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René Descartes nasce a La Haye, in Turenna, nel 1596 e studia nel collegio gesuita di La Flèche,

laureandosi poi in diritto nel 1616. Due anni dopo si arruola volontario e conosce il medico Isaac
Beeckman, cui offre come strenna il suo primo scritto, Compendium Musicae; raggiunge la
Germania dove è scoppiata la guerra dei Trent’anni e a fine 1619, di ritorno da Francoforte,
sosterà, solo, in una località sulle rive del Danubio nel ducato di Neuburg, annotando la scoperta
dei “fondamenti della scienza mirabile”.
Tra il 1620 e il 1625, abbandonata la vita militare, compie numerosi viaggi soprattuto in Italia e in
Francia. Soggiorna a lungo a Parigi, dove frequenta gli ambienti letterari e mondani e i circoli
scientifici, conoscendo tra gli altri padre Mersenne, suo corrispondente privilegiato dopo il definitivo
trasferimento in Olanda; compie notevoli progressi in matematica, occupandosi di fisica, ottica e
idrostatica. Si ritira quindi nel 1628 nei Paesi Bassi, dove maggiore è la tolleranza verso le nuove
teorie filosofiche e scientifiche, e lavora al progetto di un’intera fisica, che Descartes chiama Le
Monde ou Traité de la lumière, e a L’Homme, frutto delle sue indagini anatomiche e fisiologiche.
Nel 1633 è raggiunto dalla notizia della condanna di Galileo da parte del Santo Uffizio a Roma, e
rinuncia a pubblicare Le Monde, ma nel 1637 pubblica, anonimo, a Leida il Discours de la
Méthode, che figura come prefazione a tre saggi di argomento scientifico (Dioptrique, Metéores e
Géométrie). Tra il 1639 e il 1640, per rispondere alle obiezioni sollevate dalla concisa metafisica
del Discours, scrive le Meditationes de prima philosophia, pubblicate poi a Parigi nel 1641 insieme
alle obiezioni raccolte da Mersenne (fra le quali quelle di Hobbes, Arnauld, Gassendi e dello stesso
Mersenne) e alle relative risposte. Nel frattempo mette mano alla propria “Summa Philosophiae”,
cioè a quelli che saranno i Principia Philosophiae, pubblicati nel 1644.
Inizia quindi nel 1647 una corrispondenza con la regina Cristina di Svezia e due anni dopo si lascia
convincere a intraprendere un viaggio in Svezia per darle lezioni; muore nel 1650 a Stoccolma a
causa di una polmonite.

Nella lunga fase che precede il trasferimento nelle Province Unite, Descartes appare restio e
pubblicare, anche nell’ambito in cui era consapevole della novità dei suoi risultati, cioè in
matematica; appare a Beeckman come l’esempio compiuto del vero indagatore immerso nelle sue
meditazioni.
Intorno al 1630 Descartes aveva ormai impostato una vasta indagine fisico-naturale di cui
facevano parte due trattati di argomento specifico, Le Météores e La Dioptrique, e un terzo di
carattere unitario, comprendente l’intera fisica. La sua preferenza andava senz’altro a quest’ultimo,
che lui amava chiamare “il mio Mondo”, per sottolinearne il carattere di libera costruzione razionale
condotta sulla base dei veri fondamenti della fisica, conseguiti grazie alle meditazioni metafisiche
dei primi nove mesi di soggiorno olandese. L’impostazione di tutto questo lavoro risaliva all’estate
del 1629, quando a Descartes veniva comunicato il fenomeno dei pareli, o soli apparenti; da quel
fenomeno insolito, ben presto associato in base al protocollo di osservazione ai colori
dell’arcobaleno, Descartes era risalito, seguendo il filo dell’”ordine”, a tutte le meteore che ne
preparavano la formazione: dalle diverse precipitazioni alle nubi, poi centro teorico della ricerca, ai
venti e ai vapori che ne costituivano la materia; i due fenomeni meteorologici implicavano anche
problemi di rifrazione e riflessione della luce. Ancora una volta l’andamento dinamico e aperto della
ricerca aveva il sopravvento sulle esigenze di redazione.
In connessione agli sviluppi della sua fisica, Descartes aveva intanto conseguito quella sorta di
complemento alla metafisica che è la dottrina della creazione della verità eterne: contrariamente a
una tradizione risalente ad Agostino e a Tommaso d’Aquino, Descartes considera le verità, definite
increate e coeterne a Dio, come liberamente create insieme al mondo e alla ragione umana che ne
possiede le nozioni innate. Le stesse verità matematiche non possiedono un valore ontologico
superiore al mondo né alla ragione umana, che ha il compito di renderlo intellegibile.
Proprio il carattere rigorosamente unitario della fisica cartesiana la rendeva però vulnerabile nei
confronti dell’evento di natura politica: la condanna inflitta nel 1633 dalla Congregazione dei
Sant’Uffizio a Galilei, reo di aver sostenuto nei suoi Dialoghi il movimento della terra. La condanna
romana metteva Descartes nella condizione di rinunciare alla pubblicazione del “suo Mondo” ma,
superato un iniziale sconforto, il filosofo riesce a elaborare in tappe successive il progetto che si
rivelerà risolutivo. Questo progetto si conclude nel 1637 con la pubblicazione a Leida di un grosso
volume privo del nome dell’autore: Discours de la Méthode pour bien conduire sa raison et
cherchez la vérité danno les sciences. Plus la Dioptrique, les Météores et la Géométrie qui sono
des Essais de cette Méthode.
Il Discours e i tre Essais fornivano un’idea delimitata ma adeguata dei risultati conseguiti fino a
quel momento. Nel loro insieme provavano che i procedimenti messi in atto dal metodo delineato
in breve nel Discours costituivano una valida alternativa ai saperi tradizionali. I principi
fondamentali della fisica, insieme alle loro conseguenze cosmologiche, rimanevano sullo sfondo,
mentre era il metodo, richiamato nella prefazione, a figurare come motivo unificante; di questo
Descartes avvertiva di essersi limitato a dire qualcosa senza insegnarlo, come suggeriva la parola
Discours premessa nel titolo. Si poteva conoscere il valore del metodo attraverso i “saggi del
metodo”, e altrettanto si poteva dire di quel poco di metafisica, fisica e medicina che era stato
inserito nel Discours. Per questa via Descartes poteva recuperare porzioni del suo progetto
originario, inserendo una esposizione ridotta del breve trattato di metafisica del 1629 nella quarta
parte del Discours e un conciso riassunto de Le Monde e della fisiologia de L’Homme nella quinta,
arricchita da un’accurata spiegazione della circolazione del sangue e del movimento del cuore.
Queste tappe figuravano ora come tappe del cammino percorso dall’autore, che trovava opportuno
presentarle come esempi della fecondità del suo metodo. Ma era anche un modo per sondare il
guado alla fisica de Le Monde, nella speranza di suscitare l’interesse dei lettori e rimuovere gli
ostacoli che si opponevano alla sua pubblicazione.
L’edizione di Leida non produce il risultato sperato, e Descartes finì per accantonare
definitivamente il testo de Le Monde, che sarà poi pubblicato postumo; la breve metafisica della
quarta parte del Discours richiese un’esposizione più ampia e approfondita che Descartes darà
con le Meditationes de prima philosophia (1641). Vi erano differenze notevoli non solo fra un
saggio come le Météores e la Géométrie, ma anche e soprattutto fra il discorso introduttivo e i
saggi. Era prevedibile che, una volta venuta meno l’esigenza di sintesi, queste differenze
andassero presto o tardi a scapito dell’unità dell’opera.
La parte che alla lunga doveva avere maggiore fortuna sarebbe stata tuttavia il Discours
introduttivo, al punto da sostituirsi ai saggi che aveva in compito di introdurre; se noi leggiamo il
Discours come testo esemplare del cartesianesimo e dello stesso pensiero moderno, ciò è dovuto
tuttavia a una tradizione più recente, che si può far risalire ai primi dell’Ottocento. Il Discours è
chiamato ormai a introdurre non più i saggi ma le Meditazioni metafisiche, che del metodo e, in
particolare, della regola dell’evidenza sono l’applicazione più fedele. Il Discours de la Méthode
deve essere letto perché meglio di ogni altra opera presenta quelle che sono considerate le due
conquiste essenziali del cartesianesimo: sul piano storico, la liberazione della ragione umana,
rappresentata dalla regola dell’evidenza, e, sul piano teorico, il metodo applicato alla metafisica.
L’affermazione definitiva del Discours finiva così per rappresentare la sostituzione simbolica
dell’opera di Descartes con il conseguente impoverimento di questa.
Descartes sceglie di discorrere del metodo attraverso il racconto del proprio cammino,
propensione che si traduce in un’elaborata trama narrativa e argomentativa; vi raccontava il
cammino da lui seguito nella scoperta e nell’applicazione del metodo, sicché metodo e cammino
venivano a coincidere, differenziandosi fin da principio dall’andatura errabonda di Montaigne. Le
certezze ormai raggiunte consentivano a Descartes di guardare retrospettivamente alla histoire de
son esprit, stilizzandola ad arte con opportuni rilievi e ombreggiature; alcuni di questi rilievi,
prevalentemente concentrati nelle prime tre parti, sono rimasti celebri: il procedere solitario
dell’autore, sospinto da una volontà di certezza che non veniva meno dopo le delusioni subite dal
corso degli studi; la sua decisione nella solitudine del poêle di seguire il cammino della verità; la
lunga traversata in quella sorta di deserto epistemologico che è l’esercizio del dubbio poi chiamato
“metodico”. Gli effetti narrativi rimangono però subordinati alla comunicazione di importanti verità,
che prendono decisamente il sopravvento nelle ultime tre parti del Discours, ed è caso che il testo
lascia gradualmente ai margini il dato autobiografico per concentrarsi, da ultimo, sul problema di
come rendere pubblica la propria filosofia.
Nella prima parte del Discours Descartes racconta la propria formazione intellettuale nel collegio di
La Flèche, insieme a una serie di considerazioni relative alle scienze. Una volta concluso “l’intero
corso di studi al termine del quale normalmente si viene accolto nella cerchia dei dotti” (DM I, 17),
si trova gravato da tanti dubbi ed errori dai quali non ricavava altro che la consapevolezza della
propria ignoranza. Il divario fra aspettative e sistema educativo si fa più marcato quando la
rassegna considera discipline fondamentali come la matematica e la filosofia: se
nell’insegnamento della prima il divario viene individuato nella mancata valorizzazione della
certezza delle dimostrazioni matematiche rispetto alle loro modeste applicazioni pratiche, nel caso
della filosofia il divario tra la sua vantata supremazia e l’incertezza e la contraddittorietà dei risultati
è tale da richiedere di ricominciare da capo il lavoro (“paragonavo gli scritti degli antichi pagani […]
a palazzi molto sontuosi e magnifici, costruiti però sulla sabbia e sul fango”). Deluso dalla scienza
dei libri, Descartes ne cerca un’altra, più valida, in se stesso o nel gran libro del mondo,
realizzando un primo passo nella sua ricostruzione intellettuale, consistente nel liberarsi dei
pregiudizi legati alla consuetudine e all’esempio frequentando corti, armate e gente di diversa
condizione.
Con la celebre scena del poêle in Germania, luogo imprecisato ma decisivo, si apre la seconda
parte, pervenendo a un primo livello teorico. L’isolamento del poêle favorisce una riflessione
sull’unità della mente umana e sull’unificazione delle scienze, insieme alla convinzione di poterne
trovare da solo i fondamenti. Alcune metafore hanno lo scopo di provare la superiorità delle opere
alle quali uno solo ha lavorato su quelle composte da più autori; nel contempo una decisione a
lungo termine imposta un lavoro che richiede di rivedere una buona volta tutte le opinioni cui aveva
dato credito fino a quel momento, per sostituirle in seguito con altre migliori o addirittura per
ripristinare le stesse, dopo averle commisurate alla ragione; ma non prima di aver ricercato il vero
metodo. Il dubbio, da subito, quale era nella prima parte, si trasforma ora in un esercizio volontario
e metodico. L’esposizione dei precetti del metodo si colloca in questo programma di graduale
consolidamento delle proprie conoscenze su un terreno del tutto personale. Nei confronti delle
Regale, il Discours operava una drastica riduzione a soli quattro precetti; questi erano tutti collocati
a un livello di elevata generalità a differenza delle Regulae, che a indicazioni di portata generale e
all’ideale di un sapere universale mescolavano soluzioni di questioni particolari, che dopo gli
apporti degli Essais risultavano del tutto superati. Descartes nel Discours non intendeva insegnare
il metodo, ma soltanto parlarne, affidando ai saggi la prova della sua validità; i quattro precetti
riassumono a un livello di massima generalità i procedimenti effettivi attraverso i quali il pensiero
consegue una determinata conoscenza. Inoltre non va dimenticato che è proprio la concisione dei
precetti che consente la “ferma e costante risoluzione di osservarli ogni volta” (DM II, 47).
Il primo prescrive di non accettare mai per vera nessuna cosa che non si conoscesse con
evidenza come tale, evitando dunque accuratamente la precipitazione e la prevenzione, senza
accogliere nei propri giudizi nulla che non si presentasse alla mente in modo così chiaro e distinto
da escludere ogni motivo di metterla in dubbio. La risoluzione di non accogliere come vera
nessuna conoscenza che non sia evidente è il primo indispensabile requisito del metodo e,
terminata l’opera, sua unica regola, così da connotare quella cartesiana come una filosofia
dell’evidenza; questa è conseguita attraverso quell’azione del pensiero che è l’intuito, e le
condizioni indicate nel Discours per conseguire l’evidenza, tutte negative, mettono in risalto lo
sforzo della mente nell’opporsi a precipitazione e prevenzione.
Il secondo precetto è il procedimento dell’analisi: dividere ciascuna delle difficoltà esaminate in
quante più parti fosse possibile e richiesto per risolvere al meglio. Attraverso appunto l’analisi un
insieme di questioni viene scomposto e ridotto a una questione semplice e comprensibile, cioè, nel
linguaggio delle Regulae, determinata; una volta determinata, la questione verrà divisa per gradi
nelle sue parti componenti più piccole e più semplici, oggetti di intuizione e quindi evidenti. Per
quanto fondamentale, l’analisi costituisce solo il primo passo del movimento continuo del pensiero
che si completa con la sintesi, o meglio, deduzione, la quale, a partire dalle parti semplici così
trovate, ricostruisce l’insieme, ripercorrendo gli stessi gradi, come richiede la terza regola.
Terza regola che consiste appunto nello svolgere con ordine i propri pensieri cominciando dagli
oggetti più semplici e più facili da conoscere per risalire poco a poco, come per gradi, fino alla
conoscenza dei più complessi, ammettendo l’esistenza di un ordine anche tra quelli che non si
dispongono naturalmente gli uni prima degli altri. L’ordine è il principale segreto del metodo, il filo
che consente di uscire dal labirinto. Esso consiste nel disporre le cose non più secondo la
gerarchia aristotelica dei generi ma in serie differenti, in modo che la conoscenza delle une possa
dipendere per gradi dalla conoscenza delle altre. “L’ordine consiste soltanto in questo: le cose
proposte per prime devono essere conosciute senza l’aiuto di quelle successive, e le successive
sono dimostrate dalle sole cose che le precedono” (Meditationes, Risposte alle seconde obiezioni;
AT VII, 155).
L’ultimo precetto è quello di fare dappertutto enumerazioni così complete e rassegne così generali
da essere certo di non omettere nulla. L’enumerazione, appunto, consiste, in termini generali, nel
ripercorrere a uno a uno gli anelli della catena deduttiva per essere sicuri di non omettere nulla; in
tal senso l’enumerazione non si limita e un’operazione di controllo, ma viene a far parte integrante
dell’esercizio del metodo.
Nel racconto del Discours le riflessioni del poêle si prolungano nelle “tre o quattro massime” della
morale par provision; sebbene il termine suggerisca prescrizioni di portata universale, queste
massime riguardano esclusivamente la condotta individuale di chi come l’autore ha già trovato nel
perseguimento della verità la migliore delle scelte. Chi si appresta a un tale compito non può fare a
meno di provvedersi di un minimo di norme di convivenza e di condotta “per non restare irresoluto
nelle sue azioni, mentre la ragione lo avrebbe obbligato a esserlo nei suoi giudizi” (DM III, 57).
La prima massima consiste nell’ubbidire alle leggi e alle consuetudini del proprio paese,
osservando fedelmente i precetti della propria religione, e comportandosi, in ogni altra cosa, in
base alle opinioni più moderate e più lontano dall’eccesso che fossero comunemente messe in
pratica dalle persone più assennate con le quale si avrebbe dovuto vivere; questa prima massima
fornisce le coordinate generali all’interno delle quali l’individuo si trova inserito prima di agire.
La seconda consiste nell’essere quanto più possibile fermo e risoluto nelle proprie azioni e nel
seguire, una volta che ci si fosse determinati a farlo, le opinioni più dubbie con non meno costanza
di quanta se ne userebbe nel caso fossero state del tutto fondate; viene perciò regolata la condotta
quando l’azione è iniziata, dicendo di perseverare nell’azione intrapresa anche nel caso che le
ragioni siano dubbie.
La terza massima insegna a guardare come “assolutamente impossibile” tutto quello che non è
riuscito in un’azione passata, “dopo che abbiamo fatto del nostro meglio”: cercare sempre di
vincere se stessi piuttosto che la fortuna e di cambiare i propri desideri piuttosto che l’ordine del
mondo, e, in generale, di abituarsi a credere che non c’è niente interamente in nostro potere, se
non i nostri pensieri, cosicché, dopo aver fatto del proprio meglio riguardo alle cose esterne a noi,
tutto quel che non riesce è assolutamente impossibile. In questo modo dopo il pentimento e i
rimorsi sono i rimpianti a essere evitati.
A conclusione di questa morale, Descartes si impegna a impiegare tutta la propria vita a coltivare
la ragione e, per quanto possibile, avanzare nella conoscenza della verità seguendo il metodo che
si è prescritto; le massime precedenti sono dunque concluse e fondate su quest’ultima,
acquisendo così un orientamento dinamico e progressivo.
La quarta parte del Discours riprende il breve trattato latino di metafisica interrotto nell’estate 1629,
dando pertanto le ragioni con le quali egli prova l’esistenza di Dio e dell’anima umana, fondamenti
della sua metafisica. Il primo principio della filosofia (il je pense, donc je suis) non è l’unico punto di
forza della metafisica del Discours; essa presenta già, sia pure nei limiti accennati, l’ossatura della
metafisica cartesiana che può essere riassunta in questi dieci temi canonici: decisione di ricercare
l’indubitabile e di rifiutare come assolutamente falso tutto ciò che può essere intaccato dal minimo
dubbio; ragioni di dubbio derivare dagli errori dei sensi e da quelli compiuti nei ragionamenti
matematici, oltre che dalla confusione tra i pensieri della veglia e quello del sogno; acquisizione
con il je pense, donc je suis del primo principio della filosofia; identificazione del soggetto con una
sostanza la cui essenza è il pensiero, indipendente dalle cose materiali; regola generale in forza
della quale “le cose che noi concepiamo in modo molto chiaro e distinto sono tutte vere” (DM IV,
83); dimostrazione dell’esistenza di Dio a partire dall’idea di un essere più perfetto del mio;
dimostrazione che l’esistenza è compresa necessariamente nell’idea di un Essere perfetto;
opposizione tra la conoscenza rigorosamente intellettuale e l’uso dei sensi e dell’immaginazione,
uso che non può prescindere dall’intelletto; relazione tra la certezza metafisica e l’acquisizione
dell’esistenza di Dio; eliminazione, a partire da queste conclusioni, delle precedenti ragioni di
dubbio e in particolare di quella derivante dalla confusione tra sonno e veglia.
Delle sei parti del Discours, la quinta è la più lunga ed elaborata. Descartes vi espone i contenuti
della fisica del “suo mondo”, estesa anche a L’Homme, ed ha nella spiegazione di un fenomeno
particolare come il movimento del cuore il suo contributo di maggior rilievo. Mentre si fa promotore
di una delle più importanti scoperte della rivoluzione scientifica, il Discours presenta una
puntigliosa critica dell’impostazione harveyana a vantaggio della superiorità esplicativa del metodo
cartesiano; inoltre il testo introduce le celebri pagine sulla differenza tra gli animali e l’uomo in forza
di quegli indici rivelatori che sono la ragione e la parola, strumenti universali che consentono di
distinguere l’essere umano anche dai più perfezionati automi.
La sesta parte affronta una complessa serie di problemi che riguardano la relazione tra l’autore e il
pubblico, tra la scienza come pratica individuale e la scienza come impresa collettiva, per
terminare con alcune considerazioni metodiche. Descartes confessa di essersi deciso a pubblicare
quando si è reso consapevole dell’utilità delle nozioni generali della sua fisica; a questo punto una
rinuncia avrebbe comportato l’infrazione della “legge che ci obbliga a procurare, per quanto in noi,
il bene generale di tutti gli uomini” (DM VI, 149). All’esigenza di pubblicare la sua fisica Descartes
perveniva anche mediante la consapevolezza della dimensione pubblica della nuova scienza
meccanicista, in modo che anche altri contribuissero al processo cumulativo delle conoscenze; ma
una lunga serie di ragioni opposte determina pero la rinuncia a pubblicare. La fisica, dai cui principi
segue necessariamente il movimento della terra, lo avrebbe esposto a diverse opposizioni e
controversie. L’esigenza di preservare il tempo che gli rimane, insieme alla considerazione della
posterità, prevale ora sull’obbligo di procurare il bene dei viventi. Pubblicare alcuni saggi particolari
su alcune materie non soggette a controversie, lasciando da parte la fisica generale coi suoi
compromettenti principi e, insieme, rendere conto delle sue azioni e dei suoi progetti con il
Discours, si rivela la scelta risolutiva.

Scegliendo ora di approfondire la metafisica cartesiana, esposta sommariamente nella quarta


parte del Discours, se ne tenterà una esplicazione seguendo la trattazione che Descartes ne fa
all’interno delle Meditazioni metafisiche.
Il problema centrale delle Meditazioni è quello di fornire la sicurezza che la scienza umana è
legittimata a parlare con verità del mondo; per essere certi che quel che appare vero alla mente
umana non è solo apparenza, è necessario sapere molto su Dio. Per questo, in Descartes la
metafisica fonda la fisica.
Due sono gli attributi di Dio che è necessario conoscere a questo fine: l’infinita potenza, grazie alla
quale Dio potrebbe truccare la conoscenza umana, e la veracità, che dovrà garantire che Dio non
può voler usare in tal senso del suo potere.
Il progetto cartesiano pretende che la conoscenza umana giunga all’essenza delle cose, e, contro
il convenzionalismo, si appoggia sull’innatismo, ovvero sulla presenza, nella mente, di idee che
non sono opera della mente stessa, e grazie alle quali è possibile conoscere la natura delle cose
materiali; in questo modo Descartes respinge sia il convenzionalismo di Hobbes sia il risorgente
agostinismo.
Anche la teoria della conoscenza, che Descartes deve dispiegare per fondare la sua scienza,
richiede una giustificazione metafisica. Stavolta, però, non è di Dio che è necessario parlare, ma
del secondo oggetto privilegiato dell’indagine metafisica: l’anima. Mente e corpo sono due
sostanze separate e di natura diversa, e per questo la mente può conoscere indipendentemente
dai sensi, attraverso idee che sono inscritte nella sua stessa natura.
Dunque il ruolo fondazione della metafisica nei confronti della fisica richiede che venga svolta una
indagine su Dio (per garantire la verità della conoscenza) e sulla natura della mente (per fondare
l’innatismo); tuttavia, essa rimane, rispetto ai contenuti della fisica, una scienza strumentale.
Descartes sceglie la forma della meditazione, termine preso in prestito dal genere della letteratura
spirituale e religiosa. Questo genere è sovente dedicato a descrivere il cammino di colui che cerca
la salvezza a partire dalle tenebre del peccato, in cui l’esperienza personale dovrebbe servire a
guidare i lettori più con l’esempio che con il precetto.
L’apprendimento del lettore richiede un atteggiamento attivo; poiché si tratta di ripercorrere
l’esperienza dell’autore, il lettore dovrà meditare anch’egli, e perciò la materia è divisa non in
capitoli, ma in meditazioni, che devono convincere, e non vincere.
Sempre alla logica della meditazione si deve ascrivere il fatto che, soprattutto all’inizio del
percorso, si utilizzino materiali che provengono dalla stessa tradizione che si ha in programma di
respingere. All’interno del meditare, le cose proposte per prime non sono però necessariamente
quelle che fondano logicamente le successive, ma piuttosto quelle che sono state scoperte per
prime e che, nell’ordine della scoperta, non dipendono dalle seguenti: Descartes è convinto che in
metafisica sia più vantaggioso il metodo analitico.
La forma del meditare, del convincere, fornisce una prima spiegazione del fatto che il testo segue
una esposizione alla prima persona.
La prima Meditazione si apre annunciando l’intenzione di ricercare un fondamento durevole e
fermo nelle scienza. Il progetto cartesiano di fondazione della scienza si propone di eliminare tutte
le opinioni che siano passibili di dubbio, sottolineando la sua duplice funzione: da un lato serve a
liberare la mente dai pregiudizi, e dall’altro a eliminare la possibilità di dubitare ulteriormente, e
finalizzato dunque alla ricerca dell’indubitabile. Il dubbio è iperbolico perché trasforma la
dubitabilità in un giudizio di falsità.
Il progetto cartesiano mira, in primo luogo, a mettere in discussione, per distruggerla, ogni scienza
che, come quella aristotelica, sia costruita sulla generalizzazione dei dati sensibili, e, in secondo
luogo, a mettere alla prova la scienza cartesiana già strutturata secondo la matematizzazione del
mondo, e quindi prescindendo dai dati della sensibilità. Infatti gli elementi primi nei quali si può
risolvere l’esperienza sensibile sono costituiti dalle caratteristiche quantitative dei corpi,
caratteristiche matematiche, con le quali si descrivono le essenze delle cose e che rimangono vere
sia nel sogno che nella veglia; dubitare di queste proposizioni sarebbe possibile solo spingendosi
al di là della ragione stessa, ed è possibile solo per colui che la ragione ha fatto, cioè Dio. Un Dio
onnipotente potrebbe far sì che non esistano fuori della mente né i corpi composti né le nature
semplici, e potrebbe far sì che le proposizioni della matematica, di cui la mente umana non riesce
a dubitare, siano fallaci. In questo modo un nuovo argomento scettico, impensato dallo scetticismo
classico, si rivela pensabile e operativo. La strategia di Descartes consisterà nel dimostrare che
l’ipotesi di un Dio potentissimo che abbia condannato la mente umana all’inganno è concepibile
solo in quanto è sorretta da un’idea oscura e confusa di Dio; quando si sarà raggiunta un’idea
chiara e distinta di Dio, tutto ciò apparirà contraddittorio e le idee chiare e distinte non saranno
sotto nessun aspetto dubitabili.
La seconda Meditazione è idealmente divisa in tre parti, in cui si indaga l’esistenza dell’io, la natura
dell’io e si dimostra che la mente è conosciuta più facilmente del corpo.
In questa epoché universale, la proposizione “io sono, io esisto” è capace di resistere a tutti i
dubbi, raggiungendo la coincidenza tra indubitabilità psicologica e normativa; è evidente che
secondo Descartes il pensiero è l’unica attività che attesta in modo indubitabile l’esistenza dell’io, e
anche che in ogni attività dell’io è implicato il pensiero; ciò permette a Descartes di trasformare
l’esperienza dell’esistenza di un pensare nell’esperienza dell’io che pensa. Non c’è ‘passaggio’, ma
piuttosto esperienza della propria esistenza nel pensiero. Il cogito, in quanto primo principio, non è
dimostrabile, ma la possibilità di concedere la sua validità consiste nel mostrare come la sua
stessa negazione ne implichi la conferma; inoltre ha una peculiarità che gli altri principi non hanno:
gli assiomi, infatti, non producono vera conoscenza, mentre il cogito, sum, unico tra tutti i principi,
pone una esistenza, quella dell’io. Descartes insiste sul suo carattere intuitivo, tant’è che nega che
l’intera proposizione sia opera di un ragionamento, e, per designare il genere di conoscenza cui
riferire il cogito, sceglie il verbo sentire.
Descartes si pone in aperta rottura con la tradizione aristotelica e con l’empirismo: poiché è il
pensiero che fa conoscere la capacità dell’io di sussistere indipendentemente da altro, il pensiero è
conosciuto come l’attributo principale (l’essenza) dell’io: io mi conosco come una cosa (“res”) che
pensa. Benché Descartes non usi qui il termine “sostanza”, il termine “cosa” esprime lo stesso
concetto. La tesi che Descartes vuol ricavare per analisi della proposizione penso, esisto è assai
impegnativa: mi conosco come una sostanza la cui natura è costituita dal solo pensiero, in frontale
opposizione alla tesi aristotelica secondo la quale la sostanza umana è un composto di una forma
(l’anima) e di una materia (il corpo). Dunque io concepisco chiaramente e distintamente che l’io
può sussistere senza il corpo, dunque concepisco l’io come una cosa completa, ovvero come una
sostanza, senza il corpo, dunque concepisco che alla natura dell’io non appartiene la corporeità.
Le conclusioni che è già legittimo trarre non permettono ancora di asserire che, poiché mi conosco
chiaramente e distintamente come cosa completa in forza del solo pensiero, allora io sono in realtà
una sostanza pensante la cui natura consiste solo nel pensare. Da questa ulteriore conclusione mi
separa l’ipotesi, ancora in atto, del Dio infinitamente potente che potrebbe aver costruito la mia
mente come naturalmente propensa all’errore, e che impedisce di utilizzare la conoscenza chiara e
distinta come segno del vero.
Tutto ciò è già sufficiente per rompere la premessa dell’empirismo: che i corpi siano la prima cosa
conosciuta e che la conoscenza della mente ne dipenda.
Attraverso il celebre esempio del pezzo di cera, Descartes afferma che ogni corpo è passibile di
infiniti cambiamenti; l’immaginazione non è capace di percorrere ed esaurire questa infinità,
dunque non è né coi sensi né con l’immaginazione che io conosco i corpi, ma con l’intelletto, che è
capace di esprimere l’infinito con il solo concetto, senza il sussidio delle immagini. L’alternativa
dunque non è tra una conoscenza intellettuale chiara e distinta e una conoscenza sensibile oscura
e confusa, ma tra una conoscenza intellettuale oscura e confusa e una conoscenza intellettuale
chiara e distinta. L’empirismo aristotelico-scolastico è stato così rovesciato sul suo stesso terreno:
tanto poco la conoscenza intellettuale dipende dall’esperienza, che l’esperienza stessa dipende
dalla conoscenza intellettuale.
Dunque l’esperienza è possibile grazie a idee che non provengono dall’esperienza; questo primo
risultato ne implica subito un altro: solo quando conosco la cera con il solo intelletto ne ho una
conoscenza chiara e distinta e ne conosco la natura, poiché sono giunto alla nozione non empirica
che rende possibile ogni conoscenza. Ora Descartes può trarre la conseguenza annunciata fin dal
titolo della Meditazione. Poiché i corpi sono conosciuti attraverso proprietà che non provengono
per astrazione dai corpi stessi, ma attraverso idee, per dir così, a priori, dell’intelletto, o del
pensiero puro, ne segue che la conoscenza dell’anima deve essere più facile da acquisire della
conoscenza dei corpi, in forza del principio secondo il quale la conoscenza della condizione e più
facile di quella del condizionato.
La terza Meditazione si apre con la speranza di poter utilizzare le caratteristiche della prima
proposizione indubitabile penso, sono, come un criterio che permetta di distinguere le proposizioni
vere da quelle dubbie, ossia dimostrando che Dio esiste e non è ingannatore.
Il solo modo per guadagnare l’esistenza di qualche altro ente, oltre l’io, all’interno delle regole del
meditare, è di utilizzare quanto è già acquisito come vero, ossia l’esistenza dell’io e i contenuti del
pensiero: le idee, che non possono mai essere false perché precedono l’attività del giudizio.
Queste, secondo la loro origine, si dividono in innate, se sono nate con me, avventizie se sono
estranee e venute da fuori, e fattizie, se fatte e inventate da me stesso; secondo la loro natura,
invece, possono essere divise in una categoria ristretta - le idee in senso proprio -, per la quale si
attribuisce il nome di idea solo a quegli eventi mentali che rappresentano qualcosa, e una
allargata, per la quale ogni atto del pensiero è un’idea. Inoltre, ciò che l’idea rappresenta,
considerato in sé, indipendentemente dall’essere conosciuto, ha una realtà formale; la stessa
cosa, invece, in quanto è conosciuta ha una realtà oggettiva all’interno della mente. Questa è
infatti la natura della mente: pur non rappresentando sempre qualcosa che appartiene all’essere
reale, le idee in senso proprio presentano sempre il loro contenuto rappresentativo come se ad
esso competesse una esistenza extramentale almeno possibile; infatti oggetto del pensiero è
l’ente, non essendo possibile pensare il niente.
Descartes procede, in questa Meditazione, elaborando due prove a posteriori dell’esistenza di Dio;
la prima può essere così schematizzata:

Nella causa deve esserci almeno tanta realtà quanta nell’effetto;


La causa della realtà oggettiva delle idee deve avere almeno altrettanta realtà formale
quanta realtà oggettiva è contenuta nell’idea;
L’io possiede l’idea di una sostanza infinita;
L’io, in quanto sostanza finita, non ha sufficiente realtà formale per causare la realtà
oggettiva di una sostanza infinita;
Dunque, esiste una sostanza infinita che ha causato la realtà oggettiva dell’idea della
sostanza infinita.

La rottura della tesi cartesiana con quella tomista è evidente. In primo luogo, l’idea di Dio è chiara
e distinta - anzi, più chiara e più distinta delle altre - perché tutto quel che è conosciuto come
perfetto in modo chiaro e distinto viene attribuito a Dio, quindi Dio, in quanto permettessimo è la
fonte di tutte le idee chiare e distinte; in secondo luogo, la natura dell’infinito è di essere
incomprensibile alla mente finita, quindi chi sostenesse di comprendere l’infinito, ammetterebbe
con ciò stesso di non averne idea chiara e distinta, poiché crederebbe di pensare all’infinito e
invece penserebbe al finito che, solo, può essere compreso nei limiti finiti della mente umana. Nei
confronti di Dio non si usa infatti la nozione di “comprensione”, ma si dirà invece che lo
“intendiamo”.
La seconda prova dell’esistenza di Dio segue il seguente schema:
Dall’esistenza presente non segue l’esistenza futura;
È necessaria una causa che ricrei un ente esistente in ogni istante in cui quell’ente dura;
La causa di un ente deve possedere formalmente o eminentemente tutta la realtà
posseduta da quell’ente;
Esiste un ente - l’io, sostanza pensante finita - in possesso dell’idea di Dio;
La causa dell’io in possesso dell’idea di Dio deve essere una sostanza pensante in
possesso dell’idea di Dio;
La causa dell’io è per sé o per altri;
Se la causa dell’io è per altri sarà causata da un’altra sostanza pensante in possesso
dell’idea di Dio;
Nel presente non è possibile il regresso all’infinito;
Esiste una causa prima dell’io, e questa causa è per sé;
Chi ha sufficiente forza per darsi l’essere ha sufficiente forza per darsi tutte le perfezioni di
cui ha l’idea;
La causa prima ha sufficiente forza per darsi tutte le perfezioni;
La causa prima ha l’idea di tutte le perfezioni;
La causa prima necessariamente si darà tutte le perfezioni di cui ha idea;
Dunque, la causa prima è un ente perfettissimo, ovvero è Dio.

Tanta complessità argomentata si spiega con la volontà di riprodurre lo schema tomista, ma il


primo correttivo è l’inserimento, anche in questa prova, dell’idea di Dio: senza la conoscenza di Dio
non è mai possibile provare che la causa prima è Dio. Inoltre Descartes ha scelto di impostare la
prova ricercando la causa dell’esistenza dell’io nel tempo presente poiché ritiene che la scolastica
abbia sbagliato nel ritenere il regresso delle cause nel tempo passato impossibile; esso semmai è
incomprensibile per la mente umana. Se quindi si ricercasse la causa prima regredendo nella serie
delle cause nel tempo passato si procederebbe all’infinito e non accadrebbe mai di incontrare una
prima causa. Infine, Descartes introduce una novità stupefacente rispetto alla tradizione, ovvero
l’ipotesi di autocausalità, respinta come contraddittoria da tutta la scolastica, che diviene qui invece
condizione che rende possibile dimostrare che la causa prima è anche l’ente perfettissimo.
Si è dunque dimostrato che Dio esiste, grazie all’idea chiara e distinta di Dio. Ora, quella stessa
idea assicura che Dio non può essere ingannatore, poiché l’inganno dipende necessariamente da
qualche difetto; sappiamo dunque che Dio ha bensì la capacita di creare nella mente una falsa
evidenza, ma che non utilizzerà mai quel potere, perché se lo facesse la mente umana sarebbe
tratta in inganno da Dio stesso, e questo è impossibile perché Dio, oltre che infinitamente potente,
è anche verace.
L’origine dell’idea di Dio è ricavata per esclusione dalle altre origini possibili: non può essere
avventizia perché ha richiesto una scelta volontaria di attenzione; non può essere fattizia poiché il
contenuto di questa idea si impone alla mente senza che sia possibile manipolarlo e modificarlo;
dunque l’idea di Dio è innata.
Solo nella quarta Meditazione la veracità divina può dirsi definitivamente dimostrata, perché in
questa Meditazione viene risolta l’obiezione che, contro la veracità divina, può essere sollevata a
partire dall’errore.
Descartes ricalca lo schema di teodicea elaborato dalla tradizione agostiniano-tomista, che
distingue due tipi di male: il male di negazione e il male di privazione. Il primo indica il limite
costitutivo di una determinata natura, conseguenza della finitezza di ogni creatura; il secondo
invece indica la mancanza di qualcosa che fa parte di una certa natura. La giustificazione di Dio
viene costruita su due tesi di fondo: in primo luogo, ogni male è riconducibile sempre, rispetto a
Dio, a male di negazione, ovvero alla finitezza della creatura e alla fallibilità del libero arbitrio
umano. La natura umana è fallibile perché è finita, ma non condannata al male, perché libera nella
scelta. Il secondo argomento sostiene che la presenza del male contribuisce alla bellezza
dell’insieme, poiché molti beni scomparirebbero, se Dio non permettesse che si desse alcun male,
e quindi la presenza del male è resa compatibile col supposto progetto divino di creare un’opera
perfetta, ossia con la bontà divina.
L’errore per Descartes di produce solo nel giudizio, per il quale concorrono due facoltà: l’intelletto e
la volontà. Il primo contiene il materiale del giudizio, mentre la volontà opera il vero e proprio
giudizio. L’intelletto umano è finito, ma non imperfetto nel suo genere, né si vede perché Dio fosse
tenuto a concederne uno più ampio; la volontà, per parte sua, è illimitata, e per la sua indefinitezza
è ciò che nell’uomo porta l’immagine dell’infinito e di Dio. Essendo le due facoltà in nulla
manchevoli, non vi è nell’errore difetto che sia imputabile a Dio. L’errore si produce a causa della
sproporzione tra le due facoltà coinvolte: la volontà può superare il dato offerto dall’intelletto e
affermare qualcosa di quel contenuto, capacità sfruttata, peraltro, nella prima Meditazione.
La teodicea della quarta Meditazione va dunque interpretata come una sorta di teodicea ipotetica:
ammettendo che si possano indagare i fini di Dio e ammettendo quindi che abbia senso chiedere a
Dio ragione della presenza dell’errore, anche in questo caso è possibile dimostrare l’innocenza di
Dio.
Nella quinta Meditazione, grazie alla veracità divina, è possibile assicurare che ciò che è
conosciuto come l’essenza delle cose materiali lo è in effetti.
La tesi secondo la quale nella mente vi sono idee innate è la base di tutta la teoria della
conoscenza cartesiana. La teoria delle idee innate si basa sulla resistenza di un certo contenuto
del pensiero all’attività della mente (in opposizione alle idee fattizie), pur in assenza di qualcosa di
esistente che si imponga alla mente (contro le idee avventizie); la resistenza del contenuto delle
idee innate all’attività della mente impone di ipotizzare che ad esse corrispondano le essenze delle
cose, che fanno parte dell’essere reale, e per questo possono esistere. Perché una idea
rappresenti qualcosa che appartiene all’essere reale, deve essere impossibile negare uno
qualunque degli elementi che la compongono senza cadere in contraddizione e deve essere
possibile scoprire proprietà che erano ignorate al momento della prima percezione (nelle idee
innate infatti vige la logica della scoperta, essendo sistemi aperti).
L’immaginazione è la facoltà che, per definizione, è deputata solo alla conoscenza di ciò che è
materiale, e ha un duplice aspetto: rievocare ed elaborare immagini recepite attraverso i sensi, e
tradurre in immagini fisiche idee puramente intellettuali adeguandosi interamente alle
caratteristiche delle idee innate (cioè di poter decidere se immaginarle ma non cosa immaginare).
Ciò che non è immaginabile non è sicuramente materiale; immaginazione e intelletto, uniti
assieme, possono assicurare solo che la materia può esistere, ma non che esiste in effetti, poiché
la prova dell’esistenza della materia può fornirla solo la sensibilità, e ciò avverrà nella sesta
Meditazione.
Descartes inserisce a questo punto una nuova prova dell’esistenza di Dio, ma questa volta a priori.
Questa prova è assai semplice:

Dio è l’ente perfettissimo;


L’esistenza è una perfezione;
Dio esiste.

La prova richiama alla mente la prova che sant’Anselmo aveva elaborato, respinta da Tommaso
invocando l’illegittimità di inferire da un’esistenza pensata una esistenza fuori dal pensiero.
Secondo Descartes, ciò che manca nell’argomento di Anselmo è la teoria innatista: se l’idea di Dio
è innata, essa rappresenta una vera natura; in quanto tale fa parte dell’essere reale, quindi
contiene in sé l’esistenza, che non è solo pensata, ma è già una esistenza indipendente dal
pensiero. Per questa ragione, e per il fatto che la prova è costruita in analogia stretta con i teoremi
della matematica, la prova a priori non può che trovarsi nel luogo nel quale la teoria innatista è
pienamente sviluppata.
La sesta Meditazione è dedicata a dimostrare l’esistenza dei corpi, che esiste il corpo che chiamo
mio e che esso è realmente distinto dalla sostanza spirituale.
Due acquisizioni rendono solo ora possibile compiere la dimostrazione della distinzione reale tra
mente e corpo: la veracità divina e la conoscenza della natura del corpo. Come il pensiero è
l’attributo che fa conoscere la capacità dell’io di sussistere indipendentemente da altro, così
l’estensione è l’attributo che fa conoscere il corpo capace di sussistere indipendentemente dalla
mente; la loro unione di fatto non impedisce che essi rimangano due sostanze realmente distinte
l’una dall’altra.
Per provare l’immortalità dell’anima non sono sufficienti tutte queste premesse; devono
aggiungersi altre teorie che non compaiono nelle Meditazioni, perché “dipendono dalla spiegazione
di tutta la Fisica”. In primo luogo, si deve sapere che le sostanze, per loro natura, sono
incorruttibili, annientabili solo dalla volontà di Dio; nella morte dunque non si verifica
l’annientamento di nessuna sostanza.
Per stabilire l’immortalità dell’anima, la dimostrazione della distinzione reale tra mente e corpo
contenuta nelle Meditazioni è insieme troppo e troppo poco: troppo, perché nella morte non v’è
annientamento della sostanza corporea, e quindi la morte del corpo non interessa nessuna
sostanza, e troppo poco, perché la distinzione reale è insufficiente a dimostrare l’immortalità
dell’anima se non si aggiunge che le sostanze sono per loro natura immortali.
L’esistenza dei corpi è dimostrata da Descartes attraverso le idea fattizie della sensazione;
l’immaginazione partecipa del contenuto del puro intelletto, ma lo conosce in maniera diversa:
essa è in grado di tradurre in immagini mentali i concetti delle figure geometriche di origine
intellettuale. La diversità nelle modalità della conoscenza di un contenuto di sicura origine
immateriale è giudicato un indizio serio ma non definitivo per dimostrare con certezza che esistono
i corpi. Ma l’immaginazione ha anche la capacità di tradurre in immagini mentali, combinandolo
liberamente, il materiale che le proviene dalla sensibilità. Ma ora che un Dio verace garantisce che
quel che percepisco chiaramente e distintamente come natura dell’io lo è veramente, io non posso
dubitare che, se possedessi una facoltà di questo genere, ne sarei consapevole, poiché niente si
svolge nel pensiero di cui l’io non sia cosciente. La passività della sensazione implica dunque la
presenza di una potenza attiva che causi le sensazioni, e questa potenza, se non può appartenere
all’io in quanto sostanza pensante, non può essere che in Dio o nei corpi esterni. Per decidere tra
queste due possibilità, Descartes si serve di una ragione che non era sembrata sufficiente, nella
terza Meditazione, a dimostrare l’esistenza dei corpi: la forte propensione a credere nella loro
esistenza, come causa delle idee avventizie. La veracità divina fornisce ancora una volta un
discrimine tra dubbi non più attuali e dubbi ancora legittimi. L’inattualità di alcuni dubbi permette di
giungere ad una conclusione positiva: esistono corpi fuori della mente.
Descartes si trova a dover fare i conti con il modello platonico e aristotelico circa il problema del
tipo di unione tra le due sostanze che la conoscenza intellettuale ha stabilito essere realmente
distinte. La via che percorre è quella di assumere sia il modello platonico che quello aristotelico: la
mente e il corpo sono due sostanze realmente distinte, quindi le idee intellettuali hanno tutte
origine non sensibile; tuttavia mente e corpo sono uniti in modo da formare una vera e propria
terza sostanza, poiché solo così si spiegano le idee oscure e confuse della sensibilità. La finalità
che ha guidato l’operato divino nell’unire in un certo modo la mente e il corpo è stata dunque
esclusivamente pratica, e per questo si può dire che Dio è stato, ancora una volta, verace, nel
senso che veramente i sentimenti provocati nella mente dalle modificazioni del corpo indicano quel
che è utile o dannoso al composto, e quindi anche questi sentimenti dicono il vero.
Tuttavia esistono pulsioni e sentimenti che spingono in modo irresistibile verso obiettivi che invece
si rivelano dannosi per il composto anima-corpo (come il caso dell’idropisia). La risposta di
Descartes è sorprendente, poiché afferma che Dio non è colpevole nemmeno in questi casi, e
quindi la sua veracità è salva, perché non poteva fare altrimenti: una volta costruita la macchina
umana, e una volta stabilito che ad un certo movimento provocato nel cervello corrisponde una
determinata sensazione nella mente, Dio non può più modificare le sue decisioni, poiché la sua
immutabilità glielo impedisce. Tutto quello che poteva fare per raggiungere lo scopo di garantire al
meglio il benessere dell’uomo, Dio l’ha fatto.
Per la prima volta nella storia della teologia razionale di ispirazione cristiana, un filosofo ha
ammesso che il male che l’uomo sperimenta in natura non è dovuto all’ottica limitata della mente
umana ma è un male reale, che appare tale anche allo sguardo divino, perché ne viola le
intenzioni.

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