriscono lo spazio letterario de Le città invisibili. E si è accennato allo specchio, quel
luogo che esiste realmente, ma che nello stesso tempo dà luogo in sé ad uno spazio
irreale, dietro la superficie. Un luogo senza luogo. Ma che sviluppa un effetto di ritorno
nel luogo che si occupa. Ora, si sovrappone qui la casella vuota, quello spazio che il
fabulatore non riempie, Bauci su tutte, al “punto virtuale “ di cui parla Foucault. Si
cerca di spiegare l‟importanza dello spazio virtuale239 dello specchio e dell‟assenza –
attorno a cui si costruisce ciò che c‟è – per ricollegarla allo straniamento che provoca
l‟opera di Calvino. In questo modo s‟approccia il tema della funzione, che sarà
affrontato nel prossimo capitolo.
Dunque si legga il testo:

235
Cfr. G. Barberi Squarotti, Il teorema e il labirinto della scrittura, cit., p.48: “La descrizione delle città
dell‟impero di Kublai può ridursi alla descrizione dell‟ultima casella della scacchiera, da cui è stato tolto
via il re dopo lo scacco che lo ha vinto e cancellato: ma perché anche la nuda e deserta casella di legno è
una forma che contiene in sé, nella sua estrema limitatezza, un‟infinità di spazi possibili e di tempi
trascorsi, ed eventi e fatti e situazioni vi sono contenuti e non attendono altro che la capacità del «lettore»
che li faccia evidenti, li riveli, li traduca nella parola”.
236
Cfr. C. Calligaris, Italo Calvino, cit., p. 103: “Una volta ridotta la narrazione di Marco a partita a
scacchi, Kublai non sa più «il perché del gioco», e davanti alla scacchiera vuota dubita persino
dell‟esistenza reale del suo impero. È Marco che lo riconduce alla ricchezza di ciò che la formalizzazione
ha nascosto, alla vita dell‟albero dietro il tassello di ebano della scacchiera. E come «la quantità di cose
che si potevano leggere in un pezzetto di legno liscio e vuoto sommergeva Kublai», così dietro al
«divertissement» combinatorio ciò che deve «sommergerci» è la […] ricchezza tutta implicita, perché non
detta, ricchezza della possibile lettura e non della scrittura [corsivo mio]”.
237
Cfr. M. Lavagetto, Dovuto a Calvino, cit., p. 18: “Nelle Città invisibili il problema non è tanto quello
della scrittura, quanto quello, ugualmente ambiguo e difficile, del testo che ogni coscienza di lettore è
costretto ad affrontare: è il problema delle scelte, delle direzioni, delle strutture su cui quella coscienza è
chiamata di volta in volta a decidere”.
238
I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., p. 1242.
239
Di spazio virtuale in riferimento alle Città invisibili parla Mengaldo. Cfr. P. V. Mengaldo, L’arco e le
pietre, cit., p. 407: “Lo spazio è quello, remoto e così sterminato da divenire puramente virtuale,
dell‟impero del Gran Kan in cui peregrina Marco Polo”.

128
Lo specchio, dopotutto, è un‟utopia, poiché è un luogo senza luogo. Nello specchio mi vedo là dove non
sono, in uno spazio irreale che si apre virtualmente dietro la superficie, io sono là, là dove non sono, una
specie d‟ombra che mi rimanda la mia stessa visibilità, che mi permette di guardarmi laddove sono
assente: utopia dello specchio. Ma si tratta anche di un‟eterotopia, nella misura in cui lo specchio esiste
realmente, e dove sviluppa, nel luogo che occupo, una sorta di effetto di ritorno: è a partire dallo specchio
che mi scopro assente nel posto in cui sono, poiché è la che mi vedo. A partire da questo sguardo che in
qualche modo si posa su di me, dal fondo di questo spazio virtuale che si trova dall‟altra parte del vetro,
io ritorno verso di me e ricomincio a portare il mio sguardo verso di me, a ricostituirmi là dove sono; lo
specchio funziona in questo senso come un‟eterotopia poiché rende questo posto che occupo, nel
momento in cui mi guardo nel vetro, che è a sua volta assolutamente reale, connesso con tutto lo spazio
che l‟attornia ed è al contempo assolutamente irreale poiché è obbligato, per essere percepito, a passare
attraverso quel punto virtuale che si trova là in fondo240.

La natura meramente utopica delle città invisibili sta soprattutto nella loro irrealtà, nel
fatto d‟essere città immaginarie – che abitano uno spazio letterario, e non reale –
inesistenti, impossibili, prive di un luogo reale. Il lettore empirico che, convogliato nello
spazio delle città, si metta a esplorarne la superficie seguendo Marco Polo fabulatore, si
troverà in uno spazio irreale, spazio letterario che la fabulazione porta con sé, spazio,
per altro, contraddittorio, invertito. Chi legge il testo si muove lì dove non si trova, si
sposta con Marco su una superficie che non esiste, ma proprio per questo il lettore può
guardare la sua assenza come fabulatore. E il lettore empirico, grazie all‟eterotopicità
del libro, libro che è qualcosa che esiste realmente, subisce nel luogo reale che occupa
un effetto di ritorno241. L‟eterotopia scova l‟assenza del lettore come fabulatore nel
luogo che occupa, glielo confessa. Il lettore empirico vede il lettore Kan farsi fabulatore,
ma solo nel testo, capisce leggendo che il lettore deve farsi a sua volta narratore, si vede
in quel modo rappresentato da Calvino nello spazio letterario detesto, ed è così che la
superficie dello specchio lo guarda, dicendogli di ricostituirsi come “scrittore”, così lui
stesso torna su di sé guardandosi nel libro242. Le città invisibili sono eterotopiche poiché
instaurano la connessione del posto che il lettore occupa come tale con tutto lo spazio
240
M. Foucault, Spazi altri, cit., pp. 12-13.
241
Cfr. M. Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, cit., p. 120: “Quando rileggo Calvino ho la
sensazione che, se anche la realtà di cui egli parla è caos labirinto entropia catastrofe, il modo in cui
imposta il dialogo con il lettore non è mai caotico né labirintico, né entropico o catastrofico. E poiché la
realtà è fatta anche di dialoghi – di comunicazioni, di rapporti […] leggere Calvino per me significa (ma
spero non per me solo) sentirmi, di fronte a questo mondo non scritto così insensato, così aggrovigliato ed
enigmatico, così difficile da interpretare, un po‟ meno inerme”. Cfr. M. Belpoliti, L’occhio di Calvino,
cit., p. 46: “Lo strumento catottrico è un oggetto significativo. […] Lo specchio in cui guardarsi guardare,
o in cui moltiplicare la propria immagine e quella del mondo”.
242
Cfr. A. Ferlenga, Invisibili profondità, cit., p. 142: “Lo sguardo vergine di Marco Polo, unito alla
sorpresa del viaggiatore che incontra per la prima volta paesi sconosciuti, si trasforma nell‟artifizio
straniante che allude alla possibilità di vedere sotto una nuova luce anche ciò che di più comune ci
attornia. E ancora, le immagini prodotte dal racconto sembrano voler invitare il lettore, consegnandoli la
chiave del meccanismo che genera gli intrecci, a continuare il gioco di specchi che moltiplica all‟infinito
le città”.

129
attorno, spazio che in questo modo è scoperto nella sua irrealtà dato che, per essere
percepito, necessita della casella vuota, del punto virtuale. In altri termini lo spazio delle
città invisibili è eterotopico cioè realizza effettivamente un‟utopia, è utopia realizzata,
perché lo spazio reale, il luogo reale – il mondo, la città – è lì nello stesso tempo
rappresentato, contestato e sovvertito. Realtà contestata dalla contraddizione e dalla
impossibilità; dall‟irrealtà. Mondo rappresentato nel suo sfacelo, realtà infernale
continuamente affiorante in immagini oscure. Il sovvertimento avviene nello sguardo
del lettore che, come se guardasse il suo pessimo mondo reale specchiato, ne scoprisse
per ciò stesso la sua non necessità, la sua precarietà. La reale contestazione dello spazio
in cui si vive richiama in gioco il mito, preceduto dal silenzio rituale che accompagna i
due personaggi del testo di Calvino.

Funzione dell‟opera letteraria è quindi di trovare, con modalità diverse, questo punto limite (il trauma) e
di provocare così uno sblocco col fornire un linguaggio simbolico che organizza ciò che è altrimenti
inesprimibile perché interiorizzato. Il modello dell‟opera letteraria è quindi un modello che riflette un qui
inconoscibile per mezzo d‟un altrove arbitrariamente ordinato (la realtà immaginaria dell‟opera, il mito).
Nel riproporre in tutta la sua ampiezza il problema delle funzioni letterarie si ritrova finalmente il contatto
con la prassi, cioè con l‟attività umana volta alla liberazione dalla necessità243.

Lo straniamento è un effetto letterario che traumatizza il lettore poiché introduce il


principio “della differenza dell‟altro rispetto all‟io, della differenza dell‟altrove rispetto
al qui, e quindi dell‟impossibile identificazione metaforica tra questi due poli”244, perché
segnala qualcosa in cui non è possibile identificarsi, che rifiuta di essere uno specchio
diretto dell‟attualità. Ecco come Perseo combatte Medusa sullo specchio che gliela
rimanda indirettamente245. Ecco come Calvino fa de Le città invisibili terreno di lotta,
gioco dello scacco al re, ritrovamento di alternative al contesto storico246. Le tracce
hanno valore per l‟effetto di straniamento che provocano in chi le legge, per il fatto che
non gli appartengono. Nella città di Bauci Calvino disegna il lettore che guardandosi
243
I. Calvino, G. Celati, G.Neri, Protocollo di una riunione tenuta a Bologna nel dicembre 1968, cit., pp.
63-64.
244
G. Celati, Sull’archeologia, cit., p. 154.
245
Cfr. G. Manganelli, Profondo in superficie, cit., p. 203: “Questo discorso […] rimanda
all‟impossibilità di «essere tenebre» del discorso letterario, ma solo specchio, chiaro e freddo, anche
ludico, oscuramente felice”.
246
Cfr. M. Belpoliti, Settanta, cit., p. 377: “Le città invisibili sono il diario della sua navigazione nel
labirinto della contemporaneità. […] Egli sembra indugiare in questo labirinto per cercare di confondere
la sua estrema nemica. […] Medusa lo attende all‟uscita. Per questa ragione la costruzione del labirinto è
così minuziosa, coì matematica, calcolata. Lo schema geometrico […] ha questo significato: catturare il
disordine nell‟ordine, trovare una forma per l‟informe, trattenere la pietrificante Medusa in un spazio
tortuoso e leggero”.

130
assente nel mondo, contemplando la propria assenza inizia a leggere foglia a foglia 247 e
perciò, già subito, a raccontare, a intrecciare il nodo che gli mostra il veneziano248; e lo
fa proprio nel luogo in cui, casella vuota, punto virtuale, questo avviene realmente:
ancora una volta porta alla superficie un supposto senso profondo. Contemplando
affascinato la propria assenza nel mondo, per aver guardato attraverso il punto virtuale
dello specchio che è Le città invisibili, il lettore esce dal nastro, sale sull‟albero – si
eleva cioè dalla serie – e può per la distanza del nastro, vederlo come nodo e iniziare a
narrare249. L‟esplorazione del nastro che Marco Polo fa come un flâneur in uno spazio
eterotopico porta a questo: sotto lo scacco matto il nodo sulla superficie del tassello
mette in giro una fabulazione che va fuori dal testo, una narrazione dimenticata250, come
quella di certi personaggi che raccontano oralmente in Narratori delle pianure di Gianni
Celati. La spazializzazione della superficie come rinvenimento di tracce porta fuori di sé
ad un lettore che, colmando la casella vuota, inizia a parlare, a parlarsi, allo specchio251.
“È nello spazio che il linguaggio appena posto si dispiega, scivola su se stesso,
determina le proprie scelte”252. La superficie testuale è “induttore, illustrazione o
scrittura figurale che attiva effetti che vanno fuori dalla pagina e arrivano nel corpo.

247
Cfr. F. Pierangeli, Una traccia di curiosità tra i sentieri invivibili delle città di Calvino, cit., p. 46:
“Abbiamo scoperto un‟altra possibilità offerta all‟uomo e allo scrittore: osservare i fenomeni del cosmo
dal particolare all‟universale, abbandonando per il momento il progetto di trovare un disegno finale. Stare
alla finestra a descrivere il viavai del mondo. Dal medesimo livello di osservazione della realtà nasce il
personaggio Palomar”.
248
Cfr. C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, cit., p. 136: “Si insiste sulla necessità
che la lettura integri la scrittura, si suggerisce che la «persona» dello scrittore esiste solo in virtù delle
ripercussioni che dalle sue parole si dilatano nell‟animo del fruitore.
249
Cfr. P. V. Mengaldo, L’arco e le pietre, cit., p. 406: “La poetica dell‟estraniamento è segnalata
esplicitamente in più luoghi: gli abitanti di Bauci, città montata su trampoli altissimi che bucano le
nuvole, osservano dall‟alto con cannocchiali la terra «contemplando affascinati la propria assenza»”
250
Cfr. W. Benjamin, Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, cit., p. 261: “Il rapporto ingenuo
dell‟ascoltatore al narratore è dominato dall‟interesse di conservare ciò che è narrato. L‟essenziale, per
l‟ascoltatore non prevenuto, è di assicurarsi la possibilità della riproduzione”.
251
Cfr. M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, cit., p. 75: “La rete della scacchiera delle Città invisibili trama
il mondo. […] Il suo vero centro è infatti sempre esterno, altrove, nell‟occhio di chi legge: la trama è utti
gli sguardi”.
252
M. Foucault, Il linguaggio dello spazio, cit., p. 24. Si legga inoltre nella stessa pagina più sotto,
ricordando Le città invisibili come specchio eterotopico-utopico, che chiamano, dalla casella vuota o
punto virtuale di Bauci, il lettore – assente nel mondo come fabulatore – a parlarsi, a raccontare e
raccontarsi: “Lo scarto, la distanza, l‟intermediazione, la dispersione, la frattura, la differenza non sono
soltanto i temi dell‟odierna letteratura; ma anche il modo in cui il linguaggio ci è dato e in cui giunge sino
a noi chiedendo di parlare. […] Esse sono comuni tanto alle cose che ad esso: il punto cieco da cui
promanano le cose e le parole nel momento in cui si portano verso il loro punto d‟incontro. Questa
«curva» paradossale […] è indubbiamente, per il momento, l‟impensabile della Letteratura. Ossia ciò che
la rende possibile nei testi in cui la possiamo attualmente leggere”. Attraverso il punto cieco, casella
vuota si esce dal testo – dalla curva del nastro su di sé – e si va alla ricerca dei racconti nascosti lontano,
ai margini del mondo.

131
[…] È nel corpo e nel sogno che il gioco deposita le sue tracce, che la fabulazione
provoca i suoi effetti ultimi. Ma per farlo deve distanziarsene […] divenire pura
superficie”253. In qualsiasi marginale racconto che si sente vagabondando sugli argini del
mondo riposa lo slancio dell‟utopia discontinua e infinitesimale di Calvino.

253
G. Celati, Il racconto di superficie, cit., pp. 191-193.

132
2.3 Intermezzo su Gianni Celati

2.3.1 La flânerie tra le tracce come recupero della narrazione orale. Da Verso
la foce a I narratori delle pianure

Adesso ho l‟idea
che il perso e il trovato
vadano nello stesso alveo254.

Uscendo dalle pagine calviniane attraverso la finestra aperta in Bauci si va a


leggere un paio di testi dove è benissimo esemplificata la quête non teleologica in uno
spazio cosparso di residui, oggetti dimenticati, l‟itinerario del flâneur nel paesaggio,
verso l‟ispirazione255. Lo sguardo del vagabondo contempla e colleziona, senza riportarli
ad un‟idea superiore di storia, la nebbia Padana, il sentito dire256: un viaggio senza punto
d‟arrivo, verso la foce che è per lui “un‟apertura limite”257. Si parlerà qui soprattutto di
due testi, Narratori delle pianure258 e Verso la foce259, opere del “secondo” Celati260.

254
G. Celati, Verso la foce, Feltrinelli, Milano 1992, p. 44.
255
Per il passaggio da Calvino a Celati si tenga presente cosa si legge a proposito de Le città invisibili in
M. Belpoliti, Settanta, cit., p. 226: “Cosa racconta il libro? Un viaggio, mobile e immobile allo stesso
tempo. Calvino si scinde in due: il giovane Marco Polo e l‟anziano Kan; il geografo e il viaggiatore […]
che rappresentano poi anche due «persone» concrete di quegli anni: Calvino e Gianni Celati: colui che sta
immobile e colui che invece cammina”. Si legga cosa dice Celati in occasione del simposio in memoria di
Calvino. Cfr. B. Cottafavi e M. Magri (a cura di), Narratori dell’invisibile, cit., p. 166: “Io credo che
l‟ispirazione sia proprio questo: la possibilità di tirare il fiato. Ma il fiato ha a che fare con la
rappresentazione dei posti in cui si può tirare il fiato, cosa che non è possibile dovunque. E la mancanza
di fiato è mancanza d‟ispirazione”.
256
Cfr. L. Gabellone, Quello che sta fermo, quello che cammina. Apologo, per Gianni Celati, in “Nuova
Corrente”, XXXIII, 97, gennaio-giugno 1986, p. 28-29: “Un terzo sogno, che lo ha colto di sorpresa, gli
ha permesso di vedere la sequenza intera dei movimenti che poi, ricomposti nella memoria, restituivano
qualcosa come un camminare, un paziente e ostinato andare avanti, ora visto di fronte con l‟effetto di
rallentare l‟avanzata e di schiacciare quasi la silhouette contro uno sfondo di alberi calmi, ora visto di
spalle, con l‟impressione che ne scaturiva, d‟una forma, d‟un corpo, che si immerge nello spazio, avvolto
nella nebbia, come per identificarsi con esso ed essere puro spazio”.
257
Cfr. M. Rizzante, Il geografo e il viaggiatore, Tipografia Metauro, Fossombrone 1993, p. 28.
258
G. Celati, Narratori delle pianure, Feltrinelli, Milano 1985. Citerò però da G. Celati, Narratori delle
pianure, Feltrinelli, Milano 2008.

133
Importa però, prima di tutto, considerare un passo tratto da Spie. Radici di un
paradigma indiziario261 di Carlo Ginzburg, poiché introduce con chiarezza al tema che
qui si affronta:

Forse l‟idea stessa di narrazione […] nacque per la prima volta in una società di cacciatori,
dall‟esperienza della decifrazione delle tracce. Il cacciatore sarebbe stato il primo a «raccontare una
storia» perché era il solo in grado di leggere, nelle tracce mute (se non impercettibili) lasciate dalla preda,
una serie coerente di eventi262.

259
G. Celati, Verso la foce, Feltrinelli, Milano 1989. Citerò però da G. Celati, Verso la foce, Feltrinelli,
Milano 1992.
260
Del “primo Celati” si consiglia di leggere La banda dei sospiri, Einaudi, Torino 1976; Lunario del
paradiso, Einaudi, Torino 1978. Del “secondo Celati”, invece, si legga Narratori delle pianure,
Feltrinelli, Milano 1985; Verso la foce, Feltrinelli, Milano 1989; Cinema naturale, Feltrinelli, Milano
2001; Vite di pascolanti: tre racconti, Nottetempo, Roma 2006.
261
C. Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario, in M. Barenghi e M. Belpoliti (a cura di), “Alì
Babà”. Progetto di una rivista, 1968-1972, cit., pp. 223-265.
262
Ibid., p 233. Per un cacciatore che nuovamente ritorni a narrare a partire dalle tracce che le prede – in
questo caso anatre, folaghe, beccacce – lasciano nel paesaggio cfr. il racconto dal titolo Caccia in G.
Parise, Sillabario n. 1, Einaudi, Torino 1972, pp. 81-85: “Un mattino di novembre molto prima dell‟alba
un uomo ancora giovane stava dentro una botte in una palude vicino a Venezia: il cielo era limpido, le
stelle si riflettevano nell‟acqua, piccoli stormi di anatre passavo in volo nell‟oscurità verso il mare ed egli
pensò: «Tra poco verrà l‟alba»; ma sentì il pensiero volare via dal suo corpo e andarsene insieme alle
anatre. […] Passò un po‟ di tempo durante il quale guardò il fucile. […] Udì altre anatre che non vide e
anche quest‟ultimo pensiero andò con loro. […] In quel momento udì dietro di sé il volo, l‟aria si mosse a
pochi centimetri dalla sua testa e l‟anatra allegrotta si posò vicino a lui su quella parte di laguna che
rifletteva la luce dell‟alba e l‟ombra delle canne. Si rizzò in piedi, l‟anatra si accorse tardi della presenza
di lui e partì veloce ma quando fu contro l‟alba così lontana che forse avrebbe potuto fuggire l‟uomo
sparò e l‟anatra allargò le zampe e cadde nell‟acqua. Solo allora egli vide che era una folaga, provò
dispiacere, di nuovo gli tornarono i pensieri sulla brevità della vita. «Triste uccello in tight» pensò
«cantato da una folla tumultuante di poeti che non l‟hanno mai visto, giovane, pallido e non simpatico
lord con guanti di nappa grigio scuro (fatti comprare da Willougby), a un funerale; crede di poter ancora
vivere nonostante il colpo, nuota, si spenna e cerca cibo. Anche lei si illude». Così pensando sparò un
altro colpo per finirla ma i pallini si tuffarono oltre, ne sparò un terzo e sbagliò ancora, intanto la folaga si
allontanò con il suo verso di trombetta. L‟uomo sedette, dopo un po‟ sentì il vento tagliato a grande
altezza e guardò uno stormo enorme di germani volare tranquilli dal cielo verde-rosa a sud, provò a
contarli ma svanirono nell‟aria lontana. […] Passò uno stormo di fischioni molto alti che sparirono subito
alla vista ma gli parve di udire il fischietto e il palpitare delle ali anche quando non li vide più.
[…]«Niente mi fa più voglia, salvo la caccia». Con la coda dell‟occhio vide la folaga nuotare intorno a se
stessa, con grandi sforzi e ostinazione, come per uscire da un cerchio. «L‟ho colpita alla testa,» pensò «e
ora cerca di usare tutte le sue forze per fuggire, la sua logica è andata perduta e i suoi sforzi sono vani, ma
lei non lo sa, per questo crede di essere ed è ancora viva». E si alzò per finirla ma udì un frullio di ali e
vide dietro di sé fra terra acqua e canne dietro la botte un beccaccino danzante: la minuscola testa striata e
il becco ad ago si sollevarono con un lampo superbo degli occhietti; l‟uccello spaventato e seccato saltellò
due o tre volte sostenendosi sulle ali poi partì: l‟uomo lo lasciò andare e sparò anche questa volta quando
il beccaccino era lontano ma lo colpì e l‟uccello cadde di fianco nell‟acqua. «Comincia ad amare questi
animali, ho fatto male a uccidere il beccaccino che mi piace tanto da vivo, e ho fatto male a uccidere una
folaga, che non mi è simpatica ma neanche antipatica, che non è né uccello né anatra ed è vestita a lutto
con i guanti». Così pensando udì un‟altra volta il volo dietro le spalle: si accucciò nella botte e vide
passare sopra di sé il primo germano di uno stormo disposto a triangolo perfetto. La distanza era quella
giusta ma attese qualche istante per vedere il ventre di folta piuma beige e il lungo collo verde, poi sparò
agli ultimi due della fila di sinistra, uno morì in volo e cadde con la severità della morte nell‟acqua. Data
la distanza avrebbe potuto ucciderli tutti e due ma aveva perso tempo a pensare. Il sole saliva nel cielo
completamente azzurro. […] Con gli occhi pieni di lacrime si guardò le mani, poi volse lo sguardo

134
Si legga ora la dedica che Celati lascia scritta all‟inizio del suo testo del 1985: “A quelli
che mi hanno raccontato storie, molte delle quali sono qui trascritte”263. Il narratore si
limita a trascrivere racconti altrui così come li ha raccolti udendoli, di paese in paese264,
da Gallarate, per la via Emilia, seguendo il corso del Po, fino a quella palude bonificata
e dimenticata che è il Polesine265. Lo spazio attraversato dal narratore anonimo del testo
del 1985 è il medesimo attraversato dal narratore nel 1989, in Verso la foce. Lì però a
parlare più che voci udite erano le cose affiorate dal deserto grazie allo sguardo da
straniero di chi raccontava. Si prova qui a mostrare come il tentativo di decifrare e
distendere tracce in una terra incognita e inospitale con lo sguardo infantile di chi ama
tutto ciò che lo circonda, porti subito vicino alle storie “sentite dire”, frammenti
marginali di narrazioni orali senza morale, che racchiudono in sé un‟inesprimibile carica
rivoluzionaria. Celati si inoltra nella pianura oscura e lì rintraccia gli angoli di aprico
che permettono di “tirare il fiato” nel “deserto di solitudine, che però è anche la vita
normale di tutti i giorni”266.
Anche in Calvino, del resto, il viaggiatore approdato a Maurilia, osservando “certe
vecchie cartoline illustrate che la rappresentano com‟era prima” si imbatte in una
gallina, in un chiosco che rimanda musiche d‟altri tempi, in “due signorine col parasole
bianco”267, oggetti ed eventi marginali che, però, colpiscono per la loro differenza. E, in
maniera ancor più lampante, in Eufemia il fabulatore scrive che “ciò che spinge a
risalire fiumi e attraversare deserti” per andare fin lì, è il fatto che “la notte accanto ai
fuochi tutt‟intorno al mercato, seduti sui sacchi o sdraiati su mucchi di tappeti, a ogni

appannato alla folaga, tutta raccolta in un mucchietto, con la testa nascosta sotto l‟ala come per dormire o
per riposarsi dal dolore prima della fine e pensò: «Questi anni sono passati»”.
La fine della caccia coincide con la fine del racconto. Forse soltanto tornando a cacciare il narratore può
recuperare il legame con l‟esperienza, necessario al racconto. E tuttavia, il narratore stesso confessa la
fine del Racconto, alla fine del racconto. Se non ci sono più tracce da seguire, come distenderle per
raccontare nuovamente? Solo un recupero delle tracce permetterebbe un ritorno della narrazione orale.
Gianni Celati lavorerà proprio in questa direzione. Celati, in qualche modo, lotta controcorrente rispetto
all‟affermazione di Benjamin che scrisse: “Il narratore – per quanto il suo nome possa esserci familiare –
non ci è affatto presente nella sua viva attività. È qualcosa di già remoto, e che continua ad allontanarsi”.
Cfr. W. Benjamin, Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, cit., p. 247.
263
G. Celati, Narratori delle pianure, Feltrinelli, Milano 2008.
264
Cfr. W. Benjamin, Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, cit., p. 251: “Il narratore prende ciò
che narra dall‟esperienza – dalla propria o da quella che gli è stata riferita -; e lo trasforma in esperienza
di quelli che ascoltano la sua storia”.
265
L. Gabellone, Quello che sta fermo, quello che cammina. Apologo, per Gianni Celati, cit., p. 29: “Gli
sembrava che «quello che cammina» fosse anche lui alla ricerca delle parole, ma che nel suo volto si
leggesse anche l‟umiltà di chi considerava le parole come depositi lasciati lì dal tempo nei luoghi dove
erano nate, paesi, città, villaggi, rive di fiumi”.
266
G. Celati, Narratori delle pianure, cit., p. 9.
267
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 37.

135
parola che uno dice – come «lupo», «sorella», «tesoro nascosto», «battaglia»,
«scabbia», «amanti» – gli altri raccontano ognuno la sua storia di lupi, di sorelle, di
tesori, di scabbia, di amanti, di battaglie”268. Si viaggia nel deserto per andare incontro a
storie lontane, udirle, e raccontarne a propria volta. Da quelle tracce inusitate che si
incontrano nel proprio gironzolare sulla superficie piana prendono vita racconti che
s‟ascoltano intorno a fuochi la sera, fino a tarda notte. Chi ascolta una storia è in
compagnia del narratore. Verrà il turno anche dell‟uditore, dell‟ascoltatore: anch‟egli
dovrà farsi fabulatore, prima o poi. Celati accompagna il suo lettore in questo paesaggio
piatto che è la Pianura Padana e non tende a nessun punto d‟agnizione, ma soltanto a
ricreare quel posto in cui la sera ci si trovava a narrarsi novelle nei fienili269: in questo
suo itinerario, pur portandosi verso le cose, ad esse si abbandona, non le riporta a
nessun modello superiore, le fa parlare così come sono: indica quelle tracce da cui
proverranno i racconti degli altri, de I narratori delle pianure. In verità quest‟ultimo
libro precede cronologicamente Verso la foce, ma qui non importa sottolineare un
percorso coerente verso qualche risoluzione finale, bensì mostrare che è il medesimo
spazio, lo spazio dell‟aprico, quello in cui giacciono le tracce dimenticate e in cui
s‟odono le storie marginali. Verrebbe quasi da dire che quello spazio è aperto da queste
voci sentite lontano, pianura del respiro, distante dalla città. Le tracce ritrovate
camminando non sono ricomponibili in nessun modello ideale, sono da prendere così
come sono, singolarmente, non portano al raggiungimento di nessun traguardo, come si
dice in Zobeide. Sono tracce da leggere così come appaiono, una ad una, e da
raccogliere, da guardare come aperture, nell‟opaco, dell‟aprico 270; la preda non è mai
raggiungibile veramente: “Nella disposizione delle strade ognuno rifece il percorso del
suo inseguimento; nel punto in cui aveva perso le tracce della fuggitiva ordinò
diversamente che nel sogno gli spazi e le mura in modo che non gli potesse più
scappare. […] Nessuno di loro, né nel sonno, né da sveglio, vide mai più la donna”271. Si

268
Ibid., p. 43.
269
Cfr. L. Gabellone, Quello che sta fermo, quello che cammina. Apologo, per Gianni Celati, cit., p. 82:
“Il breve, ritmato movimento, così diverso dal suo, che aveva intravisto, è restato in lui e nel suo spazio
conchiuso come un leggero tormento, una nostalgia del suo avvenire: qualcosa che attraversava un
paesaggio e in esso si perdeva, tracciando una linea che portava da qualche parte, non per forza una linea
retta: pur spezzata, zigzagante, a volte sinuosa, essa era tuttavia una linea che non ritornava, e in questo
sembrava prendere una leggerezza nuova, sradicata da qualunque dimora”.
270
Cfr. M. Lavagetto, Dovuto a Calvino, cit., p. 20: “Calvino […] di fronte a una realtà divenuta sempre
più opaca, cerca una via d‟uscita nella trasparenza delle fiabe e dell‟immaginario”.
271
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 51.

136
cercherà di indicare come la spaziatura delle tracce sulla superficie – che sia dentro o
fuori dal testo non importa – porti immediatamente alla richiesta di un loro riempimento
da parte del lettore272. In Verso la foce si osserva un altro Marco Polo viaggiatore,
Celati, inoltrarsi in paesaggi simili alla Tartarìa273: lo si vede accompagnare con sé il
lettore nella trasparenza delle cose minime che incontra, e poi in Narratori delle pianure
il narratore si limita a trascrivere storie altrui, a gettare con forza sulla pagina scritta il
parlato dei margini, per dire a noi, lettori delle sue storie marginali, che potremmo
ritornare a fare lo stesso nel mondo. In Celati l‟oralità torna in gioco, le tracce ritrovano
la funzione che fu loro originaria di fonti di storie: forse si potrebbe pure dire che,
avendo visto gli altri narratori trovare nell‟insignificante la materia più propria dello
scrivere, Celati abbia provato a fare lo stesso, nel medesimo paesaggio di quei
dimenticati cantastorie. Se però la lettura di questi due libri dev‟essere fatta per chiarire
in un certo modo il movimento del fabulatore ne Le città invisibili, ci s‟inoltra prima di
tutto nello spazio dove le tracce riposano e solo successivamente si vedrà come da

272
Cfr. R. West, Lo spazio nei Narratori delle pianure, in “Nuova corrente”, XXXIII, 97, gennaio-giugno
1986, p. 69. La West sottolinea qui “due punti importanti relativi alla configurazione dello spazio nei
Narratori delle pianure. Anzitutto, il riempimento di uno spazio vuoto, riempimento che avviene in vario
modo nel corso del testo; in secondo luogo, il movimento nello spazio, che è un principio strutturale su cui
poggia gran parte del significato del libro”.
273
Nel film-documentario Sul 45° parallelo (1997), di Davide Ferrario, Gianni Celati associa il paesaggio
di Verso la foce con la Tartarìa, l‟impero di Angricane, traccia una linea che collega la pianura tartara al
paesaggio pianeggiante, attraversato nel suo peregrinare vagabondo. Il viaggio di Marco Polo flâneur
sulla superficie del Gran Kan non è altro dalla deambulazione del vagabondo di Verso la foce fino alle
terre dimenticate del Polesine. La trascrizione delle parole di Celati rende meglio di ogni altra spiegazione
cosa si intende qui dire: “Siccome i miei genitori sono ferraresi, io ho sempre avuto voglia di andare in
Mongolia. Si chiamava allora la Tartarìa. Il re della Mongolia era Angricane, l‟imperatore di tutta la
tartaria. La Mongolia è così lontana e a me fa sempre venire in mente, nei nostri poemi cavallereschi
quando c‟erano questi cavalieri che partivano a cavallo e dopo erano subito in Mongolia […] e l‟Asia è
proprio il mondo dell‟immaginazione massima. Però è sempre il problema del lontano e del vicino che
viene fuori in queste storie […] come il lontano è sorprendente quando te lo trovi lì. La mia idea è che
Boiardo era lassù sulla sua Rocca di Scandiano e guardando sotto la Rocca vedeva i Tartari, i mongoli
[…] Quando sei disperato la geografia scompare. È come se si riproponessero poi sempre le stesse storie
[…] Boiardo ripropone la storia di Marco Polo, che è sempre la stessa cosa, che si va per di là e si arriva
in Oriente, quella che si chiamava la Tartarìa, il regno della grande Tartarìa”. Il film Sul 45° parallelo
corrisponde in immagini, con lo sguardo lanciato al residuo di pianura, al testo di Celati; e permette
inoltre di collegare chiaramente, attraverso la citazione che Celati fa del Boiardo, il Marco Polo
calviniano e la sua flânerie tra residui con quella dello scrittore emiliano. Lo spazio è il medesimo,
pianoro cosparso di oggetti, personaggi e racconti marginali. Il momento di disperazione iniziale è ben
indicato da Celati come movente del viaggio di Marco, che va nel lontano-vicino. La geografia, cioè la
scrittura come tentativo di amministrazione teorico del terreno scompare quando si è disperati, e si inizia
a vagare e basta. Proprio la disperazione d‟esordio del Gran Kan fa sì che Marco Polo si metta in viaggio
e sia subito là, in Oriente, ma in un là che è già qui, in ogni residuo così vicino eppur così lontano: cosa
invecchiata e per questo rivoluzionaria. Questo fa il Gran Kan grazie a Marco Polo fabulatore, si fa
trasportare laggiù. Il 45° parallelo collega l‟impero dei tartari allo spazio attraversato seguendo il Po, da
Celati. Celati è il Marco Polo di Calvino, quello che cammina. È lo stesso Celati a suggerire qui una
lettura archeologica non solo del suo testo, ma, nascostamente, de Le città invisibili di Italo Calvino.

137
queste la narrazione ritornerebbe ai propri albori. È ancora possibile ciò che avviene in
Eufemia? Verrà poi il momento di vedere, nel prossimo capitolo, quale storia potrà
raccontare il lettore da quel paesaggio, intorno a un tavolo di trattoria.
Per inoltrarsi nel paesaggio, senza fargli violenza volendo dominare con uno
sguardo predisposto storicamente le sue cose, bisogna fare come il viaggiatore a Ipazia:
liberarsi dalle immagini che fino a questo momento hanno annunciato le cose che si
cercano. Qui le cose non si cercano affatto: poiché non si va da nessuna parte, si trovano
piuttosto affioranti dalla superficie e sorprendenti nel loro anacronismo. Il senso di
molte città invisibili è proprio questo: ci s‟aspetterebbe il contrario di ciò che s‟incontra.
L‟errore sarebbe quello di spiegare la traccia riportandola all‟interno di un flusso
temporale e progressivo determinato: mentre quella cosa è lì è basta; tutto il senso è
prodotto sulla pagina274. E per ciò stesso è rivoluzionaria: fuori luogo, si stacca da tutto,
apre un diverso paesaggio intorno a sé, sovverte lo spazio che ha intorno. Dietro il
residuo non c‟è nulla: si pone così, senza referente; chi l‟incontra per riempirla potrebbe
soltanto distenderla a terra insieme ad altre, iniziare a raccontare275. Perciò si guardi il
fabulatore come si muove tra le tracce in pianura. Man mano si accosteranno passi
celatiani con pezzi tratti da Le città invisibili, per mostrare la ricchezza dello spazio
vuoto, dell‟aprico, della casella vuota come legno intarsiato che racchiude in sé, nelle
tracce, il nodo per la prossima narrazione: quella del lettore (di tracce, di libri e cose).
È nella narrazione orale che si prende un respiro di sollievo; è lì che il “misero
buco di mosche”, la “fuliggine”, lo “stridere delle ruote” di Olivia diventa uno spazio
dove s‟ode “delle botteghe di sellai odorose di cuoio, delle donne che cicalano
intrecciando tappeti di rafia, dei canali pensili le cui cascate muovono le pale dei mulini
[…] di dame che navigano cantando la notte su canoe illuminate tra le rive d‟un verde
estuario”276. Il narratore ricordando le tracce incontrate nel suo girovagare inizia a
raccontare del suo itinerario. Il fabulatore cioè, nel suo movimento di spazializzazione
274
Cfr. M. Boselli, Finzioni di superficie, in “Nuova corrente”, XXXIII, 97, gennaio-giugno 1986, p. 82:
“In Narratori delle pianure questo ruolo della scrittura è messo bene in evidenza. Ogni cosa, fatto, figura,
ambiente assume l‟aspetto di apparenza e di finzione e come tale è registrato. La ricerca è volta a fare del
senso […] un prodotto. [..] Il lettore non tarda ad accorgersi che i racconti appaiono, appunto, prodotti
dalla stessa uniforme superficie nella quale si svolgono […] Sono simili a piante nate spontaneamente su
un territorio di cui si conoscono soltanto le apparenze”.
275
Cfr. W. Benjamin, Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, cit., p. 250: “Il narratore è persona di
«consiglio» per chi lo ascolta. […]«Consiglio», infatti, è meno la risposta a una domanda che la proposta
relativa alla continuazione di una storia (che è in atto di svolgersi). Per riceverlo, bisogna anzitutto saperla
raccontare”.
276
I. Calvino, Le città invisibili, cit., pp. 67-68.

138
delle tracce, le raccoglie, poiché sa che questo è il primo passo per iniziare a raccontare.
Il senso delle tracce rintracciate è tutto sulla pagina; per ripercorrerle è necessario farsi
cantastorie. Vediamo il narratore far questo, poi mettersi da parte, lasciando che siano
altre voci a raccontare, per dire a tutti che lo spazio vuoto della casella è necessario per
respirare dentro il libro, specchiarsi e, capovolgendosi sul fuori, farsi lettori attivi,
scrittori.
Il dialogo tra i testi ha inizio. Si legge di Aglaura: “A certe ore, in certi scorci di
strade, vedi aprirtisi davanti il sospetto di qualcosa d‟inconfondibile, di raro, magari di
magnifico”277. Al fabulatore Marco Polo mancano le parole per dire cosa sia quel che
così vede, c‟è un‟Aglaura che si dice, la quale costringe a dire sempre le stesse parole, a
ridire, e quindi a perdere il ricordo di quello scorcio felice. Celati ha invece l‟ardire di
dire quel che vede, così com‟è: “Un velo di nebbia appena percepibile nelle
campagne”278.
Poi Fillide, che è ricettacolo delle infinitesimali tracce di senso, lo sguardo su di
essa continua a percorrerla e a scoprirvi cose invecchiate e fuori luogo; così si cerca il
residuo per l‟effetto di straniamento che ha su chi lo guarda:

Fillide […] in ogni suo punto offre sorprese alla vista: un cespo di capperi che sporge dalle mura della
fortezza, le statue di tre regine su una mensola, una cupola a cipolla con tre cipolline infilzate sulla guglia.
«Felice chi ha ogni giorno Fillide sotto gli occhi e non finisce mai di vedere le cose che contiene». […]
Fillide è uno spazio in cui si tracciano percorsi tra punti sospesi nel vuoto. […] I tuoi passi rincorrono ciò
che non si trova fuori degli occhi ma dentro, sepolto e cancellato. […] Milioni d‟occhi s‟alzano su finestre
ponti capperi ed è come scorressero su una pagina bianca. Molte sono le città come Fillide che si
sottraggono agli sguardi tranne che se le cogli di sorpresa279.

Il diverso è una nozione spaziale, spiega Celati, si trova “in quegli spazi emarginati o
semplicemente ignorati dalla memoria-tradizione”: “negli angoli di strada, nei ripostigli
ignorati dalla memoria temporale”280. Lo sguardo di Celati e del fabulatore è attento a
ciò che è già fuori dalla città, al margine di ogni tassello, mentre “la città è la forma
visibile dalla storia”281. Per questo il narratore di Verso la foce si muove in periferia, in
piccoli paesi, in zone dimenticate: è come se s‟inoltrasse attraverso quegli spazi
concessi dal fabulatore Marco Polo per mostrarne l‟ampiezza: dà vita all‟aprico, lascia

277
Ibid., p. 73.
278
G. Celati, Verso la foce, Feltrinelli, Milano 1992, p. 13.
279
I. Calvino, Le città invisibili, cit., pp. 97-98.
280
G. Celati, Il bazar archeologico, cit., p. 217.
281
Ibidem.

139
che prenda spazio nel deserto opaco mondo. Se ne Le città invisibili gli scorci sono rari,
come in Clarice dove “i frantumi del primo splendore che si erano salvati adattandosi a
bisogne più oscure venivano nuovamente spostati, eccoli custoditi sotto campane di
vetro, chiusi in bacheche, posati su cuscini di velluto […] perché attraverso di loro si
sarebbe voluto ricomporre una città di cui nessuno sapeva più nulla”282, tutta la
narrazione di Celati si inoltra invece tra questi spazi o oggetti marginali del mondo. A
Pieve San Giacomo il narratore tocca con così tanta forza il senso d‟estraneità – al
vedere in un giardino un carretto siciliano, delle oche di gesso nel prato, una statua della
Madonna nascosta da un cespuglio di magnolie – da dover scappare. La rovina residuale
si mostra:

Verso Isola Pescarola. Sotto l‟argine comprensorio una grande corte abbandonata, porte spalancate con
battenti che cadono, muri screpolati, piante selvatiche cresciute ovunque283.

Che sia l‟aprico ciò che il narratore va attraversando è evidente più sotto quando alcune
parole fanno tornare alla mente il Calvino di Dall’opaco che diceva degli effetti dei
raggi del sole sulla superficie: “L‟alto e il basso, l‟est e l‟ovest, il largo e lo stretto, e
molte altre cose svaniscono sulla superficie dell‟acqua, dove sparsi raggi di sole portano
un brillio che mi dà lievi stralunamenti”284. Celati vaga nello spazio aperto285 eterotopico
dove il margine cresce sconosciuto ed emerge dai percorsi conosciuti, dove s‟incontra
l‟altro, ciò che non ci appartiene, e dove sempre nuovamente spuntano strade differenti,
diramazioni, alternative ai percorsi della storia. Celati va, cammina, e s‟imbatte
nell‟altrove intrinsecamente rivoluzionario286. Lo scrittore di Ferrara si muove nel vuoto
e ne rinviene le tracce, dà spazio al nulla perché sia tracciato, ricompone i residui
distendendoli in serie e narra. C‟è un momento dove il senso si legge tutto, in poche
righe, il senso del viaggio e della fabulazione. Qui la narrazione come esplorazione

282
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 113.
283
G. Celati, Verso la foce, cit., p. 33.
284
Ibid., p. 42.
285
Cfr. R. West, Lo spazio nei Narratori delle pianure, cit., p. 70: “La parola «pianure» che compare nel
titolo evoca, non diversamente dalla mappa, uno spazio aperto, vuoto. Spoglio e piatto, tale spazio è «un
mondo semplificato» che i racconti riempiono, tanto fisicamente quanto concettualmente, coi profili di
diversi personaggi ed eventi”.
286
Cfr. L. Gabellone, Quello che sta fermo, quello che cammina, cit., p. 29: “Visto così, il camminare non
sembrava più diretto da nessuna parte, ma piuttosto attento alla scoperta di ciò che sta accanto. Infatti solo
da questo il passo traeva la forza”.

140
della superficie, raccolta di tracce che saranno i lettori a distendere ulteriormente e
riempire287, è tutta sulla pagina288:

Il paese si stende attorno alla meravigliosa piazza rettangolare, non umiliata dal cemento e dal nuovo. La
prospettiva delimitata in fondo da due colonne a ridosso dell‟argine, imbuto d‟una strada silenziosa con
belle case antiche, porta l‟occhio verso l‟aperto. Là in fondo l‟aperto si presenta dietro un orizzonte,
facendo sentire l‟indistinta lontananza che dà un senso alla nostra collocazione spaziale. Piazza quasi
sempre vuota, dove il vuoto si riconosce come l‟accogliente, e noi accolti potevamo accorgerci degli altri
accolti di passaggio289.

Ma l‟osservazione di questa superficie piatta, aperta, di questo spazio piano, nastro di


Möbius, ma anche scacchiera, rimanda sempre all‟uscita da sé che è uscita dal testo e
dal mondo, rimanda a Bauci, che non è città utopica cui il viaggio tende, ma città che
spinge fuori dalle righe e fuori dalla superficie della pagina, città che rimanda al lettore
lassù tra le nuvole, alla città che poggia su palafitte, all‟albero della serie più alto. Il
vuoto accoglie per scagliare fuori:

Nella pianura strade a scacchiera si intersecano tutte dritte per trenta o quaranta chilometri, sentieri su e
giù dagli argini dei canali che costeggiamo, ed è sempre come essere in una piega della terra. Zone così
piatte e uniformi che tutto compare ad altezza d‟occhi senza orizzonte, si sente nostalgia d‟un punto un
po‟ sopraelevato per guardarsi attorno290.

La Irene di Calvino abita questo spazio aperto, è la città che, frantumata e sparpagliata
in ogni città invisibile, ne è il vuoto291. Per questo Irene è una delle città con più tracce;
le frammenta in giro intorno a sé, Irene è parte di ogni città invisibile, ne è il lato rivolto
all‟aprico: “Irene è la città che si vede a sporgersi dal ciglio dell‟altipiano nell‟ora che le
luci si accendono e per l‟aria limpida si distingue laggiù in fondo la rosa dell‟abitato.
[…] I viaggiatori dell‟altipiano, i pastori che trasumano gli armenti, gli uccellatori che
sorvegliano le reti, gli eremiti che colgono radicchi, tutti guardano in basso e parlano di

287
Cfr. M. Boselli, Finzioni di superficie, cit., p. 82: “L‟orientamento è diretto verso il non-finito per cui
l‟eventuale lieto fine non è che una ipotesi per genesi successive e lascia illimitati spazi vuoti per ulteriori
finzioni”.
288
Cfr. R. West, Lo spazio nei Narratori delle pianure, cit., p. 67: “Se la mappa è ridotta al minimo, non
meno lo è la prosa dei racconti. Entrambe sono spazi aperti che rifiutano ogni elemento decorativo. […]
Tanto il narratore quanto il lettore, lungi dall‟accettare passivamente le immagini (cioè le interpretazioni)
fornite dalle tradizionali «rappresentazioni» cartografiche, narrative, etc., devono riempire quegli spazi
mediante uno sforzo dell‟immaginazione che vada al di là del vuoto della mappa”.
289
G. Celati, Verso la foce, cit., p. 46.
290
Ibid., p. 54.
291
Cfr. G. Patrizi, Il significato del grigio. Calvino e le forme del saggio, cit., p. 307: “Solo fissando
l‟analisi o l‟immaginazione sula figura singola, sull‟immagine frammentaria è possibile, per analogia o
per successiva giustapposizione, acquisire il sapere di spazi più larghi, di testi più ampi”.

141
Irene. […] Kublai Kan s‟aspetta che Marco parli d‟Irene com‟è vista da dentro. E Marco
non può farlo: quale sia la città che quelli dell‟altipiano chiamano Irene non è riuscito a
saperlo. […] Irene è un nome di città da lontano. […] Forse di Irene ho già parlato sotto
altri nomi; forse non ho parlato che di Irene”292. L‟aprico assoluto è irraggiungibile, non
esiste, o forse esiste soltanto se visto da lontano. Guardando da lontano si vede prima di
ogni cosa “una grande apertura nello spazio là fuori, il vuoto che accoglie tutte le cose:
solo in un secondo tempo l‟apertura si restringe per fissarmi su qualcosa che manda un
richiamo. […] Noi siamo guidati da ciò che ci chiama e capiamo solo quello; lo spazio
che accoglie le cose non possiamo capirlo se non confusamente”293. Irene è la città dei
lettori, delle tracce raccolte perché siano distese e fonte inesauribile di narrazioni. Sono
innumerevoli le occhiate lanciate ai residui, in ogni riga l‟occhio si ferma sull‟inatteso
incontro294: campagne vuote, case diroccate, camion, cani che abbaiano, “vetrinette con
pasta e patate, bambole e profumi, scatole di giochi con pupazzi di plastica”295, e poi
ancora, magazzini di grano, un uomo su un biroccio trainato da un cavallo, bimbi che
giocano con un cerchio, gente in bici, “macchine arrugginite e senza ruote in mezzo ai
campi”296, capannoni industriali, uomini che giocano a carte in un bar di Sermide. Il
catalogo di residui affioranti dalla pianura, “le apparenze là fuori vengono avanti
sempre diverse e formano i momenti, e i momenti sono ciò in cui gli esseri si
raccolgono”297. Celati si fa guidare da uno “sguardo su ciò che svanisce”298 e che vede
“aggregati di case in cemento con l‟aria di essere appena sorte e subito abbandonate,
fattorie dove non si riconoscono forme di vita, cave di sabbia anch‟esse deserte, recinti
di roulottes in mezzo ai prati, tralicci dell‟alta tensione con fili che pendono su
lunghissime distanze. Il vuoto è riempito da nomi di località inesistenti, non luoghi ma
solo nomi messi sui cartelli stradali da qualche amministrazione dello spazio esterno” 299.
Il nome come parte del discorso che non ha referente è soltanto una traccia che la
scrittura, nel suo tentativo di amministrazione del terreno di gioco, ha posto in qualche
292
I. Calvino, Le città invisibili, cit., pp. 131-132.
293
G. Celati, Verso la foce, cit., p. 54-55.
294
Cfr. M. Boselli, Finzioni di superficie, cit., p. 83: “Lo svolgimento del racconto, il metodo per cui gli
oggetti sembrano lanciati a caso sul piatto deserto e sono visti con la neutralità descrittiva di chi li
considera pure finzioni, dà ad essi aspetti simili a quelli di una scoperta archeologica. Ciò che abbiamo
chiamato archeologia del presente non contiene, infatti, che reperti”.
295
G. Celati, Verso la foce, cit., p. 54.
296
Ibid., p. 67.
297
Ibid., p. 74.
298
Ibid., p. 78.
299
Ibid., p. 81.

142
parte del libro, nome dato alle impossibili città immaginarie, perché sia un qualche
fabulatore esterno a distenderle e riempirle, poiché il vuoto, da un nome di città
inesistente, è soltanto esteso ulteriormente. È uno spazio in cui Celati si muove, sapendo
che il nome non dice niente se non se stesso. Da questo svanire di tracce che va incontro
a Celati nascono i racconti. Cercare di concettualizzare questo rinvenimento di residui le
priverebbe della loro apparenza di tracce che semplicemente trascorrono appena
s‟alzano gli occhi. Da esse si può narrare, ma di esse non si può dire nulla di più di quel
che si vede in superficie. Il flâneur si aggira e non va, incontra risaie, campi, furgoncini
e ha la sensazione di trovarsi “in una qualche provincia esterna”, avverte il “richiamo
dello spazio aperto” che “viene da tutto ciò che appare, cresce o spunta là fuori”300: il
paesaggio della bonifica è osservato nella sua continua ripetizione giorno dopo giorno,
spettacolo che non si vede, che non fa spettacolo301; i pescatori accendono le lampade a
petrolio, nei pressi dello zuccherificio in rovina rifiuti scaricati, ci si muove
immaginando ciò che c‟è fuori:

Anche l‟immaginazione fa parte del paesaggio: lei ci mette in stato d‟amore per qualcosa là fuori, ma più
spesso è lei che ci mette in difesa con troppe paure; senza di lei non potremmo fare un solo passo, ma lei
porta sempre non si sa dove. Ineliminabile dea che guida ogni sguardo, figura d‟orizzonte, così sia302.

Le tracce sorprendono, non te le aspetti sul cammino. Ti cambiano lo sguardo, fanno


quasi paura. Si devono leggere per raccontare del non luogo dove sono spalmate.

Le cose sono là che navigano nella luce, escono dal vuoto per aver luogo ai nostri occhi. Noi siamo
implicati nel loro apparire e scomparire, quasi che fossimo qui proprio per questo. Il mondo esterno ha
bisogno che lo osserviamo e raccontiamo, per avere esistenza303.

Ogni detrito intravisto sul terreno pare tendere alla deriva verso il mare, aprirsi alla foce,
lì dove ogni apparizione se ne va, scompare, e ritorna ad essere residuo invisibile. Lo
sguardo rintraccia le cose e le porta a sé riconoscendone l‟estraneità e per questo
orientandosi grazie ad esse, ascolta cos‟hanno da raccontare. Le apparenze disperse nel

300
Ibid., p. 92.
301
Cfr. M. Boselli, Finzioni di superficie, cit., p. 82: “Nel recente libro di Celati è leggibile una coesione
che, a tutta prima, può sembrare costituita di elementi eterogenei: alla limpida levità della scrittura (al
«sollievo» che dà), alla trasparenza dei rapporti fra eventi, finzioni e linguaggio, si accompagna la
percezione di un mondo immerso nello squallore dei dettagli quotidiani”.
302
G. Celati, Verso la foce, cit., p. 103.
303
Ibid., p. 126.

143
vuoto sono ricucibili mediante i racconti che si creano organizzandole, e con cui danno
sollievo. A Bersabea le cose buttate via risplendono allo zenit, e danno vita alla città
celeste dove “un pianeta sventolante di scorze di patata, ombrelli sfondati, calze smesse,
sfavillanti cocci di vetro, bottoni perduti, carte di cioccolatini, lastricato di biglietti del
tram […] gusci d‟uovo”304 come, in Celati, “una serie di baracche in lamiera piene di
reti e tramagli, tra carrozzerie di macchine sfasciate, pezzi di copertone, barche tirate a
secco e mucchi di cannella palustre è”305, “sacchetti di plastica, bottiglie, lattine, pezzi di
mobili buttati via; un‟estensione grandissima di rifiuti”306 sono apparenze con un
andamento ininterrotto che non porta da nessuna parte, cui si può soltanto abbandonarsi
generosamente e chiamarle a sé, perché restino qui fino all‟ultimo, apparenze di cui
l‟intelligenza non deve spiegare le ragioni, reperti senza uso. Le tracce sono raccolte a
testimonianza della loro frammentarietà non derivabile da una totalità307. Sola guida
dello sguardo è la passione per l‟oggetto308. Gli oggetti inclassificabili sono interrogati e
ascoltati nel loro silenzio; il paesaggio aspetta il girovago nella sua povertà
d‟esperienza. Nel suo girovagare capita al flâneur d‟incontrare tracce di persone d‟altri
tempi, pescatori di carpe e anguille, ragazzi coi giubbetti di cuoio, un uomo appena
uscito da un manicomio, bambini che giocano con sacchi di nylon, battellieri, una
vecchia ingobbita che raccoglie erba, uno sdentato sorridente, un uomo con la maglia a
righe e una sola bretella, un pastore con l‟impermeabile giallo, guidatori di corriera,
venditrici di patate pesche e cocomeri, donne al cimitero, “gli uomini in canottiera e
calzoni corti e sandali, le donne tutte vestite a fiori”309, “una bambina minuscola, con un
grosso cerotto in fronte”310, un vecchio che guarda a terra, seduto su una sedia sotto un
albero311, presenze come di uomini morti e scomparsi312 che ricordano gli incontri fatti

304
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 118.
305
G. Celati, Verso la foce, cit., p. 132.
306
Ibid., p. 110.
307
Cfr. L. Gabellone, Quello che sta fermo, quello che cammina. Apologo, per Gianni Celati, cit., p. 30:
“È solo al cadere del crepuscolo, e poi della sera, che si rende conto che l‟essenziale sta nello svanire, e
che ogni essere sta lì nel mondo per perdersi, insieme con ogni sua parola”.
308
Mario Boselli, riferendosi al “secondo” Celati parla di uno “sguardo che si posa sugli oggetti e si
ferma alla loro esteriorità, evitando con precisione geometrica ogni evasione nel profondo, qualsiasi
spinta anagogica. Il mondo di questi racconti è talmente predisposto per essere solo osservato da non
produrre che immobilità, registrata sul nastro di una lunga sequenza archeologica. Una archeologia di
nuova specie: archeologia del presente”. Cfr. M. Boselli, Finzioni di superficie, cit., p. 83.
309
G. Celati, Verso la foce, cit., p. 132.
310
Ibid., p. 127.
311
Cfr. W. Benjamin, Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, cit., p. 266: “Il grande narratore avrà
sempre le sue radici nel popolo”.

144
da Marco Polo a Adelma dove “per poco che girassi lo sguardo sulla folla che gremiva
quelle straducole, mi vedevo assalito da facce inaspettate, riapparse da lontano, che mi
fissavano come per farsi riconoscere, come per riconoscermi, come se mi avessero
riconosciuto. Forse anch‟io assomigliavo per ognuno di loro a qualcuno che era morto.
Ero appena arrivato ad Adelma e già ero uno di loro, ero passato dalla loro parte,
confuso in quel fluttuare d‟occhi, di rughe, di smorfie”313. Nella contemplazione del
paesaggio desolato e dimenticato Celati s‟immerge nel sentito dire che la voce popolare
gli porta all‟orecchio314, perché ascoltando bene gli altri, “il suono delle voci […] tutte
queste emissioni di fiato che salgono verso il cielo”315 si va dentro il paesaggio, in esso
effusi316. Celati vuole appiattire la lingua in direzione del parlato quotidiano, dar voce ai
senza voce, a chi la storia non considera, perché sono questi ultimi i soli ancora capaci
di scambiare esperienze e portare sollievo. Chiamando a sé la traccia e disponendola in
un viaggio che sia racconto finzionale è forse possibile confondersi nel paesaggio
dell‟aperto. La fabulazione manda fuori di sé, al racconto singolo empirico ed udito, alla
nudità di chi narra senza una morale, senza un finale e senza dire favole esemplari.
L‟itinerario nell‟aprico è un vagabondare al racconto317. Allora il passaggio dalla
scrittura alla fabulazione e da questa alla fabulazione indotta è pure un movimento
assimilabile a quello del geografo che smette di disegnare mappe e schemi e si mette in
cammino nella pianura. C‟è chi ha chiamato “estetica del reincanto”318, quella celatiana:

312
Un curioso accostamento con le persone morte incontrate ad Adelma si può fare leggendo un libro di
Daniele Benati. I protagonisti delle storie di Benati sono, infatti, quasi tutti morti, l‟atmosfera che pervade
questi racconti ricorda quella di Adelma. Cfr. D. Benati, Silenzio in Emilia, Quodilibet, Macerata 2009.
313
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 102.
314
Cfr. L. Gabellone, Quello che sta fermo, quello che cammina. Apologo, per Gianni Celati, cit., pp. 29-
30: “Quelle parole, che non camminavano, erano in attesa dell‟orecchio attento, del ritmo della vita,
segnato dal passo e dal respiro, visibile nell‟aria umida, per svegliarsi. C‟era in esse, e nelle altre parole
che venivano loro incontro, la leggerezza un po‟ disperata di ciò che può essere detto, e che il fuori man
mano fa suo, come i sassi, i greti, i filari di pioppi, gli isolotti di sabbia”.
315
G. Celati, Verso la foce, cit., p. 18.
316
Cfr. cosa dice Celati in occasione del simposio in memoria di Calvino. Cfr. B. Cottafavi e M. Magri (a
cura di), Narratori dell’invisibile, cit., p. 166: “Il testo […] è un esperimento per trovare dei paesaggi, e
per trovare un punto in cui tirare il fiato, un punto in cui non sono soffocato, e anche per trovare una
sintassi.[…] Il mio testo è un tentativo di avviarmi verso l‟effusione. […] L‟effusione è un avviarmi verso
una verità che mi ignora”.
317
Ibid., pp. 166-167. Celati spiega: “Questa strada consiste nella possibilità di prendere contatto con un
luogo che ispira, e l‟apertura della foce costituiva già un richiamo del genere. […] Io credo anche
possibile un sapere muto, un momento in cui l‟ispirazione riesce a rendere ogni discorso muto, facendo sì
che il «dire» non comparabile e non garantito o difeso da spiegazioni venga alla luce”.
318
Cfr. M. Rizzante, Il geografo e il viaggiatore, cit., pp. 33-34.

145
contemplare il paesaggio, effondersi ad esso, ritrovare il sentito dire319 e in questo la
possibile comunicabilità dell‟esperienza vissuta. S‟accetta la verità della presenza così
come appare320, il poco che resta, la miseria dell‟uomo. Nello spaesamento e nella
perdizione i personaggi di Celati sopravvivono solo raccontando321.
“Ascoltare una voce che racconta fa bene, ti toglie dall‟astrattezza di quando stai
in casa credendo di aver capito qualcosa «in generale». Si segue una voce, ed è come
seguire gli argini d‟un fiume dove scorre qualcosa che non può essere capito
astrattamente”322. Anche se, come scriveva Benjamin323, “l‟arte di narrare si avvia al
tramonto. Capita sempre più di rado d‟incontrare persone che sappiano raccontare
qualcosa come si deve” Celati si sforza di rintracciare quei personaggi ancora in grado
di scambiare esperienze di bocca in bocca. Basterà, per concludere questo intermezzo,
riportare qui un passo dalle storie raccolte da Celati e trascritte in Narratori delle
pianure; storia senza lieto fine, senza morale, che si limita a narrare. Narrazione che
sarebbe sbagliato voler spiegare, poiché “è […] già la metà dell‟arte di narrare, lasciare

319
Cfr. W. Benjamin, Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, cit., p. 273: “Nel narratore anche ciò
che ha appreso per sentito dire si assimila a ciò che è più suo”.
320
Cfr. M. Boselli, Finzioni di superficie, cit., p. 84: “Questi personaggi […] Celati li finge abitanti d‟un
paesaggio lunare, che calcano le pianure con la circospezioni d‟esploratori di terre sconosciute. […]
Seguono la sorte degli effetti di superficie: la loro presenza è il loro senso. […] Esseri metamorfizzati,
eventi essi stessi, compiono gesta né vere né false”. Cfr. L. Gabellone, Quello che sta fermo, quello che
cammina. Apologo, per Gianni Celati, cit., p. 30: “Qualunque modo di presenza è lì nella totalità delle
cose e della natura”.
321
Cfr. G. Celati, Finzioni a cui credere, in “Alfabeta”, VI, 59, aprile 1984, p. 13: “Ci sono mondi di
racconto in ogni punto dello spazio, apparenze che richiedono sempre nuovi racconti”.
322
G. Celati, Verso la foce, cit., p. 33.
323
Benjamin fa risalire il tramonto dell‟arte di narrare, cioè l‟esclusione della narrazione orale dal
quotidiano, a diversi fattori più o meno concomitanti: il venir meno dell‟esperienza viva, delle sue azioni,
per via della guerra mondiale, dell‟inflazione e dei materiali, della logica del potere, la rende
incomunicabile, e genera lo scomparire della saggezza, ovvero del lato epico della verità. Tutto ciò
contribuisce alla nascita del romanzo moderno, dello scrittore isolato che scrive i suoi libri, perché siano
stampati, in disparte, chiudendosi in casa e allontanandosi dall‟esperienza da cui il narrare orale traeva
origine. La borghesia porta alla fioritura del romanzo e con la stampa, che sola lo permette, al dominio
dell‟informazione, che necessita del controllo immediato della sua plausibilità, che rifiuta la storia che
giunge all‟orecchio di lontano. Nell‟informazione conta la spiegazione di un evento e che quell‟evento sia
spiegabile, mentre nel racconto il lettore resta libero di interpretare ciò che legge come vuole. La
narrazione non va nella profondità psicologica dei personaggi, come fanno i romanzi. Il racconto si mette
in giro per essere raccontato nuovamente da chi l‟ha ascoltato. Il narratore, proprio come fa Celati, riporta
nella narrazione alle circostanze in cui gli è capitato d‟udire quella storia, oppure la narra in prima
persona, come se fosse accaduta a lui. La scomparsa dell‟idea della morte dalla quotidiana percezione
umana, per opera della società borghese del diciannovesimo secolo che nasconde i suoi parenti morenti in
ospizi e ospedali e non li lascia più morire in casa, non li lascia più spirare di fronte agli altri e per ciò
stesso non li lascia più essere autorità del loro narrato, non fa più loro raccontare l‟indimenticabile della
loro vita e porta a un nuovo colpo inferto alla narrazione, alla riduzione della comunicabilità
dell‟esperienza.

146
libera una storia, nell‟atto di riprodurla, da ogni sorta di spiegazioni”324. S‟immagini
Gianni Celati intorno ad un fuoco la sera udire questa storia e annotarla. È un racconto
marginale, che se non fosse per lo sguardo dell‟archeologo vagabondo, sarebbe rimasto
inascoltato325. Una storia varrebbe l‟altra e qui se ne sceglie una e un suo particolare
tratto solo poiché si crede che magari renda meglio l‟effetto di straniamento che ogni
traccia mostra326. È il racconto dal titolo Dagli aeroporti:

Da molto tempo ormai non aveva più una lingua propria con cui parlare e scrivere. […] Un giorno s‟era
deciso a tornare nel proprio continente d‟origine, trovandosi a suo agio soprattutto negli aeroporti. […] Il
viottolo non asfaltato e poi un terreno aperto, i campi coltivati, un cimitero di campagna in abbandono
[…] una autostrada che attraversava quelle terre piatte […] cartoni da imballaggio, frammenti di mattoni,
residuati metallici e altri rifiuti. […] Le file d‟alberi in distanza attraverso la nebbia, le file di pioppi
cipressini e gelsi e case su un argine avvolto dalla foschia […] non lo obbligavano a riconoscerle come un
suo mondo di immagini. […] Diceva che, nelle giornate di nebbia, trovandosi piantato su un argine
riusciva a pensare cose che non aveva mai potuto pensare facendo il suo mestiere. La solitudine del suo
corpo in quel punto […] gli consentiva d‟immaginare tutto quanto esisteva là fuori, cose, fenomeni,
popolazioni, come collegate da operazioni finemente intessute dal pensiero, da infinite minuzie, infinite
storie scambiate e non scambiate, che gli sembrava tenessero in piedi una trama ininterrotta nel vuoto
pianeta. […] Tutti i nomi dati dagli uomini alle cose, ai luoghi, alle erbe, ai modi di vivere e di sentire,
tutto ciò che per lui rappresentava la Triste Storia, era nient‟altro che una piccolissima incostanza. […]
Gli accenti e le intonazioni nel parlare, che sentiva nei bar o nei negozi dove andava a far la spesa, adesso
nella sua sordità erano per lui un richiamo: un canto delle situazioni, mutevole secondo le ore e i luoghi e
le persone, che spesso lo faceva indugiare, contento d‟essere con altri ad aspettare che passi il tempo. […]
E avviandosi nelle sue camminate da camminatore solitario, in certe mattine d‟autunno raggiungeva un
punto sopraelevato su quelle terre piatte, dove a volte riusciva a immaginare d‟essere ai confini del
pianeta e di avviarsi verso un momento in cui la sua esperienza si sarebbe fatta silenziosa. Diceva che
lasciando l‟altro continente s‟era sentito a casa sua soprattutto negli aeroporti. Vedendo attraverso un
vetro gli altri passeggeri avviarsi in fila su una pista verso un aereo, ogni volta gli era parso fossero
sfollati che si decidevano ad affrontare il viaggio solo perché da quest‟altra parte del vetro non restava
loro più niente da fare o da dire, come a lui, e come lui già sottomessi al loro destino di viaggiatori o
turisti perpetui327.

Se, come scrive Benjamin, “l‟esperienza che passa di bocca in bocca è la fonte a cui
hanno attinto tutti i narratori, e fra quelli che hanno messo per iscritto le loro storie, i più
grandi sono proprio quelli la cui scrittura si distingue meno dalla voce degli infiniti

324
W. Benjamin, Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, cit., p. 253.
325
Cfr. R. West, Lo spazio nei Narratori delle pianure, cit., p. 70: “I racconti dei Narratori delle pianure
si svolgono in tali spazi ignorati, apparentemente vuoti, e in essi fanno riemergere il diverso, l‟unico e la
sua pienezza”.
326
Cfr. B. Cottafavi e M. Magri (a cura di), Narratori dell’invisibile, cit., p. 167. Durante il simposio
Celati dice: “Ciò che dobbiamo più temere sono le parole ubriache di spiegazioni, e non le parole messe a
nudo che restano mute davanti al loro inspiegabile voler dire”.
327
G. Celati, Narratori delle pianure, cit., pp. 65-70. Su questo racconto si consideri R. West, Lo spazio
nei Narratori delle pianure, cit., p. 71: “I personaggi di Celati percorrono itinerari circolari, ripetitivi, non-
lineari che richiamano alla mente il flâneur di tanta letteratura moderna. Quei personaggi non stanno
necessariamente andando in un posto; semplicemente, stanno andando”.

147
narratori anonimi”328, certo Celati rappresenta un ottimo esempio di narratore: un
flâneur che con grande sforzo, camminando in pianura, ha provato a portare sulla
pagina le storie della sua terra: “L‟arte di narrare storie è sempre quella di saperle
rinararre ad altri”329.

328
W. Benjamin, Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, cit., p. 248.
329
Ibid., p. 255.

148
CAPITOLO 3. LA FUNZIONE: LETTURA COME UTOPIA
DISCONTINUA E FRAMMENTARIA

§3.1 I mondi im-possibili e il lettore

Nella sua forma presente,


non è questo l‟unico mondo possibile.

Paul Klee

Interrogandosi sul perché del gioco si viene per ciò stesso a domandarsi: qual è la
funzione dell‟opera? A che scopo Marco Polo ha narrato esplorando la superficie del
nastro? Una volta che Kublai Kan s‟è fatto lettore, quale effetto su di lui il narratore
vuole provocare?
Nell‟ultimo triangolo de Le città invisibili l‟attenzione si sposta sul lettore, sul
ruolo della lettura; ciò è reso evidente da un passo già citato in parte:

Io parlo parlo, - dice Marco, - ma chi m‟ascolta ritiene solo le parole che aspetta. Altra è la descrizione
del mondo cui tu presti benigno orecchio, altra quella che farà il giro dei capannelli di scaricatori e
gondolieri sulle fondamenta di casa mia il giorno del mio ritorno, altra ancora quella che potrei dettare in
tarda età, se venissi fatto prigioniero da pirati genovesi e messo in ceppi nella stessa cella con uno
scrivano di romanzi d‟avventura. Chi comanda al racconto non è la voce: è l‟orecchio 1.

Il fabulatore dichiara al lettore la sua libertà di muoversi nello spazio del testo tracciato
in precedenza2, anzi, dichiara la propria morte come autore3: s‟è limitato a esplorare lo
spazio eterotopico-utopico della scacchiera-nastro, ma proprio nel momento della
vittoria ha indicato al lettore il suo compito: riempire gli spazi vuoti, scrivere a sua

1
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 143.
2
Cfr. C. Calligaris, Italo Calvino, cit., p. 104: “Il testo si definisce qui nel rapporto che intrattiene col
lettore e quest‟ultimo è sempre solo un lettore tra gli infiniti possibili”.
3
Cfr. I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., p. 1107. A Paolo Valesio il 9 luglio 1971 Calvino scrive: “Un
testo deve potersi leggere e giudicare a prescindere dall‟esistenza o meno di una persona con il nome e il
cognome che è scritto in copertina”.

149
volta. Cosa significhi tutto ciò non può essere chiaro finché non si dia uno sguardo a
quello che Calvino ribadisce più volte a proposito dell‟autore dell‟opera: “Il metodo
migliore è considerare l‟autore come un defunto, o come persona la cui identità è solo
presunta, e le sue opere come dei reperti archeologici”4 e ancora, “l‟autore vivente io
credo che non possa mai essere preso in considerazione: per poterlo studiare bisogna
che sia morto, cioè – se è vivo – bisogna ucciderlo. […] Del resto già l‟esistenza
dell‟opera è segno che l‟autore è morto, felicemente morto se l‟opera è valida; l‟opera è
la negazione dell‟autore come essere vivente empirico”5. Thomas Pavel scrive:

Per mostrare che l‟immagine cartesiana del parlante ben individualizzato, pienamente in controllo della
propria voce, è inadeguata a trattare della produzione di fiction letteraria basta forse pensare alla
complessità e all‟elusività della voce originaria nel discorso letterario. Lo scrittore inteso come individuo,
la voce dell‟autore, il narratore (affidabile o meno), le voci dei personaggi (distinte una dall‟altra o più o
meno omogeneizzate): tutti impediscono di sostenere che la fiction possieda un‟origine ben
individuabile6.

In Cibernetica e fantasmi lo scrittore ligure spiega questo stesso meccanismo, per dire
dell‟io dell‟autore che pian piano scompare nel testo: “La persona io, esplicita o
implicita, si frammenta in figure diverse, in un io che sta scrivendo e in un io che è
scritto, in un io empirico che sta alle spalle dell‟io che sta scrivendo e in un io mitico
che fa da modello all‟io che è scritto”7. L‟autore pare immedesimarsi in un parlante o
scrittore d‟invenzione, parte del mondo immaginario del libro, e in questa veste presenta
all‟io d‟invenzione del lettore – di cui si parlerà sotto – enti e stati di cose d‟invenzione.
L‟autore di ciascun libro è un personaggio fittizio inventato dall‟autore empirico per
farne l‟autore delle sue finzioni.
In una lettera che Italo Calvino scrive a Gianni Celati e Carlo Ginzburg il 29
dicembre 1968 da Parigi si viene a conoscenza del fatto che il primo numero della
rivista progettata dagli intellettuali doveva riguardare la lettura8. Lo stesso Calvino, in
un‟altra missiva, questa volta del 31 gennaio 1978 a Guido Neri, riferendosi all‟iper-
romanzo dal titolo Incipit – che diventerà poi Se una notte d’inverno un viaggiatore – a
cui sta lavorando, scrive: “Ci sarà di mezzo anche le riflessioni sulla lettura che

4
Ibid., p. 1142.
5
Ibid., p. 1107.
6
T. G. Pavel, Mondi di invenzione, Einaudi, Torino 1992, p. 36.
7
I. Calvino, Cibernetica e fantasmi, cit., p. 215.
8
Cfr. I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., p. 1021: “La mia idea è che il nostro primo numero dovrebbe
essere quello che avevamo segnato come 3°, cioè quello sulla lettura”.

150
facevamo dieci anni fa con te e Gianni. […] Recentemente mi sono tornati sott‟occhio i
materiali delle nostre discussioni del 68-69 con te e Gianni e pensavo che è stato proprio
un delitto non fare allora quella rivista”9. C‟è, quindi, una stretta relazione tra le
riflessioni sulla lettura svolte nel 68-72 e il modo in cui sono state rielaborate nel testo
narrativo del 1979.
Ritornando ai materiali pubblicati nel 1998 contenenti i protocolli delle
discussioni che avevano per protagonisti Celati e Calvino si viene a conoscenza del fatto
che “l‟analisi della lettura e delle convenzioni di lettura è perciò l‟unico modo per dir
qualcosa sulla funzione”10. Per chiarire la finalità della strategia, cioè per comprendere
quale sia la funzione dell‟opera Le città invisibili, afferrando il senso del fine della
strategia funzionale da essa messa in atto, bisogna tener presente quanto segue: se nelle
cornici s‟è assistito a una fabulazione che era esplorazione del terreno di gioco, cioè
gioco vero e proprio messo in atto dal fabulatore, che coinvolgeva anche Kublai lettore,
si ricordi che la funzione nel gioco degli scacchi è l‟alterazione di un equilibrio di
partenza tra lettore e autore, tra i due avversari. “L‟effetto è funzione della costruzione
del testo, ma la sua natura emerge solo dalla spartizione di significato che avviene tra
lettore e autore”11. Proprio per questo, eliminato l‟autore e visto fino a che punto il suo
essere fabulatore creava uno spazio per la lettura, per verificare l‟effetto bisogna
concentrarsi sul lettore12. In altri termini qual è la funzione de Le città invisibili? Che
effetto ha questo testo sul lettore? Immediatamente, questo approfondimento del ruolo
della lettura nell‟opera di Calvino porterà lo studio più vicino alla comprensione
dell‟utopia discontinua e immanente auspicata da Calvino.
In Cibernetica e fantasmi Calvino già dichiarò che il problema più arduo della
narrativa contemporanea è quello del rapporto di chi narra con il lettore. La questione
centrale della funzione dell‟opera letteraria è quella di fornire un linguaggio
supplementare che sia insieme corporeo e simbolico. Qui perciò s‟intende chiarire il
ruolo che Calvino attribuisce alla lettura nel corso del tempo e vedere a che punto

9
Ibid., pp. 1359-1360.
10
I. Calvino, G. Celati, G. Neri, Protocollo d’una riunione tenuta a Bologna nel dicembre 1968, cit., p.
64.
11
Ibidem.
12
Per una rassegna accurata sui “personaggi lettori” nella narrativa di Calvino, cfr. G. C. Ferretti, Le
avventure del lettore, Manni, Lecce 1997.

151
arriva. Già nel dicembre del 1960 lo scrittore sanremese, in una lettera a François Wahl
diceva:

Quello cui io tendo, l‟unica cosa che vorrei poter insegnare è un modo di guardare, cioè di essere in
mezzo al mondo. In fondo la letteratura non può insegnare altro13.

Qui è già contenuto in nuce il segreto di quella che Calvino definirà utopia
discontinua e immanente, con una grossa differenza che però si presenta man mano che
l‟intellettuale ligure matura. Il ruolo attivo dello scrittore è sempre più messo da parte a
favore della collaborazione di un lettore a cui non si può indicare una strada unica che
tenda ad un qualche punto d‟agnizione14. Calvino vorrebbe instaurare un rapporto con il
lettore appoggiato sulla reciproca soddisfazione, intenderebbe cioè fare in modo che
l‟opera letteraria sia la chiave per la “partecipazione a un lavoro comune”15. Già
parlando del lavoro sul contesto che gli intellettuali riuniti a Bologna auspicavano, si
disse del fatto che il compito dello scrittore dovrebbe essere quello di postulare, per così
dire, presupporre un lettore ancora non esistente e di conseguenza auspicarsi un
cambiamento nel lettore contemporaneo. Ci si chiede qui cosa comporti e come si attui
la messa in discussione della scala dei valori e dei significati stabiliti. Cosa vuol dire
scrivere per un supposto lettore più colto? In un saggio del 1976 dal titolo Usi politici
giusti e sbagliati della letteratura Calvino scrive:

Ma c‟è anche, io credo, un altro tipo d‟influenza, non so se più diretta ma certo più intenzionale da parte
della letteratura, cioè la capacità d‟imporre modelli di linguaggio, di visione, d‟immaginazione, di lavoro
mentale, di correlazione di fatti, insomma la creazione (e per creazione intendo organizzazione e scelta) di
quel genere di modelli-valori che sono al tempo stesso estetici ed etici, essenziali in ogni progetto
d‟azione, specialmente nella vita politica16.

Se la realtà è deserto, labirinto e silenzio, se il mondo è un caos in sfacelo e se, come s‟è
visto, né Faria né Dantès riuscivano a fuggire dalla prigione per via del silenzio, così
come la saturazione completa del testo e la privazione della libertà del lettore ne Il
castello dei destini incrociati impediva di trovare una via d‟uscita, mentre ne La taverna

13
I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., p. 669.
14
Cfr. R. Donnarumma, Da lontano. Calvino, la semiologia, lo strutturalismo, cit., p. 117: “Nel suo polo
utopico, negare l‟io di chi scrive significa aprire la scrittura alla collaborazione del lettore e, dunque, farne
un esercizio democratico”.
15
I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., p. 1003.
16
I. Calvino, Usi politici giusti e sbagliati della letteratura, cit., p. 359.

152
dei destini incrociati il punto di fuga era individuato nella casella vuota all‟interno del
disordine, ci si chiede qui, dov‟è la via d‟uscita dal testo, sul lettore ne Le città
invisibili? Qual è l‟effetto auspicato di quest‟opera? Dove sta la sua forza politica?
Calvino confessa di credere in un qualche tipo d‟educazione, difficile ed indiretta, per
mezzo della letteratura17, il cui effetto è raggiungibile solo attraverso il rigore letterario.
“Bisogna scrivere testi che si possano leggere dalla prima all‟ultima parola. Tali cioè
che la loro costruzione formale sia astuta e ingegnosa e al tempo stesso orientata
sull‟asse di un vettore che punta su qualcosa che è fuori dall‟opera”18. In quello che lo
scrittore dà alla luce è implicito un progetto di pubblico, cioè il successo dell‟opera
starebbe nell‟enucleare una società di lettori distinta dalla società quale essa è. In questo
senso chi scrive vuole operare sul contesto a partire dal contesto. Il nastro di Möbius su
cui è proiettata l‟opera del 1972 fa intuire la funzione che quel testo ha.
Dall‟esplorazione del rettangolo centrale che il fabulatore fa, si mette in moto un
movimento nello stesso lettore, lì rappresentato da Kublai Kan. A partire dalla casella
vuota che si trova al centro della scacchiera il lettore prova a sua volta a narrare19.
Raccontare vorrebbe dire qui rintracciare e distendere in un nuovo testo le tracce di
aprico sparse per il libro. Se la rivoluzione antiautoritaria deve esplodere dal di dentro,
se l‟analisi critica che mette in moto Calvino è quella che ripiegandosi nel testo,
esplorando il «dentro» del testo riesce proprio per questo ad aprire sul «fuori» dei colpi
d‟occhio inattesi, ci si chiede qui, come il libro del 1972 rende possibile tutto ciò, dove
sta la sua forza? Dov‟è questo dentro che dovrebbe cambiare il modo di guardare il
fuori?
Ci sono due modi in cui Le città invisibili operano sul lettore. Da una parte lo
spazio esplorato dal fabulatore è di per sé scioccante, per via delle contraddizioni, delle
incongruenze e delle impossibilità: è lo specchio eterotopico-utopico di cui s‟è detto
sopra. Dall‟altra il testo sembra suggerire il riaffiorare in superficie del mito, sembra
volersi riportare ad un qualche modello mitico che di per sé è già “l‟uso strategico della

17
Su questo Donnarumma sostiene che Calvino si fa portavoce di una letteratura come educazione alla
percezione: ciò significa istituire attraverso lo sguardo e lo stile un nuovo rapporto col mondo.
18
I. Calvino, G. Celati, G. Neri, Protocollo d’una riunione tenuta a Bologna nel dicembre 1968, cit., p.
66.
19
Cfr. M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, cit., p. 75: “La scacchiera delle Città invisibili è insieme luogo
centrato e luogo acentrato, dove coesistono più punti di fuga e il centro è labile. […] Il suo vero centro è
infatti sempre esterno, altrove, nell‟occhio di chi legge: la trama è tutti gli sguardi”.

153
combinatoria per assolvere alla funzione”20: si pensi a Bauci. Sarà importante affrontare
i due modi di operare del testo separatamente, per chiarire il senso dell‟utopia
discontinua di Calvino.
Inoltre bisogna ordinare le acquisizioni compiute fin qui dal lavoro per trovarne la
linea comune. Le città invisibili sono poesie, sono caselle vuote – ognuna con un lato
apricale e un lato oscuro – sono fabulazioni ascoltate da uno scriba, il Kan, fattosi poi
lettore. Le città invisibili sono, dal punto di vista spaziale, cosparse di tracce
infinitesimali e riuniscono in sé luoghi im-possibili, sono le une con le altre
contraddittorie. Le città invisibili hanno nomi di donna. Si sa pure che queste città sono
appiattite su una superficie che è quella del nastro di Möbius, dove è proiettata la
scacchiera su cui giocano Kublai e Marco. Nelle città il fabulatore gioca esplorando uno
spazio cosparso di residui. Si sa pure che le città come fabule non sono sature: sono
caselle e nomi, certo, ma nomi vuoti. Lasciano spazio al lettore. La costruzione del testo
da parte di Calvino è rigorosa, s‟è visto nella introduzione. Un triangolo di dieci città,
un rettangolo di trentacinque e un ultimo triangolo di altre dieci. Ora ci si muove
nell‟ultimo triangolo, che, ricordando la sua proiezione sul nastro, torna al punto di
partenza, ma dall‟altra parte: cioè il lettore si fa a sua volta fabulatore. Ma d‟altro canto
si esce pure dal testo: questo farsi narratore del lettore è possibile solo dal momento in
cui il lettore vede il nodo, e che questo nodo del nastro a distanza è matrice di racconti.
Ma questo farsi fabulatore del lettore è possibile soprattutto grazie al punto virtuale di
Bauci, del testo come specchio, dove il lettore si vede assente come fabulatore nel
mondo. Tutta la profondità del testo è in superficie: se a qualche modello mitico si
riferisce, quest‟ultimo dev‟essere reso evidente, manifestato. Dicendo però che la forza
della casella vuota sta nel suo aprire lo spazio della possibilità, nel suo postulare sempre
nuove aperture del possibile, cosa s‟intende? Dopo aver detto che le città sono poesie,
sono fabulazione, sono spazio eterotopico cosparso di tracce, sono caselle di una
scacchiera, cos‟altro si può dire di queste città? Rispondendo a questa domanda si
chiarisce il primo modo di operare del testo sul lettore.
L‟ultimo ritorno al Castello dei destini incrociati e ad una sua fusione con La
taverna dei destini incrociati permette di chiarire perché le città sono donne e le donne
sono città. C‟è qualcosa di comune nei testi appena citati, tra la donna e la città: una
20
I. Calvino, G. Celati, G. Neri, Protocollo d’una riunione tenuta a Bologna nel dicembre 1968, cit., p.
69.

154
carta le accomuna, le racchiude entrambe e le riporta a un unico concetto. Nella Storia
di Astolfo sulla luna la carta del mazzo visconteo Il mondo rappresenta “una città
fortificata con un cerchio intorno”21, mentre nella Storia dell’indeciso l‟arcano del
mazzo marsigliese Il mondo rappresenta “Venere” che “danza incoronata nel cielo della
vegetazione”22. Da una parte una città, e dall‟altra una donna mitica, una dea. A unirle
l‟arcano del Mondo. Queste donne-città de Le città invisibili sono dunque mondi? Che
tipo di mondi?
Per rispondere a queste domande basta leggere il saggio L’utopia pulviscolare:

Vedere un possibile mondo diverso come già compiuto e operante è ben una presa di forza contro il
mondo ingiusto, è negare la sua necessità esclusiva23.

Ecco la sfida che il possibile lancia al necessario24. Calvino vuole che la letteratura offra
al lettore una “scossa spaesante”, “una crisi che può portarlo a guardare il mondo
quotidiano con occhio mutato”25. È perciò evidente che il mondo rappresentato non
potrebbe essere una copia perfetta del mondo reale. Se il mondo reale è il mondo
neocapitalistico ed è deserto, prigione e labirinto, tutto sta nel fare in modo che questa
prigione non sia perfetta e neppure sia labirinto senza uscita. Calvino confessa di
adoperare il modello del mondo neocapitalistico come sistema proprio perché intende
smontarlo e ricomporlo, proprio perché egli ritiene esser questo il miglior modo per
mostrare che questo mondo non può essere sistema: negando la realtà come sistema
necessario si scoprono in essa delle brecce – caselle vuote –, delle contraddizioni per il
normale corso della storia, dalla naturale spinta rivoluzionaria. Per far ciò Calvino si
serve di quella che lui chiama “macchina logico-fantastica” combinatoria, rappresentata
dallo schema delle città invisibili, che serve “ad allargare la sfera di ciò che possiamo
rappresentarci, a introdurre nella limitatezza delle nostre scelte lo «scarto assoluto» d‟un
mondo pensato in tutti i suoi dettagli secondo altri valori e altri rapporti”26. La forza

21
I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, cit., p. 36.
22
Ibid., p. 62.
23
I. Calvino, Per Fourier 3. Commiato. L’utopia pulviscolare, cit., p. 309.
24
Cfr. C. Varese, Le sfide di Italo Calvino, in “La Battana”, Fiume, marzo 1987, pp. 8-9: “Tutta la
narrativa dello scrittore [è] sempre contrassegnata dal rapporto tra il difficile e il possibile o, meglio,
dall‟attesa e dalla tensione verso il possibile”.
25
I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., p. 1068.
26
I. Calvino, Per Fourier 3. Commiato. L’utopia pulviscolare, cit., p. 312.

155
delle città invisibili sta proprio nella loro im-possibilità: per questo sono invisibili27. Il
fatto che non siano mere copie della realtà fa sì che provochino un senso di
disorientamento fecondo nel lettore, provano a cambiare il suo sguardo28. È certamente
chiarificatrice in questo senso Maria Corti, che sui mondi possibili ha scritto un breve
articolo che, evitando il settarismo logico-semantico degli studiosi di semantica
finzionale, mostra la ricchezza estetica dei mondi possibili scrivendo:

In ogni rispettabile opera inventiva, e soprattutto nei cosiddetti capolavori, i mondi possibili o finzionali
vivono entro una costruzione artistica che corrisponde, a tutti gli effetti, a un processo di ricerca e di
scoperta, estesa anche al reale. Il testo artistico ha cioè una sua virtualità costruttiva la quale si rivela nel
fatto che lo scrittore ci dà, trasferiti in un coerente mondo possibile, i rapporti nuovi da lui individuati tra
le cose del mondo reale, cioè il modello del mondo che l’opera comunicherà. Attraverso questi rapporti
nuovi nasce un oggetto artistico o ipersegno, che è straniante per il lettore in quanto gli violenta la sua
grammatica della visione del mondo [corsivi miei]29.

Personaggi e soprattutto spazi che nel mondo reale non esistono, cioè quelle che la Corti
chiama “teofanie dell‟immaginario”, violentano la nostra normale percezione del
mondo, provocano lo straniamento30, fondano quasi un sapere, che riguarda la nostra
presenza nel mondo reale. Guido Neri scriveva, infatti, a Celati e a Calvino: “La
letteratura è ciò che (non solo esiste ma) sussiste e insiste x essere consultabile. E
siccome insistenza=violenza, la letteratura conquista un suo diritto (?) di cittadinanza in
quanto rinunci a passare per discorso non violento o non violenza del discorso, e si
riconosca specificamente forma della violenza, violenza del discorso non violento,
violenza del discorso”31. Si arricchisce il senso di quel punto virtuale indicato in Bauci
nella sua forza sovversiva. Il testo Le città invisibili come specchio del lettore assente

27
Cfr. M. Dini, Calvino critico, cit., p. 141: “Calvino intende definire lo statuto non solo dell‟utopia ma
anche dell‟immaginazione creativa e quindi di un progetto letterario realmente alternativo”. Cfr. M.
Belpoliti, Settanta, cit., p. 380: “Il segreto delle Città invisibili è anche la sua forza. Proprio per questo
non si possono vedere; non solo perché non ci sono, sono puramente immaginarie, ma proprio perché non
sono visibili. Non sono immagini, ma frammenti di immagini, discontinuità visive che non possono
essere riportate a unità. Non è possibile nessuna ricostruzione dell‟intero, pena la perdita della loro stessa
discontinuità e dunque del loro senso. Un senso che si realizza solo nello sguardo discreto. [corsivo
mio]”.
28
Compito della letteratura è mettere in moto la macchina dell‟immaginario e dei progetti: solo
suscitando sogni, paure, speranze chi scrive può contribuire alla nascita di un altro mondo.
29
M. Corti, Mondi possibili, in Per una enciclopedia della comunicazione letteraria, Bompiani, Milano
1997, p. 56.
30
Cfr. M. Dini, Calvino critico, cit., p. 140: “Non c‟è dubbio che nell‟immaginazione utopica prevalgano,
come fa notare Calvino, le componenti visive, quegli elementi cioè che risultano immediatamente
percepibili ai sensi e che, nella maggioranza dei casi, alterano i normali criteri della visione, contribuendo
a produrre un effetto straniante rispetto ai tradizionali modi di vedere”.
31
G. Neri, Lettera a Calvino e Celati, in M. Barenghi e M. Belpoliti (a cura di), “Alì Babà”. Progetto di
una rivista, 1968-1972, cit., p. 114.

156
come fabulatore nel mondo, e come specchio dello spazio reale che però è per ciò stesso
irreale: finché non si legge delle città im-possibili, perché contraddittorie, ma possibili,
nel loro rivolgersi nel dentro di chi legge, lo spazio che attornia il lettore lo illude;
quest‟ultimo è così mischiato ad esso da non poterlo sovvertire; ne è prigioniero, crede
d‟essere fuori, mentre è dentro il sistema.
Secondo quanto riferisce Doležel32 la versione attualista della semantica a mondi
possibili distingue tra testi R, che raffigurano il mondo, e testi C che costruiscono il
mondo. Questi ultimi precedono i mondi, che cominciano ad esistere solo grazie
all‟attività testuale. I testi finzionali sono una categoria particolare di testi C e, cosa più
importante, sono estranei alla determinazione dei valori di verità: i loro enunciati non
sono né veri né falsi, perché stipulano il proprio dominio referenziale creando un mondo
possibile. Per la semantica a mondi possibili della finzionalità i mondi possibili della
fiction sono artefatti prodotti dalle attività umane estetiche, come la narrazione e la
poiesis testuale. Il senso è un artefatto prodotto in superficie dalla fabulazione come
esplorazione. I mondi possibili della letteratura sono un tipo particolare di mondi
possibili: artefatti estetici costruiti, conservati e fatti circolare per il tramite di testi
finzionali. Sappiamo dalla semantica logica che i mondi possibili sono somme
mereologiche coesive massimali di possibilia. I mondi finzionali sono piccoli mondi
possibili modellati da specifiche restrizioni globali – che nel „900 vengono spesso
violate – e contenenti un numero finito di individui compossibili (ma il requisito della
compossibilità soprattutto dalle opere postmoderne viene spesso lasciato da parte): ad
essi, oggetti semiotici, si accede attraverso canali semiotici. I lettori, come Kublai Kan,
accedono ai mondi finzionali nella ricezione. La particolarità del testo di Calvino è che
il mondo possibile è tutto in superficie33. Lo spazio referenziale è vuoto per via
dell‟impossibilità dei mondi, tutti spalmati sulla pagina. Componendo un testo scritto o
orale un autore crea un mondo finzionale che, prima di questo atto, non era disponibile.
La semantica a mondi possibili fornisce una visione della letteratura come perenne

32
L Doležel, Heterocosmica, Fiction e mondi possibili, Bompiani, Milano 1999.
33
Cfr. R. Donnarumma, Da lontano. Calvino, la semiologia, lo strutturalismo, cit., p. 128. Parlando delle
città invisibili Donnarumma scrive di una “discontinuità incalzante che si presenta come l‟accumulo
linguistico, l‟intersecazione e sovrapposizione delle varie possibilità del livello paradigmatico: i possibili
linguistici non impegnano a una scelta o discriminazione, ma si affollano sulla pagina tentando di
allargare e arricchire, attraverso la somma degli elementi ipotetici, la vita attualizzata e attualizzabile
della lingua storica. Anche qui sarebbero la fantasia e la memoria, applicate alla lingua, in altre parole
sarebbe la poesia a eliminare la contrapposizione fra possibile e impossibile linguistico”.

157
creazione di paesaggi di invenzione che promuovono la pluralità dei mondi. Grazie alla
speciale forza illocutiva del testo letterario i possibili sono trasformati in esistenti
finzionali, i mondi possibili diventano oggetti semiotici. Nel costruire mondi possibili
l‟immaginazione poetica opera con materiale mutuato dall‟attualità. Sappiamo da
Leibniz che le cose possibili sono quelle che non implicano contraddizione. Invece le
città di Calvino hanno la curiosa caratteristica di essere mondi possibili34 contraddittori,
non solo gli uni con gli altri, ma anche internamente. Dato che contengono o implicano
stati di cose contraddittorie sono impossibili e non sono compossibili.
Il testo finzionale nella costruzione dello scrittore e nella ricostruzione del lettore
è il tramite della fabbricazione di un mondo finzionale. Calvino scrive: “Sono convinto
che scrivere prosa non dovrebbe essere diverso dallo scrivere poesia” 35. E Pavel
riprende Aristotele dicendo che “ufficio del poeta non è descrivere cose realmente
accadute bensì quali possono (in date condizioni) accadere: cioè cose le quali siano
possibili secondo le leggi della verosimiglianza o della necessità”36. Calvino nella
lezione sulla Visibilità si riconosce pienamente nella definizione dell‟immaginazione
come “repertorio del potenziale, dell‟ipotetico, di ciò che non è né è stato né forse sarà
ma che avrebbe potuto essere”37, e ciò ricorda le parole che Parise scriveva a Calvino
nel 1963 a proposito della sfida che l‟immaginazione pura può lanciare al silenzio a cui
il contesto storico-politico costringe, attraverso la costruzione di mondi completamente
al di fuori della realtà. Tutto questo non è diverso da quello che fa il Marco Polo
manganelliano nelle galere di Genova con Rustichello, inventando mondi immaginari
tramite la narrazione.
L‟infinito possibile rappresenta un modo in cui le cose sarebbero potute andare o
potrebbero andare, cioè uno stato di cose possibile, e gli infiniti possibili, in linea di
principio, non dovrebbero violare le leggi della logica. Il mondo reale è l‟unico mondo
possibile che è al contempo plausibile. Però un medesimo testo può fare riferimento con
piena legittimità a un‟infinità di mondi possibili, persino con caratteri contradditori tra
di loro. Non si può esigere dagli infiniti possibili che presentino gli stessi enti del

34
Cfr. M. Mazzocut-Mis, La città e la conchiglia. Suggestioni a partire dalla morfologia di Calvino, cit.,
p. 4: “Quella scacchiera, simbolo del nulla, si riempie di infiniti mondi possibili si, ma questa volta
qualitativamente distinti”.
35
I. Calvino, Saggi 1945-1985, tomo I, cit., p. 671.
36
T. G. Pavel, Mondi di invenzione, cit., p. 206.
37
I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 706.

158
mondo reale e solo questi, poiché ciò limiterebbe la rappresentazione delle ontologie di
invenzione. Postulando una specie di effettiva enumerazione degli atomi e ammettendo
solamente le alternative al mondo reale costituite da atomi presenti in tale
enumerazione, la pratica combinatoria mostra un chiaro vincolo con la realtà. Eppure
chi scrive da questo vincolo si svincola non appena il gruppo di cose o personaggi o
luoghi mutuati in qualche modo dal mondo reale, vengono accostati creando
contraddittori corto circuiti: esiste una varietà più complessa di pratiche combinatorie,
come quella delle Città invisibili, dove vengono trascesi i punti spazio-temporali.
Gianni Celati parlando delle Città invisibili dice che in quest‟opera narrare
significa definire la superficie di un gioco. “I mondi possibili sono assoggettati a
un‟assoluta organizzazione strutturale di superficie, a una coerenza iterativa
appositamente costruita”38. Ovviamente si riferisce alla narrazione di Marco Polo che si
esprime con gesti, salti, grida di meraviglia e orrore o con oggetti che dispone davanti a
sé come pezzi degli scacchi. Questo gioco vede protagonisti il lettore e il narratore. È
Calvino che ci sta mostrando come ogni testo letterario nasce: attraverso un racconto il
narratore crea un mondo possibile, con le caratteristiche sopra delineate, alternativo al
nostro. Il gioco consiste di varie piste che s‟intersecano le une con le altre su un piano
che è l‟intarsio: questo intreccio, questa rete è riempita dalle città invisibili. Il Gran Kan
oltre ad essere l‟ascoltatore, il lettore giocatore, è anche il maitre du jeu, lo scriba,
poiché con la scrittura ha definito le regole. E lo scopo di questo gioco si capisce essere
la conquista della superficie di gioco, del mondo meraviglioso del possibile. “L‟impero
del Gran Kan è il regno del possibile, è la realtà del possibile finito e computabile,
proprio come un gioco”39. Si tenga presente qual è il ruolo del Gran Kan all‟interno del
livello superiore: è il lettore. Abbiamo un‟opera di fiction che rappresenta l‟arredo
scenico di un gioco di fantasia40 come quelli di cui ci parla K. Walton. Il lettore ha un
posto all‟interno del mondo di invenzione, considerato come reale per tutta la durata del
gioco. Cosa cerca il lettore, di cosa ha bisogno?

38
M. Corti, Mondi possibili, cit., p. 58.
39
G. Celati, Recensione inedita, in M. Barenghi, G. Canova, B. Falcetto (a cura di), La visione
dell’invisibile, cit., p. 110.
40
Cfr. E. Gioanola, Modalità del fantastico nell’opera di Italo Calvino, cit., p. 22: “Il gioco è già in fondo
la capacità di costruirsi un mondo alternativo, fondato su regole precise ma sottratto alle frustrazioni del
principio di realtà”.

159
“Penso che siamo sempre alla caccia di qualcosa di nascosto o di solo potenziale o
ipotetico, di cui seguiamo le tracce che affiorano sulla superficie del suolo [corsivo
mio]”41. È questa l‟esigenza di chi si pone di fronte ad un testo, come Kublai di fronte
alla scacchiera delle città, dei mondi possibili: la ricerca del possibile, della Città del
Possibile. Il moltiplicarsi infinito dei dettagli sulla pagina, raggruppati con una sintassi
diversa da quella mondana, l‟infinitesimale sparpagliarsi di tracce sulla scacchiera, è
legata al discorso dei mondi possibili dallo stesso Calvino, che nelle Lezioni americane
scrive: “L‟affermazione di Flaubert, «Le bon Dieu est dans le detail», la spiegherei alla
luce della filosofia di Giordano Bruno, grande cosmologo visionario, che vede
l‟universo infinito e composto di mondi innumerevoli […] ciascuno di questi mondi è
finito”42. Le scacchiera è riempita di infiniti mondi possibili distinti qualitativamente.
Il possibile e lo scarto43 coincidono non appena s‟intenda che il residuo, ciò che
apre lo spazio apricale della possibilità, è il non nato, per la storia, ciò che la storia
costringe negli angoli e nelle soffitte. L‟aprico, lo spazio dell‟aperto, è il luogo della
possibilità. Ciò che rende prezioso a Kublai ogni fatto o notizia riferito dal suo
inarticolato informatore è lo spazio che resta tra lui che legge e il veneziano che
racconta: un vuoto non riempito di parole. È lo spazio del possibile, di ciò che potrebbe
essere: l‟aria in cui respirare e pensare di cui ci disse Celati. Ogni casella-città lascia
vuoto lo spazio della referenza solo se si riferisce a mondo impossibili e pur tuttavia
dettagliati44. La casella si lascia leggere dal lettore come una classe nulla: qui sta la sua
genuina natura di traccia, ridotta alla forma letterale. In questo modo la fiction letteraria
vorrebbe sviluppare l‟immaginario umano. Cosa si può fare in questo spazio?
Le descrizioni di città visitate da Marco Polo lasciano sempre vuoto lo spazio
della referenza, uno spazio dove ci si può girare in mezzo col pensiero. Marco Polo

41
I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 693.
42
Ibid., p. 687.
43
A. L. De Castris parla a tal proposito di “tracce, di frammenti, di virtualità di relativa aggregazione”.
Cfr. A. L. De Castris Da Calvino al sapere plurale: alcuni sintomi culturali degli anni Settanta, in
“Lavoro critico”, Bari, gennaio-giugno 1981.
44
Cfr. M. Belpoliti, Settanta, cit., p. 376: “La leggerezza di cui si parla nelle Città invisibili è la
possibilità di superare l‟ossessione dei possibili e la pesantezza dell‟essere. Tutte le città contengono, in
diversa misura, l‟immagine di ciò che poteva essere e invece non è stato, l‟idea di una pluralità di strade o
sviluppi che l‟esperienza, gli incontri, la vita hanno drasticamente ridotto e tagliato. Il presente è solo uno
dei possibili futuri; e gli altri che fine hanno fatto? Che ne è stato, ci si chiede a più riprese, di ciò che
poteva essere?”. Quello di Calvino è, come dice Belpoliti, “un libro-catalogo delle infinite variazioni del
possibile: ogni città è una variazione nel registro della vita, lo sviluppo di un dettaglio, una ennesima
fluttuazione; e nel moltiplicarsi dei dettagli […] la vita risulta alleggerita”.

160
somiglia moltissimo ai fondatori ontologici di cui parla Pavel: un eroe che appare in un
mondo lacerato dai conflitti e si sforza di modificare la base del mondo immaginario in
cui vive, cioè il mondo reale, proponendo un paesaggio ontologicamente contraddittorio
e alternativo. È un fondatore ontologico particolare, però: prende la materia prima delle
sue narrazioni da città reali, ma le combina, le riformula, fa affiorare tracce di qualcosa
di dimenticato, e non postula una città perfetta45, ma sparpaglia piuttosto indizi, da cui,
raccogliendoli, il lettore dovrebbe iniziare a guardare diversamente nel mondo reale e in
cui il lettore potrebbe trovare nascosto il racconto della sua vita o una risposta a una
domanda. Se il testo si fermasse alla pagina, senza un effetto sul lettore empirico,
sarebbe sì solo un testo utopico, un non luogo immaginario, l‟accumulo di nuovi mondi
sognati, senza nessun legame con la realtà, ingenua fabula di sogno. Ma Calvino lavora
per un lettore politico, vuole agire sul contesto, operare sul reale e sul suo sistema
infernale.
La referenza di un testo non può mai venir inquadrata senza ambiguità. Nel libro
di Calvino ciò vale all‟ennesima potenza. Questo discorso inizia ad avvicinarci alla
tematica dell‟utopia pulviscolare. Si sa già che il possibile si estende più dell‟attuale: è
come dire che il reperto archeologico sovverte la necessità della storia e del suo corso
progressivo.
Doležel poi distingue tra descrizioni dell‟azione – quella che qui s‟è chiamata
inscrizione della superficie di gioco e spaziatura delle sue tracce – e valutazioni
dell‟azione, cioè quelle parti inserite nel testo finzionale che vengono chiamate
digressioni R ed esprimono credenze relative al mondo attuale. Nel caso de Le città
invisibili si tratta di frasi inserite soprattutto nel dialogo tra Kublai e Marco Polo. Tra le
digressioni R de Le città invisibili, come nella struttura a rete del romanzo, si possono
individuare le valutazioni sul mondo senza forma né fine. Sono commenti metanarrativi
provenienti dall‟autore stesso.
Per iniziare a chiarire il discorso sul lettore si deve ricorrere alla teoria delle entità
di invenzione di K. Walton secondo il quale “la questione metafisica centrale allo
statuto ontologico delle entità di invenzione è racchiusa nell‟esperienza del venir
catturato da una storia”46. S‟è detto che i lettori accedono ai mondi finzionali nella

45
La città perfetta è la città assente.
46
K. Walton, Do we need fictional entities? Notes toward a theory, in AA.VV., Aesthetics: proceedings
of the eight international Wittgenstein symposium, Hodler-Pichler-Temsky, Wien 1984, p. 179.

161
ricezione, attraverso canali semiotici. Il testo, che è stato composto dalle fatiche dello
scrittore, è un insieme di istruzioni per il lettore, che su questa base procede alla
ricostruzione del mondo. Il lettore ha un posto riservato nel mondo di invenzione, e
questo spazio in cui lui dovrebbe muoversi è considerato reale per tutta la durata del
gioco, per via di un‟illusione che il gioco genera. Eco è chiarissimo a tal proposito:

La finzione narrativa […] ci offre la possibilità di esercitare senza limiti quella facoltà che noi usiamo sia
per percepire il mondo sia per ricostruire il passato. La finzione ha la stessa funzione del gioco. […]
Giocando, il bambino apprende a vivere, perché simula situazioni in cui potrebbe trovarsi da adulto. E noi
adulti attraverso la finzione narrativa addestriamo la nostra capacità di dare ordine sia all‟esperienza del
presente sia a quella del passato [corsivo mio]47.

Chi legge il testo già abita il suo mondo corrispondente, che ne Le città invisibili
è un insieme infinito di mondi. Chi viene catturato da una storia proietta nelle pagine un
io di invenzione che nel caso delle Città invisibili tende a coincidere – dovrebbe
coincidere – con il Kublai lettore delle fabule del veneziano e scandaglia il territorio, il
terreno di gioco. “Noi non facciamo altro che cedere temporaneamente corpi e emozioni
a tale io di invenzione, analogamente a come in certi riti collettivi i fedeli offrono i
propri corpi agli spiriti che si manifestano”48. Per questo la lettura mette in gioco e ha
effetti anche sul corpo. Il lettore è chiamato a fingere di essere Kublai e vivere in quel
mondo di invenzione: la storia lo cattura e lui proietta un io di invenzione partecipe
degli eventi immaginari. L‟atto fondamentale nella transizione dalla realtà all‟ambito di
invenzione è perciò l‟immedesimazione. L‟io di invenzione immedesimato del lettore
prende in esame territori ed eventi intorno a sé, come Kublai con Marco49. I costrutti
finzionali influenzano profondamente il modo di rappresentare e comprendere la realtà
da parte del lettore, generano la possibilità di guardare diversamente, sotto una nuova
luce, le cose più comuni che lo attorniano.

Lo scambio di invenzione ha luogo entro i saldi confini dei mondi immaginari, ma non viene reciso
bruscamente dal mondo primario (cioè, reale), poiché tramite atti di personificazione da parte di membri
effettivi della comunità culturale si presentano scrittori e lettori di invenzione che, nella veste di attori del
sistema di invenzione, conservano la maggior parte dei tratti, culturali o biologici, caratteristici dei
personaggi in questione. […] L‟immedesimazione funziona soltanto finché l‟ambientazione di invenzione
viene presa sul serio, cioè creduta vera. Quando si manifestano differenze in rapporto a una conoscenza

47
U. Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Bompiani, Milano 1994, p. 163.
48
T. Pavel, Mondi di invenzione, cit., p. 127.
49
Cfr. F. Serra, Calvino, cit., p. 31. Serra a tal proposito scrive che è “un io virtuale, che vive sempre altre
vite in altre città, rifugiandosi nell‟unico spazio visibile che resta, quello della possibilità”.

162
acquisita o a consuetudini emotive, queste vanno elaborate allo stesso modo dell’informazione recente
non frutto di invenzione50.

Questo perché per il lettore i mondi descritti dai testi di invenzione non
necessariamente sono separati dalla linea tra finzione e realtà. Le città invisibili
costringono a pensare, danno da pensare. Marco Polo è lo scrittore di invenzione,
meglio sarebbe dire il fabulatore, mentre Kublai Kan è il lettore di invenzione: entrambi
sono inoltre personaggi. Ricostruendo il mondo finzionale come un‟immagine mentale,
il lettore può considerarlo e farlo diventare parte della sua esperienza. La sfera di
invenzione del testo può diventare indipendente dalla realtà e influenzare perciò il
lettore: quest‟ultimo è come se visitasse, abitandoli, per qualche tempo, paesi di
invenzione, in questo caso le città. Ciò avviene soprattutto nelle fiction a sfondo
filosofeggiante, come il testo di Calvino. “L‟io d‟invenzione immedesimato prende in
esame territori ed eventi intorno a sé con la stessa curiosità e ansia di vedere in atto la
dinamica tra identità e differenza di chi viaggia in un paese straniero”51.
Calvino stesso spiega in un saggio del 1978 che la sospensione dell‟incredulità è
la condizione cui sottostà ogni testo d‟invenzione, anche se quest‟ultimo è palesemente
un testo collocabile nel regno del meraviglioso e dell‟incredibile. Si stabilisce tra il
lettore e l‟autore un patto finzionale per il quale il lettore accetta e sa che sta per leggere
una storia immaginaria, e non la considera per questo una menzogna sul mondo reale. Il
lettore fa finta che quello che legge sia veramente avvenuto, così come l‟autore fa finta
di dire qualcosa di vero. È un vero e proprio gioco tra lettore e autore. “Passeggiare in
un bosco narrativo ha la stessa funzione che riveste il gioco per un bambino. […]
Leggere racconti significa fare un gioco attraverso il quale si impara a dar senso alla
immensità delle cose che sono accadute e accadono e accadranno nel mondo reale”52. La
narrazione porta il lettore in un mondo che quest‟ultimo quando legge prende sul serio53.
Il mondo irreale della narrazione, che nel caso de Le città invisibili è costellato di mondi
impossibili, deve pur sempre mutuare il materiale della narrazione dal mondo reale. Il
mondo reale resta lo sfondo del mondo fittizio, come sua base, ma nello stesso tempo è

50
T. Pavel, Mondi di invenzione, cit., pp. 131-132.
51
Ibid., p. 132.
52
U. Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, cit., p. 107.
53
Il racconto svolge una funzione educativa e induce il lettore a riflettere.

163
messo tra parentesi nel momento in cui i mondi fittizi compongono le cose mutuate dal
mondo reale liberamente, anche con contraddizioni e incoerenze.
Seguendo Eco54 si possono dunque distinguere, per il testo di Calvino, queste
figure: Calvino è l‟Autore Empirico, ma nella pagina Calvino scompare anche perché la
voce che narra, cioè il Narratore, è Marco Polo. L‟Autore Empirico nel testo si palesa
soltanto nelle digressioni R. L‟Autore Modello invece è una voce che s‟identifica con la
strategia narrativa, cioè l‟insieme delle regole (istruzioni) – nel contesto del nastro – che
danno vita al testo e a cui il Lettore Empirico dovrebbe attenersi per comportarsi come
Lettore Modello. Il Lettore Empirico sono io, per esempio. Il Lettore Modello è il
lettore che ha in mente l‟autore quando scrive, “un lettore-tipo che il testo non solo
prevede come collaboratore, ma anche cerca di creare”55. La cosa eccezionale che fa
Calvino nel suo testo è inscenare direttamente l‟incontro tra Narratore e Lettore
Modello. Quando Marco Polo si rivolge a Kublai, succede che l‟autore, mediante il
Narratore, disegna ed educa davanti a sé il Lettore Modello. Kublai, quando rinuncia ad
essere scriba, è il Lettore Modello. Ma manca qualcosa a Kublai: gli manca la realtà. “Il
lettore c‟è sempre, e non solo come componente dell‟atto di raccontare storie, ma anche
come componente delle storie stesse”56. Attraverso Marco e Kublai, cioè attraverso il
Narratore e il Lettore Modello, Calvino si rivolge al Lettore Empirico, reale, nel mondo.
Kublai come Lettore Modello è colui che sta al gioco di Marco Polo fabulatore, ma non
basta seguire le regole per vincere, per far sì che il Lettore Empirico diventi il Lettore
Modello. Se il Lettore Modello si attenesse solo alle regole non potrebbe la sua azione
finzionale avere un effetto sul Lettore Empirico. Questo perché, come s‟è spiegato
sopra, non è possibile dedurre la strategia, e a maggior ragione la strategia efficiente,
solo dalle regole. La finalità della strategia, ovvero la funzione, è far sì che il Lettore
Empirico collabori “colmando una serie di spazi vuoti”57 e che lo faccia in un
determinato modo, diventando il Lettore Modello. Solo quando Kublai come Lettore
Modello capisce, tramite Marco Polo fabulatore, che le regole non bastano, poiché
portano a un nulla di fatto, può iniziare – come gli spiega l‟ambasciatore veneziano – a
riempire il nulla, gli spazi vuoti di narrazioni. ”Solo quando i lettori empirici avranno

54
Cfr. anche U. Eco, Lector in fabula, Bompiani, Milano 1979.
55
U. Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, cit., p. 11.
56
Ibid., p. 2.
57
Ibid., p. 3.

164
scoperto l‟autore modello e avranno compreso (o anche soltanto iniziato a comprendere)
quello che Esso voleva da loro, essi saranno diventati il lettore modello a pieno titolo”58.
Per un attimo Marco Polo fonde in sé la funzione di Narratore e Autore Modello,
quando spiega che la strategia non può essere dedotta dalle regole, che le regole
possono servire solo negativamente e si capisce che “positivamente si deve ricorrere a
ben altro, a tempismo e induzione, fantasia ed estro di bluff”59. Questo avviene
nell‟ultimo triangolo: l‟Autore Modello confessa al Lettore Empirico, tramite il
Narratore, nella parte di scrittura – nell‟ultimo corsivo – il modo di leggere che da lui
vorrebbe – lo fa confessandolo al Lettore Modello Kublai – e che, si capisce, è già
subito un modo di narrare. Certamente il Lettore Modello – Kublai – è colui che sta alle
regole del gioco: cioè si attiene al fatto che la superficie di gioco è una scacchiera, che
tutte le città sono importanti allo stesso modo per dar vita al nastro da cui la funzione di
fabulatore si capovolga sul lettore. Ma nel testo di Calvino la scrittura manda oltre sé,
richiede che le regole vengano trascese per una narrazione che sia tale, per un gioco che
sia vincente. L‟Autore Modello si manifesta a un livello superiore, tramite le parole del
Narratore nel luogo che non gli compete, cioè nell‟ultimo corsivo, e si capisce che la
prima persona plurale tirata in gioco non è soltanto quella che unisce il Narratore al
Lettore Modello, ma si riferisce, tramite il Lettore Modello, al Lettore Empirico. Questa
è la frase più citata dalla critica calviniana, ma non è la conclusione della partita. È un
passo che insegna un modo di leggere il testo – soprattutto le fabule – e un modo di
vedere nel mondo:

L‟inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n‟è uno, è quello che è già qui, l‟inferno che abitiamo
tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a
molti: accettare l‟inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed
esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo
all‟inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio60.

Il deserto infernale, e si risponde a un quesito del primo capitolo, non è solo fuori dalla
città, ma è nella metropoli reale, anch‟essa parte del sistema prigione, anzi suo culmine.
L‟aprico si trova nelle città come fabule61, poiché non sono reali, la città dà senso

58
Ibid., pp. 33-34.
59
G. Celati, Il racconto di superficie, cit., p. 192.
60
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 170.
61
Cfr. E. Gioanola, Modalità del fantastico nell’opera di Italo Calvino, cit., p.31: “Fondamentalmente
l‟inferno è il mondo, mentre non-inferno è soltanto l‟opera, che si costituisce appunto come difesa

165
all‟utopia immanente, se è immaginaria62. L‟inferno è la città reale, il mondo reale, che
il fabulatore scompone e ricompone sovvertendolo63. In questo passo Marco Polo come
Narratore è solo un mezzo per la voce dell‟Autore Modello che indica la strategia
efficiente per la lettura del testo. Eco spiega: “Autore e lettore modello sono due
immagini che si definiscono reciprocamente solo nel corso e alla fine della lettura”64. Se
il nastro di Möbius proiettato sulla scacchiera, qualora non avesse la casella vuota – che
invece ha in Bauci – sarebbe l‟ultimo propaggine del sistema di sofferenza che s‟è visto
essere deserto, prigione, labirinto ovvero realtà, è però vero che quel nastro si mostra
capace di capovolgere la situazione di equilibrio tra lettore e narratore, tramite il vuoto.
Se ogni casella ha un lato opaco, ombroso e oscuro, cioè l‟inferno che affiora in
superficie nella città, è però vero che ogni casella ha pure un lato bianco: e questi due
lati non sono contrapposti, uno sopra e uno sotto, ma sono contigui, né dentro né fuori
né prima né dopo. Sono compenetrati, mischiati. Soltanto la narrazione come
distensione delle tracce di possibilità dà luogo all‟aprico65. Il Narratore che ha narrato
fino a questo punto si fa da parte, lascia un modo di leggere a Kublai come Lettore
Modello e vorrebbe – e con lui l‟Autore Empirico – che il Lettore Empirico leggesse
come dice: riconoscendo le parti di aprico della scacchiera, le caselle bianche – ossia le
tracce come possibile – distendere la possibilità dell‟aperto66. Il Lettore Empirico è cioè
chiamato a fare col testo un‟operazione che, si vedrà, dovrà fare pure nel mondo reale:

assiduamente vigilata contro le irruzioni del mondano, quello esteriore dei rapporti insostenibili e quello
interiore dei mostri informi […] L‟opera trova la propria ragion d‟essere soltanto nel vuoto limpidissimo
di cui è fatta”.
62
Cfr. J. Updike, Le metropoli della mente, in M. Belpoliti (a cura di), Italo Calvino. Enciclopedia: arte,
scienza e letteratura, cit., p. 135. “La richiesta del dono dello spazio con cui termina il libro è, quindi, ciò
che il libro stesso concede; nell‟affollata, confusa, estenuante «città infernale» che è «già qui, l‟inferno
nel quale viviamo ogni giorno», l‟arte e l‟immaginazione, creando uno spazio interiore, sono occasione di
miglioramento”.
63
Cfr. G. Barberi Squarotti, Il teorema e il labirinto della scrittura, cit., p. 48: “La letteratura può cercare
di riconoscere e rivelare poi che cosa non è inferno […] e può salvarlo. Il catalogo delle città possibili è
quello che salva dallo sfacelo le cose. […] Inventare città secondo tutte le gradazioni e le capacità
combinatorie del possibile significa salvare qualcosa dall‟inferno, anzi uscirne fuori. […] L‟unico
compagno necessario è lo scrittore che sogna le città possibili e dà loro forma e le fa esistere nella parola.
[…] Nel momento che precede (o già un poco segue) il silenzio della letteratura e la dissoluzione delle
forme del mondo, non c‟è, però, altra possibilità che di combinare le varie parti o opere o aspetti di ciò
che è stato detto o di ciò che appartiene al dominio specifico della letteratura, che è il possibile”.
64
U. Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, cit., p. 30.
65
Cfr. M. Dini, Calvino critico, cit., p. 131: “Per Calvino la letteratura, in quanto ricerca delle possibilità
di «fuga» rispetto all‟«inferno» del reale […] si presenta come il luogo deputato all‟utopia”.
66
Cfr. M. Lavagetto, Dovuto a Calvino, cit., p. 17: “La quantità di cose che riesce a leggere in quel
centimetro quadrato sommerge insieme il Gran Kan e il lettore delle Città invisibili. […] La libertà […] ci
costringe a rinunciare per sempre a un ordine tassativo e rassicurante: dobbiamo comporre e ricomporre
senza sosta le infinite direzioni del possibile che il testo promuove [corsivo mio]”.

166
riconoscere le tracce, i residui dispersi sulla superficie, orme che danno luogo ad una
narrazione nel mondo che è distante ormai dall‟inferno, che lo allontana prendendo aria
in esso67.
L‟“autore modello […] confonde i vari supposti autori empirici affinché il lettore
modello sia coinvolto in questo teatro catottrico”68. L‟autore empirico scompare nel
testo, come spiega anche Calvino, poiché diversi io lo compongono nell‟opera,
differenti strati di soggettività e finzione. L‟Autore Empirico s‟eclissa nell‟Autore
Modello. L‟io che scrive inventa persino l‟autore dell‟opera, cioè una proiezione di se
stesso, che può essere fittizia. Così Calvino definisce quello che Eco chiamerebbe
l‟Autore Modello:

Scrivere presuppone ogni volta la scelta d‟un atteggiamento psicologico, d‟un rapporto col mondo,
d‟un‟impostazione di voce, d‟un insieme omogeneo di mezzi linguistici e di dati dell‟esperienza e di
fantasmi dell‟immaginazione, insomma di uno stile. L‟autore è autore in quanto entra in una parte, come
un attore, e s‟identifica con quella proiezione di se stesso nel momento in cui scrive69.

In questo modo, come prima s‟è già mostrato e come Calvino ribadisce – dato che l‟io
dell‟autore è inevitabilmente influenzato e formato dalla cultura del suo tempo, ovvero
dal contesto storico-culturale – l‟autore, l‟io di chi scrive, scompare, “sempre più
lontano, più rarefatto, più indistinto: forse è un io-fantasma, un luogo vuoto,
un‟assenza”70. Soltanto attraverso i personaggi l‟io dell‟autore può ritrovare una qualche
concretezza, ed è per questo che nel testo di Calvino è un personaggio, Marco Polo, a
raccontare. “Come fare a sconfiggere non gli autori ma la funzione dell‟autore, l‟idea
che dietro ogni libro ci sia qualcuno che garantisce una verità a quel mondo di fantasmi
e d‟invenzioni per il solo fatto d‟avervi investito la propria verità, d‟aver identificato se
stesso con quella costruzione di parole?”71. “Come scriverei bene se non ci fossi! Se tra
il foglio bianco e il ribollire delle parole e delle storie che prendono forma e svaniscono
senza che nessuno le scriva non si mettesse di mezzo quello scomodo diaframma che è

67
Cfr. M. Rizzante, Il geografo e il viaggiatore, cit., p. 13. Rizzante parla a tal proposito della “figura
dell‟archeologo, scopritore di tracce che non devono essere ridotte o ricondotte alla loro origine, ma
raccolte come testimonianze di frammenti non derivabili da una totalità. […] L‟archeologo, il
collezionista guardano gli oggetti „invecchiati‟, dimenticati, ma non li contestualizzano secondo
un‟immagine univoca del passato, proprio perché ciò che guida il loro sguardo è la passione per
l‟oggetto”.
68
U. Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, cit., p. 27.
69
I. Calvino, I livelli della realtà in letteratura, in Saggi 1945-1985, tomo I, cit., p. 390.
70
Ibid., p. 391.
71
I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, in Romanzi e racconti, vol. II, cit., p. 767.

167
la mia persona! […] Se fossi solo una mano, una mano mozza che impugna una penna e
scrive… […] Vorrei annullare me stesso”72. Questa cancellazione dell‟autore, ideale che
Calvino ribadisce a chiare lettere anche nelle Lezioni Americane scrivendo “magari
fosse possibile un‟opera concepita al di fuori del self, un‟opera che ci permettesse
d‟uscire dalla prospettiva limitata d‟un io individuale”73, sembra appellarsi a un modo di
raccontare naturale74, quello cui allude Ludmilla – la Lettrice di Se una notte d’inverno
un viaggiatore –, un narrare che non pretenda d‟imporre nessuna visione del mondo e
che faccia nascere la fabula come nasce una pianta, una foglia. Sarebbe un narrare
vicinissimo a quello cui dà vita il «Padre dei Racconti», non a caso analfabeta, che narra
di continuo storie semplici per il solo piacere di narrare, che mantiene il legame
artigianale tra narrazione ed esperienza, che Benjamin vede interrotto per via della
nascita del romanzo con la stampa. Su questo riflette Silas Flannery – lo scrittore di se
una notte d’inverno – nel suo diario: “Alle volte penso alla materia del libro da scrivere
come qualcosa che già c‟è: pensieri già pensati, dialoghi già pronunciati, storie già
accadute, luoghi e ambienti visti”75. Questo libro ideale a cui pensa Flannery non è altro
che quel Narratori delle pianure con cui Celati raccoglie le storie del sentito dire
popolare, dove si limita a trascrivere la narrazione orale incontrata di paese in paese,
senza filtro, cancellandosi appunto, facendosi tramite di quel mondo non scritto
marginale che nessun romanziere classico metterebbe sulla pagina. Se l‟Autore Modello
è colui che nella moltiplicazione degli io di chi scrive cancella l‟io dell‟Autore
Empirico, di conseguenza questa scelta di stile avrà come sua controparte un Lettore
Modello – Ludmilla, nel libro del 1979 – come colui che legge per ascoltare una voce
che coglie l‟orecchio d‟improvviso76, una voce la cui fonte è impossibile collocare,
“viene non si sa da dove, da qualche parte al di là del libro, al di là dell‟autore, al di là
delle convenzioni della scrittura: dal non detto”77. Si confronti questo passo con un altro
tratto dall‟ultimo triangolo de Le città invisibili. A parlare è Kublai Kan, il lettore
modello:
72
Ibid., p. 779.
73
I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 733.
74
Deprimere l‟io di chi scrive significa esaltare l‟io di chi legge, negare l‟unicità di chi scrive vuol dire
affermare la pluralità dei diritti di coloro che leggono.
75
I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit., p. 779.
76
Cfr. P. Citati, Ecco il romanzo del lettore, in M. Belpoliti (a cura di), Italo Calvino. Enciclopedia: arte,
scienza e letteratura, cit., p. 161: “Quando tiene aperto il libro tra le mani, il lettore diventa il vero spirito
creativo della letteratura”.
77
I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit., p. 849.

168
Alle volte mi pare che la tua voce mi giunga da lontano, mentre sono prigioniero d‟un presente vistoso e
invivibile, in cui tutte le forme di convivenza umana sono giunte a un estremo del loro ciclo e non si può
immaginare quali nuove forme prenderanno. E ascolto dalla tua voce le ragioni invisibili di cui le città
vivevano, e per cui forse, dopo morte, rivivranno78.

L‟autore non ha nessun potere diretto sul lettore. Anzi, proprio qui sta il peso politico
della lettura: “Questo è il limite che neppure la più onnipresente polizia può valicare.
Possiamo impedire di leggere: ma nel decreto che proibisce la lettura si leggerà pur
qualcosa della verità che non vorremmo venisse mai letta…”79. La lettura lancia di per
sé un grosso scacco al potere del linguaggio istituzionale che ripete al lettore quello che
deve dire, al labirinto desertico infernale mondo, poiché “finché so che c‟è una donna
che ama la lettura per la lettura, posso convincermi che il mondo continua”80. Il racconto
cercato dal Lettore Modello di Calvino, cui dovrebbe unirsi il Lettore Empirico, è quello
in grado di dare un senso al mondo dopo la sua fine e pare essere rappresentato
dall‟ultimo racconto intitolato Quale storia laggiù attende la fine?. In un paesaggio da
fine del mondo il lettore raccoglie tracce e distendendole davanti a sé dà il via a una
narrazione orale81 non diversa da quella di cui dà notizia Kublai Kan nel passo delle
città appena citato, dove confessa il suo ruolo di lettore e uditore del fabulatore, che gli
racconta dell‟invisibile residuo di città im-possibili. Le tracce di possibilità prendono
spazio nel mondo attuale “così complicato, aggrovigliato e sovraccarico”82. In un primo
momento si presentano gli estranei e i passanti, gli sconosciuti, quelli che incontra
Celati nel suo peregrinare di flâneur in pianura: facce “degne d‟un sincero interesse”83.
Man mano che prosegue il cammino il mondo si disgrega sempre di più, resta solo una
“sconfinata pianura deserta e ghiacciata”84. È un caso che questo paesaggio quasi lunare,
“solo una distesa piatta e grigia di ghiaccio”85 sia così simile al paesaggio di Verso la
foce?

Eccomi dunque a percorrere questa superficie vuota che è il mondo. C‟è un vento raso terra che trascina
con folate di nevischio gli ultimi residui del mondo sparito: un grappolo d‟uva matura che sembra colta

78
I. Calvino, Le città invisibili, cit., pp. 143-144.
79
I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit., p. 850.
80
Ibidem.
81
Cfr. M. Lavagetto, Dovuto a Calvino, cit., p. 26: “Il lettore si trova in mezzo a frammenti di uno
spettacolo smontato, deve faticare, costruire lui stesso”.
82
I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit., p. 854.
83
Ibidem.
84
Ibid., p. 857.
85
Ibid., p. 858.

169
adesso dal tralcio, una scarpina di lana per neonato, un giunto cardanico ben oliato, una pagina che si
direbbe strappata86.

Rimangono residui al morire del mondo e della storia. Di fronte al deserto del mondo il
lettore deve raccogliere le tracce del possibile. E Calvino qui mostra nuovamente la
vittoria della fabulazione sulla scrittura, del racconto vivo d‟esperienza – della
narrazione orale a partire da residui, intorno al fuoco come i cacciatori 87 –
sull‟astrazione della scrittura come amministrazione:

Il mondo è ridotto a un foglio di carta dove non si riescono a scrivere altro che parole astratte, come se
tutti i nomi concreti fossero finiti; basterebbe riuscire a scrivere la parola «barattolo» perché sia possibile
scrivere anche «casseruola», «intingolo», «canna fumaria»88.

A che lettore racconta Calvino? All‟inizio di questo paragrafo s‟è detto che il
romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino s‟è ispirato anche alle
riflessioni sulla lettura compiute da Calvino, Celati e altri intorno al progetto di rivista
“Ali Babà”. Questo è un romanzo in cui il narratore si rivolge direttamente al Tu lettore
di seconda persona, che finisce coll‟avanzare delle pagine per diventare, nelle cornici,
parte della storia stessa. Il Lettore inizia a leggere un romanzo dal titolo Se una notte
d’inverno un viaggiatore, ma per un errore di stampa il romanzo continua uguale. Poi
scopre che il romanzo letto non era il vero romanzo di Calvino e va alla ricerca di quel
romanzo. In questo modo incontra una Lettrice, Ludmilla, che ha avuto lo stesso
problema nella lettura, cioè il romanzo s‟è interrotto ad un certo punto. Dal momento in
cui il Lettore vede la Lettrice, leggendo pensa sempre a lei. Nella cornice il fatto che per
tutto il testo il lettore venga interrotto e legga sempre un romanzo diverso da quello che
s‟aspettava, senza mai riuscire a finirlo, viene spiegato così: un certo Ermes Marana,
geloso dello scrittore Silas Flannery i cui romanzi attirano gli occhi dell‟amata –
Ludmilla, la Lettrice – inizia a falsificare traduzioni, ad attribuire titoli sbagliati a
romanzi con altri titoli, a tradurre liberamente da lingue morte, tutto per gelosia nei
confronti di Silas Flannery.

86
Ibidem.
87
Cfr. M. Rizzante, Il geografo e il viaggiatore, cit., p. 33: “Le narrazioni nacquero per la prima volta,
molto probabilmente, dall‟esperienza della decifrazione delle tracce animali da parte di veloci e astuti
cacciatori, i quali, una volta ritornati nel clan, attorno ad un fuoco, raccontavano le loro peripezie
venatorie”.
88
I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit., p. 861.

170
Il Lettore a cui Calvino si rivolge è un lettore che non si aspetta più niente da
niente, che vorrebbe solo evitare il peggio, è un lettore che lotta “con la vita senza senso
né forma”89 e contro il sogno come utopia, come Kublai-lettore, che cerca l‟aprirsi dello
spazio della possibilità90. La Lettrice, non appena appare sulla scena, lo attrae: lui legge
per desiderio di unirsi a lei. Il desiderio è anche quello di una fuga: se il mondo si disfa
e prova ad attrarre il Lettore nella sua dissoluzione, quest‟ultimo è come se cercasse –
proprio come il personaggio di Spingendosi dalla costa scoscesa – la via di un‟evasione
individuale “dalla prigione delle rappresentazioni del mondo che ribadiscono a ogni
frase la tua schiavitù”91; il lettore cerca un‟altra sintassi, altri codici che lo liberino dalla
necessità. “Leggere è andare incontro a qualcosa che sta per essere e ancora nessuno sa
cosa sarà”92. Il lettore ha di fronte a sé il libro, che nel caso de Le città invisibili s‟è
suggerito essere uno specchio, e grazie al libro il lettore “si confronta con qualcos‟altro
che non è presente, qualcos‟altro che fa parte del mondo immateriale, invisibile, perché
è solo pensabile, immaginabile, o perché c‟è stato e non c‟è più, passato, perduto,
irraggiungibile, nel paese dei morti… - … O che non è presente perché non c‟è ancora,
qualcosa di desiderato, di temuto, possibile o impossibile”93. Il libro, dice a un certo
punto Uzzi-Tuzii, è il gradino della soglia: entrandoci si accede al regno dei morti e dei
non nati, cioè dei possibili e degli impossibili. Quest‟ultimo passo è una bellissima
descrizione di come si presenti agli occhi del lettore empirico il paesaggio de Le città
invisibili. Chi legge muove da un desiderio pratico di liberazione dalla necessità e entra
in un mondo, il mondo scritto delle città, che racchiude in sé spazi contraddittori, dove a
tratti s‟intravede ciò che si desidera – l‟aprico –, a tratti ciò che si teme – l‟opaco –. Il
lettore proprio confrontandosi con la superficie di im-possibilità che il testo di Calvino
tiene insieme cerca di sfuggire al senso di vertigine e vuoto che è all‟origine, come si
legge ancora in Senza temere il vento e la vertigine, tramite il nastro che le città
formano, nastro che somiglia tanto a un ponte – quello di cui s‟è già parlato sopra –
gettato sul vuoto; le città come pietre leggere che non sono già più pietre si elevano dal

89
Ibid., p. 636.
90
Cfr. I. Calvino, Italo Calvino on Invisibile Cities, cit., pp. 37-42: “Un libro (io credo) è qualcosa con un
principio e una fine (anche se non è un romanzo in senso stretto), è uno spazio in cui il lettore deve
entrare, girare, magari perdersi, ma a un certo punto trovare un‟uscita, o magari parecchie uscite, la
possibilità d‟aprirsi una strada verso il fuori”.
91
I. Calvino, Per Fourier 3. Commiato. L’utopia pulviscolare, cit., p. 310.
92
I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit., p. 680.
93
Ibidem.

171
vuoto eppure “sotto ogni parola c‟è il nulla”94. Ma questo nulla è differente da quello
d‟origine. È lo spazio della possibilità, per chi legge, di riempire il testo, farsi fabulatore
a sua volta95. Le tracce si distendono sul vuoto e vanno ripercorse per tornare a narrare
oralmente96, i dettagli non a caso sono fittissimi nelle Città invisibili: qui sta uno dei
segreti dell‟utopia infinitesimale. “Mi faccio largo nella profusione di dettagli che
coprono il vuoto di cui non voglio accorgermi e avanzo di slancio”97. Questi dettagli,
tracciati liberamente dal fabulatore sulla scacchiera, sono i residui da raccogliere nel
deserto del paesaggio. Se nel racconto precedente la fuga sembrava possibile grazie a
una nave vista da lontano, qui invece l‟evasione si profila possibile grazie a un volo
nell‟aria. Si spiegherà più avanti che queste due soluzioni non sono tra loro
contraddittorie.
Piano piano si capisce che utopia discontinua98 e lettura sono strettamente legate e
questo si vede soprattutto nel personaggio di Ludmilla, la Lettrice che “s‟abbandona alla
corrente della lettura come all‟unico atto di vita possibile in un mondo in cui non resta
che sabba arida su strati di bitume oleoso e rischio di morte per ragion di Stato e
spartizione di fonti d‟energia…”99. Ludmilla in qualche modo sembra rappresentare il
Lettore Modello, mentre il Lettore Empirico è il Tu Lettore. E quindi tutto il libro può
essere interpretato come il tentativo di far unire Lettore Empirico e Lettore Modello.
Calvino si rivolge direttamente al lettore del suo libro e vorrebbe che diventasse una
cosa sola con Ludmilla, la Lettrice Modello. Infatti per Silas Flannery, lo scrittore,
Ludmilla è proprio la lettrice a cui lui punta e pensa: “Non faccio che seguire la lettura
di quella donna vista di qui, giorno per giorno, ora per ora. Leggo nel suo viso quel che
lei desidera leggere, e lo scrivo fedelmente…”100. Lo spazio che s‟apre nella lettura è
ben diverso dallo spazio reale.
Cosa s‟intende quando si dice che i mondi delle città invisibili sono im-possibili?
Si dice questo poiché per via delle contraddizioni ontologiche questi mondi non
94
Ibid., p. 691.
95
Cfr. C. Calligaris, Italo Calvino, cit., p. 109: “Spira così dall‟opera di Calvino una lezione di libertà, di
coraggio e di dialettica. Il lettore ideale del nostro […] il lettore-scrittore delle Città, non può rinnegare
questa lezione di libertà. Egli deve anzi rivendicare il proprio diritto ad interpretare liberamente ciò che
l‟opera gli propone”.
96
Ibid., p. 102: “Il testo è un vuoto riempito dalla lettura, lo spazio di un silenzio che interroga il lettore”.
97
I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit., p. 690.
98
Cfr. F. Serra, Calvino, cit., p. 295. Serra definisce quella di Calvino “un‟utopia d‟intatta purezza
edenica”.
99
I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit., p. 733.
100
Ibid., p. 734.

172
potrebbero attualizzarsi; pur tuttavia sono credibili, cioè possibili, in quanto costruiti a
partire da oggetti reali e quindi immaginabili101. L‟eterotopicità delle Città invisibili sta
proprio qui. Nella contraddizione ontologica interna risiede la forza dello spazio
eterotopico-utopico del libro di Calvino come specchio per il lettore. Le componenti di
ciascuna serie, come per esempio Le città continue, si escludono a vicenda. Lo spazio
rappresentato da Calvino è in questo senso postmoderno: le città sono ontologicamente
impossibili e ricordano i “mondi possibili im-possibili” di cui parla Umberto Eco, cioè
mondi immaginari e fittizi che “violano le nostre abitudini logiche ed epistemologiche”
o “includono contraddizioni interne”102. L‟eterotopia disturba la sintassi abitudinaria
che pare collegare parole e cose, nomi e spazi. Spazi senza rapporto tra di loro sono
posti l‟uno accanto all‟altro o sovrapposti. Molteplici e frammentari mondi decentrati e
incompatibili sono spalmati sulla superficie della pagina e si fanno leggere scioccando
la sintassi dominante del lettore103. Perciò è nella im-possibilità che risiede la forza del
testo di Calvino. È dall‟im-possibilità che provoca un effetto di straniamento sul
lettore104 che nasce la possibilità dell‟utopia discontinua e immanente105. Utopia che nel
suo farsi non è più tale. La fine dell‟idea di Storia come progresso rende inconcepibile
un traguardo utopico realizzabile in qualche città perfetta106: per questo Calvino
compone tra le sue pagine mondi impossibili fatti di tracce residuali da non comporre in

101
Cfr. M. Dini, Calvino critico, cit., pp. 115-116: “Il suo progetto, capace di unire la più ferrea logica
matematica alla più incontenibile carica immaginativa […] era proprio quello di legare la morfologia
letteraria a quella matematica ed esperire così tutti i possibili universi testuali, reali o virtuali, passati e
futuri”.
102
U. Eco, Piccoli mondi, in I limiti dell’interpretazione, Milano, Bompiani 1990, p. 206.
103
Cfr. R. Donnarumma, Da lontano. Calvino, la semiologia, lo strutturalismo, cit., p. 72. Riferendosi a
Calvino, Donnarumma scrive che “soprattutto nelle Città, il suo sforzo sta nel trasformare le parole in un
atto sociale, l‟irrealismo in chiave di lettura della realtà”.
104
Cfr. M. Dini, Calvino critico, cit., p. 55: “La letteratura che aspiri a questo tipo di arte deve
necessariamente […] [costruire] modelli di realtà non statici ma destinati ad essere messi continuamente
in discussione. Un‟aspirazione che deve tradursi in un discorso non totalizzante, ma probabilistico o, più
precisamente, «congetturale», che rompa l‟automatismo della percezione abitudinaria affidandosi non alla
mimesi naturalistica ma alle tecniche dello straniamento. Questa idea di letteratura interessa Calvino, che
ritiene vi sia una coincidenza tra l‟atteggiamento scientifico e quello poetico quando entrambi si pongono
come «atteggiamenti di ricerca e di progettazione, di scoperta e di invenzione»”.
105
Cfr. R. Donnarumma, Da lontano. Calvino, la semiologia, lo strutturalismo, cit., p. 62: ”Nelle città
invisibili l‟utopia, abbandonato il reale, non è una forma letteraria del possibile, ma dell‟impossibile”.
106
Calvino è diffidente verso ogni progetto utopico globale, totalizzante e che tenda a semplificare la
complessità storica.

173
nessun disegno superiore, ma da accettare così come sono, piccoli molteplici mondi in
miniatura107.
La nozione di mondo dell’opera d’arte si riferisce a una complessa entità che
richiede di essere sbrogliata attentamente da un punto di vista logico ed estetico: i
mondi che vengono mischiati nei testi possono assomigliare al mondo reale, ma
potrebbero ugualmente trattarsi di mondi impossibili o stravaganti. Le opere di fiction
combinano più o meno drammaticamente strutture del mondo incompatibili, giocano
con l‟impossibile e parlano incessantemente di ciò di cui è impossibile parlare 108.
Tuttavia, molto spesso esse si presentano come testi linguisticamente coerenti, ligie a
tutte le convenzioni, e non è cosa da poco il riunire insiemi eterogenei di mondi di
invenzione in testi unificati e ben rifiniti riuscendo a dare un senso alle tensioni che si
instaurano tra mondi e testi. Pavel è stato il primo ad affrancare i mondi di invenzione
dalla necessità logica di possedere vincoli semantici rigidi con il mondo reale. “I mondi
contraddittori non sono tanto distanti dalla realtà quanto si immagina. […] Allo scopo di
ottenere nuovi risultati estetici e cognitivi, la letteratura contemporanea spesso ipotizza
mondi impossibili come avveniva nell‟arte più arcaica”109. Il testo di Calvino è
composto da serie di frammenti narrativi discontinui che postulano delle alternative
possibili, lasciandole però inautenticate, e quindi palesandone l‟impossibilità. Il
paradosso critica il senso comune e il buon senso; sbeffeggia la sua supposta unicità
tranquillizzante; le città impossibili permettono una “conoscenza contestataria nei
riguardi del mondo reale”110, illuminando il mondo reale per una lettura diversa. La
macrostruttura del libro è a sentieri che s‟intrecciano, cioè apre varie alternative
incompatibili tra di loro, ma pur sempre legate, dà il via a molte città immaginarie
diverse che non conducono da nessuna parte perché non tendono a nessun punto
d‟agnizione. Pavel suggerisce un atteggiamento tipico degli scrittori postmoderni, cioè
costruire mondi di invenzione che consentano di mettere a nudo le proprietà della fiction
e di esplorarne le potenzialità. Istituire tali spazi di invenzione serve a espandere la
nostra percezione delle possibilità di invenzione. Un testo come Le città invisibili

107
Cfr. F. Muzzioli, Polvere di utopia, cit., p. 149: “È a partire dallo scacco dell‟utopia statica che la
narrativa di Calvino intraprende la ricerca tra «mondi impossibili» sempre più numerosi e miniaturizzati:
una vera e propria collezione di sabbia”.
108
T. G. Pavel, Mondi di invenzione, cit., pp. 92-93.
109
Ibid., p. 74.
110
M. Corti, Mondi possibili, cit., p. 58.

174
tematizza l‟incompletezza riflettendo così sia sulla natura della fiction, sia sulla natura
del mondo: il distacco radicale non è che una delle numerose strategie impiegate dai
testi postmoderni per evidenziare la loro ansia di mettere a nudo le proprietà della
fiction; per quanto riguarda la natura del mondo, appartenendo a un universo
tragicamente dissociato (quel disordine, quella disarmonia di cui parla Calvino), non ci
si deve aspettare dalla letteratura che la produzione di specchi opachi e infranti di una
realtà imperscrutabile. La fiction postmoderna coglie in modo antimimetico la difficoltà
del percepire, del dare senso al mondo. I periodi di transizione e di conflitto, come
quello che ha visto nascere Le città invisibili, tendono a esasperare l‟incompletezza dei
mondi di invenzione. Il catalogo di mondi fittizi e diversi spalmati sulla superficie della
scacchiera dovrebbe fare in modo che il lettore acquisisca una nuova visione della
realtà, di maggior complessità e ludicità, condizionandolo positivamente al punto da
fargli scrutare l‟aprico – la luce – nella nebbia – nell‟opaco del mondo –, e infine
renderlo lettore attivo architetto in sé della città perfetta costruita frammento per
frammento, spazio vuoto per spazio vuoto, possibilità per possibilità. La creazione di
una distanza è uno degli scopi principali dell‟attività immaginaria, e ricorda il
movimento che si chiede al lettore nelle città, attraverso Bauci: Pavel così sintetizza le
acquisizioni di un approccio funzionalista alla fiction, che ben si ricollega a quello che
si è detto sullo straniamento, sull‟incoerenza e la contraddittorietà delle città a cui il
testo di Calvino ha dato vita e che avvicina a quel che si dirà ancora più avanti sulla
funzione dell‟opera letteraria:

Il viaggio incarna l‟operazione centrale dell‟immaginazione, sia esso realizzato come sogno, trance
rituale, estasi poetica, mondi immaginari […]. Lo scandalo, l‟inaudito, le insopportabili tensioni della vita
sociale e personale quotidiana vengono espulse dall‟intimità dell‟esperienza collettiva e innalzano, a
distanza ben visibile, la loro virulenza esorcizzata dall‟esposizione all‟occhio pubblico tramite quella rete
di sicurezza che è la distanza esemplare. […] Alla distanza simbolica si chiede di guarire ferite procurate
tanto dall‟intollerabile splendore quanto dalle mostruosità del tessuto sociale. Ma la cura non ha effetto se
non la si dimostra in qualche modo legata alla realtà. La distanza simbolica va completata da un principio
di cospicuità. […] L’opera letteraria molte volte non è proiettata nella distanza di invenzione per essere
contemplata in modo neutro, ma […] invece esercita un influsso concreto sul mondo dell’osservatore.
[…] La disciplina della narrazione e l‟unità della composizione non sono mai state in grado di imporsi
decisamente sulla produzione di invenzione. Così come la severità ontologica del progetto di verità è stata
di volta in volta mitigata dall‟intervento dei mondi di fantasia, la severità compositiva del racconto ben
focalizzato viene periodicamente contraddetta dalla dispersione, dalla sistemazione scorretta e
dall‟incoerenza. Dal momento che ci serve uno spazio alieno in cui liberare l‟energia dell‟immaginazione,
ci sono sempre stati e sempre ci saranno mondi di invenzione lontani […] mondi di invenzione incoerenti
[…] mondi destinati a suscitare un senso di vertigine e di faceta trasgressione [corsivo mio]111.

111
T. G. Pavel, Mondi di invenzione, cit., pp. 215-220.

175
Di mondi possibili in riferimento a Le città invisibili parla ancora Eco, aiutando a
chiarire il discorso sin qui fatto soprattutto in merito alle città invisibili come mondi
possibili, in riferimento all‟idea di utopia. Eco cita Fedora per spiegare che ogni utopia,
proprio quando crede di aver trovato i mezzi per cambiare il mondo reale constata che la
realtà non è già più come in principio: “Le rivoluzioni non possono avere testi sacri, le
rivoluzioni o sono illuministe o non sono”112. La ricchezza di Fedora sta nel fatto che lì
vive qualcuno che progetta sempre una Fedora diversa e per ciò stesso la Fedora reale
muta, non è più uguale a se stessa. Ciò che Eco scrive a proposito di Fedora vale di
conseguenza per ogni città invisibile e serve a spiegare la carica politica del testo di
Calvino113 e la battaglia del possibile contro il necessario114:

I mondi possibili come costrutti epistemici sono reali in quanto sono incassati, e non solo sintatticamente,
nel mondo reale che li produce. Utopia è innanzitutto reale perché esiste nel mondo reale un Thomas
More che produce Utopia. I possibili non sono paralleli, sono proposizionalmente uno dentro l‟altro, e
ciascuno partecipa un poco della realtà del proprio contenitore. Il che, se non sul piano ontologico, sul
piano etico è motivo di alquanta consolazione. […] Proprio la presenza delle Fedore possibili, che non
potranno mai essere tali e quali, lascia pensare che la Fedora attuale non sia poi così necessaria, e che
quindi possa essere cambiata. Non si torna nel tempo a cambiare la possibilità che si è verificata: ma
contemplando il controfattuale nel quale si è verificato il suo contrario, a mo’ di ripresa, saltando
indietro per gioco, si balza in avanti per davvero, alla ricerca di una terza possibilità non ancora data, la
cui possibilità è stata rivelata dal gioco della combinatoria, nostalgica, dei possibili [corsivo mio]115.

L‟atlante del Gran Kan di cui si legge nell‟ultimo triangolo raffigura città reali come
Costantinopoli, Gerusalemme e Samarcanda, Granada, Lubecca e Parigi, oltre a
Timbuctù. Compare persino Urbino, insieme a Nefta e al Monte San Michele. Ma non è
di queste città reali che importa, poiché in fondo, come dice Marco Polo “viaggiando ci
s‟accorge che le differenze si perdono: ogni città va somigliando a tutte le città, i luoghi
si scambiano forma ordine distanze, un pulviscolo informe invade i continenti [corsivo
mio]”116. Le città invisibili, ovvero i mondi narrativi sorti grazie all‟attività fabulatoria di
Marco, sono quelle città “di cui né Marco né i geografi sanno se ci sono e dove sono,

112
U. Eco, La combinatoria dei possibili e l’incombenza della morte, in Sugli specchi e altri saggi cit., p.
209.
113
Cfr. M. Belpoliti, Settanta, cit., p. 372: “Le città invisibili sono un libro politico. Non solo perché si
occupano di un «oggetto» così decisivo per gli uomini come è la città, ma perché evidenziano la
questione del rapporto tra letteratura e politica in un‟epoca in cui entrambe sono messe radicalmente in
discussione dagli avvenimenti storici e culturali”.
114
Cfr. C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, cit., p. 143: “Il fatto che si possano
immaginare altre Fedore lascia sperare che la Fedora attuale possa essere trasformata”.
115
U. Eco, La combinatoria dei possibili e l’incombenza della morte, cit., pp. 209-210.
116
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 145.

176
ma che non potevano mancare tra le forme di città possibili”117. A queste città può
essere attribuito un qualsiasi nome proprio, parte del discorso senza referente, nome che
si riempie cambiando di fronte ad ogni nuovo lettore, cioè viaggiatore, che abbia seguito
il fabulatore nel suo vagabondare. Le città tutte insieme portano alla Città del Possibile,
che raccoglie i suoi elementi di città invisibile in città invisibile e che può essere
raggiunta, data la sua inesistenza, da qualsiasi altro luogo, “per le strade e per le rotte
più diverse, da chi cavalca carreggia rema vola”118. Lo scacco che le città im-possibili
lanciano alla città reale è la capacità di conservare le differenze, il lontano nel vicino,
cioè le tracce di possibilità di lettura. Le città funzionano proprio perché sono nomi
senza referente, parole senza corrispondenza nel mondo reale, proprio perché sono
impossibili: “Il tuo atlante custodisce intatte le differenze: quell‟assortimento di qualità
che sono come le lettere del nome”119. Se le città reali, se la metropoli neocapitalistica si
confonde con le altre in un magma senza fine né forma, se è deserto che non fa respirare
chi ci vive, se è pietra pesante di condominio che non mostra orizzonti, queste città
invisibili sono invece il catalogo delle città im-possibili: non raffigurano città
paradisiache che potrebbero, in uno slancio di umanesimo messianico, salvare
l‟uomo120, ma:

L‟atlante ha questa qualità: rivela la forma delle città che ancora non hanno una forma né un nome. […] Il
catalogo delle forme è sterminato: finché ogni forma non avrà trovato la sua città, nuove città
continueranno a nascere. Dove le forme si esauriscono le loro variazioni e si disfano, comincia la fine
della città121.

Le forme delle città possibili122, e anzi im-possibili, che quindi non potranno mai
realizzarsi, sovvertono l‟informità della città reale, il suo desertico sfacelo 123. Per

117
Ibid., pp. 144-145.
118
Ibid., p. 145.
119
Ibidem.
120
Cfr. M. Belpoliti, Settanta, cit., p. 371: “Il progetto di Calvino è rigorosamente anti-antropocentrico;
presuppone la fine della centralità dell‟Uomo nell‟ambito della cultura e dei saperi”.
121
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 146.
122
Cfr. G. Barberi Squarotti, Il teorema e il labirinto della scrittura, cit., p. 46: “Le città che marco
descrive sono le città possibili, quelle che, con il procedimento della combinazione degli elementi che
costituiscono per definizione la città, possono essere formate. Marco non descrive nessuna città esistente,
ma cerca di esaurire nei suoi racconti il catalogo delle città che potrebbero esistere. […] Kublai pretende
la conoscenza del suo impero, che Marco allarga infinitamente presentandoglielo come il luogo senza
limiti e confini del possibile, cioè come il dominio della letteratura, che non ha come proprio oggetto la
storia e la vita come sono, ma come potrebbero essere, non il dato e l‟oggetto e il fatto, ma i dati e i fatti e
gli spazi e i luoghi che potrebbero essere e che la parola fa esistere in modo definitivo non appena li ha
fissati nel racconto, così moltiplicando specularmente all‟infinito il reale”.

177
sfuggire dal deserto non si deve cercare l‟oasi Utopica, bensì iniziare a collezionare
dettagliatamente i granelli di sabbia, distendendo sulla superficie inedite composizioni
sabbiose, che contestino l‟aridità del deserto piatto mondo reale. Riconoscere nel
deserto la traccia e ritornare a narrare a partire da essa. Lo scopo non è quello di
cambiare la possibilità realizzata – come spiega Eco – ma leggendo del controfattuale,
non realizzato anzi, irrealizzabile ed im-possibile, si cerca una nuova possibilità124, una
possibilità di lettura del mondo che si fa subito scrittura: di questa possibilità si sa
qualcosa grazie alle tracce sparpagliate sul terreno di gioco da quella che Eco definisce
“combinatoria nostalgica dei possibili”125. La città perfetta è invisibile, ma non è una
particolare città invisibile. Si raccoglie lo sguardo su di essa grazie alla traccia che ogni
casella bianca racchiude126, riempiendo lo spazio vuoto della referenza di una nuova
narrazione orale. Questo movimento si legge bene nell‟ultimo triangolo dove prende
spazio, tra le Città Continue, la possibilità delle Città Nascoste127. Allo sguardo si
richiede di elevarsi come in Bauci, grazie all‟albero della Vita, sulla Città del Possibile,
e di riconoscere la traccia di aprico nella distesa continua di opaco. Questo significa
raccontare, a partire da questi residui, nel deserto del mondo, come Celati in Verso la
foce. Calvino chiarisce quello che intende nel saggio L’ordinatore dei desideri, dove
parla di un‟utopia che ha la sua forza nella irriducibilità a ogni conciliazione:

123
Cfr. R. Donnarumma, Da lontano. Calvino, la semiologia, lo strutturalismo, cit., p. 40: “L‟utopia
educativa di Calvino si fonda infatti sulle capacità dell‟immaginazione di pensare un ordine dei possibili,
e di scendere da questo all‟ordine delle cose”. Ogni pagina è combinazione di possibili non ancora
realizzati o irrealizzabili, cioè impossibili.
124
Donnarumma spiega come per il Marco Polo calviniano la letteratura sia soprattutto esercizio di
inesistenza. Le favole sono costruite altrove rispetto alla realtà. È possibile migliorare la società attuale, il
mondo attuale, solo confrontandolo con società radicalmente altre: le città immaginarie. Soltanto una
letteratura dell‟irreale può avere effetti sul reale.
125
U. Eco, La combinatoria dei possibili e l’incombenza della morte, cit., pp.210.
126
Cfr. G. Dematteis, La superficie e l’altrove, in G. Bertone (a cura di), Italo Calvino. La letteratura, la
scienza, la città, cit., pp. 98-99: “Questa è a mio avviso l‟essenza dell‟immaginazione geografica: la
capacità cioè di scoprire nella gran confusione di segni che anima la superficie del Pianeta la forma di
mondi che possono nascere dal fondo oscuro della Terra per essere proposti, accettati e quindi realizzati
nella rete delle interazioni umane. […] Forse i mondi che dobbiamo sempre scoprire e costruire non li
troviamo già bell‟e pronti nell‟altrove, ma certamente l‟altrove ci aiuta a trovarli. […] L‟altrove ci
suggerisce una fuga di mondi al di là del nostro limitato orizzonte. Una fluidificazione delle costrizioni
spaziali e perciò delle forme stesse; una trans-formazione continua. Perciò esso parla all‟immaginazione
geografica che sa usare la forma necessaria delle cose per andare al di là di esse e della loro stessa
meraviglia”.
127
Cfr. l‟articolo che Calvino scrive in “L‟espresso” del 5 novembre 1972: “L‟ultima parola, dopo «Le
città continue», spetta alle «Città nascoste». Una città infelice può contenere, magari solo per un istante,
una città felice; le città future sono contenute nelle presenti come insetti nella crisalide”.

178
In opposizione radicale non solo al mondo che ci circonda ma ai condizionamenti interni che governano
le nostre attribuzioni di valori, la nostra immaginazione, la nostra capacità di desiderare una vita diversa,
il nostro modo di rappresentarci il mondo: una rappresentazione totale che ci liberi dentro per renderci
capaci di liberarci fuori128.

L‟aspetto visionario dell‟utopia conta perciò per Calvino più che la sua effettiva
realizzabilità129. L‟utopia funziona se non è più tale, se si narrano mondi fittizi in uno
spazio eterotopico che abbia un effetto sul lettore130. Lo scrittore sanremese non crede
più nella possibilità di una città perfetta fuori, sa che non potrà mai esistere la città di
Utopia. Se Tommaso Moro parlò della sola capitale di Utopia, trascurando le restanti 54
città, poiché bastava per lui la sola conoscenza della capitale per conoscere le altre,
Calvino stende invece su Bauci il velo dell‟invisibilità: al centro della scacchiera, nel
punto di simmetria del diagramma resta quella casella semivuota: ma lo scrittore
sanremese descrive invece le altre 54 città. La città perfetta non esiste e non esisterà
mai. Proprio per questo Calvino segue Fourier, riformulando l‟idea dell‟utopista di
un‟alleanza del meraviglioso con l‟aritmetica, nella formula di un‟alleanza dell‟eros con
la cibernetica. All‟origine c‟è il senso di una minaccia collettiva – lo sfacelo, il deserto –
combinata all‟attrazione femminile131, all‟eros di ogni città come Venere, o di Ludmilla
come Lettore Modello. Le città non sono solo mondi, ma sono donne perché devono
attrarre. Il sistema è la prigione, la forma chiusa, la mancanza di libertà del lettore, è
monologo, mentre quello che Calvino definisce sistematico, rifacendosi a Barthes132, ha
nell‟ambiguità e nella contraddizione la sua forza, è scrittura e dialogo – narrazione –
nello stesso tempo. Il sistematico inoltre non esige come il sistema l‟applicazione di una
qualche regola, ma mette in moto soprattutto la trasmissione, la circolazione: in altri
termini il sistematico mette in giro la fabulazione indotta e proprio per questo l‟opera
sistematica sa già che sarà deformata dal lettore medesimo, dato che non è satura.
128
I. Calvino, Per Fourier 2. L’ordinatore dei desideri, in Saggi 1945-1985, tomo I, cit., p. 281.
129
Cfr. R. Donnarumma, Da lontano. Calvino, la semiologia, lo strutturalismo, cit., p. 61: “L‟irrealismo
della rappresentazione è per Calvino garanzia della sua efficacia: l‟immagine mentale è più vera delle
esistenze concrete”.
130
Cfr. M. Dini, Calvino critico, cit., p. 132: “Si tratta, pertanto, di una possibilità solo teorica e astratta
della quale non importa verificare la realizzabilità: ogni costruzione utopica è, infatti, innanzitutto, un
prodotto del pensiero, una dimensione della mente che necessariamente si scontra con la realtà dei
fenomeni e dei fatti, in alternativa alla quale è pensata”.
131
Cfr. M. Belpoliti, Settanta, cit., pp. 236-237: “Sia per la cornice che per i dieci inizi di romanzi, la
forza propulsiva del racconto è data dal desiderio di una o più donne. […] Il Lettore insegue la Lettrice.
[…] Ogni storia contiene al suo interno la ricerca di una donna: amata, agognata, vagheggiata, scambiata,
condivisa con altri”. Così come il desiderio delle donne muove Se una notte d’inverno un viaggiatore, il
desiderio delle città-donne muove Le città invisibili.
132
Cfr. R. Barthes, Sade, Fourier, Loyola, Einaudi, Torino 1977, pp. 65-108.

179
Quindi già si chiarisce in che senso il lettore deve farsi a sua volta fabulatore: “L‟autore
è qualcuno che si mette a tavolino e scrive, ma scrivendo ha presente – magari senza
pensarci – il suo pubblico, i suoi lettori passati e futuri. Quindi siete autori anche voi”133.
Calvino, come Fourier, si distanzia da una qualche forma d‟illusione di trasparenza sul
mondo, manipola un congegno, le pagine del suo testo come serie discontinue, per
mettere alla prova la capacità del lettore di pensare e «vedere» la sua libertà e quella
degli altri. La forza del testo di Calvino sta nella sua assurdità, nello sforzo che richiede
per riformulare una serie di tracce cosparse in superficie. I mondi funzionano se sono
impossibili, se sono così lontani dal mondo come si è abituati a vederlo da essere in
grado di presentare un‟altra sintassi, altri codici134. Sono mondi fittizi, di per sé né
migliori dei veri né tantomeno realizzabili, ma soprattutto differenti: mondi che hanno
la funzione di portare il lettore a vedere la realtà svincolandosi dai condizionamenti
percettivi a cui il mondo neocapitalistico lo ha abituato, mondi distanti dalla normale
esperienza del lettore135. In questo modo, lo sguardo del Lettore Empirico, riflettendosi
nel progetto estetico alternativo, riuscirebbe a riconoscere la realtà, criticarla nella sua
necessità e magari anche a modificarla. In linea di principio la realtà si mostra come
superabile, non tanto perché una delle città sarebbe la città che si auspica – poiché
nessuna delle città invisibili è perfetta – ma perché ogni città critica con il suo lato
apricale il lato opaco che la riguarda. E anche nel complesso ci sono gruppi di città,
serie, più soleggiate di altre: le città al centro della scacchiera – intorno a Bauci – ma
soprattutto le Città Nascoste136. Sparpagliate sul terreno di gioco riposano tracce
discontinue di possibilità, e l‟impossibilità e contraddittorietà complessiva del disegno
133
I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., p. 1206.
134
Cfr. I. Calvino, Due interviste su scienza e letteratura, in Saggi 1945-1985, tomo I, cit., p. 236: “La
letteratura costruisce delle figure autonome che possono servire come termine di confronto con
l‟esperienza o con altre costruzioni della mente. È solo attraverso questa riflessione del lettore che la
letteratura può collegarsi a un‟attività morale, cioè solo attraverso un confronto dei valori che il lettore
cerca con quelli che l‟opera letteraria sembra suggerirgli o implicare. Ma bisogna che sia una riflessione
critica. […] L‟importante è che il lettore trovi nel racconto dei materiali fantastici che entrino in
risonanza col suo particolare linguaggio, muovano in lui reazioni e contrasti”.
135
Cfr. C. Gaiba, L’“utopia pulviscolare” delle Città invisibili, in “Critica letteraria”, XXVI, I, n.
98/1998, pp. 74-75: “È questo il progetto che Calvino cercherà di realizzare nelle sue Città invisibili, che
proprio grazie alla loro invisibilità, al loro non esserci, costituiscono l‟unica possibile salvezza per
l‟impero in rovina di Kublai Kan. […] Non è attraverso la loro esistenza oggettiva che le città parlano alla
sua attenzione [dell‟imperatore], ma attraverso la leggerezza e la precisione cristallina di un disegno
sottile, tanto sottile da sgusciare via attraverso le strette maglie del tempo e della dissipazione
progressiva”.
136
Cfr. l‟articolo che Calvino scrive su “L‟espresso” del 5 novembre 1972: “Le immagini più felici di
città che vengono fuori sono rarefatte, filiformi, come se la nostra immaginazione ottimistica oggi non
potesse essere che astratta”.

180
che le nasconde, nel medesimo tempo deride, giocandoci, la parte di realtà fattuale
rappresentata137. Ogni città invisibile è una piccola scacchiera con la sua casella vuota e
i suoi lati neri o bianchi, un insieme di contraddizioni create dalla superficie del nastro
di Möbius. Celati scrive: “Per parlare di questi luoghi occorre sempre parlare anche del
loro contrario, del risvolto di impossibilità che essi mantengono insieme alla loro
effimera possibilità”138. Ma questa utopia non fa l‟errore di separarsi completamente dal
mondo reale, non si nasconde nelle pagine di finzione calviniane per fare sognare un
qualche lettore particolarmente sensibile: non è soltanto utopia. Anzi, mostrando la
contraddizione nel testo Calvino fa vedere che “i paradossi sono nella realtà, nel mondo
che ci circonda”139. Li porta sulla superficie del libro: se il lettore è prigioniero, come
era Faria, è inutile scavare in una supposta profondità del mondo per cercare il senso, e
questo vale anche per il libro; è necessario piuttosto ritrovare sulla pianura del mondo le
tracce sconvolgenti di un corso diverso delle cose. Per questo il libro di Calvino non è
utopico nel senso criticato da Foucault, non è favola consolante. È piuttosto eterotopico-
utopico: rappresenta, sovverte e contesta. La traccia, il possibile residuo, rivoluziona lo
sguardo del lettore, si butta sul suo corpo. Le città invisibili è un non luogo certo, ma è
pure un luogo reale, come libro.

137
Cfr. P. Kuon, Critica e progetto dell’utopia: “Le città invisibili” di Italo Calvino, in M. Barenghi, G.
Canova, B. Falcetto (a cura di), La visione dell’invisibile, cit., p. 34: “L‟utopia del momento estetico nelle
Città Invisibili apre così spazi di possibilità i quali – che vengano effettivamente percorsi oppure no –
mostrano la realtà «fattuale» come una realtà in linea di principio superabile”.
138
G. Celati, Recensione inedita, cit., p. 110.
139
I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., p. 1206.

181
§ 3.2 L’utopia discontinua, pulviscolare e immanente: la lettura delle
tracce di aprico come ritorno alla narrazione dei giusti

Calvino nelle Città invisibili


ci aiuta a pensare
a una prassi della superficie140.

Si procede a mostrare il secondo modo in cui il testo di Calvino opera sul lettore
Se l‟intento degli intellettuali riuniti a Bologna era quello di riscoprire la fondamentale
poeticità del linguaggio politico, cioè il suo legame con il mito, si legga cosa scrive
Calvino:

L‟immaginazione politica ha sempre bisogno d‟un altrove, ma geograficamente determinato: certo, se


immaginazione dev‟essere, […] deve privilegiare territori fluidi, aperti a interpretazioni che lasciano
margine alla creatività dell‟interprete141.

Il territorio qui additato dall‟intellettuale ligure come fluido e aperto, capace di lasciare
spazio al lettore, non è altro dal terreno di gioco su cui si muove il fabulatore – e il
lettore con lui – ne Le città invisibili. Si capisce quindi che l‟immaginazione come
repertorio del potenziale risponde all‟esigenza dell‟immaginazione politica proprio
lasciando aperto lo spazio della referenza: l‟immaginazione come l‟intende Calvino apre
uno spazio rivolgendosi al lettore politico, e alla sua immaginazione, affinché
riempiendolo inizi a sua volta a farsi fabulatore. Ma come avviene effettivamente questa
riformulazione del linguaggio politico tesa alla riscoperta della sua poeticità? Calvino
paragona l‟opera di Fourier a quella di un alchimista che cerca di cambiare
interiormente l‟uomo attraverso la trasformazione della materia e dice che proprio per
questo prima che un utopista Fourier dovrebbe essere considerato un poeta142, l‟Ariosto
degli utopisti, poiché i poeti manipolano la materia linguistica e mitica “nella speranza

140
G. Celati, Recensione inedita, cit., p. 110.
141
I. Calvino, Per Fourier 3. Commiato. L’utopia pulviscolare, cit., p. 308.
142
Cfr. I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., p. 1127: “Ora solo da quel privilegiato che è l‟artista o il poeta,
scrivere questa lettera è lavoro, certo che lo è, e oltre che costarmi sforzo mi procura piacere, - perciò fine
necessario d‟ogni progetto di società futura, perciò Fourier non può essere messo da parte”.

182
di riuscire attraverso ad esse a «cambiare la vita»” 143. L‟intellettuale ligure confessa di
aver letto Fourier come fosse un romanziere, un poeta, “cioè per appropriarsi d‟un
sistema fantastico-morale”144. L‟importanza di Fourier sta secondo Calvino nell‟aver
considerato il valore estetico come utopia contestatrice del presente: la stessa opera di
Fourier va guardata come un oggetto estetico la cui rilevanza sta nel “vedere un mondo
completamente diverso, di descriverlo nei più minuti particolari, di analizzarlo nel
meccanismo delle sue motivazioni”145. La manipolazione del congegno, delle pagine
come cartoline affiancate in serie, in Calvino avviene attraverso la macchina letteraria
che “può effettuare tutte le permutazioni possibili in un dato materiale”146. Non è
scontato che questa manipolazione si faccia poesia:

Il risultato poetico sarà l‟effetto particolare d‟una di queste permutazioni sull‟uomo dotato d‟una
coscienza e d‟un inconscio, cioè sull‟uomo empirico e storico, sarà lo shock che si verifica solo in quanto
attorno alla macchina scrivente esistono i fantasmi nascosti dell‟individuo e della società147.

Il congegno funziona se mette alla prova, come quello di Fourier, la capacità di pensare
e vedere la libertà di tutti, “di dare senso e rigore a una rappresentazione illimitata dei
nostri desideri”148. Fourier non vuole che il suo discorso sia inteso in senso normativo,
ma obbliga il lettore “a ricordarsi che quello che ha di fronte è un testo scritto, la cui
efficacia non risiede nella sua illusione di trasparenza”149. Chiedendosi quale particolare
struttura combinatoria assolva alla funzione strategica di provocare un‟abreazione nel
lettore che faccia sì ch‟egli muti il suo sguardo sul testo stesso e sul mondo,
raggiungendo così il risultato poetico, si ripropone il problema dell‟effetto letterario.
Per chiarire il punto d‟arrivo del testo di Calvino si ritiene utile nuovamente
applicare i risultati delle riflessioni degli intellettuali riuniti a Bologna a proposito della

143
I. Calvino, Introduzione, in C. Fourier, Teoria dei quattro movimenti. Il nuovo mondo amoroso,
Einaudi, Torino 1971, p. XXIX.
144
I. Calvino, Per Fourier 3. Commiato. L’utopia pulviscolare, p. 314.
145
I. Calvino, Per Fourier 1. La società amorosa, in Saggi 1945-1985, Tomo I, cit., p. 275. Cfr. C. Gaiba,
L’“utopia pulviscolare” delle Città invisibili, cit., p. 73: “Ciò che lo scrittore ammirava maggiormente
nell‟utopista francese era la capacità di elaborare un rigorosissimo ordine fantasmatico, da realizzare,
prima che nella società, all‟interno di ogni singolo soggetto. […] Il coraggio, insomma, di portare l‟utopia
all‟interno del proprio modo di essere e di pensare”.
146
I. Calvino, Cibernetica e fantasmi, cit., p. 221.
147
Ibidem.
148
I. Calvino, Introduzione, in C. Fourier, Teoria dei quattro movimenti. Il nuovo mondo amoroso, cit., p.
XXX. In questo caso Calvino “rivela […] una carica rivoluzionaria nella produzione di istanze liberatorie
del linguaggio e del pensiero”. Cfr. C. Calligaris, Italo Calvino, cit., p. 99.
149
Ibidem.

183
funzione dell‟opera letteraria. È importante riepilogare brevemente le acquisizioni fatte
sin qui per vedere dove portino, sul versante del lettore. L‟intento di Celati e Calvino è
quello di riportare il linguaggio politico alla sua poeticità. Ciò implica ritrovare nel
linguaggio politico, come in ogni linguaggio, una fondamentale mitopoieticità: riportare
la letteratura a funzionare come luogo dei fondamenti mitici dell‟operare umano. Questo
vuol dire che i significati che si giocano nella letteratura non valgono solo per la
letteratura. Ritornare alla mitopoieticità del linguaggio significa per gli intellettuali
italiani rifarsi a una cosmologia che sia legata alla prassi e al reale. In altri termini il
linguaggio politico riformulato deve essere da una parte proiezione del desiderio umano,
dall‟altra strategia per questo desiderio. La strategia è determinata dalle regole e dal
contesto, ma la strategia efficiente non è soltanto da questi deducibile. La finalità della
strategia si dice funzione ed è l‟adattamento della struttura al contesto. La struttura,
altresì chiamata modello strutturale, adottato nel testo del 1972 è il gioco degli scacchi.
Il contesto labirintico a cui il modello strutturale, cioè il gioco degli scacchi, si adatta
per adottare una strategia è il nastro di Möbius, ultima propaggine del mondo infernale
che non è tale se giocando, cioè andando alla ricerca della strategia efficiente, si scopre
in esso una casella vuota, ossia la via di fuga che coincide con il farsi fabulatore del
lettore. Per questo la strategia di adattamento del modello strutturale al nastro di Möbius
diventa via di fuga in due sensi: sul nastro si crea la casella vuota sotto lo scacco e
inoltre il nastro fa ritornare su di sé il lettore, ma dall‟altra parte. Il testo cioè
rivoltandosi su se stesso butta fuori al lettore empirico il suo effetto che vuole ch‟egli
coincida con il Lettore Modello, Kublai Kan150.
In Cibernetica e fantasmi Calvino fa un‟affermazione importante a proposito dei
rapporti che si stabiliscono tra fabulazione e mitopoiesi:

150
Cfr. B. Ferraro, Il castello dell’If e la sua struttura in “Le città invisibili” di Italo Calvino, cit., p. 109:
“L‟atlante di Kublai Kan con le sue ragioni utopiche ci permette di parlare dell‟influsso che la topologia
può aver esercitato sulla composizione e distribuzione delle città: è importante tener presenti […] le
proprietà che in topologia governano i cambiamenti, le trasformazioni e le varianti, tanto da lasciarci
incapaci di distinguere, come nel caso della superficie di Möbius, il «fuori» dal «dentro». La rotazione del
grafico della struttura di Le città invisibili su un suo asse potrebbe suggerire la forma della spirale: la
rotazione interna ci porterebbe alla «città infernale» suggerita da Kublai Kan, mentre la rotazione verso
l‟esterno, già contemplata da Calvino nei suoi saggi teorici, ribadisce la forza totalizzante della letteratura
e in essa determina la posizione centrale dell‟intelligenza umana, del libero arbitrio e della scelta
esistenziale”.

184
La fabulazione precede la mitopoiesi: il valore mitico è qualcosa che si finisce per incontrare solo
continuando ostinatamente a giocare con le funzioni narrative151.

La funzione a cui tende per eccellenza Le città invisibili s‟è mostrato essere lo
straniamento. Lo straniamento può essere spiegato come il ritrovamento da parte del
lettore di un punto limite, un punto virtuale, cioè un trauma che provoca uno sblocco
fornendo un linguaggio simbolico e corporeo. L‟opera letteraria quindi funziona se
trova e se sprigiona, per così dire, questo linguaggio corporeo supplementare nel lettore.
Giocando mediante lo straniamento si dovrebbe incontrare il valore mitico che coincide,
se riformulato in un certo modo, con la fornitura di un linguaggio simbolico e corporeo
al lettore che gli chiede di muoversi, cambiare modo di leggere. Il mito è secondo
Calvino “la parte nascosta di ogni storia, la parte sotterranea, la zona non ancora
esplorata perché mancano le parole per arrivare fin là. […] Per raccontare il mito
occorre un concorso di segni polivalenti, cioè un rito. Il mito vive di silenzio oltre che di
parola”152. Perciò il silenzio rituale tramite il quale esprimendosi con le mani Marco
Polo e Kublai Kan aprono lo spazio eterotopico ha pure una seconda funzione. Ogni
mito presuppone un rito. E quest‟ultimo si fonda sulle necessità della prassi. Ecco in che
modo ci s‟avvicina a capire da un lato il legame tra mitopoiesi e fabulazione153 e
dall‟altro tra poesia e politica. Se il rito realizza drammaticamente l‟archetipo, cioè
riporta il linguaggio al legame che ha con il corpo, resta però in silenzio, nel testo di
Calvino. Serve qualcosa di più: è necessario cioè che la fabulazione nella sua
esplorazione del terreno di gioco tramite la giustapposizione di luoghi contraddittori e
im-possibili s‟imbatta nel mito “che è la realizzazione narrativa dell‟archetipo”154. La
rivelazione dell‟archetipo è ciò cui tende il trauma, ciò che viene postulato dal trauma,
cioè dallo straniamento. Attraverso il trauma, il testo dovrebbe rivelare l‟archetipo. Qui

151
I. Calvino, Cibernetica e fantasmi, cit., p. 222. Cfr. M. Dini, Calvino critico, cit., p. 30: “Ogni mito è
la consacrazione di un evento unico e irripetibile ma che torna a ripetersi e a rinnovarsi infinite volte nel
gesto rituale o nella memoria, un evento sottratto alla temporalità. […] Alla base di ogni mito (individuale
e collettivo) vi è un nucleo di realtà inafferrabile, indecifrabile, irrazionale. Parimenti alla base di ogni
favola, di ogni racconto esiste un fondo mitico-simbolico”.
152
I. Calvino, Cibernetica e fantasmi, cit., p. 218.
153
Cfr. M. Barenghi, Introduzione, in I. Calvino, Saggi 1945-1985, tomo I, cit., p. XXV: “La forza
mitopoietica della letteratura faceva tutt‟uno con la sua attitudine a seguire itinerari «che costeggiano e
scavalcano le barriere delle interdizioni, che portano a dire ciò che non si poteva dire, a un inventare che è
sempre un re-inventare parole e storie che erano state rimosse dalla memoria collettiva e individuale»”.
Cfr. I. Calvino, Cibernetica e fantasmi, cit., p. 218.
154
I. Calvino, G. Celati, G. Neri, Protocollo d’una riunione tenuta a Bologna nel dicembre 1968, cit., p.
69.

185
si crede che non sia un caso che per Kublai il trauma che gli viene imposto dal punto
virtuale avvenga in Bauci, sotto la casella vuota; cioè si pensa sia possibile individuare
proprio in Bauci l‟archetipo.
Ma perché è così importante la rivelazione dell‟archetipo, attraverso il mito che lo
realizza narrativamente? Perché secondo la ridefinizione di questo concetto che fanno
gli intellettuali riuniti a Bologna, l‟archetipo ha due caratteristiche: è regressivo “perché
riporta alla matrice essenziale dei nostri bisogni di civiltà”, però è nello stesso tempo e
paradossalmente e “fondamentalmente proiettivo, in quanto funzione dei nostri bisogni
di civiltà. […] L‟archetipo è sovversivo o rivoluzionario intrinsecamente”155. Ciò cui
deve puntare il trauma è la rivelazione dell‟archetipo. L‟archetipo è importante perché
porta il linguaggio politico alla sua poeticità, cioè lo lega ai bisogni di civiltà dell‟uomo
– i bisogni primari, quelli che già l‟uomo primitivo aveva – e nello stesso tempo
risponde a questi bisogni, dà loro una risposta: l‟archetipo funziona quando rivoluziona
la situazione presente del lettore in rapporto al suo bisogno di lettore. Perciò, se si è
detto che il risultato poetico dell‟opera letteraria è l‟effetto particolare di una particolare
permutazione, di una certa combinazione di variabili, ci si chiede qui, dove sta
l‟archetipo in questo discorso?

La funzione comune d‟una o più catene di varianti (e quindi di tutte le specificazioni delle variabili d‟una
struttura combinatoria e dei suoi derivati o trasformazioni per effetto dell‟adattamento al contesto) si dice
archetipo. L’archetipo […] è […] una strategia primaria, ovvero un tipo primario di funzione
letteraria156.

Il fine dell‟opera dovrebbe essere quindi quello di sviluppare una strategia efficiente che
tenga conto del contesto e riveli la radice rituale a cui si vuole riconnettere, riportandosi
all‟archetipo. Trovando il mito la fabulazione scopre per ciò stesso la strategia efficiente
e assolve alla funzione politica che gli compete, poiché il mito è la realizzazione
narrativa dell‟archetipo, che è strategia primaria, cioè un tipo primario di funzione
letteraria157; questo perché il mito si rifà all‟archetipo che già di per sé funziona ed è

155
Ibid., pp. 68-69.
156
Ibid., p. 68.
157
Secondo Pavese la fantasia sfugge alla tirannia del reale sostituendo alla legge del reale la favola, il
racconto, il mito. Requisito fondamentale dell‟opera d‟arte è secondo Pavese la sua capacità di appagare
un interesse storico, ovvero di risolvere un bisogno di vita pratica.

186
efficiente158. Quindi poetica è quell‟opera che effettua le permutazioni delle sue variabili
per ritornare alla funzione primaria delle catene di varianti, cioè poetica diventa l‟opera
che riscrive a partire da un modello mitico e su questo si appoggia159. Riportarsi al
modello mitico significa per l‟opera letteraria usare già strategicamente la combinatoria
per assolvere alla funzione. Nel momento in cui l‟archetipo si mostra in superficie,
l‟opera funziona e l‟effetto sul lettore è lo straniamento. Il modello mitico attraverso lo
straniamento, funzione dell‟opera, è portato in superficie. Il modello mitico non è dietro
la superficie della pagina, è evidente: lo spazio eterotopico delle Città invisibili gioca
con esso. Nello spazio eterotopico stanno residui di sistemi mitici che non possono
essere ricondotti ad una combinatoria suprema. Sta al lettore, subito lo straniamento,
produrre il senso a partire dal mito in superficie160.
La letteratura interessa a Calvino nei suoi rapporti con l‟archetipo poiché
l‟intellettuale sanremese ritiene che sia l‟unico terreno in cui si può contestare e
rivoluzionare le strutture mitiche elementari dell‟uomo, cioè quelle configurazioni con
cui l‟uomo, sin dai tempi più remoti, cerca di rispondere ai problemi politici che lo
riguardano. A Calvino l‟opera letteraria serve perché è il luogo in cui “anche gli
archetipi possono avere una storia”161. Non basta che l‟archetipo sia trovato nella
realizzazione che il mito narrativamente fa di esso: non serve una riproposta del

158
Il mito è sia una forma primaria di racconto, archetipo del narrare, sia una forma di sapere legato alla
vita naturale e all‟empiria. Il mito fa parte del patrimonio collettivo dei racconti e delle esperienze umane.
Il mito è la forma narrativa che consente di conciliare impegno nella scrittura e apertura alla realtà: il mito
lavora sulle capacità dell‟uomo di mettere in forma l‟esperienza del mondo e di rispondere alle sue
contraddizioni. Proprio per questo Calvino ritiene, con Celati, che il modello mitico assolva già di per sé
alla funzione.
159
Cfr. M. Barenghi, Introduzione, cit., p. XXV: “In Cibernetica e fantasmi l‟accoglienza dei meccanismi
combinatori era positiva proprio perché nel gioco delle permutazioni rientrava la possibile scoperta
dell‟inatteso, l‟insorgenza dell‟inconscio, la scintilla germinale del mito: la maglia rotta che non tiene,
insomma l‟errore nella progettazione della fortezza d‟If”.
160
Cfr. M. Dini, Calvino critico, cit., p. 78: “Calvino attribuisce al racconto mitico o fiabesco la capacità
di andare oltre il puro valore referenziale delle parole”. Cfr. A. Asor Rosa, Stile Calvino, cit., p. 124: “Il
mito si compone di vari elementi, ognuno dei quali fa riferimento ad un aspetto elementare dell‟esistenza
umana, senza però che il nesso possa essere facilmente «esplicitato»: la forza del mito sta nella sua
«letteralità». […] Il linguaggio umano stesso è per conto suo, spontaneamente, un grande fabbro di miti.
E i miti, a loro volta, - questi grandi eredi e depositari d‟una sapienza storica e profonda, che non smette
mai di agire, più o meno consapevolmente, nella coscienza degli uomini, - diventano a loro volta dei
formidabili strumenti per «leggere» il mondo e «ordinarlo»”.
161
I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., pp. 1032-1033: “Esistono problemi cui l‟immaginario primitivo
risponde attraverso configurazioni mitiche elementari e che sono i veri problemi che continuano a porsi
all‟uomo, anche se li ha dimenticati o rimossi, e la letteratura esprime il loro continuo riproporsi. […] La
letteratura è il luogo in cui le struttura mitiche dell‟uomo primitivo e dell‟infanzia continuano a imporre la
loro logica e a essere discusse sul loro stesso terreno, ed è l‟unico terreno in cui si può in qualche modo
contestarle e rivoluzionarle”.

187
modello mitico come tale. L‟intellettuale ligure a tal proposito enuncia in una lettera che
scrive a Gianni Celati il 2 marzo 1969 quello che lui definisce un corollario estetico:

Si dà valore letterario quando e solo quando succede qualcosa di talmente forte da far saltare o deformare
o invertire la vecchia struttura mitica «naturale». […] Si dà valore letterario quando una struttura mitico-
archetipale si scontra con un aggressione menippeico-carnevalizzante162.

Con il modello mitico lo straniamento gioca, ricombina i suoi elementi, lo riscrive


per il lettore. Questo ragionamento di Calvino non si distanzia per nulla dal problema
dello straniamento, del trauma cui ogni buona opera letteraria deve tendere in rapporto
al lettore. L‟idea del Carnevale di Bachtin è proprio questa e benché Calvino e Celati in
apparenza ne abbiano una concezione diversa, è invece in una fusione delle loro due
opinioni che si rende comprensibile il concetto di straniamento applicabile a Le città
invisibili. Celati scrive:

La regressione formale invece concerne solo diciamo il tuo sguardo, la capacità di fornirti strumenti che
ti restituiscano un reale per quanto possibile sottratto ai condizionamenti percettivi che sono stati
prodotti dalla Storia, dalle razionalizzazioni e dal senso comune, senza che ciò implichi che quel reale è
più reale di un altro, è solo una alternativa. Ma si deve parlare di regressione come decondizionamento
sperimentale, per vedere o ipotizzare come si vedrebbero le cose se il nostro condizionamento avesse
seguito altre vie: insomma regressione formale vuol dire alternativa sperimentale [corsivo mio]163.

Lo scopo della regressione formale, cioè dello straniamento creato dalla


giustapposizione di luoghi contraddittori, di mondi im-possibili, eterotopie, in quel
luogo che è il testo – quindi nello spazio letterario de Le città invisibili –, produce nel
Lettore Empirico un trauma, uno shock salutare che critica e sovverte la consolidata
lettura del reale, propone alternative spaziali incompatibili tra di loro e pur tuttavia
connesse con lo spazio che rappresentano, come uno specchio, al punto da contestarlo
nel momento stesso in cui lo rappresentano. Il mondo reale è guardato da un altro punto
di vista, il sistema è scomposto in dettagli riuniti in insiemi impossibili di residui e
tracce che contestano sulla pagina la sintassi che il mondo neocapitalistico impone164. Il
Carnevale propone alternative alla storia, ai suoi condizionamenti percettivi, ideologici

162
Ibidem.
163
G. Celati, Lettera a Italo Calvino da Ithaca del 6 febbraio 1972, in M. Barenghi e M. Belpoliti (a cura
di), “Alì Babà”. Progetto di una rivista, 1968-1972, cit., p. 145.
164
Cfr. M. Dini, Calvino critico, cit., p. 66: “Alle operazioni di analisi e dissezione, come le definisce
Calvino, è dunque connaturato un forte elemento di contestazione politico-sociale”.

188
e linguistici: questo è subito ritrovamento di alternative alla storia, è riscrittura dei
modelli mitici naturali.
Secondo Calvino invece il Carnevale è quel momento del ciclo sociale in cui in un
corteo carnevalesco il re cammina in testa alla colonna, ma questa fila di persone
festanti si gira su se stessa e quindi il re potrebbe essere anche l‟ultimo del corteo. Entra
in gioco Re Quaresima, colui che chiude il corteo, ma che precedendo Re Carnevale in
trono, dato che il corteo procede un giro in un circuito chiuso, ne contesta l‟autorità. Re
Quaresima partecipa al corteo come una figura estranea, a piedi scalzi, vestito di abiti
laceri. Rappresenta la Follia, è il Matto165, “armato di randello, che dileggi e minaccia il
sovrano ancora per poco in trono”166. Il Matto contesta giocando il potere. Durante il
Carnevale il Re viene decapitato e si stabilisce il nuovo Re che conosce già la sua sorte:
“Il Re del Carnevale è – già nel momento in cui viene incoronato – colui che verrà
detronizzato e deriso alla fine, è re e schiavo al medesimo tempo”167. Il Carnevale è un
momento di sovversione del potere costituito per Calvino, e ciò avviene in una festa che
è anche un gioco.
Lo scrittore ligure progettò pure un romanzo, mai pubblicato, dal titolo La
decapitazione dei capi168 su questo fatto. Sarebbe stato una sorta di pamphlet sul
progetto di uccisione rituale, nella fase contestataria, della classe dirigente
produttivistica militare in grandi feste popolari, seguita dalla fase produttivistica delle
stragi di poeti e contestatari. Il richiamo contestatario alla società neocapitalistica e in
particolar modo al blocco di potere che la governa è evidente. Lo scrittore ligure pensa a
un modello di “rivoluzione permanente”, un‟ipotetica società del futuro, in cui periodi
eversivi di carnevale-consumo si alternano a periodi di austerità produttiva. Calvino non
dette mai alle stampe quest‟opera progettata nello stesso periodo delle Città invisibili,
proprio perché pubblicò queste ultime. Se il Carnevale è quel momento in cui con
l‟uccisione rituale dei capi ritorna l‟ordine nella società e lo spazio si riformula, non
necessariamente fuori, ma dentro – poiché Calvino cerca proprio un‟analisi critica che
nel ripiegarsi più su se stesso del testo riesca ad aprire su un fuori guardato
diversamente – allora si capisce che quest‟idea di Carnevale come istante in cui il potere

165
Per una rassegna narrativa di “matti” cfr. E. Cavazzoni, Vite brevi di idioti, Feltrinelli, Milano 1997.
166
I. Calvino, Il mondo alla rovescia, in Saggi 1945-1985, tomo I, cit., p. 258.
167
Ibid., p. 257.
168
Cfr. I. Calvino, La decapitazione dei capi, in Romanzi e racconti, vol. III, Mondadori, Milano 1994,
pp. 242-256.

189
è sovvertito è non differente dall‟idea di regressione formale di Celati. Così come il
Carnevale sbeffeggia il potere – cioè l‟amministrazione dello spazio – fuori, così l‟opera
letteraria con lo straniamento sbeffeggia il potere della scrittura sullo spazio del gioco
dentro169; la contrapposizione nelle pagine de Le città invisibili di spazi contraddittori,
quindi il dar vita in quel luogo che è il libro ad un‟utopia effettivamente realizzata,
ovvero a un‟eterotopia, è un‟operazione carnevalesca, ha un effetto importante sul
lettore170: gli sconvolge il senso comune, la normale percezione dello spazio esterno e
non solo, ha un effetto sul suo corpo171.
Lo scontro tra struttura menippeico-carnevalizzante e struttura mitico-archetipale
si vede benissimo nella città indicata come riserva della casella vuota. Questo scontro è
importante perché permette di scagliare dalla sua posizione il Re, proprio con lo scacco
dello straniamento il Re è sconfitto, benché sembri inevitabile che in una fase
successiva un altro re prenderà il potere. Il Carnevale per Bachtin è uno spettacolo dove
non è possibile fare una separazione tra esecutori e spettatori172. Ognuno durante il
Carnevale prende parte alla festa, e soprattutto durante il Carnevale tutti gli imperativi,
le leggi o i divieti che stanno alla base della vita normale, del regime appunto, quindi
tutte le limitazioni imposte nella vita extracarnevalesca, vengono abolite:

È abolito anzitutto l‟ordinamento gerarchico e tutte le forme ad esso collegate di terrore, devozione, pietà,
etichetta e così via, cioè tutto ciò che è determinato da una ineguaglianza gerarchico-sociale o di qualsiasi
altro tipo. […] Entra in vigore una particolare categoria carnevalesca, il libero contatto familiare tra gli
uomini173.

Il Carnevale è sovversivo e rivoluzionario poiché si stabilisce un nuovo modo di


rapportarsi tra uomo e uomo, e in questo modo ci si contrappone “agli onnipotenti
rapporti gerarchico-sociali della vita extracarnevalesca. Il comportamento, il gesto e la
parola dell‟uomo si liberano dal potere della posizione gerarchica [corsivo mio]”174. La

169
Cfr. M. Lavagetto, Dovuto a Calvino, cit., p. 22: “Attraverso un‟utilizzazione accorta e ripetuta dello
straniamento, la letteratura «libera» le cose dall‟opacità quotidiana che le ha ricoperte”.
170
Cfr. E. Gioanola, Modalità del fantastico nell’opera di Italo Calvino, cit., p. 28: “Uno dei caratteri
della letteratura carnevalizzata, che è un insieme di cui la letteratura fantastica è un sotto-insieme, è quella
che Bachtin chiama «la visione dall‟alto o da lontano», presente fin dai primordi della letteratura
occidentale. […] Calvino, allora, inventa il fantastico perché l‟io può sopravvivere solo a patto di salvare
la propria limpidezza raziocinante, solo allontanandosi dal mondo sporco, disordinato, viscerale”.
171
Il prototipo dell‟armonia fourieriana, cioè una società antirepressiva, complessa, paradossale, con
un‟organizzazione sociale calcolata fin nei dettagli ha in sé molto del carnevalesco mondo alla rovescia.
172
Cfr. M. Bachtin, Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002.
173
Ibid., p. 160.
174
Ibidem.

190
principale azione a cui si assiste nel Carnevale è la “burlesca incoronazione e
successiva scoronazione del re del carnevale”175. Lo scopo di questo rito è di mostrare
quella che Bachtin chiama la “gaia relatività di qualsiasi regime e ordine, di qualsiasi
potere e di qualsiasi posizione”176. Nel Carnevale si mostra che quello che sembra
necessario non è tale177. Nel Carnevale l‟impossibile gioca col necessario e lo
contesta178. Il Carnevale in Calvino relativizza lo spazio e i rapporti gerarchici in esso
delineati, contesta lo spazio che rappresenta, i condizionamenti linguistici della società
neocapitalistica e in generale della Storia179.
Il modello del Carnevale è secondo Calvino un grande modello, non soltanto dal
punto di vista letterario, ma soprattutto dal punto di vista etico-politico-economico: è un
ottimo modello di società, “l‟unico proponibile a una rivoluzione”180. Calvino identifica
l‟atteggiamento menippeico-carnevalizzante con la letteratura, poiché nel Carnevale ha
luogo una liberazione della parola che la fa diventare eccentrica e che sarebbe non
opportuna in qualsiasi altra occasione e spazio181: si confondono sacro e profano,
baldoria e morte. Soltanto grazie alla letteratura l‟archetipo-struttura-modello mitico
può diventare natura seconda, cioè soltanto nel libro le configurazioni mitiche
dominanti naturali possono avere una storia, essere ribaltate, mentre il modello mitico-
archetipale a cui l‟opera rimanda è proprio il luogo in cui la cultura si fa natura, è il
modello mitico già struttura primaria, se ristrutturato. È una lotta tra cultura e natura. Se
quindi la grande opera letteraria è quella che, imitando il modello mitico già dotato di

175
Ibid., p. 162.
176
Ibidem.
177
Cfr. G. Dematteis, La superficie e l’altrove, cit., pp. 98: “C‟è dunque un momento in cui qualcosa non
è ancora necessario anche se già ci pare tale e tutto è ancora possibile”.
178
Cfr. F. Muzzioli, Polvere di utopia, cit., p. 149: “È nel rapporto tra «ciò che è accettato come
necessario mentre non lo è ancora» e «ciò che è immaginato come possibile mentre un minuto dopo non
lo è più», che, da un lato, il «necessario» perde la sua oppressiva obbligatorietà, e, dall‟altro,
l‟immaginato è sottratto al nostalgico vagheggiamento evasivo”.
179
Cfr. M. Dini, Calvino critico, cit., p. 135: “Tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, in
una società profondamente scossa al suo interno da nuovi fermenti di contestazione e di rinnovamento,
l‟attenzione di Calvino è attratta verso quelle proposte che sembrano prospettare modelli di
organizzazione sociale del tutto alternativi a quelli imposti da sistema capitalistico e industriale.
Significativo, in questa direzione, l‟interesse per lo studio bachtiniano sul Carnevale e sulle tradizioni
popolari ad esso connesse, studio che a Bachtin offre lo spunto per attingere un nuovo modello di stile e
di poetica e a Calvino di ripensare un possibile modello sociale alternativo: l‟utopia del «mondo alla
rovescia», del paese di Cuccagna inverata storicamente nel Carnevale, in quanto sovvertimento dei valori
gerarchici, delle convenzioni e dei vincoli sociali ma anche linguistici, suscita infatti nel secondo
considerazioni in primo luogo extraletterarie”.
180
I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., p. 1034.
181
Cfr. M. Dini, Calvino critico, cit., p. 57: “La letteratura deve ricercare e sperimentare l‟impossibile,
secondo Calvino, per scoprire le possibilità di fuga”.

191
senso e strategia vuole intervenire sul contesto ristrutturandolo, grazie alla rivelazione di
un linguaggio corporeo che ha un effetto sul corpo del lettore, ci si chiede qui come ne
Le città invisibili ciò avvenga e quale sia il modello mitico cui riporta.
Bauci è una figura mitica che può essere ricondotta al Faust di Goethe. Si
preferisce collegare questo nome a Goethe e non soltanto alle Metamorfosi di Ovidio
per via dell‟interesse evidente che Calvino mostra per questo testo proprio negli anni in
cui scrive Le città invisibili. In una lettera a Franco Fortini del luglio 1970 l‟intellettuale
ligure manifesta il desiderio di leggere il Faust e soltanto qualche mese dopo scrive allo
stesso destinatario:

Tra le esperienze positive degli ultimi mesi devo mettere il fatto che il Faust è entrato […] a far parte dei
miei «modelli», come opera che comprende tutte le dimensioni di cui abbiamo bisogno, che è
sistemazione d‟un universo, evocazione di nuovi valori, e nello stesso tempo gioco, cioè coscienza di
stare usando linguaggio, segni, metrica, materiali culturali, e che il vero senso è nei significati che si
riverberano fuori dal libro182.

Attraverso il Faust di Goethe Calvino trova un modello mitico dove quest‟ultimo è già
dotato di senso e strategia, cioè assolve alla funzione. Il residuo di sistema mitico più
importante tra quelli sparpagliati sulla superficie è quello che si colloca al centro della
casella, nel punto virtuale, dove la letteratura, con un gesto menippeico – per Calvino –
riformula la struttura mitica naturale del lettore empirico rivelando l‟archetipo,
rivoluzionario intrinsecamente. Ciò avviene in Bauci. Di Bauci e Filemone – la coppia d
anziani che viene uccisa dal diavolo prima della redenzione di Faust, ma che soprattutto
è la coppia umile che offre un alloggio in Frigia a Zeus ed Ermes e sono gli unici a
sopravvivere all‟ira degli dei – parla Walter Benjamin in Considerazioni sull’opera di
Nicola Leskov, spiegando che sono figure mitiche poiché hanno un‟azione ammaliante e
statica ma sono pur sempre uomini, cioè una coppia mitica.

«Mitiche» in questo senso sono, nella saga, figure segnate dal tao, soprattutto vecchissime. Come la
coppia di Filemone e Bauci: favolosamente scampata, benché naturalmente immobile183.

La cosa più interessante è che in queste due figure succede quello scontro tra struttura
menippeico-carnevalizzante e struttura mitica naturale di cui s‟è detto: la storia di
Filemone e Bauci è il residuo di sistema mitico che, galleggiando nello spazio
182
I. Calvino, Lettere 190-1985, cit., p. 1084.
183
W. Benjamin, Considerazioni sull’opera di Nicolo Leskov, cit., p. 268.

192
eterotopico di Bauci, funziona già come strategia primaria e per funzionare anche per il
lettore empirico deve essere ristrutturato, contro la Storia; il riferimento al tao che fa
Benjamin è una curiosa coincidenza con un discorso fatto precedentemente: si è detto
che in fondo al gral c‟è il tao e s‟è identificata la ricerca del gral con la ricerca del
racconto, sul versante del lettore che vede il nodo nella casella vuota. Il lettore vedendo
nella casella vuota, che è pure il centro vuoto dei tarocchi nella Taverna dei destini
incrociati, il nodo, si rende conto che come Lettore Modello dovrebbe iniziare a
colmare gli spazi vuoti, cioè a raccontare. Il racconto che dallo straniamento sul lettore
nello spazio eterotopico galleggia come modello mitico è quello di Filemone e Bauci.
Se in fondo al gral c‟è il tao e la ricerca del gral non è altro che la ricerca del racconto,
in questo gral il lettore trova il racconto di Filemone e Bauci, figure segnate dal tao.
Non a caso la casella vuota ne La taverna dei destini incrociati si trova a partire dalla
storia di Faust e non a caso nel Castello dei destini incrociati la storia di Faust coincide
con la Storia dell’alchimista che vendette l’anima: alchimista come Fourier, come lo
stesso Calvino si definisce, un poeta che cerca il risultato poetico che sul lettore ha
l‟effetto dello straniamento, che appunto lo porta al modello mitico.
Per capire di che tipo di racconto si tratta, si trova qui un‟indicazione preziosa:
Bauci e Filemone sono figure segnate dal tao, vecchissime, simbolo dell‟amore
coniugale, ma non solo: in virtù del fatto d‟essere una coppia favolosamente scampata,
sono annoverati tra i giusti. Quest‟ultima indicazione sarà importante in seguito.
In Goethe, dopo aver percorso l‟intero mondo con l‟aiuto di Mefistofele, Faust è
perseguitato dal rimorso di aver involontariamente causato la morte per avidità di
possesso dei due vecchi sposi, Filemone e Bauci, emblema dell‟amore coniugale puro,
colpevoli solo di abitare in un podere che Faust vuole fare suo; furioso nei confronti di
Mefistofele che ha disatteso il suo ordine di far trasferire i due vecchi in un'altra dimora
e non di ucciderli, Faust riconosce il potere devastante delle magia e rinnega tutto ciò
che ha fatto, pentendosi; dopo il confronto con l‟oscura figura messa in scena, Die
sorge, per rappresentare l‟oppressione soffocante dell‟angoscia, nell‟intimo di Faust
sorge il pensiero dell‟impresa più grande, nel quale manifesta in modo potenziato un
sentimento d‟amore, ora rivolto all‟intera umanità e la realizzazione dell‟ultima
conquista di Faust, ciò che potrebbe fargli dire all‟attimo “Fermati, sei bello!” e
decretare il senso della sua vita, è il dono agli uomini di un immenso spazio strappato al

193
mare, per vivere uniti e liberi, in pace e concordia: la sua è una vera e propria utopia. A
tal proposito anche le Metamorfosi di Ovidio, dove Bauci e Filemone sono gli unici ad
accogliere Zeus ed Ermes in Frigia in una capanna di canne e fango che rappresenta
ospitalità e accoglienza, e che in cambio chiedono solo di diventare sacerdoti del tempio
di Zeus e morire insieme, sono state certamente tenute presenti da Calvino. Soprattutto
per un fatto: mentre sono prossimi alla morte Zeus trasforma Filemone e Bauci in una
quercia e in un tiglio uniti per il tronco: la loro unione coniugale diventa un albero
meraviglioso. Questo albero meraviglioso che germoglia184 dall‟unione di Filemone e
Bauci ricorda l‟Albero della Vita a cui giunge l‟involontario pellegrino dopo essere
disceso nell‟Abisso della Morte. Chi risale l‟Albero della Vita arriva poi nella Città del
Possibile, che è la Città del Tutto dove cioè il lettore e il fabulatore si uniscono, dove il
lettore si fa fabulatore: la Città del Possibile è la città dove Lettore Empirico e Lettore
Modello (che è colui che Calvino disegna in Kan) dovrebbero unirsi, come Filemone e
Bauci, e dalla cima dell‟albero guardare il mondo. La Città del Possibile è Bauci, una
città sospesa, dove i vuoti di referenza vengono riempiti dal lettore empirico che inizia a
sua volta a narrare:

E questa città sembra in equilibrio in cima a una piramide, che potrebbe essere anche la vetta del grande
albero, cioè si tratterebbe d‟una città sospesa sui rami più alti come un nido d‟uccelli, con le fondamenta
pendule come le radici aeree di certe piante che crescono in cima ad altre piante. […]
Che città è questa? È la città del Tutto? È la città dove le parti si congiungono, le scelte si bilanciano,
dove si riempie il vuoto che rimane tra quello che ci s‟aspetta dalla vita e quello che ci tocca?185.

Se questo è il modello mitico principale a cui Calvino vuole rimandare il suo


lettore, ci si chiede qui, come viene utilizzato? Se questo modello mitico è già dotato di
senso e strategia, ci si domanda, come assolve alla funzione nel testo di Calvino? In che
modo, con una mutazione arbitraria delle varianti, come Le città invisibili interviene sul

184
Cfr. L. Gabellone, Quello che sta fermo, quello che cammina, cit., p. 31: “Un albero centenario, le
radici profonde immerse nel sonno della terra, si disegna contro il cielo chiaro. I suoi rami carichi di
foglie son dimora agli uccelli. C‟è nell‟albero tutta la forza consistente dello stare in piedi e ogni sua
foglia è una parola. L‟albero sorge sulla sponda di un fiume che bagna le sue radici e scorre immemore,
come un canto. Il canto del fiume è un tranquillo movimento di acque, un infinito ritmo battuto dai remi,
quasi il ricordo delle melopee della terra portato come un dono al nessun luogo senza tracce che è il mare.
L‟albero, che le acque nutrono, trasferisce il pensiero del cielo nell‟oblio senza ritorno delle profondità
della terra, il fiume, nel suo passaggio, trasporta il senso del mondo, dei paesaggi, delle rive, delle case e
degli alberi che ne spiano il passare, giù fino all‟oblio del nulla”.
185
I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, cit., p. 58.

194
contesto, cioè sul lettore? Il modello mitico non può essere semplicemente riproposto,
ma va riconfigurato, va riscritto. Scrive Italo Calvino insieme a Celati il 15 agosto 1970:

Ad un certo momento la lettura diventa veramente utile se da essa nasce la configurazione di un nuovo
modello; cioè se il testo diventa un codice, o dal testo è estrapolabile un codice che ti servirà per leggere
negli altri testi o nell‟esperienza. […] La lettura è questa scelta e combinazione di modi di lettura coatti,
che può diventare scoperta di nuovi sistemi di coazione per le lettura seguenti e soprattutto per quella non
di testi, che sono la base dell‟esperire nell‟uomo186.

Calvino quindi sottolinea il “momento genetico di nuovi riti e nuove iniziazioni, che poi
una volta che sono rituali sono rituali come tutti gli altri, però la genesi del rito si
riproduce sempre; cioè è il momento in cui il rito è nuovo”187. La funzione
carnevalizzante sta nella dichiarazione della relatività della sintassi imposta dalla società
neocapitalistica. Il modello mitico dev‟essere ridisegnato per dar vita a nuovi riti. Il
carnevale è la celebrazione dell‟avvicendamento-rinnovamento. Si festeggia la non
necessità del potere costituito e dello spazio della metropoli:

A un certo punto qualcosa nel meccanismo scatta e la letteratura si fa iniziatrice d‟un processo […] nel
senso del rifiuto di vedere le cose e dire le cose come erano state viste e dette fino a un momento prima188.

L‟effetto sul corpo del lettore diventa invito a vedere le cose diversamente da come
stanno. Il lettore è chiamato a guardare lo spazio da un altro punto di vista189. Dal suo
Lettore Empirico come dal suo Lettore Modello, Calvino vuole un movimento nel
corpo, simile a quello del barone rampante che ribellandosi sale sull‟albero190; lo
scrittore ligure vuole cambiare il modo di leggere e scrivere l‟esperienza del lettore. Il
corpo subisce l‟effetto in questo modo; l‟effetto sul corpo diventa azione sovversiva e
rivoluzionaria a livello della percezione:
186
I. Calvino e G. Celati, Lettera da Cinquale del 15.8, in M. Barenghi e M. Belpoliti (a cura di), “Alì
Babà”. Progetto di una rivista, 1968-1972, cit., p. 121.
187
Ibid., p. 122.
188
I. Calvino, Cibernetica e fantasmi, cit., p. 222.
189
Cfr. M. Dini, Calvino critico, cit., p. 140: ”È appunto su questo piano che si esprime la vera forza
critica e sovvertitrice dell‟utopia ma anche, aggiungiamo, della letteratura che voglia continuare ad
esercitare una sua funzione sociale. […] L‟evasione, implicita in ogni progetto utopico, è sì fuga verso un
altrove (la città perfetta o la città infernale) o verso un altro tempo (in quanto regressione nostalgica verso
il passato o proiezione verso il futuro), ma è soprattutto una esplorazione di nuove dimensioni della
mente, di nuove possibilità logiche, immaginative e percettive [corsivo mio]”.
190
Cfr. M. Rizzante, Il geografo e il viaggiatore, cit., p. 25: “L‟archeologia, all‟interno del progetto – mai
realizzato – di Celati e Calvino, trova nella letteratura il suo privilegiato terreno d‟azione. […] È lo
sguardo dello scrittore-archeologo quello che […] cerca di mettersi «dalla parte del fuori», dalla parte di
chi guarda il mondo come una disseminazione di oggetti difficilmente classificabili”.

195
Il contropotere deve infiltrarsi nei meccanismi del potere per poterlo rovesciare. […] Il corpo è un
uniforme! Il corpo è milizia armata! Il corpo è azione violenta! Il corpo è rivendicazione di potere! Il
corpo è in guerra! Il corpo s‟afferma come soggetto! Il corpo è un fine e non un mezzo! Il corpo significa!
Comunica! Grida! Contesta! Sovverte!191.

Quello cui tende l‟opera del 1972 di Calvino è l‟unione tra Lettore Empirico e Lettore
Modello, che farebbe leggere le tracce nel testo come rivoluzionari residui di possibilità
e alternative alla storia e così anche le tracce nello spazio reale192. Di fronte alla
denuncia di una sua assenza come fabulatore nel mondo, attraverso la sua chiamata a
farsi fabulatore nel testo, il lettore dovrebbe attraverso la Città del Possibile iniziare a
decidere le scelte, cioè come riempire gli spazi vuoti cominciando a sua volta a
narrare193. Bauci è nello schema delle Città invisibili la capitale dell‟impero, di cui
dicendo che è invisibile per chi vi si trova e descrivendola come tale, la si rende per ciò
stesso visibile. Cioè Bauci è la città senza uomo194: se nelle Metamorfosi ovidiane la
dimora di Filemone e Bauci era luogo dell‟ospitalità e dell‟amore e se nel Faust
quest‟ultimo dopo il pentimento decise di sottrarre terra al mare per creare un qualche
luogo utopico per l‟umanità, Calvino si ferma prima, si concentra sull‟unione dei
personaggi, la riformula per arricchire lo sguardo del lettore. Calvino vuole uscire da
ogni teleologia umanistica: ciò significa che non vuole disegnare più nessuna città
perfetta o Utopica. In questo senso Calvino denuncia l‟assenza di un‟idea di progresso
storico195, non ci crede più, ma ha interesse soltanto a creare un cambiamento nello

191
I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit., p. 829.
192
Cfr. F. La Porta, Il Calvino dimezzato ovvero La “lezione” dello scrittore sbriciolata nei suoi presunti
eredi letterari (ma forse ritrovata ai margini della letteratura), in A. Botta e D. Scarpa (a cura di), Italo
Calvino newyorkese, Avagliano editore, Cava dei Tirreni 2002, p. 170. Filippo La Porta scrive: “Calvino
insiste a più riprese sul valore della descrizione, vero terreno comune tra fiction e non-fiction. E ad essere
descritti sono perlopiù dettagli della realtà, oggetti eccentrici, marginali. […] Mi sembra che gli oggetti
abbiano per lo scrittore una funzione rassicurante: lo rassicurano cioè che nonostante tutto esiste un
mondo, una continuità delle cose al di là dell‟esistenza individuale. E proprio nella tradizione popolare e
fiabesca gli oggetti che circondano l‟uomo (anche quelli più poveri) testimoniano di qualcosa che
perdura, che rimanda ad archetipi universali, che può inaspettatamente arricchirci”.
193
Cfr. C. Calligaris, Italo Calvino, cit., p. 99: “L‟istanza liberatoria è dunque tutta nel rapporto tra
l‟opera e il suo consumatore. La lettura diventa il momento essenziale della produzione artistica”. Cfr. G.
Bertone, Italo Calvino. Il castello della scrittura, cit., pp. 120-121: “Narrare è leggere. […] Se narrare
[…] è leggere, narrare sarà anche spostarsi, muoversi su una linea, camminare”.
194
Cfr. M. Lavagetto, Dovuto a Calvino, cit., p. 25: “Il tramonto del personaggio-uomo è già stato in
parte descritto: la sua esistenza è stata condannata è divenuta impossibile con il tramonto dell‟universo
economico, sociale e culturale che giustificava la sua compattezza e la sua identità”.
195
Cfr. M. Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, cit., pp. 46-59: “La crisi dell‟idea di progetto,
anziché provocare tentazioni di fuga nella memoria, si traduce nel rinnovato impegno costruttivo di
calcolare tutte le combinazioni e le concatenazioni possibili, a cominciare dai percorsi della scrittura. […]
Allora il discorso narrativo tende a strutturarsi come gioco combinatorio, inchiesta sulle alternative
possibili. […] La tensione progettuale di cui Calvino constata la paralisi implica un orizzonte più esteso

196
sguardo del lettore. “L‟utopia non ha spessore: puoi condividerne lo spirito, crederci,
ma al di là della pagina non continua nel mondo, non riesci a darle un seguito per tuo
conto”196. Lo spazio delineato nelle città invisibili è utopico perché irreale; ma non è
affatto rilassante, non è conciliante e nemmeno consolante. Anzi, disturba il senso
comune di chi si confronta con esso, per via della sua eterotopicità scalfisce la sintassi
abituale del lettore, lo coinvolge in un movimento contestatario individuale, inquieta e
mina il linguaggio del potere neocapitalistico. Calvino non crede più nella storia e nel
suo progresso. Per capire il senso dell‟utopia discontinua di Calvino è necessario quanto
egli scrive nelle ultime righe del saggio su Fourier L’utopia pulviscolare:

Il meglio che m‟aspetto ancora è altro, e va cercato nelle pieghe, nei versanti in ombra, nel gran numero
d‟effetti involontari che il sistema più calcolato porta con sé senza sapere che forse là più che altrove è la
sua verità. Oggi l‟utopia che cerco non è più solida di quanto non sia gassosa: è un‟utopia polverizzata,
corpuscolare, sospesa [corsivi miei]197.

S‟inizi dalla prima indicazione: Calvino stesso confessa che il meglio va trovato nelle
pieghe del nastro, nel nastro che si rigira su se stesso e porta il lettore dall‟altra parte, lo
fa uscire dal testo dopo avergli chiesto di collaborare attivamente alla scrittura. Se
l‟utopia discontinua porta inevitabilmente sul versante del lettore, come a esso si
collega? La risposta a questa domanda si trova in Se una notte d’inverno un viaggiatore
quando nel capitolo undicesimo diversi lettori si trovano a parlare del loro modo di
leggere.
Nessuno dei modi descritti è singolarmente l‟ideale di Calvino, ma si può ritenere
ch‟egli stia disegnando, di fronte al Lettore Empirico, sempre più dettagliatamente, il
suo Lettore Modello, nella trama impersonato da Ludmilla. Il primo lettore confessa che
leggendo non può fare a meno di fermarsi e pensare per immagini, ragionare e
fantasticare, e quindi questo lettore allude all‟eidetismo della superficie e alla
fabulazione indotta. Ad ogni pagina il suo occhio lascia il mondo scritto verso altri
mondi, in essi cammina, “già quelle poche pagine racchiudono per me interi universi,
cui non riesco a dar fondo”198. È un lettore che esplora lo spazio aperto dai mondi im-
possibili, lo spazio eterotopico letterario de Le città invisibili, in superficie. Il terzo

di quello individuale: e ciò ha conferito finora alle sue opere, anche alle più rarefatte, una peculiare,
intrinseca politicità”.
196
I. Calvino, Per Fourier 3. Commiato. L’utopia pulviscolare, cit., p. 314.
197
Ibidem.
198
I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit., p. 864.

197
lettore afferma che la lettura ha soprattutto per oggetto se stessa: dichiara uno dei segreti
palesi di questo libro del 1979 già contenuti in nuce nel testo del 1972, cioè che chi
legge muove lo sguardo su una superficie dove altri lettori sono rappresentati: Kublai
Kan, Ludmilla. C‟è poi a chi importa soprattutto la promessa della lettura, il momento
che la precede, chi cerca solo la parola fine, cioè legge per vedere cosa c‟è in
lontananza. Il Tu lettore confessa il suo disagio di trovare “solo storie che restano in
sospeso e si perdono per strada”199. Ma è il secondo lettore a dire quel che più importa e
che si riporta interamente per la centralità che ha in questo paragrafo sull‟utopia
discontinua:

La lettura è un’operazione discontinua e frammentaria. O meglio: l’oggetto della lettura è una materia
puntiforme e pulviscolare. Nella dilagante distesa della scrittura l’attenzione del lettore distingue dei
segmenti minimi, accostamenti di parole, metafore, nessi sintattici, passaggi logici, peculiarità lessicali
che si rivelano d‟una densità di significato estremamente concentrata. Sono come le particelle elementari
che compongono il nucleo dell‟opera, attorno al quale ruota tutto il resto. Oppure come il fondo d‟un
vortice, che aspira e inghiotte le correnti. È attraverso quegli spiragli che, per lampi appena percettibili,
si manifesta la verità che il libro può portare, la sua sostanza ultima. Miti e misteri consistono di
granellini impalpabili come il polline che resta sulle zampe delle farfalle; solo chi ha capito questo può
attendersi rivelazioni e illuminazioni. […] Per questo la mia lettura non ha mai fine: leggo e rileggo ogni
volta cercando la verifica d’una nuova scoperta tra le pieghe delle frasi [corsivi miei]200.

Esclusa una qualsiasi meta utopica, che sia Armonia, Utopia, la Città del Sole o la
Nuova Atlantide201, a Calvino resta la possibilità di insegnare un modo di leggere sia il
testo sia il mondo, e che sia subito un modo di farsi fabulatore del lettore. La riscrittura
del modello mitico di Faust che portava a un‟utopia consolante per l‟umanità, dove la
terra veniva sottratta al mare, è rilancio dell‟eterotopia come utopia effettivamente
realizzata nello spazio letterario del testo e ripiegantesi, attraverso il dentro, nel fuori del
lettore. Se la terra fiorente e sottratta al mare è utopia consolante e umanitaria, il mare è
il luogo dove galleggia l‟eterotopia per eccellenza: la nave.
L‟utopia discontinua e frammentaria è l‟utopia della lettura202.

199
Ibid., p. 867.
200
Ibid., pp. 864-865.
201
Cfr. F. Muzzioli, Polvere di utopia, cit. p. 147: “Ormai le lumières dell‟utopia classica, intesa come
ordinamento sociale immaginario rifondato in nome della ragione e dell‟accordo con la vera natura
umana, sono state smorzate dalla storia”. Cfr. C. Gaiba, L’“utopia pulviscolare” delle Città invisibili, cit.,
p. 77: “Oggi, le utopie che l‟uomo può proporre come alternativa alla propria realtà, a cui fare riferimento
per attingere nuove energie e forze creative, non possono più essere immagini uniformi, precise,
totalizzanti, ben strutturate secondo logiche univoche come quelle che abitarono i sogni di Moro, o di
Campanella, o anche dello stesso Fourier”.
202
Cfr. R. Donnaruma, Da lontano. Calvino, la semiologia, lo strutturalismo, cit., p. 129: “L‟utopia di
una lettura attiva, inseguita per tutti gli anni Settanta, trova ora la sua espressione più piena”.

198
Calvino disegna un Lettore Modello e vorrebbe che il Lettore Empirico si unisse
ad esso203. In Se una notte d’inverno un viaggiatore questo avviene nelle ultime pagine,
quando il Tu lettore e la Lettrice Modello si sposano: Calvino celebra sulla pagina
l‟unione tra Lettore Empirico e Lettore Modello. In questo modo Calvino riscrive il
modello mitico di Filemone e Bauci e la loro unione coniugale sprigiona davanti al
lettore tutta la sua forza. L‟archetipo rivoluzionario si rivela nella sua riformulazione.
Ma se Kublai Kan, ci si chiede qui, è il Lettore Modello disegnato in superficie ne Le
città invisibili, cosa significherebbe in questo caso l‟unione del Lettore Empirico con
esso? Sembra che della sua utopia discontinua pulviscolare e gassosa Calvino sia
riuscito a dare il senso esplicito nel 1979, ma l‟ideale della lettura fosse già implicito ne
Le città invisibili.

Alle volte mi basta uno scorcio che s‟apre nel bel mezzo d‟un paesaggio incongruo, un affiorare di luci
nella nebbia, il dialogo di due passanti che s‟incontrano nel viavai, per pensare che partendo di lì metterò
assieme pezzo a pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, d‟istanti separati da
intervalli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie. Se ti dico che la città cui tende il mio
viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si
possa smettere di cercarla. Forse mentre noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del tuo impero;
puoi rintracciarla, ma a quel modo che t‟ho detto204.

Calvino indica così un modo di leggere nel mondo desertico e un modo di ri-
leggere le Città invisibili riconoscendo sulla superficie del nastro le tracce di aprico205.
Piega significa non soltanto il ritornare del nastro su se stesso, ma rimanda al fatto che
ad ogni affiorare in superficie dell‟opaco inferno corrisponde un lato apricale che lo
contraddice, lo ripiega e si adagia al suo fianco. Sono i frammenti aperti delle tracce
come caselle vuote che contano206. Ciò è dato dal fatto che la scacchiera, dato che è

203
Cfr. C. Fuentes, Il lettore conosce il futuro, in M. Belpoliti (a cura di), Italo Calvino. Enciclopedia:
arte, scienza e letteratura, cit., pp. 173-174: “La speranza della civiltà riposa su questa ipotesi: Domani ci
sarà un Lettore. […] E ciò che il lettore sa è ciò che nessuno scrittore di oggi può sapere: il Lettore
conosce il Futuro. […] Calvino, attraverso la sua continua auscultazione dei molteplici riverberi di ogni
pagina, ha creato finzioni di grande intensità e tensione, creando anche, in questo modo, quella finzione
potenziale nella quale il lettore può leggere ciò che non è scritto in ciò che è scritto. […] Calvino ci invita
ad accompagnarlo nella ricreazione del mondo che è la creazione del libro”.
204
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 169. Cfr. S. Perrella, F. Pierangeli, “Né un’astronave né un
destino”: Calvino, Parise, Celati, Edizioni nuova cultura, Roma 1995, p. 27: “Il «forse» è positiva
categoria della conoscenza: lasciare aperto lo spazio della possibilità”.
205
Cfr. M. Lavagetto, Dovuto a Calvino, cit., p. 19. Quello che fa Calvino, spiega Lavagetto, è il
“tentativo di avvicinarci a quella città, discontinua nello spazio e nel tempo, a cui tende il viaggio di
Marco Polo e i cui elementi sono dispersi fra le immagini fantastiche, e insieme disegnate con
meravigliosa fermezza”.
206
Cfr. M. Belpoliti, Settanta, cit., p. 370: “L‟unico metodo possibile di fronte al frantumarsi dell‟insieme
delle definizioni di Storia e di Uomo, utilizzate negli ultimi secoli, è quello di assumere lo sguardo

199
proiettata sul nastro, è appunto piegata su di esso, e questo, oltre alla non orientabilità
del nastro, rende impossibile distinguere chiaramente lati umbratili da lati apricali. Solo
quando il lettore rilegge il testo forte delle indicazioni del fabulatore può, dallo spazio
tridimensionale, distinguere con chiarezza le tracce di aprico dalle tracce di opaco e non
solo nel testo, ma anche nell‟esperienza207. Il movimento che porta al capovolgimento
del nastro e che quindi rende il lettore fabulatore proprio alla fine del percorso,
portandolo dall‟altra parte, è pure un movimento che porta il lettore ad uscire dal testo
attraverso la città del possibile: Bauci.
Io come Lettore Empirico potrei riconoscere così le tracce infinitesimali di aprico
sparse nel testo e la loro carica rivoluzionaria. Questo mi è richiesto come Lettore
Empirico se voglio diventare Lettore Modello. Da questo sguardo sul testo, da questa ri-
esplorazione forte del consiglio dell‟Autore Modello sarà poi possibile guardare
diversamente anche nella metropoli reale, come Calvino mostrerà in Collezione di
sabbia. È fondamentale perciò riportare qui le tracce di aprico più rilevanti208, mostrare
la loro carica rivoluzionaria, comportarsi come il Lettore Modello, come deve fare
Kublai Kan, come dovremo fare noi nel mondo. Ecco le bianche tracce apricali,
rivoluzionarie e stranianti, im-possibili e contraddittorie; le distendo, dovrei narrare nel
mondo a partire da esse. Faccio ciò che l‟Autore Modello mi chiede per diventare
Lettore Modello. Riconosco, nel testo, ciò che non è inferno – ovvero opaco – e lascio
che prenda spazio. Distendo le caselle bianche, i residui, gli spiragli, gli spazi di
possibilità209, senza referenza:

- A Maurilia le vecchie cartoline illustrate, la gallina, il chiosco della musica, le


signorine col parasole bianco.
- A Fedora la peschiera delle meduse, il viale degli elefanti, il minareto a
chiocciola.

dell‟archeologo, che dissotterra utensili di cui ignora la destinazione, cocci di ceramica che non
combaciano”.
207
L‟altrove va ricercato qui e ora, all‟interno della complessità storica e nella discontinuità della vita
moderna. Cfr. M. Porro, Letteratura come filosofia naturale, cit., p. 78: “La realtà esterna è mondo che
attende di essere letto”.
208
Cfr. M. Barenghi, Introduzione, cit., p. XXVI: “Cose e oggetti di valore scarso o nullo, se presi
singolarmente: che però una determinata successione e distribuzione può rivelare depositari di importanti
verità”.
209
Ibid., p. XXV. Barenghi chiama questi stessi residui “reperti «archeologici»”, “realia considerati alla
stregua di reperti”, “alla luce di uno «sguardo» straniato e rinnovato”.

200
- A Zoe il lazzaretto dei lebbrosi e le terme delle odalische.
- A Zenobia le altissime palafitte, le case di bambù, i belvederi coperti da tetti a
cono e le girandole marcavento.
- A Eufemia le carovane e le barche che portano zenzero e bambagia, pistacchi e
semi di papavero, noce moscata e zibibbo.
- A Zobeide le tracce della fuggitiva che, benché distese, non portano a
raggiungerla. Si raccolgono tracce solo per raccontare.
- A Ipazia il giardino di magnolie che si specchia su lagune azzurre, cortili di
maiolica con zampilli e soprattutto un giardino con giochi infantili: birilli,
l‟altalena, la trottola, oppure i cimiteri.
- A Armilia qualche lavabo o vasca da bagno o maiolica, residui di una città da
non costruire.
- A Cloe una ragazza col parasole, una vecchia, una cortigiana, un efebo, una
donna-cannone.
- A Valdrada lo specchio d‟acqua.
- A Olivia palazzi di filigrana e un pavone bianco che fa la ruota, le botteghe dei
sellai, le donne che intrecciano tappeti cicalando.
- A Sofronia la giostra e il grande ottovolante.
- A Eutropia l‟ondulato altopiano.
- A Zemrude i rigagnoli, i tombini, le resche di pesce, la cartaccia.
- Ad Aglaura certi scorci di strade a certe ore che aprono davanti il sospetto di
qualcosa d‟inconfondibile e raro e magnifico.
- A Ottavia scale di corda, amache, case fatte a sacco, attaccapanni, girarrosti,
trapezi e anelli per i giochi.
- A Ersilia le rovine di città abbandonate, in pianura.
- A Bauci le foglie, i sassi, le formiche.
- A Leandra gli attaccapanni e i portaombrelli, la cappa del camino e il ripostiglio
delle scope.
- A Melania la meretrice e il servo sciocco.
- A Smeraldina le vite avventurose dei gatti, dei ladri e degli amanti; i topi, i
congiurati, i contrabbandieri.

201
- A Fillide un cespo di capperi, le statue di tre regine su una mensola, una cupola a
cipolla con tre cipolline infilzate sulla guglia.
- A Pirra nomi che portano con sé una figura o frammento o barbaglio di figura
immaginata.
- Ad Adelma il marinaio che prende al volo la cima, il vecchio che carica la cesta
di ricci su un carretto, l‟erbivendola che pesa la verza sulla stadera, la ragazza
impazzita.
- A Eudossia il tappeto, i ragli dei muli, le macchie di nerofumo.
- A Moriana una distesa di lamiera arrugginita, tela di sacco, assi irte di chiodi,
tubi neri di fuliggine, mucchi di barattoli, muri ciechi con scritte stinte, telai di
sedie spagliate, corde.
- A Clarice le lenzuola fatte con tendaggi di broccato, le urne cinerarie dov‟è
piantato il basilico, le griglie di ferro battuto con cui si arrostisce la carne, il
capitello che in un pollaio sostiene la cesta dove le galline fanno le uova.
- A Eusapia l‟orologiaio, il barbiere e la ragazza, cacciatori di leoni, tutti morti.
- A Bersabea le scorze di patata, gli ombrelli sfondati, le calze smesse e i cocci di
vetro, i bottoni perduti, le carte di cioccolatini, il lastricato di biglietti del tram,
gusci d‟uovo.
- A Leonia tubi di dentifricio schiacciati, lampadine fulminate, giornali,
contenitori, tutti i resti della Leonia d‟ieri: un barattolo, un vecchio
pneumatico, un fiasco spagliato, le scarpe spaiate, vecchi calendari, fiori
secchi.
- A Irene i viaggiatori dell‟altipiano, i pastori che transumano gli armenti, gli
uccellatori che sorvegliano le reti, gli eremiti che colgono radicchi.
- Ad Argia le fessure in cui s‟insinuano le radici.
- A Tecla gli steccati di tavole, i ripari di tela di sacco, le impalcature, i ponti di
legno, le scale a pioli, i tralicci.
- A Trude i sobborghi con e case gialle e verdi.

Bauci è la mancata capitale del regno di Utopia, è il contrario dell‟utopia. Qui


bisogna tener presente il secondo suggerimento di Calvino che dice che è in un versante
in ombra che va trovato il meglio. È forse una smentita di tutto il discorso sulla

202
contrapposizione tra aprico e opaco? Un passo decisivo nella comprensione di queste
parole calviniane è possibile se si tiene presente che l‟etimo di Amauroto, la prima città
dello stato-isola di Utopia che è al centro di quest‟ultima, proprio come Bauci, è il greco
amaurós che significa “difficile a vedersi, appena visibile”210. Ma anche chi arriva a
Bauci non la vede. Quindi il meglio che ci si può aspettare, il meglio che il lettore di
Calvino può attendersi non è la prefigurazione della città perfetta fuori, poiché questa
non si vede, è invisibile, ma è il giardino della villa d‟Ombrosa, e in quel giardino un
albero: del barone rampante ritorna il gesto che lo fa saltare dalla terra all‟albero, ritorna
il gesto di morte dell‟uomo sulla terra e lo sguardo del lettore nel deserto alla ricerca dei
frammenti d‟aprico nella sabbia211. Bauci disegna sul fogliame un‟ombra traforata e
angolosa, Bauci è nascosta, Bauci è la città che prende vita nel lettore che torna a
narrare a partire dalle tracce. Nel giardino d‟Ombrosa si apre la casella vuota sull‟albero
dal quale guardando in basso la terra deserta, i lettori tornano a narrare delle tracce che
restano, dei residui, in assenza dell‟uomo. È quella di Calvino non tanto un‟utopia, ma
un‟eterotopia, che si configura anche nel barone rampante solo nelle ultime pagine.
Eterotopia del lettore di tracce, del narratore morente212. Rimane il suo sguardo da lassù,
dall‟elce, e la sua dipartita con la mongolfiera. L‟utopia discontinua va cercata a
Ombrosa, versante in ombra, cioè nel suo giardino, perché è nel giardino, eterotopia,
che giace l‟albero dove Lettore Empirico e Lettore Modello devono incontrarsi213. È nel
giardino che risiede la casella vuota. Il modo di guardare che Calvino vuole insegnare è
uno sguardo appartato, che guarda il lontano-vicino e da questo inizia a raccontare.
Bauci è la città dove gli uomini contemplano la propria assenza perché amano la terra
com‟era prima di loro. A Bauci gli abitanti odiano il mondo così com‟è venuto

210
Seguo in questo punto l‟interpretazione di Claudio Milanini. Cfr. C. Milanini, L’utopia discontinua.
Saggio su Italo Calvino, cit.
211
Cfr. F. Muzzioli, Polvere di utopia, cit., pp. 147-148: “Proprio nella dissoluzione e frantumazione dei
progetti globali e totalizzanti degli utopisti, Calvino sembra scorgere una chance di ripresa delle cariche
utopiche, proprio a partire dalla loro riduzione a dimensione minima: essendo, per lui, appunto quella
dimensione (del puntiforme, del pullulante), fatta di spunti sparpagliati e di affioramenti intermittenti,
l‟unica tuttora frequentabile dall‟utopia. Dunque la «polvere» non è solo il segno del tempo che appanna
le cose e le idee […], ma, nei termini di «sabbia» o «pulviscolo», viene considerata da Calvino con una
sfumatura positiva, in quanto materia scomponibile in microscopici elementi, plasmabile all‟infinito
nell‟alea di una combinazione sempre provvisoria”.
212
Cfr. M. Rizzante, Il geografo e il viaggiatore, cit., p. 11: “La mirabile utopia – il mondo che guarda il
mondo – è allora quella di descrivere il fuori, essendo morti”.
213
Cfr. M. Dini, Calvino critico, cit., p. 91: ”Il momento della lettura consapevole e non ingenua diventa
determinante nel superare la fase «ritualistica», «assertiva», della letteratura e passare a quella che
rovescia i valori, le percezioni e i linguaggi consolidati”.

203
formandosi nel corso della storia e provano a guardare quello che la storia non ha
considerato214. L‟utopia discontinua di Calvino non è utopia, non resta utopica215. Nelle
Città invisibili Calvino indica al Lettore Empirico, attraverso quello che Marco Polo
dice a Kublai Kan, cosa vuole dal suo Lettore Modello, gli rivela la strategia efficiente
che è applicazione della strategia primaria trovata nel modello mitico di Filemone e
Bauci riformulata.
L‟unione e la coincidenza finale di Se una notte d’inverno un viaggiatore tra il Tu
Lettore e Ludmilla è ciò cui già tendeva Calvino ne Le città invisibili: definito un certo
tipo di Lettore Modello cercare con una strategia di far sì che il Lettore Empirico finisse
per comportarsi come questo. L‟utopia è discontinua perché è nella lettura – si capisce
quindi il senso della discontinuità –, operazione frammentaria e discontinua che ha a che
fare con le tracce di possibilità sparpagliate sulla superficie di gioco – caselle vuote –,
perché vengano raccolte e perché il lettore torni a narrare216.
L‟utopia è corpuscolare e frammentaria perché è lettura di residui cosparsi, di
piccole cose, tracce, quasi granelli di sabbia, come quelli che s‟incontrano in Collezione
di sabbia. Attraverso l‟effetto sul lettore, l‟opera letteraria può operare sul contesto di
sfacelo, pur non potendolo cambiare. L‟unico modo di operare del testo sul lettore è
quello di far sì che attraverso lo straniamento egli s‟inventi un nuovo modo di guardare
le tracce nel mondo e di conseguenza un nuovo modo di essere nell‟esperienza217. La

214
Cfr. M. Rizzante, Il geografo e il viaggiatore, cit., p. 84: “L‟aspirazione alla leggerezza, la sua
necessità antropologica, rivendicata dal mito, non è solo liberazione dal peso insostenibile del vivere e
neppure soltanto desiderio sciamanico di percepire un altro livello di realtà, di toccare i confini di un altro
mondo. Essa indica che l‟invisibile cosmico – il cosmo è fatto di forze e particelle che non riusciamo a
vedere – determina la poesia del visibile, che dalla conoscenza della dissoluzione del mondo in parti
invisibili ciò che va ricercato e amato è la facoltà di «mettere a fuoco visioni a occhi chiusi»”
215
Cfr. F. Muzzioli, Polvere di utopia, cit., p. 148: “L‟ineludibile discontinuità dell‟esperienza moderna
costringe a pensare a un‟utopia volatile e diffusa. […] Non si tratta, perciò, di compilare la legislazione
perfetta della città ideale, il «vero sistema» o il «codice della natura», ma di considerare ogni altrove
all‟interno della complessità storica che ci appartiene: nella coesistenza e compenetrazione, insomma, di
luogo e non-luogo, di utopia e storia”.
216
Cfr. M. Belpoliti, Settanta, cit., p. 379-380: “Non c‟è una mappa per attraversare le città continue,
l‟unica possibilità è nel procedere per punti discontinui, affinché proprio la discontinuità possa indicare il
cammino al viandante. La soluzione positiva che questo libro così melanconico e pessimista contiene è
quella di congiungere leggerezza e discontinuità, ovvero di muoversi tra punti separati. Anche sul piano
narrativo la struttura stessa del libro propone una soluzione praticabile: quella del discreto delle figure.
Per evadere dalla continuità del mondo, dalla sua indifferenza, bisogna introdurre una discontinuità,
prima di tutto visiva, poi narrativa. […] È la discontinuità che consente di salvare dalla dispersione e dalla
dissipazione. […] La discontinuità, ha argomentato Mario Porro, in un suo scritto, è la soglia che
introduce la differenza e dunque rende pensabile il reale”.
217
Cfr. G. Celati, Il bazar archeologico, cit., p. 204: “Al frammentario e al discontinuo, all‟escluso e al
dimenticato è affidato il compito di contestare l‟illusione d‟uno sviluppo lineare continuo della storia

204
Città del Possibile non è una città perfetta utopica, ma è la città che ogni lettore può,
attraverso i residui intrinsecamente rivoluzionari spalmati sul terreno di gioco
dell‟opera, fondare in sé. L‟utopia si realizza e smetta di essere tale dalla parte del
lettore se diventa:

L‟utopia come città che non potrà essere fondata da noi ma fondare se stessa dentro di noi, costruirsi
pezzo per pezzo nella nostra capacità d‟immaginarla, di pensarla fino in fondo, città che pretende
d‟abitare noi, non d‟essere abitata, e così fare di noi i possibili abitanti d‟una terza città, diversa
dall‟utopia e diversa da tutte le città bene o male abitabili oggi, nata dall‟urto tra nuovi condizionamenti
interiori ed esteriori218.

Come una città nascosta che prende vita nel bel mezzo dell‟inferno della città
continua, l‟utopia discontinua e frammentaria della lettura nasce nella metropoli
neocapitalistica219. Le città nascoste sono cinque e si aprono a ventaglio a partire
dall‟ultimo tratto del rettangolo centrale per sopraffare le città continue: sono Olinda,
Raissa, Marozia, Teodora e Berenice, tutte sul versante del lettore; sono le città dentro il
lettore, che nascono nel momento in cui quest‟ultimo ritorna a narrare. Nelle città
nascoste così come nelle città sottili – in particolar modo nel capitolo quinto sulla
leggerezza di cui Calvino ha scritto “forse queste figure filiformi («città sottili» o altre)
sono la zona più luminosa del libro”220 – l‟aprico prevale221. Si osservano le città
nascoste, si attraversa “la fase culminante che attraverso la negatività senza spiragli
delle Città continue arriva alla sola positività possibile delle Città nascoste”222.
A Olinda “le vecchie mura si dilatano portandosi con sé i quartieri antichi,
ingranditi mantenendo le proporzioni su un più largo orizzonte ai confini della città; essi
circondano i quartieri un po‟ meno vecchi, pure cresciuti di perimetro e assottigliati per
far posto a quelli più recenti che premono da dentro; e così via fino al cuore della città:

umana, e quindi le esclusioni compiute in nome di questa idea di sviluppo: riportare lo sguardo su
accadimenti e culture e gruppi e pratiche di cui non calcoleremmo l‟esistenza”.
218
I. Calvino, Per Fourier 3. Commiato. L’utopia pulviscolare, cit., p. 312.
219
Cfr. U. Musarra-Schroeder, Il labirinto e la rete, cit., p. 36: “Nel Calvino postmoderno predomina una
pratica che, all‟interno del campo delle possibilità infinite o molteplici, limita il suo campo di azione a
delle realtà frammentarie e discontinue”.
220
I. Calvino, Italo Calvino on Invisible Cities, cit., p. 42.
221
Cfr. P. Kuon, Critica e progetto dell’utopia: “Le città invisibili” di Italo Calvino, cit., p. 34: “Calvino
non mira dunque alla definitiva liberazione degli esseri umani con il volo libero delle rondini ma, in modo
assai più modesto, all‟improvvisa trasfigurazione – espressa nell‟immagine della libellula – di una realtà
opaca in cristallina trasparenza. La sua utopia del momento estetico si fonda sulle esperienze individuali
della felicità che […] si possono vivere in ogni istante anche nelle circostanze più misere e che, se
immaginate collegate tra loro, danno vita a una città felice nascosta, effimera, da ricostruire sempre
nuovamente all‟interno della città dell‟infelicità: una «città invisibile»”.
222
I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., p. 1235.

205
un‟Olinda tutta nuova che nelle sue dimensioni ridotte conserva i tratti e il flusso di
linfa della prima Olinda e di tutte le Olinde che sono spuntate una dall‟altra; e dentro a
questo cerchio più interno già spuntano – ma è difficile distinguerle – l‟Olinda ventura e
quelle che cresceranno in seguito”223.
A Raissa “a ogni momento c‟è un bambino che da una finestra ride a un cane che
è saltato su una tettoia per mordere un pezzo di polenta caduto a un muratore che
dall‟alto dell‟impalcatura ha esclamato: – Gioia mia, lasciami intingere! – a una giovane
ostessa che solleva un piatto di ragù sotto la pergola, contenta di servirlo all‟ombrellaio
che festeggia un buon affare, un parasole di pizzo bianco comprato da una gran dama
per pavoneggiarsi alle corse, innamorata d‟un ufficiale che le ha sorriso nel saltare
l‟ultima siepe, felice lui ma più felice ancora il suo cavallo che volava sugli ostacoli
vedendo volare in cielo un francolino, felice uccello liberato dalla gabbia da un pittore
felice d‟averlo dipinto piuma per piuma picchiettato di rosso e di giallo nella miniatura
di quella pagina del libro in cui il filosofo dice: «Anche a Raissa, città triste, corre un
filo invisibile che allaccia un essere vivente a un altro per un attimo e si disfa, poi torna
a tendersi tra punti in movimento disegnando nuove rapide figure cosicché a ogni
secondo la città infelice contiene una città felice che nemmeno sa d‟esistere»”224.
Calvino rappresenta benissimo in Raissa in che modo nasce, dalle tracce sparpagliate, la
narrazione orale. Raissa è una superficie tutta tracciata di residui che, letti uno dopo
l‟altro, sprigionano la città felice.
A Marozia “sta per cominciare un nuovo secolo in cui tutti […] voleranno come le
rondini nel cielo d‟estate, chiamandosi come in un gioco, esibendosi in volteggi ad ali
ferme, sgombrando l‟aria da zanzare e moscerini. […] Succede pure che, rasentando i
compatti muri di Marozia, quando meno t‟aspetti vedi aprirsi uno spiraglio e apparire
una città diversa, che dopo un istante è già sparita. Forse tutto sta a sapere quali parole
pronunciare, quali gesti compiere, e in quale ordine e ritmo, oppure basta lo sguardo la
risposta il cenno di qualcuno, basta che qualcuno faccia qualcosa per il solo piacere di
farla, e perché il suo piacere diventi piacere altrui: in quel momento tutti gli spazi
cambiano, le altezze, le distanze, la città si trasfigura, diventa cristallina, trasparente
come un libellula. Ma bisogna che tutto capiti come per caso”225.

223
I. Calvino, Le città invisibili, cit., pp. 136-137.
224
Ibid., pp. 154- 155.
225
Ibid., pp. 160-161.

206
A Teodora “relegata per lunghe ere in nascondigli appartati, da quando era stata
spodestata dal sistema delle specie ora estinte, l‟altra fauna tornava alla luce dagli
scantinati della biblioteca dove si conservano gli incunaboli, spiccava salti dai capitelli e
dai pluviali, s‟appollaiava al capezzale dei dormienti. Le sfingi, i grifi, le chimere, i
draghi, gli ircocervi, le arpie, le idre, i liocorni, i basilischi riprendevano possesso della
loro città”226. Questi esseri impossibili ontologicamente ma possibili logicamente,
poiché pensabili e immaginabili, inscenano bene la sfida che lo spazio cosparso di
mondi im-possibili del testo di Calvino lancia alla città reale; sono quelle classi vuote
che distese danno vita a storie immaginarie227.
Attraverso ogni casella vuota, cioè mediante ogni spazio bianco di referenza il
lettore può muoversi a piacimento, dar vita alla narrazione che preferisce nel mondo, e
raccontare228. La fabulazione funziona proprio per questo, perché distende tracce solo
per indurre un racconto che vada fuori dalla pagina, nell‟esperienza. In questo modo si
comprende pure il legame tra il fatto che Filemone e Bauci sono i giusti 229 e il fatto che
questo modello mitico riformulato – nell‟unione tra Lettore Empirico e Lettore Modello
in Se una notte d’inverno un viaggiatore – chiede al Lettore Empirico di distendere le
tracce d‟aprico sparse sulla superficie, gli spiragli 230, per iniziare a raccontare, farsi

226
Ibid., pp. 164-165.
227
Cfr. F. Muzzioli, Polvere di utopia, cit., p. 149: “Calvino, anche quando distanzia i suoi racconti nel
tempo e nello spazio, non fugge mai in una assoluta alterità; e non a caso alla dilatazione meravigliosa del
cosmico fa da contrappeso la familiarità terra terra del comico. Esattamente in ragione del loro stretto
legame con la storia che le genera, le immagini del futuro, seppur scavalcate e deluse nel processo
concreto, e quand‟anche decretate chimeriche, restano a premere, con le loro istanze, come una sorta di
potenziale inesploso”.
228
Cfr. M. Barenghi, Come raccontare in una notte buia e tempestosa, in M. Boselli (a cura di), Italo
Calvino/1, cit., p. 169. Calvino guarda “al polo della ricezione non solo come a un referente progettuale, e
quindi a uno stimolo positivo, ma altresì come ad un momento di arricchimento semantico, di rivelazione
e di realizzazione di potenzialità: non solo, dunque, come oggetto ma anche come soggetto necessario e
imprescindibile nel processo della comunicazione letteraria”. Cfr. M. Barenghi, Italo Calvino, le linee e i
margini, cit., pp. 75-77: “La dimensione della sintesi […] è un compito, uno dei compiti affidati al lettore.
[…] È ben vero che un‟opera rivela e dispiega le proprie intrinseche potenzialità solo nel momento della
ricezione”.
229
Intorno ai Giusti nella letteratura (e non solo) – in particolare in quella dell‟est europeo – ha scritto un
bellissimo testo tra il narrativo e il saggistico Cataluccio. Cfr. F. M. Cataluccio, Vado a vedere se di là è
meglio, Sellerio, Palermo 2010.
230
Cfr. R. Bertoni, Int’abrigu int’ubagu, cit., p. 115: “Sono quegli «spiragli» a proporre un punto di fuga
(la «maglia rotta nella rete») che dalla prigione-Nulla conduca negli interstizi vivibili del Mondo:
un‟utopia destabilizzante e inquietante visto che punta a far vivere il soggetto in quegli interstizi minimi e
fragili con la coscienza che anch‟essi potrebbero disgregarsi da un momento all‟altro”.

207
narratore231. Benjamin spiega, infatti, che Filemone e Bauci sono i giusti non solo perché
sono favolosamente scampati – così come favolosamente scampati alla fine del mondo
sono il Lettore Empirico e la Lettrice Modello in Calvino – ma perché “incarnano la
saggezza, la bontà, la misericordia del mondo” e “si stringono intorno al narratore”232.
Anzi, la narrazione, nel nesso unico tra occhio, anima e mano che si influenzano tra di
loro, conta per Benjamin poiché determina una prassi. È una connessione artigianale,
così come artigianale è il rapporto che il narratore intrattiene con la vita umana, la
materia dei suoi racconti. Benjamin arriva fino al punto di affermare che il narratore
sarebbe colui che ha il compito di “lavorare la materia prima delle esperienze – altrui e
proprie – in modo solido, utile e irripetibile”233:

Così considerato, il narratore entra fra i maestri e i saggi. Egli «ha consiglio» […] come il saggio […].
Poiché gli è dato riferirsi ad un‟intera vita. […] Il suo talento è la sua vita; la sua dignità quella di saperla
narrare fino in fondo. Il narratore è l‟uomo che potrebbe lasciar consumare fino in fondo il lucignolo della
propria vita alla fiamma misurata del suo racconto. […] Il narratore è la figura in cui il giusto incontra se
stesso234.

Se l‟unione tra Lettore Empirico e Lettore Modello coincide con un modo di


leggere che è attiva collaborazione alla scrittura del testo, cioè fabulazione indotta, e se
attraverso la riformulazione del mito di Filemone e Bauci Italo Calvino non tende ad
un‟utopia felice e umanistica, ma pensa piuttosto ad un‟eterotopia, ci si chiede qui,
riesce il suo lettore-fabulatore modello a conquistare la saggezza che vorrebbe dire
ritorno alla narrazione orale di un narratore giusto? In Bauci s‟è detto ch‟è rappresentata
l‟uscita del Lettore Empirico dall‟ultima propaggine di contesto infernale, cioè dal
nastro di Möbius – che grazie alla casella vuota non è più parte del sistema, ma anzi
aiuta nel capovolgimento del lettore – grazie alla città del possibile, che si eleva con
leggerezza sulle nuvole, al di sopra delle altre città, come fosse sull‟albero della vita.
Gli abitanti di Bauci che rispettano la terra al punto d‟evitare ogni contatto e di rado si
mostrano a terra, dall‟alto dei trampoli, dalla città invisibile per eccellenza, passano in
rassegna, senza stancarsi mai, la terra con cannocchiali e telescopi, foglia a foglia, sasso

231
Cfr. M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, cit., pp. 87-88: “L‟atto della lettura […] si configurerebbe […]
come un andamento nomadico sulla prateria del foglio, con l‟occhio che bruca qua e là le parole e le frasi
per mettere insieme il suo pasto”.
232
W. Benjamin, Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, cit., p. 268.
233
Ibid., p. 273.
234
Ibid., p 273-274.

208
a sasso, formica a formica, contemplando la propria assenza affascinati235. La fine
dell‟uomo non porta sofferenza, ma dà il via piuttosto, a partire dalle tracce, a nuove
narrazioni. Il monello che arrampicandosi sulla cima dell‟albero ne Il castello dei
destini incrociati arriva poi in una città sospesa, galleggiante su onde e nuvole,
raggiunge la Città del Possibile “da cui si contempla il Tutto e si decidono le scelte”236.
Un altro monello, Cosimo di Rondò, s‟arrampica sull‟elce e guarda il mondo dall‟alto
dalla Città del Possibile237. È una città su nuvole, come la mongolfiera a cui s‟abbandona
morente Cosimo, ed è una città su onde come la nave di Foucault. L‟altrove come
aprico assoluto, se esiste, s‟apre sul mare solcato da lontani battelli:

Se si pensa, dopotutto, che la nave è un frammento galleggiante di spazio, un luogo senza luogo, che vive
per se stesso, che si autodelinea e che è abbandonato, nello stesso tempo, all‟infinito del mare e che, di
porto in porto, di costa in costa, da case chiuse a case chiuse, si spinge fino alle colonie per cercare ciò
che esse nascondono di più prezioso nel loro giardino, comprenderete il motivo per cui la nave è stata per
la nostra civiltà, dal XVI secolo ai nostri giorni […] il più grande serbatoio di immaginazione. La nave è
l‟eterotopia per eccellenza. Nelle civiltà senza navi, i sogni si inardiscono, lo spionaggio sostituisce
l‟avventura e la polizia i corsari238.

Calvino non crede più col suo personaggio nella Repubblica d‟Arborea239, non
vuole più un‟utopia nel 1972. Calvino disegna in entrambi i testi il movimento a cui è
chiamato il Lettore Empirico per farsi Lettore Modello del suo testo, che è un

235
Cfr. F. La Porta, Il Calvino dimezzato ovvero La “lezione” dello scrittore sbriciolata nei suoi presunti
eredi letterari (ma forse ritrovata ai margini della letteratura), in A. Botta e D. Scarpa (a cura di), Italo
Calvino newyorkese, cit., pp. 170-171: “Così Calvino ci parla della necessaria «attenzione» ma anche,
preliminarmente, «di tutto il nostro amore» nei riguardi del dettaglio che intendiamo descrivere […],
rivelando in ciò un‟attitudine a salvarlo dall‟oblio e dalla dispersione. Oggi però il nostro amore residuo
incontra qualche difficoltà ad abbracciare un mondo superstite, desideroso di obliare e di essere obliato in
fretta”.
236
I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, cit., p. 27.
237
Si propone di leggere quello che scrisse Pavese recensendo Il sentiero dei nidi di ragno nel 1947,
poiché sembra che il movimento a cui il fabulatore invita il lettore sia non diverso da quello descritto qui:
“L‟astuzia di Calvino, scoiattolo della penna, è stata questa, di arrampicarsi sulle piante, più per gioco che
per paura. […] Leggendo il Sentiero par di guardare certi fianchi di collina a gran distanza, dopo un
giorno di vento, che si scorgono precisi e innumerevoli i tronchi, gli alberelli, i cubi netti delle cose. C‟è
un perenne sentore di aria aperta in queste pagine, di campagna, di vista sicura, di mondo di Dio”. Cfr. C.
Pavese, Il sentiero dei nidi di ragno, in “L‟unità”, Roma, 26 ottobre 1947.
238
M. Foucault, Spazi altri, cit., p. 21.
239
Cfr. I. Calvino, Il barone rampante, in Romanzi e racconti, vol. I, pp. 695-696: “Cominciò in quel
tempo a scrivere un Progetto di Costituzione d’uno Stato Ideale fondato sopra gli alberi, in cui
descriveva l‟immaginaria Repubblica d‟Arborea, abitata da uomini giusti. Lo cominciò come un trattato
sulle leggi e i governi ma scrivendo la sua inclinazione d‟inventore di storie complicate ebbe il
sopravvento e ne uscì uno zibaldone d‟avventure, duelli e storie erotiche, inserite quest‟ultime, in un
capitolo sul diritto matrimoniale. L‟epilogo del libro avrebbe dovuto essere questo: l‟autore, fondato lo
Stato perfetto in cima agli alberi e convinta tutta l‟umanità a stabilirvisi e a vivere felice, scendeva ad
abitare sulla terra rimasta deserta”.

209
movimento di presa di distanza dalla superficie, un guardare la superficie dall‟alto con
cannocchiali e telescopi e, nella Città del Possibile, nella città mondo im-possibile per
eccellenza, si contempla il tutto – cioè l‟unione tra lettore e scrittore–, e si decidono le
scelte, cioè si sceglie come riempire gli spazi vuoti, cioè farsi da lettori fabulatori nel
mondo240. Ecco chiarito il terzo termine riferito all‟utopia discontinua: è sospesa perché
un‟utopia che non è più tale241, è sospensione dell‟utopia, è eterotopia. È uno spazio da
cui si guarda, appunto sospesi, dall‟albero, come Cosimo, dalla Città del Possibile, le
tracce e i residui che danno vita a nuove narrazioni nel mondo deserto e vuoto242: il
signor Palomar fa questo in città; come fosse su una nave in volo, una mongolfiera,
guarda la città dall‟alto: vede il sali e scendi dei tetti, le vecchie tegole, le ringhiere, gli
abbaini, i lucernari di vetro, terrazzi proletari, campanili, impalcature, finestroni, muri,
statue, magioni, cupole e lanterne. Palomar è salpato, s‟è buttato al largo e a partire
dalle tracce che il suo sguardo incontra in volo – nel primo racconto vero e proprio del
libro – prova a narrare leggendo, poiché “volare è il contrario del viaggio: attraversi una
discontinuità dello spazio, sparisci nel vuoto, accetti di non essere in nessun luogo per
una durata che è anch‟essa una specie di vuoto nel tempo”243:

Già tanta e tanto ricca e varia è la vista in superficie che basta e avanza a saturare la mente d‟informazioni
e significati. Così ragionano gli uccelli, o almeno così ragiona, immaginandosi uccello, il signor Palomar.
«Solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose, - conclude -, ci si può spingere a cercare quel che c‟è
sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile»244.

L‟utopia è infinitesimale perché all‟infinito è scandagliabile la superficie alla ricerca di


tracce da cui narrare245, perché ogni città racchiude minimi dettagli composti di piccoli

240
Cfr. M. Lavagetto, Dovuto a Calvino, cit., p. 18: “ Nelle Città invisibili il problema […] è […] quello
[…] del testo che ogni coscienza di lettore è costretta ad affrontare: è il problema delle scelte, delle
direzioni, delle strutture su cui quella coscienza è chiamata di volta in volta a decidere”.
241
Cfr. F. Muzzioli, Polvere di utopia, cit., p. 155: “Questa utopia «polverizzata», […] è, come giusto,
un‟utopia antiutopica: se ormai l‟altrove viene situato all‟interno del luogo più consueto e familiare”.
242
Cfr. P. Kuon, Critica e progetto dell’utopia: “Le città invisibili” di Italo Calvino, cit., p. 35: “Calvino
erige la sua utopia del presente, fondata sulle facoltà percettive del soggetto. […] Chi rifiuta l‟inferno e in
esso cerca il riflesso del cielo, edificherà la «città ideale» […] dentro di sé, non come una realtà esterna a
sé, ma come una realtà interiore, ancorata alla sua immaginazione”.
243
I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit., p. 820.
244
I. Calvino, Palomar, Einaudi, Torino 1983, p. 57. Cfr. su questo punto D. Scarpa, Dieci lemmi
calviniani, in A. Botta e D. Scarpa (a cura di), Italo Calvino newyorkese, cit., pp. 201-204.
245
In una lettera del 12 marzo 1972 Italo Calvino scrive a Gianni Celati: “Le note sulla città che citi e
chiosi da Gabellone sono per me molto sollecitanti e aspetto di vedere lo scritto di G. completo. Non solo
mi possono dar spunto a nuove variazioni delle Città invisibili, che sto per riprendere in mano
(accantonati ormai forse definitivamente i tarocchi), ma anche per una possibile ripresa (o meglio inizio)
del mio discorso sull‟utopia. […] E qui dovrei collegarmi a quello che tu dici della città

210
corpuscoli da raccogliere. Dal deserto il lettore esce collezionando la sabbia, cioè le
tracce che come granellini di sabbia vanno distese e raccontate246. Con Palomar Calvino
ha cercato di disegnare il movimento richiesto al suo lettore, e il relativo sguardo sul
mondo247. Se era un modo di guardare quello che voleva insegnare, ha provato a
mostrarlo in questo testo248. Ma l‟errore di Palomar è di non contemplare, di cercare
sempre una spiegazione razionalistica e questo lo porta per tutto il testo a non dar vita a
un racconto che sia solo racconto. Palomar non sa effondersi nel paesaggio come Celati,
se guarda il mondo è per confermare qualche ipotesi, qualche idea. Palomar legge sì, ma
infine non racconta, perché non si abbandona veramente alle tracce. L‟unica indicazione
che dà è quella di vagliare la superficie, come fa dall‟alto di casa sua sulla città che
vede249.
Se lo scopo cui vuole portare il proprio lettore Calvino – nell‟unione tra Lettore
Empirico e Lettore Modello che riformula l‟unione di Filemone e Bauci nell‟albero
meraviglioso – è la conquista della saggezza250, intesa alla maniera di Benjamin come
“lato epico della verità”251, si capisce il senso del testo del 1983 Palomar. Palomar, che
prende nome proprio dall‟osservatorio astronomico di Mount Palomar, è il lettore-
scrittore che Calvino propone ma che, com‟egli confessa, non raggiunge la saggezza:
“Un uomo si mette in marcia per raggiungere, passo a passo, la saggezza. Non è ancora
arrivato”252. L‟unico momento in cui il signor Palomar sembra avvicinarsi alla
narrazione intesa come narrazione orale d‟esperienza, narrazione artigianale, è l‟attimo

dell‟infinitesimale, perché quella di Fourier è dichiaratamente l‟utopia dell‟infinitesimale, e questo


concetto è fondamentale della sua teoria ed è solo suo, e su questo punto ci sarebbe da chiarire cos‟è che
funziona e cosa non funziona. La tua proposta dell‟eterotopia, del qui-altrove mi ha spinto a nuove
ricerche d‟un titolo […] che richiami l‟alterità”.
246
Cfr. M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, cit., p. 62: “L‟immagine che Calvino ci offre nelle sue opere è
quella della sabbia come fondamento del mondo eroso, del granello come abrasione della scrittura
stessa”.
247
Cfr. G. Celati, Palomar, nella prosa del mondo, in M. Boselli (a cura di), Italo Calvino/2, cit., p. 234.
“Quando Palomar osserva e descrive la luna che sorge, l‟efficacia delle parole può essere apprezzata solo
in quanto esercizio di calma osservazione. L‟osservazione è un mettersi al servizio di qualcosa di esterno,
un uso di tracce o di parole per orientarsi nello spazio verso qualcosa”.
248
Cfr. P. Fournel, I quaderni degli esercizi. Intervista a Italo Calvino, in A. Botta e D. Scarpa (a cura
di), Italo Calvino newyorkese, cit., p. 20. Nell‟intervista di Paul Fournel Calvino spiega: “Pedagogia dello
sguardo e della riflessione. Il lettore deve imparare a guardare e a non essere mai soddisfatto di quello che
ha visto”.
249
Sui rapporti e le differenze tra Palomar e Verso la foce si legga M. Rizzante, Il geografo e il
viaggiatore. Variazioni su Italo Calvino e G. Celati, cit.
250
Cfr. M. Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, cit., p. 119: “Il lettore a cui Calvino pensa è un
lettore attivo, responsabile e idealmente superiore allo scrittore stesso”.
251
W. Benjamin, Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, cit., p. 251.
252
I. Calvino, Note e notizie sui testi, in Romanzi e racconti, vol. II, cit., p. 1405.

211
finale, che manda fuori dalla pagina, attraverso l‟autorità del morente sulla narrazione
della propria vita, fino al lettore empirico:

Decide che si metterà a descrivere ogni istante della sua vita, e finché non li avrà descritti tutti non
penserà più d‟esser morto. In quel momento muore253.

Calvino non poteva pretendere di più dal suo personaggio lettore. Palomar non
raggiunge la saggezza, non diventa quel lettore-fabulatore che sarebbe il Lettore
Modello di Calvino poiché non sa raccontare, poiché resta pur sempre un osservatorio.
Tuttavia Palomar in punto di morte si supera, va oltre sé come personaggio, perché
decide di raccontare la sua vita che diviene tramandabile genuinamente, oralmente –
non più satura di spiegazioni – proprio perché sta per morire. Questo è il gesto che
Calvino prova a fare, attraverso il personaggio di Palomar, per recuperare la narrazione
sulla pagina scritta. Benjamin scrive:

Sta di fatto che non solo il sapere o la saggezza dell‟uomo, ma soprattutto la sua vita vissuta – che è la
materia da cui nascono le storie – assume forma tramandabile solo nel morente. Come, allo spirare della
vita, si mette in moto, all‟interno dell‟uomo, una serie di immagini – le vedute della propria persona in cui
ha incontrato se stesso senza accorgersene -, così l‟indimenticabile affiora d‟un tratto nelle sue espressioni
e nei suoi sguardi e conferisce a tutto ciò che lo riguardava l‟autorità che anche l‟ultimo tapino possiede,
morendo, per i vivi che lo circondano. Questa autorità è all‟origine del narrato 254.

Sulla figura del giusto si conclude la fabulazione ne Le città invisibili. Calvino in un


articolo apparso sul “Corriere della sera” del 15 agosto 1977 scriveva: “L‟ideale cui
tendere dovrebbe essere di costruire la città giusta, dotata di cose giuste, usabili nel
modo giusto”255. I giusti a Berenice, quinta città nascosta, lavorano nelle retrobotteghe e
nelle sottoscale, maneggiando “una rete di fili e carrucole e stantuffi e contrappesi”256. I
giusti si riconoscono dal modo di parlare e danno luogo alla Berenice futura, che
avvicina alla verità257. Berenice è la città dove germoglia “il possibile risveglio – come
un concitato aprirsi di finestre – d‟un latente amore per il giusto, non ancora sottoposto
a regole, capace di comporre una città più giusta ancora di quanto non fosse prima di

253
I. Calvino, Palomar, cit., p. 128.
254
W. Benjamin, Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, cit., p. 258.
255
Cfr. I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., pp. 1342-1343.
256
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 166.
257
Cfr. C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, cit., pp. 144-145: “Il compito di
edificare una convivenza autenticamente umana rimane affidato a quei «pochi giusti» che continuano a
faticare nelle pieghe e nei versanti in ombra della società, all‟interno di sistemi economico-politici tanto
tronfi quanto moralmente sottosviluppati”.

212
diventare recipiente dell‟ingiustizia”258. Palomar non arriva alla saggezza fino a quando
non si trova in punto di morte, ma non ha il tempo di raccontare poiché muore. Palomar
non incontra se stesso come giusto perché non narra mai veramente, dato che quando
avrebbe potuto essere origine della narrazione e sua autorità come morente, perisce.
Resta al lettore, vedendolo morire, narrare una vita di cui non si ha notizia, poiché
quella scritta nella pagina antecedenti era solo osservazione asservita a modelli
concettuali259. Calvino non riesce a disegnare sulla pagina scritta la narrazione orale
come invece farà il suo allievo Celati.
Nell‟ultimo testo pubblicato in vita dallo scrittore sanremese un viaggiatore parla
dei residui e delle tracce incontrati nel suo vagabondare nel mondo. È l‟ultimo invito
che Calvino fa ai suoi lettori, l‟ultimo consiglio che dà loro da narratore, per riconoscere
nel mondo reale, i residui di possibilità per narrare. In Collezione di sabbia260 chi narra è
prima di tutto un lettore di tracce261: antichi mappamondi, manichini di cera, tavolette
d‟argilla con scritture cuneiformi, stampe popolari e vestigia di culture tribali. Calvino
descrive persino i giardini giapponesi, luoghi eterotopici per eccellenza, in essi si
muove. Il narratore di Collezione di sabbia racconta a partire da tracce e residui, ma
resta sulla pagina scritta.
Nella città reale il narratore come figura in cui il giusto incontra se stesso rende
possibile la Città: "Anche l‟ultima città dell‟imperfezione ha la sua ora perfetta […]
l‟ora, l‟attimo, in cui in ogni città c‟è la Città”262. È il momento in cui si sentono
raccontare storie marginali e minime, da personaggi ormai dimenticati, i narratori orali:
i soli che rendono ancora possibile nel mondo reale la città dei giusti, e che, nascosta, la
popolano. “I valori ritrovati sono nelle città nascoste – le quali se vogliamo sono
contenute nella negatività delle Città continue (cioè una scoperta di discontinuità nel
loro interno)”263.

258
I. Calvino, Le città invisibili, cit., p. 167.
259
Cfr. M. Rizzante, Il geografo e il viaggiatore, cit., p. 51: “In questo avvicinamento al nostro essere per
la morte e allo stesso tempo alla saggezza del morente, trova diritto di cittadinanza la potenza della
scrittura e la sua stessa trasmissibilità”.
260
Cfr. I. Calvino, Collezione di sabbia, in Saggi 1945-1985, tomo I, pp. 407- 625.
261
Cfr. L. Malerba, Queste perfide cosmitragiche, in M. Belpoliti (a cura di), Italo Calvino. Enciclopedia:
arte, scienza e letteratura, cit., p. 187: “E se Collezione di sabbia fosse invece l‟inizio di una enciclopedia
personale, l‟incipit ottimista di un lussuoso progetto da consegnare ai futuri archeologi della cultura, una
pacifica utopia catastale per sottrarre alla distrazione futura qualche frammento delle realtà trascurate dai
grandi registri della storia e da affiancare a questi per temperarne la gravità?”.
262
I. Calvino, La giornata d’uno scrutatore, in Romanzi e racconti, vol. II, cit., p. 78.
263
I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., p. 1235.

213
Da Parigi il 10 maggio 1976 a Sandro Briosi Calvino scrive:

Io vorrei che i critici riconoscessero (e raramente lo fanno) che si tratta d‟un libro con un suo filo unitario,
un suo discorso che procede per successive negazioni ma che ha un disegno, un‟articolazione, una
direzione e un esito, anche se non tutto è risolto e chiaro nemmeno per me. Detto questo, devo dire che
Lei ha colto molto bene il significato «politico» generale che volevo dare al mio libro, quella immanenza
del valore positivo nel presente, nel continuo iniziare, non identificato ancora col sistema anche se reso
possibile, magari involontariamente o marginalmente, da esso, o attraverso di esso, o nonostante esso264.

Per esaurite che siano le storie “per poco che sia rimasto da raccontare, si continua a
raccontare ancora”265. La città ideale immanente, infinitesimale, discontinua266,
frammentaria, corpuscolare e sospesa267, si costruisce e inizia nel lettore se quest‟ultimo
sa raccontare a partire dalle tracce residuali di superficie che incontra nel suo
itinerario268, come fa Celati, l‟unico lettore di Calvino che ha realizzato in sé l‟unione tra
Lettore Empirico e Lettore Modello – da lettore s‟è fatto fabulatore nel mondo – e che
proprio per questo s‟è messo a raccontare, in Verso la foce, a partire dalle tracce,
intrinsecamente rivoluzionarie, incontrate nel suo vagabondare di flâneur in pianura;
che proprio per questo s‟è unito a quello stuolo di giusti, Narratori delle pianure269, e
come nei fienili la sera, intorno ai fuochi d‟inverno un tempo, s‟è messo a narrare con
loro, ascoltandoli.

264
Ibid., p. 1304.
265
I. Calvino, Cominciare e finire, in Saggi 1945-1985, tomo I, cit., p. 753.
266
Cfr. I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., p. 1193: “Lo stesso ultimo corsivo, di conclusioni ne ha due,
dello stesso ordine d‟importanza: una sulla città ideale (che viene vista come discontinua e immanente, e
su questo nessun critico finora si è soffermato) e l‟altra sulla città infernale”.
267
Cfr. P. Kuon, Critica e progetto dell’utopia: “Le città invisibili” di Italo Calvino, cit., p. 37: “La
concezione utopica sviluppata nelle Città invisibili sembra segnare il momento magico nell‟opera di
Calvino, laddove pessimismo storico e «principio speranza», ricerca individuale della felicità e
responsabilità sociale, presa di distanza ludica e impegnata attenzione alla realtà, in breve l‟estetica e
l‟etica, hanno trovato un equilibrio perfetto anche se precario”.
268
Cfr. C. Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, cit., p. 141: “La meta del viaggio si
lascia intravedere solo da chi non ha cessato di coltivare, insieme con la propria angosciosa inquietudine,
la memoria e il desiderio della felicità, poiché appunto nell‟idea di quest‟ultima può tuttora vibrare
un‟idea di redenzione”.
269
Cfr. M. Rizzante, Il geografo e il viaggiatore, cit., pp. 40-41: “Chi narra non ha nome. Il suo intento è
un intento antico: raccogliere delle storie, di villaggio in villaggio, per poi raccontarle ad un pubblico di
ascoltatori in grado di trasmettere a loro volta quella saggezza e quel consiglio esemplari, propri delle
storie che fondano la loro autorità sull‟esperienza. […] L‟intenzione del loro autore è quella di prendere
per mano il lettore e condurlo verso un‟effusione con il quotidiano, con il paesaggio che ci circonda, con
le apparenze del mondo esterno, alla ricerca di un‟organizzazione possibile e vivibile della nostra
osservazione. […] Forse è ancora possibile organizzare ciò che ci appare, i fenomeni, attraverso dei
racconti in cui l‟osservazione del mondo esterno sfugga a quella che lo stesso Celati ha definito
l‟irreggimentazione dei linguaggi”. L‟estetica del reincanto di Celati aspira sempre a riappropriarsi della
comunicabilità delle esperienze vissute e a comunicarle.

214
EPILOGO

Dopo non sapevano risolversi


a tornare indietro e hanno continuato a remare;
avevano l‟idea che, continuando a remare,
sarebbero arrivati da qualche parte270.

A partire da uno degli ultimi racconti pubblicati in vita da Italo Calvino, intitolato
Il conte mi Montecristo, passando attraverso il Castello dei destini incrociati e La
taverna dei destini incrociati, questo lavoro ha incontrato nei testi immediatamente
precedenti Le città invisibili delle immagini, tutte di tipo topologico, come la prigione, il
labirinto delle carte sovrapposto al labirinto del bosco, parte del deserto infernale da cui
Le città invisibili prendono avvio. Grazie a Manganelli e D‟Arzo si è potuto concludere
da una parte che la prigione di Faria e Dantès non è la prigione perfetta manganelliana,
benché sia comunque una fortezza che se concepita come nastro di Möbius (quindi
come superficie topologica a una faccia dove non è possibile distinguere il dentro dal
fuori) senza casella vuota, diventa impossibile sfuggirle, per via del silenzio; dall‟altra si
è potuto collegare questo stesso silenzio, mancanza di narrazione tra Faria e Dantès, al
silenzio che coglie i cavalieri e le dame ne Il castello dei destini incrociati e, grazie a
Comparoni, si è visto che questo silenzio nella locanda è direttamente causato
dall‟inferno, è parte di esso: la figura del Funambolo chiariva tutto ciò.
Si è pure visto che dal silenzio gli avventori ne Il castello e ne La taverna –
mutismo connesso anche con il bosco-labirinto da cui arrivano – non riescono a ritrarsi
per mezzo delle carte poste sul tavolo di gioco. Questo perché c‟è nel libro del 1969 una
prevalenza, definita qui saturazione, di scrittura, che impedisce ogni possibilità di
trovare la casella vuota. Guardando, infatti, al mosaico di tarocchi de Il castello si può
notare uno schema perfetto, privo però del centro vuoto, che invece si ritrova ne La
taverna. Da una parte si ha un intreccio ordinato di carte, che non lascia alcuno spazio al
lettore empirico – poiché l‟autore ha saturato di scrittura il suo testo – dall‟altra uno

270
G. Celati, Narratori delle pianure, cit., p. 146.

215
schema imperfetto, che però lascia al suo centro uno spazio vuoto. Anche qui si poneva
perciò un problema di ordine topologico.
Dantès, personaggio finzionale e alter ego dello scrittore, individuava, di fronte al
suo Lettore – che ancora non era però Lettore Modello – una possibilità di fuga dalla
fortezza d‟If qualora fosse stato possibile trovare un punto di non coincidenza tra la
prigione reale e la prigione perfetta. Tuttavia Dantès non trovava questo spazio vuoto
perché, pur avendo intuito quella parte della strategia di fuga – e di adattamento del
modello strutturale al contesto – che è l‟identificazione della prigione col nastro di
Möbius, non si muoveva sulla superficie alla ricerca della casella vuota; questo
movimento avrebbe significato dialogo e narrazione a Faria, ma ciò non avveniva.
Quindi Calvino in quel testo, avendo presente il sistema neocapitalistico come mondo-
prigione non trovava un punto di fuga, benché individuasse il contesto come tale: come
nastro di Möbius. Il passo compiuto da Calvino nel 1967 fu quello di impostare il
problema, iniziare ad affrontarlo.
D‟altro canto, ne Il castello quella prigione si configurava come labirinto
boschivo che toglieva la parola. È sempre un problema topologico, che è subito politico.
La fuga dal sistema neocapitalistico è sfida lanciata al silenzio, al labirinto, all‟inferno
desertico. Il tentativo di trovare una via per sfuggire al labirinto tramite un mosaico di
carte sovrapposte al labirinto reale si trasformava in un labirinto alla seconda potenza;
questo perché, cercando di sfuggire al silenzio che teneva fermi nel primo triangolo del
nastro di Möbius sia Faria sia Dantès, Calvino diede troppa importanza alla sua
scrittura, fatta tramite emblemi, finendo per confondersi esso stesso, come il suo
Narratore, tra gli emblemi. Il passo in più fatto nel testo del 1969, e in particolar modo
ne La taverna fu quello di lasciare la casella vuota, quel punto di non coincidenza tra la
prigione reale e quella perfetta.
Si è cercato perciò di vedere se, in una fusione tra Il conte di Montecristo, Il
castello dei destini incrociati e La taverna dei destini incrociati fosse possibile
comprendere meglio Le città invisibili. Questo perché anche nel testo del 1972 Marco
Polo inizia a raccontare a Kublai Kan a partire dallo sfacelo senza fine né forma, dal
senso di vuoto e vertigine, dal deserto che – come Rustichello – l‟imperatore avvertiva
in rapporto al suo impero. In altri termini, Marco Polo, indentificato con il Narratore,
racconta di città immaginarie a un Kublai Kan identificato con il Lettore Modello. Se

216
Dantès non riuscì a fuggire dalla prigione, parte del sistema infernale, poiché non
narrava a Faria e rimaneva quindi con esso bloccato nel lato rivolto a nadir del nastro,
iniziò però a impostare una strategia di fuga ipotizzando la possibilità di scappare grazie
a una supposta casella vuota, punto di non coincidenza tra prigione perfetta e prigione
reale. Se gli avventori sia del Castello sia della Taverna rimanevano bloccati nel loro
silenzio poiché lo stesso autore gestiva con troppa autonomia la loro scrittura, rendendo
il testo nient‟altro che una copia perfetta del labirinto-bosco, Calvino faceva però un
grosso passo, pur nel disordine delle carte de La taverna, lasciando una casella vuota al
centro di quel reticolo di carte. L‟acquisizione del 1967 era il nastro di Möbius come
parte del sistema infernale, prigione perfetta, e quindi ultima propaggine del contesto
come causa efficiente della strategia di fuga, e in più l‟ipotesi di una casella vuota come
punto di fuga. Dantès già intuì, in qualche modo, parte della strategia, senza capire che,
se era vero che il luogo in cui si trovava era un nastro, allora per cercare la casella vuota
non doveva far altro che narrare, muoversi sulla superficie del nastro alla ricerca del
punto vuoto. E questo è quello che tenta di fare Calvino nel 1969, cercando di ordinare
il labirinto. Qui lo scrittore sanremese fallisce però, per un eccesso di scrittura, e tuttavia
individua e pone un centro vuoto nel reticolo di tarocchi de La taverna. Con questi
elementi si è potuto leggere Le città invisibili in una nuova ottica.
Questo lavoro ha potuto servirsi, per l‟interpretazione del libro del 1972, di
materiali contenenti i dibattiti di teoria della letteratura immediatamente precedenti la
pubblicazione del libro, tra intellettuali italiani come lo stesso Calvino, Celati,
Ginzburg, Gabellone. Dal punto di vista teorico inoltre il lavoro s‟è servito della
saggistica di Calvino di tutti gli anni Sessanta e Settanta. Si è cercato di applicare la
poetica del discorso umano elaborata in quelle discussioni dal 1968 al 1972 a Bologna
per mostrare le sorprendenti scoperte che potevano da questa applicazione emergere. La
recensione Il racconto di superficie di Gianni Celati, del 1973, appoggiando queste
riflessioni, ha portato lo studio alle seguenti conclusioni.
Ipotizzando per Le città invisibili una lettura del testo come gioco si è visto che di
un gioco si possono distinguere la funzione – finalità della strategia, strategia efficiente
– e la strategia. Quest‟ultima dipende sia dalle regole sia dal contesto. Il contesto è
infatti causa efficiente della strategia, la muove; mentre le regole stabiliscono
negativamente i movimenti che si possono fare, lo spazio su cui si gioca, i congegni con

217
cui si gioca. Si è mostrato che la parte dedicata alle regole de Le città invisibili è la parte
in corsivo. I corsivi sono le parti di scrittura. Seguendo Celati si è considerata la
scrittura come amministrazione del terreno di gioco. La scrittura detta le regole,
stabilisce qual è il terreno di gioco su cui i personaggi si muovono. La scrittura, quella
stessa che faceva Dantès dello spazio in cui si trovava, quella stessa che fa l‟autore con
le carte ne Il castello, è la parte della strategia dedicata alle regole. Ma la scrittura fa di
più, in Dall’opaco. Qui lo scriba – chi mette in pratica la scrittura – si mostra nella sua
attività più propria, cioè come amministratore del terreno di gioco, del territorio. E il
terreno amministrato s‟è mostrato essere il nastro di Möbius. Quindi è il nastro di
Möbius il contesto su cui si deve lavorare, da cui anche nel 1972 la scrittura prova a
sfuggire. Ma il problema della scrittura – e di Kublai Kan che prima di essere lettore è
scriba – è che non gioca, sta sempre a dirsi quali sono le regole ma non si muove. Se il
problema topologico-politico è quello di sfuggire dal sistema infernale della metropoli
moderna – che nei testi si configura come nastro, prigione, labirinto, caos, deserto,
inferno, silenzio – nel testo del 1972 la questione è affrontata direttamente, soprattutto
dal Narratore Marco Polo. Kublai Kan come lo scriba di Dall’opaco, sa bene che la
superficie su cui i due si trovano è il nastro di Möbius, ultima propaggine del sistema
infernale. Tuttavia, proprio in quanto scriba, maitre du jeu, l‟imperatore non gioca
finché non si muove. Lo scriba è sul bordo del nastro e da una parte vede il mondo in
sfacelo e informe, la metropoli reale, dall‟altra le città invisibili. Se nel primo triangolo
del testo i due personaggi sono ancora fermi nel lato opaco di esso, poiché la scrittura
muove dall‟opaco, qualcosa cambia non appena Marco Polo fabulatore inizia a
muoversi sulla superficie di gioco. Il gioco di superficie messo in moto dal fabulatore è
un muoversi, esplorare come un flâneur la superficie scritta delle città invisibili. Tutta la
parte in corsivo del rettangolo centrale è tesa alla definizione del modello strutturale.
S‟è visto che il modello strutturale adottato dallo scriba è la scacchiera del gioco degli
scacchi. Quindi tutto il testo può essere interpretato come una partita a scacchi. Il
modello strutturale che si adatta al contesto – contesto come nastro di Möbius – è il
gioco degli scacchi. Perciò la scacchiera, modello strutturale, è proiettata sul nastro di
Möbius e si adatta così al contesto, adottando una strategia che non si può dire fino
all‟ultimo se sia o meno efficiente. Questo rende comprensibile un aspetto
contenutistico de Le città invisibili: il fatto che la scacchiera sia proiettata sul nastro

218
spiega l‟alternarsi su questa superficie di lati apricali e lati opachi, cioè di lati infernali e
lati, per così dire, paradisiaci, in quasi ogni città. Ogni casella della scacchiera non è né
solo bianca né solo nera ma, come mostra il quadro di Klee, ha in sé un lato e il suo
opposto, che lo contraddice. Quindi il nastro di Möbius giustifica la contraddittorietà de
Le città invisibili, il continuo smentirsi in essa degli spazi descritti. Ogni città ne
contraddice un‟altra della stessa serie. Appurato, al termine delle cornici del rettangolo
centrale, che il modello strutturale è il gioco degli scacchi e che quindi quest‟ultimo è
spalmato, con la sua scacchiera, sul nastro di Möbius, non resta ai due personaggi
nient‟altro che giocare. Dalla scrittura, che è teoria, astrazione, si passa alla fabulazione
che è gioco, racconto, esplorazione della superficie. La scrittura solo uscendo da se
stessa trova il racconto.
Non si dimentichi che la questione da risolvere è sempre quella politica di
sfuggire al sistema infernale del mondo neocapitalistico, della metropoli moderna, della
sintassi abituale imposta continuamente dai modelli dominanti nella città
contemporanea. Il passo in più che fanno i personaggi del libro del 1972, forti delle
acquisizioni precedenti – nastro di Möbius come contesto, regole trovate ma necessarie
solo negativamente per trovare la strategia efficiente, casella vuota come ipotesi di fuga
– è quello di muoversi sulla superficie del nastro, cioè affrontare il contesto, giocare su
di esso una partita a scacchi. Questo non sarebbe stato possibile senza scrittura – poiché
solo lo scriba poteva stabilire il modello strutturale, cioè la superficie di gioco, il terreno
di gioco, prima regola –, e questo non sarebbe possibile senza fabulazione – poiché la
fabulazione è gioco, si muove sulla scacchiera esplorando la superficie, poiché la
fabulazione è narrazione e gioco (quella che mancava sia ne Il conte di Montecristo sia
ne Il castello dei destini incrociati).
Il fabulatore, muovendosi sulle città, sparpaglia delle tracce. Queste tracce sono
nient‟altro che le caselle vuote. Le città invisibili sono caselle vuote, sono come nomi
senza referente, non hanno nessuna profondità; il loro senso è prodotto in superficie. Le
città invisibili non sono sature, in esse il lettore, come Kublai Kan Lettore Modello, si
può muovere e ritrovare tracce – intrinsecamente rivoluzionarie – da distendere a sua
volta, per iniziare a narrare: questo è chiamato da Celati “fabulazione indotta”. Le città
invisibili non nascondono un senso profondo, da ritrovare scavando dietro le parole, ma
producono un senso superficiale, che manda fuori di sé, che induce un cambiamento nel

219
modo di vedere la realtà. Il fabulatore Marco Polo coinvolge il suo lettore Kublai Kan
nella sua esplorazione della superficie poiché vuole che il lettore a sua volta inizi a
narrare. Il gioco di superficie che ha per protagonisti Marco Polo e Kublai Kan
attraversa città immaginarie che racchiudono spazi contraddittori.
Se la questione è topologica, ma pure politica – poiché tesa a riscoprire la
poeticità del linguaggio politico cioè la sua importanza per la prefigurazione e la
strategia del desiderio umano –, bisogna capire com‟è stata affrontata e superata. Se il
problema è quello di sfuggire dall‟inferno della città reale, dalla sintassi imposta dal
sistema neocapitalistico, lo spazio delle Città invisibili, già per come viene presentato al
Lettore Empirico da Calvino, lancia una sfida al mondo reale che rappresenta. Così
come lo specchio di Foucault – utopico perché è un non luogo, ma eterotopico perché è
legato allo spazio che lo attornia e lo capovolge – rappresenta, sovverte e contesta lo
spazio che riflette e quindi lo spazio reale intorno a colui che si specchia, dimostrandone
la sua illusorietà e non necessità e facendosi così utopia effettivamente realizzata, Le
città invisibili con un gesto carnevalizzante che contrappone e giustappone spazi
contraddittori, mondi impossibili, sia internamente, sia incompatibili tra di loro,
rappresenta, sovverte e contesta la metropoli reale. Questo provoca un effetto di ritorno
sul lettore empirico: vedendosi assente come fabulatore nel testo – perché Kublai, come
Lettore Modello, pur tuttavia fino all‟ultimo non narra – si sente assente come
fabulatore nel mondo reale.
Lo scacco matto avviene in Bauci, qui si capisce che la strategia applicata è
strategia efficiente nel momento in cui si provoca uno shock sul lettore empirico: ciò
produce un effetto sul lettore. Questo trauma è quello dello straniamento e rivela la
funzione dell‟opera. Da Bauci in poi la situazione si capovolge, il nastro si gira. Questo
avviene a due livelli: muovendosi con il suo io di invenzione in uno spazio illusorio, im-
possibile, contraddittorio, soprattutto eterotopico, dalla lettura de Le città invisibili il
Lettore Empirico torna forte di un mutamento percettivo che lo sgancia dai
condizionamenti impostigli dalla città reale. Sa riconoscere nel mondo reale le tracce, i
residui, cosparsi sulla superficie. Da esse trae vita la possibilità di una città
frammentaria e discontinua che si costruisce al suo interno: il cambiamento avviene nel
lettore, che guarda il mondo da un altro punto di vista.

220
Dall‟altra parte proprio in Bauci l‟archetipo, funzione primaria e strategia
efficiente, rivoluzionario intrinsecamente, si mostra in superficie come modello mitico
di Bauci e Filemone riformulato. Al Lettore Empirico è richiesto di diventare Lettore
Modello, di unirsi ad esso – come il Tu Lettore e Ludmilla in Se una notte d’inverno un
viaggiatore – cioè di riconoscere quelle tracce sparse sulla superficie di gioco per dare il
via a qualcosa che vada fuori dal testo, tracce che mandano ai corrispondenti residui
nella realtà. Lettore Modello è chi, passando attraverso Bauci – la casella vuota – inizia
a riempire ogni traccia, ogni spazio vuoto, di narrazione. Se il problema topologico-
politico era quello di fuggire dalla prigione delle rappresentazioni del mondo che
ripetono sempre quello che si deve pensare, che si deve fare, tutto nell‟ottica
neocapitalistica, cioè scappare dalla prigione deserto labirinto silenzio inferno, Calvino
propone queste soluzioni che si equivalgono, su diversi piani: dalla prigione-contesto
come nastro di Möbius si esce percorrendolo alla ricerca della casella vuota, che si trova
a Bauci: il fabulatore vince con lo scacco matto contro lo scriba indicandogli nel tassello
di legno piallato il nodo da cui cominciare a narrare oralmente; da questa prigione c‟è
un punto di fuga in ogni traccia di aprico cosparsa sulla superficie di gioco, poiché
questi residui, se distesi, permettono uno dopo l‟altro di dar vita ad una narrazione orale
nel mondo reale. A Bauci questo si vede meglio che altrove: è la città invisibile per
eccellenza, casella vuota, che dice al lettore come potrebbe leggere la superficie nel
mondo reale; come farà poi Palomar, pur non riuscendo a narrare. Dal deserto si sfugge
mediante la Collezione di sabbia, e non cercando un‟oasi di perfetto ristoro.
Collezionare sabbia significa ancora una volta rinvenire le tracce di aprico tracciate sul
deserto del mondo. Dal labirinto si esce ancora attraverso la casella vuota centrale. Dal
silenzio si sfugge con una narrazione orale ritrovata. Ma dal deserto si sfugge anche
grazie alla nave, spazio eterotopico per eccellenza, serbatoio per il rinnovamento
dell‟immaginazione nello spazio del mondo. Dall‟inferno della metropoli reale si esce
riconoscendo lo spazio aperto della possibilità di nuove narrazioni, originate dalle tracce
residuali.
L‟epilogo di questo lavoro si trova perciò – come ne Le città invisibili la vera
conclusione è al centro della scacchiera in Bauci sotto lo scacco matto – nell‟intermezzo
su Gianni Celati. Quest‟ultimo è l‟unico Lettore Empirico fattosi Lettore Modello,
narrando a partire dalle tracce rinvenute sulla pianura, superficie del mondo. Se il fine di

221
Calvino era indurre racconti, fabulazioni fuori dal testo, se questo voleva dal suo Lettore
Empirico, allora il più grande effetto de Le città invisibili sono I narratori delle pianure.
Questi giusti che raccontano edificano in loro stessi l‟utopia discontinua, immanente,
corpuscolare, frammentaria, sospesa e infinitesimale. La città rivoluzionaria e giusta
prende spazio nelle narrazioni marginali. L‟esito politico e l‟esito topologico
convergono nella casella vuota come traccia di aprico, poiché la casella vuota è lo
spazio in cui lettore può muoversi liberamente, cambiare modo di guardare il mondo
grazie al trauma dello straniamento, svincolarsi dai condizionamenti percettivi del
sistema neocapitalistico, affidarsi all‟oralità. Le narrazioni orali come effetto del testo
vincono per la loro marginalità, poiché si svincolano dalla storia, si nascondono al
margine.
Io come Lettore Empirico, per avere notizia della città eterotopica-utopica
discontinua nello spazio e nel tempo, alzo lo sguardo dal foglio e provo a rintracciare,
sulla superficie del mondo, quei narratori orali che la costruiscono raccontando.

222
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239
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Antologia della letteratura fantastica, Einaudi, Torino 2007.

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CELATI, GIANNI, La banda dei sospiri, Feltrinelli, Milano 1989 (2ª ed. 1998).

CELATI, GIANNI, Lunario del paradiso, Feltrinelli, Milano 1996.

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Cambridge 1994.

242
RINGRAZIAMENTI

Ringrazio il prof. Diodato per avermi permesso di lavorare a questa tesi, per la notevole
disponibilità, le preziose indicazioni e la fiducia con cui ha sempre appoggiato il mio
studio.

Ringrazio il prof. Boffi per i consigli di studio riguardanti Le città invisibili.

Ringrazio te, mamma, che leggerai per prima queste righe,


ti ringrazio
di ogni respiro, poiché mi hai dato la vita
di ogni giorno in biblioteca, a lezione, in collegio, in libreria,
poiché mi hai concesso la possibilità che nessun altro ha avuto
prima in famiglia: quella di studiare all‟università.
Grazie del pane e dei vestiti, dell‟amore e dell‟educazione, della
famiglia, della casa, dell‟umanità, del cuore e per aver colmato
quel vuoto…

Ringrazio Claudio, per i silenzi che valgono più di ogni altra cosa, perché sono del
nostro sangue contadino, per le pacche sulla spalla, le telefonate incoraggianti, e tutto
ciò che non è nominabile. Grazie perché sei un gran fratello.

Ringrazio Mattia, per avermi elencato tutti i libri della biblioteca di casa, perché sei
giovane e un po‟ del tuo sole me lo rimandi sempre, come quando giuochi a palla o fai il
babbeo. Leggi. Grazie per quando sorridi, piangi o non vuoi studiare.

Ringrazio Attilio, perché quando dici: “Dai, forza, che è quasi finita! Tieni duro!”, mi
dai il coraggio di continuare a lavorare. Grazie per la fatica, per le levate mattutine, per
l‟ospitalità, per i proverbi in dialetto.

Ringrazio tutti gli altri della famiglia: nonno Emilio, zia Monica e zio Carlo, zia Silva e
zio Arturo, zio Luca e zia Tamara, e poi i cugini Michele e Martina e Alex, perché noi
siamo amici prima di ogni altra cosa. Perché noi condividiamo la felicità delle feste e i
dolori dei lutti. Non c‟è nulla che potrà separarci.

Ringrazio gli zii Emidio, Renzo, Lucio, Angelo, Assunta e tutti i Peter del mio sangue,
perché vedo in voi le mie radici.

Ringrazio Paola, Galdino, Martina e Ronny, per essermi stati vicini in questi mesi
mentre ero lontano da casa; ho trovato tra le vostre mura, sulla vostra tavola, nei vostri
letti, una dimora altrettanto accogliente, dei pasti altrettanto prelibati, dei riposi
altrettanto sereni, di quelli di casa mia. Grazie al cane, perché mi guarda e tace.

243
Ringrazio Gianni Celati, Goffredo Parise, Giorgio Manganelli, Antonio Delfini, Silvio
D‟Arzo, Giovanni Comisso, perché non vi conosco, oppure siete morti, ma avete scritto
delle pagine da cui io ho pianto di felicità.

Ringrazio la biblioteca di Menaggio, nella persona di Marcel, senza il quale non avrei
potuto scrivere una sola riga della tesi, perché non avrei avuto i libri da cui citare.
Grazie della disponibilità e della pazienza.

Ringrazio Filippo,
perché sei alto…e perché sei un paiaz! E perché sei romagnolo e vivi non lontano dal
Polesine.

Ringrazio Andrea,
perché sei magro...e per i libri che mi hai donato, e per tutto il resto.

Ringrazio Giacomo,
perché hai gli occhiali…e per le chiacchierate blasfeme, volgari o folli, e per il c…!

Ringrazio Tiagao,
perché sei silenzioso…e perché eri con me in salone o in saletta mentre scrivevo.

Ringrazio Alessio,
perché sei terrone…e perché non sarei qui in collegio se non ci fossi stato tu.

Ringrazio Bis,
perché sei celeste…e perché sei Bis.

Ringrazio il Collegio Ludovicianum e tutti i ragazzi con cui ho avuto modo di


confrontarmi e crescere in questi sei lunghi anni.

Ringrazio la Pina, il signor Castelletti – grandissimo –, il signor Bonalumi – per altro


grande narratore orale – e gli altri portieri e tutte le signore.

Ringrazio Filippo e le varie direzioni succedutesi nei sei anni di mia permanenza in
collegio. Spero di poter restare fino a luglio…

Ringrazio Matteo per tutte le consulenze riguardanti l‟informatica e senza il quale,


soprattutto l‟indice, non sarebbe stato possibile.

Ringrazio il mio paese, Grandola ed Uniti, dove le narrazioni orali sono ancora
possibili, dove si respira ancora, dove la gente ti saluta per strada e ne conosci il nome e
la famiglia, dove esistono ancora i prati con le mucche, le pecore e gli asini.

Ringrazio la pianura, perché è piana e aperta.


E la montagna, perché più in là non si vede ma ci puoi salire sopra per guardare il lago.

Ringrazio Bruna per avermi procurato i libri di Parise e Calvino.

244
Ringrazio Gianluca M. che non so se è ancora vivo, ma mi insegnò, nell‟oscuro
labirinto del dolore e della morte, a giocare a scacchi.

Ringrazio la Libet, la Hoepli, l‟Adelphi, il Trittico, la libreria degli Atellani, la


Feltrinelli, la fiera del libro usato, il salone della piccola editoria, la biblioteca della
Cattolica di Milano e la biblioteca Sormani, e tutti i vari mercatini dell‟usato in cui mi
sono imbattuto in questi ultimi tempi: da questi spazi originano le pagine da cui le mie
245 hanno preso vita.

Ale… un bacio dice tutto…!

245

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