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“La mia vista peggiora sempre di più...

11

Capitolo
l’oculista mi ha detto che posso lavorare solo un po’...
lo faccio con molta difficoltà e con una grande tristezza”
(Edgard Degas )

QUaNDo l’aRtiSta Si aMMala

La malattia in un artista può comportare importanti implicazioni sui


risultati qualitativi o quantitativi della sua produzione. La malattia è
in grado di influenzare la sua visione del mondo, la creatività, l’emo-
tività interiore e quindi le sue caratteristiche espressive, ma anche di
modificare, e questo vale per alcune malattie invalidanti, l’aspetto
tecnico-esecutivo dell’opera. Può esserci pertanto una stretta corre-
lazione tra lo stato morboso e quello che l’artista dipinge ma anche
come lo dipinge [1].
Esistono infermità che possono essere altamente vincolanti da questo
punto di vista, rappresentate sostanzialmente dai disturbi neurolo-
gici, psichiatrici, reumatologici, oculistici. In questi casi il rapporto
tra Medicina ed Arte acquista una sfumatura particolare: lo stato di
malattia viene percepito come fattore condizionante la possibilità, la
capacità, la modalità di effettuare un’attività creativa, particolarmente
nel campo dell’Arte figurativa.
Non sempre la forma morbosa limita la creatività dell’artista, a volte
come in de Chirico, Klee, Van Gogh, paradossalmente la arricchisce
di motivi singolari ed innovativi.
La ricostruzione di una determinata patologia attraverso le opere di
individui con forte personalità creativa viene denominata patografia.
Gli studi patografici a tal proposito sono molto numerosi, e riguar-
dano anche artisti di grande levatura di cui è significativo notare ad
esempio le trasformazioni nella scelta dei soggetti, nelle tinte croma-
tiche o nella tecnica di esecuzione in relazione alla comparsa di una
determinata infermità.
Questo argomento ha entusiasmato e continua ad entusiasmare la
classe medica, e la letteratura è ricchissima di studi e di ricerche
volte ad analizzare il legame tra la patologia di un maestro ed un’ap-
prezzabile variazione in qualità o in quantità del suo repertorio.

Disturbi neurologici

La neurologia della creatività è una branca di recente introduzione


che indaga sui processi di produzione delle opere d’arte. I relativi
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Q UANDO L’ARTISTA SI AMMALA

approfondimenti di natura neuropatografica hanno avuto come sog-


getti pazienti epilettici, dementi o con danni cerebrali ischemici o
ancora con lesioni intracraniche [2-4].
Da qualche anno l’emicrania è entrata da protagonista in questo tipo
di studi: le manifestazioni della malattia e soprattutto l’aura che la
può precedere sono caratterizzate da disturbi temporanei della per-
cezione visiva e della parola, stati di sdoppiamento e di scissione
della coscienza, disturbi della memoria o paramnesie, disturbi della
propria percezione corporea o somestesici, parestesie, cioè sensazio-
ne di formicolio, intorpidimento o freddo in alcune parti del corpo o
su tutto il corpo, stati onirici o deliranti, incubi, sogni lucidi.
La sintomatologia maggiormente riferita è quella visiva, rappresen-
tata da luci puntiformi o da stelle colorate e pulsanti, lampi, strisce o
globi luminosi, forme geometriche, bordi luminosi che circondano le
cose, il cosiddetto “fenomeno corona”, scotomi negativi o scintillanti,
vale a dire zone cieche del campo visivo delimitate nel secondo caso
da un bordo formato da tremule e scintillanti linee a zigzag.
In Inghilterra negli anni Ottanta un’associazione che si interessava di
emicrania, la British Migraine Association ed una casa farmaceutica,
la Boehringer Ingelheim, decisero di allestire un concorso di pittura
riservato esclusivamente a pazienti emicranici che venivano invitati a
trasferire sulla tela le proprie esperienze sensoriali in corso di attacco. I
risultati furono sorprendenti: i motivi pittorici riprodotti tendevano ad
essere comuni e ricorrenti, come figure nere contornate da linee zig-
zaganti, rappresentazione di uno scotoma, o anche corpi geometrici,
spettri cromatici, figure caleidoscopiche, espressioni di allucinazioni
visive, sciami di punti o di stelle, evocanti dei fosfeni, oggetti delimitati
da un alone luminoso, che rimandano al “fenomeno corona”.
Gran parte del corredo sintomatologico auratico veniva direttamen-
te tradotto in espressione artistica da chi ne era colpito: era nata
la migraine art, l’arte emicranica, che consente di analizzare le basi
neuropatologiche che influenzano le rappresentazioni pittoriche dei
malati di emicrania, e che con gli anni ha avuto un numero sempre
maggiore di sostenitori [5-8].
Numerosi artisti hanno sofferto di emicrania, di questi il più illustre
è stato l’italiano Giorgio de Chirico (1888-1978), grande ed insupe-
rato interprete della pittura metafisica, fatta di immagini misteriose,
oniriche, disinserite dal tempo e dallo spazio reale, caratterizzate da
una forte valenza simbolica.
De Chirico non aveva la consapevolezza di essere affetto da emicra-
nia, perché la diagnosi è stata effettuata a posteriori in base all’inter-
pretazione di alcuni scritti autobiografici e di diversi suoi dipinti.
Secondo Fuller e Gale, il maestro soffriva di una forma di emi-
crania addominale accompagnata da fenomeni auratici. I sintomi
riferiti dall’illustre paziente erano attacchi periodici di malessere
caratterizzati da dolore addominale, vomito ed anoressia associati a
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CAPITOLO 11
fenomeni luminosi, scotomi scintillanti, paramnesie, allucinazioni
somestesiche [4,9].
Tutto questo ricco corredo di sintomi per de Chirico era da mette-
re in relazione alla sua grande personalità: per tale motivo l’artista
parlava di febbri spirituali, di premonizioni, di visioni di fantasmi,
ritenendo in ultima analisi di essere, ispirato dalle letture di Niet-
zsche, un superuomo dotato di poteri speciali se non addirittura
paranormali [10].
Esistono note di arte emicranica nei dipinti di de Chirico? Il tema
è stato accuratamente analizzato da diversi studiosi ed ha portato
alla conclusione che in alcuni dipinti del maestro, soprattutto del
periodo metafisico, si possono percepire elementi riferibili alla feno-
menologia auratica [4,11].
“Autoritratto” del 1925 è una delle opere che merita di essere analiz-
zata da questo punto di vista.
L’artista riesce a rendere magistralmente sulla tela la sensazione del-
le parestesie progressive che partendo dalle estremità si estendono
a tutto il corpo. De Chirico ritrae se stesso come un uomo in fase
di progressiva marmorizzazione in cui la mano destra appare già
completamente pietrificata e di un colore bianco marmoreo, rigida,
senza vitalità. Il protagonista appare sereno, per nulla preoccupato
dal fenomeno, probabilmente perché già vissuto altre volte in cor-
so di attacchi emicranici precedenti e perché consapevole della sua
transitorietà [4] (Fig. 1).
„ Figura 1
Giorgio de Chirico.
Autoritratto (1925).
Tempera su tela, 75 x 62 cm.
Collezione privata.

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Q UANDO L’ARTISTA SI AMMALA

La famosa serie dei “Bagni misteriosi” si incentra su


ambientazioni balneari in cui caoticamente com-
paiono bagnanti, cabine, persone vestite di tutto
punto e soprattutto l’acqua, spesso rappresentata
secondo linee misteriose a zigzag, frequentemente
presenti nell’arte emicranica. Sono opere visionarie,
inquietanti.
In “Edipo e la Sfinge” del 1968 compaiono come rap-
presentazioni auratiche nastri e spirali che divente-
ranno un motivo costante di molti Interni metafisici
successivi.
Queste allucinazioni rielaborate e riprodotte sulla
tela dal maestro vengono da lui vivacemente descrit-
te nel libro autobiografico Ebdòmero: “Nastri incante-
voli, fiamme senza calore, avventate in alto come lingue
lunghe, bolle inquietanti, linee tirate con maestria di cui
„ Figura 2 credeva persino il ricordo perduto già da lungo tempo, onde tenerissime,
Giorgio de Chirico. ostinate ed isocrone, salivano e salivano senza fine verso il soffitto della
Edipo e la Sfinge (1968).
Olio su tela, 60 x 40 cm. camera” [4,10] (Fig. 2).
Fondazione Giorgio e Isa Nell’opera “Il ritorno al castello” del 1969 si rileva il profilo completa-
de Chirico, Roma.
mente nero ed a margini seghettati di un uomo a cavallo che sta at-

„ Figura 3
Giorgio de Chirico.
Il ritorno al castello (1969).
Tecnica mista su cartone telato,
60 x 49 cm.
Fondazione Giorgio e Isa
de Chirico, Roma.

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CAPITOLO 11
traversando un ponte. Sotto un cielo grigio e illuminato
da una falce di luna un imponente castello si alza sullo
sfondo. Ci troviamo di fronte ad una evidente raffigura-
zione di uno scotoma, rappresentato da una figura nera
cancellata alla percezione visiva e delimitata da linee a
zigzag [4,9] (Fig. 3).
In un altro famoso dipinto dello stesso anno, “Il rimorso
di Oreste”, si apprezza una figura umana nuda ritratta di
spalle ed attorniata da numerose figure geometriche, da-
vanti alla quale come un’ombra si staglia una silhouette
nera delimitata da bordi a zigzag che rassomiglia ad un
uomo con le braccia tese.
Anche in questo caso la figura nera di foggia umana po-
trebbe evocare uno scotoma. Gli elementi geometrici
presenti nel dipinto, insistentemente riproposti soprat-
tutto durante i periodi metafisico e neometafisico, potrebbero essere „ Figura 4
collegabili anch’essi alla sintomatologia auratica. Giorgio de Chirico.
Il rimorso di Oreste (1969).
Una coppia di nastri arricciati posti a delimitare la scena riconduce Olio su tela, 90 x 70 cm.
infine a motivi peculiari già rammentati della fenomenologia auratica Fondazione Giorgio e Isa
de Chirico, Roma.
[4,12] (Fig. 4).
Ci sono tanti altri dipinti del maestro nei quali si possono riconoscere
motivi pittorici che fanno parte della iconografia dell’arte emicranica.
Quello da sottolineare tuttavia è che in tutta la sua produzione arti-
stica non si debba riconoscere unicamente una base neuropatologica.
A differenza dei pittori d’arte emicranica che si limitano a fornire
una documentazione grafica dei propri sintomi, de Chirico prendeva
spunto dai fenomeni auratici per rielaborare, integrare, ampliare le
proprie esperienze sensoriali con contenuti storici, mitologici, cultu-
rali, filosofici che hanno permesso alla sua pittura di essere unica ed
assolutamente originale ed a lui stesso di diventare uno dei maggiori
interpreti dell’arte del XX secolo [4,11].

Disturbi psichiatrici

È lungo l’elenco degli artisti affetti da disturbi della personalità e


comportamentali di tipo nevrotico, da Michelangelo Buonarroti
a Benvenuto Cellini, dal Pontormo, al Caravaggio per citare i più
famosi: in tutti costoro gli elementi psicopatologici del carattere
non influirono assolutamente sulla qualità e quantità della pro-
duzione artistica.
Sensibilmente diverse sono le influenze esercitate sulla creatività di
un artista da gravi patologie psichiatriche di tipo psicotico o depres-
sivo [13-16].
Le correlazioni intuite dagli studiosi di patografia tra le fasi di una
psicosi schizofrenica e le trasformazioni avvenute nello stile e nella
tecnica pittorica di alcuni artisti, hanno fornito lo spunto per racco-
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Q UANDO L’ARTISTA SI AMMALA

gliere in modo estensivo, come nell’arte emicranica, le rappresen-


tazioni pittoriche dei pazienti psicotici, dando origine a quella che
viene denominata arte schizofrenica o psychotic art.
Queste ricerche hanno consentito di fare luce su diversi aspetti della
malattia e sulle modalità di comunicazione e di relazione del pazien-
te schizofrenico.
L’arte schizofrenica, al pari di quella emicranica, ha richiamato in
questi ultimi anni un numero sempre maggiore di studiosi e, a dif-
ferenza di quest’ultima, ha dimostrato di essere dotata non solo di
un’importante valenza documentativo-diagnostica, ma anche pro-
gnostica e terapeutica [14,17,18].
L’inglese Louis Wain (1860-1939) era conosciuto come “il pittore
dei gatti”, perché questi rappresentarono una caratteristica pressoché
costante dei suoi dipinti.
L’amore per questi felini nacque grazie al gatto di casa Peter a cui
la moglie, morta precocemente di cancro, era legatissima. La morte
della moglie fu il primum movens che avrebbe facilitato a distanza di
anni lo sviluppo della malattia mentale dell’artista, unitamente alla
sua scelta, a volte ossessiva, di collocare i gatti come protagonisti
delle sue opere. Gatti di diverso colore, grandezza e razza, gatti con
aspetto ed atteggiamenti antropomorfi vestiti con gli abiti alla moda,
gatti che camminano in posizione eretta e che attendono alle più
svariate mansioni come fumare, pescare, suonare strumenti musicali,
giocare a carte, giocare a golf, pattinare su ghiaccio.
Questa particolarità tematica procurò a Wain un successo notevole
nell’Inghilterra vittoriana di fine ottocento.
Dopo lo scoppio della prima guerra mondiale la sua celebrità declinò
rapidamente assieme al suo equilibrio psichico: iniziò a diventare
violento, intrattabile, cominciò ad isolarsi ed iniziarono a comparire
i primi episodi deliranti.
A 57 anni gli venne diagnosticata una grave forma di schizofrenia
ad esordio tardivo ed iniziarono per lui i ricoveri in ospedale. No-
nostante le varie degenze, l’artista continuò a dipingere, ma i suoi
gatti col progredire della malattia si trasformarono profondamente
nei tratti.
Il graduale dissolversi dell’approccio alla realtà iniziò dal colore, che
diventò sgargiante e violento, per poi procedere con la forma. I corpi
degli animali si deformarono, gli occhi diventarono mostruosamente
grandi e fissi, l’espressione ostile, in relazione probabilmente all’idea
delirante dell’artista che il mondo lo stesse minacciando. Nelle ulti-
me rappresentazioni, quelle del cosiddetto “periodo caleidoscopico”,
i felini vennero come scomposti fino al limite della riconoscibilità,
quasi esplodendo in una sorta di nuvola di figure e linee geometriche
multicolori [19].
Vengono presentati otto dipinti cronologicamente successivi di Louis
Wain in cui si possono facilmente apprezzare le progressive modifi-
224
CAPITOLO 11
cazioni tecnico-stilistiche dei suoi famosi gatti in relazione agli stadi
della malattia.
Nel dipinto numero 1, eseguito prima della comparsa dei sintomi
psicotici, appare un gatto ben riconoscibile, con tratti del tutto nor-
mali. In quello numero 2 l’unica particolarità è data da uno sfon-
do anomalo e bizzarro a motivi astratti, che per qualche studioso
potrebbe richiamare la patologia schizofrenica. Nel terzo dipinto
sono presenti delle evidenti trasformazioni rappresentate dalle linee
dentellate concentriche che circondano come un alone la figura del
gatto e che potrebbero rappresentare l’energia emanata dall’animale;
gli occhi non sono più vivaci ed espressivi ma brillano di una luce
minacciosa. Nei cinque dipinti successivi il mutamento tecnico-sti-
listico è ormai nettissimo: i colori sono via via sempre più violenti,
aggressivi, stesi caoticamente fino a riprodurre un’immagine caleido-
scopica; il profilo degli animali tende a deformarsi profondamente,
gli occhi e l’espressione assumono un aspetto mostruoso, quasi de-
moniaco e negli ultimi due dipinti infine la fisionomia del gatto non
è più riconoscibile (Fig. 5).
L’interrelazione tra sindrome depressiva e creatività artistica è stata
accertata da tempo.
Numerosi artisti, da Goya a Van Gogh a Munch, per citare i più fa-
mosi, hanno sensibilmente modificato i soggetti ed i toni cromatici
delle loro opere in relazione a disturbi di tipo depressivo comparsi
durante la loro esistenza: i dipinti si sono incupiti nei temi, nei co-
lori, nella luce, in relazione alla sofferenza con cui ciascuno di essi
viveva la propria malattia [16,20-23].
Molto esemplificativo a questo riguardo è il percorso artistico di Rem-
brandt van Rijn (1606-1669), grande pittore ed incisore olandese.
Dai dati biografici si appura che l’artista soffrì di disturbi bipolari
della personalità. Negli anni giovanili era dotato di un temperamento
esuberante e volubile con eccessi di prodigalità tali da comportargli
successivamente seri problemi economici. Dopo il 1630, in relazione
a lutti familiari e soprattutto alla perdita della madre nel 1640, Rem-
„ Figura 5
Louis Wain.
Gatti (1925-1939).
Tecnica gouache su carta.
Art Gallery, State University
of Campinas, Brasile.

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Q UANDO L’ARTISTA SI AMMALA

brandt entrò in un’evidente “crisi” esistenziale,


precipitata dalla morte dell’adorata moglie Sa-
skia nel 1642. Questa “crisi”, segnalata puntual-
mente dai biografi dell’artista, potrebbe avere i
caratteri di una depressione reattiva.
Dopo la morte della moglie la vita del maestro
venne improntata alla spiritualità ed alla sobrie-
tà, come era stato scapestrato e dissipato il pe-
riodo precedente [24-26].
La sua pittura, da ricca, spettacolare, vivacemen-
te contrastata e dettagliata, si fa più misurata,
essenziale, più volta all’introspezione, mentre
comincia a comparire più frequentemente il
tema della morte, segno di un profondo disagio
interiore; solo negli ultimi anni l’artista ripren-
„„Figura 6 derà a comporre opere cromaticamente più vive.
Rembrandt van Rijn. Un’opera grafica del 1642, “Studioso al tavolo al lume di candela”, ri-
Studioso al tavolo al lume di
candela (1642). sulta emblematica sotto questo aspetto.
Incisione, 17.5 x 15 cm. L’incisione rappresenta lo stesso pittore seduto davanti ad una scriva-
Harvard University Art Museum,
Fogg Art Museum, nia. Il libro aperto di fronte a lui sembra non interessarlo a giudicare
Cambridge, MA. dall’atteggiamento, il capo appoggiato alla mano sinistra, lo sguardo
volto verso l’osservatore (la moglie morta?), l’espressione triste e di-
messa. L’intera scena appare tetra, fiocamente illuminata dalla luce
„„Figura 7 di una candela.
Rembrandt van Rijn.
Autoritratto appoggiato ad un
La postura del protagonista ed i toni cupi dell’opera rimandano alla
muro di pietra (1639). “melancolia” di cui Rembrandt già soffriva (Fig. 6).
Incisione, 21 x 16,8 cm.
National Gallery of Art,
L’incisione risulta molto simile nel soggetto e nel grigiore dell’am-
Washington, D.C. biente ad un’altra eseguita nello stesso anno, intitolata “San Gerola-
mo in una camera scura”, anch’essa interpretabile
come un autoritratto [25].
Il mutamento creativo indotto dalla “crisi” suc-
cessiva al 1642 viene ben evidenziato dal con-
fronto di due autoritratti di Rembrandt, eseguiti
a distanza di 9 anni l’uno dall’altro.
Nella prima opera, del 1639, ispirata ad un
dipinto del Tiziano, l’artista appare spaval-
do, quasi arrogante nel portamento, vestito in
un sontuoso abito rinascimentale. Lo sguardo
sprezzante riflette sicurezza di sé ed autostima
(Fig. 7).
Nel secondo autoritratto, eseguito nel 1648, il
maestro si ritrae mentre esegue un disegno su
un tavolo vicino ad una finestra. Indossa un mo-
desto vestito di lavoro, l’espressione è mesta e
pensierosa, la stanza scarsamente illuminata no-
nostante la presenza di una finestra.
226
CAPITOLO 11
Anche in quest’opera i toni cupi della rappre-
sentazione sono suggeriti dallo stato psico-
emotivo dell’artista [25] (Fig. 8).

Disturbi reumatologici

La patologia reumatica, essendo di frequente


riscontro, ha interessato un numero elevato
di artisti. Solo in alcuni di essi, tuttavia, ha
raggiunto il livello di una vera a propria ma-
lattia invalidante, tale da influenzarne lo stile
e le tecniche pittoriche [27].
Di una grave forma di artrite reumatoide sof-
frì nel corso degli ultimi 25 anni della sua
vita, il grande impressionista francese Pierre
Auguste Renoir (1841-1919).
La malattia cominciò a dare segno di sé verso
i 50 anni, dopo i 60 anni ebbe un’evoluzione
aggressiva per poi diventare, dopo i 70 anni
gravemente invalidante. „„Figura 8
L’artista iniziò a camminare con un bastone, poi con due fino a quan- Rembrandt van Rijn.
Autoritratto mentre disegna
do, in seguito ad un peggioramento delle sue condizioni motorie, davanti alla finestra (1648).
venne costretto nel 1912 alla sedia a rotelle. Incisione, 15.7 x 13 cm.
National Gallery of Art,
Negli ultimi anni Renoir cominciò a dimagrire a causa della cachessia Washington, D.C.
reumatoide, scendendo a 46 chili di peso; le sue condizioni andarono
via via decadendo, comparvero le prime piaghe da decubito e la morte
lo raggiunse nel 1919 in seguito ad una polmonite [28,29-31].
La malattia non influenzò la capacità creativa del maestro e la tipo-
logia dei suoi soggetti: i dipinti continuarono fino alla fine ad essere
contrassegnati da delicatezza cromatica e grande luminosità. L’artrite
condizionò invece la tecnica pittorica dell’artista, che negli ultimi
anni, tormentato dall’anchilosi progressiva degli arti superiori, era
costretto a tenere la tavolozza sulle ginocchia, la tela fissata come un
tavolo reclinabile sul bracciolo della sedia a rotelle, i pennelli legati
alla sua povera mano deformata. La velocità di esecuzione natural-
mente si ridusse sensibilmente, ma soprattutto le pennellate diven-
tarono più brevi e concise e più larghe, a “secco su secco” e non più
a “umido su umido”. I colori utilizzati rimasero i soliti 11 della sua
gamma preferita, solo negli ultimi tempi Renoir iniziò ad aggiungere
anche la tonalità del nero [11,28,32].
Grazie all’accorgimento della tela reclinabile, l’artista fu in grado, no-
nostante gli ingravescenti problemi di motricità, di dipingere opere
anche di grandi dimensioni.
Merita di essere ricordato a questo proposito l’ultimo suo capolavo-
ro, “Le grandi bagnanti”, terminato qualche mese prima della mor-
te. L’opera, di 110 x 160 cm, ritrae un gruppo di bagnanti, delle
227
Q UANDO L’ARTISTA SI AMMALA

quali quelle in primo piano


hanno le forme abbondanti
dei nudi di Rubens, a cui
Renoir era particolarmente
legato. Le bagnanti vengono
dipinte con una morbidezza
di tratto e colore eccezionali
e venate di una forte carica
di sensualità.
Comparando il dipinto con
un altro di analogo tema,
eseguito però 32 anni prima
(Fig. 9), si osserva una mi-
„ Figura 9 nore definizione dei dettagli, una pennellata meno decisa che confe-
Pierre Auguste Renoir. risce un effetto più sfumato ai contorni ed una maggiore delicatezza
Le grandi bagnanti (1884-87).
Olio su tela, 118 x 170 cm. e pastosità nelle tonalità cromatiche.
Philadelphia Museum of Art, A valutare un’opera di così straordinaria fattura verrebbe da gridare
Philadelphia, PE.
al miracolo, se si pensa che venne eseguita dall’artista nelle precarie
condizioni in cui era costretto a vivere al termine della sua travagliata
esistenza (Fig. 10).
La sclerodermia, anch’essa compresa nel gruppo delle malattie reu-
matologiche, fu la malattia che progressivamente portò alla morte il
pittore svizzero Paul Klee (1879-1940).
Variamente legato all’espressionismo, al cubismo ed al surrealismo,
„ Figura 10 Klee ha seguito un suo percorso artistico in autonomia e non è per-
Pierre Auguste Renoir. tanto collocabile in un movimento pittorico specifico.
Le grandi bagnanti (1919).
Olio su tela, 110 x 160 cm.
Amante del colore, tanto da affermare “Il colore mi possiede... il colore
Musée d’Orsay, Parigi. ed io siamo una sola cosa. Sono un pittore”, predilesse per gran par-

228
CAPITOLO 11
„ Figura 11
Paul Klee.
Giardino di rose (1920).
Olio su cartone, 49 x 42.5 cm.
Städtische Galerie im
Lenbachhaus, Monaco.

te della sua vita artistica le tonalità calde e luminose, come si può


constatare nell’opera “Giardino di rose” del 1920, di grande vivacità
stilistica e cromatica (Fig. 11).
Naturalizzato tedesco, Klee fu costretto a fuggire dalla Germania du-
rante il nazismo, quando le sue opere vennero considerate, al pari di
altri grandi artisti contemporanei, “arte degenerata”.
Nel 1935 comparvero i primi sintomi della sclerodermia: le mani
fredde, la cute dura ed edematosa, le artralgie e la progressiva limi-
tazione funzionale articolare.
La malattia condizionò pesantemente il suo lavoro per quanto ri-
guarda la stessa produttività, la grafica, il colore, i soggetti.
Dopo un’iniziale flessione della produzione, Klee si tuffa letteralmen-
te nel lavoro, conscio dell’ineluttabilità della sua malattia, realizzan-
do nel solo 1939 ben 1.253 opere.
La pennellata elegante e flessuosa degli anni precedenti lascia il po-
sto ad un’altra grossolana, pesante, sottolineata dall’abbondante e
quasi ossessivo utilizzo del nero, che rivela la difficoltà ingravescente
al disegno con una mano, resa intorpidita e rigida dalla malattia.
Alla trasformazione dei tratti grafici si abbina un sensibile aumento
dimensionale delle opere.
I colori si fanno più tetri, indice della sofferenza interiore dell’artista
dettata non solo dalla malattia ma anche dalle vicende personali e
dal preoccupante quadro politico che si stava configurando.
Cominciano ad apparire i temi della malattia, della morte, alternati a
raffigurazioni angeliche e demoniache [11,33-36].
229
Q UANDO L’ARTISTA SI AMMALA

Nel dipinto “Rose eroiche” del 1938 che si avvicina al tema dell’ope-
ra precedente, si percepiscono le trasformazioni stilistiche avvenute
dopo la comparsa della sclerodermia.
Il tratto appare spesso e marcato, le tonalità cromatiche meno in-
tense e brillanti ma la composizione si presenta tuttavia di grande
originalità (Fig. 12).
L’“Angelo richiedente” del 1939 appartiene ai temi preferiti dell’ul-
timo Klee. In quello stesso anno l’artista compose 29 opere del
medesimo soggetto, che negli anni precedenti era stato scelto solo
sporadicamente.
A ben guardarlo quello del dipinto è un angelo anomalo, dall’aspetto
poco rassicurante, che non ha niente di celestiale: quelli di questo
periodo sono come angeli caduti, coi difetti delle creature terrene, e
sono la spia del disincanto o della rassegnazione dell’artista.
Il tratto scarno e nervoso e la sobrietà cromatica che si avvicina ad
una pittura monocolore, sono in linea con l’evoluzione stilistica degli
ultimi anni di vita del maestro.
In un processo progressivo di semplificazione grafica e di astrazione
di contenuti, il linguaggio pittorico si fa elementare nelle forme e
nei colori ma estremamente innovativo, ed acquista il valore di un
toccante testamento artistico (Fig. 13).
„ Figura 12
Paul Klee.
Rose eroiche (1938).
Olio su tela, 68 x 52 cm.
Kunstsammlung Nordrhein-
Westfalen, Dusseldorf.

230
CAPITOLO 11
Disturbi oculistici

Gli occhi sono la nostra finestra sul mondo, ed


i disturbi della sfera visiva possono condizionare
la creatività di un artista, soprattutto se legato ad
una corrente figurativa: la presenza di deficit sen-
soriali porta ad un’alterata percezione della realtà
che a sua volta si traduce in una deformata elabo-
razione grafico-cromatica sulla tela.
La cataratta è una patologia data da progressiva
opacizzazione del cristallino e comporta una pro-
gressiva riduzione della capacità visiva. Chi ne è
affetto percepisce all’inizio una visione oscurata ed
annebbiata, incontrando difficoltà a distinguere
oggetti posti a modesta distanza; nei casi più gravi
si arriva alla cecità.
Il francese Claude Monet (1840-1926) è stato uno
dei maggiori esponenti dell’Impressionismo. Straor-
dinario interprete della pittura “en plein air”, ci ha la-
sciato opere di grande fascino e delicatezza stilistica.
Dopo i 60 anni cominciò ad avere dei problemi ingravescenti alla „ Figura 13
vista, a causa di una cataratta bilaterale: i contorni degli oggetti ap- Paul Klee.
Angelo richiedente (1939).
parivano meno definiti ed i colori meno distinti, in particolare le Gouache china e matita su
tonalità del rosso, del rosa e del violetto. carta, 48.9 x 34 cm.
The Metropolitan Museum of
La cataratta influì pesantemente sulla produzione artistica di Mo- Art, New York, NY.
net. Le forme persero nei dettagli, la pennellata iniziò a diventare
più spessa ed ampia, i contrasti cromatici si affievolirono, la magica
atmosfera luminosa che aveva caratterizzato le opere precedenti si
spense, i colori freddi come il bianco, il verde, il blu cedettero gra-
dualmente il passo ad altri più caldi come il giallo ed il porpora,
portando ad una stesura cromatica sempre più uniforme.
Dopo il 1915 i dipinti divennero sempre più astratti con una domi-
nanza di tonalità scure ed in particolare con un’ulteriore prevalenza
dei gialli e dei rossi nei confronti dei verdi e dei blu.
Nel 1922 in una lettera al suo amico J. Bernheim-Jeune l’artista scri-
veva: “...La mia povera vista mi fa vedere tutto come avvolto da una fitta
nebbia... sono molto infelice”.
Nel 1923 Monet venne sottoposto ad intervento al solo occhio de-
stro, seguito da un altro a breve distanza di tempo, che non furono
coronati da successo. La rimozione chirurgica del cristallino o afa-
chia, causò anzi nuove distorsioni visive e soprattutto una percezio-
ne cromatica con prevalenza dei toni gialli in un primo tempo e di
quelli blu in seguito.
Negli ultimi anni l’artista fu addirittura costretto a contrassegnare
con etichette i tubetti dei colori ed a disporli sulla tavolozza secondo
un ordine preordinato per evitare di confonderli.
231
Q UANDO L’ARTISTA SI AMMALA

Nonostante tutto continuò a di-


pingere fino alla morte, ricorren-
do all’utilizzo di lenti speciali che
gli permisero di ottenere un pur
modesto miglioramento della sua
acutezza visiva [11,37-39].
Monet passò gran parte della sua
esistenza a Giverny, nell’Alta Nor-
mandia, dove aveva acquistato
una casa con un giardino che cu-
rava con grande dedizione. Aveva
fatto costruire uno stagno dove
erano state piantate delle ninfee e
che era attraversato da un ponte
giapponese.
Il ponte giapponese diventerà uno
dei soggetti preferiti dall’artista,
„ Figura 14 soprattutto negli ultimi anni in cui, a causa dei problemi oculari, si
Claude Monet. allontanava sempre più raramente da casa.
Lo stagno delle ninfee (1899).
Olio su tela, 89.5 x 100 cm. Abbiamo la possibilità di confrontare opere relative a questo soggetto
Musée d’Orsay, Parigi. eseguite a distanza di anni l’una dall’altra, potendo apprezzare chia-
ramente il drammatico progredire del deficit visivo con l’aggravarsi
della malattia.
Quando completò “Lo stagno delle ninfee” nel 1899, Monet era ancora
dotato di una vista normale.
Il dipinto rivela i tratti salienti della tecnica che ha reso l’artista uno
dei maggiori maestri dell’arte dell’800: la delicatezza della pennella-
ta, la sapiente scelta cromatica, il raffinato gioco di luci conferiscono
all’opera una grande armonia ed una indiscutibile seduzione (Fig. 14).
Con la comparsa della cataratta bilaterale, diagnosticata nel 1912, lo
stile dell’artista cambia sensibilmente. È degli anni 1923-25 la versione
„ Figura 15
Claude Monet.
Il ponte giapponese (1923-25).
Olio su tela, 89 x 116 cm.
The Minneapolis Institute of
Arts, Minneapolis, MN.

232
CAPITOLO 11
del ponte giapponese che viene presentata: la trasformazione grafica
e cromatica risulta impressionante. I contorni delle figure appaiono
indefiniti, i toni più cupi, estranei al delicato e luminoso cromatismo
che era la peculiarità del primo Monet. Si registra in particolare una
spiccata prevalenza del rosso scuro, del bruno, del giallo che tendono
a sostituire il bianco, il verde, il blu e nell’insieme il dipinto sembra
rimandare ad una voluta elaborazione astratta del tema quando invece
non è altro che lo specchio della distorsione visiva del pittore (Fig. 15).
Dopo due interventi chirurgici all’occhio destro, Monet sviluppò i
sintomi dell’afachia: la discromatopsia, vale a dire l’anomalia per-
cettiva dei colori, si aggravò portando ad una cianopsia, cioè una
visione con prevalenza marcata dei toni blu-azzurri.
Risale a questo periodo una successiva versione del ponte giappo-
nese, datata 1926, che mette in luce l’ulteriore deterioramento della
percezione visiva dell’artista.
In quest’opera il ponte giapponese non è più riconoscibile, rappre-
sentato da una colata caotica di colori in cui, per effetto della cianop-
sia, ricompaiono le tinte blu e azzurre [37] (Fig. 16).
Le retinopatie sono malattie che interessano la membrana più inter-
na dell’occhio, possono portare anche alla cecità e sono suddivise in
congenite ed acquisite. Comprendono svariati quadri morbosi, dalla
grave retinite pigmentosa, ereditaria, alla degenerazione maculare,
alle forme infiammatorie, vascolari, metaboliche.
Edgar Degas (1834-1917), francese, è stato uno dei più raffinati
protagonisti del movimento impressionista.
A 36 anni circa iniziarono i primi problemi visivi, dovuti ad una re-
tinopatia progressiva con danno maculare. È stato accertato che una
cugina, Estelle Musson Degas, era affetta anch’essa da una patologia
retinica che la colpì all’età di 25 anni e che la rese cieca, un dato che
potrebbe far pensare che l’artista fosse stato colpito da una forma
familiare a trasmissione ereditaria [40-43].
„ Figura 16
Claude Monet.
Il ponte giapponese a Giverny
(1926).
Olio su tela, 89 x 100 cm.
Musée Marmottan, Parigi.

233
Q UANDO L’ARTISTA SI AMMALA

I primi sintomi si manifestarono con una graduale fotofobia, ossia


un’intolleranza alla luce del giorno: Degas fu costretto a lavorare
sempre meno all’aperto prediligendo una pittura d’interni, rappre-
sentata da spettacoli d’opera, ballerine, caffè-concerti, donne alla to-
eletta che saranno la prerogativa della sua produzione artistica.
In questo periodo il pittore cominciò ad avere coscienza dei suoi
problemi visivi e confessava all’amico James Tissot: “Che cose magnifi-
che avrei potuto comporre ed anche rapidamente se solo la luce del giorno
mi fosse stata meno intollerabile”.
Passati i 40 anni, il maestro sviluppò la perdita della visione centrale
e successivamente iniziò ad avere problemi nell’identificazione dei
colori.
Col passare del tempo la sua visione dei dettagli, dei contrasti e delle
ombre risultò inevitabilmente compromessa.
La sua vista peggiorò progressivamente finché, a 57 anni, non fu più
in grado di leggere, nonostante che l’utilizzo di lenti correttive gli
avesse consentito un modesto miglioramento.
Gli ultimi anni di vita saranno dedicati soprattutto alla scultura, che
gli permetteva una convivenza meno penosa col deficit visivo.
Le modifiche nello stile di Degas furono strettamente correlate alla
graduale perdita della vista.
Prima del 1880 i dipinti risultavano ben dettagliati nella fisionomia e
nell’abbigliamento delle figure ritratte con un’attenzione particolare
dedicata alle sfumature cromatiche ed agli effetti chiaroscurali.
Col calo dell’acutezza visiva i soggetti raffigurati diventarono meno
definiti e meno particolareggiati ed il tratto iniziò ad essere più pe-
sante ed ampio. L’artista passò inoltre dalla tecnica ad olio a quella
„„Figura 17
Edgar Degas.
Donna che si pettina (1885).
Pastello su cartone, 54 x 52.5 cm.
Museo dell’Ermitage,
San Pietroburgo.

234
CAPITOLO 11
„„Figura 18
Edgar Degas.
Donna che si asciuga i capelli
(1905).
Pastello su carta, 71.4 x 62.9 cm.
Norton Simon Art Museum,
Pasadena, CA.

a pastello, che gli permetteva di lavorare con maggior facilità richie-


dendo una minore precisione di disegno.
Dal 1900 le trasformazioni stilistiche sono ben evidenti: irregolarità
ed approssimazione del profilo dei corpi, mancanza di dettagli nei
visi e negli abiti, scelte cromatiche decise ma limitate, a volte anche
grossolane [39].
Grande amante dell’armonia del corpo umano, Degas aveva una par-
ticolare predilezione per i soggetti femminili, che ritraeva soprattut-
to in bellissimi nudi alla toeletta mentre si lavano, si asciugano, si
pettinano.
Confrontando due nudi femminili eseguiti a 20 anni di distanza ri-
saltano con drammatica chiarezza le modifiche dello stile del mae-
stro in coincidenza con l’evoluzione della retinopatia.
In “Donna che si pettina” del 1885 Degas, pur già ammalato, rimane
ancora fedele alla tecnica che ne ha consacrato la grandezza.
I dettagli anatomici del corpo, la naturalezza della postura, i raffinati
accostamenti cromatici, la ricerca sapiente delle ombreggiature ren-
dono il dipinto ben costruito e dotato di indubbio fascino (Fig. 17).
Un altro nudo, eseguito nel 1905, riflette con spietata evidenza i
disturbi visivi che affliggevano l’artista.
Il profilo del corpo appare disegnato in modo sommario con un
tratto grossolano, i dettagli anatomici sono appena percettibili e la
postura risulta insolita con una posizione innaturale del braccio
destro. Si rileva inoltre la povertà degli effetti di sfumatura mentre
l’incarnato non ha la sensuale tonalità del Degas prima maniera, ma
anzi viene reso con accostamenti cromatici cupi e pesanti (Fig. 18).
235
Q UANDO L’ARTISTA SI AMMALA

La vita del pittore espressionista norvegese Edvard Munch (1863-


1944) fu segnata già dall’infanzia da lutti familiari che avrebbero
avuto un ruolo determinante nella comparsa di quella “melanconia”
che accompagnò l’artista per tutta la sua esistenza e che si riflesse nei
temi delle sue opere.
Nel 1908 Munch venne ricoverato in ospedale per “esaurimento
nervoso” e sottoposto a terapia con elettroshock. Ripresosi, conti-
nuò a lavorare finché, nel 1930, accusò un improvviso deficit visivo
all’occhio destro. Venne diagnosticata un’emorragia intraoculare da
rush ipertensivo che impiegò diverse settimane per risolversi e che
venne seguita, a distanza di 8 anni, da un analogo episodio all’occhio
sinistro [11,44].
La retinopatia vascolare che lo colpì interessò la macula e si manife-
stò con la comparsa di una zona di deficit nel campo visivo (scoto-
ma) e con una deformata percezione degli oggetti (metamorfopsia).
Munch era spaventato dalla malattia oculare, temendo non solo per
la sua vista ma anche per la sua vita. Pertanto descrisse minuziosa-
mente l’evoluzione della retinopatia in alcuni scritti che ci consento-
no di avere un quadro fedele del suo deficit visivo.
Quello che il pittore norvegese descriveva era una zona nera sor-
montata da una macchia che ricordava la “testa di un uccello” che,
„ Figura 19
dapprima voluminosa, col tempo vide contrarsi gradualmente in se-
Edvard Munch.
Autoritratto durante la malattia guito al riassorbimento della raccolta emorragica. Contemporanea-
all’occhio - 1 (1930).
mente Munch rivelò la presenza di immagini deformate e di piccoli
Olio su tela, 80 x 64 cm.
Munch Museum, Oslo. corpi scuri mobili in coincidenza della rotazione dell’occhio [45,46].
La proiezione sulla tela del proprio
deficit visivo venne accuratamente
elaborata dall’artista in diversi dipinti
che costituiscono un interessante do-
cumento non solo dal punto di vista
artistico ma anche medico.
La presenza di uno scotoma nero deli-
mitato da cerchi concentrici e policro-
mi accompagnato da immagini distorte
dalla metamorfopsia, sarà una costante
per un certo periodo della sua produ-
zione, dopodiché, a guarigione avvenu-
ta, questi temi non verranno mai più
riproposti [38,44].
Nell’opera “Autoritratto durante la ma-
lattia all’occhio – 1” il cuore del dipin-
to è rappresentato da una voluminosa
macchia nera, con la “testa di un uc-
cello” al suo bordo superiore, che altro
non è che lo scotoma e che fronteggia
minaccioso l’artista che appare magro,
236
CAPITOLO 11
il viso simile ad un teschio
e nella postura a braccia
incrociate che rimanda alla
morte, a rimarcare la sen-
sazione di angoscia che la
malattia gli incuteva [44]
(Fig. 19).
La xantopsia è una forma
di cromatopsia, vale a dire
un disturbo nella percezio-
ne della visione cromatica:
nella xantopsia vengono
identificati solo il giallo e
il blu per cui i colori chia-
ri assumono un tono gial-
lastro mentre quelli scuri
uno violaceo. Può essere di
origine genetica o acquisi-
ta ed in particolare conse-
guente ad un’intossicazio-
ne (da digitale, da piombo,
da acido picrico), ad una
neurolue, ad una insuffi-
cienza epatica.
Vincent Van Gogh (1853-1890), straordinario pittore postimpres- „ Figura 20
sionista olandese, ebbe una vita tragicamente segnata da una malattia Vincent Van Gogh.
Campo di grano con veduta
che è stata variamente interpretata dagli studiosi ricorrendo ad alme- di Arles (1888).
no 30 diagnosi differenti, dalla schizofrenia alla psicosi maniaco-de- Olio su tela, 73 x 54 cm.
Musée Rodin, Parigi.
pressiva, dall’epilessia temporale all’intossicazione da piombo, dalla
porfiria acuta intermittente alla sifilide [47,48].
Alcuni studiosi si sono inoltre soffermati ad analizzare le opere degli
ultimi anni dell’artista ipotizzando la comparsa di una xantopsia a
margine della patologia principale [23,49,50].
Il famoso “giallo Van Gogh”, prerogativa di numerosi dipinti ma so-
prattutto di quelli del periodo 1888-1890, sarebbe da mettere in
relazione ad una percezione anomala che l’artista aveva di questo
colore. I medici che lo avevano in cura avevano diagnosticato un’epi-
lessia e nel corso degli ultimi tre anni di vita il pittore assunse la di-
gitale che a quel tempo veniva utilizzata come farmaco antiepilettico:
l’intossicazione prodotta dal farmaco avrebbe causato la xantopsia
accusata dall’artista.
Altri ricercatori invitano alla prudenza nella conferma di questa ipote-
si, considerando che la predilezione che Van Gogh aveva per il giallo
non fosse altro che una sua particolare scelta emotiva e stilistica.
Si è scritto che il giallo è un colore caldo, espansivo, ardente, “il più
prossimo alla luce”, come racconta Goethe, ed è sempre stato associa-
237
Q UANDO L’ARTISTA SI AMMALA

to all’eccentricità, alla trasgressione ma anche alla follia: Van Gogh


potrebbe essere stato dotato di una irresistibile attrazione per questa
tonalità cromatica [49-52].
L’artista propose il giallo in tutte le sfumature, da quelle più calde
a quelle più fredde, dal giallo carico e solare dei suoi paesaggi di
Provenza o dei numerosi “Girasoli” a quello misterioso ed inquie-
tante dei “Caffè di notte” o delle “Notti stellate”.
Nel dipinto “Campo di grano con veduta di Arles” del 1888 il colore
giallo risulta dominante e pervade tutta l’opera (Fig. 20).
Del medesimo anno è un’altra opera, “La casa gialla” dove c’è spazio
solo per il giallo che si diffonde tra gli edifici e lungo la strada, ed il
blu brillante del cielo.
Nella bellissima “Notte stellata” del 1889, eseguita quando l’artista era
ricoverato presso l’ospedale psichiatrico di Saint-Rémy-de-Provence in
seguito all’ennesima crisi, protagoniste sono ancora le tinte gialle e blu.
Un cielo vorticoso e minaccioso pare incombere sopra il paese, un
cipresso solitario si staglia in primo piano, testimone della scena. La
luna e le stelle sono circondate da aloni iridescenti che conferiscono
alla tela un effetto di grande vitalità e suggestione.
La sofferenza interiore dell’artista è tutta nella raffigurazione di quel
„ Figura 21 cielo incantato e sinistro, sublime e terribile.
Vincent Van Gogh. La xantopsia da digitale sarebbe ulteriormente confermata da un’al-
Notte stellata (1889).
tra turba visiva riscontrabile in corso di intossicazione digitalica,
Olio su tela, 73.7 x 92.1 cm.
MoMA, New York, NY. le macchie gialle contornate da una sorta di corona, molto simili a

238
CAPITOLO 11
quelle aureole luminose che circondano i corpi celesti del dipinto
[50] (Fig. 21).
L’ultimo lavoro eseguito da Van Gogh prima del suicidio è il famoso
“Campo di grano con corvi” del 1890.
Sotto un cielo cupo e minaccioso un campo di grano sembra ondeg-
giare come un mare agitato; un nero volo di corvi si profila funereo
sopra le messi, presagio di un dramma incombente.
I colori si contrappongono violentemente, ed anche in questo caso
sono il giallo ed il blu ad essere rappresentati in modo preminente.
La pennellata convulsa e scomposta conferisce un’ulteriore tensione
drammatica all’opera.
Il dipinto nella sua tormentata stesura compositiva è un estremo
grido di angoscia e di disperazione che prelude ad un tragico addio
alla vita*.
Il “giallo Van Gogh” continua ancora a far discutere critici e ricerca-
tori e ad appassionare il pubblico.
Non è stato ancora del tutto accertato se l’artista amasse questa tona-
lità cromatica perché visceralmente attratto da questo colore, forse in
relazione alla sua malattia mentale, o se alla base di tutto ci sia stata
una xantopsia da intossicazione digitalica.
Quello che è invece certo è che questo giallo magico, vitale, irri-
petibile, appartiene solo a Van Gogh ed esprime una componente
peculiare ed unica della sua straordinaria tavolozza.

* Le opere “La casa gialla” e “Campo di grano con corvi” non hanno
potuto essere inserite nel testo perché il Museo Van Gogh di Amsterdam,
unico fra le numerose istituzioni museali contattate, non ne ha consentito
il permesso di riproduzione.
239
Q UANDO L’ARTISTA SI AMMALA

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