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è bene che partito e sindacato viaggino u linen per il momento non

copmunicvanti (strategie di sopravvivenza contrapposte)


Nuovi conflitti politici: ambiente vs. Globalizzazione (prima vista come destino
unico anche a sx)

1. Introduzione
Non c’è molto accordo sul grado di intensità del voto di classe in Italia dal
dopoguerra a oggi. Fino a poco tempo fa emergeva come la posizione socia- le,
insieme ad altre variabili che permettono di collocare gli elettori lungo un asse
di stratificazione sociale, non esercitasse un’influenza significativa sulle scelte
di voto degli elettori della prima repubblica (Mannheimer, Sani, 1987; Corbetta,
Segatti, 2004). Secondo questo filone interpretativo, il voto dei di- versi ceti
sociali non si indirizzava in maniera esclusiva a un partito o a un’a- rea politica,
mentre risultava molto più forte la frattura religiosa, caratteriz- zata dalla
divisione tra cattolici e laici (Sani, 1973; Corbetta, Parisi, Schadee,1988; Sani,
Segatti 2002).

In particolare, il comportamento «deviante» rispetto al paradigma del vo- to di


classe tradizionale era costituito dalla natura interclassista del principa- le
partito conservatore dell’epoca, la Democrazia cristiana, in grado di at- trarre
consensi un po’ da tutte le classi, con una composizione del proprio e- lettorato
non significativamente differente da quella degli altri partiti. Si trat- tava di un
dato non in linea con quello degli altri paesi, dove invece l’appar- tenenza
socio-economica aveva da sempre presentato forti relazioni con l’o-
rientamento politico e di voto degli elettori, in particolare della classe ope- raia
con il voto ai partiti di sinistra e dei ceti borghesi con il voto ai partiti di destra.
Del resto, la divisione di classe ha tratteggiato il più importante clea- vage sul
quale sono nati e hanno prosperato i grandi partiti di massa delle de- mocrazie
occidentali nel XIX e nel XX secolo (Rokkan, 1999).

Questa lettura del caso italiano, oggi, tende invece a essere – in parte – ri- vista
grazie a nuovi studi e approfondimenti sul tema (Pisati, 2010). Soprat- tutto
sembra emergere, per la prima repubblica, un’associazione tra classe so- ciale
e preferenze politiche per niente trascurabile, in particolare sino alla metà degli
anni settanta: c’è sì il ruolo interclassista della Dc, ma anche la propensione
della classe operaia a sostenere i partiti di stampo socialista (Pci e Psi) e
l’inclinazione della borghesia e delle classi medie a scegliere liste ap-
partenenti all’area di centro-destra. Seguirebbe poi un’attenuazione del voto di
classe nel periodo 1977-1993, complici una riduzione della disuguaglian- za
nella distribuzione dei redditi, un aumento della ricchezza (che diminui- sce il
grado di polarizzazione degli interessi di classe), oltre che un affievoli- mento
della polarizzazione ideologica del sistema partitico italiano, dovuto in gran
parte allo spostamento verso il centro del Pci e, soprattutto, del Psi (Pisati,
2010). In ogni caso la frattura di classe, a differenza di quanto emer- geva dagli
studi precedenti, appare una variabile in grado di incidere forte- mente sulle
scelte di voto degli elettori.
Anche passando alla seconda repubblica si registrano discordanze nei risul- tati
delle ricerche. Da una parte c’è chi sostiene vi sia stata un’ulteriore atte-
nuazione della relazione tra stratificazione sociale e comportamenti di voto
(Pisati, 2010), un po’ come sta avvenendo in tutte le società moderne indu-
strializzate2, complice l’erosione delle subculture territoriali, ma soprattutto
dell’appartenenza politica, che ha portato a una crescita del voto di opinio- ne
a scapito del voto di appartenenza (Parisi, 1995). In particolare, secondo questi
studi, sembrerebbe prevalere un processo di individualizzazione (Sarti,
Vassallo, 2006), all’interno del quale gli elettori non agirebbero più secondo
interessi collettivamente condivisi da gruppi sociali simili, ma princi- Secondo
Evans (1999), i fattori rilevanti nel determinare tale percorso discendente so-
no da ricercare nell’aumento del tasso di mobilità sociale inter e intra
generazionale, nell’im- portanza assunta da altri cleavage sociali (come il
genere, l’etnia), nell’aumento del tasso di scolarizzazione, nella diffusione di
valori post-materialisti meno riconducibili al continuum sinistra-destra, nel
ridimensionamento della classe operaia. Secondo Oskarson (2005), nelle
società definite post-industriali si allenta il legame tra posizione sociale e
partito scelto, al punto che i gruppi di supporto ai partiti basati sui cleavage
sociali diminuiscono. Di conse- guenza la comunicazione strategica dei partiti
stessi si indirizza non più ai sostenitori tradi- zionali, ma mira a inglobare altri
strati, attraverso la focalizzazione di nuove tematiche poli- tiche. A risultati
analoghi giungono anche Clark e Lipset (2001). Altri autori parlano infine di
trendless fluctuation, cioè di una fluttuazione del voto di classe negli ultimi anni
che non evidenzierebbe un indirizzo preciso (Manza, Hout, Brooks, 1995).
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Le scelte elettorali dell’ultimo quinquennio: voto di classe e voto degli iscritti al
sindacato
palmente secondo scelte individuali, afferenti alla sfera valoriale (Inglehart,
1997; Bauman, 2000) e a costellazioni identitarie più sfrangiate.
Dall’altra parte c’è chi registra negli ultimi anni una certa polarizzazione delle
preferenze politiche dei diversi gruppi sociali (Itanes, 2001). Due le possibili
ragioni: in primo luogo, l’affievolimento del cleavage religioso che a- veva
strutturato il voto nella prima repubblica (non a caso i partiti eredi di- retti della
Dc si distribuiscono oggi nei due poli) ha lasciato uno spazio libe- ro che è stato
riempito dal voto socialmente «confinato»; in secondo luogo, l’ascesa di
Berlusconi e i programmi dei due schieramenti hanno in qualche modo favorito
la redistribuzione del voto entro confini sociali, con il centro- sinistra
maggiormente percepito dall’elettorato come difensore dello stato so- ciale e
della politica fiscale redistributiva, e un centro-destra più ancorato al- la
valorizzazione del lavoro autonomo, dell’impresa, della riduzione della
pressione fiscale (Feltrin, 2006a).
Ma perché dai diversi studi emergono risultati e interpretazioni così di-
scordanti? Ci sono almeno tre ordini di ragioni. Il primo è relativo alla defi-
nizione del concetto di «classe sociale». Per molti osservatori la categorizza-
zione che continua a essere utilizzata è quella tradizionale: borghesia, classe
media impiegatizia, piccola borghesia urbana, piccola borghesia agraria, clas-
se operaia (Pisati, 2010). Altri considerano questa classificazione sostanzial-
mente superata e per questo utilizzano l’occupazione come indicatore della
classe sociale d’appartenenza. Si tratta di una scelta cui si è fatto ampio ri-
corso in letteratura negli ultimi anni (Diamanti, Mannheimer, 2002; Cor- betta,
2006; Evans, 1999). La scelta di operativizzare il concetto di classe so- ciale
con la variabile «posizione occupazionale», sebbene costituisca una sem-
plificazione, si rivela infatti meno problematica nella realtà politica dell’Italia
della seconda repubblica. L’appannarsi del legame appartenenza/voto (sociale,
culturale, ideologica, religiosa) ha dato infatti maggiore centralità alle tema-
tiche socio-economiche, all’interno di un processo di indebolimento degli a-
spetti collettivi e di rafforzamento di quelli individuali (Corbetta, 2006).
C’è poi un secondo problema, attinente alla «misurazione» vera e propria del
voto di classe. In altre parole: quando possiamo affermare l’esistenza di u- na
netta e forte frattura nell’elettorato basata sull’appartenenza socio-econo-
mica? Quale deve essere la concentrazione dei consensi espressi da una clas-
se sociale in direzione di un determinato partito o area politica? Anche in
questo caso le posizioni sono diverse, con un conseguente aumento delle
probabilità di non corrispondenza tra i risultati delle diverse analisi.

Infine, dato che la metodologia quasi sempre utilizzata è quella dell’in- dagine
demoscopica, dobbiamo fare molta attenzione alle numerosità campionarie
considerate nei diversi lavori: gran parte delle ricerche si ba- sano su
rilevazioni di un migliaio di casi, con analisi della distribuzione del voto in
sottogruppi (identificativi delle classi sociali) di qualche deci- na di casi. Sono
numeri insufficienti per ricavarne solide misure di asso- ciazione, con un
margine d’errore molto elevato, che permettono – al massimo – di cogliere
qualche blanda ipotesi probabilistica, ma che male si prestano a
generalizzazioni di tipo inferenziale. Il lavoro qui presentato cerca di fare un po’
di chiarezza sul tema, partendo da una base-dati par- ticolarmente ricca. Si fa
ricorso a rilevazioni con campioni molto più ele- vati rispetto alla norma, che
permettono di disaggregare l’analisi a livello territoriale mantenendo
un’elevata significatività statistica, nella consape- volezza che la questione
della distribuzione territoriale del «voto di classe» costituisce uno dei punti più
controversi. Possiamo infatti sostenere o me- no l’esistenza del voto di classe,
ma dobbiamo renderci conto di quanto influisca la frattura tra Nord e Sud del
paese, un cleavage il cui peso con- diziona e sovrasta la frattura religiosa o
quella di classe.
In questo contributo verranno esplorate le basi sociali del voto nell’ul- timo
quindicennio (dal 1996 al 2010, con una concentrazione dell’anali- si nel
periodo 2008-2010), con un approfondimento a livello territoriale e facendo
ricorso all’occupazione come indicatore della relazione tra scel- ta di voto e
classe sociale. Verrà offerta anche una panoramica sul voto per iscrizione alle
organizzazioni sindacali, con un focus sul dato delle elezio- ni politiche del
2008, che permette interessanti valutazioni, dato l’alto numero di casi
analizzati, anche a livello di settore e area geografica.
2. Il voto per categorie socio-professionali: come incidono le variabili territoriale
e temporale
Analizziamo ora le intenzioni di voto degli italiani nei mesi precedenti le
elezioni regionali del 2010 secondo la categoria socio-professionale.
Prenderemo inizialmente in considerazione le dichiarazioni di voto a li- vello
proporzionale, per poi passare ad approfondimenti più dettagliati considerando
aggregazioni di area politica (centro-sinistra e centro-destra) . I dati utilizzati
sono relativi a un’indagine nazionale condotta nei mesi di gennaio-aprile 20104
(precedente quindi alla spaccatura del Pdl che ha portato alla fuoriuscita di Fini
e alla nascita di Futuro e Libertà).
Nella Tab. 1 osserviamo il voto degli elettori italiani secondo la posizione
professionale. A livello nazionale appaiono orientati verso il centro-destra gli
imprenditori e i liberi professionisti (60 per cento per il centro-destra, 40 per il
centro-sinistra), con punte rilevanti di consenso a favore del Pdl (36 per cento).
Si tratta di un dato sostanzialmente in linea con quanto emerso da ricerche
passate (Diamanti, Mannheimer, 2002). Il centro-destra ottiene an- cora
migliori riscontri nel resto del lavoro autonomo, costituito principal- mente da
artigiani e commercianti, con un vantaggio sul centro-sinistra che raggiunge i
40 punti percentuali e una forte spinta di consensi in direzione della Lega Nord
(21 per cento). Nel complesso, circa due lavoratori autono- mi su tre scelgono a
livello nazionale una lista di centro-destra.
Passando al lavoro dipendente, è saldo l’orientamento di insegnanti e docenti a
favore del centro-sinistra (66 per cento contro il 34), con risul- tati significativi
per il Pd al 38 per cento e un 12 a testa per la Sinistra Ra- dicale e l’Italia dei
Valori. Un forte equilibrio tra le due aree politiche si registra tra i dirigenti, i
quadri intermedi e gli impiegati, mentre gli ope- rai, particolarmente sensibili al
clima politico nazionale, si posizionano in netta maggioranza verso le liste di
centro-destra (59 per cento contro 41), con una forte spinta in direzione della
Lega, la quale, all’interno di que- sto segmento, raggiunge il 18 per cento. Il
mondo operaio, come già e- merso in altre occasioni, fatica a sentirsi
rappresentato dal Pd e dalle altre liste di sinistra, mentre continua a
riconoscersi in modo piuttosto com- patto in alcuni punti di riferimento ben
precisi: nelle regioni settentrio-
5 nali il centro-destra e la Lega Nord in primis .
3 I partiti compresi all’interno dell’area di centro-sinistra sono: Sinistra radicale
(Rifonda- zione-Comunisti Italiani e Sinistra, Ecologia e Libertà), Partito
Democratico, Lista Di Pietro e altri (Partito Radicale, Socialisti). I partiti
compresi all’interno dell’area di centro-destra so- no: Udc, Popolo della Libertà,
Lega Nord, Movimento per l’Autonomia e altri (La Destra, Movimento Sociale).
Nonostante l’Udc dal 2008 abbia intrapreso un percorso centrista au- tonomo,
la grande maggioranza dei suoi elettori continua a riconoscersi nel centro-
destra. Per questa ragione il partito è stato comunque incluso in quest’ultima
area.
4 Indagine realizzata dalla società Tolomeo Studi e Ricerche su un campione
rappresenta- tivo di quasi 38 mila elettori.
5 Nelle regioni settentrionali, tra gli operai, la Lega raggiunge il 32 per cento
dei consen- si, un dato superiore a quello del Popolo della Libertà (27) e del
Partito Democratico (18).

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Sono però evidenti le due fratture che negli ultimi anni emergono con forza a
livello di ca- tegoria professionale. Da una parte quella tra lavoratori autonomi
e dipen- denti: se tra i primi il vantaggio del centro-destra è di circa 29 punti
percen- tuali7, tra i dipendenti il margine si riduce a solo 1 punto. Dall’altra
parte an- che la seconda frattura, quella tra dipendenti pubblici e dipendenti
privati, è molto ampia: nel settore pubblico il centro-sinistra prevale di 15
punti, nel settore privato la situazione si rovescia ed è il centro-destra in
vantaggio con un margine di circa 9 punti percentuali. Il centro-sinistra riesce
dunque a reggere l’onda d’urto e a essere maggioranza solo nel bacino
tradizionale del lavoro dipendente pubblico (soprattutto quello ad alta qualifica
come gli in- segnanti, categoria altamente scolarizzata e dislocata in uno dei
principali snodi del sistema di welfare), che ormai rappresenta sempre più lo
«zoccolo duro» dello schieramento, composto da un elettorato con solido senso
di ap- partenenza, orientamenti ideologici ben definiti e quindi difficilmente mo-
dificabili.
Elementi di valutazione ancor più interessanti si ottengono da una disag-
gregazione dei dati per area geografica. Infatti l’aggregazione a livello nazio-
nale di fenomeni altamente disomogenei a livello territoriale, nel caso dell’a-
nalisi occupazionale, rischia di portare a una significativa soppressione della
varianza. Aree che si muovono in maniera opposta finiscono quasi per com-
pensarsi a livello nazionale, generando magari un’impressione di stabilità che è
in gran parte ingannevole. Per questo è importante, soprattutto in un ter-
ritorio frammentato socialmente, economicamente e politicamente come l’I-
talia, utilizzare un modello di analisi con «terze variabili» (in questo caso la
ripartizione geografica), in quanto la dimensione territoriale è di massima
importanza per capire le logiche differenziali degli spostamenti di voti da un
appuntamento elettorale a quello successivo. Abbiamo quindi suddiviso il
territorio in cinque grandi aree8 e nella Tab. 2, per ciascuna area e per cia-
scuna categoria (a sei modalità) vengono presentate le differenze tra il voto al
centro-sinistra e quello al centro-destra. Le differenze positive segnalano un
vantaggio del centro-sinistra, quelle negative un vantaggio del centro-destra.
In quest’analisi non prenderemo solamente in considerazione le differenze tra
centro-sinistra e centro-destra, ma le confronteremo anche con la media
complessiva territoriale della differenza, in modo da poter offrire un con- fronto
più ragionevole nelle singole aree geografiche. Il profilo che tende a delinearsi
è quello di una crescente radicalizzazione del voto di alcune posi- zioni socio-
professionali se consideriamo le singole aree, e alcune sp

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I principali elementi emersi dall’analisi dei dati sono i seguenti:


1. Il dato sulle intenzioni di voto 2010 conferma la presenza di una frat- tura di
classe nell’espressione della preferenza alle elezioni, per quanto ri- guarda sia
il cleavage lavoratori dipendenti/lavoratori autonomi sia quello set- tore
pubblico/settore privato. Ma mentre nel primo caso siamo di fronte a u- na
tendenza consolidata, riscontrabile senza fluttuazioni significative negli ultimi
15 anni (il maggiore spostamento verso l’area di centro-destra dei la-voratori
autonomi è quantificabile in 30 punti percentuali), nel secondo ca- so il trend di
lungo periodo segnala movimenti significativi, con una pro- gressiva
accentuazione della frattura negli ultimi dieci anni. Oggi, infatti, tra i dipendenti
pubblici l’orientamento verso l’area di centro-sinistra è di 24 punti superiore a
quello riscontrato tra i dipendenti privati. Nel mercato dei non attivi si osserva
invece uno stabile orientamento delle casalinghe verso il centro-destra, una
divisione piuttosto equilibrata dei pensionati tra le due a- ree politiche e, infine,
una forte sensibilità al «clima d’opinione» di studenti e disoccupati, in grado di
spostarsi piuttosto rapidamente su posizioni in ge- nere di opposizione nei
confronti dei governi uscenti.
2. La semplice analisi dei dati a livello nazionale è insufficiente in pre- senza di
forti eterogeneità a livello territoriale: le fratture di classe, spe- cialmente
quella pubblico/privato, sono particolarmente elevate nelle re- gioni centro-
settentrionali, dove l’ancoraggio all’ideologia politica è più forte e dove
l’autocollocazione e il voto passato riescono a incidere – ra- dicalizzandoli – in
misura significativa sugli orientamenti di voto. Di con- seguenza, gli elementi
congiunturali di clima di opinione, quali il giudi- zio sul governo,
sull’opposizione, sui candidati e così via, hanno una mi- nore capacità di
modificare la scelta dell’elettore. Nel Centro-Sud invece la situazione cambia
sensibilmente: qui la condizione occupazionale spie- ga davvero poco dei
comportamenti di voto. In queste regioni la mobilità è molto alta, perché il
livello di appartenenza politica è piuttosto basso e nella scelta di voto tendono
a prevalere componenti congiunturali nazio- nali (giudizio sul governo, sulla
situazione economica) e locali (candida- ture, alleanze), con forti componenti di
voto personale. Il voto 2008 e quello 2010 ci consegnano in definitiva un
centro-sinistra confinato ter- ritorialmente (è maggioranza nella sola Zona
Rossa) e isolato socialmente (è maggioranza solo nel pubblico impiego).
3. Se consideriamo il voto secondo l’adesione al sindacato, viene confer- mata
la frattura tra iscritti e non iscritti, con i primi maggiormente inclini a scegliere
il centro-sinistra e i secondi il centro-destra. Ma anche in questo ca- so la
situazione interna agli iscritti alle diverse sigle sindacali appare variega- ta: il
voto di centro-sinistra caratterizza in modo evidentissimo la Cgil, men- tre si
osserva un maggiore equilibrio nei consensi ai due schieramenti nel ca- so di
Cisl e Uil. Anche tra gli aderenti alle organizzazioni dei lavoratori si replica lo
schema emerso per l’analisi sulla condizione occupazionale: la radi-
calizzazione del voto, e quindi lo spostamento verso sinistra, sono maggior-
mente evidenti tra gli iscritti del pubblico impiego, tra i pensionati e tra i re-
sidenti nelle regioni della Zona Rossa.
Per chiudere torniamo un attimo al nostro punto di partenza, che era quello di
una verifica del grado di intensità del voto di classe. Le ultime analisi (Pisati,
2010) dicono che l’andamento dell’associazione tra classe sociale e preferenze
politiche si è configurato, dal dopoguerra a oggi, co- me una scala discendente
a tre gradini: il primo (1953-1976) con una re- lazione significativa; il secondo
(1977-1992) con una contrazione rile- vante; il terzo (1993-2010) con
un’intensità del fenomeno in ulteriore ca- lo. Analizzando i dati 1996-2010,
seppur con un’ottica parzialmente dif- ferente (ricorso all’occupazione come
indicatore della relazione tra scelta di voto e classe sociale, e creazione di un
nuovo indicatore per valutare le performance delle fratture), si arriva a risultati
per certi versi opposti: la frattura autonomi/dipendenti c’è ed è stabile, quella
pubblico/privato è fluttuante ma in costante crescita nell’ultimo decennio. In
questo caso le metodologie utilizzate e le numerosità campionarie a
disposizione per le analisi possono davvero fare la differenza.
C’è però un punto ulteriore, mai preso in considerazione dagli studi si- nora
realizzati (neppure da noi in questo contributo), che potrebbe apri- re le porte a
nuove prospettive d’indagine sul tema del voto di classe. Tut- te le
pubblicazioni, infatti, continuano ad analizzare il fenomeno con le lenti del
passato: ci attendiamo cioè che i lavoratori autonomi votino a de- stra e che gli
operai si posizionino a sinistra. Se non troviamo questo ri- scontro, allora la
nostra conclusione è che la frattura o le fratture di clas- se si stanno
ricomponendo. Se questo ragionamento poteva funzionare bene per la prima
repubblica, oggi comincia a mostrare tutti i suoi limiti. Da una parte perché il
voto ideologico/di appartenenza è in calo, slegan- do in parte l’elettorato dal
classico cleavage sinistra/destra. Con l’afferma- zione del principio
maggioritario sempre più cittadini, con il loro voto, premiano o puniscono il
governo in carica secondo la percezione del suo operato, aprendo così a
un’alternanza mai osservata nella prima repubbli- ca. Ma anche i partiti, di
conseguenza, si sono adattati a questo nuovo contesto competitivo: ragionano
sempre più secondo una logica catch-all, facendosi portatori di un ventaglio
molto ampio – e in parte mutevole nel

Le scelte elettorali dell’ultimo quinquennio: voto di classe e voto degli iscritti al


sindacato
corso del tempo – di interessi, spesso con forti aree di sovrapposizione su
determinati temi tra i partiti stessi.Ecco allora che le classi sociali non hanno
più riferimenti fissi e stabili nel tempo, i loro portatori di interesse sono diversi,
in molti casi trasversali rispetto all’asse sinistra/destra. I confini diventano
mobili, con un riposizionamento continuo degli interessi su più livelli. Può
succedere che il Pd diventi il principale punto di riferimento degli operai e,
nell’elezione successiva, venga sostituito in questo ruolo dalla Lega. Magari
sono riallineamenti di medio periodo più che di breve, ma pur sempre
riallineamenti . Se così fosse, l’esempio sugli operai potrebbe essere letto
proprio come un segnale di continuità della frattura di classe, dovuta a una
mutevole confluenza di interessi verso i soggetti partitici. E aiuterebbe an- che
a spiegare le ragioni di improvvise e significative aperture/chiusure delle
fratture di classe messe in evidenza anche in questo articolo (la trendless
fluctuation senza una direzione precisa). L’affermazione di questa prospettiva
comporterebbe un’evidente difficoltà nel continuare ad ana- lizzare il voto di
classe con vecchie lenti, facendo finta che la propensione dei partiti a
sostenere i diversi interessi di classe sia rimasta immutata nel lungo periodo.
Per capire se questo rovesciamento di prospettiva rappresenta una vi- sione
alternativa valida servirebbero nuovi dati e analisi ad hoc, che met- tano in
luce le identificazioni (separando questo concetto dal comporta- mento di voto)
delle diverse categorie sociali con i partiti politici, e anche le principali
determinanti delle scelte elettorali. Anche un focus sul ver- sante qualitativo
della ricerca potrebbe essere utile per avere maggiori informazioni sul tema.
Molta strada può essere fatta sull’argomento, ma- gari cominciando a leggere i
fenomeni in una prospettiva sempre più di- namica.
14 Riallineamenti in cui magari si mescolano altre componenti e dinamiche. Ad
esempio, lo spostamento degli operai verso la Lega è spesso connesso a
situazioni di insicurezza socia- le ed economica, ma non c’è dubbio sul fatto
che alcune categorie non si riconoscano più in un interlocutore unico e che,
trascinate dal clima d’opinione e sempre meno da una logica di appartenenza,
siano disposte a passare da uno schieramento all’altro, manifestando co-
munque la presenza di un’identità di classe ben definita.

2. 5. Conclusioni

L’ideologia e la retorica sindacale, ma pure quella mediatica, sono tutte


concentrate sul sindacato come “soggetto politico e contrattuale”, ma la
pratica sindacale, come concretamente incarnata nel sistema di offerta è
centrata sulla tutela individuale (e collettiva), sui servizi, e solo al terzo posto
sull’attività contrattual/negoziale di settore e confederale. Insomma la
medaglia sindacale ha due facce: la prima, quella del “soggetto politico e
contrattuale” è davvero in declino, sia nella percezione dell’opinione pubblica
sia nel riscontro offerto dagli indicatori quantitativi; la seconda faccia, quella
delle attività di tutela e dei servizi svolti “a remunerazione”, appare, almeno
fino ad oggi, in crescita. Certo, anche su questo versante il sindacato si trova a
far fronte a molteplici sfide, relative in particolare a tre variabili: a) le
tecnologie informatiche/comunicative ad alto tasso di disintermediazione; b) la
concorrenza di aziende private sul mercato dei servizi alle famiglie a reddito
medio-basso; c) la maggiore efficienza della pubblica amministrazione, che
potrebbe diminuire il peso dei servizi adempimentali. Tuttavia si tratta di una
competizione che i sindacati possono vincere o perdere a seconda delle
strategie che adotteranno, non l’ineluttabile conseguenza di variabili
strutturali.

La contrattazione collettiva, specie quella nazionale, costituisce uno


strumento indebolito: la sua copertura aumenta fino a ricomprendere la quasi
totalità dei lavoratori dipendenti ma è inversamente proporzionale
all’intensità dei risultati. Il sistema di offerta sindacale ne ha implicitamente
preso atto, sviluppandosi con dimensioni sempre più vaste a ridosso della
produzione normativa, come pure intercettando tutte le opportunità
consentite dal lobbying governativo-parlamentare per garantirsi una posizione
privilegiata di interlocuzione con le pubbliche amministrazioni. Una sintesi di
questi processi viene tentata con la modellizzazione del ciclo di vita delle
organizzazioni sindacali del nostro paese proposta nella Figura n. 4.

(circa qui Figura n. 4)

In quella che abbiamo definito terza fase del ciclo di vita delle organizzazioni
sindacali (figura n. 3), l’approccio basato sulla nuova centralità dei servizi
rappresenta probabilmente, a livello europeo, il principale modello con cui i
sindacati si propongono di contribuire alla tutela e al benessere dei lavoratori.
A questo proposito i tassi di sindacalizzazione dei Paesi europei evidenziano
come la rappresentatività del sindacato sia più forte laddove esso amplia la
propria missione, estendendo il suo ruolo ai momenti, alle funzioni e ai servizi
che regolano l’accesso al (ciò che viene prima) e l’uscita dal (il dopo) lavoro.
La loro importanza è connessa al fatto di riguardare temi e momenti cruciali
nella vita di ogni lavoratore. Ma questo modello, se vuole essere coerente,
prevede uno trade-off ben preciso. In questo senso il modello svedese è
paradigmatico (Steinmo, 2013): alla base del suo successo vi è un chiaro
scambio che sancisce la rinuncia, da parte del sindacato, ad esercitare ruoli di
contropotere sui luoghi di lavoro, in cambio di solide garanzie per quanto
riguarda: a) la gestione del mercato del lavoro, le indennità di disoccupazione
e la formazione professionale (sistema ghent); b) la politica dei redditi,
regolata con la partecipazione del sindacato tramite stabili accordi
concertativi; c) un welfare fortemente egualitario e redistributivo; d) la
partecipazione alle scelte strategiche delle aziende. Se nel caso svedese la
rinuncia al conflitto interno ai luoghi di lavoro ha portato il sindacato a
costruire il proprio ruolo quale soggetto quasi istituzionale del welfare, un po’
ovunque nelle democrazie occidentali contemporanee l’approccio oppositivo
che ha caratterizzato una lunga fase delle relazioni industriali mostra la corda:
e a ben guardare è un approccio che sembra resistere più sul piano della
strumentazione simbolica che nei fatti; nelle fabbriche e nelle aziende il lavoro
del sindacato non è più improntato alla contrapposizione e all’ostruzionismo
ma alla collaborazione. Nella pratica quotidiana il delegato sindacale e
l’operatore svolge in parte compiti e funzioni tipiche di un mediatore, di un
facilitatore dei processi -specie dei processi d’innovazione- mentre resiste una
narrazione sindacale tutta giocata sul piano del conflitto e della
contrapposizione, che non aiuta a accelerare il processo di trasformazione in
atto.

Volgiamo ora lo sguardo al futuro. Le trasformazioni alle quali abbiamo fatto


cenno rappresentano altrettante sfide per le associazioni di rappresentanza in
generale, e per il sindacato in particolare. La crisi del terreno elettivo
dell’azione sindacale spinge a muoversi in più direzioni, che riguardano: 1) i
baricentri dell’organizzazione sindacale, in modo da adattarle al mutato
contesto; 2) le relazioni industriali, ovvero il ruolo e la funzione del sindacato
in azienda e sul territorio1; 3) l’erogazione di tutele e servizi –nuovi e
consolidati– ai lavoratori. Si tratta di direttrici d’intervento che richiedono
cambiamenti organizzativi importanti. Al contempo la dimensione
organizzativa è a sua volta sottoposta a sfide e sollecitazioni. La situazione di
crisi economica aggrava i vincoli di budget delle associazioni e spinge a
riforme tendenti alla “sobrietà organizzativa”, alla massima efficienza e quindi
all’eliminazione delle spese inutili. Tale rigore è anche funzionale a una difesa
della legittimità delle associazioni, che devono evitare di apparire di fronte
all’opinione pubblica come parte della “casta” politica e dei suoi sprechi.

L’intervento organizzativo, imposto dalle sfide sopra richiamate, agisce su un


duplice versante: da un lato rafforzando quei principi di trasparenza e
accountability, funzionali a rendere conto di quello che è e che fa davvero il
sindacato, nell’insieme e nelle sue parti (Grandori, 2001; Panozzo, 1996);
dall’altro ponendosi l’obiettivo di adattare l’organizzazione all’ambiente in cui
opera, in una logica di isomorfismo istituzionale, che richiede un rinnovato
rinforzo dei livelli territoriali, ma anche un corrispettivo snellimento dei livelli
nazionali e regionali. La revisione dell’architettura organizzativa sembra oggi
procedere in buona misura in direzione opposta a quella realizzata negli anni
successivi alla conferenza di Montesilvano del 1979, dalla quale si origina
l’assetto che ancora oggi connota il sindacalismo confederale. Fu allora che
prese avvio la “regionalizzazione” del sindacato, attuando un deciso
rafforzamento delle strutture confederali a scapito di quelle territoriali e
categoriali e concentrando molte funzioni sul livello nazionale. Da questi
assetti organizzativi trae origine la stagione della concertazione e dei
negoziati istituzionali dei venticinque anni successivi. Le dinamiche più
recenti segnalano un mutamento di fase: la riduzione del peso della
concertazione, specie a livello centrale, impone una rivisitazione del modello
confederale e della sua pervasività. Per quanto riguarda il livello regionale, il
declino della prospettiva federalista e la mancata istituzionalizzazione di un
livello regionale di contrattazione spingono al ridimensionamento di questi
livelli intermedi. Contemporaneamente cresce l’importanza dell’azione
sindacale a livello di luogo di lavoro e di territorio.

Se il lento affievolirsi degli entusiasmi della fase della legittimazione e del


riconoscimento può essere visto come l’evoluzione fisiologica di ogni
formazione sociale, non si può in conclusione trascurare il diffuso e
persistente sentimento di un “declino” del sindacato in apparato burocratico,
efficiente nelle tutele e nei servizi ma privo di slancio ideale (Manghi, 1996).
Per quanto questo giudizio venga spesso formulato dai protagonisti della
stagione eroica, gli anni sessanta e settanta, si tratta di una valutazione
ingenerosa. Va ricordato prima di tutto che il sindacato ha raggiunto e
consolidato gli obiettivi fondamentali per i quali era nato. Inoltre, nel corso dei
decenni, il sindacato è arrivato a scontrarsi con i limiti immanenti
all'espansione delle rivendicazioni e del suo risvolto contrattuale. Del resto,
appare interessante leggere la storia sindacale anche attraverso l’evoluzione
architettonica delle sue sedi per rendersi conto dell’abisso di compiti e
funzioni, ad esempio, tra le Camere del lavoro di ieri e quelle di oggi
(Manesso, Tosi, 2009).
1 Sulle sfide che vengono sui luoghi di lavoro dalle politiche del personale no-union si rinvia a Gollan
Kaufman, Wilkinson (2015); sulle strategie di nuova sindacalizzazione vedi Gospel, Wood (2003); infine
sugli adattamenti organizzativi vedi Kelly, Willman (2004).
Mentre per le imprese il riconoscimento delle diverse fasi del ciclo di vita
aziendale è relativamente agevole, non fosse altro perché messo in scena
attraverso la drammaturgia dell’avvicendamento del management, nel caso
delle associazioni -dove la gestione pragmatica della “ditta” deve convivere in
modo credibile con l’enfasi sulle motivazioni ideali- il problema di come far
“digerire” l’approdo alla maturità segue strade più accidentate, non di rado
anche dolorose. Il lento processo di disincanto, finanche di “disamoramento”,
verso la prosaicità del sindacalismo vissuto finalmente come attività normale
di tutela, assistenza e servizio ai lavoratori, alimenta tuttavia un continuo
mugugno sui bei tempi andati, un filo persistente di nostalgia e di rammarico
per una storia che per molti sindacalisti avrebbe dovuto continuare lungo le
antiche strade (Manghi, 2007).

L'interrogativo finale, che rimane senza risposta, si può proporre più o meno
così: come si fa a tenere insieme in un'organizzazione di rappresentanza la
vitalità degli ideali iniziali con la prosaicità di una gestione tanto efficiente
quanto burocratica? Esiste un ragionevole compromesso che sappia sfuggire
alla deriva delle prediche nostalgiche sui valori perduti, ma anche alla
tentazione opposta del cinico realismo organizzativo che si adagia sui
riconoscimenti materiali e di status? Si tratta di interrogativi per i sindacalisti
di domani, ma se i dirigenti sindacali di oggi, invece di cercare
affannosamente di inseguire la scena mediatica, con l’effetto di venire
assimilati in tutto e per tutto alla “casta”, cercassero il modo di ridurre con
trasparenza, attraverso gli strumenti di un’accountability, la distanza tra
quello che dicono di fare e quello che fanno forse il loro lavoro sarebbe molto
più apprezzato dalla loro base associativa e vissuto da loro stessi con
maggiore orgoglio. Come mostrano i primi risultati del nostro lavoro,
contrariamente a quanto sostenuto da molta stampa di parte2, i sindacati
confederali non hanno nulla da temere da un rendiconto rigoroso delle loro
attività, come ha riconosciuto Amato (2012) quando venne incaricato dal
governo dell’epoca di fare una ricognizione sui finanziamenti pubblici ai
sindacati. Anzi, se l’accountability diventasse una prassi costante e non un
modo come un altro di fare (vuota) “comunicazione”, essa potrebbe costituire
una leva non secondaria nell’aumentare la fiducia e il rispetto verso i
sindacati, forse perfino per incentivarne l’adesione.

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