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1. Introduzione
Non c’è molto accordo sul grado di intensità del voto di classe in Italia dal
dopoguerra a oggi. Fino a poco tempo fa emergeva come la posizione socia- le,
insieme ad altre variabili che permettono di collocare gli elettori lungo un asse
di stratificazione sociale, non esercitasse un’influenza significativa sulle scelte
di voto degli elettori della prima repubblica (Mannheimer, Sani, 1987; Corbetta,
Segatti, 2004). Secondo questo filone interpretativo, il voto dei di- versi ceti
sociali non si indirizzava in maniera esclusiva a un partito o a un’a- rea politica,
mentre risultava molto più forte la frattura religiosa, caratteriz- zata dalla
divisione tra cattolici e laici (Sani, 1973; Corbetta, Parisi, Schadee,1988; Sani,
Segatti 2002).
Questa lettura del caso italiano, oggi, tende invece a essere – in parte – ri- vista
grazie a nuovi studi e approfondimenti sul tema (Pisati, 2010). Soprat- tutto
sembra emergere, per la prima repubblica, un’associazione tra classe so- ciale
e preferenze politiche per niente trascurabile, in particolare sino alla metà degli
anni settanta: c’è sì il ruolo interclassista della Dc, ma anche la propensione
della classe operaia a sostenere i partiti di stampo socialista (Pci e Psi) e
l’inclinazione della borghesia e delle classi medie a scegliere liste ap-
partenenti all’area di centro-destra. Seguirebbe poi un’attenuazione del voto di
classe nel periodo 1977-1993, complici una riduzione della disuguaglian- za
nella distribuzione dei redditi, un aumento della ricchezza (che diminui- sce il
grado di polarizzazione degli interessi di classe), oltre che un affievoli- mento
della polarizzazione ideologica del sistema partitico italiano, dovuto in gran
parte allo spostamento verso il centro del Pci e, soprattutto, del Psi (Pisati,
2010). In ogni caso la frattura di classe, a differenza di quanto emer- geva dagli
studi precedenti, appare una variabile in grado di incidere forte- mente sulle
scelte di voto degli elettori.
Anche passando alla seconda repubblica si registrano discordanze nei risul- tati
delle ricerche. Da una parte c’è chi sostiene vi sia stata un’ulteriore atte-
nuazione della relazione tra stratificazione sociale e comportamenti di voto
(Pisati, 2010), un po’ come sta avvenendo in tutte le società moderne indu-
strializzate2, complice l’erosione delle subculture territoriali, ma soprattutto
dell’appartenenza politica, che ha portato a una crescita del voto di opinio- ne
a scapito del voto di appartenenza (Parisi, 1995). In particolare, secondo questi
studi, sembrerebbe prevalere un processo di individualizzazione (Sarti,
Vassallo, 2006), all’interno del quale gli elettori non agirebbero più secondo
interessi collettivamente condivisi da gruppi sociali simili, ma princi- Secondo
Evans (1999), i fattori rilevanti nel determinare tale percorso discendente so-
no da ricercare nell’aumento del tasso di mobilità sociale inter e intra
generazionale, nell’im- portanza assunta da altri cleavage sociali (come il
genere, l’etnia), nell’aumento del tasso di scolarizzazione, nella diffusione di
valori post-materialisti meno riconducibili al continuum sinistra-destra, nel
ridimensionamento della classe operaia. Secondo Oskarson (2005), nelle
società definite post-industriali si allenta il legame tra posizione sociale e
partito scelto, al punto che i gruppi di supporto ai partiti basati sui cleavage
sociali diminuiscono. Di conse- guenza la comunicazione strategica dei partiti
stessi si indirizza non più ai sostenitori tradi- zionali, ma mira a inglobare altri
strati, attraverso la focalizzazione di nuove tematiche poli- tiche. A risultati
analoghi giungono anche Clark e Lipset (2001). Altri autori parlano infine di
trendless fluctuation, cioè di una fluttuazione del voto di classe negli ultimi anni
che non evidenzierebbe un indirizzo preciso (Manza, Hout, Brooks, 1995).
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Le scelte elettorali dell’ultimo quinquennio: voto di classe e voto degli iscritti al
sindacato
palmente secondo scelte individuali, afferenti alla sfera valoriale (Inglehart,
1997; Bauman, 2000) e a costellazioni identitarie più sfrangiate.
Dall’altra parte c’è chi registra negli ultimi anni una certa polarizzazione delle
preferenze politiche dei diversi gruppi sociali (Itanes, 2001). Due le possibili
ragioni: in primo luogo, l’affievolimento del cleavage religioso che a- veva
strutturato il voto nella prima repubblica (non a caso i partiti eredi di- retti della
Dc si distribuiscono oggi nei due poli) ha lasciato uno spazio libe- ro che è stato
riempito dal voto socialmente «confinato»; in secondo luogo, l’ascesa di
Berlusconi e i programmi dei due schieramenti hanno in qualche modo favorito
la redistribuzione del voto entro confini sociali, con il centro- sinistra
maggiormente percepito dall’elettorato come difensore dello stato so- ciale e
della politica fiscale redistributiva, e un centro-destra più ancorato al- la
valorizzazione del lavoro autonomo, dell’impresa, della riduzione della
pressione fiscale (Feltrin, 2006a).
Ma perché dai diversi studi emergono risultati e interpretazioni così di-
scordanti? Ci sono almeno tre ordini di ragioni. Il primo è relativo alla defi-
nizione del concetto di «classe sociale». Per molti osservatori la categorizza-
zione che continua a essere utilizzata è quella tradizionale: borghesia, classe
media impiegatizia, piccola borghesia urbana, piccola borghesia agraria, clas-
se operaia (Pisati, 2010). Altri considerano questa classificazione sostanzial-
mente superata e per questo utilizzano l’occupazione come indicatore della
classe sociale d’appartenenza. Si tratta di una scelta cui si è fatto ampio ri-
corso in letteratura negli ultimi anni (Diamanti, Mannheimer, 2002; Cor- betta,
2006; Evans, 1999). La scelta di operativizzare il concetto di classe so- ciale
con la variabile «posizione occupazionale», sebbene costituisca una sem-
plificazione, si rivela infatti meno problematica nella realtà politica dell’Italia
della seconda repubblica. L’appannarsi del legame appartenenza/voto (sociale,
culturale, ideologica, religiosa) ha dato infatti maggiore centralità alle tema-
tiche socio-economiche, all’interno di un processo di indebolimento degli a-
spetti collettivi e di rafforzamento di quelli individuali (Corbetta, 2006).
C’è poi un secondo problema, attinente alla «misurazione» vera e propria del
voto di classe. In altre parole: quando possiamo affermare l’esistenza di u- na
netta e forte frattura nell’elettorato basata sull’appartenenza socio-econo-
mica? Quale deve essere la concentrazione dei consensi espressi da una clas-
se sociale in direzione di un determinato partito o area politica? Anche in
questo caso le posizioni sono diverse, con un conseguente aumento delle
probabilità di non corrispondenza tra i risultati delle diverse analisi.
Infine, dato che la metodologia quasi sempre utilizzata è quella dell’in- dagine
demoscopica, dobbiamo fare molta attenzione alle numerosità campionarie
considerate nei diversi lavori: gran parte delle ricerche si ba- sano su
rilevazioni di un migliaio di casi, con analisi della distribuzione del voto in
sottogruppi (identificativi delle classi sociali) di qualche deci- na di casi. Sono
numeri insufficienti per ricavarne solide misure di asso- ciazione, con un
margine d’errore molto elevato, che permettono – al massimo – di cogliere
qualche blanda ipotesi probabilistica, ma che male si prestano a
generalizzazioni di tipo inferenziale. Il lavoro qui presentato cerca di fare un po’
di chiarezza sul tema, partendo da una base-dati par- ticolarmente ricca. Si fa
ricorso a rilevazioni con campioni molto più ele- vati rispetto alla norma, che
permettono di disaggregare l’analisi a livello territoriale mantenendo
un’elevata significatività statistica, nella consape- volezza che la questione
della distribuzione territoriale del «voto di classe» costituisce uno dei punti più
controversi. Possiamo infatti sostenere o me- no l’esistenza del voto di classe,
ma dobbiamo renderci conto di quanto influisca la frattura tra Nord e Sud del
paese, un cleavage il cui peso con- diziona e sovrasta la frattura religiosa o
quella di classe.
In questo contributo verranno esplorate le basi sociali del voto nell’ul- timo
quindicennio (dal 1996 al 2010, con una concentrazione dell’anali- si nel
periodo 2008-2010), con un approfondimento a livello territoriale e facendo
ricorso all’occupazione come indicatore della relazione tra scel- ta di voto e
classe sociale. Verrà offerta anche una panoramica sul voto per iscrizione alle
organizzazioni sindacali, con un focus sul dato delle elezio- ni politiche del
2008, che permette interessanti valutazioni, dato l’alto numero di casi
analizzati, anche a livello di settore e area geografica.
2. Il voto per categorie socio-professionali: come incidono le variabili territoriale
e temporale
Analizziamo ora le intenzioni di voto degli italiani nei mesi precedenti le
elezioni regionali del 2010 secondo la categoria socio-professionale.
Prenderemo inizialmente in considerazione le dichiarazioni di voto a li- vello
proporzionale, per poi passare ad approfondimenti più dettagliati considerando
aggregazioni di area politica (centro-sinistra e centro-destra) . I dati utilizzati
sono relativi a un’indagine nazionale condotta nei mesi di gennaio-aprile 20104
(precedente quindi alla spaccatura del Pdl che ha portato alla fuoriuscita di Fini
e alla nascita di Futuro e Libertà).
Nella Tab. 1 osserviamo il voto degli elettori italiani secondo la posizione
professionale. A livello nazionale appaiono orientati verso il centro-destra gli
imprenditori e i liberi professionisti (60 per cento per il centro-destra, 40 per il
centro-sinistra), con punte rilevanti di consenso a favore del Pdl (36 per cento).
Si tratta di un dato sostanzialmente in linea con quanto emerso da ricerche
passate (Diamanti, Mannheimer, 2002). Il centro-destra ottiene an- cora
migliori riscontri nel resto del lavoro autonomo, costituito principal- mente da
artigiani e commercianti, con un vantaggio sul centro-sinistra che raggiunge i
40 punti percentuali e una forte spinta di consensi in direzione della Lega Nord
(21 per cento). Nel complesso, circa due lavoratori autono- mi su tre scelgono a
livello nazionale una lista di centro-destra.
Passando al lavoro dipendente, è saldo l’orientamento di insegnanti e docenti a
favore del centro-sinistra (66 per cento contro il 34), con risul- tati significativi
per il Pd al 38 per cento e un 12 a testa per la Sinistra Ra- dicale e l’Italia dei
Valori. Un forte equilibrio tra le due aree politiche si registra tra i dirigenti, i
quadri intermedi e gli impiegati, mentre gli ope- rai, particolarmente sensibili al
clima politico nazionale, si posizionano in netta maggioranza verso le liste di
centro-destra (59 per cento contro 41), con una forte spinta in direzione della
Lega, la quale, all’interno di que- sto segmento, raggiunge il 18 per cento. Il
mondo operaio, come già e- merso in altre occasioni, fatica a sentirsi
rappresentato dal Pd e dalle altre liste di sinistra, mentre continua a
riconoscersi in modo piuttosto com- patto in alcuni punti di riferimento ben
precisi: nelle regioni settentrio-
5 nali il centro-destra e la Lega Nord in primis .
3 I partiti compresi all’interno dell’area di centro-sinistra sono: Sinistra radicale
(Rifonda- zione-Comunisti Italiani e Sinistra, Ecologia e Libertà), Partito
Democratico, Lista Di Pietro e altri (Partito Radicale, Socialisti). I partiti
compresi all’interno dell’area di centro-destra so- no: Udc, Popolo della Libertà,
Lega Nord, Movimento per l’Autonomia e altri (La Destra, Movimento Sociale).
Nonostante l’Udc dal 2008 abbia intrapreso un percorso centrista au- tonomo,
la grande maggioranza dei suoi elettori continua a riconoscersi nel centro-
destra. Per questa ragione il partito è stato comunque incluso in quest’ultima
area.
4 Indagine realizzata dalla società Tolomeo Studi e Ricerche su un campione
rappresenta- tivo di quasi 38 mila elettori.
5 Nelle regioni settentrionali, tra gli operai, la Lega raggiunge il 32 per cento
dei consen- si, un dato superiore a quello del Popolo della Libertà (27) e del
Partito Democratico (18).
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Sono però evidenti le due fratture che negli ultimi anni emergono con forza a
livello di ca- tegoria professionale. Da una parte quella tra lavoratori autonomi
e dipen- denti: se tra i primi il vantaggio del centro-destra è di circa 29 punti
percen- tuali7, tra i dipendenti il margine si riduce a solo 1 punto. Dall’altra
parte an- che la seconda frattura, quella tra dipendenti pubblici e dipendenti
privati, è molto ampia: nel settore pubblico il centro-sinistra prevale di 15
punti, nel settore privato la situazione si rovescia ed è il centro-destra in
vantaggio con un margine di circa 9 punti percentuali. Il centro-sinistra riesce
dunque a reggere l’onda d’urto e a essere maggioranza solo nel bacino
tradizionale del lavoro dipendente pubblico (soprattutto quello ad alta qualifica
come gli in- segnanti, categoria altamente scolarizzata e dislocata in uno dei
principali snodi del sistema di welfare), che ormai rappresenta sempre più lo
«zoccolo duro» dello schieramento, composto da un elettorato con solido senso
di ap- partenenza, orientamenti ideologici ben definiti e quindi difficilmente mo-
dificabili.
Elementi di valutazione ancor più interessanti si ottengono da una disag-
gregazione dei dati per area geografica. Infatti l’aggregazione a livello nazio-
nale di fenomeni altamente disomogenei a livello territoriale, nel caso dell’a-
nalisi occupazionale, rischia di portare a una significativa soppressione della
varianza. Aree che si muovono in maniera opposta finiscono quasi per com-
pensarsi a livello nazionale, generando magari un’impressione di stabilità che è
in gran parte ingannevole. Per questo è importante, soprattutto in un ter-
ritorio frammentato socialmente, economicamente e politicamente come l’I-
talia, utilizzare un modello di analisi con «terze variabili» (in questo caso la
ripartizione geografica), in quanto la dimensione territoriale è di massima
importanza per capire le logiche differenziali degli spostamenti di voti da un
appuntamento elettorale a quello successivo. Abbiamo quindi suddiviso il
territorio in cinque grandi aree8 e nella Tab. 2, per ciascuna area e per cia-
scuna categoria (a sei modalità) vengono presentate le differenze tra il voto al
centro-sinistra e quello al centro-destra. Le differenze positive segnalano un
vantaggio del centro-sinistra, quelle negative un vantaggio del centro-destra.
In quest’analisi non prenderemo solamente in considerazione le differenze tra
centro-sinistra e centro-destra, ma le confronteremo anche con la media
complessiva territoriale della differenza, in modo da poter offrire un con- fronto
più ragionevole nelle singole aree geografiche. Il profilo che tende a delinearsi
è quello di una crescente radicalizzazione del voto di alcune posi- zioni socio-
professionali se consideriamo le singole aree, e alcune sp
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2. 5. Conclusioni
In quella che abbiamo definito terza fase del ciclo di vita delle organizzazioni
sindacali (figura n. 3), l’approccio basato sulla nuova centralità dei servizi
rappresenta probabilmente, a livello europeo, il principale modello con cui i
sindacati si propongono di contribuire alla tutela e al benessere dei lavoratori.
A questo proposito i tassi di sindacalizzazione dei Paesi europei evidenziano
come la rappresentatività del sindacato sia più forte laddove esso amplia la
propria missione, estendendo il suo ruolo ai momenti, alle funzioni e ai servizi
che regolano l’accesso al (ciò che viene prima) e l’uscita dal (il dopo) lavoro.
La loro importanza è connessa al fatto di riguardare temi e momenti cruciali
nella vita di ogni lavoratore. Ma questo modello, se vuole essere coerente,
prevede uno trade-off ben preciso. In questo senso il modello svedese è
paradigmatico (Steinmo, 2013): alla base del suo successo vi è un chiaro
scambio che sancisce la rinuncia, da parte del sindacato, ad esercitare ruoli di
contropotere sui luoghi di lavoro, in cambio di solide garanzie per quanto
riguarda: a) la gestione del mercato del lavoro, le indennità di disoccupazione
e la formazione professionale (sistema ghent); b) la politica dei redditi,
regolata con la partecipazione del sindacato tramite stabili accordi
concertativi; c) un welfare fortemente egualitario e redistributivo; d) la
partecipazione alle scelte strategiche delle aziende. Se nel caso svedese la
rinuncia al conflitto interno ai luoghi di lavoro ha portato il sindacato a
costruire il proprio ruolo quale soggetto quasi istituzionale del welfare, un po’
ovunque nelle democrazie occidentali contemporanee l’approccio oppositivo
che ha caratterizzato una lunga fase delle relazioni industriali mostra la corda:
e a ben guardare è un approccio che sembra resistere più sul piano della
strumentazione simbolica che nei fatti; nelle fabbriche e nelle aziende il lavoro
del sindacato non è più improntato alla contrapposizione e all’ostruzionismo
ma alla collaborazione. Nella pratica quotidiana il delegato sindacale e
l’operatore svolge in parte compiti e funzioni tipiche di un mediatore, di un
facilitatore dei processi -specie dei processi d’innovazione- mentre resiste una
narrazione sindacale tutta giocata sul piano del conflitto e della
contrapposizione, che non aiuta a accelerare il processo di trasformazione in
atto.
L'interrogativo finale, che rimane senza risposta, si può proporre più o meno
così: come si fa a tenere insieme in un'organizzazione di rappresentanza la
vitalità degli ideali iniziali con la prosaicità di una gestione tanto efficiente
quanto burocratica? Esiste un ragionevole compromesso che sappia sfuggire
alla deriva delle prediche nostalgiche sui valori perduti, ma anche alla
tentazione opposta del cinico realismo organizzativo che si adagia sui
riconoscimenti materiali e di status? Si tratta di interrogativi per i sindacalisti
di domani, ma se i dirigenti sindacali di oggi, invece di cercare
affannosamente di inseguire la scena mediatica, con l’effetto di venire
assimilati in tutto e per tutto alla “casta”, cercassero il modo di ridurre con
trasparenza, attraverso gli strumenti di un’accountability, la distanza tra
quello che dicono di fare e quello che fanno forse il loro lavoro sarebbe molto
più apprezzato dalla loro base associativa e vissuto da loro stessi con
maggiore orgoglio. Come mostrano i primi risultati del nostro lavoro,
contrariamente a quanto sostenuto da molta stampa di parte2, i sindacati
confederali non hanno nulla da temere da un rendiconto rigoroso delle loro
attività, come ha riconosciuto Amato (2012) quando venne incaricato dal
governo dell’epoca di fare una ricognizione sui finanziamenti pubblici ai
sindacati. Anzi, se l’accountability diventasse una prassi costante e non un
modo come un altro di fare (vuota) “comunicazione”, essa potrebbe costituire
una leva non secondaria nell’aumentare la fiducia e il rispetto verso i
sindacati, forse perfino per incentivarne l’adesione.
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2 Si vedano le inchieste sulle finanze sindacali degli ultimi mesi di “L’Espresso” e di “Il Fatto
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