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DeriveApprodi

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Volume pubblicato con un contributo del MIUR – Fondi PRIN 2006/Università di
Urbino

I edizione: settembre 2009


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Immagine di copertina: Alessio Pierro

ISBN 978-88-89969-82-3
DeriveApprodi

Fabio Frosini

Da Gramsci a Marx
Ideologia, verità e politica
Prefazione

di Augusto Illuminati

Da Gramsci a Marx, ovvero Marx riletto a partire da un Gramsci a


sua volta reinterpretato rispetto alla vulgata esegetica, quasi scan-
dalosamente althusserizzato se non post-operaizzato. La teoria
gramsciana dell’ideologia è stirata sull’assunzione della parzialità
a componente decisiva della verità, la traducibilità è messa in ten-
sione alla luce degli studi postcolonial. Lo stesso Marx è spaccato,
secondo i dettami althusseriani, ma spesso andando a ritroso, non
spostandosi il più lontano possibile dagli scritti di giovinezza. Il
criterio diventa infatti il rapporto con la congiuntura politica:
quanto più immerso in essa, tanto più distante dal materialismo
“scientifico” che scivola inesorabilmente nella metafisica. La poli-
ticità di Marx si rivela in alcuni passaggi chiave, spesso lontani
dalla Reading Room del British Museum. A cominciare dal famo-
so impianto di traduzione fra radicalismo tedesco e radicalismo
francese, filosofia idealista e prassi giacobina, in cui in realtà l’ele-
mento politico non sta sul secondo ma fra i due (più tardi questo
varrà anche per l’economia ricardiana) – l’operazione strategica
consiste nella costruzione di uno scambio linguistico che produce
una teoria rivoluzionaria non presente, se non virtualmente, nei
due linguaggi-pensiero. E poi nella fase militante 1847-1850 che
va dal Manifesto (ma prima ancora dalla Miseria della filosofia) alle
Lotte di classe in Francia; infine nel grande incendio comunardo
della Guerra civile in Francia. L’universale viene colto nel suo mani-
festarsi differenziale, è la formulazione provvisoria e neutralizza-
ta di quanto in realtà è una difettività, quel da farsi che un tempo
Kant esibiva per ideale asintotico, res publica noumenon.
Gramsci apre una strada alla revisione del concetto sedimenta-
to di ideologia (sedimentato nello Engels dell’Antidühring più an-

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cora che nel Marx “scientifico” della maturità) quando di fatto
equipara la questione dell’ideologia a quella della conoscenza, le-
gando la seconda a un’oggettività storica e contingente, pur tutta-
via valida e cogente. Ciò implica una validità gnoseologica delle so-
vrastrutture ben più significativa di un effetto psicologico o mora-
le di retroazione sulla struttura. L’azione reciproca engelsiana
svanisce in un assunto forte di parzialità operativa. Gramsci rileg-
ge la Prefazione del 1859 sulla base delle Tesi su Feuerbach, cioè
della verità quale praxis, il cui soggetto (conoscitivo e attivo) è certo
ancora un’essenza umana, ma intesa come l’«insieme dei rapporti
sociali», das ensemble der gesellschaftlichen Verhältnisse: cioè accor-
do relazionale, polifonico, non totalità espressiva.
Se dalla definizione generale di ideologia passiamo alla pratica
ideologica del proletariato, andiamo cioè a scomporre Marx nei
suoi flussi reali e contraddittori, vediamo come la nozione di rivo-
luzione permanente acquisti uno statuto particolare fra il 1847 e il
1850, differente da quanto precede e da quanto segue (almeno fino
al 1871). La rivoluzione in permanenza era, nella Questione ebraica,
il disperato tentativo giacobino di «schiacciare il proprio presup-
posto, la società civile» dall’esterno; a partire dal Manifesto diventa
l’espressione di un movimento – il comunismo – che si identifica
dall’interno con il movimento complessivo di scomposizione e ri-
composizione dei rapporti, insieme politici e sociali. Congiuntura
e produzione di verità si abbinano. La strategia politica è una
nuova teoria della verità, al cui interno si ridefinisce anche la stru-
mentalità contingente dell’ideologia. La rivoluzione resta perma-
nente nella misura in cui si impone il punto di vista del proletaria-
to, in quanto classe in lotta che ha interesse a sconvolgere l’intera
struttura della società presente.
Nel proletariato coincidono una classe sociale particolare e un
principio universale di dissoluzione della società. La radicalità delle
sue rivendicazioni fa tutt’uno con la radicalità della sua esclusione:
esso è principio di dissoluzione reale di patria, famiglia, morale,
proprietà. La dimensione epistemologica della praxis – così come
l’assume Gramsci – va però integrata con la nozione di traducibilità,
per non ricadere in un monolinguismo, che riprodurrebbe una
metafisica dell’universale, declinabile di volta in volta con le catego-
rie di oggettivazione-alienazione o di oggettivismo scientista.
Un diverso universale nasce invece in una traduzione che non
annulla ma al contrario rafforza la diversità delle lingue, secondo la
lezione dei Postcolonial e dei Translation Studies. La necessità di una
traduzione sorge peraltro con le esigenze di ricombinazione con-

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nesse allo scontro delle classi ed è una necessità non dialettica
bensì congiunturale, aleatoria: scaturisce dall’incontro di una serie
di circostanze e processi appartenenti a temporalità e a logiche di-
stinte (come accadde per l’accumulazione originaria e la formazio-
ne di un rapporto salariale generalizzato e stabilizzato): per esem-
pio, nel caso della manifattura e in polemica con Proudhon, per
l’urto di fattori esterni alla dinamica interna delle corporazioni e del
sistema feudale. L’epistemologia della traduzione si innesta su un
intreccio di rapporti di forze aperto a ogni possibilità e deciso fat-
tualmente nel momento in cui la storia si attualizza in politica. Scri-
ve Frosini, tirandone le conseguenze per ogni rapporto fra verità e
ideologia: «il comunismo rivoluzionario potrà trovare la propria ve-
rità solo pensandosi come parte in lotta, assumendo fino in fondo
quello che più tardi Antonio Labriola felicemente definirà l’angolo
visuale del proletariato. Sapersi parte in lotta: la “potenza-verità” del
comunismo critico sta in questo peculiarissimo “sapere”».
Il sapersi parte in lotta non è l’ideologia del proletariato, come se
la sua costituzione ripetesse specularmente quella della borghesia:
il comunismo non è l’ideologia del proletariato né può esistere
un’ideologia proletaria. Anche il Manifesto conclude all’impossibili-
tà di un “partito comunista” in quanto partito particolare, opposto
agli altri partiti operai, dato che il proletariato è irrappresentabile.
Rappresentarlo equivarrebbe a limitarne la realtà a una forma tra le
altre, assegnandogli un posto nella società attuale, di cui è invece la
dissoluzione totale, a ripartire lo spazio pubblico disponibile, come
se tutti ne fossero partecipanti al medesimo titolo. Scindiamo in
due parti il discorso: per un verso le classi sono asimmetriche e il
proletariato si costituisce solo ed esclusivamente sul piano politico,
quale parte dei senza-parte, flusso costituente e non soggetto costi-
tuito; esso cessa di essere l’erede della filosofia classica tedesca,
un’incarnazione dello spirito oggettivo, e diventa un elemento
asimmetrico nella lotta delle classi. Le classi in lotta, infatti, non
solo non sono soggetti precostituiti ma sono definite dalla lotta
stessa. Per altro verso Marx prelude a una descrizione della demo-
crazia espansiva (eine durch und durch ausdehnungsfähige politische
Form, scriverà a proposito dell’esperienza comunarda), che troverà
il suo approdo nella Mésentente di Jacques Rancière.
Ovviamente, se il proletariato è ribellione e insorgenza, assen-
za di potere e dunque resistenza a chi ha già potere, una zeppa alla
chiusura totalizzante della comunità, esso non è un dato sociologi-
co, non esiste in una forma definitiva, tanto che può rinserrarsi in
aristocrazia operaia o frazione subalterna dell’imperialismo. Il

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suo partito è diverso dagli altri perché non si riduce a “parte” con i
suoi miseri privilegi ma punta a re-istituire sempre di nuovo nella
storia l’identità di storia e politica, rendendo conto dell’antagoni-
smo in ogni manifestazione. Alla rivoluzione permanente econo-
mico-sociale del capitalismo (all’accumulazione originaria che
non è data illo tempore, ma si rinnova a ogni ciclo produttivo) si op-
pone la politica comunista quale rivoluzione permanente. Una
simmetria dissimmetrica, che costruisce seconde nature e una di-
versa universalità pratica che non ripete anzi fa esplodere lo spazio
simbolico inappagato dell’universalismo giuridico borghese, liber-
té égalité fraternité.
Non sempre Marx resta a questa altezza e, specialmente in fasi
di contrapposizione non catastrofica delle classi, tende a retroce-
dere a un ideale epistemologico più rassicurante, “scientifico”, as-
segnando per esempio al Capitale la funzione di specchio analitico
delle tendenze oggettive immanenti al modo di produzione capi-
talistico, magari con tratti teleologici e civetterie neo-dialettiche.
Un immenso progresso, senza dubbio, che però attenua od oscura
il nesso fra pratica teorica e pratica politica, sino a forme di auto-
censura (la Prefazione del 1859). Nel materialismo storico il rap-
porto di determinazione di economia e politica supera l’unità im-
manente di politica e storia come asse del processo rivoluzionario.
L’ideologia, che era la manifestazione di un pensiero particolare
perché isolato dalla prassi (per es. il socialismo utopistico), viene
poi definita a partire dalla distinzione tra ciò che gli uomini «dico-
no e pensano» di sé, e ciò che essi «realmente sono e fanno».
Il vantaggio della prima definizione risiedeva nel fatto che la
fuoriuscita dall’ideologia, cioè dal vecchio connubio di universalità e
astrazione, coincideva con l’assunzione sino in fondo dello sguardo
parziale del proletariato, il solo capace di produrre un’universalità
reale, non arbitraria. Esemplare è l’analisi del suffragio universale,
che proprio nella sua soppressione nel 1850, dimostra la propria
potenza di sopprimere ogni stabilità e metter a ogni istante in que-
stione l’autorità vigente; in ogni caso aveva dispiegato sino in fondo
a sua missione educativa e doveva essere soppresso o dalla vittoria
della reazione o da quella della rivoluzione. Però una nuova rivolu-
zione, dopo la sconfitta del giugno 1848 e la sua penosa parodia
picco-borghese del giugno 1849, potrebbe verificarsi solo con una
nuova crisi. Entrambe però si verificheranno sicuramente a breve
scadenza, mettendo in contraddizione le forze moderne di produ-
zione e le forme borghesi di produzione. Il dispositivo della rivolu-
zione permanente è condizionato dalla crisi, ma conserva la suc-

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cessione ininterrotta di fasi che si susseguono spingendo sempre
più a sinistra il soggetto rivoluzionario, fino a farlo uscire fuori
dalla dinamica del suffragio e delle manovre “repubblicane” asso-
ciandogli però nuovi alleati contadini radicalizzati.
Invece nel 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, che pure a lungo pa-
rafrasa lo scritto precedente, il proletariato slitta in un ruolo di
“spettatore” e ci si congeda dalla rivoluzione in permanenza e dal-
l’idea che nella pratica si possa costituire la verità. Il partito prole-
tario rimane durante l’intero decorso del processo rivoluzionario
un’appendice della democrazia piccolo-borghese, che si presenta
come un tempo vuoto, privo di eventi, fin quando viene infine sor-
presa dal napoleonide nella completa indifferenza del proletaria-
to. Tra il dicembre 1851 e il marzo 1852 prende corpo il materiali-
smo storico, con la distinzione tra “storico” e “protagonista” delle
lotte e l’abbandono dell’idea di rivoluzione in permanenza. Ci si
volge ora alla fredda e realistica “critica dell’economia politica”,
con le sue pretese di sobria scientificità, ma anche la sua inservibi-
lità operativa immediata. Il magistrale capitolo iniziale, che parla
dei travestimenti cui tutte le rivoluzioni borghesi sottoposero i
propri contenuti, in forma ora tragica ora comica, denuncia i “fuo-
chi di bengala” che illuminano le loro journées mistificando l’inte-
resse parziale che di volta in volta si afferma per universale: «l’esta-
si è lo stato d’animo di ogni giorno». A ciò si contrappone la sobrie-
tà delle rivoluzioni proletarie che interrompono a ogni istante il
loro corso per autocriticarsi, ricominciano sempre daccapo, non
hanno bisogno di mascherarsi. Si giustifica una lunga fase di pas-
sività proletaria per l’accumulazione delle forze, ma intanto la bor-
ghesia resta padrona del campo pur assoggettandosi a un padrone
autoritario. Per quanto riguarda l’ideologia – scrive Frosini– «la
sua critica consiste allora nell’attribuzione alla classe sociale a cui
corrisponde... distinguendo nettamente la consapevolezza del po-
litico dall’indagine dello storico. Quest’ultimo conduce un lavoro
scientifico: la Realität rinvia infatti a una costruzione scientifica
che si cela dietro l’empiricamente constatabile. L’idea di una criti-
ca pratica di massa dell’ideologia viene di conseguenza a cadere e
viene a cambiare radicalmente il ruolo del proletariato».

La definizione della democrazia sociale, che ripropone il profi-


lo della repubblica borghese parlamentare quale neutralizzazione
e comune esercizio del potere delle varie frazioni, istituzione per
attenuare il contrasto fra lavoro salariato e capitale trasformando-
lo in armonia, si complica con la presa in considerazione dell’ap-

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parato statale finanziato dalle imposte: quando l’irrequietezza in-
trinseca e diffusiva del regime parlamentare prevale sulle funzio-
ni di sintesi, la borghesia deve allora spezzare il proprio potere po-
litico per mantenere intatto il potere sociale, delegando l’autorità
al potere esecutivo. Il governo forte è diventato l’unico baluardo
dei buoni affari privati e si completa un processo regressivo che
spinge la borghesia a rinunciare alla repubblica e alla democrazia
per centralizzare il potere dello Stato e staccare l’interesse comune
dalla società, fingendolo per interesse generale, cioè mera ammini-
strazione in cui si risolve la logica di classe. «Tutti i rivolgimenti
politici non fecero altro che perfezionare questa macchina, invece
di spezzarla», anzi questa macchina diventa il bottino di volta in
volta del vincitore. Certo, qui il proletariato si trova davanti a
un’estrema concentrazione e spersonalizzazione del potere. La ri-
voluzione agisce in senso passivo, costringendo la borghesia a ri-
trarsi dai suoi modi di essere: è il rovescio della rivoluzione perma-
nente, è piuttosto una ritirata permanente, di cui il proletariato
potrà profittare al momento della crisi. Si tratta ormai di studiare
la crisi. Si apre la fase della critica dell’economia politica, ma si in-
stalla anche un dispositivo stadiale che combinerà in seguito pa-
recchi guai.
Agli esordi della Comune di Parigi Marx scrive a Kugelmann il
12 aprile 1871 con entusiasmo: «Se tu rileggi l’ultimo capitolo del
mio 18 brumaio, troverai che io affermo che il prossimo tentativo
della rivoluzione francese non consisterà nel trasferire da una
mano all’altra la macchina militare e burocratica (die bürokratisch-
militärische Maschinerie), come è avvenuto sino ad ora, ma nello
spezzarla (zerbrechen) e che tale è la condizione preliminare di
ogni reale rivoluzione popolare nel Continente. In questo consiste
il tentativo dei nostri eroici compagni parigini. Quale duttilità
(Elastizität), quale iniziativa storica, quale capacità di sacrificio!» –
frasi riprese da Lenin in Stato e rivoluzione. Senza formarsi illusio-
ni, vista la sproporzione di forze fra Versailles e Belleville, tanto
che il 17 aprile, presagendo la sconfitta, commenta che: «la demo-
ralizzazione della classe operaia [se avesse rinunciato allo scontro]
sarebbe stata una sciagura molto più grave della perdita di un
qualsiasi numero di “capi”».
Nella grande commemorazione dell’eroico sacrificio stesa il 30
maggio del 1871 (La guerra civile in Francia) Marx ritorna in argo-
mento, affermando che

la classe operaia non può mettere semplicemente la mano sulla macchi-


na dello Stato bella e pronta, e metterla in movimento per i propri fini. Il

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potere statale centralizzato, con i suoi organi dappertutto presenti: eserci-
to permanente, polizia, burocrazia, clero e magistratura – organi prodot-
ti secondo il piano di divisione del lavoro sistematica e gerarchica – trae la
sua origine dai giorni della monarchia assoluta, quando servì alla nascen-
te società delle classi medie come arma potente nella sua lotta contro il
feudalesimo. Il suo sviluppo però fu intralciato da ogni sorta di macerie
medioevali, diritti signorili, privilegi locali, monopoli municipali e corpo-
rativi e costituzioni provinciali. La gigantesca scopa della Rivoluzione
francese del diciottesimo secolo spazzò tutti questi resti dei tempi passa-
ti, sbarazzando così in pari tempo il terreno sociale dagli ultimi ostacoli
che si frapponevano alla costituzione di esso dell’edificio dello Stato mo-
derno, elevato sotto il I Impero, il quale a sua volta fu il prodotto delle
guerre di coalizione della vecchia Europa semifeudale contro la Francia
moderna. Durante i successivi regimi il governo, posto sotto il controllo
parlamentare, cioè sotto il controllo diretto delle classi possidenti, non di-
ventò solo l’incubatrice di enormi debiti pubblici e di imposte schiaccian-
ti; con la irresistibile forza di attrazione dei posti, dei guadagni e delle pro-
tezioni, esso non solo diventò il pomo della discordia tra fazioni rivali e gli
avventurieri delle classi dirigenti, ma anche il suo carattere politico cam-
biò di pari passo con le trasformazioni economiche della società. A misu-
ra che il progresso dell’industria moderna sviluppava, allargava, accen-
tuava l’antagonismo di classe tra il capitale e il lavoro, lo Stato assunse
sempre più il carattere di potere nazionale del capitale sul lavoro, di forza
pubblica organizzata per l’asservimento sociale, di uno strumento di di-
spotismo di classe.

Con il bonapartismo abbiamo l’ultimo e più degradato stadio di


quel potere statale che la nascente società della classe media aveva
incominciato a elaborare quale strumento della propria emanci-
pazione dal feudalesimo e la società borghese in piena maturità
aveva alla fine trasformato in strumento per l’asservimento del la-
voro al capitale. L’analisi riprende quella del 18 Brumaio, ma ades-
so l’accento cade non sulla ritirata della borghesia ma sull’offensi-
va del proletariato; la democrazia consiste non nell’impadronirsi
della macchina bell’e pronta, ma nello spezzarla!
Dunque «la Comune fu l’antitesi diretta dell’Impero. Il grido di
“repubblica sociale”, col quale il proletariato di Parigi aveva inizia-
to la rivoluzione [del febbraio 1848], non esprimeva che una vaga
aspirazione a una repubblica che non avrebbe dovuto eliminare
soltanto la forma monarchica del dominio di classe, ma lo stesso
dominio di classe. La Comune fu la forma positiva di questa re-
pubblica». Ecco perciò conclusa e inverata, come insorgenza favo-

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rita ma non passivamente determinata dalla crisi e dalla guerra, la
traiettoria delineata nelle Lotte di classe e sospesa nel 18 Brumaio.
La nuova definizione di repubblica, democrazia e proletariato ri-
voluzionario è tracciata in congiuntura, solo secondariamente con
l’artificio dialettico dell’antitesi. Ciò che risulta dalla descrizione
dei caratteri della democrazia comunarda: elezione a suffragio
universale di consiglieri responsabili e revocabili in qualunque
momento, loro composizione prevalentemente operaia, natura di
organismo non parlamentare, ma di lavoro, esecutivo e legislativo
al contempo, eliminazione delle attribuzioni politiche della poli-
zia, parità delle retribuzioni dei funzionari al livello del salario
operaio, soppressione dell’esercito permanente e del potere dei
preti, libertà e gratuità dell’istruzione, elettività dei giudici, ecc.
La Comune di Parigi avrebbe inoltre dovuto servire di modello
ai grandi centri industriali della Francia. Una volta stabilito a Pari-
gi e nei centri secondari il regime comunale, il vecchio governo
centralizzato avrebbe dovuto cedere il posto anche nelle provincie
all’autogoverno dei produttori secondo un modello federativo co-
ordinato da organismi centrali in base a un mandato imperativo
degli eletti. L’eliminazione del carattere parassitario del governo
burocratico e la forma repubblicana non sarebbero stati fini in sé
ma il preludio, in forma espansiva e non repressiva, della rivoluzio-
ne sociale, dell’emancipazione economica del lavoro e dell’espro-
priazione degli espropriatori, così che il lavoro produttivo cessasse
di essere un attributo di classe.

Utile integrare il discorso con un riferimento a Engels, che ri-


sulta decisivo per il ruolo che l’amico e spesso ispiratore di Marx,
ebbe nell’organizzare in prima persona il movimento. L’introdu-
zione engelsiana alle Lotte di classe (1895) enfatizza non a caso la
circostanza che Marx, a partire dal 1850, si dedichi agli studi eco-
nomici, trovandovi conferma dell’intuizione che gli eventi rivolu-
zionari del 1848 erano stati in gran parte determinati dalla crisi
commerciale del 1847 e che la prosperità industriale successiva-
mente ristabilitasi tra la fine del 1848 e il 1850 diede nuovo vigore
alla reazione europea. Per di più la tendenza a vedere in quegli
eventi la ripetizione della grande rivoluzione francese portò all’il-
lusione di una lotta vittoriosa, rapida e concentrata del “popolo”
sugli “oppressori”, mentre l’evoluzione economica sul continente
era ben lungi dall’essere matura per l’eliminazione della produzio-
ne capitalistica e quindi la trasformazione sociale rivendicata tra
febbraio e giugno 1848 era impossibile da conquistare «con un

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semplice colpo di sorpresa». Dopo il colpo di stato bonapartista del
1851 «il periodo delle rivoluzioni dal basso era chiuso; seguì un pe-
riodo di rivoluzioni dall’alto», stante l’immaturità delle aspirazioni
proletarie di allora. Del resto, l’esperienza successiva della Comu-
ne del 1871 confermò l’impossibilità per la classe operaia non di
prendere (ci riuscì) ma di mantenere il potere. A seguire la pagine
famose (peggiorate nell’edizione ufficiale socialdemocratica) sui
progressi della classe operaia e del suo Partito grazie al suffragio
universale, sia pure formalmente considerato in prima battuta un
indice dei rapporti di forza sociologici e organizzativi, in seconda
l’esercizio di un diritto di tribuna e propaganda, in terza di parteci-
pazione e controllo delle istituzioni statuali, così che il governo
«arrivò a temere molto più l’azione legale che l’azione illegale del
partito operaio, più le vittorie elettorali che quelle della ribellione».
Al che si aggiunge il giudizio sulla scarsa praticabilità, nei tempi
attuali, delle lotte di strada così determinanti nel 1848-49, la svalu-
tazione della barricata, la conservazione di una forza intatta del-
l’avanguardia senza bruciarla in combattimenti prematuri e senza
farsi provocare a sommosse. Insomma, un assist (pur contraddit-
torio) alla tattica socialdemocratica del “seguire il filo della corren-
te”, per dirla con Benjamin, e alla strategia kautskiana dei due
tempi, il secondo dei quali incessantemente rinviato nel futuro.
Il commento di Engels agli indirizzi e scritti sulla Comune
(1891) è invece fedele al testo commentato (senza la sfiducia di
quattro anni più tardi) e non manca di smarcarsi dal continuismo
storico-filosofico con la tradizione hegeliana e con la superstizio-
ne lassalliana statalista prevalsa già nel congresso di Gotha che
fondò (1875) il partito socialdemocratico tedesco. «Precisamente
in Germania la superstizione dello Stato si è trasportata dalla filo-
sofia nella coscienza generale della borghesia e perfino di molti
operai. Secondo la concezione filosofica, lo Stato è la “realizzazio-
ne dell’Idea”, ovvero il regno di Dio in terra tradotto in linguaggio
filosofico, il campo nel quale la verità e la giustizia eterna si realiz-
za o si deve realizzare. Di qui una superstiziosa idolatria dello
Stato e di tutto ciò che ha relazione con lo Stato, idolatria che si fa
strada tanto più facilmente in quanto si è assuefatti fin da bambini
a immaginare che gli affari e gli interessi comuni a tutta la società
non possano venir curati altrimenti che come sono stati curati fino
ad ora, cioè per mezzo dello Stato e dei suoi bene istallati funziona-
ri. E si crede d’aver già fatto un passo estremamente audace, quan-
do ci si è liberati dalla fede nella monarchia ereditaria e si giura
nella repubblica democratica. In realtà però lo Stato non è che una

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macchina per l’oppressione di una classe da parte di un’altra, e ciò
nella repubblica democratica non meno che nella monarchia; e
nel migliore dei casi un male che viene lasciato in eredità al prole-
tariato riuscito vittorioso nella lotta per il predominio di classe e i
cui lati peggiori non potrà fare a meno, subito, di eliminare nella
misura del possibile, come fece la Comune, finché una nuova ge-
nerazione, cresciuta in condizioni sociali nuove, libere, non sia in
grado di scrollarsi dalle spalle tutto il vecchiume dello Stato [...] Il
filisteo socialdemocratico recentemente si è sentito preso da un
salutare terrore sentendo l’espressione: dittatura del proletariato.
Ebbene, signori, volete sapere cos’è questa dittatura? Guardate la
Comune di Parigi. Questa era la dittatura del proletariato».
Sappiamo bene con quali peripezie il tema fu ripreso in segui-
to. La tradizione del marxismo (teorico e pratico) è un viluppo di
contraddizioni di cui siamo imbarazzati ma non rinunciatari
eredi.

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Da Gramsci a Marx
Avvertenza

Il cap. 1 riproduce, con alcune varianti, il testo della relazione pre-


sentata al convegno “Marx e Gramsci: filologia, filosofia e politica
allo specchio”, organizzato dal Dipartimento di filosofia e politica
dell’Università l’Orientale di Napoli il 4-5 dicembre 2008. Il cap. 2
riprende, con sostanziali rimaneggiamenti, il testo di una comu-
nicazione al seminario “Sulla temporalità plurale”, organizzato
dal Dipartimento di Scienze umane per la formazione “Riccardo
Massa” dell’Università di Milano Bicocca il 29 maggio 2009. Una
prima versione del cap. 3, molto diversa da quella ora pubblicata, è
stata presentata al convegno “Aspetti del pensiero di Marx e delle
interpretazioni successive”, organizzato dal Dipartimento di
Scienze umane per la Formazione “Riccardo Massa” dell’Univer-
sità degli Studi di Milano-Bicocca il 13-15 novembre 2006. Il cap. 4
riprende, con lievi modifiche formali, il testo di una relazione pre-
sentata al convegno “Pensare con Marx, ripensare Marx”, organiz-
zato dal Centro Studi “Livio Maitan” (poi pubblicata col titolo
«Come leggere la Miseria della filosofia (e perché tornare a leggerla
oggi)», in Pensare con Marx. Ripensare Marx, a cura di C. Arruzza,
Edizioni Alegre, Roma 2008, pp. 125-44). Una prima versione del
cap. 5 è stata presentata al seminario “Ideologia, verità e politica”,
organizzato a Urbino dal PRIN 2006 – “Conseguenze della filoso-
fia classica tedesca”, il 21-22 gennaio 2009.

Sigle

MEW = K. Marx, F. Engels, Werke, hrsg. v. Institut fur Marxismus-


Leninismus beim ZK der SED, Dietz, Berlin 1956-1971, 43 voll.
(quando non altrimenti indicato mi servirò, liberamente modifi-
candole, delle traduzioni contenute nelle Opere di Marx ed Engels
pubblicate dagli Editori Riuniti a partire dal 1972 e inizialmente
previste in 50 voll.).

Q = A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto


Gramsci a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 19772. Rinvierò a
questa edizione anche riferendomi ai quaderni e ai paragrafi al
loro interno, nel modo che segue: 1,1 = Quaderno 1, § 1.

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Introduzione

Le cosiddette rivoluzioni del 1848 furono soltanto poveri episodi


– piccole rotture e crepe nella dura crosta della società europea.
Eppure esse resero visibile una voragine1.

Nei Quaderni del carcere c’è un’originale proposta di rilettura di


Marx, consistente nell’indicare il nesso di politica e filosofia, e il
giro di anni che vanno dal 1845 al 1850, come entrambi decisivi per
intendere l’intero pensiero dell’autore del Capitale. Dunque grande
rilievo assegnato al 1848 come esperienza inscindibilmente politi-
ca e filosofica, e individuazione nel concetto di “praxis” della chia-
ve per intendere l’originalità del marxismo: non l’ennesima filoso-
fia, ma il rinnovamento «da cima a fondo» del «modo» stesso «di
concepire la filosofia»2, rinnovamento che conduce alla «morte
della filosofia intesa nel modo tradizionale» perché è il «capovolgi-
mento della posizione tradizionale del problema filosofico»3. Le
pagine che seguono tentano di mettere alla prova quelle indicazio-
ni, commisurandole tanto alla loro origine nel marxismo della III
Internazionale, quanto al modo in cui sono leggibili nella nostra
situazione attuale. Intendo dire che un’operazione come quella
che qui mi sono proposto, richiedeva la combinazione di almeno
due approcci, relativi rispettivamente a Gramsci e al suo mondo, e
al nostro presente, o per la precisione al modo in cui nel nostro
presente si riflettono – o talvolta si trascinano – questioni nate con
Marx e con il rivoluzionamento nel rapporto tra pensiero e masse,
che di Marx è stata la conseguenza maggiore.
1. K. Marx, Discorso per l’anniversario del People’s Paper, Londra, 14 aprile 1856, trad. it. di
M. De Luca in K. Marx, Critica al programma di Gotha, a cura di U. Cerroni, Editori Riu-
niti, Roma 1976, p. 71.
2. Q, 433.
3. Q, 119.

21
Leggere Gramsci non è stato in passato, né è oggi, un compito
agevole. Il significato del suo pensiero non può essere ridotto a un
capitolo di storia della filosofia, anche se la “scienza della politica”
che si trova nei Quaderni del carcere non sfigura nei manuali di sto-
ria delle dottrine politiche. Neanche quella è però la sede idonea a
cogliere la peculiarità di un pensiero che intendeva rivoluzionare
il mondo, tradursi in realtà, nella lucida consapevolezza però del
carattere al contempo interamente filosofico e interamente politi-
co di questo compito. Leggendo Marx e invitando a leggerlo, a tra-
durlo e a diffonderlo4, Gramsci si proponeva senza dubbio di giu-
stificare e legittimare – anzitutto agli occhi dei propri compagni di
partito – questo suo approccio al nesso di verità e politica, ma
anche, e come diretta conseguenza del primo proposito, di rivolu-
zionare il modo di fare politica dei comunisti, conferendole una
“verità-potenza” da cui qualsiasi decisionismo (in termini di aucto-
ritas facit legem) o essenzialismo (nel senso di una filosofia della
storia come sviluppo oggettivo della ragione) erano a suo avviso
condannati a rimanere distanti. L’essenziale del lavoro di Gramsci
nei Quaderni non è dunque né l’escogitazione di una nuova teoria
(secondo una modalità speculativa di approccio alla realtà), né
l’elaborazione di una strategia dettagliata (impossibile nel chiuso
di una prigione), ma il progetto di un nuovo approccio a Marx ca-
pace di rimettere in circolo, nel corpo del comunismo anzitutto
italiano, ma non solo italiano, quella che è secondo l’autore dei
Quaderni la sua vera “scoperta”: la ridefinizione del concetto di
“verità” in termini di “praxis”, e quindi la sua equiparazione alla
potenza di affermare praticamente, mondanamente, in modo im-
manente, la dignità e il valore di un modo di essere del mondo con-
tro tutti gli altri.
«Il germe geniale della nuova visione del mondo»: così aveva
definito Engels il concetto di Praxis nel Ludwig Feuerbach e il punto
d’approdo della filosofia classica tedesca5, pubblicando nel 1888 gli
appunti di Marx su Feuerbach risalenti al 1845 e conferendo loro,

4. Già nella lettera del 14/1/1924 spedita da Vienna al comitato esecutivo del PCd’I,
Gramsci tratteggia un programma di traduzioni ed edizioni che comprende Marx e la
sua dottrina di Lenin, L’essenza del marxismo di Korsch, la Teoria del materialismo storico
di Bucharin, il Manifesto del partito comunista con le note di D. Rjazanov, un’antologia di
testi di Marx ed Engels sul materialismo storico appena pubbliata in URSS, l’Antidü-
hring e L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza di Engels, gli scritti storici più
importanti di Marx, come «il 18 brumaio, la guerra civile in Francia ecc.». Di questi ul-
timi, aggiunge, occorre far «rivedere e correggere le traduzioni esistenti che sono orri-
bili» (Lettere 1908-1926, a cura di A. A. Santucci, Einaudi, Torino 1992, pp. 189-91).
5. MEW, 21, p. 264.

22
così, il rango di “testo”. Ma Engels era anche l’autore dell’Antidü-
hring, dell’Evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, l’instan-
cabile estensore di nuove “prefazioni” che via via avevano “stori-
cizzato” lo sviluppo intellettuale suo e di Marx; l’ideatore, infine,
del grandioso paragone con Darwin contenuto nell’orazione fune-
bre del Moro, per cui uno «scoprì la legge di sviluppo della storia
umana» come l’altro scoprì quella «della natura organica»6. A par-
tire da Engels, molto poco poteva essere costruito, in termini di
unità di teoria e pratica. Per Engels, Marx era l’autore del Capitale e
il Capitale era un libro di “economia”. Viceversa, insistendo sul
nesso praxis-1848 – e in questo rimanendo fedele nella sostanza al
suo articolo del dicembre 1917 La rivoluzione contro il «Capitale» –,
Gramsci si colloca su di un versante al quale difficilmente si posso-
no trovare equivalenti negli anni Venti e Trenta. Non il Lukács di
Storia e coscienza di classe, né il Korsch di Marxismo e filosofia, libri
apparsi entrambi nel 1923 e che – al di là delle differenze – indivi-
duano nella categoria di totalità l’elemento distintivo del marxi-
smo: un riferimento a Hegel (mediato senza dubbio anche dal
Lenin di Sul significato del materialismo militante del 1922) comple-
tamente estraneo a Gramsci, per il quale la via per intendere la dia-
lettica di Marx passa per la concezione dell’immanenza, senza
dubbio di matrice labriolana. Neanche è possibile assimilare la po-
sizione di Gramsci a quella ufficialmente impostasi nel mondo co-
munista dopo la morte di Lenin e riassunta da V. V. Adoratskij nel
discorso del 1° aprile 1931 dinnanzi al comitato esecutivo dell’In-
ternazionale comunista. Qui il lavoro del suo predecessore alla di-
rezione della MEGA, D. Rjazanov (arrestato il 15 febbraio), era de-
finito «un diretto tradimento della causa del proletariato», in quan-
to aveva privilegiato la pubblicazione «di quei lavori giovanili di
Marx ed Engels, in cui essi erano ancora giovani-hegeliani, o nei
quali compirono il passaggio al materialismo dialettico, muoven-
do solo i primi passi all’interno della nuova concezione del
mondo»7. Invece, riprendendo la tematica labriolana dell’imma-
nenza, la rilettura dell’unità di teoria e pratica come chiave per in-
tendere il pensiero di Marx, precipita nei Quaderni in un progetto
di studio, edizione e riproposizione esattamente di quel Marx,
anche se non certamente in chiave “giovane-hegeliana”.

6. MEW, 19, pp. 335-7.


7. Cit. in I. Taubert, H. Pelger, «Einführung» a K. Marx, F. Engels, J. Weydemeyer, Die
deutsche Ideologie. Artikel, Druckvorlagen, Entwürfe, Reinschriftenfragmente und Notizen
zu I. Feuerbach und II. Sankt Bruno, Text, Akademie Verlag, Berlin 2004 (Marx-Engels-
Jahrbuch, 2003), pp. 5-28, qui 14.

23
La via per accedere a questo intento, passa anzitutto per la di-
stinzione critica di Marx da Engels:

Naturalmente non bisogna sottovalutare il contributo di Engels, ma non biso-


gna neanche identificare Engels con Marx, non bisogna pensare che tutto ciò
che Engels attribuisce a Marx sia autentico in senso assoluto. È certo che En-
gels ha dato la prova di un disinteresse e di un’assenza di vanità personale
unica nella storia della letteratura: non è minimamente da porre in dubbio la
sua assoluta lealtà personale. Ma il fatto è che Engels non è Marx e che se si
vuole conoscere Marx bisogna specialmente cercarlo nelle sue opere autenti-
che, pubblicate sotto la sua diretta personalità8.

Liberato dall’ingombro del Capitale come “opera” e anzi “opera


completa”, diventa possibile ridefinire complessivamente la per-
sonalità di Marx e il baricentro della sua biografia: da “scienziato”
a “politico”, e da estensore di un’opera sistematica ad autore non
sistematico, e non sistematico perché il suo è un pensiero strategi-
co, nella congiuntura e quindi non racchiudibile in “formule”:
«un pensatore non sistematico, [...] una personalità nella quale
l’attività teorica e l’attività pratica sono intrecciate indissolubil-
mente, [...] un intelletto pertanto in continua creazione e in perpe-
tuo movimento»9. Di qui l’inevitabile necessità, sulla base di una
critica filologica rigorosa, di andare oltre la letteralità del testo: «La
ricerca del leit-motiv, del ritmo del pensiero, più importante delle
singole citazioni staccate»10.
Questo passaggio dei Quaderni, da Gramsci riferito a Marx, è
ormai (a partire da un’indicazione di Eugenio Garin risalente al
1958) abitualmente inteso come allusione autobiografica11. Questo
spostamento, se contribuisce a illuminare la personalità di Gram-
sci, non può far perdere di vista il fatto che l’insieme dei Quaderni
propongono una rilettura di Marx perfettamente coerente con
quella definizione. Sottrarre Marx alla tutela di Engels, e quindi
allo stesso “marxismo”, è condizione reale e non pretestuosa, agli
occhi di Gramsci, per restituire Marx alla novità inaudita del suo
pensiero, della sua filosofia; ma, di nuovo, non per restaurare

8. Q, 420.
9. Q, 419.
10. Ibidem.
11. Cfr. E. Garin, «Gramsci nella cultura italiana», ora in Id., Con Gramsci, Editori Riu-
niti, Roma 1997, pp. 41-61, qui 41-2. Cfr. anche V. Gerratana, Gramsci. Problemi di meto-
do, Editori Riuniti, Roma 1997, pp. 4-5; e ora la voce «ritmo del pensiero» (di E. Foren-
za), in Dizionario gramsciano 1926-1937, a cura di G. Liguori e P. Voza, Carocci, Roma
2009.

24
quella novità, quella originalità in una presunta nettezza anteriore
alle successive cadute, costruendo così un nuovo “ismo”; ma per
intessere attorno ad essa una concezione altrettanto nuova di “or-
todossia”, una concezione per così dire “vuota”, che sia base e pre-
supposto di una continua rilettura e intervento sui testi di Marx:

Il concetto di «ortodossia» deve essere rinnovato e riportato alle sue origini


autentiche. L’ortodossia non deve essere ricercata in questo o quello dei se-
guaci della filosofia della praxis, in questa o quella tendenza legata a correnti
estranee alla dottrina originale, ma nel concetto fondamentale che la filosofia
della praxis «basta a se stessa», contiene in sé tutti gli elementi fondamentali
per costruire una totale ed integrale concezione del mondo, una totale filoso-
fia e teoria delle scienze naturali, non solo, ma anche per vivificare una inte-
grale organizzazione pratica della società, cioè per diventare una totale, inte-
grale civiltà12.

Il paradosso sta in ciò, che rimuovendo via via gli strati accu-
mulatisi sopra l’autentico nucleo dell’ortodossia, ciò che alla fine
rimane, non è il testo autentico, la volontà esplicita dell’autore o si-
mili; ciò che residua è una discussione su quale sia il pensiero au-
tentico di Marx, discussione che non può chiudersi evidentemen-
te mai, perché equivarrebbe a ricadere nella personalizzazione
dell’ortodossia con «questo o quello» dei marxisti13. Il criterio del-
l’autosufficienza, del resto, non può che mantenere quella discus-
sione aperta: esso infatti consiste nella dimostrazione pratica della
capacità, da parte di una determinata dottrina, di innovare teorica-
mente e praticamente la civiltà, fino a identificarsi con una forma
di essa “integralmente” nuova.
L’allusione al tema marxiano della filosofia che diventa realtà,
impadronendosi delle masse, è fin troppo evidente per essere sotta-
ciuta. Essa spinge il paradosso fino ai suoi limiti, perché sottrae l’or-
todossia agli uomini, per consegnarla ai rapporti reali, a ciò che nes-
sun individuo in particolare – e neanche come “insieme” più o
meno organizzato – può decretare; anzi che non si può decretare in
assoluto, ma solo “si fa”. La fusione di filosofia e realtà, cioè la rivo-
luzione – tema germinale e decisivo del primissimo Marx – viene da
Gramsci sottratta a ogni tentazione umanistica, perché non più im-
putata a un possibile “soggetto”, comunque lo si voglia pensare, e

12. Q, 1434.
13. Nella prima stesura di questo brano Gramsci aveva scritto in modo più restrittivo
«in questo o quello dei discepoli di Marx» (Q, 435), così allacciandosi all’ortodossia “sto-
rica”. Nella riformulazione della seconda stesura il tema viene generalizzato.

25
consegnata ai “rapporti reali”. Questa centralità dei rapporti reali o,
per dirla con Gramsci, dei rapporti di forze nell’atto di definire cosa
sia la “realtà”, si intreccia sia con la lettura gramsciana di Marx, sia
con l’elaborazione del suo pensiero più originale, ed è perciò al cen-
tro del modo in cui ho qui tentato di ricostruire il pensiero di Marx.
D’altra parte (vengo così alla seconda delle premesse formula-
te sopra), qualsiasi rilettura di Gramsci e di Marx, e del loro nesso,
non può non tenere conto della situazione attuale, in particolare
dell’inesistenza più completa, oggi, di qualsiasi nesso tra l’eredità
teorica del marxismo e la politica della sinistra. Dinnanzi a questa
separazione (realizzatasi, come la precedente fusione, nel corso di
decenni e quindi non ascrivibile a responsabilità individuali), sta
oggi un pensiero critico che, per gli aspetti che oltrepassano la sto-
ria delle idee, cioè nei suoi momenti di riflessione teorica sull’at-
tualità, si presenta estremamente frastagliato, sia pure sotto una
comune fonte di ispirazione post-modernistica. In particolare, da
una prospettiva italiana, colpisce particolarmente la quasi comple-
ta mancanza di comunicazione e di reciproche “traduzioni” tra il
pensiero che per brevità definirò post-operaistico e la cultura
erede della grande stagione gramsciana, in particolare di quella
degli anni Settanta. Riferimenti assai diversi campeggiano nei
due schieramenti: anche qui, per amore di brevità, sarà sufficiente
riprendere la contrapposizione di Spinoza e Hegel.
Con questo intervento non intendo realizzare nessuna media-
zione, ma sì proporre alcune possibili traduzioni, affinché i primi
segnali di reciproca attenzione tra le due culture, che abbiamo fi-
nalmente iniziato a vedere grazie al crescente interesse, anche da
noi, per gli studi culturali, subalterni e post-coloniali14, non si ridu-
cano a gesti di cortesia o, peggio, alla manifestazione della debo-
lezza e della mancanza di idee di una parte sola, quella oggi decisa-
mente “fuori moda”. Per fare questo, mi sono riferito in modo pri-
vilegiato agli interventi di Ernesto Laclau, perché Laclau,
all’interno della teoria politica della sinistra post-modernistica, è a
mio avviso quello che maggiormente presenta un tipo di pensiero
“strategico” (e in questo senso gramsciano)15; e perché egli, per la

14. Cfr. Culture planetarie? Prospettive e limiti della teoria e della critica culturale, a cura di
S. Adamo, Meltemi, Roma 2007; Studi gramsciani nel mondo. Gli studi culturali, a cura
di G. Vacca, P. Capuzzo, G. Schirru, il Mulino, Bologna 2009; e Gramsci e le culture del
mondo, Convegno internazionale di studi organizzato dalla Fondazione Istituto Gram-
sci e dalla International Gramsci Society-Italia, Roma 27-28 aprile 2007 (gli atti sono in
corso di pubblicazione).
15. Cfr. O. Marchart, «Politics and the Ontological Difference. On the “strictly philoso-
phical” in Laclau’s work», in Laclau. A critical reader, ed. by S. Critchley and O. Marchart,

26
sua stessa provenienza è, all’interno del pensiero decostruzionisti-
co, uno dei pochissimi che realmente e a fondo conosce Gramsci.
Difatti il suo contributo fondamentale – l’elaborazione del concet-
to di egemonia – si è sviluppato sulla base di un serrato confronto
con i Quaderni del carcere. Ciò facendo, e cioè riformulando la teo-
ria dell’egemonia nei termini di una teoria del discorso, Laclau ha
individuato a mio avviso un punto di sofferenza reale nel pensiero
di Gramsci e nel marxismo in generale: un dissidio tra un essen-
zialismo di fondo e i tentativi “storicistici” di dissolverlo, soprattut-
to a livello degli effetti (l’incapacità di pensare politicamente), che
alimenta la crisi del marxismo di fine secolo e la sua rinascita suc-
cessiva. Per questa ragione, l’interpretazione di Laclau va assunta
come uno snodo decisivo per lo meno nella storia delle interpreta-
zioni di Gramsci. La lettura di Gramsci, da cui prendo le mosse,
deve insomma molto a Laclau: molto ma non tutto, perché (come
tento di mostrare nell’ultimo capitolo), Gramsci dopo Laclau parla
ancora: parla anzi proprio grazie a quella lettura (o agli stimoli pro-
venienti da essa), dicendo cose – immanenza, praxis, egemonia,
universalità, modernità, comunismo – che quella lettura non in-
tende, ma aiuta a intendere.

Routledge, London and New York 2004, pp. 54-72, qui 55: «Despite its crystal-clear and
“logical” argumentative procedures, [...] the very nature of his thought is decisively stra-
tegic».

27
Dalla filosofia di Marx
alla filosofia della praxis

Nelle pagine che seguono tenterò di illustrare per sommi capi la


proposta di rilettura e ricostruzione di Marx elaborata da Gramsci
nei Quaderni del carcere, e tenterò, insieme, di argomentare una
duplice tesi: che tale proposta ha il senso di un’eversione del pen-
siero di Marx, ma che questa eversione nasce dalla necessità di in-
tervenire in un’aporia presente in quel pensiero, un’aporia da
Gramsci individuata con precisione, e nascente dal fatto che in
Marx teoria della verità e teoria dell’ideologia sono separate. Mo-
strerò infine che quell’eversione è l’unico modo per leggere in
modo coerente Marx, in quanto mette in questione delle evidenze,
che non sono altro che la sedimentazione di una difficoltà. Solo ri-
scoprendo quella difficoltà nella contingenza e nella congiuntura-
lità del suo sorgere1, è possibile darle una risposta. Gramsci fa que-
sto: ripensare ciò che Marx ha pensato, con lo stesso grado di aper-
tura e novità con il quale egli l’ha fatto.

1. Marx al di qua del marxismo


Sulla personalità di Marx, e sul modo di ricostruirne l’itinera-
rio, Gramsci torna varie volte. La più nota è un testo dei Quaderni
del carcere; precisamente, è il primo testo di un blocco da Gramsci
intitolato Appunti di filosofia. Prima serie. Si tratta dunque di un
passaggio collocato nella strategica posizione di un incipit. In esso
si insiste sulla necessità di un approccio rigoroso, filologicamente
accurato e poggiante sulle edizioni critiche. Ma in esso sono conte-

1. L’elaborazione politica del metodo della contingenza è dovuto a E. Laclau, le cui tesi
tengo sempre presenti. Cfr. in particolare E. Laclau, Ch. Mouffe, Hegemony and Socia-
list Strategy. Towards a Radical Democratic Politics, Verso, London 20012, e E. Laclau, New
Reflections on the Revolution of Our Time, Verso, London 1990.

29
nute anche due osservazioni che rinviano a un’interpretazione ori-
ginale: una definizione complessiva di Marx, e una valutazione
globale del rapporto Marx-Engels.
Prendiamo la prima osservazione: Marx è «un pensatore non
sistematico, [...] una personalità nella quale l’attività teorica e l’atti-
vità pratica sono intrecciate indissolubilmente, [...] un intelletto
pertanto in continua creazione e in perpetuo movimento»2. Di
conseguenza «la ricerca del leit-motiv, del ritmo del pensiero, più
importante delle singole citazioni staccate». Ora, se uniamo le due
cose troviamo un dato forse sorprendente: il Leitmotiv del pensiero
di Marx lo potremo attingere, al di sotto delle «citazioni staccate»,
solo se rinunceremo a cercarlo nella forma di “sistema”; e se indi-
vidueremo positivamente la ragione dell’impossibilità del “siste-
ma” nel (come Gramsci scrive già in un testo del Quaderno 1) «ca-
rattere eminentemente pratico-critico del Marx»3. È, come si vede,
un’immagine inconciliabile con quella del Marx scienziato che
«scoprì la legge di sviluppo della storia umana», come Darwin sco-
prì quella «della natura organica», secondo il paragone fatto da En-
gels nel suo discorso funebre4.
Giungiamo così alla seconda osservazione: il rapporto Marx-
Engels:

Solo in seconda linea, nello studio di un pensiero originale e personale, viene


il contributo di altre persone alla sua documentazione. Per Marx: Engels. Na-
turalmente non bisogna sottovalutare il contributo di Engels, ma non biso-
gna neanche identificare Engels con Marx, non bisogna pensare che tutto ciò
che Engels attribuisce a Marx sia autentico in senso assoluto5.

Il giudizio è in seconda stesura ancor meglio motivato e reso


netto6. Ora, quale conseguenza trarre da questo incipit, se non che
Gramsci andava cercando un Marx liberato dal marxismo, come si
era venuto definendo a partire dall’Antidühring? Questo libro aveva
avviato la manualizzazione della filosofia/politica di Marx, ed è pro-
prio su questo «tentativo, troppo esteriore e formale, di elaborare un
sistema di concetti, intorno al nucleo originario di filosofia della pra-
xis, che soddisfacesse il bisogno scolastico di compiutezza»7, e che

2. Q, 419.
3. Q, 134.
4. MEW, 19, pp. 335-7.
5. Q, 420.
6. Cfr. Q, 1843.
7. Q, 1786.

30
però viene regolarmente assunto «come fonte autentica e spesso
come sola fonte autentica»8, che si appunta la critica di Gramsci.
Perché la manualizzazione engelsiana perde di vista – proprio in
quanto è una manualizzazione – l’originalità dell’approccio di
Marx: quella che Gramsci chiama “filosofia della praxis”. Anche
altrove Gramsci ribadisce l’assoluta peculiarità di statuto della fi-
losofia di Marx, in particolare in 4,11, dove afferma che «in sede
teorica, il marxismo non si confonde e non si riduce a nessun’al-
tra filosofia: esso non è solo originale in quanto supera le filosofie
precedenti, ma è originale specialmente in quanto apre una stra-
da completamente nuova, cioè rinnova da cima a fondo il modo di
concepire la filosofia»9.
Possiamo dire dunque che, secondo Gramsci, la “filosofia di
Marx” nasce, nel momento in cui questi “scopre” (le virgolette
sono qui d’obbligo) il principio dell’unità della teoria e della prati-
ca, della filosofia e della politica, perché ciò gli permette di far di-
ventare la lotta politica reale (e non il suo semplice e unitario “con-
cetto”) il principio di un nuovo modo di fare filosofia, – che è qualco-
sa di diverso, si badi, dall’assunzione della lotta politica a contenuto
della filosofia. Questo c’era anche in Hegel, ma non metteva in
questione lo statuto “speculativo” della filosofia, anzi lo rafforzava
a unico possibile. «Marx – nota Gramsci – non poteva avere espe-
rienze storiche superiori a quelle di Hegel (almeno molto superio-
ri), ma aveva il senso delle masse, per la sua attività giornalistica e
agitatoria»10. Ecco: la filosofia di Marx nasce nel momento in cui
questo «senso delle masse» viene elevato a principio di conoscenza.
In una definizione: il Marx di Gramsci è filosofo in quanto è politi-
co, e non è invece (secondo l’immagine sedimentatasi a partire
dallo stesso Marx) politico in quanto scienziato11.

8. Q, 420.
9. Q, 433, corsivo mio.
10. Q, 57.
11. Il celebre passaggio sull’«uomo politico [che] scrive di filosofia» mentre «può darsi
che la sua “vera” filosofia sia invece da ricercarsi negli scritti di politica» (Q, 472-3),
molto probabilmente da riferirsi a Lenin (corrisponde infatti precisamente al modo in
cui Gramsci lo legge: ignorando o criticando i suoi testi “filosofici”, ed estraendo invece
la sua filosofia dal «concetto» e dal «fatto di egemonia» a lui dovuto e da lui realizzato in
un luogo determinato, Q, 882), potrebbe però essere riferito anche a Marx, il quale
quindi prescinderebbe «dagli idola del tempo» (Q, 473), cioè dal positivismo, in quanto
è un “politico”. Del resto nel celebre La rivoluzione contro il «Capitale», del 1917, Gram-
sci aveva scritto che i bolscevichi «vivono il pensiero marxista, quello che non muore
mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco, e che in Marx si
era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche» (La città futura. 1917-
1918, a cura di S. Caprioglio, Einaudi, Torino 1982, p. 514).

31
2. La filosofia di Marx come filosofia della praxis
Se si prendono in considerazione i concreti tracciati di lettura
dei testi di Marx contenuti nei Quaderni, non sorprenderà consta-
tare che il Marx qui presente è quello che va dal 1845 al 1850, cioè
dalle Tesi su Feuerbach a tutta la stagione di lotte dominata dalla pa-
rola d’ordine della “rivoluzione in permanenza”. Così dicendo,
non s’intende affatto negare che Gramsci registra l’obsolescenza
storica e quindi l’inefficacia politica di quella parola d’ordine sosti-
tuita da “egemonia civile”12. Questo è vero, ma non smentisce, a
mio avviso, il fatto che il Marx da attualizzare è per Gramsci preci-
samente il combattente del Vormärz e non lo studioso-scienziato
del British Museum: non è l’autore del Capitale. Attualizzare infat-
ti non vuole dire riprendere meccanicamente, ma ripensare in ter-
mini attuali. Esattamente come nel caso del giacobinismo, anche
per la rivoluzione in permanenza Gramsci distingue un’attualiz-
zazione verbale e retorica da una «di contenuto». Si veda 1,48:

Lo sviluppo del giacobinismo (di contenuto) ha trovato la sua perfezione for-


male nel regime parlamentare, che realizza nel periodo più ricco di energie
«private» nella società l’egemonia della classe urbana su tutta la popolazione,
nella forma hegeliana di governo col consenso permanentemente organizza-
to (coll’organizzazione lasciata all’iniziativa privata, quindi di carattere mora-
le o etico, perché consenso «volontario», in un modo o nell’altro)13.

E il quasi immediatamente precedente 1,44:

A proposito della parola d’ordine «giacobina» lanciata da Marx alla Germania


del ’48-49 è da osservare la sua complicata fortuna. Ripresa, sistematizzata,
elaborata, intellettualizzata dal gruppo Parvus-Bronstein, si manifestò inerte
e inefficace nel 1905 e in seguito: era una cosa astratta, da gabinetto scientifi-
co. La corrente che la avversò in questa sua manifestazione intellettualizzata,
invece, senza usarla «di proposito» la impiegò di fatto nella sua forma storica,
concreta, vivente, adatta al tempo e al luogo, come scaturiente da tutti i pori
della società che occorreva trasformare, di alleanza tra due classi con l’egemo-
nia della classe urbana14.

12. Cfr. Q, 952-3. Su questo passagio storico, sul quale Gramsci torna più volte, hanno
insistito molti interpreti. Cfr. per tutti C. Buci-Glucksmann, Gramsci e lo Stato. Per una
teoria materialistica della filosofia, trad. it. di C. Mancina e G. Saponaro, Editori Riuniti,
Roma 1976, pp. 318-21; e ora A. Rossi, G. Vacca, Gramsci tra Mussolini e Stalin, Fazi,
Roma 2007, pp. 128-31.
13. Q, 58.
14. Q, 54.

32
C’è dunque, agli occhi di Gramsci, un nesso forte tra la parola
d’ordine quarantottesca lanciata da Marx, il giacobinismo nella sua
effettività storica, e l’organizzazione egemonica corrispondente
allo Stato moderno (hegeliano!), cioè l’alleanza tra classi produtti-
ve urbane e ceti contadini. Insomma: l’unica maniera per utilizza-
re oggi la rivoluzione in permanenza – a differenza di Parvus e
Bronstein, che l’hanno ridotta a una “teoria” (l’hanno «sistematiz-
zata»)15 –, è di pensarla storicamente e politicamente, come struttu-
ra dell’egemonia; ma anche all’inverso: l’unico modo per pensare
l’egemonia all’altezza di Marx (senza lasciarla cadere in una com-
posizione “passiva” di tipo hegeliano16, o lasciarla derivare in un
“repubblicanesimo” vuoto e infine retorico, di tipo giacobino-radi-
cale), è di ancorarla alla rivoluzione in permanenza.
Ora, cosa vuole dire precisamente “pensare all’altezza di
Marx”? La risposta a questo interrogativo la si trova nel modo in cui
Gramsci organizza la propria lettura di tre testi: le Tesi su Feuer-
bach, la Miseria della filosofia e la Prefazione del 1859 a Per la critica
dell’economia politica. Mi soffermerò qui solo sull’ultimo testo17, sia
per il suo carattere temporalmente eccentrico rispetto agli altri
due, sia perché è il luogo in cui, per le ragioni e nei modi che subi-
to si vedranno, emerge il “tradimento” di Marx. Gramsci infatti
esplicitamente manomette il testo della Prefazione in 4,37: ricor-
dando che secondo Marx gli uomini prendono consapevolezza del
conflitto tra forze produttive e rapporti di produzione «nel terreno
ideologico», egli si domanda se «questa consapevolezza è solo li-
mitata al conflitto tra le forze materiali di produzione e i rapporti
di produzione – come materialmente dice il testo marxista – o si ri-
ferisce a ogni consapevolezza, cioè a ogni conoscenza»18. Questa
manomissione comporta diverse conseguenze: tra le altre, l’equi-
parazione della questione dell’ideologia a quella della conoscenza, che
è a ben vedere un sovvertimento del concetto marxiano di ideolo-

15. Sul rapporto tra Trockij e A. L. Helphand (alias Parvus) cfr. I. Deutscher, The Prophet
Armed. Trotsky 1921-1929, Verso, London 2003, cap. 4 (pp. 81-96). Sulla teoria della rivo-
luzione permanente cfr. ivi, pp. 120-44.
16. Sottolinea questo nesso tra egemonia ed elaborazione della teoria della rivoluzione
passiva D. Kanoussi, Una introducción a Los cuadernos de la cárcel de Antonio Gramsci,
Plaza y Valdés, México D.F. 2000, pp. 43-5, 66-81, 140-1, 144-6.
17. Sul modo in cui Gramsci rilegge e “ricostruisce” Marx in carcere mi permetto di rin-
viare al mio «Il ‘ritorno a Marx’ nei “Quaderni del carcere” (1930)», in Marx e Gramsci.
Memoria e attualità, a cura di G. Petronio e M. Paladini Musitelli, manifestolibri, Roma
2001, pp. 33-68. Cfr. ora, sull’intero arco del pensiero gramsciano, F. Izzo, «I Marx di
Gramsci», in Antonio Gramsci nel suo tempo, a cura di F. Giasi, Carocci, Roma 2009, pp.
553-80.
18. Q, 455.

33
gia, almeno per come viene ricostruito nella Prefazione (qui infat-
ti l’ideologia è presentata come un Holzweg della conoscenza), e
quindi del senso complessivo di quel testo. Gramsci introduce in-
fatti la manomissione sopra citata, notando che «per la quistione
della “obbiettività” della conoscenza secondo il materialismo sto-
rico, il punto di partenza deve essere l’affermazione di Marx» nella
Prefazione ecc.19. Qui scrive, è vero, “obbiettività” tra virgolette,
ma perché si tratta appunto di un’obbiettività di tipo nuovo (esatta-
mente come lo statuto della filosofia di Marx): un’obbiettività stori-
ca e contingente, ma al contempo valida e cogente.
Dunque, da testo sulla distinzione epistemologica tra conoscen-
za scientifica («l’anatomia della società civile è da ricercarsi nella
economia politica») e ideologia, la Prefazione del 1859 viene da
Gramsci ribaltata a teoria dell’obbiettività ideologica, e quindi a teoria
della validità gnoseologica delle superstrutture. Infatti egli così prose-
gue: «Questo è il problema: che può essere risolto con tutto l’insie-
me della dottrina filosofica del valore delle superstrutture ideologi-
che»20. E nel testo seguente (4,38) specifica quest’ultima afferma-
zione: «la tesi di Marx – che gli uomini acquistano coscienza dei
conflitti fondamentali nel terreno delle ideologie – ha un valore or-
ganico, è una tesi gnoseologica e non psicologica o morale»21.
Ora, da cosa è resa possibile questa equiparazione di ideologia
e verità? Da ciò che, evidentemente, Gramsci sta leggendo la Pre-
fazione sulla base delle Tesi su Feuerbach, il concetto di ideologia
sulla base della riformulazione della questione della verità in ter-
mini di praxis. Quella verità da Marx ridefinita come «realtà e [...]
potere» del pensiero che si può dimostrare solo nella «attività pra-
tica» (tesi 2), è il sostrato, in Gramsci, di una concezione efficace
delle ideologie, come altrettante modalità di questa “dimostrazio-
ne”, in cui conoscenza e prassi politica sono la stessa cosa.
Questa lettura è confermata dall’attacco di 4,38, dove Gramsci,
dopo aver ricordato quelli che egli definisce i due “principii” della
Prefazione relativi alle crisi storiche – «1°) il principio che “nessu-
na società si pone dei compiti per la cui soluzione non esistano già
le condizioni necessarie e sufficienti” [o esse non siano in corso di
sviluppo e di apparizione], e 2°) che “nessuna società cade se

19. Q, 454-5.
20. Q, 455.
21. Q, 463. Sul valore gnoseologico delle superstrutture cfr. inoltre 10 II,12 (Q, 1249-50),
e la relativa prima stesura 4,38 (Q, 464-5), che è la parte conclusiva del testo, in seconda
stesura scorporata a testo indipendente. Qui il valore gnoseologico delle superstrutture
è avvalorato dal rinvio all’egemonia realizzata da Lenin come “riforma filosofica”.

34
prima non ha svolto tutte le forme di vita che sono implicite nei
suoi rapporti”»22, scrive subito:

Esiste una crisi, che si prolunga talvolta per decine di anni. Ciò significa che
nella struttura si sono rivelate contraddizioni insanabili, che le forze politiche
operanti positivamente alla conservazione della struttura stessa si sforzano
tuttavia di sanare entro certi limiti; questi sforzi incessanti e perseveranti
(poiché nessuna forma sociale vorrà mai confessare di essere superata) for-
mano il terreno dell’«occasionale» sul quale si organizzano le forze che «cerca-
no» di dimostrare (coi fatti in ultima analisi, cioè col proprio trionfo, ma immedia-
tamente con la polemica ideologica, religiosa, filosofica, politica, giuridica ecc.) che
«esistono già le condizioni necessarie e sufficienti perché determinati compi-
ti possano e quindi debbano essere risolti storicamente»23.

Come si vede, il passo della Prefazione viene riscritto mesco-


lando il suo lessico “ideologico” con quello “veritativo” delle Tesi su
Feuerbach («dimostrare»).
Gramsci legge la Prefazione – incunabolo del “materialismo
storico” – come prosecuzione coerente degli aforismi di quattordi-
ci anni addietro, come se il trauma del Quarantotto non ci fosse
stato, come se Marx, prendendo il proprio posto al British Mu-
seum, non fosse stato indotto a dare al proprio tragitto di studio un
radicale nuovo inizio, «a ricominciare di nuovo dal principio»24,
come egli scrive nella Prefazione del 1859. E infatti, poco più avan-
ti, nello stesso 4,38, Gramsci scrive: «la mediazione dialettica tra i
due principii del materialismo storico riportati in principio di que-
sta nota è il concetto di rivoluzione permanente»25.
Ricapitoliamo: i due principî fondamentali del materialismo
storico, quelli che il marxismo della Seconda Internazionale aveva
letto in chiave evoluzionistica, separando e subordinando la volon-
tà-politica alla storia-economia, vengono interpretati a ritroso, gra-
zie alle Tesi su Feuerbach, come attualizzazione (nel senso detto
sopra) del concetto di «rivoluzione in permanenza». La fusione di
problematica dell’ideologia e della verità conduce a ritrovare il noc-
ciolo del pensiero di Marx nell’unità di storia e politica. Quei due
“principii”, che Marx non enuncia come tali e tanto meno esige di
“mediare dialetticamente”26, sono trasformati da Gramsci in enun-

22. Q, 455.
23. Q, 455-6, cors. mio.
24. MEW, 13, pp. 10-1.
25. Q, 456-7.
26. Cfr. V. Gerratana, Gramsci. Problemi di metodo, Editori Riuniti, Roma 1997, pp. 111-2.

35
ciazione della riducibilità delle costanti strutturali della “storia” a
forme organizzate di “politica”. In questa sua attualizzazione, la “ri-
voluzione in permanenza” sta pertanto a designare due sposta-
menti concatenati: a) la riduzione di tutti i nessi di condizionamen-
to strutturale (“economico”) a rapporti pratico-politici; b) la rico-
struzione di tutti i rapporti pratici come “rapporti di forze”.
Il concetto di rapporti di forze viene introdotto in quello stesso
4,38 nel contesto di un tentativo di rendere pensabili in modo non
astratto e non generico i rapporti tra struttura e superstrutture. E in
effetti, un volta ridotta la vita sociale a praxis (si ricordi la tesi 8 Su
Feuerbach: «la vita sociale è essenzialmente pratica»), il rischio è di
interpretare la praxis come principio unico e generico, ciò che ren-
derebbe di nuovo la politica subalterna a una forma di essenziali-
smo27. Con la nozione di “rapporti di forze”, Gramsci realizza uno
stacco radicale rispetto a qualsiasi approccio essenzialistico alla po-
litica, perché nei rapporti di forze i “rapporti sociali” sono già arti-
colati ideologicamente e già percorsi da una conflittualità politica
organizzata. Al loro livello non vi è una dimensione “oggettiva” che
non sia sempre in qualche modo anche “soggettiva”, cioè ideologica-
mente e politicamente organizzata28. Al livello dei rapporti di forze,
la storia come processo e la politica come lotta attuale sempre coin-
cidono, e quindi ciò che si chiama “il processo storico” sarà sola-
mente l’effetto specifico di una determinata sistemazione dei rappor-
ti di forze, di quella sistemazione nella quale una forza organizzata
ha realizzato una compiuta egemonia sulla società, assorbendo e
subordinando a sé tutte le altre istanze sotto un’idea di universalità
e di unità processuale del tempo. Non c’è egemonia senza moder-
nità: perciò, quando un’egemonia “fa presa”, la storia appare come
un processo. In questo modo, Gramsci giunge a definire la società
come un’articolazione politica contingente29.

3. Prassi e verità/ideologia
Dov’è la necessità del tradimento della Prefazione del 1859? Per
dare una risposta a questa domanda, dobbiamo prendere in consi-
derazione alcuni passaggi del pensiero di Marx, al di qua della si-

27. Questo rischio è segnalato da A. Tosel, «Forza e limiti della filosofia della prassi», in
Gramsci da un secolo all’altro, a cura di G. Baratta e G. Liguori, Editori Riuniti, Roma
1999, pp. 141-59.
28. Cfr. infra, pp. 110-1 e nota 24.
29. Cfr. Laclau, Mouffe, Hegemony and Socialist Strategy, cit., pp. 134-45; ma anche lo
straordinario libro di L. Razeto Migliaro e P. Misuraca, Sociologia e marxismo nella criti-
ca di Gramsci. Dalla critica delle sociologie alla scienza della storia e della politica, De Dona-
to, Bari 1978, pp. 114-6.

36
stemazione che egli stesso ne dà nel curriculum contenuto nella
Prefazione del 1859.
Iniziamo dall’idea della “rivoluzione in permanenza”. Nel Mani-
festo del partito comunista, la storia della modernità, in quanto storia
della diffusione del capitalismo, viene letta come intreccio struttu-
rale di dissoluzione e ricostituzione di tutti i rapporti: la borghesia
«non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumen-
ti di produzione, dunque i rapporti di produzione, dunque tutto l’in-
sieme dei rapporti sociali»30. In questa ricostruzione, nel mondo bor-
ghese la rivoluzione si identifica paradossalmente con la condizione
di esistenza, con il fondamento stesso. Il fondamento del mondo ca-
pitalistico-borghese è dunque strutturalmente dislocato, non iden-
tico a se stesso31. Questo è il fatto da cui, per Marx, bisogna partire
non solo politicamente, ma teoricamente, filosoficamente.
La peculiare struttura del mondo capitalistico-borghese non è
però un fatto che si possa riconoscere “a occhio nudo”, non è
un’evidenza di senso comune. Ciò che il senso comune apprende,
è il caos della dis-integrazione: è la fine dei vecchi mestieri, delle
vecchie congregazioni sociali, di un “mondo” percepito come ras-
sicurante, ma in realtà fondato sulla chiusura cetuale. Marx si con-
fronta con gli interstizi paradossali, assurdi che si aprono nel tra-
vagliato passaggio dal vecchio al nuovo, quando nella Questione
ebraica contrappone la «società civile» come regno dell’egoismo e
della particolarità, allo Stato politico come sfera di un’emancipa-
zione immaginaria e di una «sovranità fantastica»32, e riconduce
questa scissione al carattere solo politico dell’emancipazione bor-
ghese, distinta dall’emancipazione «umana»33. L’emancipazione
politica ha fatto «necessariamente a pezzi tutti i ceti, le corporazio-
ni, le gilde, i privilegi»34, ma il risultato di ciò, è stata l’identificazio-
ne della società civile con il dominio di un’assoluta differenza35. La
natura dislocata del fondamento del mondo borghese è, a questa
altezza, un movimento parziale, che si oppone frontalmente a due
differenti compensazioni: quella immaginaria dell’«idealismo di
Stato»36, e quella reale dell’unione di «forze proprie» e «forze so-
ciali» nell’«ente generico»37.
30. MEW, 4, p. 465, cors. mio.
31. Cfr. Laclau, New Reflections on the Revolution of Our Time, cit., pp. 4-5, 39-40.
32. B. Bauer, K. Marx, La questione ebraica, a cura di M. Tomba, manifestolibri, Roma
2004, p. 184.
33. Ivi, p. 199.
34. Ivi, p. 197.
35. Ivi, p. 185.
36. Ivi, p. 198.
37. Ivi, p. 199.

37
Ma questo schema salta quando, nelle Tesi su Feuerbach, Marx
identifica l’essenza umana con l’«insieme (das ensemble) dei rap-
porti sociali»38, e individua in questo intreccio aperto e in perma-
nente trasformazione, non totalizzabile e percorso da un’interna
conflittualità, il soggetto reale della conoscenza e dell’azione. In
questo modo cade la dicotomia tra mobilitazione sociale e ricom-
posizione politica, essendo la società già, in quanto tale, il luogo di
una continua scomposizione e ricomposizione politica di tutti i
rapporti. La rivoluzione in permanenza era, nella Questione ebrai-
ca, il disperato tentativo giacobino di «schiacciare il proprio pre-
supposto, la società civile»39 dall’esterno; nel Manifesto del partito co-
munista e nei testi dello stesso periodo, la rivoluzione in perma-
nenza è invece diventata l’espressione di un movimento – il
comunismo – che si identifica dall’interno con il movimento com-
plessivo di scomposizione e ricomposizione dei rapporti, incro-
ciando in sé dimensione sociale e dimensione politica. Nel comu-
nismo la congiuntura (l’intreccio surdeterminato dei rapporti so-
ciali) e la produzione di verità (come dimostrazione pratica della
realtà del pensiero) si identificano.
A fronte delle varie “ideologie” piccolo-borghesi, il comunismo
è l’espressione di idee-rapporti presenti nella realtà. Esso non può
esistere che come prassi collettiva, della quale la teoria è una fun-
zione interna. Quando dunque Marx contrappone la “teoria” – che
poggia «sopra idee, sopra princìpi, che siano stati inventati o sco-
perti da questo o quel rinnovatore del mondo» – al comunismo
come «espressione generale dei rapporti effettivi di una lotta di
classe che già esiste»40, non fa una banale affermazione di empiri-
smo: al contrario, definire il pensiero “espressione generale di rap-
porti già esistenti” significa determinare politicamente il pensiero
stesso, sottraendolo alla paternità individuale; collocarlo dentro la
politica, facendone una modalità della costruzione delle strategie.
Quale posto occupa in questo quadro l’ideologia? Nell’Ideologia
tedesca vi è una netta alternativa tra il pensiero come praxis e l’ideo-
logia: «Là dove cessa la speculazione, nella vita reale, comincia
dunque la scienza reale e positiva, la rappresentazione dell’attività
pratica [...]. Cadono le frasi sulla coscienza [Phrasen vom Bewu-
ßtsein] e al loro posto deve subentrare il sapere reale [wirkliches
Wissen]»41 in quanto sapere efficace. Il comunismo vi è definito

38. MEW, 3, p. 6.
39. Bauer, Marx, La questione ebraica, cit., p. 186.
40. MEW, 4, pp. 474-5.
41. MEW, 3, p. 27.

38
anche lì, come nel Manifesto, come non «uno stato di cose che
debba [soll] essere instaurato, un ideale al quale la realtà debba con-
formarsi», ma come «il movimento reale [die wirkliche Bewegung]
che abolisce l’attuale stato di cose»42.
Dunque il comunismo non può essere un’ideologia. Ma d’altra
parte la verità come praxis, proprio in quanto sposta tutta la questio-
ne nel processo reale di svolgimento antagonistico dei rapporti so-
ciali, pone il problema dell’ideologia in forma nuova, sia come con-
fronto con le rappresentazioni date nelle varie forze schierate (e che
si potrebbero definire per semplicità “rappresentazioni tradiziona-
li”), sia come analisi del modo in cui una verità si produce storica-
mente come realtà efficace, come verità che muove le masse, come
verità che si identifica con la politica-storia. (Marx aveva chiaramen-
te formulato il problema nell’Introduzione a Per la critica della filoso-
fia hegeliana del diritto: «la teoria diventa una forza materiale [mate-
rielle Gewalt], non appena abbia afferrato le masse»43). Se dunque la
“rivoluzione permanente” è una strategia politica in quanto è una
nuova teoria della verità, questa teoria della verità dovrà compren-
dere al suo interno anche una nuova teoria dell’ideologia.

4. Proletariato e classi operaie


Il concetto di “rivoluzione permanente” può essere pensato in
piena coerenza solamente se si elaborano separatamente due
aspetti, che nei testi di Marx sono sovrapposti. Per lui la perma-
nenza del movimento è resa possibile dall’adozione del punto di
vista del proletariato, in quanto classe in lotta che ha interesse a
dissolvere l’intera struttura della società presente, conducendo la
dislocazione fino alle sue ultime conseguenze. Ma, come si è visto,
quella stessa individuazione è resa possibile dalla riqualificazione
della verità in termini di “potenza”, cioè dall’immanenza del pen-
siero a rapporti reali, che esso non potrà mai esaurire; e questa a
sua volta è un’espressione del mutamento strutturale del mondo
moderno, in cui la dislocazione, la dis-identificazione diventa il
fondamento della società. In questo quadro, il proletariato assume
un ruolo chiave nell’incrocio di politica e verità, in quanto è al con-
tempo una classe sociale particolare e un principio universale di
dissoluzione della società. Questi due aspetti sono tenuti insieme
dalla radicalità delle rivendicazioni del proletariato, che a sua volta
è fondata nella radicalità della sua esclusione: esso è principio di

42. Ivi, p. 35.


43. K. Marx, Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie. Einleitung (1844), in MEW, 1, p.
385.

39
dissoluzione reale di patria, famiglia, morale, proprietà44. Dunque
la condizione del proletariato (l’esclusione completa) determina il
suo comportamento e, in definitiva, la sua “missione storica”.
Se non c’è nulla di scandaloso nell’individuare in un gruppo so-
ciale determinato una funzione universale (cioè pervasiva, egemo-
nica), una serie di problemi nascono nel momento in cui questa
individuazione non è più un principio immanente la cui necessità
coincide con la congiuntura che lo produce, comprendendo in
essa anche la sfera delle ideologie; ma viene stabilizzata a tenden-
za storica, mettendo tra parentesi la questione dell’ideologia come
mere manifestazioni di “ritardo” o “anticipazione” su di un ritmo
stabilito oggettivamente. Marx non giunge a questa conclusione,
che appartiene al marxismo successivo, ma non vi è in lui neanche
una chiara dichiarazione della sua impossibilità, dichiarazione
che può poggiare solamente sulla messa a tema del nesso tra con-
flitto sociale e determinazioni politico-ideologiche, e di conseguenza
della distinzione tra “proletariato” (sempre singolare) e “classi
operaie” (sempre plurali). Il conflitto avviene sempre in presenza
di congiunture specifiche, tra (frazioni di) gruppi sociali sovrade-
terminati: non c’è mai il conflitto, ma i conflitti. Le classi operaie
nazionali resistono, lottano, formulano rivendicazioni in linguag-
gi nazionalmente specifici, sempre mescolati in un movimento
“di popolo” che oltrepassa qualsiasi confine di classe.
Ora, ciò che qui importa stabilire, non è se il momento naziona-
le corrisponda, e in che misura, a un momento internazionale, inte-
si rispettivamente come particolare e universale, come concreto-ac-
cidentale e astratto-puro, come molteplicità dei tempi empirici e
unicità del tempo razionale. Il proletariato come principio di disso-
luzione in atto di tutti i legami può essere pensato indipendente-
mente da qualsiasi ricaduta nella teleologia, solo se viene tenuto di-
stinto dalle classi operaie nazionali, e se questa distinzione non
viene trattata alla stregua di una gerarchia. Detto altrimenti: la “veri-
tà” delle lotte non starà nella loro corrispondenza a un modello, ma
nella rispettiva capacità di costruire il nesso nazionale/internazio-
nale sulla base di una dinamica orizzontale di traduzioni reciproche,
inter-nazionali45. Su questo piano è possibile recuperare una nozio-

44. Cfr. K. Marx, F. Engels, Manifest der kommunistischen Partei, in MEW, 4, p. 472.
45. Questa prospettiva è suggerita dall’obiezione che J. Butler muove alla nozione lacla-
uiana di “incommensurabilità” di universale e particolare. Cfr. Ead., «Competing Uni-
versalities», in J. Butler, E. Laclau, S. +i,ek, Contingency, Hegemony, Universality. Con-
temporary Dialogues on the Left, Verso, London 2000, pp. 136-81, qui 167. Una caratte-
rizzazione tutta “politica” del proletariato, come «l’incarnazione dell’impossibilità di
una totalità piena, il movimento assoluto della mediazione, il luogo vuoto che indica

40
ne di universalità e assegnare una funzione al proletariato: esso
sarà l’effetto della traducibilità delle lotte nazionali di resistenza le une
nelle altre46. Non tutte le lotte sono in grado di universalizzarsi, esat-
tamente come non tutti i conflitti sono decisivi nella congiuntura.
Ma una volta stabilita la struttura della “lingua” nazionale (e
questo è possibile solo attraverso pratiche di traduzione già in atto,
cioè di un’egemonia borghese già esistente, di una “rivoluzione”
già incominciata47), sarà possibile individuare dove si annida la
pratica specificamente “proletaria”, quella pratica cioè più in
grado di “dissolvere” tutti i rapporti identificandosi con la “perma-
nenza” della loro dinamica. La nozione di praxis/verità/ideologia
va pertanto arricchita con quella di traducibilità, che sola è in grado
di impedire la ricaduta in un universalismo “monolinguistico”48.
Questa nozione, sviluppata da Gramsci nei Quaderni del carcere49,
trova secondo lui origine nel paragone, a sua volta da Marx ripreso
da Hegel, di Francia e Germania come rispettivamente politica e
filosofia, pratica e teoria. In realtà anche qui, come nel caso di pra-
xis e ideologia, troviamo in Marx una coesistenza: da una parte,
nell’Ideologia tedesca, l’idea di un linguaggio come adesione imme-
diata alla vita («lingua della vita reale»50), dall’altra, nella Questione

l’irriducibile scarto interno dell’ordine esistente» (in riferimento alla nozione di “sutu-
ra” in Laclau), è quella di E. Kouvélakis, Philosophie et révolution de Kant à Marx, PUF,
Paris 2003, pp. 404-9, qui 406. Il mio modo di affrontare la questione incrocia entram-
bi questi approcci.
46. Non dunque una figura dell’“atto puro”, come interpreta criticamente E. Balibar, ma
semmai la figura della sua impossibilità. Cfr. E. Balibar, «Le vacillazioni dell’ideologia
nel marxismo», in Id., La paura delle masse. Politica e filosofia prima e dopo Marx, trad. it.
di A. Catone, Mimesis, Milano 2001, pp. 95-156, qui 99-106. Cfr. anche Id., La filosofia di
Marx, trad. it. di A. Catone, manifestolibri, Roma 1994, pp. 60-1; Id., «Etat, parti, idéolo-
gie: esquisse d’un problème», in Id., C. Luporini, A. Tosel, Marx et sa critique de la politi-
que, Maspero, Paris 1979, pp. 107-67, qui 137-46; e E. Renault, Marx e l’idea di critica,
trad. it. di M. T. Ricci, manifestolibri, Roma 1999, pp. 95-6. L’unità dialettica di proleta-
riato (astratto) e classe operaia (concreta) viene invece presentata positivamente come
“atto puro” – cioè come immanenza assoluta e identità attuosa di universale e singolare
– da M. Tronti, Operai e capitale, nuova ed. accresciuta, Einaudi, Torino 1971, pp. 161 sgg.
47. La “borghesia” può essere intesa come l’unità instabile dell’intenso lavoro ideologi-
co condotto nei secoli XVII e XVIII, dunque il “borghese” come l’effetto di una tradu-
zione. Cfr. B. Groethuysen, Origini dello spirito borghese in Francia, 1. La Chiesa e la bor-
ghesia (1927), trad. it. di A. Forti, Einaudi, Torino 1949, pp. 45, 136, 149, 228-9, 238-45,
258-9. Non casualmente, un giudizio estremamente riduttivo su questo libro si trova in
B. Croce, Etica e politica (1931), Laterza, Roma-Bari 1967, pp. 279-81.
48. Cfr. le riflessioni panoramiche di N. Sakai, J. Solomon, «Introduction. Addressing
the Multitude of Foreigners, Echoing Foucault», in Traces, Vol. 4: Translation, Biopoli-
tics, Colonial Difference, Hong Kong University Press, Hong Kong 2006, pp. 1-35.
49. Cfr. F. Frosini, «Sulla “traducibilità” nei “Quaderni” di Gramsci», in Critica marxi-
sta, XLI (2003), n. 6, pp. 29-38; P. Thomas, «Althusser, Gramsci e la non contempora-
neità del presente», in Critica marxista, XLIV (2006), n. 6, pp. 71-9.
50. MEW, 3, p. 26.

41
ebraica, nella Sacra famiglia e nella Miseria della filosofia, l’identità
tra la lingua nazionale e la politica/verità (i passi sul rapporto tra
Francia e Germania). È solo con Gramsci che i due aspetti vengo-
no organicamente collegati.
Per Marx vi è coincidenza tra rivoluzione di tutti i rapporti e
strategia comunista, perché il compimento di quella rivoluzione è
la dissoluzione della stessa società borghese. In lui il riconosci-
mento della politica di massa come fonte interna dell’incomple-
tezza della teoria, e la trasformazione della verità in potenza prati-
ca, coincidono con una nuova costituzione di verità, quella verità
che il proletariato impone con le sue lotte. Ma questa coincidenza
è necessaria nel senso immanente e congiunturale: si identifica
con la sua stessa produzione. E infatti, quando Marx si troverà,
dopo il 1848, dinnanzi a un blocco delle lotte51, inizierà a porsi il
problema di un’ideologia del proletariato come garanzia della conti-
nuità del processo rivoluzionario, come si vede nel 18 Brumaio di
Luigi Bonaparte, in cui il tema viene annunciato. Ciò facendo, se-
parerà però la determinazione strutturale dalla congiuntura politi-
ca, la storia come processo dalla storia come attualità, la legalità
storica dalle lotte politiche in corso, inaugurando di fatto il “mate-
rialismo storico” (poi condensato nella Prefazione a Per la critica
dell’economia politica).
Ma come stanno le cose, se invece il nesso tra politica di massa
e verità viene pensato come precario (reversibile) e contingente
(non necessario) nell’ideologia delle classi operaie date? In questo
caso la “rivoluzione di tutti i rapporti” non dovrà più coincidere
immediatamente con l’evidenza di una loro dissoluzione. Anche
la ricostituzione dei rapporti, accanto alla dissoluzione, risulterà
essere un processo pratico di dislocazione. Il post-1848 dovrà esse-
re pensato non come arresto della rivoluzione, ma come sua pro-
secuzione in altra forma. Anche qui incontriamo Gramsci, che da
una parte ripensa la “reazione” come una forma della “rivoluzio-
ne”: la forma “passiva” di essa; dall’altra, articolando in politica i
concetti di guerra di movimento e guerra di posizione, nella loro
alternante prevalenza, ripensa le fasi di latenza del movimento
come prevalenza epocale di una determinata struttura egemonica,
dunque come concentrazione politica al massimo grado.

51. Nel periodo 1849-1857 «la politica cadde in uno stato di ibernazione» (E. J. Hob-
sbawm, Il trionfo della borghesia. 1848-1875, trad. it. di B. Maffi, Laterza, Roma-Bari
1976, p. 38).

42
5. Traducibilità e momento nazionale
La filosofia della praxis di Gramsci è lo svolgimento della rivo-
luzione teorica rappresentata dal concetto di praxis come processo
costitutivo di verità, in connessione e non in alternativa con una teo-
ria dell’ideologia. E si è visto che solo in quanto le due problemati-
che vengono unite, esse sono pensabili in modo coerente. Com-
prendiamo adesso perché quel tradimento di Marx fosse necessa-
rio: per tornare a pensare unitariamente storia e politica, struttura e
occasione, sviluppo e crisi, ecc. – era indispensabile andare alla radi-
ce dell’aporia, vale a dire alla separazione tra teoria della verità e teo-
ria dell’ideologia, tra concetto di praxis e concetto di superstruttura.
Solo in questo modo, la politica avrebbe riguadagnato quel ruolo
di “ontologia del sociale”52 che dopo il trauma del 1848, e per reagi-
re ad esso, Marx aveva di fatto assegnato all’economia.
Ma la nostra conclusione è anche che l’unificazione di teoria
della verità e teoria dell’ideologia è resa possibile dallo sviluppo
della traducibilità dei linguaggi. Se l’unità di ideologia e verità può
solo aversi sul terreno del linguaggio in quanto sia traducibile e
venga effettivamente tradotto, questo ci garantisce dalla caduta in
una nuova forma di essenzialismo, come è per esempio l’attuali-
smo di Giovanni Gentile, per il quale l’unità di storia e politica c’è,
ma si risolve necessariamente in un’identità pura53. Nella traduci-
bilità dei linguaggi si trova di fatto la grammatica ontologica che
permette a Gramsci di porre in modo radicalmente nuovo il rap-
porto tra l’universale e il particolare, e quindi il rapporto tra la ri-
cerca della verità e l’esercizio del potere.
Riprendiamo in modo schematico, per concludere, i punti fon-
damentali toccati in queste pagine:
1) Ridotta a una formula, la filosofia della praxis è il fatto di pen-
sare insieme il nesso tra verità e praxis, e il nesso tra ideologia e
rapporti sociali. Il concetto che esprime l’unità di questi due nessi
è quello di “rapporti di forze”: nei rapporti di forze universalità e po-
tere sono sempre in una qualche specifica maniera unificati. Detto
altrimenti, non c’è nessuna universalità al di fuori di una qualche
determinata “sistemazione” dei rapporti di forze.
2) Come conseguenza di ciò, perdono di significato il concetto di
“oggettivazione” e quindi di “alienazione”, che tanto hanno pesato
nella riflessione marxista. Per la filosofia della praxis, infatti, i rap-

52. Cfr. E. Laclau, Emancipation(s), Verso, London 1996, p. 103.


53. Cfr. N. Badaloni, «Giovanni Gentile: il filosofo, lo storico della cultura e il politico»,
in Letteratura Italiana Laterza, dir. da C. Muscetta, Vol. 9, t. II, Laterza, Roma-Bari
1976, pp. 95-229, qui 131-2, 136.

43
porti sociali non sono “oggettivi” più di quanto non siano “soggetti-
vi”, perché essi non sono la sedimentazione e quindi la forma in
qualche misura sempre “estraneata” della praxis, ma l’unica forma,
sempre plurale, di esistenza delle “pratiche”. Detto in altro modo: l’at-
tività, ciò che gli idealisti chiamavano Tätigkeit e che Gramsci chia-
ma “creatività”, non esiste fuori delle specifiche sue regole di esercizio:
regole che la particolarizzano o meglio (dato che non vi è universali-
tà precedente la dimensione dell’effettuale) la “individualizzano” in
“lingue” differenti. Pertanto, l’universale è la traduzione da una lin-
gua (di una pratica) in un’altra, traduzione che non annulla ma al
contrario rafforza la diversità delle lingue. Questa traduzione è
sempre un tentativo di “dire” la totalità (la creatività dello Spirito,
l’umanità, la giustizia, la libertà, ecc.), e al contempo è una sua uni-
lateralizzazione, una sua riduzione a una prospettiva particolare,
cioè una sua subordinazione a interessi determinati. Fuori di que-
sto “gioco” tra mobilitazione e suo arresto non c’è universalità
reale54. L’alternativa a questo “gioco” non sta in una mitica riappro-
priazione dell’universale espropriato, con conseguente coincidenza
di soggetto e oggetto e conclusione della “pre-storia” del genere
umano; sta invece nel lottare affinché questo gioco non cessi di pro-
durre effetti, non si arresti a un momento dato.
3) I rapporti sociali sono sempre rapporti di forze: la loro “ogget-
tività” non è mai l’esito inerte di una praxis, ma il prodotto di un’or-
ganizzazione costante, pluralità organizzata di pratiche: in una
parola, è egemonia. Dunque il comunismo non è pensabile come la
riattivazione di una creatività anteriore ai rapporti sociali (che spe-
cificandola la ridurrebbero a inerzia), ma la riarticolazione dei rap-
porti di forze in modo da cambiare l’equilibrio, ad essi interno, tra
universalità e potere. Questo equilibrio cambia con il cambiare
dell’organizzazione degli spazi nazionali rispetto alla dimensione
internazionale. Il problema del comunismo nel Novecento è, per
Gramsci, tutto pensabile in questo nesso nazionale/internaziona-
le, cioè in una traduzione che non derubrichi intellettualistica-
mente il momento nazionale a “residuo”, ma lo riconosca come
unico luogo di costituzione pratica della verità.
Già nel Manifesto la distinzione tra proletariato e “sottoproleta-
riato”, o più precisamente “proletariato straccione” (Lumpenproleta-
riat), tra prodotto genuino della grande industria da una parte, «im-
putridimento passivo degli strati infimi della vecchia società»55 dal-

54. Riprendo qui la dialettica di «universalità ideale» e «universalità fittizia» sviluppata


da E. Balibar, La paura delle masse, cit., pp. 238-52.
55. MEW, 4, p. 472.

44
l’altra, lasciava spazio a una derubricazione delle ideologie reaziona-
rie diffuse nel popolo ad accidentalità da superare, a rigurgiti del
passato ancorati a prospettive localistiche. Questa tesi verrà svilup-
pata (o meglio esasperata) nell’immagine di Bonaparte come “prin-
cipe del proletariato straccione” del 18 Brumaio56, mentre nello stes-
so Manifesto era tuttavia anche presente l’idea che il proletariato, «in
quanto deve conquistare il potere politico, elevarsi a classe naziona-
le [zur nationalen Klasse], costituirsi come nazione, è anch’esso anco-
ra nazionale, anche se assolutamente non nel senso della borghe-
sia»57. A partire da questa dialettica tra due modi irriducibilmente di-
versi di intendere il nesso nazionale/internazionale, l’intera
questione delle ideologie popolari reazionarie avrebbe potuto (do-
vuto) essere pensata diversamente; e con essa il tentativo di elabora-
re una strategia della classe operaia nazionale come classe dirigente.

56. Cfr. MEW, 8, pp. 121, 154-5, 160-1 (il celebre elenco: «vagabondi, soldati in congedo, ex
carcerati, schiavi di galera fuggiaschi, imbroglioni, bari, lazzaroni [in italiano nel testo,
F.F.], borseggiatori» ecc.»), 167, 169, 194, 205. Su questo aspetto del 18 Brumaio, e più in
generale sul problema delle classi subalterne marginali in Marx, con indicazioni biblio-
grafiche aggiornate, cfr. M. Cowling, «Marx’s Lumpenproletariat and Murray’s Under-
class: Concepts Best Abandoned?», in Marx’s “Eighteenth Brumaire”. (Post)modern Inter-
pretations, ed. by M. Cowling and J. Martin, Pluto Press, London 2002, pp. 228-42.
57. MEW, 4, p. 478.

45
Immanenza e traducibilità:
Marx 1844-1845

Anzi è da notare che un tale capovolgimento non poteva non


avere connessioni con la religione.
Gramsci, Quaderni del carcere, p. 1826

1. «Diesseitigkeit»
È rintracciabile in Marx qualcosa di paragonabile a un approccio in
termini di traducibilità dei linguaggi? Gramsci, che come si è visto
sente l’esigenza di riformulare il rapporto tra verità e ideologia,
come esso viene consegnato da Marx, rinvia però anche con insi-
stenza1 a un passaggio della Sacra famiglia, in cui Marx osserva:
«Se il Signor Edgar [Bauer, scil.] compara per un attimo l’eguaglian-
za francese con l’autocoscienza tedesca, troverà che quest’ultima
esprime in tedesco, cioè nel pensiero astratto, ciò che la prima dice
in francese, cioè nella lingua della politica e dell’intuizione pensan-
te»2. A partire da qui – dunque apparentemente da una mera os-
servazione incidentale – Gramsci sviluppa la teoria della traducibi-
lità dei linguaggi, sulla quale mi sono soffermato nel capitolo pre-
cedente. In realtà, nonostante le apparenze, né questa è
un’osservazione incidentale, né Gramsci ignora questa circostan-
za. Quel passo è significativo di tutta la critica da Marx mossa agli
“ideologi” tedeschi, e in particolare al “vero socialismo” (M. Hess,
B. Bauer ecc.), sia nella Sacra famiglia, sia nell’Ideologia tedesca, sia
infine nel Manifesto, in cui un paragrafo, all’interno del capitolo
sul «Socialismo reazionario», è dedicato a questo argomento3.
Di questo nesso complessivo Gramsci era ben consapevole.

1. Cfr. Q, 51, 134, 331, 423, 467-8 ecc.


2. MEW, 2, p. 40.
3. Cfr. K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, trad. it. a cura di E. Cantimori
Mezzomonti, Einaudi, Torino 1962, pp. 182-95 (commento della curatrice).

47
Nel 1924, riprendendo il sarcastico paragone tra il vero socialismo
e l’attualismo gentiliano, proposto da Croce nella Critica con la ri-
pubblicazione del relativo passaggio del Manifesto4, Gramsci para-
gona la filosofia dell’atto alla «filosofia dell’azione» di Moses
Hess5, e ripubblica lo stesso testo: nel corso del secolo XVIII, scri-
ve Marx, «il lavoro esclusivo dei letterati tedeschi consistette nel
mettere le nuove idee francesi in accordo con la propria vecchia co-
scienza filosofica, o piuttosto nell’appropriarsi le idee francesi dal
proprio punto di vista filosofico. Questa appropriazione avvenne
nello stesso modo, in cui ci si appropria in generale di una cosa
estranea, mediante la traduzione»6. Il “vero socialismo” non fa
altro che esasperare questa traduzione generalizzante e incapace
di intendere la concretezza delle rivendicazioni espresse in lingua
francese. Ora, in cosa consiste precisamente questa esasperazio-
ne? Qui è il punto, in cui interviene per Gramsci la necessità di for-
malizzare il concetto di traducibilità. In Marx infatti sussistono al
proposito delle ambiguità abbastanza evidenti, ambiguità che in
parte transitano anche nei Quaderni del carcere e che solo gradual-
mente vengono sciolte.
La questione può essere formulata in questo modo: se è vero
che la borghesia tedesca fino a Hegel reagisce alla rivoluzione svi-
luppando un’analoga e alternativa «rivoluzione nel modo di pen-
sare»7, traducendo cioè «le rivendicazioni della prima rivoluzione
francese» in «rivendicazioni della “ragione pratica” in generale»8,
che significato ha questa traduzione? Indica solamente una perdi-
ta di contatto con la politica? O questa perdita di contatto è a sua
volta organicamente interna a un disegno ideologico, e dunque
questa traduzione del linguaggio della politica in quello della filo-
sofia, con la sua funzione universalizzante, possiede un significa-
to politico preciso? La funzione universalizzante della filosofia
può essere espressione del disegno egemonico di una classe socia-
le? O la verità del “pensiero” come potenza pratica si impone sola-
mente quando vengano spezzati i velami dell’ideologia mediante
una critica materialistica?
In realtà le due tesi non sono incompatibili; esse infatti circo-
scrivono due distinte funzioni proprie di una classe sociale in

4. B. C., «Un ammonimento e un ricordo», in La Critica, XXII (1924), n. 6 (1° novem-


bre), pp. 379-81.
5. L’Ordine Nuovo, I, n. 7, 15 novembre 1924, p. 9.
6. MEW, 4, p. 486.
7. I. Kant, Die Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft, in Werkausgabe, hrsg.
v. W. Weischedel, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1968, Bd. VIII, p. 55.
8. K. Marx, F. Engels, Manifest der kommunistischen Partei, in MEW, 4, p. 486.

48
lotta. La seconda di esse, è evidentemente quella da Marx assegna-
ta alla borghesia francese del secolo dei Lumi, in quanto classe
progressiva, in lotta contro i privilegi feudali, e pertanto “materia-
lista” e “universalista”. La prima, come si è visto, assegnata alla fi-
losofia tedesca dello stesso periodo, viene fatta corrispondere alle
“anacronistiche” condizioni della Germania. Ma, proseguendo
questo discorso, si potrebbe anche dire che, in quelle condizioni, e
dunque in forma differente, il filosofo tedesco dice esattamente
ciò che dice il politico francese. In forma differente, cioè in segui-
to a una traduzione. Si potrebbe cioè dire che l’unità di pensiero e
realtà non sta, come si postula nell’Ideologia tedesca, nell’immedia-
ta adesione pre-ideologica a determinate condizioni di vita, ma al
modo in cui una determinata ideologia organizza praticamente
quelle condizioni di vita, in modo da istituire la prevalenza di una
classe su tutte le altre. Si potrebbe dire infine, procedendo ancora
oltre, che, dato che non esiste un “reale” già dato da riflettere, ma al
contrario esso è l’effetto pratico di una lotta per l’organizzazione
dei rapporti ideologici, la posizione “speculativa” può corrispon-
dere meglio di quella realistica e progressiva alle condizioni di
esercizio dell’egemonia borghese.
Quest’ultimo punto verrà ripreso più avanti. Per ora va sottoli-
neato che, se la peculiare funzione “veritativa” dell’ideologia viene
sviluppata, come si è detto, da Gramsci, se ne trovano però in Marx
dei precisi addentellati. Questi sono presenti in testi del periodo
1844-1850, accanto ad altri, che vanno in direzione contraria. Per
semplificare, si potrebbero denominare rispettivamente approc-
cio in termini di immanenza e approccio in termini di materiali-
smo, o ancora, come due diverse risposte alla domanda: come
uscire dal cerchio magico dell’idealismo immanentistico hegelia-
no? La prima risposta è la ricerca di un’altra immanenza, la secon-
da consiste nell’opporre materialismo a immanentismo. Questa
alternativa viene riconosciuta da Gramsci, quando nota che Marx
può essere inteso appieno, non se lo si pone in continuità con la
tradizione materialistica sei e settecentesca, come risulta da una
lettura (a parere di Gramsci errata) della Sacra famiglia9; ma se si
coglie il modo in cui, ponendosi lungo la linea di pensiero dell’im-
manenza moderna, la innova dall’interno, segnando rispetto a
essa e a nessun’altra un momento di discontinuità (che quindi con
tale tradizione conserva un legame, sia pure critico).
È per questo motivo che Gramsci distingue l’immanenza come
categoria – l’immanentismo, posizione interna al discorso della

9. Cfr. Q, 461 e 1250.

49
metafisica – dall’immanenza come posizione concreta di pensie-
ro, come “esperienza”. Spia di ciò è il modo in cui il termine Dies-
seitigkeit, immanenza, delle Tesi su Feuerbach, viene da Gramsci
reso con «carattere terreno». Importa leggere il passo (la tesi 2)
nella traduzione di Gramsci:

La quistione se al pensiero umano appartenga una verità obbiettiva, non è


una quistione teorica, ma pratica. È nella attività pratica che l’uomo deve di-
mostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere terreno del suo pensie-
ro. La discussione sulla realtà o non-realtà di un pensiero, che si isoli dalla
praxis, è una quistione puramente scolastica10.

Diciamo subito che la traduzione è esatta. Con essa infatti


Gramsci coglie un nodo realmente presente nel pensiero di Marx,
coglie cioè il fatto che Marx, usando quel termine, non sta facendo
un discorso “filosofico”, ma sta lavorando sul crinale tra filosofia,
religione e politica, traducendo il linguaggio della religione e della
filosofia in quello della politica. Le Tesi (ma l’osservazione può va-
lere per tutti i testi di Marx) andrebbero in primo luogo studiate
come campo di battaglia linguistico, come riqualificazione se-
mantica di termini variamente utilizzati e disponibili. Si pensi al-
l’uso del termine «das ensemble» nella tesi 6, termine che evita il
logoro e compromesso tecnicismo di «das Ganze» o «die Totali-
tät», e che sposta l’attenzione dall’idea di un tutto organico verso
quella di un processo compositivo e sistematico indefinito, aper-
to11. Il termine non era di uso comune ai tempi di Marx, ma era
stato utilizzato regolarmente da Goethe come sinonimo di Ganzes
o Totalität, ma sempre e solo in contesti artistici o tecnici (ensemble
di attori, di strumentisti, di colori in un dipinto, di arnesi ecc.12),
dunque come equivalente sensibile dell’astratta totalità. Allo stesso
modo, nella tesi 2 Marx evita il termine Immanenz, reso comune
in filosofia da Kant con l’opposizione di uso immanente e uso tra-
scendente dei principii della ragione13; e ripreso a suo modo da
Hegel nell’idea di un «ritmo immanente [immanenten Rhythmus]

10. A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica diretta da G. Francioni, 1. Quader-
ni di traduzioni (1929-1932), a cura di G. Cospito e G. Francioni, Istituto della Enciclope-
dia Italiana, Roma 2007, p. 743.
11. Cfr. E. Balibar, La filosofia di Marx, trad. it. di A. Catone, manifestolibri, Roma 1994, p.
36.
12. Cfr. Goethe-Wörterbuch, hrsg. v. der Berlin-Brandenburgischen Akademie der Wissen-
schaften, der Akademie der Wissenschaften zu Göttingen und der Heidelberger Akade-
mie der Wissenschaften, Bd. 1-4: A-inhaftieren, Kohlhammer, Stuttgart 1978, ad vocem.
13. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, hrsg. v. R. Schmidt, Meiner, Hamburg 19303, (A)
pp. 295-6, (B) pp. 352-3.

50
dei concetti» come loro «automovimento»14. In entrambi i casi
l’aggettivo immanent rinviava a una concezione tutta interna alla
filosofia: immanenza e trascendenza riguardano il rapporto tra
giudizio e mondo, tra ragione e realtà.
Diesseitigkeit non ha nessun riferimento a questo linguaggio,
anzi lo riporta a una fase anteriore, al rapporto problematico tra
Dio e mondo, tra necessità e contingenza15. È evidente invece il ri-
ferimento a Feuerbach, alla sua riconduzione della «filosofia del-
l’identità» di pensiero ed essere alla teologia16. Come questa deriva
l’essere da Dio, quella deriva l’essere dal pensiero, col risultato di
lasciare l’essere fuori del pensiero: «Il pensiero assoluto non esce da
sé, non guadagna l’essere. L’essere rimane un aldilà. La filosofia as-
soluta ha reso per noi l’aldilà della teologia un aldiqua [ein Diesseits],
ma perciò ha fatto dell’aldiqua del mondo reale [das Diesseits der wir-
klichen Welt] un aldilà»17.
Non è dunque esatto dire che Marx si sta qui servendo di «un
termine preso in prestito dalla lingua corrente» per indicare «la
cura del quotidiano, il rasoterra dell’ordinario»18, sia perché, lin-
guisticamente, Diesseitigkeit è un sostantivo astratto (“aldiquità”),
sia perché, filosoficamente, la terminologia del Diesseits era stata
già ampiamente giocata da Feuerbach contro Hegel. Ed era stata
giocata non tanto per far entrare la vita nella filosofia, quanto per
additare una questione irrisolta nel margine aurorale della moder-
nità, cioè una mondanizzazione imperfetta, un rapporto col divino
ancora aperto e che andava ripreso da capo. L’aldiqua del mondo

14. G. W. F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, in Werke in 20 Bänden, hrsg. v. E. Mol-


denhauer u. K. M. Michel, Bd. 3, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1986, pp. 56 e 45. Al di là
della scarsa presenza del termine in Hegel, almeno fino alla recensione del libro di C.
F. Göschel Aphorismen über Nichtwissen und absolutes Wissen (E. Franklin, Berlin 1829),
in seguito alla quale egli adopera volentieri «immanente» e «immanenza» per indicare
la conciliazione di «fede» e «sapere» (cfr. Hegel, Werke in 20 Bänden, cit., Bd. 11, pp. 353-
89, qui 362, 368-70, 381), si può dire che la sua filosofia, «nella misura in cui si contrad-
distingue per la dialettica come processo dell’immanente trascendimento del concetto
conquistato nel sapere assoluto, può essere definita una filosofia immanente» (L.
Oeing-Hanhoff, «Immanent, Immanenz», in Historisches Wörterbuch der Philosophie,
hrsg. v. J. Ritter und K. Gründer, Bd. 4, Wiss. Buchgesellschaft, Darmstadt 1976, coll.
220-37, qui 226).
15. Questa riapertura dell’anteriore problematica religiosa, liquidata e “risolta” da
Hegel, è al centro dell’ampia ricostruzione di K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche. La frattu-
ra rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, trad. it. di G. Colli, Einaudi, Torino 1949.
Sull’«ateismo» e quindi sul «motivo ateo del “materialismo” di Marx», cfr. ivi, p. 154.
16. L. Feuerbach, Grundsätze der Philosophie der Zukunft, § 24, in Texte zur materialisti-
schen Geschichtsauffassung, hrsg. und eingel. von H. Reichelt, Ullstein, Frankfurt a.M.
1975, p. 285.
17. Ibidem. Cfr. anche Id., Vorläufige Thesen zur Reform der Philosophie, ivi, p. 236.
18. G. Labica, Karl Marx – Les «Thèses sur Feuerbach», PUF, Paris 1987, p. 52.

51
reale era stato secondo Feuerbach fondato dalla filosofia moderna,
solo a patto di identificare pensiero e realtà. La trascendenza reale
del mondo rispetto al pensiero era stata perduta per cancellare la trac-
cia del divino, per spezzare il nesso tra contingenza e creaturalità.
Ma quella traccia tornava a riprodursi incessantemente proprio
nella pretesa di rendere assoluta la contingenza. Usando quel ter-
mine, Feuerbach vuole dire che quel nodo rimane non sciolto, che
un accesso alla realtà effettiva la filosofia non lo ha ancora trovato.
Das Diesseits indica in lui proprio l’aldiqua come sfera che si defini-
sce per opposizione a das Jenseits, come non-aldilà; restituisce
un’esperienza concreta, non una posizione di pensiero: è l’espe-
rienza della propria contingenza come irriducibile a una nuova
teologia immanente; è quindi la rivendicazione di una filosofia
che sia capace di prendere in carico pienamente quell’esperienza,
prolungandola nella teoria, radicalizzandone il senso, e rendendo
infine impossibile la teologia in quanto tale.
Usando quel termine, Marx al contempo si colloca dalla parte
di Feuerbach e ne prende le distanze: proclama sì l’irriducibilità
della realtà effettiva – non però al pensiero ma alla teoria. La que-
stione, in quanto questione teorica, è irrisolvibile; solo cambiando
l’angolo visuale diventa possibile affrontare la questione della real-
tà: in quanto questione pratica, il rapporto di pensiero e realtà – la
realtà del pensiero – è immediatamente risolta: reale è il pensiero
potente, il pensiero che produce mondo, il pensiero incorporato in
rapporti istituzioni civiltà. Teoria e pensiero si differenziano es-
senzialmente: il pensiero appartiene alla pratica, non alla teoria.
Dunque, la filosofia astratta e speculativa può essere pensiero,
esattamente come la filosofia materialistica può essere teoria. La
differenza tra queste due funzioni incrocia tutte le posizioni filo-
sofiche, commisurandole alla rispettiva capacità di organizzare i
rapporti idelogici in vista della prevalenza di una classe sulle altre.
Identificando “verità”, “realtà”, “potenza” e Diesseitigkeit, Marx
sta dicendo a se stesso – contro Feuerbach – che quell’esperienza di
mondanità, di “aldiquità” radicale rivendicata dal primo trova giu-
stificazione non in una nuova teoria, ma nell’abbandono della teo-
ria. Il pensiero non riflette nessuna realtà, ma la produce; le sue “di-
mostrazioni” sono rapporti reali. Esso pertanto non può ridursi a
una “scuola”, termine presente in Feuerbach a indicare la specula-
zione («la nuova filosofia, la sola filosofia positiva, è la negazione di
ogni filosofia di scuola [Schulphilosophie]»19) e da Marx ripreso e di-

19. Feuerbach, Vorläufige Thesen, cit., p. 250.

52
latato a indicare tutta la “teoria”. Il pensiero, in quanto pratico, in
quanto “praxis”, eccede qualunque formulazione teorica, e non
può per definizione chiudersi, arrestarsi: esso non è una “fondazio-
ne” della contingenza dell’aldiqua, ma è questa stessa contingenza,
che trova in sé – «nell’atto di comprendere [in dem Begreifen] questa
prassi» (tesi 8)20, cioè nella pratica stessa della sua comprensione –
la propria “idea vera”. Il «carattere terreno» del pensiero, come ben
traduce Gramsci, non è l’immanenza speculativa di pensiero ed es-
sere, una formulazione cabalistica posseduta in esclusiva da Marx
(allo stesso modo aveva scritto Feuerbach che la nuova filosofia
«non ha nessuno Shibbolet, nessun linguaggio particolare, nessun
nome particolare, nessun principio particolare»21); è invece tutto il
mondo dell’esperienza della finitezza, della sensibilità, della pas-
sionalità, dell’assoluta importanza del tempo “giusto”: è tutto que-
sto, ma sottratto alla prigione della forma-teoria (che confina con
Feuerbach l’esperienza all’amore io-tu) e gettato nell’apertura dina-
mica dei rapporti reali e delle idee di questi rapporti.
Il termine Diesseitigkeit rinvia dunque a un problema più
ampio: alla costituzione della contingenza. Equiparare la verità
alla potenza e alla terrestrità significa imprimere fin dall’inizio su
di essa la marca della molteplicità, della finitezza e della tempora-
lità; significa però anche istituire questi tratti nel rapporto di nega-
zione che essi intrattengono con i loro opposti; significa insomma
stare all’altezza della già ricordata rivendicazione di Feuerbach, di
non rendere assoluto il relativo.

2. «Eine verkehrte Welt»


In un altro testo di Marx, alle Tesi di poco anteriore, l’opposizio-
ne Jenseits/Diesseits ricorre due volte. Parlo ovviamente dell’Introdu-
zione del 1844 a Per la critica della filosofia hegeliana del diritto, dove
si legge: «è dunque compito della storia reale stabilire la verità dell’al-
diqua, dopo che l’aldilà della verità è dileguato»22. Il testo inizia, si sa,
con l’affermazione: «Per la Germania la critica della religione è per
l’essenziale terminata»23. Con Feuerbach la verità come Jenseits è
stata svelata nella sua natura illusoria. Liquidato l’aldilà come illu-
sorio, ciò che rimane è l’aldiqua, la “storia”. Storia è qui ovviamente
la storia reale, dunque questo “stabilimento” della verità dell’aldiqua

20. MEW, 3, p. 7.
21. Feuerbach, Vorläufige Thesen, cit., p. 250.
22. MEW, 1, p. 379. Una conseguente lettura politica di questo testo, all’insegna del ten-
tativo di Marx di «identificarsi con forze reali», è quella di G. Lukács, Il giovane Marx,
ed. it. a cura di A. Bolaffi, Editori Riuniti, Roma 1978, qui p. 83 (ma cfr. pp. 98-104).
23. MEW, 1, p. 378.

53
è già, in un certo senso, l’idea della “dimostrazione” pratica della ve-
rità-potere del pensiero enunciata nelle Tesi. Accanto a questo mo-
vimento reale – e «in [suo] servizio» – sta la filosofia come «critica
della politica»24. La storia come movimento reale è insieme costitu-
zione di rapporti e fondazione di essi: non è solo un muoversi den-
tro l’aldiqua, ma un produrne il concetto, la sua “verità”. La critica è
essenziale a questa produzione: in quanto pone se stessa non nel
luogo neutro dell’osservatore distaccato, ma «im Handgemenge»25 –
«in mezzo alla mischia»26 –, cessa di essere teoria e si fa parte della
storia reale, del pensiero-praxis.
Ma la storia, in quanto aldiqua-verità, è il mondo dis-illuso, reale
in quanto liberato dei velami illusori della religione, svelato nella
sua nuda realtà. La sua Verkehrung, la sua distorsione27 sta tutta
quanta nella sua specifica realtà. Ora, in questo testo la specifica real-
tà della Germania è pensata in due modi differenti. Il primo, più
ovvio e immediato, è l’alienazione: «compito della filosofia [...] è di
smascherare l’autoalienazione» che l’uomo compie di sé nel diritto
e nella politica28, con ciò che ne segue. Qui Marx ragiona con Feuer-
bach sulla base di un’essenza umana che si tratta di recuperare die-
tro le maschere celesti e mondane. La critica dovrà allora rendere
fluidi i «rapporti pietrificati» per «insegnare al popolo a inorridire di
se stesso»29, a non riconoscersi nelle forme non sue proprie. Il lavo-
ro della critica-storia reale sta dunque nella ricostituzione dell’iden-
tità-comunità umana contro le sue forme alienate30. La «verità del-
l’aldiqua» è un approccio diretto al mondo smascherato, dunque un
riordinamento del rapporto tra soggetto e predicato, che non lasci
disperdere l’energia dell’essenza umana nell’assurdità delle «con-
dizioni tedesche». Queste «stanno al di sotto del livello della storia» e
dunque anche «al di sotto di qualsiasi critica, ma rimangono un og-
getto della critica, come un delinquente che sta al di sotto del livello
dell’umanità rimane un oggetto del carnefice»31. La distorsione tede-
sca è per così dire doppia, superficiale e profonda, storico-politica e
ontologica. L’aldiqua-verità della Germania sta nel suo inscriversi
in un ciclo della storia universale, quello scandito dal ritmo di trage-

24. Ibidem.
25. Ivi, p. 381.
26. K. Marx, Scritti politici giovanili, trad. it. di L. Firpo, Einaudi, Torino 1950, p. 398.
27. Cfr. MEW, 1, p. 378: «verkehrte Welt».
28. Ivi, p. 379.
29. Ivi, p. 381.
30. Questo aspetto del giovane Marx viene messo molto bene in luce da R. Finelli, Un
parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx, Bollati Boringhieri, Torino 2004, cap. 5.
31. MEW, 1, p. 380.

54
dia e commedia32. Per «separarsi serenamente»33 dal suo passato, la
Germania deve sottoporsi alla giustizia della storia, come un crimi-
nale deve accettare la giustizia del boia. Detto altrimenti, la Germa-
nia acquista consistenza di oggetto della critica, diventa “qualche
cosa” – e sia pure qualche cosa di “distorto” – se viene violentemente
fatta rientrare dentro quella storia, alla quale non ha partecipato.
L’argomento si regge proprio sull’esistenza di un doppio livel-
lo: la storia funziona da ontologia, è il momento di universalità; è
un processo unico che scandisce unitariamente anche la legge
delle sue aberrazioni. Dire allora che la Germania è «un anacroni-
smo»34, equivale a sottoporla al metro di un tempo unico: «si sta
appena incominciando adesso in Germania, ciò con cui la Francia
e l’Inghilterra stanno per finire»35. L’aldiqua-verità è un movimen-
to reale della storia-ontologia, non della superficiale storia-politi-
ca, che semmai deve alla prima adeguarsi, se vuole avere una qual-
che consistenza reale. Il meccanismo della Selbstentfremdung ba-
nalizza le peculiarità a deviazioni da quella distorsione principale
che è il distacco delle «forze sociali» dalle «forces propres», del ci-
toyen dal bourgeois, come si legge nella Questione ebraica36; ecco
dunque l’unicità della storia, l’aldiqua-verità come processo unico
e universale. Feuerbach aveva scritto che «qualsiasi cosa l’uomo
nomini e pronunci – sempre pronuncia la propria essenza»37:
sotto la diversità delle lingue c’è sempre solo un’unica essenza.
Una tale svalutazione della lingua rispetto al pensiero è consu-
stanziale al meccanismo dell’autoalienazione (e, si potrebbe ag-
giungere, dell’alienazione in quanto tale: non è la lingua il grande
assente dal sistema di Hegel?), e Marx almeno in parte la ripete.

3. La traducibilità di Francia e Germania


Almeno in parte. Infatti, come accennato sopra, la specifica re-
altà della Germania viene pensata anche in un altro modo, indi-
pendente dal meccanismo dell’alienazione. Si è detto che la Ger-
mania è «un anacronismo»; è «il passato dei popoli moderni»38. Di
più, essa è «la carenza del presente politico costituitasi in mondo pro-
prio»39, e in quanto tale è un «Revenant»40, un redivivo o “morto vi-
32. Ivi, p. 382.
33. Ibidem.
34. Ibidem.
35. Ibidem.
36. Ivi, p. 370.
37. Feuerbach, Vorläufige Thesen, cit., p. 251.
38. MEW, 1, p. 381.
39. Ivi, pp. 387-8.
40. Ivi, p. 381.

55
vente”; ma è anche una «reminiscenza» che «infastidisce» i popo-
li moderni41 perché con essi, tra di essi vive. La Germania in quanto
storia-politica non è solo un’aberrazione temporale, ma gode di
una sorta di peculiare realtà umbratile, una realtà attestata dal suo
produrre effetti, effetti sgradevoli, sull’intero arco dei popoli “stori-
co-reali”. Per questo motivo «la lotta contro lo status quo tedesco ha
un significato internazionale»42. La Germania è il passato realmen-
te ritornante, è la forza che nega il presente dall’interno del presen-
te; è il non-morto che perseguita i vivi, un morto dal quale i vivi
non hanno ancora preso congedo. Lungi dunque dall’equiparare
la superficie politica della Germania all’ontologia della storia euro-
peo-universale, è questo “presente” che per intero si rivela non-uni-
tario, “fuori sesto”43, minato al suo interno da vuoti, mezze realtà,
dislivelli temporali: la levigatezza del presente è interrotta da al-
meno un blocco temporale, da un punto in cui il tempo passato re-
siste sordamente, in modo inerziale.
Certo, si potrebbe dire che la rivoluzione metterà “tutto in ordi-
ne”, allineando i tempi sulla base del metro della liberazione radica-
le. Ma neanche questo è del tutto vero, perché la Germania la sua ri-
voluzione l’ha già fatta. Non è possibile dunque pensare la rivoluzio-
ne come “inizio” di qualcosa, come salto, discontinuità; semmai,
come ripresa e riorientamento di una rivoluzione in corso: la rivolu-
zione nella filosofia, terreno sul quale i tedeschi hanno «vissuto la
[...] storia futura nel pensiero»44. La filosofia tedesca è una «storia
onirica», una Traumgeschichte, che «il popolo tedesco deve annove-
rare [...] tra le proprie condizioni presenti»45 esattamente al pari di
tutte le altre. Questa storia onirica fa parte della realtà della Germa-
nia, contribuisce in modo determinante a caratterizzarne la struttu-
ra e la realtà “internazionale”. Questo Revenant non è dunque solo
inerzia, opacità, blocco. Da esso promana un’attività, una creatività,
un’iniziativa di trasformazione, che colloca la Germania dentro la
struttura della Gegenwart non come sua interruzione, ma come sua
forma specifica. Il presente non è zavorrato dalla Germania: essa par-
tecipa a pieno titolo alla sua realtà, alla sua produzione. Questo con-

41. Ibidem.
42. Lukács, op. cit., pp. 98-9.
43. Riprendo qui i termini della domanda posta da J. Derrida: «come distinguere tra
due disaggiustamenti, tra la disgiuntura dell’ingiusto e quella che apre la dissimmetria
infinita del rapporto all’altro, cioè il luogo della giustizia?» (Spettri di Marx. Stato del de-
bito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, trad. it. di G. Chiurazzi, Raffaello Cortina
Editore, Milano 1994, p. 33). Non però la sua risposta: la «giustizia» come «condizione
indecostruttibile di ogni decostruzione» (ivi, p. 40).
44. MEW, 1, p. 383.
45. Ibidem.

56
tributo fonda una “storia”: non però una storia-aldiqua, ma una sto-
ria-sogno, o più specificamente una storia-aldilà:

Se solo in Germania fu possibile la filosofia speculativa del diritto, questo pen-


siero astratto ed esuberante dello Stato moderno, la cui realtà rimane un aldi-
là (anche se questo aldilà si trova solo al di là del Reno); allo stesso modo, vice-
versa, l’immagine mentale tedesca dello Stato moderno, che astrae dall’uomo
reale, fu resa possibile solo dal fatto che lo Stato moderno astrae, di fatto, dal-
l’uomo reale, ovvero appaga l’uomo intero solo in modo immaginario. In poli-
tica, i Tedeschi hanno pensato ciò che gli altri popoli hanno fatto46.

Ciò che si trova aldilà del Reno viene prodotto in Germania nel
pensiero, la lingua della politica è tradotta nella lingua della filoso-
fia. Di più: la lingua della filosofia è tutta politica, è un modo per pen-
sare la politica, per fare politica come trasformazione della coscienza.
Ma questa traduzione ha a sua volta precisi effetti pratici, politici:
rende pensabile lo Stato moderno come Stato di diritto47; o detto in
altro modo: ridotti al ruolo di spettatori del grandioso e drammati-
co svolgersi del passaggio dal mondo feudale allo Stato moderno,
allo Stato borghese, i tedeschi hanno rovesciato questa condizione
in punto di forza, proponendosi come “teorici” dello Stato moder-
no nella sua “verità” e non in una delle sue contingenti manifesta-
zioni o fasi. Proprio perché lo Stato moderno è al di là del Reno, se-
parato e obiettivato in uno “spettacolo”, esso può essere “specula-
to” in lingua tedesca e ascritto alla sfera della “verità”, sottratto cioè
alla contingenza dei variabili rapporti di forze innervati nei corpi e
negli scontri; in una parola, lo Stato diventa uno Jenseits(Vernunft).
Questo slittamento ha una funzione politica di legittimazione, e
anche un’essenziale funzione organizzativa nazionale/interna-
zionale, perché, come nota Marx in un appunto del 1845, nella
«legge i borghesi devono darsi un’espressione generale, appunto
perché essi intendono dominare come classe»48. L’impersonalità
del dominio borghese fa corpo da una parte con la sua assolutezza
razionale, dall’altra, all’estremo opposto, con la struttura profonda
della sua matrice sociale.

46. Ivi, p. 385.


47. Scrive Gramsci: «Con Hegel si incomincia a non pensare più secondo le caste o gli
“stati” ma secondo lo “Stato”, la cui “aristocrazia” sono appunto gli intellettuali. La conce-
zione “patrimoniale” dello Stato (che è il modo di pensare per “caste”) è immediatamen-
te la concezione che Hegel deve distruggere (polemiche sprezzanti e sarcastiche contro
von Haller). Senza questa “valorizzazione” degli intellettuali fatta da Hegel non si com-
prende nulla (storicamente) dell’idealismo moderno e delle sue radici sociali» (Q, 1054).
48. K. Marx, 1. Feuerbach, in MEW, 3, p. 539.

57
Parlando di «filosofia speculativa del diritto», Marx si riferisce
ovviamente alla Filosofia del diritto di Hegel e allo stravolgimento
speculativo dei rapporti reali. Ma più in generale il discorso può
essere fatto valere per tutto il ciclo della “filosofia classica tedesca”,
che aveva già lucidamente impostato il proprio rapporto con la
Francia in termini di ripresa di un movimento rivoluzionario
come rivoluzione filosofica, cioè nella sola forma in cui esso aves-
se statuto di realtà49. Di nuovo, possiamo leggere questo interven-
to di Marx come una denuncia feuerbachiana dell’alienazione con-
tenuta nell’aldilà filosofico, ma anche, e con la stessa legittimità,
come registrazione della specifica potenza politica della teoria, in
quanto questa si rapporti consapevolmente alla “pratica” (alla poli-
tica) per conferirle realtà e, al contempo, per sottrarla alla contin-
genza dello scontro concreto; in una parola, per assegnarle un de-
stino, una razionalità, un “concetto”. Non per rifiutarla, aborrirla o
deprecarla, ma per “comprenderla”50. In questa seconda prospetti-
va, il modulo feuerbachiano dell’astrazione è reso dipendente da
una struttura di specificità irriducibili. Non c’è una storia univer-
sale dell’alienazione, rispetto a cui la Germania è una distorsione
periferica e superficiale. Al contrario, l’universale, l’unitario, levi-
gato, organico Stato razionale è proprio il prodotto dell’intervento
tedesco, cioè il risultato di una “traduzione” dalla pratica alla teo-
ria. La funzione “teorica” della Germania hegeliana consiste nel
tradurre la rivoluzione come forma della modernità, lo Stato mo-
derno come “rivoluzione”51, dalla lingua della mobilitazione popo-
lare e dell’insorgenza come metodo, dei giacobini francesi, in
quella della mediazione statuale ad opera degli intellettuali; dalla

49. Cfr. J. D’Hondt, «Hegel-Amleto. Il problema del passaggio all’atto politico», in Il


pensiero politico di Hegel, a cura di C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 1979, pp. 214-9 (sulla
«divisione del lavoro» tra francesi e tedeschi); G. Labica, Robespierre. Une politique de la
philosophie, PUF, Paris 1990, pp. 16-7, 80-6 (sul rapporto Kant-Robespierre). In gene-
rale, sul rapporto Francia-Germania, prassi-teoria, alla base del progetto dei Deutsch-
Französiche Jahrbücher, cfr. B. Nikolaevskij, O. Maenchen-Helfen, Karl Marx. La vita e
l’opera, trad. it. di J. Lombardi, Einaudi, Torino 1969, pp. 81-95.
50. Al giacobinismo (Schrecken, Terrore) nella Fenomenologia dello spirito viene assegna-
to come «destino» dialettico il napoleonismo («absoluter Herr»: cfr. Hegel, Phänome-
nologie des Geistes, cit., p. 437-8), secondo il suggerimento di J. Hyppolite, «Il significato
della Rivoluzione francese nella “Fenomenologia” di Hegel», in Id., Saggi su Marx e
Hegel, trad. it. di S.T. Regazzola, Bompiani, Milano 1965, pp. 45-83, qui 78-9), e quindi
il rovesciamento in Restaurazione (nella lettera a Niethammer del 28/4/1814 Hegel si
vanta di «avere predetto questo rovesciamento [la Restaurazione] nell’opera terminata
la notte precedente la battaglia di Jena» (cit. in Hyppolite, op. cit., p. 79). Sul riconosci-
mento/misconoscimento del giacobinismo nella Filosofia del diritto cfr. F. Consiglio,
«Libertà e fanatismo in Hegel», in Critica marxista, XXIX (1991), n. 3, pp. 155-69.
51. Scrive Marx in un appunto del 1845: «La rivoluzione = Storia della genesi dello Stato
moderno» (MEW, 3, p. 538).

58
legge come equilibrio provvisorio e revocabile di rapporti di forze,
alla legge come manifestazione della razionalità dello Stato. Que-
sta traduzione, come Marx ben riconosce, non è una mera nega-
zione della politica giacobina; essa la rilancia su di un piano diver-
so: l’espansione egemonica del potere borghese non parla più il
linguaggio della mobilitazione di massa ma quello dell’organizza-
zione etica della società civile.
Non c’è pertanto un metro unitario dell’alienazione, e quindi
della disalienazione, al quale commisurare tutti i ritmi nazionali
come varianti superficiali. Sono invece questi ritmi particolari
che, nel loro vario combinarsi e interagire, producono la struttura
apparentemente irrevocabile e oggettiva della Storia come proces-
so unico. La differenza tra la filosofia tedesca e l’ideologia tedesca
sta precisamente in questa funzione internazionale della prima:
essa non è elucubrazione individuale, ma, in quanto traduce un
problema internazionale in una lingua nazionale, e di qui lo rilan-
cia internazionalmente come proposta egemonica («Hegel può
essere concepito come il precursore teorico delle rivoluzioni libe-
rali dell’Ottocento»52), corrisponde agli interessi di una classe non
solo nazionale, ma internazionale. Si può dire, in generale, che
ogni lingua traduce un universale nella particolarità nazionale,
solo nella misura in cui costruisce a suo modo questo universale,
proponendo se stessa come lingua-archetipo, fonte di una serie di
traduzioni possibili in altre lingue; in tal modo imprimendo al-
l’universale un grado di realtà efficace, progettandolo in un “modo”
specifico, ma anche, in certa misura, irrigidendolo e bloccandolo a
una singola determinazione. E si può dire, infine, che il movimen-
to di costituzione dell’universale a partire da ogni lingua è intendi-
bile solo se si assegna al pensiero uno statuto pratico, se si intende
per “lingua” l’insieme dei rapporti reali interni nazionali e di una
nazione con il campo internazionale; se insomma si fa coincidere
lingua con ideologia53.
Siamo giunti ai margini estremi del testo di Marx. Ogni ulterio-
re sollecitazione equivarrebbe a separarcene definitivamente. Qui
rimane infatti preponderante la logica dell’alienazione, e quindi di
ciò che Marx, con un’espressione illuminante, chiamerà l’anno
dopo nelle Tesi (ma per liberarsene!) «innere, stumme [...] Allge-

52. Q, 1925.
53. Come fa Gramsci, che afferma sia l’identità di ideologia e linguaggio, sia il carattere
intensamente linguistico (come costruzione di coerenza e unità) e quindi intensamen-
te ideologico (pratico-politico) della filosofia. Cfr. uno sviluppo di queste tesi in F.
Rossi-Landi, Ideologia. Per l’interpretazione di un operare sociale e la ricostruzione di un
concetto, seconda edizione riveduta e ampliata, Mondadori, Milano 1982, pp. 186-222.

59
meinheit», «generalità interna, muta»54. Ciò che dal 1844 al 1845
accade, è invece (tra mille peraltro comprensibili incertezze: si
veda la Sacra famiglia) l’abbandono della logica dell’alienazione e
la ricerca di una logica che permetta di pensare la diversità delle lin-
gue come realtà dell’universale, l’essenza umana come struttural-
mente plurale (lo «ensemble der gesellschaftlichen Verhältnisse»,
dati i rilievi fatti all’inizio sulla sua accezione in Goethe, non po-
trebbe avere in Marx un risonanza musicale? cioè contribuire a de-
terminare l’essenza come un concorrere di molte voci-lingue?). Se-
condo questa logica, la Traumgeschichte dei tedeschi ha un grado di
realtà esattamente equivalente alla storia politica dei francesi (non
aveva del resto scritto Marx che «il popolo tedesco» deve iniziare
ad annoverare la filosofia «tra le proprie condizioni presenti»?55).
Altro che arretratezza tedesca, altro che deutsche Misère56! La Ger-
mania, con lo sviluppo della filosofia speculativa, è protagonista di
una produzione dell’universale, il cui grado di efficacia – questo
Marx lo scrive a chiare lettere nel Per la critica del 1844 – sta nell’af-
fermarsi dello Stato moderno come Stato di diritto, cioè come Stato
che fa del diritto astratto, impersonale, la base della regolazione
della società; e che pertanto assegna al ceto degli intellettuali, in
quanto funzionari dell’universale, la titolarità di questa regolazio-
ne. È il nuovo Stato costituzionale, lo Stato della burocratizzazione
e del parlamentarismo; lo Stato, insomma, che al contempo è rea-
lizzatore e neutralizzatore del giacobinismo.

4. Un’altra immanenza
Torniamo allora all’idea di una fondazione imperfetta della
mondanità moderna. Come pensarla sulla base di quanto detto fin
qui? Intanto, la stessa nozione di “imperfezione” va radicalmente
ridefinita. Se infatti la “carenza” o “assenza” tedesca è precisamen-
te ciò che permette di mettere a fuoco la struttura trascendente
dello Stato moderno, e di progettarne la politica, la nozione di aldi-
qua-storia, come Marx la utilizza nel 1844, va resa più complessa.
Essa non può essere la fine delle illusioni e il passaggio alla sobria
descrizione, con la connessa istituzione di una scala di realtà, in cui
la Germania non può che rincorrere Francia e Inghilterra, e sia
pure con un «salto mortale» temporale57. Se così fosse, il comuni-

54. MEW, 3, p. 6, cors. mio.


55. MEW, 1, p. 385.
56. Il riferimento diretto di questa espressione è proprio a Goethe. Cfr. F. Engels, Deut-
scher Sozialismus in Versen und Prosa (1847), in MEW, 4, pp. 232-3.
57. MEW, 1, p. 386.

60
smo sarebbe una sorta di Doppelgänger, un inquietante sosia del ca-
pitalismo (come il proletariato lo sarebbe della borghesia): unico
come il primo, da esso inseparabile e di esso parassitario e subal-
terno. A me pare che questa tentazione in Marx ci sia, e ci sia co-
stantemente. Ma che sia anche combattuta (con continuità fino al
1850, quindi in modo più sporadico) dall’esigenza di fare della “di-
versità delle lingue” il fondamento della politica come concentra-
zione teorico-pratica dei rapporti reali; e, quindi, dal tentativo di
collocare il comunismo – in quanto movimento reale-pensiero e
non idea-teoria di questo o quel teorico – al centro di questa diver-
sità, in quanto forma di politica in cui l’intreccio dei rapporti sociali e
la produzione della verità si identificano; in cui cioè la verità non si
produce al di fuori dell’intreccio molteplice dei rapporti (facendo-
ne “astrazione”), ma dentro di essi, come tendenza pratica ad essi
volutamente, scopertamente interna.
Su questa base, la negazione della speculazione non passa per
l’abbandono delle illusioni, ma per il riconoscimento della determi-
nazione linguistica – e dunque della specifica efficacia – delle illusio-
ni stesse. La critica della speculazione è, in questa luce, la critica
dello slittamento dalla lingua nazionale alla lingua universale inge-
nuamente praticata dagli “ideologi” tedeschi e da chiunque preten-
da di assumere il piano dell’universale come un’origine trascenden-
te e non come un prodotto immanente della diversità delle lingue.
Come meravigliarsi, a questo punto, del rifiuto del termine Im-
manenz? La Immanenz è la speculazione che identifica pensiero e
realtà, che rende il pensiero immanente alla realtà nel senso che
niente di reale può sfuggire all’enumerazione speculativa del pen-
siero; nel senso infine che, come Hegel afferma e dopo di lui molti
altri hanno continuato ad affermare, non c’è filosofia, che non sia
idealismo. Immanenz significa banalizzazione della lingua a ines-
senzialità, a particolarità accidentale; significa identificazione di
pensiero e universale; significa insomma ineluttabilità dell’ege-
monia borghese58. A questo cerchio magico dell’idealismo si sfug-
ge non “uscendo” dalla filosofia, ma ritrovando dentro di essa
un’altra immanenza e assegnando alla filosofia un diverso statuto.
La aldiquità del pensiero è un segnale posto a indicare questa esi-
genza: esigenza di equiparare il pensiero all’effettiva potenza di
universalizzazione pratica, a sua volta resa possibile dal manteni-
mento dell’universale dentro la diversità tra le lingue.

58. Cfr. la «riduzione della metafora idealistica» in Rossi-Landi, Ideologia, cit., p. 214; il
quale nota anche che «un sistema filosofico è un’ideologia intensamente linguistica,
soprattutto quando nega di esserlo» (ivi, p. 206).

61
Si capisce allora perché Marx avesse cercato in Feuerbach un
punto di appoggio per sfuggire a Hegel. Ma si capisce anche come
questo appoggio dovesse rivelarsi insufficiente, proprio per la sua
incapacità di pensare le “voci” plurali dell’essenza umana come
qualcosa di costitutivo, e quindi in definitiva per il suo ridursi a
una variante subalterna della speculazione che intendeva combat-
tere. Ciò che in Marx si trova, è dunque (credo che qui Gramsci
avesse ragione) la ricerca di un’immanenza, alla luce della quale la
“mondanità” non diventi un nuovo assoluto; in cui la “contingen-
za”, una volta sciolta dalla creaturalità, non precipiti nella contin-
genza della decisione di un soggetto della (o anche nella) storia, in
cui strutturalmente libertà e necessità si identificano. La ricerca di
Marx tra il 1844 e il 1845 si muove verso un concetto di “contingen-
za” che equipara non-necessità a diversa necessità, una sorta di neces-
sità relativa basata sull’irregolarità e sull’ineguaglianza della su-
perficie del sociale, poggiante a sua volta sulla diversità delle lin-
gue. La diversità delle lingue – questa grandezza negativa che al
contempo unisce e separa i tempi – è l’“originario” da cui partire af-
finché la contingenza non si chiuda nel mutismo della comunità59.

59. Sul rapporto tra contingenza e traducibilità, e tra contingenza e decisione, mi per-
metto di rinviare al mio «Gramsci dopo Laclau: politica, verità e le due contingenze», in
Verità, ideologia e politica, a cura di F. Frosini e A. Vinale, in corso di stampa presso Cro-
nopio.

62
Il posto della politica
da Le lotte di classe in Francia
al 18 Brumaio di Luigi Bonaparte

1. Politica ed economia, storia e politica


Prenderò in considerazione il rapporto tra due opere di Marx,
come via per arrivare a impostare correttamente la questione se-
guente: in che modo la politica interviene nell’itinerario teorico di
Marx in quel determinato frangente, circoscritto dalla rivoluzione
di febbraio 1848 e dal colpo di Stato del 2 dicembre 1851? E quindi,
conseguentemente: come il modo di intendere il rapporto tra politica
e storia subisce le ripercussioni dei fatti compresi tra questi due
termini? La questione, così formulata, è stata posta e proposta nu-
merose volte, in una forma che inevitabilmente inquadra questo
giro di anni nel passaggio dalle idee del Manifesto (e della Miseria
della filosofia) alla formulazione del “materialismo storico”, che al-
l’altezza della Prefazione del 1859 a Per la critica dell’economia poli-
tica è già compiuta. Di una fase di passaggio, in senso forte, dunque
si tratterebbe, e a me pare che questa definizione sia corretta, nel
senso che tra Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, scritto e
pubblicato tra il gennaio e l’ottobre del 1850, e Il 18 Brumaio di
Luigi Bonaparte, scritto tra il dicembre 1851 e il marzo 1852 e pub-
blicato nello stesso anno, accade qualcosa, qualcosa di decisivo, che
si potrebbe sinteticamente chiamare la nascita del “materialismo
storico”. Quando dico che “accade qualcosa”, e parlo dell’atto di na-
scita del “materialismo storico”, mi riferisco evidentemente alla
questione evocata al principio: la nascita del materialismo storico
ha da vicino a che vedere con il rapporto tra storia e politica, nel
senso che lo ridefinisce profondamente. Questa genesi, come
detto, si svolge dinnanzi agli avvenimenti francesi, in particolare
tra l’ottobre 1850 e il dicembre 1851, cioè in quella fase che, secon-
do la periodizzazione contenuta nel 18 Brumaio, è occupata dalla

63
lotta tra il partito dell’ordine e Bonaparte e che si conclude con il
colpo di Stato del 2 dicembre.
Ora, è un fatto riconosciuto che il 1848 segna un discrimine
nell’itinerario intellettuale di Marx, ma che natura ha questo di-
scrimine? Un’indicazione in merito ce la fornisce lo stesso Marx,
quando nel 1859 indica retrospettivamente nell’avvio dello studio
al British Museum, nel 1850, un radicale nuovo inizio del proprio
tragitto di studio: giunto a Londra, egli scrive, fui indotto «a rico-
minciare di nuovo dal principio», «ganz von vorn wieder anzufan-
gen»1. Ciò vale ovviamente in riferimento allo studio dell’anatomia
della società civile, rispetto a cui – scrive sempre Marx – «la pubbli-
cazione della Neue Rheinische Zeitung nel 1848 e nel 1849 e i suc-
cessivi avvenimenti» rappresentano una “interruzione”2.
Si può quindi parlare, nell’autoconsapevolezza di Marx, del
1850 come del luogo di una duplice rottura: rispetto agli studi eco-
nomici precedenti, che vengono rifondati e ripensati, e rispetto
agli interessi politici, che rappresentano solo un’episodica interru-
zione. E infatti, negli anni Cinquanta qualcosa di nuovo c’è: Marx
avvia uno studio e un’esposizione dell’economia politica poggian-
te sull’uso della logica hegeliana3, e il primo risultato di questo stu-
dio saranno i Grundrisse, in particolare la Einleitung del 1857, che
segna un netto spartiacque epistemologico.
Certo, l’autopresentazione di Marx nel 1859 non va presa alla
lettera in tutti i particolari, tesa com’è a dimostrare al pubblico la
coscienziosità “scientifica” dell’autore, ma neanche si può all’in-
verso considerare questo curriculum vitae come un mero falso
d’autore. La messa in sordina della politica, in esso presente, non
dice tutta la verità (Marx continuò a fare politica anche dopo il ’48),
ma contiene qualcosa di autentico, che possiamo apprezzare se af-
frontiamo la questione da un altro lato, chiedendoci se ci sia, e
dove sia, la “teoria politica” di Marx. Mi rendo conto di toccare qui
un punto su cui si è insistito a lungo, e che è oltretutto estrema-
mente delicato. Non è insomma una scoperta che la teoria politica
di Marx, esattamente come la sua dialettica, non ha trovato posto
in nessun suo libro, e che su questo aspetto si è sempre tornati o
per apporre sul marxismo il marchio dell’economicismo, o per

1. K. Marx, Vorwort a Zur Kritik der politischen Ökonomie, in MEW, 13, pp. 10-1.
2. Ivi, p. 10.
3. Cfr. la lettera a Engels del 16 (?) gennaio 1858, in MEW, 29, p. 260. Su questo aspetto
si veda R. Rosdolsky, Genesi e struttura del “Capitale” di Marx (1968), trad. it. di B. Maffi,
Laterza, Roma-Bari 1975; H. Reichelt, La struttura logica del concetto di capitale in Marx
(1970), trad. it. di F. Coppellotti, De Donato, Bari 1973.

64
tentare di colmare con varia fortuna questo vuoto, quando esso
non è stato, invece, semplicemente ignorato.
In quest’ultimo caso – che è poi la storia della Seconda Interna-
zionale, con i suoi Kautsky e i suoi Plechanov, con i suoi Bernstein
e i suoi Otto Bauer – è per lo meno venuto alla luce un aspetto reale
del marxismo (reale perché produttore di effetti): il fatto che il Capi-
tale e la Prefazione del 1859 non erano, in quanto tali, una “teoria
politica”, e che ignorare questo punto produceva effetti disastrosi.
Il terzo libro del Capitale non s’interrompe proprio al capitolo sulle
classi? E in alternativa, dove trovare questa teoria politica? È vero
che al novembre 1844 risale il piano di uno scritto sullo Stato4, e
che ancora nell’estate 1846 Marx lavorava all’opera intitolata Kritik
der Politik und der Nationalökonomie (Critica della politica e dell’eco-
nomia politica), di cui i cosidetti Manoscritti economico-filosofici del
1844 sono un frammento5 Ci sono poi la Questione ebraica e l’Intro-
duzione a Per la critica della filosofia hegeliana del diritto, e molto più
tardi La guerra civile in Francia (1871) e la Critica al programma di
Gotha (1875), ma cosa trarre da tutto ciò, se non degli spunti e l’esi-
genza, di nuovo, di una teoria politica e dello Stato che Marx non
possedeva in forma elaborata?
Il problema è in realtà un altro, e sta, di nuovo, scritto nella Pre-
fazione del 1859: da un certo momento in avanti, Stato diritto politi-
ca diventano agli occhi di Marx fenomeni secondari, per spiegare i
quali occorre profondarsi nella “società civile”, dunque nell’econo-
mia politica. C’è insomma per lo meno un contrasto tra la conside-
razione della politica e dello Stato come sfere non decisive nella
spiegazione della dinamica di un’epoca storica, e il loro essere di
volta in volta decisive nell’immediato, per la decisione e per la risolu-
zione del conflitto delle classi, conflitto che quella logica “profonda”
del resto esprime e al contempo interpreta. Quando Engels si sof-
ferma – senza del resto venirne a capo – sulla nozione di “ultima
istanza” e sull’importanza della “forma” che l’ideologia conferisce ai
conflitti strutturali6, quando Labriola ripensa le ideologie come

4. Cfr. MEW, 3, p. 537; quindi Marx/Engels Gesamtausgabe (MEGA2), Abt. IV, Bd. III,
Akademie Verlag, Berlin 1998, p. 11. Si tratta del «taccuino degli anni 1844-1847» in cui
si trovano anche le Tesi su Feuerbach. Per la datazione cfr. ivi, Apparat, p. 486.
5. Marx intraprese il lavoro nella primavera del 1844 e solo nel febbraio del 1847 l’edito-
re con cui aveva firmato il contratto di pubblicazione, Carl Wilhelm Leske, lo rescisse
definitivamente. Cfr. la minuta della lettera di Marx a Leske del 1° agosto 1846, in MEW,
27, pp. 447-50, e la n. 6 a p. 618.
6. Cfr. le due lettere sul materialismo storico, a Joseph Bloch (21/22 settembre 1890) e
a W. Borgius (25 gennaio 1894), pubblicate nel 1895 in Der sozialistiche Akademiker
(MEW, 37, pp. 462-5; e 39, pp. 205-7).

65
forme di correlazione pratica7, quando Korsch polemizza con Kaut-
sky sulla separazione tra teoria economica dello sviluppo capitalisti-
co e teoria politica delle classi8, quando Gramsci, riflettendo sulla
pratica politica di Lenin, vi riconosce all’opera il «principio teorico-
pratico dell’egemonia» che, aggiunge, ha in Lenin «una portata
gnoseologica»9, quando Althusser riflette sulla pratica politica di
Lenin come «analisi della struttura di una congiuntura» nella di-
mensione di «questo “momento attuale”»10, – cos’altro fanno tutti, se
non intervenire su questo contrasto, tentando di venirne a capo dal-
l’interno del pensiero marxista? Cos’altro fanno, se non assumere
teoricamente come un problema l’intervallo che c’è nel marxismo
tra storia e politica, e quindi tentare di pensare questo problema?
Non si tratta, si badi bene, per tutti costoro, di “rivalutare” la po-
litica contro l’economia, smentendo o “rivedendo” la tesi di Marx,
ma di venire a capo della distanza tra storia e politica che la separa-
zione di economia e politica inevitabilmente produce11. “Pensare”
la specifica realtà e la specifica efficacia delle sovrastrutture e delle
ideologie non vuole dire “invertire” il verso della “determinazione”
o “indebolirla” ma, per dirla con Althusser (ma Labriola e Gram-
sci, nei loro “linguaggi”, hanno scritto cose molto simili), iniziare
a chiedersi se questa stessa idea di “determinazione”, basata su di
una forma di “causalità” (lineare o reciproca, non importa) non sia
insufficiente a rendere ragione, anzitutto, della stessa pratica poli-
tica comunista.
Insomma, ciò che fa problema non è la distinzione metodolo-
gica, ma la dicotomia organica di base e sovrastruttura, che porta
con sé quella di epoca ed evento, di “tempo” come luogo dello “svi-
luppo” ed “attualità” come luogo dell’“intervento”, di materialismo
storico come luogo di accertamento della “verità” e pratica politica
come luogo di esercizio dell’“ideologia” (o, peggio, di applicazione
scientifica di quella verità). Dove e come nasce questa dicotomia?
La mia tesi è che essa nasce con il “materialismo storico”, cioè con
il trasferimento dell’idea di processo rivoluzionario dall’unità im-
manente di politica e storia al rapporto di determinazione di eco-
nomia e politica, insomma dalla storia come “attualità” alla storia

7. Cfr. A. Labriola, Discorrendo di socialismo e di filosofia (1897, 19022), in Id., La concezio-


ne materialistica della storia, a cura di E. Garin, Laterza, Bari 1965, p. 216.
8. Cfr. K. Korsch, Il materialismo storico. Antikautsky (1929), trad. it. E. Tota, Laterza,
Bari 1971, in partic. pp. 95-116.
9. Q, 1249.
10. L. Althusser, Pour Marx, F. Maspero, Paris 1965, p. 181.
11. Cfr. E. Laclau, Ch. Mouffe, Hegemony and Socialist Strategy. Towards a Radical Demo-
cratic Politics, Verso, London 20012.

66
come “processo”; e che l’incunabolo del materialismo storico è il 18
Brumaio, vale a dire la risposta di Marx non alla sconfitta proletaria
del giugno 1848, ma al colpo di Stato di Luigi Bonaparte12.

2. Lotta e universalità
Sul terreno dell’unità di storia e politica, a me pare che ci sia
una linea di continuità tra le Tesi su Feuerbach (1845), l’Ideologia te-
desca (1845), la Miseria della filosofia (1847), il Manifesto (1848) e Le
lotte di classe in Francia (1850); una linea di continuità che è la “pra-
xis” in quanto concetto al contempo ontologico e gnoseologico, au-
tentico cambiamento di terreno prodotto da Marx rispetto alla di-
cotomia di idealismo e materialismo, e congedo da ogni possibile
metafisica (compresa quella “umanistica”). Entro questo quadro è
leggibile il Manifesto. La concezione della storia come «storia di
lotte tra classi»13 è già, immediatamente, un’identificazione di sto-
ria e politica14, e quindi un’immediata negazione di qualsiasi ap-
proccio unitario e oggettivistico al tempo storico: la storia non è
altro che il susseguirsi di battaglie (Kämpfe), in cui due schiera-
menti si fronteggiano e uno solo esce vincitore, o addirittura nes-
suno («o con il comune tramonto delle classi in lotta»15). Questi
schieramenti si scontrano a tutti i livelli: economico, politico, ideo-
logico, militare: “comprendere” la storia significa dunque inten-
dere il modo in cui, da entrambi i fronti, si è tentato – e con vario
successo si è conseguito – l’obbiettivo politico di “sintetizzare”
tutti questi livelli in una linea di offensiva unitaria16. Nel concepire
la storia come lotta di classi, Marx riprende, come egli stesso di-
chiara17, la storiografia francese di Thierry e Guizot della «guerra
di razze» innescata da «una conquista iniziale»18. La concezione è
in Marx «interamente ricostruita»19, ma dalla “fonte” passa nel
Manifesto l’idea – almeno l’idea – che le “lotte” non possono essere
intese come “espressione” di un conflitto economico, ma che que-

12. L’unità di storia e politica nel Marx del 1845-1848 viene delineata molto bene da L.
Perini, «Introduzione» a K. Marx, Rivoluzione e reazione in Francia. 1848-1850, Einaudi,
Torino 1976, passim.
13. K. Marx, F. Engels, Manifest der kommunistischen Partei, in MEW, 4, p. 462.
14. Cfr. E. Balibar, «Fin de la politique ou politique sans fin? Marx et l’aporie de la “poli-
tique communiste”», in Groupe d’études «La philosophie au sens large», animé par P. Ma-
cherey, année 2008-2009 (http://stl.recherche.univ-lille3.fr/sitespersonnels/mache-
rey/accueilmacherey.html), p. 10.
15. Marx, Engels, Manifest, in MEW, 4, p. 462.
16. Questo punto viene sviluppato da Gramsci nei Quaderni del carcere con il concetto di
“rapporti di forze”; cfr. infra, pp. 110-5.
17. Cfr. la lettera di Marx a J. Weydemeyer del 5/3/1852, in MEW, 28, pp. 504-5.
18. E. Balibar, «Fin de la politique ou politique sans fin?», cit., p. 9.
19. Ibidem.

67
sto stesso conflitto va surdeterminato costantemente con tutti gli
elementi nazionalistici e regressivi da cui i «gruppi sociali subal-
terni» (secondo l’espressione di Gramsci) sono attraversati20.
Se la “storia” non è pensabile come un “flusso” ma come scon-
tro sempre in corso di diverse “attualità” possibili, d’altra parte è
vero che di “storia” si parla. Essa allora andrà decifrata come il
nome dato dai vincitori alle vicende che hanno condotto alla vitto-
ria, dove la singolarità di questo nome indica già, di per sé, il modo
in cui la contingenza politica viene “ridotta” al manifestarsi di un
destino, di una legittimità del (nuovo) potere.
Dinnanzi a tutto ciò, il comunismo è ciò che interrompe questa
catena che dallo scontro di attualità possibili conduce ogni volta
alla filosofia della storia: dall’apertura dello scontro alla chiusura
dell’ineluttabile processo. Il comunismo è quel “movimento”, che
introduce nella “guerra” un metodo nuovo, mai usato in modo
conseguente da nessuna altra forza in lotta; ma sì implicito, in mo-
menti determinati, nella pratica di molte. Quest’ultimo punto va
sottolineato: il comunismo, questo “spettro” che agita tutte le po-
tenze europee – cioè tutti i “vincitori” attuali –, è una rottura asso-
luta rispetto al passato, non perché si faccia portatore delle istanze
di una forza qualitativamente diversa da tutte le altre: il proletaria-
to come assolutamente espropriato. Questa tesi, pur presente
nelle pagine del Manifesto, non ha consistenza se viene staccata
dall’altra, che solamente la rende pensabile: il proletariato non ha
nessuna realtà sociale, ed è identificabile solamente sul terreno
della prassi politica nella sua contingenza attuale.
Se senz’altro identificato con un gruppo sociale, il proletariato
è quella forza che interrompe la continuità dell’avvicendarsi di
classi dominanti, di rivoluzioni di “minoranze”, in virtù di qualco-
sa, che lo caratterizza con un’esclusività mai avutasi in preceden-
za. Tra rivoluzione borghese e rivoluzione proletaria sussisterebbe
insomma uno iato assoluto (pre-storia e storia), in virtù della “na-
tura” del suo “soggetto” promotore. Eppure, proprio questa tesi fi-
nisce paradossalmente per annullare la novità rappresentata dal
comunismo: l’esclusività che caratterizza il proletariato è in fin dei
20. Storia dei gruppi sociali subalterni è il sottotitolo del Quaderno 25, intitolato Ai mar-
gini della storia. Tra l’agosto 1931 e il luglio-agosto 1934 Gramsci conduce nei Quaderni
un’insistita anche se frammentaria riflessione sul rapporto tra razza e classe, ricordan-
do le teorie di Thierry (Q, 897, 1070, 1696, 1740) e accostandole, come fonte, a Marx
(Q, 1943-4). Una ripresa di questi problemi in una direzione analoga, alla luce dei testi
di Foucault sulla “società” e la “biopolitica”, è in G. Burchell, «Historische Subjekte:
Rassen, Nationen, Klassen. Die Grenzen liberaler Regierungsrationalität», in Episte-
me. Online-Magazin für eine Philosophie der Praxis (www.episteme.de/htmls/-
no2.html), pp. 8-17.

68
conti solo l’esasperazione di qualcosa che ha caratterizzato molte
altre figure sociali: l’espropriazione e l’esistenza di massa, che si
rovescerebbero dialetticamente, al momento della presa del pote-
re da parte sua, in una liberazione universale21.
Questa concezione da una parte apre la strada alla “missione
storica del proletariato”22, come è stata delineata da Engels nell’Evo-
luzione del socialismo dall’utopia alla scienza in una formulazione
non a caso circolare e intrisa di terminologia religiosa:

Compiere questa liberazione universale è la missione [Beruf] storica del mo-


derno proletariato. Indagare le condizioni storiche di questa azione, e quindi
la sua stessa natura, e in tal modo rendere cosciente la classe che oggi è op-
pressa, e che è chiamata [berufnen] all’azione, delle condizioni e della natura
della sua stessa azione, è il compito dell’espressione teorica del movimento
proletario, cioè del socialismo scientifico23.

Dall’altra parte apre, sul piano realistico e sociologico, il proble-


ma di dosare e rimodulare in continuazione – come è stato sempre
più evidente nel corso del Novecento – la centralità operaia nel pro-
getto politico di emancipazione, rincorrendo sì l’obiettivo (inattin-
gibile) di identificare una pratica politica come qualità di una figura
sociale24 e dovendo però, come contraccolpo di questo esclusivi-
smo, affidarsi a una “politica di alleanze” sempre più ampia e varie-
gata, una politica di alleanze che allo stesso tempo è l’unico luogo
della “politica comunista” e un’inevitabile “deviazione” rispetto alla
linearità del suo autentico progetto economico-sociale25.
L’interruzione della dialettica servo/signore, rappresentata dal
comunismo, non può essere questo affidamento al “servo”, in

21. Cfr. i celebri passaggi in MEW, 4, pp. 472-3.


22. Su questa nozione cfr. G. M. Bravo, Ritorno a Marx. Partito del proletariato e teoria po-
litica in Engels e Marx, Franco Angeli, Milano 1981, pp. 238-47.
23. MEW, 19, p. 228 (e cfr. il paragone cristani-socialisti nella Prefazione del 1895 a Le
lotte di classe in Francia, in MEW, 22, pp. 526-7). Il problema non è la circolarità del
nesso tra movimento e teoria (ben riconosciuta e messa in valore da Labriola), ma l’idea
che esso sia da un lato una mera “espressione”, dall’altro un illuministico “rendere co-
sciente”. Cfr. infra, p. 103.
24. Di questa storia fanno parte sia la dogmatica identificazione del movimento auten-
ticamente rivoluzionario con quello operaio, sia la dichiarazione della sua obsolescen-
za, con relativo passaggio di testimone ai “nuovi movimenti sociali”. In entrambi i casi,
è un rapporto uno a uno tra soggetto (o, come si dice oggi, “soggettività”) e rivoluzione,
ciò che viene mantenuto, e che fa problema. Un tentativo di cambiare radicamente ter-
reno è quello intrapreso a suo tempo da E. Laclau, Politics and Ideology in Marxist Theo-
ry. Capitalism – Fascism – Populism, Verso, London 1977, che non a caso parte dalla con-
cezione gramsciana dell’egemonia.
25. Cfr. E. Molnár, La politique d’alliances du marxisme (1848-1889), Akadémiai Kiadó,
Budapest 1967.

69
quanto “servo”, della capacità (nel senso di potenzialità) di spezzare
il meccanismo che lo avvince al signore. L’unica interruzione possi-
bile di questa dialettica consiste invece proprio nella negazione di
questa identificazione, anzi nella negazione della “identificabilità”
in quanto tale; e nella riduzione di entrambi, servo e signore, all’in-
treccio conflittuale che li identifica e li distingue, allo “ensemble”
sempre in movimento e mai concluso di questo intreccio. L’interru-
zione della dialettica dell’avvicendamento delle classi al potere non
può consistere nell’affidare a una di esse il compito di liberare sé e
tutte le altre, ma, al contrario (e questo è l’unico modo possibile in
cui il metodo comunista è pensabile in tutta la sua inaudita origina-
lità) nell’assumere questa liberazione come già da sempre in corso,
e come già da sempre intrecciata al dominio. L’originalità del comu-
nismo non sta nella sua consistenza “scientifica”, ma anzitutto nel
riconoscere l’intreccio necessario di liberazione e dominio: il fatto
cioè che chi lotta per liberare se stesso lotta sempre anche per libe-
rare “tutti”, e che con altrettanta regolarità questa liberazione si
converte nell’istituzione di un nuovo dominio, questa universalità
si rovescia in una nuova esclusività. Fa parte del carattere bellico
della storia questa continua costruzione di nuove universalità prati-
che e la loro continua negazione. Riconoscere la realtà e il valore di
tutte le universalità pratiche del passato, ed ereditarle “in questo
momento attuale”, non vuole dire abdicare alla propria originalità
ma al contrario darle l’unica realtà possibile.
Questa “realtà” è la pratica proletaria: quella che c’è sempre
stata, in ogni momento della lotta-storia, in cui dei gruppi subalter-
ni traducevano le proprie vedute ristrette e corporative in visioni
universalistiche (espresse nei più disparati linguaggi) in una dispe-
rata resistenza per la sopravvivenza. Il significato più profondo del
Manifesto sta probabilmente nel tentativo di costruire un “metodo”
politico che, collocandosi completamente dentro questa “pratica”
(per cui la lotta di resistenza è il fondamento dell’universalità), rie-
sca a stabilizzarla, non però bloccandola come “qualità” essenziale
di un “soggetto”, ma traducendola in assunzione metodologica del-
l’impossibilità in generale di un “soggetto” della storia, cioè in as-
sunzione metodologica dello statuto pratico, politico del pensiero-
verità, secondo l’idea schizzata nelle Tesi su Feuerbach.

3. Comunisti e proletari
Nel Manifesto ritroviamo questa impostazione nella critica del
«vero socialismo», critica che a sua volta riprende e sintetizza
l’ampia elaborazione sviluppata in proposito nell’Ideologia tede-

70
sca26. Qui infatti già compariva, come corretta traduzione tedesca
dei vari partiti comunisti europei, in contrapposizione al vero socia-
lismo, il «partito comunista»27. Il termine “partito” ha negli anni
Quaranta del secolo XIX un significato molto diverso da quello
tardo ottocentesco e novecentesco, e oscilla tra il club di matrice gia-
cobina, la rappresentanza parlamentare e il movimento di opinio-
ne28. Il modo in cui Marx lo utilizza «rimane ancora impigliato tra
questi elementi: organizzazione di mestiere, clubs giacobini, cospi-
razioni segrete di piccoli gruppi, organizzazione giornalistica»29,
ma in tutto ciò porta un aspetto che non può non rivelarsi incompa-
tibile con qualsiasi logica cospirativa di piccoli gruppi: tra «le posi-
zioni teoriche dei comunisti» e «il partito comunista» non vi è un
rapporto dottrinario, per cui un piccolo gruppo, riunito attorno a
un’idea o a un principio, cerca la forza politica per realizzarli. Non vi
è alcuna autenticità dottrinale da valorizzare. Autentico è solamen-
te il pensiero sottratto alla fedeltà ai “principii” (che rinviano sempre
a un “linguaggio” individuale) e identificato con la lotta in tutti i suoi
aspetti, senza alcuna limitazione (e questo esclude strutturalmente
anche un approccio in termini di “appello” letterario alle “masse”,
com’era già chiaro dai tempi degli Annali franco-tedeschi)30.
Si può dire che le posizioni teoriche dei comunisti sono la ne-
gazione della teoria in quanto tale, e quindi anche di qualsiasi
nesso teoria-partito, dottrina-organizzazione. «Le assunzioni teo-
riche dei comunisti – scrive Marx – non poggiano affatto sopra
idee, sopra princìpi, che siano stati inventati o scoperti da questo o
quel miglioratore del mondo. Esse sono soltanto espressioni ge-
nerali dei rapporti effettivi di una lotta di classe che già esiste, di un
movimento storico che si svolge davanti ai nostri occhi»31. Il comu-
nismo non è un’idea particolare – per la stessa ragione per la quale
non è «un partito particolare»32 – ma è la comprensione della storia

26. Cfr. MEW 3, pp. 441-72.


27. Ivi, p. 443.
28. Cfr. K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, trad. it. a cura di E. Cantimo-
ri Mezzomonti, Einaudi, Torino 1962, pp. 122-9 (commento della curatrice); Molnár,
La politique d’alliances du marxisme, cit., pp. 7-8; J. Texier, «La nozione di “Partito” e di
“Partito comunista” nel 1847-1848», in Il Manifesto del Partito comunista 150 anni dopo,
a cura di R. Rossanda, manifestolibri, Roma 2000, pp. 224-8.
29. Q, 57.
30. In Mazzini, invece, la cospirazione e l’appello letterario alle masse, il settarismo e
l’astrattismo, il fanatismo e l’unitarismo a tutti i costi, si combinano alla perfezione. Cfr.
Dizionario gramsciano 1926-1937, a cura di G. Liguori e P. Voza, Carocci, Roma 2009,
s.v. «Mazzini, Giuseppe» (di P. Voza).
31. MEW, 4, pp. 474-5.
32. «I comunisti non sono un partito particolare di fronte agli altri partiti operai» (ivi, p.
474).

71
come dinamica di rapporti di forze in atto, di cui il pensiero (in
quanto praxis) fa parte a pieno titolo; storia che pertanto condizio-
na il pensiero esattamente nella misura in cui gli conferisce “po-
tenza” e “immanenza”. È una “comprensione” immanente alla
congiuntura, perché è l’articolazione categoriale delle lotte e degli
scontri reali, attuali, e quindi colti dal loro interno, dal “lato” del
loro prodursi; ossia da ciò, che svelano di “politico” (e perciò di
contingente) nell’eternità “naturale” dei rapporti di subordinazio-
ne33. È insomma sempre un’analisi strategica, o meglio: è un’anali-
si solo in quanto è una strategia, in quanto il “luogo” di chi scrive,
di chi fa l’analisi, è interno alla lotta.
La peculiare “collocazione” della politica comunista fa sì che essa
appartenga a chi, consapevolmente, assume il compito di rappre-
sentare l’irrapresentabile34: il proletariato non in quanto questo o
quel ceto, ma in quanto è «la dissoluzione della società nella figura
di un ceto particolare»35; a chi cioè assume il compito di rappresen-
tare delle lotte in corso e non degli interessi di gruppi determinati; o
meglio, degli interessi di gruppi determinati in quanto congiuntu-
ralmente si identificano con lo svolgimento più conseguente delle
lotte in corso. Ne segue che in questo periodo per Marx il comuni-
smo non è un’ideologia; non però in quanto sarebbe una “scienza”,
ma in quanto è “pensiero-praxis”, cioè pensiero situato “nella veri-
tà” in quanto è sottratto al vincolo di un “soggetto” che ne sia porta-
tore esclusivo; o ancora meglio: in quanto è un pensiero non “attri-
buibile” a nessun soggetto, individuale o collettivo, ma solamente
alla dinamica dei conflitti nella loro estensione più conseguente.
Essere comunisti vuole dire agire in questo modo paradossale:
rappresentare «sempre l’interesse del movimento complessivo»36,
ma fare questo sempre in circostanze determinate; condurre
un’analisi capace di cogliere «l’andamento e i risultati generali del
movimento proletario»37, ma sempre a partire da una prospettiva
nazionale; essere un “partito”, cioè una fazione, in quanto però
non lo si è propriamente: «i comunisti» infatti «sono in pratica la

33. Questa “rivelazione” è la riattivazione, nel corso stesso della lotta, e come suo porta-
to gnoseologico, del carattere politico della subordinazione sociale. Sulla politica come
revoca della distribuzione naturale dello spazio cfr. J. Rancière, La Mésentente. Politique
et philosophie, Galilée, Paris 1995, pp. 31, 36-7.
34. Cfr. G. Rametta, «Filosofia politica e potere nel giovane Marx», in Il potere. Per la sto-
ria della filosofia politica moderna, a cura di G. Duso, Carocci, Roma 1999, pp. 363-72,
qui 371-2.
35. K. Marx, Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie. Einleitung (1844), in MEW, 1, p.
390. Cfr. anche K. Marx, F. Engels, Die deutsche Ideologie, in MEW, 3, p. 40.
36. Marx, Engels, Manifest, in MEW, 4, p. 474.
37. Ibidem.

72
parte più risoluta dei partiti operai di tutti i paesi, quella che sem-
pre spinge in avanti»38 la lotta. Il partito comunista è insomma il
partito della prosecuzione della lotta come strategia che, sola,
rende possibile stabilizzare la dinamica dell’emancipazione nel
terreno dell’universalità. Il politico comunista è chi si impegna a
rendere visibile analiticamente e a valorizzare politicamente la prati-
ca proletaria dentro le lotte operaie.
Solo se il dislivello tra operai e proletari (i primi sempre deter-
minati e identificati, i secondi inesauribili nella loro indetermina-
zione), operativamente presente in questo Marx, è anche reso espli-
cito e posto alla base della strategia comunista, si può tradurre in
analisi e strategia il dislivello su cui poggia l’antagonismo delle clas-
si: il fatto cioè che le diverse classi in lotta non si trovano sullo stesso
piano, non sono dei concorrenti alla pari, che si disputano il mede-
simo oggetto dentro lo stesso spazio; e il fatto, inoltre, che ciò di-
pende non da dati sociologici, ma dalla natura dell’antagonismo. Il
dislivello tra proletari e operai rende pensabile la dissimmetria del
rapporto tra capitalisti e proletari, il fatto cioè che non abbiamo a
che fare con due classi specularmente opposte, che esse non risul-
tano da uno “sdoppiamento” della società39. Il proletariato è dunque
sì ribellione e insorgenza, ma soprattutto e primariamente è assen-
za di potere; e dunque è resistenza, cioè freno al potere di chi ha già
potere, ostacolo alla totalizzazione della comunità e alla sua chiusu-
ra, riapertura della politica come luogo in cui si decide nuovamente
sulla partecipazione allo spazio pubblico40.
Compito dei comunisti non è dunque di fare un partito come
gli altri, riducendo il proletariato a “parte”, con i suoi miseri privi-
legi (da usare eventualmente, in futuro, corporativamente contro i
nuovi “proletari”) e la sua misera ideologia, perfettamente analoga
alle altre; ma di re-istituire sempre di nuovo nella storia l’identità
di storia e politica, cioè la storia come campo di lotte, e di farlo
senza escogitare, senza inventare nulla, ma rendendo conto del-
l’antagonismo in tutte le sue forme e manifestazioni.

4. Dalla rivoluzione in permanenza al materialismo storico


Quando, nel marzo 1850, Marx ed Engels lanciano la parola
d’ordine della «rivoluzione in permanenza» (Indirizzo del Comita-

38. Ibidem.
39. Cfr. Rancière, La mésentente, cit., p. 39.
40. L’origine di questa concezione dell’intreccio di politica e libertà è nei Discorsi di Ma-
chiavelli, come viene, sia pure in modo mediato da Pierre-Simon Ballanche, registrato
da Rancière (cfr. ivi, pp. 45-9).

73
to centrale alla Lega)41, ci sono state in Francia le tragiche sconfitte
del giugno 1848, la repressione del giugno 1849 in Germania, e
così via: tutta una serie di esperienze dalle quali emergeva, tra le
altre cose, la precisa volontà della grande borghesia di venire a
patti con l’aristocrazia, e della piccola borghesia di «portare al più
presto possibile la rivoluzione alla conclusione»42. Non è sullo
slancio delle lotte, ma del loro blocco, che questa parola d’ordine
blanquista viene ripresa e trasformata43. In precedenza (1843) per
Marx essa aveva un significato critico: designava la «contraddizio-
ne violenta» dello Stato politico con «le sue stesse condizioni di
vita», per cui «il dramma politico termina [...] necessariamente
con la restaurazione della religione, della proprietà privata, di tutti
gli elementi della società civile, esattamente come la guerra termi-
na con la pace»44. Adesso la rivoluzione in permanenza esprime lo
stesso comunismo in quanto movimento, cioè in quanto irriducibi-
le al tentativo di “realizzare” dei “principii”45. L’uso strategico, agi-
tatorio, della “rivoluzione in permanenza” ha precisamente la fun-
zione di tenere insieme il movimento in quanto storia e il movi-
mento in quanto politica, polarizzando la politica comunista
attorno al nesso tra permanenza della rivoluzione e presenza della
dinamica “rivoluzionaria” dentro la realtà stessa, tra presa di posi-
zione “partitica” e irriducibilità a qualsiasi logica “settaria”.
La tragedia del giugno 1848 ha mostrato lo stacco temporale tra
proletariato e classe operaia francese, tra prassi e ideologia, tra fun-
zione internazionale e realtà nazionale. La parola d’ordine della ri-
voluzione in permanenza esprime il tentativo di suturare questo
stacco non mediante un lavoro dottrinario, ma attraverso l’elevazio-
ne della dinamica delle lotte a terreno di conoscenza, a processo di costi-

41. Cfr. K. Marx, F. Engels, Ansprache der Zentralbehörde an den Bund vom März [1850],
in MEW, 7, pp. 247-8 e 254.
42. Ivi, p. 247. Su questo testo cfr. A. Cornu, Karl Marx et la révolution de 1848, PUF,
Paris 1948, pp. 59-64. In generale sulla serie di sconfitte del 1848-1849 cfr. B. Nikolaev-
skij, O. Maenchen-Helfen, Karl Marx. La vita e l’opera (1963), trad. it. di J. Lombardi, Ei-
naudi, Torino 1969, pp. 207-28 (Germania); Molnár, La politique d’alliances du marxi-
sme, cit., parte prima.
43. Cfr. R. Guastini, Marx dalla filosofia del diritto alla scienza della società. Il lessico giuri-
dico marxiano (1842-1851), il Mulino, Bologna 1974, pp. 356-62 (Guastini sottrae però
qualsiasi valore teorico all’uso che Marx fa di questa formula). Sul rapporto di incon-
tro/scontro di Marx e Blanqui in questa congiuntura, cfr. A. Janvier, S. Legrand, «La
conjoncture 1848 I: Marxisme et blanquisme face à 1848: deux lectures de la conjonctu-
re», in Plateforme Recherche – Europhilosophie: Publication du Séminaire du Groupe de Re-
cherches Matérialistes, 2e année – 2ème séance, 11/10/2008 (www.europhilosophie.eu-
/recherche/spip.php?article167).
44. K. Marx, Zur Judenfrage, in MEW, 1, p. 357.
45. Che in quanto tali sono sempre slegati dalla realtà del movimento, ridotti nel mi-
gliore dei casi a un “orizzonte”.

74
tuzione veritativa. Questa verità consiste nell’identificazione della
permanenza del movimento con l’interesse vitale della classe ope-
raia, che quindi dovrà lottare a fianco della borghesia, ma sempre
mantenendo la propria autonomia organizzativa e ideologica, con-
ducendo la propria lotta dentro quella della borghesia.
Scrive Marx quasi in apertura delle Lotte di classe in Francia:

Una classe nella quale si concentrano gli interessi rivoluzionari della società,
una volta che si sia sollevata, trova immediatamente nella sua stessa condi-
zione il contenuto e il materiale della propria attività rivoluzionaria: abbattere
nemici, prendere provvedimenti nascenti dagli stessi bisogni della lotta; essa
è sospinta in avanti dalle conseguenze delle sue stesse azioni. Non intrapren-
de un’indagine teorica circa i propri compiti. La classe operaia francese non si
trovava però a questo livello, essa era ancora incapace di condurre la propria
rivoluzione46.

La classe nella quale si concentrano gli interessi rivoluzionari


della società è il proletariato, ma sullo sfondo si vede il partito dei
giacobini, cioè quel partito-non partito capace di rimettere conti-
nuamente in discussione gli equilibri conquistati con le lotte, evi-
denziando praticamente di volta in volta l’eccedenza della dinami-
ca dello scontro politico nella società sulla sua rappresentazione
istituzionale. Il modello giacobino47 rende le affermazioni di Marx
al contempo realistiche e problematiche: quella “classe” non è in-
fatti nulla, senza una politica capace di rappresentare la sua para-
dossale identificazione con il rivoluzionamento di tutta la società;
e questa politica a sua volta è la capacità di sintetizzare nella con-
giuntura specifica tutte le esperienze della classe (quelle che spin-
gono verso l’approfondimento della rivoluzione), riversandole im-
mediatamente – senza passaggi dottrinari – in nuove formule
d’azione. Quel proletariato ci sarà dunque in Francia, quando le
stesse lotte in corso abbiano reso possibile un partito comunista
capace a sua volta di farsene piena espressione, rovesciando con-
temporanamente le lotte dentro tutte le forme istituzionali, da quel-
le economiche, a quelle politiche, ideologiche, e militari.
Lo scontro di giugno mostra però a qualsiasi osservatore la com-
battività degli operai insieme all’assenza di qualsiasi organizzazio-

46. K. Marx, Die Klassenkämpfe in Frankreich 1848 bis 1850, in MEW, 7, pp. 19-20.
47. Cfr. F. Feher, «Le rivoluzioni francesi come modelli della concezione marxiana
della politica», in Marx e i marxismi cent’anni dopo, a cura di G. Cacciatore e F. Lomona-
co, Guida, Napoli 1987, pp. 303-30; B. Bongiovanni, «Democrazia, dittatura, lotta di
classe. Appunti su Marx e la rivoluzione francese», in Studi storici, XXX (1989), n. 4, pp.
775-802.

75
ne48; mostra dunque l’esistenza di tutte le condizioni di uno scontro
mortale, ma anche il loro inevitabile risolversi in una completa im-
potenza. Il lancio di questa parola d’ordine segna dunque un pas-
saggio fondamentale, perché è il tentativo di unificare l’analisi della
specifica complessità di ogni situazione determinata – da Marx am-
piamente praticata nelle analisi del 1848-184949 – con la prospettiva
della permanenza del “movimento” rivoluzionario anche nelle fasi
di sconfitta e ritirata. Dinnanzi alla ripetuta dimostrazione, in Fran-
cia come in Germania, in Ungheria come in Austria, della volontà
della borghesia di venire a patti con la reazione pur di sventare lo
spettro comunista; dinnanzi insomma al fallimento della strategia
di appoggio alle varie rivoluzioni borghesi, la strategia della “rivolu-
zione in permanenza” propone allo schieramento comunista – le
cui truppe in rotta si sono appena riunite a Londra50 – di abbando-
nare l’idea che le lotte operaie debbano anzitutto servire ad appog-
giare la borghesia nella sua lotta contro la feudalità aristocratica e lo
Stato assolutistico (in base all’idea che lo sviluppo economico renda
possibile lo scontro politico per il comunismo); essa propone al
contrario di trasformare in ogni momento queste lotte, a cui gli ope-
rai sono costretti a partecipare solo da comprimari, in terreno di
conflitto politico permanente in nome della prosecuzione della lotta.
La “storia” non è qui un tempo sul quale “registrare” le modalità
dello scontro; al contrario sono le modalità concrete dello scontro
delle classi che generano il tempo della storia. Il tempo come il flus-
so storico processuale e oggettivo si genera politicamente quando
la borghesia, pur di prevalere contro lo spettro proletario, viene a
patti con l’aristocrazia: il tempo come flusso unitario e oggettivo, il
tempo come “sviluppo della società civile” è il modo con il quale la
borghesia (nei diversi paesi con diversa abilità e fortuna) prosegue
la rivoluzione come “Restaurazione”51.

48. Cfr. Marx, Die Klassenkämpfe in Frankreich, in MEW, 7, p. 31: «È noto come gli operai
– privi di capi, senza un piano unitario, senza mezzi, carenti quasi completamente di
armi – tennero in scacco per cinque giorni, con un valore e una genialità senza pari,
l’esercito, la guardia mobile e la guardia nazionale affluita dalle province. È noto come
la borghesia risarcì con una brutalità inaudita la paura mortale causatale da tutto ciò:
massacrando oltre 3000 prigionieri».
49. Le analisi sono accuratamente ricostruite da Cornu, Karl Marx et la révolution de
1848, cit.
50. Cfr. Nikolaevskij, Maenchen-Helfen, Karl Marx, cit., pp. 236 sgg.
51. Cfr. K. Marx, F. Engels, Revue. Mai bis Oktober [1850], in MEW, 7, p. 440: «In questa
situazione di generale prosperità, in cui le forze produttive della società borghese si svi-
luppano con quel rigoglio possibile in generale solo entro rapporti borghesi, non si può
parlare di una vera rivoluzione. [...] Le diverse beghe, a cui ora si abbandonano e in cui
si compromettono vicendevolmente i rappresentanti delle varie frazioni del partito
continentale dell’ordine, [...] sono [...] possibili solo perché il fondamento dei rapporti è

76
Le tesi del Manifesto si trovano qui sviluppate a partire dall’anali-
si della specifica resistenza ed efficacia che il terreno ideologico offre
(dunque della differenza tra proletari e operai), a motivo della sua
complessità, del suo carattere eteroclito e del potere a disposizione
delle classi dominanti di indirizzare e controllare i quadri ideologi-
ci52. A motivo di tutto questo, il rischio concreto è che il processo di
rivoluzionamento dei rapporti sociali divenga un fatto meramente
“storico”, in quanto politicamente sempre di nuovo disattivato dalle
strategie statali-borghesi; il rischio è insomma che storia e politica
realmente, effettualmente si separino53. Per sventare questo perico-
lo, occorre fare una ricognizione dei rapporti di forza e del modo in
cui essi si intrecciano in modo contingente in ogni congiuntura de-
terminata. Ma questo è a sua volta reso possibile dalla formalizza-
zione della strategia della “rivoluzione in permanenza”.
Possiamo assumere Le lotte di classe in Francia e Il 18 Brumaio
come due analisi di una medesima congiuntura, quella del 1848
francese e del progressivo risistemarsi dei rapporti politici e sociali
dopo lo scossone di febbraio. Eppure, dal punto di vista del princi-
pio teorico-pratico della “rivoluzione permanente” i due testi diver-
gono sensibilmente. Si possono trovare varie motivazioni a questa
divergenza: il momento della redazione (e le circostanze interna-
zionali, politiche come economiche), il diverso grado di maturazio-
ne del pensiero di Marx, o il fatto che il colpo di stato gli avrebbe de-
finitivamente snebbiato la testa dalle illusioni “quarantottarde” che
fino all’ottobre 1850 egli avrebbe continuato a nutrire54.
Porre la questione in questo modo, presuppone però già la vali-
dità del modulo di lettura che abbiamo trovato nella Prefazione del
1859, e che è formalizzato per la prima volta retrospettivamente da

al momento così sicuro e – ciò che la reazione non sa – così borghese. Contro di esso si
spezzeranno tutti i tentativi reazionari di arrestare lo sviluppo borghese, come anche
tutta l’indignazione morale e tutti i proclami dei Democratici». Il passaggio citato è
compreso nella parte trasformata da Engels in IV capitolo dell’opera, nella sua edizione
di Die Klassenkämpfe in Frankreich (cfr. MEW, 7, p. 98).
52. Insiste, a mio avviso giustamente, sul rapporto stretto tra Manifesto e strategia della
“rivoluzione permanente” nel 1850, Molnár, La politique d’alliances du marxisme, cit.,
pp. 12-4.
53. Affinché ciò non accada, è essenziale definire le strategie di disattivazione del con-
flitto nell’ambito del concetto di “praxis”. Nella Prefazione all’edizione (1895) delle Lotte
di classe in Francia Engels parla, com’è noto, di «un periodo di rivoluzioni dall’alto»
(MEW, 22, p. 516), riducendolo però ai colpi di mano di Luigi Bonaparte nel 1852 e di Bi-
smarck nel 1866 (guerra contro l’Austria), ed escludendo con ciò il periodo di «quiete
interna» che «assicurò il pieno sviluppo del nuovo slancio economico» ecc. (ibidem).
L’unità di situazione bonapartistica ed equilibrio strutturale viene invece colto dalla ca-
tegoria gramsciana di “rivoluzione passiva”, per cui cfr. supra, p. 33.
54. Cfr. le equilibrate considerazioni di Perini, «Introduzione» a Marx, Rivoluzione e
reazione in Francia, cit., pp. LVII-LVIII.

77
Engels nel dicembre 1852 (dunque appena pochi mesi dopo la
pubblicazione del 18 Brumaio):

L’esperienza pratica delle rivoluzioni del 1848-1849 confermò le [precedenti]


riflessioni teoriche, che avevano condotto alla conclusione secondo cui,
prima ancora che la classe operaia comunista possa pensare di stabilirsi al po-
tere in modo durevole e annientare il sistema di schiavitù salariale che la
tiene avvinta al giogo della borghesia, bisogna attendere che venga il turno
della democrazia piccolo-borghese55.

L’insieme di scritti e di drammatiche esperienze politiche del


1848-1850 viene ridotto alla conferma sperimentale in vivo di una
teoria elaborata in precedenza. Non a caso Engels usa qui, per indi-
care il rapporto di Marx e suo con la lotta politica in quegli anni, il ter-
mine «indagine» (Untersuchung)56, proprio di uno scienziato e non
certo di un rivoluzionario. Il problema sta proprio in questa proie-
zione retrospettiva, in cui l’attività politica – con tutte le speranze e
gli insuccessi, le lotte e le sconfitte – viene depurata della sua passio-
ne e ridotta ad avvio di un’indagine scientifica del movimento della
società, con la relativa ancillarizzazione della politica; mentre pro-
prio la “passione” e il “sarcasmo”57 vengono ascritti alla categoria
della “falsa speranza” o della temporanea deviazione, l’(im)possibili-
tà tradotta immediatamente in (positiva o negativa) necessità.
La questione va posta in modo radicalmente diverso, i due testi
riallacciati alle congiunture dalle quali scaturiscono e riafferrati
nei modi in cui in esse intervengono. Essi vanno insomma resti-
tuiti alla politica e riaperti nella loro capacità di produrre significa-
ti. Da questo punto di vista, la differenza più evidente tra di essi
sta in ciò, che Il 18 Brumaio poggia sulla valutazione dell’intera
fase rivoluzionaria come un ciclo concluso, mentre Le lotte di clas-
se in Francia scommettono sul fatto di essere in presenza di «una
curva ascendente»58. Queste differenti valutazioni sono compren-

55. F. Engels, Der Kommunisten-Prozeß zu Köln, in MEW, 8, p. 399. Questo testo, pub-
blicato nella New York Daily Tribune il 22 dicembre 1850, è «se non la prima, almeno
una delle prime testimonianze autobiografiche [...] del complesso dell’attività che Marx
ed Engels, in quanto “rappresentanti” del giovane partito comunista, avevano dispiega-
to nel periodo 1848-52» (Perini, «Introduzione», cit., p. XLIX).
56. Nel 1848-1850 il partito comunista «si dedicò all’indagine delle condizioni alle quali
una classe sociale può e deve essere chiamata [berufen] a rappresentare gli interessi
complessivi di una nazione» (Der Kommunisten-Prozeß zu Köln, in MEW, 8, p. 399).
Torna qui, accanto al lessico della scienza, quello della religione (cfr. supra, p. 69).
57. Cfr. Dizionario gramsciano, cit., s.v. «sarcasmo» (di M. Paladini Musitelli).
58. Molnár, La politique d’alliances du marxisme, cit., p. 82. Molnár nota giustamente che
la posizione del 18 Brumaio «si riflette nel 4° (e ultimo) capitolo (datato all’autunno

78
sibili alla luce delle rispettive epoche di redazione (1850 e 1852),
ma ben oltre esse portano con sé una complessiva risistemazione
del rapporto tra spiegazione storica e coscienza dei protagonisti
dei fatti storici, come della nozione operativa di “ideologia”: ele-
menti, questi, non riducibili a meri riflessi di una mutata prospet-
tiva storica e politica.
Nelle Lotte di classe in Francia l’ideologia è pensata, al modo del
Manifesto e della Miseria della filosofia, come manifestazione di un
pensiero particolare perché isolato dalla prassi, e che quindi «subor-
dina» in modo arbitrario (Marx parla qui dei vari capi socialisti) «il
movimento complessivo a uno solo dei suoi momenti, al posto della
produzione comune, sociale mette l’attività cerebrale del singolo pe-
dante, e soprattutto fantastica di eliminare la lotta rivoluzionaria
delle classi, con tutte le sue necessità mediante piccoli artifici o
grandi sentimentalismi»59. La critica dell’ideologia consiste dunque
nell’assumere la dimensione pratica del pensiero come discrimi-
nante della sua verità: solo un’analisi che assuma un punto di vista in-
terno alle lotte, a tutte le lotte, senza privilegiare arbitrariamente un
aspetto sugli altri, ne può cogliere il senso necessario. Ma questa
analisi non è “oggettiva”, non è una “scienza”. Deriva invece dall’as-
sumere fino in fondo lo “sguardo” parziale del proletariato come il
solo capace di produrre un’universalità reale, non arbitraria, perché
il solo capace di svolgere per intero le possibilità della rivoluzione:

Mentre l’utopia, il socialismo dottrinario, che subordina il movimento comples-


sivo a uno solo dei suoi momenti, che al posto della produzione comune, socia-
le, mette l’attività cerebrale del singolo pedante, e sopratutto fantastica di elimi-
nare la lotta rivoluzionaria delle classi, con tutte le sue necessità, mediante pic-
coli artifici o grandi sentimentalismi; mentre questo socialismo dottrinario,
che in fondo idealizza la società attuale, assume un’immagine di essa priva di
ombre e vuole imporre il proprio ideale contro la realtà di quella; mentre que-
sto socialismo viene abbandonato dal proletariato alla piccola borghesia; men-
tre la lotta dei capi socialisti tra di loro rende evidente che ognuno dei cosidetti
sistemi non è altro che il pretenzioso blocco di uno dei punti di passaggio del
rivoluzionamento della società, contro un altro; – mentre accade tutto ciò, il

1850) dell’opera» (ivi, p. 82n.). Va però detto che della progettata opera Marx pubblicò
solo i primi tre capitoli, sotto il titolo generale di 1848 bis 1849, nei fascicoli I, II e III del
1850 della Neue Rheinische Zeitung, mentre il IV, che avrebbe dovuto essere dedicato al-
l’Inghilterra, non fu pubblicato e, nell’edizione dell’opera curata da Engels nel 1895, ri-
sulta dall’estrapolazione della parte relativa alla Francia della Revue. Mai bis Oktober,
comparsa nel fascicolo V-VI dello stesso anno. Si può quindi assumere che l’opera in
questione si limita ai primi tre capitoli.
59. MEW, 7, p. 89. Sulla Miseria della filosofia cfr. il cap. seguente.

79
proletariato si raggruppa sempre di più attorno al socialismo rivoluzionario, al
comunismo, per il quale la stessa borghesia ha trovato il nome di Blanqui. Que-
sto socialismo è la dichiarazione permanente della rivoluzione, la dittatura di clas-
se del proletariato come necessario punto di passaggio per l’abolizione delle dif-
ferenze di classe in generale, per l’abolizione di tutti i rapporti di produzione sui
quali tali differenze poggiano, per l’abolizione di tutte le relazioni sociali corri-
spondenti a questi rapporti di produzione, per il rivoluzionamento [Umwäl-
zung] di tutte le idee che scaturiscono da queste relazioni sociali60.

Non c’è qui nessun mito della centralità operaia, né un’idea so-
stanzialistica del proletariato. In questa opposizione duplice – co-
munisti vs. socialisti, proletari vs. borghesi – è disegnato il proble-
ma di statica delle forze materiali/immaginarie in tensione, un
problema la cui soluzione consiste nello spostamento dell’iniziati-
va agli operai raccolti sotto il metodo comunista della rivoluzione
permanente, o più precisamente della dichiarazione permanente
della rivoluzione, nel duplice senso che tale dichiarazione (come
gesto, come “presa di parola”) si ripete-rinnova al profilarsi di ogni
nuova congiuntura, e che il contenuto di tale dichiarazione, di tale
presa di posizione politica è il metodo dell’infinita eccedenza del
movimento stesso sulle sue forme istituzionalizzate.
Porre il problema e formulare la soluzione – dato lo stesso ca-
rattere pratico-politico della soluzione – non è, però, speculativa-
mente risolverlo. Il “movimento” del proletariato verso il comuni-
smo non è né inevitabile né spontaneo. Il punto di partenza,
messo in luce dalle giornate di giugno, è collocabile al polo oppo-
sto dell’equilibrio delle forze, quello in cui chi ha l’iniziativa è la
borghesia. È essa che spinge gli operai allo scontro:

Agli operai non rimase scelta alcuna: o morire di fame o colpire. Essi rispose-
ro il 22 giugno con la straordinaria insurrezione, in cui si svolse la prima
grande battaglia tra le due classi in cui si divide la società moderna. Fu la lotta
per il mantenimento o l’annientamento dell’ordine borghese. Il velo che avvol-
geva la repubblica fu lacerato61.

Il significato di questa vittoria borghese non è, d’altra parte,


univoco:

Se l’insurrezione di giugno innalzò, dappertutto nel continente, il sentimen-


to di sé della borghesia, e la spinse a un’alleanza aperta con la monarchia feu-

60. MEW, 7, pp. 89-90.


61. Ivi, p. 31.

80
dale contro il popolo, chi fu la vittima principale di questa alleanza? La stessa
borghesia continentale. La sconfitta di giugno le impedì di consolidare il pro-
prio dominio e di bloccare [stillstehn zu machen] il popolo, per metà soddisfat-
to e per metà maldisposto [verstimmt], sul gradino infimo della rivoluzione
borghese62.

L’analisi strategica del sistema di forze attualmente in tensione


non prevede, non può prevedere spostamenti di equilibrio dal si-
gnificato univoco: la borghesia vince su tutto il continente, ma al
prezzo di rinunciare ad esercitare un’egemonia espansiva, trasci-
nando dietro di sé il “popolo” e così mantenendo la sua subordi-
nanzione entro lo spazio che oscilla tra malcontento e appaga-
mento, tra irritazione e ammirazione, tra soddisfazione e perce-
zione di un’irritante “stonatura”63. È trasparente il rinvio al passo
machiavelliano di Principe, VII, in cui si descrive l’effetto, sui sud-
diti di Cesare Borgia, della pubblica esposizione sulla piazza di Ce-
sena del cadavere di Ramirro de Orco tagliato «in dua pezzi»: «La
ferocità del quale spettaculo fece quelli populi in uno tempo rima-
nere satisfatti e stupidi». Il gesto del Valentino, nella sua carica sim-
bolica e spettacolare è inteso a trasmettere la funzione progressiva
(nel senso del gramsciano «giacobinismo precoce di Machiavel-
li»64) di un coinvolgimento subalterno del popolo («sul gradino in-
fimo») nella rivoluzione del Valentino. Le cannonate di Cavaignac
sono l’aperta rinuncia a tutto ciò: esse confermano materialmente
la supremazia della borghesia, la sua superiore organizzazione in-
tellettuale e militare; esse rendono anche possibile il rilancio dello
“sviluppo” del suo mondo (nelle forme genocide e particolaristi-
che che l’espansione del capitalismo nell’Ottocento e poi l’imperia-
lismo tra i due secoli mostreranno). Ma quelle cannonate aprono
anche alla borghesia un enorme problema, consistente nel recu-
pero della propria egemonia senza più il suo carattere “giacobino”,
in presenza cioè di una serie di «disassimilazioni» che conducono
di nuovo a ciò che la borghesia aveva al suo sorgere negato: la «con-
cezione dello Stato come pura forza»65.

62. Ivi, p. 33.


63. Verstimmt ha originariamente il significato musicale di “scordato”, ampiamente do-
cumentato dal Deutsches Wörterbuch von Jacob Grimm und Wilhelm Grimm, 16 Bände
in 32 Teilbänden, S. Hirzel, Leipzig 1854-1960, Bd. 25, s.v.
64. Q, 953.
65. «Come avvenga un arresto e si ritorni alla concezione dello Stato come pura forza
ecc. La classe borghese è “saturata”: non solo non si diffonde, ma si disgrega; non solo
non assimila nuovi elementi, ma disassimila una parte di se stessa (o almeno le disas-
similazioni sono enormemente più numerose delle assimilazioni)» (Q, 937).

81
Alle parole d’ordine dell’“umanità” corrispondono le cannona-
te: questo sono il contenuto efficace di quelle. Il “limite” della capa-
cità di assimilazione della borghesia è tracciato, fissato nelle stra-
de di Parigi: questo è il significato della frase «il velo che avvolgeva
la repubblica fu lacerato». Non è un passaggio dall’ideologia alla
realtà, ma dall’ideologia alla sua verità: la verità pratica dell’ideolo-
gia borghese ha quei limiti insormontabili. Essi potranno essere
adornati e sopratutto potranno essere spostati continuamente; ri-
mane però il fatto che la «repubblica» ha come contenuto vero la
«guerra civile, la guerra civile nella sua forma più terribile, la guer-
ra del lavoro e del capitale»66. L’angolo visuale del proletariato
“svela” il rapporto necessario tra ideologia e verità della repubbli-
ca: nella repressione della propria sommossa essi fanno esperien-
za del nesso necessario tra le parole d’ordine umanitarie e l’arresto
della rivoluzione a un suo momento determinato, sperimentano
la separazione reale della società, la guerra civile che le parole d’or-
dine umanitarie vorrebbero alimentare e consolidare.
Il tempo che scandisce le lotte è un tessuto di “nodi”, una strut-
tura congiunturale sempre piena, completamente determinata,
che per questa ragione contiene dentro di sé a ogni passo una vir-
tuale svolta, un rovesciamento che le forze della conservazione de-
vono sempre disattivare, neutralizzare. Abbiamo qui ciò che, nei
termini della Tesi su Feuerbach, può essere definito l’avvio di un
processo di costituzione della verità nella politica. Marx scrive che
se «il 25 febbraio 1848 aveva concesso [oktroyiert] alla Francia la re-
pubblica, il 25 giugno la costrinse alla rivoluzione»67: la costrinse,
aufdrang, in un senso assai differente dalla costituzione repubbli-
cana “octroyée”, al contempo concessa e imposta68. In aufdringen
c’è l’urgenza (dringen) di una spinta fisica (drängen), il “sospingere
verso” qualcosa da parte di qualcuno che si trova alla tua stessa al-
tezza, che fa parte del tuo mondo. Il 25 giugno non è un gesto gra-
tuito, non impone con la mistica violenza del signore: il 25 giugno
è l’apertura di uno spazio di verità che mette in evidenza la mecca-
nica effettiva delle forze: la separazione, la guerra, e insieme lo
squilibrio all’interno di questa guerra, lo strapotere “fisico” di una
parte sull’altra. L’insurrezione di giugno non fu una rivoluzione,

66. MEW, 7, p. 32.


67. Ivi, p. 35.
68. Questo verbo cambia proprio nel 1848 di significato: da concessione graziosa del
proprio signore (auctor, auctorare, auctorizare, passato nel francese octroyer di cui oktro-
yieren è un calco), viene ridefinito dal punto di vista del popolo come ingiustificata “impo-
sizione” (cfr. W. Pfeifer et al., Etymologisches Wörterbuch des Deutschen, dtv, München
20036, p. 948). La costituzione viene insomma dall’alto di un gesto gratuito e violento.

82
ma dopo di essa quella della rivoluzione divenne un’idea compren-
sibile agli operai, piena di un contenuto distinto da quello repubbli-
cano. La classe operaia ne uscì schiacciata, decimata, ma ne usci-
rono distrutti anche tutti gli equivoci umanitari. Dentro il terreno
ideologico, si produsse una frattura reale.
Ideologia è dunque pensiero ridotto a “teoria”, cioè staccato
dalla prassi collettiva (economica e politica) e arbitrariamente su-
bordinato a un suo momento “particolare”, grazie all’adozione di
parole d’ordine generiche e formalmente universali. Viceversa,
l’adesione del pensiero alla prassi collettiva passa per il rifiuto di
ogni universalità e l’adozione di quel punto di vista parziale, che è
l’unico in grado di sospingere in avanti, fino in fondo, la rivoluzio-
ne. Questo schema, che oppone la parzialità reale all’universalità
ideologica, rende pensabile una critica pratica di massa dell’ideo-
logia, individua cioè nella dimensione pratico-politica della verità
tanto la struttura della subordinazione e del controllo, quanto
quella dell’emancipazione e della critica. Le lotte, per dirla in
breve, non sono mai vane: in esse “accade” sempre qualche cosa,
perché lo scontro politico non lascia mai intatte le ideologie che in
esso vengono impiegate ma le ridefinisce continuamente, espo-
nendole alla loro “verità effettuale”.
Questo gioco tra vero e falso dentro la politica viene a cadere nel
18 Brumaio, dove – inaugurando un’immagine che tornerà in posi-
zione strategica nella Prefazione del 1859 – l’ideologia viene defi-
nita a partire dalla distinzione tra ciò che gli uomini “dicono e pen-
sano” di sé, e ciò che essi “realmente sono e fanno”. Se questo vale
nella vita privata, a maggior ragione, scrive Marx, «nelle lotte stori-
che occorre distinguere la fraseologia e le illusioni dei partiti dal
loro organismo reale e dai loro reali interessi, la loro rappresenta-
zione [Vorstellung] dalla loro realtà [Realität]»69. Questa opposizio-
ne di Vorstellung e Realität (termine, questo, che indica la realtà
epistemologica e non quella effettuale-storica, di cui fanno parte
anche le Vorstellungen), applicata alle due frazioni borghesi, orléa-
nista e legittimista, vale anche per il partito social-democratico,
rappresentante ideologico della piccola borghesia:

Ciò che fa di essi [i politici social-democratici, scil.] dei rappresentanti del pic-
colo-borghese, è il fatto che nella loro testa non riescono a oltrepassare i limi-
ti, oltre i quali mai nella sua vita il piccolo-borghese passa, e quindi il fatto che
essi vengono spinti, sul piano teorico, agli stessi problemi e alle stesse solu-

69. K. Marx, Der achtzehnte Brumaire des Louis Bonaparte, in MEW, 8, p. 139.

83
zioni, a cui il piccolo borghese è spinto sul piano pratico dall’interesse mate-
riale e dalla situazione sociale. Questo è, in generale, il rapporto dei rappresen-
tanti politici e letterari di una classe, con la classe che essi rappresentano70.

Lo schema di corrispondenza “uno a uno”, qui abbozzato, ride-


finisce “in generale” l’ideologia come quel terreno “ideale” che,
con mediazioni complesse e sottili, e secondo un principio di ten-
denzialità e flessibilità, riproduce formalmente la struttura della
vita pratica di una classe, consolidandone la riproduzione. La criti-
ca dell’ideologia consiste allora nella sua attribuzione alla classe so-
ciale a cui corrisponde, dunque è la sua riconduzione a una verità,
attinta distinguendo nettamente la consapevolezza del politico
dall’indagine dello storico. Quest’ultimo conduce un lavoro scien-
tifico: la Realität rinvia infatti a una costruzione scientifica che si
cela dietro l’empiricamente constatabile. L’idea di una critica prati-
ca di massa dell’ideologia (possibile solo sul terreno della Wirkli-
chkeit, dell’efficacia reale) viene di conseguenza a cadere, e viene a
cambiare radicalmente il ruolo del proletariato.
Intendiamoci: quando Marx individua nel proletariato l’unico
possibile protagonista della rivoluzione in permanenza, non lo sta
sottraendo al circuito dell’ideologia. Al contrario: il nesso tra prole-
tariato e rivoluzione in permanenza dispone il primo dentro il rap-
porto, continuamente in definizione, tra ideologia e verità. Sta in-
vece ponendo un problema: quello della relazione tra rapporti di
classe e ideologici, tra conflitto sociale e determinazioni politico-
ideologiche nazionali, in una parola: tra “proletariato” e “classe
operaia”. Quel “può”, riferito ai proletari, non indica un destino,
ma una tendenza immanente alla tensione che praticamente sem-
pre si produce tra rapporti e strutture, tra proletariato e classe ope-
raia di volta in volta data. In questo modo la questione viene spo-
stata sul terreno politico-ideologico nazionale delle “lotte” concre-
te, dove gli operai possono giungere (o anche non giungere) ad
afferrare praticamente l’indissolubile unità tra la propria parziali-
tà ideologica e la permanenza della rivoluzione.
È per questa ragione che nelle Lotte di classe in Francia lo “spet-
tro” proletario rimane presente sì, ma appunto in quanto “spettro”,
in tutti i passaggi fondamentali, anche in quelli successivi al giu-
gno 1848. Gli operai sono presenti sulla scena proprio in quanto
sono assenti: le composizioni e scomposizioni delle classi domi-
nanti vengono decifrate alla luce della presenza-assenza di questo

70. Ivi, p. 142.

84
“spettro” che minaccia l’esistenza stessa della “civiltà”. Questa
“centralità” non è quella di un “principio” in qualsiasi modo so-
stanziale, non è quella di una tendenza destinale, non è quella di
una potenza repressa che attende di esplodere: è, precisamente, la
centralità di ciò, che la “società” in quanto “società” non può pro-
priamente pensare, senza mettere radicalmente in questione il
proprio globale assetto. Il proletariato è uno “spettro” in quanto la
sua stessa esistenza è la “morte” della società data; è la prova mate-
riale, e quindi innegabile, della sproporzione tra le sue parole e le
sue pratiche effettive. È il luogo “irrazionale” della società presen-
te: luogo irrazionale, impensabile propriamente, contraddittorio,
ma irrinunciabile e pertanto sempre di nuovo esorcizzato: con il
silenzio, con la contraddizione, con le cannonate, con i giornali e
la burocrazia, con i salvatori della patria.
Invece nel 18 Brumaio il proletariato si vede assegnato un ruolo
di “spettatore”. Ricordiamo la celebre opposizione tra rivoluzione
borghese del XVIII secolo e rivoluzione sociale del XIX: la prima si
svolge precipitosamente, radicalizzando vertiginosamente i pro-
pri obiettivi, ma è di breve vita; la seconda procede con apparenti
regressi, riprese, continue autocritiche, nuovi inizi, ma questo è il
marchio della sua radicalità, perché in questo modo svuota le
mezze misure dei primi tentativi, fino al punto in cui è in grado di
assumersi l’enormità del proprio stesso compito71. La rivoluzione
borghese del XVIII secolo si nutriva dell’appello al passato, risve-
gliando i morti, per richiedere loro la legittimazione e la magnifi-
cazione della novità politica72. Ciò che è accaduto nel 1848, è stato
una ripresa parodistica di questo appello al passato, perché il pas-
sato è stato presente solo nella sua forma “spettrale”73, non più
come impulso delle energie borghesi, ma come blocco delle ener-
gie proletarie. Dinnanzi a questa struttura fantasmatica e paraliz-
zante, il proletariato deve guardare al «futuro»: la rivoluzione so-
ciale, spiega Marx, non può cominciare che dopo aver liquidato
ogni «superstizione nel passato». Se le rivoluzioni del passato do-
vevano travestire in riferimenti “tradizionali” il proprio presente,
per non vederne il contenuto, la rivoluzione sociale lascia che i
morti seppelliscano i morti, per poter giungere al proprio conte-
nuto: se prima «la frase [Phrase] oltrepassava il contenuto», ora «il
contenuto oltrepassa la frase»74.

71. Cfr. MEW 8, p. 118.


72. Ivi, pp. 116-7.
73. Ivi, p. 117.
74. Ibidem.

85
Come interpretare questi passaggi? Il passato è diventato un
incubo, ma un incubo anzitutto per Marx, che nel trionfo farsesco
di Luigi Bonaparte legge non solo la fine del carattere rivoluziona-
rio della borghesia (come ampiamente testimoniava Le lotte di clas-
se in Francia), ma il suo carattere fin dall’inizio solo illusorio; e
nella presenza massiccia dell’ideologia napoleonica e dell’imma-
ginario repubblicano la cappa mortifera che ha soffocato ogni re-
spiro politico, anzitutto presso il proletariato. L’assenza di quest’ul-
timo è diventata qui un equivalente della sua impotenza, e la via da
scegliere sta in alcune conseguenze di enorme importanza: lo
scioglimento del nesso tra rivoluzione borghese e rivoluzione pro-
letaria, che non si sovrappongono più, ma si succedono e sono toto
coelo indipendenti; l’idea che la rivoluzione proletaria può nascere
solo da una preliminare critica dell’ideologia: in questo modo il
“contenuto” potrà venire in primo piano e il passato cesserà di pe-
sare. Ma il “contenuto” di cui parla Marx, è la realtà dei rapporti so-
ciali al di qua dell’ideologia. Abbiamo insomma il congedo dalla ri-
voluzione in permanenza e dall’idea che nella pratica si possa costi-
tuire la verità. I momenti si separano: ci vuole anzitutto una
liberazione dall’ideologia, e solo quando questa sarà compiuta,
sarà possibile condurre a termine una rivoluzione sociale.
La rivoluzione del 1848 viene presentata come un processo in-
vertito, che invece di radicalizzare i propri obiettivi, li arretra. Il
partito proletario rimane durante l’intero decorso del processo ri-
voluzionario un’“appendice” della democrazia piccolo-borghese,
non svolge alcun ruolo reale e per questa ragione il tempo non
scandisce alcun mutamento, è un tempo vuoto, privo di eventi:

Storia senza eventi; uno sviluppo che solo lo scorrimento del calendario spin-
ge innanzi, e che fiacca per la continua ripetizione degli stessi momenti di
tensione e distensione. [...] Se vi è un pezzo di storia dipinto grigio su grigio, è
quello che abbiamo dinnanzi. Uomini ed eventi appaiono come dei Peter
Schlemihl invertiti, delle ombre alle quali sia stato sottratto il corpo. La stessa
rivoluzione paralizza i suoi propri portatori [Träger], e attrezza con violenza
appassionata solamente i suoi nemici. Quando lo «spettro rosso», costante-
mente evocato e scongiurato dai controrivoluzionari, finalmente appare, esso
non porta il berretto frigio dell’anarchia sul capo, ma indossa l’uniforme del-
l’Ordine: i pantaloni rossi75.

Non accadendo nulla, nulla di nuovo porta il calendario: tempo


vuoto, privo di articolazioni congiunturali, di nodi, di rapporti di

75. Ivi, p. 136.

86
forze in tensione, di costituzioni di verità in competizione. Il rap-
porto strutturalmente aperto, tendente all’attualità, di comunisti e
proletari, si irrigidisce qui, e trasfigura, nei «Träger», i portatori
della rivoluzione, secondo un nesso tra “processo” e “persone” che
rinvia direttamente alla concezione del Capitale76. In questo tempo
vuoto, per definizione nessuno può vincere: non il partito dei prole-
tari, ma neanche la politica borghese, impostata sulla paura dei
“rossi” e infine sorpresa da Luigi Bonaparte questo re dei proletari-
straccioni77, questa proiezione mitica dei contadini fedeli a Napo-
leone I, questo furbo avventuriero: la «astuta stupidità di un solo
individuo»78 sembra risolvere, in un “blocco” (nel senso soreliano
e gramsciano) di corruzione, paure, malintesi, imbrogli e illusio-
nismo, – insomma in una specie di miracolo alla rovescia, la crisi
in cui si dibatte la Francia lungo quattro anni.
Il 18 Brumaio è, nella ricostruzione della base sociale di Bona-
parte, chiarissimo: egli è il potere esecutivo resosi autonomo,
dunque è la garanzia dell’«ordine borghese»79. Le sue idee (le
«idées napoléoniennes»80) sono idee della «proprietà fondiaria par-
cellare non sviluppata, in tutta la sua freschezza»81: esse non corri-
spondono alla realtà della Francia, sono un «controsenso»82, ma
sono quelle che, catturando l’immaginazione dei contadini,
hanno conferito a Bonaparte l’appoggio della «massa popolare
[Volksmasse] della Francia»83. Ma Luigi Bonaparte, in quanto rap-
presentante del potere esecutivo, dovrebbe e vorrebbe fare gli in-
teressi della «classe media»84; però allo stesso tempo, per la sua
ideologia, egli «vorrebbe apparire come il patriarcale benefattore

76. Cfr. Das Kapital, I, in MEW, 23, pp. 99-100: «Le persone esistono qui le une per le
altre solamente in quanto rappresentanti della merce e quindi come possessori di
merci. Nel seguito dello sviluppo vedremo che le maschere economiche delle persone
sono solamente la personificazione dei rapporti economici, e che esse si raffrontano
come loro portatori». Vedi anche Zur Kritik del politische Ökonomie, in MEW, 13, p. 28:
«La relazione reale delle merci tra di esse è il loro processo di scambio. È in questo proces-
so sociale che gli individui reciprocamente indipendenti entrano, ma essi vi entrano
solo in quanto possessori di merci; il loro modo d’essere reciproco è per ciascuno il
modo d’essere delle loro merci, per cui essi compaiono di fatto solo come portatori con-
sapevoli del processo di scambio».
77. Cfr. Marx, Der achtzehnte Brumaire, in MEW, 8, p. 194: «La borghesia francese si
inalberò contro il dominio del proletariato lavoratore, ed ha portato al potere il proleta-
riato straccione».
78. Ivi, p. 136.
79. Ivi, p. 204.
80. Cfr, ivi, pp. 200-4.
81. Ivi, p. 203.
82. Ibidem.
83. Ivi, p. 198.
84. Ivi, p. 204.

87
di tutte le classi»85; infine, per la sua sordida provenienza, per la
rete capillare di interessi che lo appoggiano, egli è «il capo della
società del 10 dicembre, rappresentante del sottoproletariato»86.
Per cui, «sospinto qua e là dalle esigenze contraddittorie della sua
situazione, e allo stesso tempo costretto, come un prestigiatore, a
tenere fissi su di sé gli occhi del pubblico grazie a sempre nuove
sorprese, come un surrogato di Napoleone, e a fare quindi ogni
giorno un colpo di stato en miniature, Bonaparte mette a soqqua-
dro l’intera economia borghese»87. «I suoi esperimenti scoppie-
ranno come bolle al contatto con i rapporti di produzione»88. Non
dunque un nuovo quadro di sviluppo borghese per la Francia, ma
la messa a nudo del potere esecutivo nella «sua espressione più
pura» affinché la rivoluzione, dopo aver elaborato alla perfezione
«il potere parlamentare, per poterlo rovesciare», possa ora «isola-
re» il potere esecutivo come suo «unico ostacolo, per poter con-
centrare contro di esso tutte le sue forze distruttive»89.
In questa dialettica teleologica, che ci parla delle difficoltà a in-
tendere la natura di una rivoluzione-restaurazione salutata da
Guizot con la frase «C’est le triomphe complet et définitif du sociali-
sme!»90, le ragioni del trionfo di un uomo che rappresenta agli
occhi di Marx un autentico “controsenso”, più che di una vera e
propria concezione della storia, egli deposita – a futura memoria –
una tensione politica che il non intervento del proletariato parigi-
no in occasione del colpo di Stato del 2 dicembre sembra mortifi-
care. Così, il tempo vuoto della politica francese tra il 1848 e il 1851
può essere riempito solo da un individuo, che del vuoto ha fatto la
propria idea politica91. Nelle Lotte di classe in Francia l’assenza del
proletariato era in ogni istante l’efficace spinta dei movimenti
della classe dominante, si lasciava leggere dentro un complesso di
determinazioni pratiche, che avevano un preciso significato, den-
tro un orizzonte rivoluzionario ancora pensato come “aperto”. Nel
18 Brumaio l’insurrezione di giugno segna invece la precoce e defi-
nitiva uscita di scena del proletariato92, mentre la presa del potere

85. Ivi, p. 206.


86. Ivi, p. 205.
87. Ivi, p. 207.
88. Ivi, p. 201.
89. Ivi, p. 196.
90. Ibidem.
91. Bonaparte incarna il “significante vuoto” nel senso di Laclau. Cfr. J. Martin, «Perfor-
ming Politics: Class, Ideology and Discourse in Marx’s Eighteenth Brumaire», in Marx’s
“Eighteenth Brumaire”. (Post)modern Interpretations, ed. by M. Cowling and J. Martin,
Pluto Press, London 2002, pp. 129-42, qui 140.
92. Cfr. Marx, Der achtzehnte Brumaire, in MEW, 8, pp. 121-3.

88
da parte di Luigi Napoleone riqualifica retrospettivamente tutto il
periodo come “vuoto”, cioè privo di qualsiasi mutamento reale sul
piano del rapporto tra ideologia e verità.
Certo, il rapporto tra Le lotte di classe in Francia e il 18 Brumaio
non può essere del tutto ridotto a questo raffronto. Esso è ben più
complesso, come emerge dall’esame di una delle numerose varian-
ti apportate da Marx nella seconda (1869) edizione rispetto alla
prima (1852). Dove aveva scritto che «in paesi di antica civiltà con
una sviluppata struttura di classe, con moderne condizioni di pro-
duzione e una coscienza culturale, in cui tutte le idee tradizionali
sono state dissolte grazie a un lavoro secolare, la repubblica non è
altro, in generale, che la forma rivoluzionaria della distruzione [die re-
volutionäre Zerstörungsform] della società borghese, e non la forma con-
servatrice del suo sviluppo», nel 1869 corregge: «la forma politica del
rovesciamento [politische Umwälzungsform] della società borghese, e
non la sua forma di vita conservatrice»93, cancellando le tracce del le-
game del 18 Brumaio con il clima del 1848, ed enfatizzando quello
con le opere successive. Se nel 1852 la “repubblica” è ancora il terre-
no sul quale – data la dittatura di classe della borghesia – si svolge lo
scontro politico decisivo con il proletariato, nel 1869 questo scontro
è stato internalizzato dalla società borghese e la “forma politica” ri-
dotta ad espressione di un movimento più profondo.
Sono, questi, dettagli di fondamentale importanza per rico-
struire la biografia politica di Marx, la sua fondamentale indecisio-
ne e sopratutto la sua adesione – al di là della sua stessa autorap-
presentazione – al frastagliato succedersi delle “occasioni” e dei
“tempi”. Tener conto di tutto ciò può aiutare a spiegare come l’au-
tore del Capitale abbia potuto scrivere le lettere sulla comune rura-
le russa o redigere lo scritto sulla Comune parigina94. Rimane però
il fatto che tra il dicembre 1851 e il marzo 1852, in questo periodo
massimamente deludente per Marx95, egli inaugura il “materiali-
smo storico”, con due novità, la cui contemporaneità è piena di si-
gnificato: viene in primo piano la distinzione tra “storico” e “prota-
gonista” delle lotte, e cade l’idea di rivoluzione in permanenza. La
historia rerum gestarum diventa la ricostruzione scientifica delle
epoche dello sviluppo sociale al di qua delle illusioni ideologiche,
la rivoluzione diventa il processo di trasformazione di massa della

93. Ivi, p. 122. Le varianti in Marx, Rivoluzione e reazione in Francia, cit., p. 183n.
94. Su quest’ultimo aspetto rinvio alla Prefazione di Augusto Illuminati.
95. Cfr. B. Bongiovanni, Le repliche della storia. Karl Marx tra la Rivoluzione francese e la
critica della politica, Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 118. Preciso che non condivido
la ricostruzione del nesso tra storia, politica e teoria proposta da Bongiovanni (ivi, pp.
112-21).

89
società al di là delle illusioni ideologiche96. In mezzo, tante cose:
anzitutto, la “critica dell’economia politica”, con le sue seducenti e
ingannevoli pretese di scientificità, ma anche la sua inservibilità
immediata sul piano della politica; e poi le tante “prefazioni”, “let-
tere” e “precisazioni” engelsiane, che sempre di nuovo tornano a
girare intorno al problema, senza avere la forza di riafferrarlo nella
sua enormità.

96. Ancora una volta, è Engels a riassumere con efficacia queste due idee, in relazione
al 18 Brumaio, nella sua Prefazione alla terza edizione (1885), in MEW, 21, pp. 248-9.

90
Verità e ideologia
nella Miseria della filosofia

1. Quale posto assegnare alla Miseria della filosofia?


Quale posto assegnare alla Miseria della filosofia? Secondo Ernest
Mandel è un testo caratterizzato da un’impostazione ancora “ricar-
diana”, anche se vi si trova sviluppato per la prima volta il “materia-
lismo storico”1. Questa valutazione della Miseria come primo ab-
bozzo completo del materialismo storico viene da lontano: è già
nella biografia di Mehring2, prima ancora nella valutazione che ne
diede Kautsky («elemento iniziale nella creazione di un sistema
culminante nel Capitale») nel 18863; ma in definitiva discende di-
rettamente dalla breve premessa che lo stesso Marx scrisse per la
ristampa del 1880. Questo scritto – vi si legge – «contiene i germi
della teoria sviluppata nel Capitale dopo venti anni di lavoro. La let-
tura della Miseria della filosofia e quella del Manifesto del partito co-
munista, pubblicato da Marx ed Engels nel 1848, potranno dunque
servire d’introduzione allo studio del Capitale»4.
Questa è una lettura retroattiva, consistente nel misurare se e
quanto della Miseria corrisponda già al Capitale, assunto evidente-

1. E. Mandel, La formazione del pensiero economico di Karl Marx, trad. it. di A. Salsano,
Laterza, Bari 1969, pp. 56-9. Stessa lettura, ma con valutazione rovesciata, in R. Finel-
li, Astrazione e dialettica dal romanticismo al capitalismo (saggio su Marx), Bulzoni,
Roma 1987, pp. 109-16.
2. F. Mehring, Karl Marx. Geschichte seines Lebens (1918), hrsg. v. Th. Höle, Dietz Verlag,
Berlin 19856, p. 131.
3. Cfr. E. Ragionieri, Il marxismo e l’Internazionale. Studi di storia del marxismo, Editori
Riuniti, Roma 1968, p. 114; ma si veda ivi, pp. 114-5 e 139-42, con rinvio al saggio kaut-
skiano «“Das Elend der Philosophie” und “Das Kapital”», in Die Neue Zeit, IV (1886),
pp. 7-19, 49-58, 117-29, 157-65.
4. La premessa fu pubblicata in L’Egalité, n. 12, II s., 7 aprile 1880; ora (nella trad. it. di N.
Badaloni) in K. Marx, Miseria della filosofia. Risposta alla «Filosofia della miseria» di Prou-
dhon, trad. it. di F. Rodano, Editori Riuniti, Roma 19988, p. 146. Cfr. M. Rossi, Da Hegel a
Marx, Vol. IV: La concezione materialistica della storia, Feltrinelli, Milano 1975, p. 250.

91
mente a parametro valutativo. Nonostante il parere del suo stesso
autore, è però possibile leggere le cose in modo diverso, anzitutto
rinunciando a qualsiasi teleologia: se il Capitale non può, oggi
meno che mai, essere letto come se fosse un’opera conclusa5, né
come l’opera conclusiva e culminante di Marx (che com’è noto
negli anni Settanta si dedicò ad altri studi), sarà anche giustificato
leggere la Miseria della filosofia a partire da sé stessa, cioè a partire
dalla congiuntura concreta in cui fu pensata, scritta e pubblicata6.
Sono, quelli del 1847, mesi di straordinario impegno politico
per Marx ed Engels, che a Bruxelles organizzano una rete interna-
zionale di comitati di corrispondenza di comunisti, aderiscono
alla Lega dei giusti, prendendo parte alla sua riorganizzazione in
Lega dei comunisti, e ricevono l’incarico, alla fine dell’anno, di redi-
gerne il Manifesto7. Nella rete di corrispondenza internazionale di
comunisti e socialisti, Marx aveva tentato di coinvolgere senza suc-
cesso, nel maggio del 1846, anche Proudhon8, la cui posizione era
stata da lui positivamente contrapposta nella Sacra famiglia a quel-
la di “Bruno Bauer e soci”. Proudhon, affermava allora Marx,

non scrive muovendo dall’interesse della critica autosufficiente, da un inte-


resse astratto ed autoprodotto, ma da un interesse di massa [massenhaften],
reale, storico, da un interesse che porterà più lontano della critica, che porterà
cioè alla crisi. Proudhon non solo scrive nell’interesse dei proletari; egli stesso
è un proletario, un ouvrier. La sua opera è un manifesto scientifico del proleta-
riato francese e ha perciò un significato storico del tutto diverso dall’abborrac-
ciatura di un qualunque critico critico9.
5. Per un’accurata e aggiornata messa a punto cfr. il cap. 2 di R. Fineschi, Un nuovo
Marx. Filologia e interpretazione dopo la nuova edizione storico-critica (MEGA2), Carocci,
Roma 2008.
6. Sull’opera cfr.: H. Lefebvre, Il materialismo dialettico (1947), trad. it. di A. Natoli, Ei-
naudi, Torino 1949, pp. 52-4; G. Della Volpe, Rousseau e Marx e altri saggi di critica ma-
terialistica (1956), Editori Riuniti, Roma 19744, pp. 159-70; N. Bobbio, «La dialettica di
Marx» (1958), in Id., Né con Marx né contro Marx, a cura di C. Violi, Editori Riuniti,
Roma 1997, pp. 73-97, qui 81-4; Rossi, Da Hegel a Marx (1963), Vol. IV, cit., pp. 205-311;
M. Dal Pra, La dialettica in Marx. Dagli scritti giovanili all’«Introduzione alla critica del-
l’economia politica» (1965), Laterza, Roma-Bari 19722, pp. 227-82; G. Labica, Le statut
marxiste de la philosophie, Ed. Complexe, Bruxelles 1976, pp. 311-48; Finelli, Astrazione
e dialettica (1987), cit., pp. 109-16.
7. Cfr. Mehring, Karl Marx, cit., pp. 145-60; B. Nikolaevskij, O. Maenchen-Helfen, Karl
Marx. La vita e l’opera, trad. it. di J. Lombardi, Einaudi, Torino 1969, p. 160; H. Förder,
Marx und Engels am Vorabend der Revolution. Die Ausarbeitung der politischen Richtlinien
für die deutschen Kommunisten (1846-1848), Akademie Verlag, Berlin 1960, pp. 128-35.
8. Lettera di Marx (con aggiunte di Ph.-Ch. Gigot ed Engels) a P.-J. Proudhon del 5 mag-
gio 1846, in Marx/Engels Gesamtausgabe (MEGA2), Abt. III, Bd. II, Dietz Verlag, Berlin
1979, pp. 7-8; la risposta (del 17 maggio 1846) ivi, pp. 205-7. Cfr. Labica, Le statut marxi-
ste, cit., pp. 312-3; Badaloni, «Introduzione» a Marx, Miseria, cit., pp. VIII-IX.
9. MEW, 2, p. 43.

92
Registrando una differenza reale tra critica e crisi, Marx segna
una distanza decisiva dal lessico giovane-hegeliano, nel quale i due
concetti sono invece strettamente intrecciati10. Tra l’attività della cri-
tica e la realtà della crisi c’è secondo Marx un dislivello che non può
essere colmato a partire dalla critica come sfera autosufficiente. Oc-
corre cambiare il modo stesso di vedere la critica, iniziare a pensare
questa attività come essa stessa una realtà, una realtà tra le altre,
dunque una forza tra le altre forze, la cui potenza potrà equivalere so-
lamente alla sua capacità di costruire un’universalità pratica.
Qui sta la superiorità del Proudhon di Qu’est-ce que la propriété?
sui critici critici. Quando definisce quell’opera «un manifesto scienti-
fico del proletariato francese», Marx intende dirne il grado di realtà,
il fatto che il suo significato non sta negli elementi propriamente
teorici che presenta, ma nel fatto che essi sono l’elaborazione di
un’esperienza comune di ribellione e resistenza allo sfruttamento11.
Il carattere pubblico del pensiero di Proudhon è ciò che qui Marx sot-
tolinea, riprendendo il parallelo tra linguaggio francese (politico e di
massa) e linguaggio tedesco (filosofico e individuale): Proudhon
dice cioè in linguaggio politico quella «potenza [della critica, scil.]
che ha potere sopra le creazioni della sua autoestraniazione»12, che
la critica esprime nella lingua della teoria. Semmai il suo limite – è
sempre Marx che parla – sta nel non aver compreso fino in fondo
che per «togliere il rapporto praticamente alienato dell’uomo con la
sua essenza oggettiva, […] l’espressione economico-politica dell’autoa-
lienazione umana», occorre uscire dalle categorie dell’economia po-
litica e porre la questione sul terreno dell’essenza umana13.
Rispetto a tutto ciò, all’altezza della Miseria (pubblicata in fran-
cese a Parigi e Bruxelles nel luglio 184714) sono intervenute alme-
no due novità. Anzitutto, Proudhon ha pubblicato il Sistema delle
contraddizioni economiche o Filosofia della miseria (2 voll., Parigi, ot-
tobre 1846), caratterizzato, a differenza dell’opera precedente, da
un modo di esposizione “dialettico”, hegelianizzante prima assen-
te. Mentre di Qu’est-ce que la propriété? Marx aveva apprezzato pro-

10. Cfr. M. Tomba, Crisi e critica in Bruno Bauer. Il principio di esclusione come fondamen-
to del politico, Bibliopolis, Napoli 2002; E. Renault, Marx e l’idea di critica, trad. it. di M.
T. Ricci, manifestolibri, Roma 1999, pp. 39-40.
11. Cfr. il giudizio che Marx ne dà nella lettera a J. B. von Schweitzer del 25 gennaio
1865, in MEW, 16, pp. 25-6.
12. MEW, 2, p. 42; ma cfr. tutte le pp. 40-2.
13. Ivi, p. 44. E cfr. anche ivi, p. 52: «La critica dell’economia politica dal punto di vista
dell’economia politica riconosce tutte le determinazioni essenziali dell’attività umana,
ma le riconosce solo in forma alienata, estraniata».
14. A. Frank, Paris e C. G. Vogler, Bruxelles.

93
prio la «forte muscolatura dello stile»15, che trasmetteva un «reale
calore»16, un reale legame con le masse degli oppressi, nel Système
egli ritrova invece

una declamazione che si accende gratuitamente solo per spirito di sistema. E


oltre a ciò l’ingenua e disgustosa pedanteria dell’autodidatta, che ha perso
l’originario orgoglio del pensatore indipendente e originale, e che ormai, da
parvenu della scienza, immagina di doversi pavoneggiare con ciò che egli non
è e non ha17.

Con la Filosofia della miseria Proudhon scade insomma a rap-


presentante di quel linguaggio “tedesco” cui era in precedenza op-
posto, perdendo così qualsiasi reale contatto con la politica di
massa; scioglie il suo legame sentimentale-ideologico con le
masse degli oppressi, per diventare un utopista, un ideologo della
piccola borghesia18. La sua posizione, cioè il rapporto tra l’ideologia
che egli esprime e la prassi reale, si avvicina così fortemente a
quella dei “critici critici”19.
La seconda novità riguarda la posizione reale di Marx. Non si
tratta più, a questo punto, di rivendicare un accesso alla politica
contro la mistica speculativa e autocompiaciuta dei Giovani Hege-
liani. Marx è già dentro un movimento reale, e la sua polemica
contro Proudhon acquista un senso differente: si tratta di lottare
ideologicamente dentro il composito e confuso movimento comu-
nista e socialista, per sventare il pericolo che esso cada preda di
un’autorappresentazione che finirebbe per paralizzarne le ener-
gie, asservendole a quelle della piccola borghesia20. Il senso della
critica cambia insomma sensibilmente, acquisendo un carattere
direttamente, immediatamente pratico e politico, indissolubil-
mente teorico-pratico. La Miseria della filosofia può essere letta,
molto più della Sacra famiglia, come un intervento politico, il cui si-

15. Lettera a J. B. von Schweitzer, in MEW, 16, p. 26.


16. Ivi, p. 29.
17. Ivi, pp. 29-30.
18. Proudhon pretende di essere «uomo di scienza al disopra dei borghesi e dei proleta-
ri; ma non è che il piccolo borghese, sballottato costantemente fra il capitale e il lavoro,
fra l’economia politica e il comunismo» (Marx, Miseria, trad. it. cit., p. 82, e cfr. anche
ivi, p. 96, e la lettera a P. W. Annenkov del 28 dicembre 1846, in MEW, 4, p. 557; sulle vi-
cende relative a questa corrispondenza cfr. Marx, Miseria, trad. it. cit., nn. 39 e 40 a p.
166).
19. Cfr. Rossi, Da Hegel a Marx, Vol. IV, cit., p. 206; e Labica, Le statut marxiste, cit., p.
321 e n.
20. Cfr. Förder, Marx und Engels am Vorabend der Revolution, cit., pp. 136-8; Labica, op.
cit., pp. 313-4, 334, 336-48.

94
gnificato sta nella congiuntura dentro la quale esso si esercita e
che intende indirizzare in modo nuovo.

2. Storia profana
C’è però una terza novità, interna all’itinerario del pensiero di
Marx, che va ora messa in luce. Nella Miseria della filosofia la modali-
tà della “critica” non sta più nell’opporre l’economia politica all’es-
senza umana, l’interesse economico all’interesse umano, secondo il
modulo dell’estraneazione, sperimentato nei Manoscritti economi-
co-filosofici21 e nella Sacra famiglia22. Certo, un elemento di continui-
tà forte tra Sacra famiglia e Miseria c’è, e sta nella differenza reale tra
“critica” e “politica”, differenza che nella Sacra famiglia assume la
veste della rivendicazione del concreto, dell’azione degli uomini
reali, realmente agenti. Lì però questa azione reale rimane appan-
naggio dell’essenza generica, dell’“umanità” contro le sue forme
estraneate23, mentre nella Miseria della filosofia il linguaggio feuer-
bachiano è assente, come è assente qualsiasi riferimento a una
qualche “essenza” umana che non sia, sulla base delle Tesi su Feuer-
bach, «l’insieme dei rapporti sociali», cioè, sempre e comunque,
una qualche “seconda natura”, rispetto a cui non ha più nessun senso
chiedersi cosa sia “autenticamente umano”. L’essenza umana sono
qui i modi in cui i rapporti sociali, cioè la seconda natura, si frange in
forme sempre diverse e non ulteriormente deducibili (ma sì indagabi-
li) nelle classi storicamente date e nei loro rapporti di potere24.
Questa indeducibilità delle forme della seconda natura è ciò che
nell’Ideologia tedesca Marx chiama «presupposti reali», fissando in
essi il punto di partenza di qualsiasi indagine: «essi sono gli indivi-
dui reali, la loro azione e le loro condizioni materiali di vita, tanto
quelle che essi hanno trovato già esistenti, quanto quelle prodotte
dalla loro stessa azione»25. Questi presupposti sono reali in quanto

21. Chiamo così, per convenzione, nella consapevolezza che non si tratta di un’“opera”,
la serie di tre quaderni pubblicati con questo titolo. Cfr. J. Rojahn, «Les “Manuscrits de
44” n’existent pas», résumé par G. Bensussan, in 1883-1983. L’oeuvre de Marx, un siècle
après. Colloque international 17-20 mars 1983, publié sous la direction de G. Labica,
PUF, Paris 1985, pp. 89-90.
22. Ciò comporta anche una netta presa di distanza dall’uso di moduli dialettici tratti di
peso da Hegel, come accadeva nei Manoscritti, e la ricerca di una logica del concreto,
come sottolinea Dal Pra, La dialettica in Marx, cit., pp. 232-3, 239-41, 252-3, 261, 279,
282. La presa di distanza dalla dialettica hegeliana è evidenziata anche da Labica, Le sta-
tut marxiste, cit., pp. 319-21.
23. Cfr. MEW, 2, pp. 37, 98, 126.
24. Pongono in rilievo lo stacco tra la Miseria e gli scritti del 1844 Dal Pra, La dialettica
in Marx, cit., pp. 229-31; e Labica, Le statut marxiste, cit., pp. 322n. e 324.
25. K. Marx, F. Engels, Die deutsche Ideologie, in MEW, 3, p. 20.

95
non sono «arbitrari»26, la loro individuazione non dipende cioè
dalla scelta soggettiva; anzi, la stessa attività della scelta è resa possi-
bile e al contempo condizionata dalla loro esistenza. Detto altrimenti:
la “teoria” fa parte di quella stessa rete di rapporti pratici che la ren-
dono possibile proprio nel momento in cui le sottraggono qualsiasi in-
dipendenza reale e dunque qualsiasi “obbiettività”. Il pensiero è condi-
zionato e attraversato dalla politica, e perciò efficace in essa, secon-
do un’iscrizione reciproca che sottrae entrambe queste sfere alla
sostanzialità di un campo dotato di “qualità”. I “presupposti reali”
sono ciò che rende possibile e al contempo deforma la verità: non
c’è verità, che non passi per la parzialità, che non si dispieghi da un
punto di vista interno e non esterno al mondo delle lotte politiche.
D’altra parte, questi presupposti non sono affatto una realtà ul-
tima: essi sono sì «constatabili per via puramente empirica»27,
dato che possono essere negati solo arbitrariamente (isolando cioè
la riflessione individuale dal senso comune, elevando il proprio lin-
guaggio privato a linguaggio senz’altro); ma la comprensione del
loro significato – del modo in cui rendono possibile la loro stessa cono-
scenza deformata – implica il riconoscimento della loro storicità,
del loro essere sempre un intreccio di “presupposti” e “posti”,
senza possibilità di dirimere gli uni dagli altri, se non per astrazio-
ne; implica insomma il riconoscimento del loro essere parte di un
processo di costante riformulazione, di una “seconda natura” dietro
la quale ci sarà sempre un’altra seconda natura in qualche modo
già “riformulata”.
L’istanza materialistica è perciò nella Miseria della filosofia,
come nella Sacra famiglia, anzitutto la rivendicazione di una «sto-
ria profana – storia degli uomini», contrapposta alla «storia sacra –
storia delle idee», all’astrazione “uomo”28. Su questo piano Marx
obietta anzitutto a Proudhon il suo disinteresse per i «particolari
genealogici»29. Egli «si trova in effetti ad aver spinto all’estremo
non le cose, ma i termini che le esprimono; e in questo dà prova di
retorica più che di logica»30. In Proudhon infatti il produttore e il

26. Ibidem.
27. Ibidem.
28. Queste espressioni sono usate da Marx nella lettera ad Annenkov (MEW, 4, p. 549,
e cfr. anche ivi, p. 556), in cui com’è noto sono enunciate le idee fondamentali che di lì a
qualche mese troveranno sviluppo nella Miseria della filosofia: «storia reale, profana,
degli uomini in ciascun secolo» (trad. it. cit., p. 73).
29. Ivi, p. 7.
30. Ivi, p. 10; e cfr. ivi, p. 90: «con delle formule non è possibile fare la storia». Cfr. anche
la lettera ad Annenkov, in MEW, 4, p. 549: «Il sig. Proudhon scambia le idee con le
cose».

96
compratore si vedono attribuite «qualità puramente metafisi-
che»31, mentre nella realtà il “libero” compratore e il “libero” pro-
duttore sono in mezzo agli scambi, vendono e comprano mediante
mezzi di scambio (denaro), e gli stessi

mezzi di produzione sono in gran parte dei prodotti che gli derivano dal-
l’esterno e nella produzione moderna egli [il produttore, scil.] non è neppure
libero di produrre la quantità che vuole. Il grado di sviluppo attuale delle forze
produttrici l’obbliga a produrre su questa o su quella scala32.

Proudhon

non ha compreso che questi rapporti sociali determinati sono prodotti dagli
uomini esattamente come lo sono la tela, il lino, ecc. I rapporti sociali sono in-
timamente connessi alle forze produttive. Impadronendosi di nuove forze
produttive, gli uomini cambiano il loro modo di produzione e, cambiando il
loro modo di produzione, la maniera di guadagnarsi la vita, cambiano tutti i
loro rapporti sociali33.

Più in generale, «Proudhon ignora che tutta la storia non è che


una trasformazione continua della natura umana»34.
A differenza di Ricardo, che «ci mostra il movimento reale
della produzione borghese, che produce il valore», Proudhon «“si
agita” per inventare nuovi processi, al fine di regolare il mondo se-
condo una formula che egli pretende nuova»35. Mentre Proudhon
attribuisce alle categorie che studia delle qualità arbitrarie, ignora
i “presupposti reali” della teoria; il carattere scientifico della teoria
di Ricardo sta invece tutto qui, nell’assumere lo spazio borghese
come presupposto reale, e nello svolgere tutte le tendenze interne
a questo spazio, la sua logica immanente. La differenza tra Prou-
dhon e Ricardo non è affatto primariamente di tipo epistemologi-
co, ma ideologico: la superiorità di Ricardo sta anzitutto in ciò, che
egli si pone dal punto di vista degli interessi dell’intera classe borghese,
mentre Proudhon, illudendosi di riarticolare “liberamente” (= ar-

31. Marx, Miseria, trad. it. cit., p. 13.


32. Ibidem.
33. Ivi, p. 69.
34. Ivi, p. 98. Questa storicità radicale di ogni cosa (delle categorie che esprimono i rap-
porti, i rapporti di rapporti, e così via) è particolarmente sottolineata nella Miseria (cfr.,
nella stessa direzione, anche la lettera ad Annenkov, in MEW, 4, p. 554). Sul nesso tra
“produzione” e storicità cfr. Rossi, Da Hegel a Marx, Vol. IV, cit., pp. 267-9; e Dal Pra, La
dialettica in Marx, cit., pp. 246-7, 267-9.
35. Marx, Miseria, trad. it. cit., p. 19.

97
bitrariamente) la produzione capitalistica per emendarla, finisce
per scrivere un’utopia, rappresentando perciò solo sé stesso (= la
piccola borghesia)36.

3. Un approccio genealogico e costruttivo


L’alternativa tra l’economia politica e Proudhon è dunque inter-
na all’ideologia: immanente e potente la prima, cervellotica e oziosa
la seconda. Che ne è allora della “critica”? sarà essa stessa ideologi-
ca? o occuperà un altro spazio? Siamo a un punto cruciale, perché
qui si tratta di determinare la posizione dell’osservatore rispetto al-
l’oggetto osservato, e porre la questione dello statuto e del “luogo”
della verità, problema centrale di ogni teoria dell’ideologia37. Ora,
interrogata su questo punto, la Miseria della filosofia ci offre una ri-
sposta differente sia dalla Sacra famiglia, sia dal Capitale. In essa in-
fatti non troviamo né la teoria dell’alienazione, cioè dell’inversione
di soggetto e predicato che spiega le distorsioni ideologiche, né
quella del feticismo, come struttura dell’autodissimulazione natu-
ralistica delle forme, poggiante sulla strutturale distinzione di es-
senza e fenomeni. La questione è qui impostata in un modo diver-
so, in un modo che chiamerò genealogico e costruttivo. La storia non
è né progressione dialettica stadiale, né progressivo svuotamento
di un’essenza, né crescente subordinazione delle pratiche concrete
a una logica astratta. La storia è la costante ricombinazione conflittua-
le – e mediante i conflitti stessi – del rapporto tra contenuto e forma socia-
le, cioè dell’intreccio dei rapporti sociali con ciò che in essi e con essi viene
messo all’opera, vale a dire tutte le energie materiali e mentali socialmen-
te disponibili. O se si preferisce una formulazione sintetica: la storia
è produzione conflittuale di “seconde nature”.
Ciò che in questa ottica conta, è il fatto che in ogni momento di
questa ricombinazione, viene marcato un momento dello scontro
delle classi: essa è insomma strutturalmente politica e quindi strut-
turalmente aperta a diversi esiti. Il fatto pertanto che tale ricombi-

36. La centralità della nozione di ideologia – che abbraccia un ampio ventaglio di posi-
zioni, dall’utopia alla teoria potente – va sottolineata, contro la lettura, avviata da Della
Volpe (Rousseau e Marx, cit., pp. 159-70) e svolta in dettaglio da Rossi (Da Hegel a Marx,
Vol. IV, cit., pp. 215-8, 237-9, 241-2, 249, 258, 259-60, 263-6, 270-1, 279-80, 283-4, 288,
309-10), secondo cui nella Miseria si avrebbe l’avvio della definizione del concetto di
“astrazione determinata” (e di circolo concreto-astratto-concreto), che trova la sua for-
mulazione matura nella Einleitung del 1857. Su Proudhon come ideologo della piccola
borghesia, e sul carattere strutturalmente utopistico dell’ideologia piccolo-borghese,
cfr. in dettaglio Labica, Le statut marxiste, cit., pp. 326-34.
37. Cfr. A. M. Iacono, «Sul concetto di feticismo in Marx», in Studi storici, XXIV (1983),
n. 2/3, pp. 429-36; E. Balibar, La filosofia di Marx, trad. it. di A. Catone, manifestolibri,
Roma 1994, p. 52.

98
nazione ha congiunturalmente nel capitalismo assunto l’aspetto di
una freccia – lo sviluppo delle forze produttive – non va visto come
l’esito necessario dello scontro precedente, ma come un presuppo-
sto reale da cui prendere le mosse per “prendere le misure” della
lotta delle classi, per accedere alla forma attuale dell’antagonismo.
Storia come genealogia e costruzione significa dunque che
manca non solamente una qualsiasi logica esterna agli avveni-
menti storici, cioè alle lotte e ai contrasti sempre determinati (al
modo del “genio sociale” che fonda la filosofia della storia trascen-
dente di Proudhon), ma anche qualsiasi “fondo” unitario della sto-
ria, che renda ragione della crescita scalare, quindi di uno sviluppo
concepito secondo una teleologia immanente. Se nella Prefazione
a Per la critica dell’economia politica (1859) e poi nel primo libro del
Capitale (1867) Marx tende, sia pure in modo non univoco, a pre-
sentare una visione stadiale della storia38, nella Miseria ciò è del
tutto assente. Qui il passato non viene inteso né come errore (al
modo degli economisti classici), né come preparazione del pre-
sente (al modo di Proudhon), perché tra passato (feudalesimo) e
presente (capitalismo) vi è una reale discontinuità in quanto, con
l’affermarsi del nuovo modo di produzione, il rapporto tra conte-
nuto e forma viene riformulato a partire dal dominio politico:

Quando la borghesia l’ebbe vinta, non vi fu più questione né del lato buono né
del lato cattivo del feudalesimo. Ad essa andarono le forze produttive che si
erano sviluppate per mezzo suo sotto il regime feudale. Tutte le vecchie forme
economiche, le relazioni di diritto civile loro corrispondenti, lo stato politico
che era l’espressione ufficiale della vecchia società civile, vennero spezzati39.

L’antagonismo non è raffigurabile come un involucro che non


regge più la spinta di un contenuto, che ad un certo punto lo fa
esplodere. Ciò che viene a spezzarsi non è il rapporto tra contenu-
to e forma, ma il sistema di subordinazione politica che ha permes-
so a quel rapporto antagonistico di esistere e di durare. È con l’af-
fermarsi dell’egemonia politica di una classe sociale, che si rifor-
mula e si ricombina il rapporto tra forze produttive e rapporti di
produzione, riqualificandolo radicalmente: tutti gli aspetti (lato

38. La lunga frequentazione del Capitale da parte di Althusser – da Lire le Capital (Ma-
spero, Paris 1966) all’estrema serie di scritti poi raccolti sotto i titoli Sul materialismo
aleatorio (trad. it. di V. Morfino e L. Pinzolo, Unicopli, Milano 2000) e Marx nei suoi li-
miti (trad. it. di F. Raimondi, Mimesis, Milano 2004) – ha se non altro segnalato il carat-
tere non risolto, problematico e stratificato dello stesso libro I.
39. Marx, Miseria, trad. it. cit., p. 79. Coglie bene questo aspetto di anti-filosofia della
storia Rossi, Da Hegel a Marx, Vol. IV, cit., p. 273.

99
buono e lato cattivo) vengono annullati e riscritti in lingua diversa. Le
vecchie forze produttive passano alla borghesia perché la borghe-
sia è diventata politicamente dominante, non perché essa venga in
qualche modo qualificata da quelle forze produttive.
Contro l’apriorismo formulistico di Proudhon, Marx fa notare
non solo che la fabbrica nacque in seguito all’incontro di una serie
di circostanze e di processi appartenenti a temporalità e a logiche
distinte (come la produzione di un «vagabondaggio quasi univer-
sale» e «l’allargarsi del mercato» accanto all’«afflusso dei capitali»
e così via)40; ma anche che la manifattura non nacque dentro le cor-
porazioni, come effetto dialettico-processuale del loro divincolarsi
dal sistema feudale e della loro polarizzazione interna, ma a causa
di un intervento esterno: «fu il mercante a divenire il capo dell’offi-
cina moderna, non l’antico maestro delle corporazioni. Quasi
ovunque si ebbe una lotta accanita tra la manifattura e le corpora-
zioni dei mestieri»41. La borghesia capitalistica moderna sorse din-
nanzi all’impoverimento di – e lottando contro – entrambe le classi
fondamentali che si scontravano nel mondo feudale: «la classe dei
proprietari terrieri e la classe dei lavoratori, i signori feudali e il po-
polo»42 (quest’ultimo a sua volta polarizzato dentro il sistema delle
corporazioni), le campagne e le città, l’agricoltura e l’artigianato.
Prima di questa nuova qualificazione – riunione fisica «di molti la-
voratori e di molti mestieri in un sol luogo»43 – le “forze produtti-
ve” possedevano tutt’altra natura, senza del resto che neanche que-
sta fosse la loro “vera” o “prima” natura (essendo questa già “effet-
to” di una lunghissima trasformazione precedente), e quindi
erano disponibili (ma senza che in sede teorica ciò sia pensabile
come un “destino”) a riceverne ancora un’altra, nuova e ulteriore.
La genesi del capitalismo e l’ascesa della borghesia moderna
vengono dunque presentate nella Miseria della filosofia in termini
che nel Manifesto acquisteranno una formulazione perentoria:

Liberi e schiavi, patrizi e plebei, barone e servo della gleba, membro delle cor-
porazioni e garzone, in breve oppressori e oppressi sono sempre stati in con-
trasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a
volte palese: una lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluziona-
ria di tutta la società, o con il comune tramonto delle classi in lotta44.

40. Marx, Miseria, trad. it. cit., pp. 90-1.


41. Ivi, p. 91. Cfr. similmente Die deutsche Ideologie, in MEW, 3, pp. 54-6.
42. Marx, Miseria, trad. it. cit., p. 90.
43. Ivi, p. 91.
44. K. Marx, F. Engels, Manifest der kommunistischen Partei, in MEW, 4, p. 462.

100
La transizione dal feudalesimo al capitalismo si configura dun-
que più come uno scioglimento e nuova combinazione dovuta a
una molteplicità irriducibile di circostanze e dinamiche, che trova
la sua unità solo sul piano dell’unificazione politica45, che come un
sviluppo economico dialettico endogeno; e più come una “rovina
comune” di classi in lotta che come una “sostituzione” di domi-
nanza; insomma, come un processo politico, e solo in quanto tale
come un processo economico46.
Come esprimere con maggiore chiarezza il fatto che il caratte-
re sagittale della storia (lo sviluppo capitalistico) è interno alla sto-
ria (i rapporti delle forze), ne rappresenta una forma determinata (e
materialisticamente condizionata), e non l’indirizza dall’esterno
secondo una qualche necessità? In questa luce – di una storicità
antiprocessuale e costruttiva – va letto l’elogio della borghesia del
Manifesto e la proiezione di tutta la storia precedente sull’attualità
– sull’ora – come il luogo in cui le classi dovranno “provare” (bewei-
sen) la verità del proprio pensiero-potenza. L’approccio costruttivo
implica infatti che lo scontro non potrà che decidersi nell’attualità,
cioè nel momento in cui la storia diventa politica, si identifica con
essa mostrandosi per ciò che realmente è: un intreccio di rapporti di
forze aperto a tutte le possibilità.

4. Verità ideologica
Quest’ottica costruttiva e genealogica implica dunque il ribalta-
mento di tutti i rapporti storici in rapporti politici, la traduzione

45. Ciò rinvia evidentemente allo Stato e alla sua progressiva ridisposizione interna
come dimensione decisiva della genesi del capitalismo. Cfr. la ricostruzione delle posi-
zioni di Marx dal 1845 al 1848 in L. Perini, «Introduzione» a K. Marx, Rivoluzione e rea-
zione in Francia. 1848-1850, Einaudi, Torino 1976, pp. XXIX-XLIV.
46. Nel Capitale Marx si esprimerà in forma diversa, privilegiando l’ipotesi opposta,
della nascita della manifattura dalla polarizzazione interna alla corporazione, e declas-
sando la via “mercantile” a fatto secondario (cfr. Das Kapital. Kritik der politischen Öko-
nomie, 3. Band, in MEW, 25, p. 347). Ma qui la problematica è ormai quella evolutiva,
con il connesso abbandono dell’ottica costruttiva e genealogica per quella stadiale e te-
leologica; con il rifiuto dell’idea, presente nella Miseria, dell’impossibilità di distingue-
re tra “transizione” e “sistema” (tra congiuntura e struttura), e la scelta di separare he-
gelianamente i due piani, assegnando il primato al secondo (sulle due diverse conce-
zioni del “modo di produzione” in Marx si veda Althusser, Sul materialismo aleatorio,
cit., pp. 105-15; una lettura retroattiva della Miseria alla luce del Capitale, su questo
punto, è invece quella di Dal Pra, La dialettica in Marx, cit., pp. 277-8).
La discussione svoltasi negli anni Cinquanta sulla transizione dal feudalesimo al capi-
talismo era difatti esplicitamente condizionata dall’assunto, che l’assegnazione di un’ori-
gine esogena alla transizione (i mercanti di cui parla Sweezy), significava porre in que-
stione la “dialettica” dei modi di produzione individuata nel Capitale come “garanzia”
del socialismo. Cfr. i contributi di P. M. Sweezy et al. raccolti in La transizione dal feuda-
lesimo al capitalismo, a cura di G. Bolaffi, Savelli, Roma 1973.

101
della “necessità” in una rete di rapporti di forze. Marx nota infatti che
se lo sviluppo delle forze produttive si dà in forma antagonistica,
cioè «di pari passo all’antagonismo delle classi»47, allora «entro gli
stessi rapporti nei quali si ha sviluppo di forze produttive, si svi-
luppa anche una forza produttrice di repressione»48. Nell’esatto
momento in cui il proletariato giunge a formulare politicamente
la questione del potere, «da questo momento la classe rivoluziona-
ria diviene conservatrice»49. Non vi è soluzione di continuità tra
economia e politica: lo scontro economico e sociale è sempre anche
scontro politico e ideologico, anche se lo è in forme diversissime,
che vanno dalla mera resistenza alla costruzione di un’alternativa
storicamente realistica.
Ecco allora il senso della riconduzione delle diverse scuole di
economisti allo svilupparsi dell’antagonismo: tra di essi, i fatalisti
(Smith, Ricardo) «rappresentano una borghesia che, lottando an-
cora contro i resti della società feudale», lotta per aumentare le
forze produttive50, ed esprimono dunque le sue forze espansive,
“egemoniche”. Questi economisti «sono gli storici di quest’epo-
ca»51, in quanto intendono solo dimostrare come si acquisti ricchez-
za entro i rapporti borghesi, formulando questi rapporti in catego-
rie. L’universalità scientifica della loro teoria sta tutta nel carattere
politicamente espansivo della borghesia come classe che lotta con-
tro l’abolizione del feudalesimo, sta nella sua universalità pratica.
Ma questa “formulazione” di “categorie” non è rispecchiamento,
ma un’attiva elaborazione ideologica, nel senso in cui ideologia è la
razionalizzazione di una prassi, in modo da restituirne una rappre-
sentazione coerente e capace di rafforzarne politicamente l’unitarie-
tà: questa teoria è dunque una parte della lotta delle classi52.
Ma lo stesso criterio vale anche per gli avversari della borghe-
sia:

Come gli economisti sono i rappresentanti scientifici della classe borghese,


così i socialisti e i comunisti sono i teorici della classe proletaria. Finché il pro-
letariato non si è ancora sufficientemente sviluppato per costituirsi in classe,
e di conseguenza la lotta del proletariato con la borghesia non ha ancora as-
sunto un carattere politico53,

47. Marx, Miseria, trad. it. cit., p. 79.


48. Ivi, p. 80.
49. Ivi, p. 79.
50. Cfr. ivi, p. 80.
51. Ivi, p. 81.
52. Cfr. Perini, «Introduzione» a Marx, Rivoluzione e reazione in Francia, cit., p. XV.
53. Marx, Miseria, trad. it. cit., pp. 81-2.

102
questi teorici sono utopisti che escogitano sistemi «e rincorro-
no le chimere di una scienza rigeneratrice»54. Ma quando l’antago-
nismo stesso fa diventare il proletariato una forza reale, una parte
in lotta, essi non hanno più bisogno di trovare i rimedi «nel loro
spirito; devono solo rendersi conto di ciò che si svolge davanti ai
loro occhi e farsene portavoce»55. È a questo punto che la teoria
cessa «di essere dottrinaria per divenire rivoluzionaria»56.
Nelle espressioni ora riportate non c’è nessuna concessione al-
l’empirismo: in forma concentrata, è qui restituito un processo
teorico-pratico estremamente complesso, che Labriola esporrà ni-
tidamente nel suo saggio In memoria del «Manifesto» dei comuni-
sti57. Come Labriola ben vide, qui Marx sta dicendo che la teoria ri-
voluzionaria sorge nell’intreccio e nel rinvio di due processi distinti,
anche se non indipendenti: da una parte, quel “vedere” non può
nascere arbitrariamente, ma presuppone una storia reale delle prati-
che di ribellione e di sovversione; dall’altra, la sua non arbitrarietà
non risulta evolutivamente, ma deve essere attivamente prodotta
da un gesto filosofico preciso: l’adozione di una prospettiva strategi-
ca, in cui quelle pratiche di ribellione vengono attivamente unifi-
cate in un disegno organicamente alternativo. Solo se crisi e critica
– che non sono identiche – convergono realmente, politicamente,
si ha il comunismo come «il movimento reale che abolisce l’attua-
le stato di cose»58. Ma questa convergenza, proprio perché reale, è
essa stessa un fatto politico, un processo strategico aperto, non di-
sponibile all’arbitrio del singolo pensatore ma da costruire senza
garanzie di riuscita dall’interno della rete dei rapporti di forze59.
Marx aveva già enunciato l’idea di questo “doppio movimento”
nell’Introduzione a Per critica della filosofia hegeliana del diritto. La
«teoria», scriveva allora, sarebbe diventata una «potenza materia-
le» non appena avesse «afferrato» le masse60. La critica doveva a
questo scopo diventare «critica nella mischia» («Kritik im Handge-

54. Ivi, p. 82.


55. Ibidem.
56. Ibidem.
57. In Id., La concezione materialistica della storia, a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari
1965, p. 16.
58. Marx, Engels, Die deutsche Ideologie, in MEW, 3, p. 35.
59. Qui trova posto quella che Gramsci definirà questione dell’egemonia, che non pre-
suppone un “soggetto” che si viene formando e che a un certo punto può e quindi deve
prendere coscienza di sé. Per essa, ciò che agisce storicamente sono i conflitti, di cui i
soggetti sono di volta in volta effetti determinati. L’egemonia descrive il processo di costi-
tuzione di soggetti come fatto strategico, eliminando ogni differenza tra costituzione
della classe in sé e presa di coscienza della classe per sé, ancora presente residualmente
nella Miseria (cfr. trad. it. cit., p. 120).
60. K. Marx, Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie. Einleitung, in MEW, 1, p. 385.

103
menge»)61, evadere cioè dalla propria universalità formale, catego-
riale per scoprirsi non “tutto” ma “parte in causa”, e che proprio in
quanto parziale può formulare la propria coappartenenza non
speculativa con la politica reale francese. Ma in quel testo ciò che
garantisce la coappartenenza di politica e filosofia è l’essenza
umana, perché solo in tale unità l’uomo in quanto uomo potrà con-
quistare la sua emancipazione. Invece nella Miseria, come nel Ma-
nifesto, la coappartenenza di filosofia e politica non sta più in un
sostrato – l’essenza umana – che è immediatamente anche l’obiet-
tivo per cui lottare. Il concetto che – a partire dalle Tesi su Feuerbach
– esprime la consapevolezza dell’unità di filosofia e politica è quel-
lo di “praxis”, un concetto che non enuncia un obiettivo, bensì de-
limita un terreno dentro cui si danno tutte le alternative possibili,
dal dispotismo alla rivoluzione in tutte le sue forme, da quelle par-
ziali a quella “permanente”.
L’unità di filosofia e politica è dunque per definizione un pro-
cesso aperto, che occorre anzitutto riconoscere in questa sua aper-
tura per poter manovrare adeguatamente dentro di esso, e che per
ciò stesso non offre spazio a scorciatoie o immediatismi di alcun
tipo. Il rapporto tra ideologia e verità va dunque tutto svolto dentro
l’ideologia, dentro la prassi come terreno aperto e percorso dall’an-
tagonismo. Il comunismo rivoluzionario potrà trovare la propria
verità solo pensandosi come parte in lotta, assumendo fino in fondo
quello che più tardi Antonio Labriola felicemente definirà l’«ango-
lo visuale del proletariato»62. Sapersi parte in lotta: la “potenza-veri-
tà” del comunismo critico sta in questo peculiarissimo “sapere”.

61. Ivi, p. 381.


62. «Se la concezione materialistica è venuta da ultimo a suggellare coteste tendenze in
una veduta esplicita e sistematica, gli è perché la sua orientazione è stata determinata
dall’angolo visuale del proletariato» (A. Labriola, Del materialismo storico. Dilucidazione
preliminare, in Id., La concezione materialistica della storia, cit., p. 123). Cfr. anche Rossi,
Da Hegel a Marx, Vol. IV, cit., pp. 301-2.

104
Egemonia e verità:
sulla critica di Laclau a Gramsci

1. Alternative nel moderno


Hegel è per Laclau, almeno in Hegemony and Socialist Strategy1, un
cardine dell’ambivalenza moderna, in quanto scorge il compito
della ragione nella riconquista della razionalità unitaria della sto-
ria grazie alle molteplici forze irrazionali operanti nella realtà
(astuzia della ragione)2. Proviamo ad approfondire questa valuta-
zione. Per Hegel, l’unità della ragione non si dà nell’immediatezza
del «colpo di pistola», ma nel «soffermarsi» dello spirito presso
«l’accidentale ut sic, separato dal proprio àmbito», presso «l’imma-
ne potenza del negativo»: lo spirito «guadagna la sua verità solo a
patto di ritrovare sé nell’assoluta devastazione»3. Ora, precisamen-
te «questo soffermarsi è la magica forza che volge il negativo nel-
l’essere»4, riguadagnando il negativo alla ragione e all’identità di
“verità” e “interezza”5.
Il riconoscimento del negativo come peculiare e insopprimibile
realtà è dunque, in Hegel, il riconoscimento del carattere sempre di-
slocato (sempre “storico”) della realtà stessa: il rapporto tra ragione e
negativo è analogo a quello tra struttura e dislocazione. Ma ciò che
caratterizza la posizione hegeliana non è questo riconoscimento,
che comunque ne fa pienamente una posizione moderna, ma l’esi-

1. Nei contributi successivi la lettura di Hegel si appiattisce, fino a farne una löwithiana
ripresa dell’escatologismo cristiano. Cfr. E. Laclau, New Reflections on the Revolution of
Our Time, Verso, London 1990, pp. 74-5.
2. Cfr. sopratutto E. Laclau, Ch. Mouffe, Hegemony and Socialist Strategy. Towards a Ra-
dical Democratic Politics, Verso, London 20012, pp. 94-5.
3. G. W. F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, in Werke in 20 Bänden, hrsg. v. E. Molden-
hauer u. K. M. Michel, Bd. 3, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1986, pp. 31 e 36 (trad. it. di E.
De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1960, Vol. I, pp. 22 e 26).
4. Ivi, p. 36 (trad. it. cit., I, p. 26).
5. Cfr. ivi, p. 24 (trad. it. cit., I, p. 15).

105
genza sistematica che si sovrappone, fino a identificarsi, con l’esigen-
za di riarticolazione dei rapporti dislocati. Su questa base, la realtà
devastata in cui infuria il negativo viene completamente sostituita da
una realtà razionalmente organizzata, che si differenzia dalla prima
per il fatto che le articolazioni in essa presenti rispecchiano rapporti
(logicamente) veri e non (ideologicamente) falsi6. L’identificazione
di riarticolazione e sistemazione riflette indubbiamente un’esigen-
za di ordine iscritta nella stessa struttura dinamica della modernità,
ma l’interpreta neutralizzando la sfera del negativo mediante la sua
completa riqualificazione, una volta che sia stata riletta alla luce
della ragione. Il passaggio dal disordine all’ordine avviene una volta
sola, perché il sistema, una volta costituito, è autosufficiente.
L’autosufficienza della ragione (la sua sistematicità) è per
Hegel equivalente alla sua consistenza: verità e universalità non
possono essere separate. Questa posizione è diretta contro l’«entu-
siasmo» romantico7; è preoccupata di salvaguardare l’«assoluta
sufficienza a se stesso» dell’individuo8 contro la regressione co-
munitaria; afferma che «la via della scienza è la sua forma intelli-
gibile, via aperta a tutti e per tutti eguale»9 contro la rapsodicità
esoterica dell’intuizione. È insomma una posizione che nasce dal-
l’esigenza di porsi dalla prospettiva della storia reale e non del sog-
gettivo-arbitrario racconto di essa. Come tale, è una posizione pro-
fondamente democratica, perché assume programmaticamente il
punto di vista del popolo come decisivo per la costituzione della ve-
rità. Neutralizzazione della contingenza e sua elevazione a tessuto
della verità sistematica sono dunque movimenti intrecciati e non
conciliati: il sistema è la storia stessa, la contingenza è soppressa,
ma anche resa necessaria.
In questa posizione vi è una duplice ambiguità: quella tra rico-
noscimento del negativo e sua neutralizzazione, e quella tra la filo-
sofia come elaborazione individuale (teorica, sistematica, conclu-
sa) e come elaborazione del punto di vista del popolo, espresso in
forme apparentemente irrazionali, come il mito e la religione10. Se

6. Così aveva impostato Laclau la questione nell’Introduzione a Politics and Ideology in


Marxist Theory. Capitalism – Fascism – Populism, Verso, London 1977, pp. 7-10.
7. Hegel, Phänomenologie des Geistes, in Werke in 20 Bänden, Bd. 3, cit., p. 31 (trad. it. cit.,
I, p. 22).
8. Ivi, p. 29 (trad. it. cit., I, p. 20).
9. Ivi, p. 20 (trad. it. cit., I, p. 10).
10. Sul “mito” (ragione “sensibile”) come punto di indifferenza di filosofia e religione,
cfr. R. Finelli, Mito e critica delle forme. La giovinezza di Hegel (1770-1801), Editori Riuni-
ti, Roma 1996, pp. 124-7 (in riferimento allo Älteste Systemprogramm). Ma si veda, sul
periodo di Tübingen, C. Lacorte, Il primo Hegel, Sansoni, Firenze 1959, p. 307: Hegel

106
nel primo caso la verità non può che essere sistematica, nel secon-
do essa non potrà mai esserlo del tutto: se infatti il riconoscimento
del negativo può accadere solo a partire dalla filosofia come siste-
ma, l’adozione del punto di vista del popolo mette precisamente in
questione lo statuto della filosofia (il suo statuto speculativo), per-
ché fa della filosofia un pensiero che si deve confrontare dall’inter-
no col terreno aperto delle rappresentazioni ideologiche11. Se si ri-
duce l’ambivalenza hegeliana al primo aspetto, cioè alla neutraliz-
zazione della contingenza nella verità del sistema, il recupero della
contingenza nel suo autentico significato non potrà che configurar-
si come indebolimento delle pretese totalizzanti della ragione, e il
post-modernismo, in particolare il decostruzionismo, sarà effetti-
vamente l’unico orizzonte teorico possibile. Viceversa, individuare
nella tensione tra filosofia e ideologia l’autentico nodo irrisolto del
pensiero di Hegel, permette di vedere il modo in cui la dialettica di
disgregazione e riaggregazione propria della modernità lavora den-
tro lo statuto della filosofia; di riconoscere il carattere sempre dislo-
cato della realtà nel carattere sempre dislocato della teoria, nella ten-
sione tra la sua ricerca di autosufficienza e completezza dinnanzi
alla pratica, e il riconoscimento dell’impossibilità di tutto ciò.
Ora, non solamente Hegel non è riducibile alla tensione tra ne-
cessità e contingenza, ma il moderno – nonostante Laclau – non si
riduce a Hegel. Esiste una tradizione moderna, che ha assunto in
pieno l’ambivalenza di filosofia e ideologia, facendo del nesso tra
teoria e pratica il cardine del lavoro della filosofia; una tradizione
che ha preso le mosse dalla disgregazione e dalla perdita di ogni le-
game stabile, e ha tentato di ricostituire la “stabilità” all’interno di
questo spazio in costante destrutturazione, come un paradossale
“universale relativo”12; pensando, di conseguenza, l’ordine e la ve-
rità come costruzione strategica a partire da congiunture specifi-
che e da elementi disparati, non come universale già dato. Questa
è l’impostazione dell’“immanenza-storicismo” moderno, come
viene ricostruita da Gramsci nei Quaderni del carcere in alternativa
all’immanentismo metafisico; e da lui ritrovata in Marx in quanto
venga riletto attraverso Machiavelli13.
«vede nella religione la figura al tempo stesso più evidente in sé, e pedagogicamente
più efficace, della stessa filosofia».
11. Mette in evidenza questo duplice livello – pratico politico e sistematico-speculativo –
del pensiero di Hegel, la ricostruzione di Finelli, Mito e critica delle forme, cit., partic. pp.
345-55.
12. Traggo l’espressione da Laclau, New Reflections, cit., p. 80.
13. Un tentativo di lettura di Gramsci in questa direzione, in fecondo confronto con le
posizioni di Laclau, è N. Badaloni, Il problema dell’immanenza nella filosofia politica di
Antonio Gramsci, Arsenale Editrice, Venezia 1988.

107
2. Immanenza e filosofia della praxis
Per Laclau, tra antagonismo e costituzione di forze politiche vi
è un nesso contingente: la forma concreta che la lotta politica assu-
me, non è conseguenza immanente di una contraddizione strut-
turale. Lo stesso si può dire per Gramsci, ma in un senso un po’
differente da quello che egli gli attribuisce. Secondo Laclau, Gram-
sci è il pensatore dell’egemonia come terreno di unificazione di
forze sul piano dell’ideologia14: “popolo-nazione” “volontà colletti-
va” e “blocco storico” sono i tre grandi concetti, nei quali Gramsci
ha pensato questa unificazione necessariamente indipendente
dai confini di classe15. Questo è vero, ma il riconoscimento teorico
della necessità di una costituzione egemonica delle forze sociali
sta in ciò, che Gramsci chiama “filosofia della praxis”, ed è precisa-
mente la rilettura di Marx attraverso Machiavelli. Per riprendere i
termini utilizzati nel primo capitolo, diremo che la filosofia della
praxis è lo svolgimento coerente della rivoluzione teorica rappre-
sentata dal concetto di praxis come processo costitutivo di verità,
in connessione e non in alternativa con una teoria dell’ideologia. La
contingenza è per Laclau necessariamente legata alla trascenden-
za (reciproca estraneità) degli elementi articolati. Per Gramsci,
essa nasce invece dall’immanenza di essi, in quanto però tale im-
manenza sia stata completamente ridefinita rispetto alla sua acce-
zione metafisica, e tradotta in termini pratici e politici passando
per il concetto di “praxis”. Vi è, di fatto, tutto un aspetto del pensie-
ro di Gramsci, che Laclau non considera, e che si riassume nella
“filosofia della praxis”, secondo la quale la verità è immanente alla
realtà non in quanto sua espressione necessaria (secondo la con-
cezione dell’immanenza metafisica), ma in quanto nella realtà si
costituisce praticamente-ideologicamente, e fonda in questo costi-
tuirsi la propria stessa necessità (che sarà pertanto circostanziale e
“ipotetica”, dipendente cioè dal verificarsi di una condizione).
Laclau obietta a Gramsci che il processo dell’egemonia rimane
in lui di tipo essenzialistico, perché continua a sussistere una
“classe fondamentale” attorno alla quale tutte le altre forze dovreb-
bero raggrupparsi16. Questa obiezione contiene due aspetti distin-
ti: quello relativo al “luogo” attorno al quale aggregare gli altri
gruppi sociali e alla sua unicità, e quello relativo all’“essere” di una
“classe”, antecedentemente alla sua costituzione ideologica. Sul
primo punto si può semplicemente dire che l’esistenza di uno o

14. Cfr. Hegemony and Socialist Strategy, cit. pp. 65-71.


15. Cfr. ivi, pp. 67, 69, 136.
16. Cfr. ivi, pp. 69-70, 137-8.

108
più luoghi, e quali essi siano, non si può decidere a priori, ma sola-
mente sulla base della forma che la conflittualità sociale assume
nel rapporto tra momento nazionale e momento internazionale.
Così, il fatto che la classe operaia nazionale/internazionale è per
Gramsci, nell’Europa post-rivoluzionaria, il punto di riferimento
sociale di un progetto egemonico, è il risultato di un’analisi della
congiuntura e delle prospettive di sviluppo possibili, e non un suo
presupposto17. Sul secondo punto, che mi sembra assai più delica-
to, va detto che in Gramsci si trovano delle ambiguità. Egli infatti
da una parte sostiene – in base alla concezione pratico-politica
della verità – che ogni conoscenza, e quindi anche ogni conoscen-
za di sé, è ideologicamente mediata; dall’altra continua a fare uso
della dicotomia struttura/superstrutture, anche se tentando di as-
segnare alle superstrutture un ruolo assai diverso (“gnoseologi-
co”) da qualsiasi altro marxista18.
Il fatto è che, posta così, la questione diventa assurda: come è
possibile che le “identità” si costituiscano ideologicamente, se vi è
una sfera, l’economia, che si sottrae a questo circuito, svolgendo
una funzione “determinante” su tutte le altre istanze e quindi
anche sulle identità? E qui, si noti bene, dobbiamo distinguere con
Laclau l’importanza determinante che, in una congiuntura preci-
sa, la produzione può avere, dati certi rapporti di forze nazionali e
internazionali, su tutte le sfere della vita; dalla questione relativa
alla «natura e costituzione dello spazio economico»19. Le due que-
stioni sono completamente indipendenti. La prima non è contro-
versa: basti pensare, per fare un esempio, al modo in cui la capaci-
tà produttiva o disponibilità di materie prime può influire sulle
sorti di una guerra o sull’impostazione di una politica di equilibrio
internazionale. Ciò che fa problema, è invece il modo in cui viene
pensato lo spazio economico. E qui, fino a quando si mantiene la
dicotomia struttura/sovrastruttura, sarà inevitabile dire che lo

17. In Hegemony and Socialist Strategy il quadro nazionale dell’antagonismo non è mai
messo in discussione. In New Reflections on the Revolution of Our Time, invece, Laclau si
sofferma sulla crisi dello Stato nazionale, rinviando a una contestuale crisi dello spazio
giuridico internazionale (cfr ivi, pp. 57-9). Gramsci, che aveva affrontato il tema della
crisi dello Stato nazionale già all’inizio degli anni Trenta (cfr. M. Ciliberto, «Cosmopoli-
tismo e Stato nazionale nei “Quaderni del carcere”», in Gramsci e il Novecento, Vol. I, a
cura di G. Vacca con la collaborazione di M. Litri, Carocci, Roma 1999, pp. 157-73), im-
posta in modo completamente diverso il nesso nazionale/internazionale: per lui infat-
ti tra i due piani vi è sempre una combinazione, la cui natura delinea la collocazione re-
lativa di un’egemonia nazionale nei rapporti di forze internazionali.
18. Cfr. supra, pp. 33-34
19. Hegemony and Socialist Strategy, cit., p. 77. Cfr. anche Politics and Ideology, cit., pp.
74-6.

109
spazio dell’economia viene sottratto alla logica della contingenza,
sia pure con tutte le sottigliezze della “determinazione in ultima
istanza”, la cui «ora solitaria [...] non suona mai, né al primo mo-
mento né all’ultimo»20.
Vi è dunque in Gramsci un’incoerenza tra la tesi del carattere
ideologico di ogni identità e il mantenimento della coppia struttu-
ra/superstruttura. Su questo punto le critiche di Laclau sono giu-
stificate, ma solo se si assume staticamente il testo dei Quaderni,
isolando alcune posizioni e facendone l’ultima parola di Gramsci
su di un determinato argomento21. Una lettura filologicamente ac-
corta mostra invece che la coppia struttura/superstrutture viene
da Gramsci gradualmente abbandonata nel corso del tempo, a fa-
vore della nozione di “rapporti di forze”22, e che questo passaggio è
accompagnato da una critica sempre più distruttiva della nozione
di “materialismo storico”23.

3. Rapporti di forze
La rielaborazione del marxismo come filosofia della praxis
spinge verso una riformulazione coerente delle sue nozioni fon-
damentali alla luce della nuova concezione dell’immanenza. La
nozione di “rapporti di forze” è infatti quella che meglio è in grado
di restituire la radicalità dello stacco rispetto a qualsiasi approccio
metafisico alla politica, perché permette di pensare l’unità di storia
come processo e politica come lotta attuale. Nei rapporti di forze,
infatti, i “rapporti sociali” sono già articolati ideologicamente e già
percorsi da una conflittualità politica in qualche modo organizza-
ta. Non vi è una dimensione “oggettiva”, che non sia sempre in
qualche modo anche “soggettiva”, cioè ideologicamente e politica-
mente organizzata in una qualche sistemazione più o meno orga-
nica24. Più precisamente: l’organizzazione di un’egemonia da

20. L. Althusser, Pour Marx, Maspero, Paris 1965, p. 113.


21. Un’argomentata risposta gramsciana a Laclau si trova in P. Ives, «Language, Agen-
cy and Hegemony: A Gramscian Response to Post-Marxism», in Images of Gramsci.
Connections and Contentions in Political Theory and International Relations, ed. by A. Bie-
ler and A. D. Morton, Routledge, London and New York 2006, pp. 61-74.
22. Cfr. G. Cospito, «Struttura e sovrastruttura nei “Quaderni” di Gramsci», in Critica
marxista, XXXVIII (2000), n. 3/4, pp. 98-107; Id., «Struttura-superstruttura», in Le pa-
role di Gramsci. Per un lessico dei Quaderni del carcere, a cura di F. Frosini e G. Liguori,
Carocci, Roma 2004, pp. 227-46. Questa posizione viene ora implicitamente condivi-
sa anche da A. Burgio, Per Gramsci. Crisi e potenza del moderno, DeriveApprodi, Roma
2007, p. 160n.
23. Cfr. F. Frosini, «Immanenza e materialismo storico nei Quaderni del carcere di
Gramsci», in Quaderni materialisti, n. 5 (2006), pp. 149-60.
24. Gli stessi termini – oggettivo, soggettivo, per non dire i rispettivi sostantivi – vanno
sempre virgolettati, perché rappresentano, sulla base di questo approccio, un modo in-

110
parte di un gruppo sociale corrisponderà necessariamente alla su-
bordinazione, e quindi alla “disgregazione” di un altro o di altri, in
quanto assorbire uno o più gruppi sociali dentro una data egemo-
nia significa privarli della loro capacità di iniziativa storica autono-
ma e quindi della loro stessa “esistenza”.
Naturalmente, dentro i rapporti di forze tutte le distinzioni
analitiche saranno possibili: potranno cioè essere distinte le mo-
dalità con le quali, per fare un esempio, un “gruppo sociale” iden-
tificabile, cioè una determinata, storica “borghesia nazionale”, ha
unificato sotto la propria egemonia la massa contadina e lo strato
superiore della classe operaia, specificando come questa sistema-
zione egemonica permetta una certa crescita economica e politi-
che sociali che conducono a un miglioramento delle condizioni di
vita delle masse popolari in generale. Questo non vuole dire che
solo quella unificazione era possibile, ma neanche che qualsiasi
altra unificazione era possibile. L’egemonia (che è il concetto che
esprime l’unità di ideologia e verità nel suo stesso affermarsi) può
avere successo solo se riesce a unire tutti i momenti della vita na-
zionale (e quindi a inserire vantaggiosamente la vita nazionale nel
contesto internazionale) in un progetto capace di controllare tutte
le sue spinte interne, e la leva fondamentale di questo controllo è il
governo della popolazione mediante le politiche sociali, che solo
un certo grado di sviluppo economico rende possibile25.
Il sistema dei rapporti di forze è dunque sempre un certo equi-
librio, di volta in volta variabile, tra l’aspetto conflittuale sempre
presente nel dislivello di potenza di gruppi sociali organizzati, e
l’aspetto coesivo, anch’esso sempre presente nell’esistenza stessa
di “rapporti”, che nel dislivello presuppongono un’eguaglianza di
condizione. Questo equilibrio è efficace, si è detto, solo se riesce a
porsi come unificazione di tutta la vita nazionale nel rapporto con
quella internazionale, e dunque può essere compreso solo se
viene articolato in funzioni distinte, corrispondenti ai diversi

coerente e fuorviante di pensare l’immanenza pratica. Cfr. Q, 1781: «Appare evidente che
mai possono mancare le cosidette condizioni soggettive quando esistano le condizioni
oggettive in quanto si tratta di semplice distinzione di carattere didascalico: pertanto è
nella misura delle forze soggettive e della loro intensità che può vertere <la> discussione,
e quindi nel rapporto dialettico tra le forze soggettive contrastanti. Occorre evitare che la qui-
stione sia posta in termini “intellettualistici” e non storico politici» (cors. mio).
25. Infatti il caso di una dittatura che, per conto di una potenza estera, controlla il con-
flitto sociale in un determinato territorio, e che per questo combina la repressione poli-
tica (prevalente) e l’attuazione (sporadica) di politiche sociali grazie ad adeguati aiuti da
parte di quella potenza, non si può chiamare in nessun modo egemonia, essendo
l’agente di interessi che impediscono precisamente il formarsi di un sistema egemoni-
co nazionale.

111
campi in cui si svolge il conflitto ma anche al diverso grado di uni-
ficazione dei gruppi che vi partecipano. Gramsci delimita tre gran-
di livelli: 1) «rapporto delle forze sociali strettamente legato alla
struttura»26; 2) «“rapporto delle forze” politiche, cioè la valutazione
del grado di omogeneità e di autocoscienza raggiunto dai vari rag-
gruppamenti sociali»27; 3) «“rapporto delle forze militari” che è
quello immediatamente decisivo volta per volta»28. In tutti e tre i
casi abbiamo dei “rapporti di forze” cioè dei rapporti di potere tra le
forze nazionali, disposti su livelli diversi, perché diverso è il modo
nel quale la praxis interviene in essi. Il rapporto di forze legato alla
struttura è la distribuzione degli individui nelle diverse classi – ca-
pitalisti, operai, contadini, percettori di rendita fondiaria – sulla
base dell’organizzazione economica della società. Ma esso non è
questa organizzazione, bensì già un primo «schieramento fonda-
mentale»29, dunque già un fatto “politico”, un primo delinearsi dei
rapporti politici tra le classi. È su questa base che avviene infatti la
disposizione propriamente politica delle forze (il livello 2), che
Gramsci distingue a sua volta in tre sotto-livelli: economico-corpo-
rativo, economico-politico ed egemonico-statale. Su questo piano
avviene la distinzione delle classi in quanto forze politicamente or-
ganizzate in senso specifico, da una prima organizzazione basata
sull’«unità omogenea del gruppo professionale, ma non ancora
del raggruppamento sociale» (fase corporativa, a cui corrispondo-
no le organizzazioni di mestiere), alla «coscienza della solidarietà
d’interessi tra tutti i membri del raggruppamento sociale, ma an-
cora nel campo puramente economico» (fase economico-politica,
a cui corrispondono le organizzazioni sindacali generali e le riven-
dicazioni politiche elementari, come il diritto di voto), alla

coscienza che i proprii interessi «corporativi», nel loro sviluppo attuale e av-
venire, superano la cerchia «corporativa», di raggruppamento economico
cioè, e possono e debbono divenire gli interessi di altri raggruppamenti su-
bordinati; questa è la fase più schiettamente «politica» che segna il netto pas-
saggio dalla pura struttura alle superstrutture complesse, è la fase in cui le
ideologie germinate precedentemente vengono a contatto ed entrano in con-
trasto fino a che una sola di esse, o almeno una sola combinazione di esse,
tende a prevalere, a imporsi, a diffondersi su tutta l’area, determinando oltre
che l’unità economica e politica anche l’unità intellettuale e morale, su un

26. Q, 457, cors. mio.


27. Q, 457-8.
28. Q, 458-9.
29. Q, 457.

112
piano non corporativo, ma universale, di egemonia di un raggruppamento
sociale fondamentale su i raggruppamenti subordinati30.

C’è infine il rapporto delle forze militari, che corrisponde al


modo in cui le diverse classi si dotano di strumenti a vario titolo
“coercitivi”, in grado di consolidare e garantire il proprio potere, o
di rovesciare il potere altrui. Giustamente Gramsci nota che que-
sto livello dei rapporti delle forze è «quello immediatamente deci-
sivo volta per volta», sia perché lo scontro militare può segnare la
vittoria o la sconfitta di un più ampio e duraturo progetto di inno-
vazione o di conservazione sociale; sia perché il livello militare
esprime in maniera concentrata il grado di organizzazione politica
raggiunta dalle classi che si fronteggiano nel terreno dello Stato (lo
scontro militare è infatti una forma di scontro politico).
I rapporti di forze militari sono però, nota Gramsci, solo “im-
mediatamente” decisivi. Il livello decisivo in ultima istanza dei rap-
porti di forze è il secondo, quello propriamente politico. Gramsci
nota che «lo sviluppo storico oscilla continuamente tra il primo e il
terzo momento, con la mediazione del secondo»31. Solo in quanto
le diverse forze sociali sono in grado di elaborare politicamente,
cioè in forma organizzativamente e ideologicamente coerente, il
proprio schieramento e la propria distribuzione in uno schiera-
mento sociale fondamentale, solo in quanto cioè le diverse classi
riescono a organizzarsi, costruendo un’omogeneità ideologica che
le rappresenti a sé stesse come forze attive (che sia cioè “vera” in
senso pratico), esse diventano realmente attive e capaci di essere il
punto in cui la crisi storica si risolve in una direzione o in quella
contraria. Infatti, conclude Gramsci,

se manca questo processo di sviluppo da un momento all’altro nel rapporto di


forze, la situazione rimane inoperosa e possono darsi conclusioni varie: la vit-
toria della vecchia società che si assicura un periodo di «respiro» distruggen-
do fisicamente l’élite avversaria e terrorizzando la riserva, oppure anche la di-
struzione reciproca delle forze in conflitto con l’instaurazione della pace dei
cimiteri sotto la custodia di una sentinella straniera32.

Questa totale apertura di prospettive, che ricorda il passaggio


del Manifesto sul comune tramonto delle classi in lotta33 (e ciò è si-

30. Q, 457-8.
31. Q, 458.
32. Q, 460.
33. MEW, 4, p. 462.

113
gnificativo, in questo contesto), è limitata, si è detto, alle fasi di
“crisi”. Ora, qual è la ragione di questa limitazione? A ben vedere,
lo «schieramento fondamentale» delle forze, quello legato alla
struttura, non può essere in nessun modo inteso come pre-politi-
co. Ciò che infatti, dalla parte delle classi subalterne, è disgregazio-
ne incapace di attingere la stessa unità corporativa, dalla parte
della classe dominante è precisamente l’egemonia realizzata, la
politica nella sua pienezza34. Non è dunque il “rapporto delle
forze” a passare dal sociale, al politico, al militare, ma al contrario
è l’unificazione politica della classe subalterna che, quando c’è (è
in via di compiersi), rimette via via in questione la natura dell’ege-
monia dominante, costringendola a ristrutturarsi “inseguendo” la
fenomenologia della politica dei subalterni, per disattivarne le eve-
nienti potenzialità egemoniche. Non è dunque la “crisi” che rende
possibile l’unificazione delle classi subalterne (come suppone il
materialismo storico), ma viceversa, è questa unificazione (quan-
do c’è), che apre una “crisi”, da intendersi a questo punto non più
come conflitto tra forze produttive e rapporti di produzione, inda-
gabile «fedelmente col metodo delle scienze naturali», per ripren-
dere la Prefazione marxiana del 1859, ma come scontro politico di
egemonie. Non è la dialettica interna alla “base reale” a determina-
re la crisi, ma è la lotta politica sul terreno dei rapporti di forze
(economico-sociali, politici, militari, con temporanea prevalenza
di uno o l’altro dei livelli, ma presenza di tutti quanti) che, a un certo
punto, rende evidente una “crisi” che in realtà è sempre presente in
quanto viene costantemente disattivata in quelli che appaiono come
(ed effettualmente sono) momenti di stabilità strutturale, che
vanno invece a questo punto ridefiniti come le fasi in cui i rapporti
di forze sono completamente sbilanciati, in cui un’egemonia fa piena-
mente “presa” su tutta la società.
L’unico presupposto di una “crisi” è allora la concentrazione di
esperienze dello sfruttamento, e la costruzione progressiva di
un’immaginazione comune capace di unificarle in una lotta che
abbia come propria “verità-potenza” la fine dello sfruttamento.

34. Si noti che la nozione di “mercato determinato” elaborata nel Quaderno 8, esplicite-
rà questo fatto, qui (siamo in 4,38) solo implicito. Il mercato determinato diventa infat-
ti a un certo punto un modo per esprimere il carattere già sempre politicamente regola-
to dell’organizzazione produttiva, e la derivazione da questa regolazione della stessa
“regolarità” che fonda la necessità storica: «Concetto e fatto di “mercato determinato”,
cioè rilevazione che determinate forze sono apparse storicamente, il cui operare si pre-
senta con un certo “automatismo” che consente una certa misura di “previdibilità” [sic!]
e di certezza per le iniziative individuali. “Mercato determinato” pertanto equivale a
dire “determinato rapporto di forze sociali in una determinata struttura dell’apparato di
produzione” garantito da una determinata superstruttura giuridica» (8,128; Q, 1018).

114
Non è poco, evidentemente, e tutta la polemica contro i vari socia-
lismi, che Marx dispiega e affina tra La sacra famiglia e Le lotte di
classe in Francia, testimonia quanto sia complesso il rapporto tra
esperienza dello sfruttamento, prassi politica e teoria di questa
prassi. Ma non è, ripetiamolo, una concezione interna a una teoria
stadiale della storia, dato che comprende al suo interno, come pos-
sibilità egualmente concrete, tanto il rovesciamento dei rapporti
delle forze, quanto l’ulteriore sviluppo del capitalismo. È, insom-
ma, un’esperienza che può verificarsi nella Firenze dei ciompi
come nell’Inghilterra dei levellers come nella Francia dei sansculot-
tes, senza che esse siano commensurabili sul metro di un tempo
oggettivo unitario, in base al quale si possa valutare il loro rispetti-
vo grado di “realismo”. Viceversa, sono queste esperienze che de-
terminano diversamente i tempi (nella fattispecie) italiano, ingle-
se, francese, e la loro reciproca “traducibilità” non annulla questa
fondamentale asincronia, anzi la fonda e la struttura35.

4. Ideologia e traducibilità
Ho tentato di mostrare nei capitoli precedenti che Marx l’esi-
genza forte di una diversa definizione del concetto di ideologia nel
periodo 1845-1850 l’ha sentita, e che nei testi di quel periodo ci
sono numerosi spunti e diversi materiali che vanno in quella dire-
zione. Come si è visto, una funzione particolarmente importante
la svolge su questo piano La miseria della filosofia, dove Marx giun-
ge fin sulla soglia di una fusione del concetto di verità e di ideolo-
gia. Non a caso, Gramsci la definisce, nello stesso testo dedicato ai
“rapporti di forze” sopra citato, «dal punto di vista teorico [...] in
parte [...] l’applicazione e lo svolgimento delle Tesi su Feuerbach»36.
Si potrebbe dire addirittura che la concezione gramsciana del-
l’ideologia è modellata su quella che Marx implicitamente adopera
nella Miseria della filosofia. L’opposizione tra le escogitazioni pe-
dantesche e arbitrarie di un Proudhon e l’ideologia potente, per-
ché capace di rappresentare la funzione progressiva della borghe-

35. Il carattere non lineare e «sincopato» del «tempo storico» alla luce dello storicismo
gramsciano viene sottolineato da R. Bodei, «Gramsci: volontà, egemonia, razionalizza-
zione», in Politica e storia in Gramsci. Atti del convegno internazionale di studi gram-
sciani tenuto a Firenze nei giorni 9-11 dicembre 1977, a cura di F. Ferri, 2 voll., Editori
Riuniti-Istituto Gramsci, Roma 1977-9, Vol. I, pp. 61-98, qui 78, che aggiunge: questo
tempo «ammette diversi livelli di contemporaneità cronologica, di diversi gradi sincro-
nici di sviluppo, che cerca di connettere e ricomporre insieme. In sostanza, lega crisi e
sviluppo, arretratezza e punte avanzate» (ibidem). Sul nesso tra tempo e traducibilità
cfr. P. Thomas, «Althusser, Gramsci e la non contemporaneità del presente», in Critica
marxista, XLIV (2006), n. 6, pp. 71-9.
36. Q, 462.

115
sia nella complessità dei suoi movimenti, di Ricardo, e di entram-
be alla “teoria” comunista, consistente nell’elaborazione e tradu-
zione reciproca di tutte le lotte, senza alcun limite corporativo,
contenuta nella Miseria, profila infatti un ventaglio di accezioni
collegate della nozione di ideologia: da un atteggiamento mera-
mente reattivo e passivo dinnanzi al conflitto, che per questo lo ri-
fiuta (il “lato buono” e il “lato cattivo” di Proudhon); a una “scien-
za” (l’economia politica) che si fa forte del conflitto, in quanto esso
aiuta a saturare la società mediante l’universalizzazione di un
punto di vista particolare, che però rimane tale, semplicemente
“mettendosi al posto” dell’universale; alla teoria comunista, infine,
che si pone come teoria stessa del conflitto (Gramsci dirà: filosofia
della praxis), che eleva cioè il carattere sempre “affetto” dell’ideolo-
gia a principio di conoscenza, in quanto non limita arbitrariamen-
te la funzione delle lotte al conseguimento dell’egemonia di una
classe sulle altre, ma colloca il carattere permanente delle lotte alla
base della stessa teoria, facendo così del conflitto né un elemento
di disturbo, né un veicolo temporaneo di costituzione egemonica37,
ma il terreno permanente della conoscenza. Ora, questa è, a ben ve-
dere, la stessa gradazione tra ideologia arbitraria, ideologia neces-
saria (o ideologia-egemonia) e ideologia-filosofia (o filosofia-ege-
monia) elaborata da Gramsci38, il cui scostamento da Marx in rife-
rimento all’ideologia andrebbe allora precisato, e limitato ad un
certo Marx39. Appoggiandosi alla Miseria della filosofia, Gramsci
può sottrarre il concetto di ideologia all’accezione negativa e priva-

37. Per cui, come scrive Marx, «gli economisti hanno un singolare modo di procedere.
Non esistono per essi che le istituzioni dell’arte e quelle della natura. Le istituzioni del
feudalismo sono istituzioni artificiali, quelle della borghesia sono istituzioni naturali. [...]
Così c’è stata storia, ma ormai non ce n’è più» (Miseria della filosofia. Risposta alla «Filoso-
fia della miseria» di Proudhon, trad. it. di F. Rodano, Editori Riuniti, Roma 19988, p. 78).
38. Gramsci distingue tra ideologia come insieme di «elucubrazioni arbitrarie di deter-
minati individui» (utopia) e ideologia come «soprastruttura necessaria di una determi-
nata struttura», con la precisazione che solo la seconda accezione delimita il terreno in
cui si formano le volontà collettive e quindi avviene la costituzione pratica della verità (7,19;
Q, 868-9). Distingue inoltre tra l’ideologia come «ogni particolare concezione dei gruppi
interni della classe che si propongono di aiutare la risoluzione di problemi immediati e
circoscritti», e la filosofia come «la concezione del mondo che rappresenta la vita intellet-
tuale e morale (catarsi di una determinata vita pratica) di un intero gruppo sociale conce-
pito in movimento e visto quindi non solo nei suoi interessi attuali e immediati, ma
anche in quelli futuri e mediati» (10 I, 10; Q, 1231). Ne risulta una gradazione che va dal-
l’elucubrazione arbitraria individuale, all’elaborazione politica dei problemi di gruppi so-
ciali rispetto a problemi determinati, a questa stessa elaborazione su di un piano di uni-
versalità e di cultura, corrispondente alla messa in relazione dinamica di un determinato
gruppo con tutti gli altri in una prospettiva nazionale e internazionale.
39. Tende giustamente a relativizzare la distanza da Marx, senza però riferimenti alla
Miseria della filosofia, G. Liguori, «Ideologia», in Le parole di Gramsci, cit., pp. 131-49.

116
tiva di “falsa coscienza”40, e riallacciarlo alla verità, identificandolo
con ogni modalità conoscitiva, in quanto sempre interna a determi-
nati rapporti sociali e da questi condizionata41.
In questo modo, Gramsci rende possibile anche una riflessio-
ne rigorosa sullo statuto del marxismo in quanto, al contempo,
“teoria” riflessa e “ideologia” sorta nell’accumularsi delle lotte pro-
letarie e però ad esse irriducibile, secondo una sorta di “doppio
movimento” su quale mi sono soffermato più sopra42. Tale statuto
– questa è la risposta resa possibile dallo spostamento del concetto
di ideologia – non sarà mai considerabile “scienza”, non potrà mai
separarsi del tutto dalle dinamiche conflittuali dell’ideologia43. La
sua forza consisterà anzi nell’infinito compito di riformulare la re-
altà del conflitto dentro l’universalità dei concetti, coinvolgendo i
propri stessi concetti in questo movimento. L’autonomia e vitalità
del marxismo, cioè la sua “verità”, consisterà nell’approfondire cri-
ticamente il proprio carattere di pensiero attraversato dai rapporti di
potere, perché solo aderendo ai rapporti reali, e non solo ad alcuni
di essi, ma al loro complesso, considerato non solo nella sua esi-
stenza attuale, ma in tutte le sue possibilità di sviluppo, il marxi-
smo conquisterà l’efficacia politica, che è ciò che contraddistingue
il “pensiero” dalla mera “teoria”.
Ma lo spostamento impresso da Gramsci alla questione del-
l’ideologia ha conseguenze più generali. Se infatti il pensiero non
potrà più essere pensato indipendentemente dalla trama ideologi-
ca in cui viene espresso, ne seguirà che per essere correttamente
intesa, la questione della verità andrà ripensata come momento
dell’analisi dei sistemi egemonici e delle strutture di potere a cui
essi corrispondono, e che contribuiscono in modo decisivo a pro-
durre e riprodurre. Il concetto di potere andrà allora liberato dalla
riduzione a pura violenza, di cui l’illusionismo della produzione
del consenso è una variante; e nel concreto funzionamento del-
l’egemonia andrà individuato un legame forte con la verità, intesa
come immanenza del pensiero, ovvero, in termini storico-politici,

40. Che è definizione di Engels, non di Marx. Cfr. la lettera a F. Mehring del 14 luglio
1893 (in MEW, 39, p. 97).
41. Per una rapida ed efficace ricostruzione delle diverse accezioni di ideologia da Marx
a Gramsci, cfr. F. Fergnani, «Il concetto di ideologia nel materialismo storico», in Rivi-
sta di filosofia, LVI (1965), n. 2, pp. 195-212. Cfr. anche Id., Marxismo e filosofia contempo-
ranea, Gianni Mangiarotti Editore, Cremona [s. d., ma] 1964, pp. 75-89.
42. Cfr. la conclusione del cap. precedente.
43. Una ricostruzione molto stimolante dle concetto di ideologia, in Marx e oltre Marx,
che mette in evidenza la funzione suturante e mai definitiva dell’ideologia entro i rap-
porti di forze sociali e politici, è quella di I. Garo, L’idéologie ou la pensée embarquée, La fa-
brique éditions, Paris 2009, a cui rinvio.

117
come capacità di una classe di produrre un’unificazione o “blocco”
attorno ad un disegno strategico di “progresso” accettabile come
momento direttivo dalla società intera. L’egemonia è insomma
una fusione reale di subordinazione e liberazione, secondo una
dialettica e una prevalenza di momenti non determinabili, per il
caso concreto, in anticipo e schematizzabili solo entro limiti certi.

5. I limiti dell’egemonia
Si è visto come il «rapporto delle forze sociali» vada riletto
come una struttura di potere, in cui la prostrazione di una forza è
prodotta e condizionata dall’egemonia di un’altra. Ma questa rap-
presentazione non può essere assunta in modo statico: la dinami-
ca dell’egemonia consiste appunto nel graduare i rapporti tra le
forze sociali egemoni e quelle subordinate, in modo da individua-
re per ciascuno di essi un equilibrio ottimale tra forza e consenso,
che renda possibile il massimo possibile di collaborazione di cia-
scuna delle forze dominate al progetto della forza dominante. Si
possono dare numerose combinazioni possibili, ma non tutte po-
tranno essere considerate “egemoniche”. Solo quella combinazio-
ne che realizza l’unificazione delle forze sociali a partire da una
prospettiva di filosofia-egemonia – capacità di individuare la linea
di sviluppo di un gruppo dominante in connessione con quelli dei
gruppi dominati, superando qualsiasi traccia di corporativismo –
può essere definita tale. In questo caso, la disgregazione dei grup-
pi dominati viene spostata a un altro livello, in cui la promozione
sociale (e la connessa mobilitazione) si combina con la spoliticiz-
zazione di massa (dunque con un processo, che controbilancia e
neutralizza il primo, di costante smobilitazione).
Se questo è vero, dove sono i limiti dell’egemonia? Probabil-
mente nel fatto che, in quanto si innesta su di un equilibrio di
forze, che sposta a favore di una (o di un “blocco” guidato da una),
l’egemonia riorganizza politicamente una rete di diseguaglianze in
nome di un principio universale, ma può fare questo solo grazie al
riempimento (che però è sempre una “deformazione”) di quel
principio “ideale” con nuove diseguaglianze. Quello che per La-
clau è il “posto vuoto” al centro del sistema di significazione, il col-
lasso delle differenze, la differenza dell’essere rispetto alle sue de-
terminazioni ontiche, è per Gramsci l’impossibile equazione tra
l’«universalità ideale» – che è la sovversione e la mobilitazione di
massa in nome di una rivendicazione egualitaria universale – e
l’«universalità fittizia» – che è il sistema egemonico regolato, in cui
la libertà e l’emancipazione possono darsi solo entro stabili quadri

118
ideologici di “normalità”44. Questa sproporzione, sempre sorda-
mente presente nella politica moderna45, viene specificamente
messa all’opera nell’egemonia, perché ogni sistema egemonico
poggia sulla combinazione di entrambe, perché ha costantemente
bisogno della mobilitazione e della regolazione, dunque di una
mobilitazione “permanente” che però, arbitrariamente, si arresti a
una forma di regolazione data.
Perfezione del sistema egemonico e sua instabilità non sono
pertanto dei contrari che si escludono reciprocamente: la costruzio-
ne dell’egemonia è la costituzione a “soggettività” di una forza capa-
ce di unificare la società, rappresentandola in un disegno coerente,
razionale; ma questa rappresentazione, proprio perché istituisce
una distinzione di dirigenti e diretti, legittima dei rapporti di subor-
dinazione, che costituiscono come “non-soggettività” delle forze
sociali, proprio nel momento in cui le devono coinvolgere attiva-
mente nel progetto egemonico. Questa incoerenza di fondo (che è
poi la persistenza del conflitto dentro la teoria) è il margine reale in-
superabile dell’egemonia, ciò che ne determina la storicità.
Si può esprimere la cosa anche in altro modo: l’instabilità del-
l’egemonia sta in ciò, che essa sorge positivamente dal riconosci-
mento del fatto che il “soggetto reale” sono i rapporti sociali (as-
senza di gerarchie date in anticipo, dunque estrema produttività
delle dinamiche sociali – in una parola: la modernità), ma è al con-
tempo costretta a ridurre la soggettività a un solo luogo dei rappor-
ti sociali, determinando un’incoerenza costante tra ciò che essa
sollecita e ciò che essa tollera, un’eccedenza costante del soggetto
reale rispetto al soggetto rappresentato.
Vi è dunque, per Gramsci, un’ambivalenza di fondo che percor-
re il rapporto tra società e politica. L’impossibilità di totalizzare la
società, di neutralizzarla in una rappresentazione completa (il
fatto cioè che la “teoria”, se pretende di essere tale, cioè chiusa e
perfetta, sarà necessarimente falsa), è ciò che rende necessaria la
politica in quanto «ontologia del sociale», secondo la felice formu-
lazione di Laclau46. Ma questa formulazione conduce in Gramsci

44. Cfr. E. Balibar, La paura delle masse. Politica e filosofia prima e dopo Marx, trad. it. di
A. Catone, Mimesis, Milano 2001, pp. 238-52.
45. E quindi nella filosofia: si pensi al modo in cui in essa è stata tematizzata la natura
smisurata del desiderio, il carattere incontrollabile delle passioni, la funzionalità politi-
ca della religione. Cfr. R. Bodei, Geometria della passioni. Paura, speranza, felicità: filoso-
fia e uso politico, Feltrinelli, Milano 1991.
46. Cfr. Hegemony and Socialist Strategy, cit., pp. XIII-XIV; New Reflections, cit., p. 61
(«“Politica” è una categoria ontologica: c’è politica, perché c’è sovversione e dislocazio-
ne del sociale»); Emancipation(s), Verso, London 1996, p. 103.

119
non alla trascendenza del politico rispetto al sociale, bensì alla sua
immanenza: solo una teoria che sia pienamente pensiero – che
cioè assuma in modo conseguente il fatto che l’unico soggetto
sono i rapporti sociali – potrà essere anche “politica”.
Qui trova posto, accanto alla verità, anche una nuova concezio-
ne dell’universalità. Essa viene considerata da Laclau da una parte
come alternativa alla contingenza, perché si identifica con l’imma-
nenza metafisica; dall’altra, in senso nuovo e positivo, può solo es-
sere intesa come «l’universalità di un significante vuoto»47, cioè
come estensione della catena equivalenziale e pertanto come
«sempre [...] contaminata da qualche particolarità»48. Le cose appa-
iono diversamente, se l’opposizione tra immanenza e contingen-
za viene a cadere. In questo caso, l’universalità parziale sarà l’ege-
monia stessa, o meglio la tensione che nasce dal dislivello tra
“pensiero” e “teoria”, tra una sollecitazione costante delle forze so-
ciali a collaborare a un progetto di sviluppo, e la loro neutralizza-
zione dinnanzi a un processo presentato come oggettivo e inesora-
bile. Ancora una volta, la chiave di volta della concezione di Gram-
sci sta nello sviluppo della “rivoluzione in permanenza” verso una
coerente “filosofia della praxis”.

47. J. Butler, E. Laclau, S. Zizek, Contingency, Hegemony, Universality. Contemporary


Dialogues on the Left, Verso, London 2000, p. 304.
48. Ibidem.

120
Indice dei nomi*

Adamo, Sergia, 26n. Borgius, W., 65n.


Adoratskij, Vladimir V., 23. Bravo, Gian Mario, 69n.
Althusser, Louis, 7, 66 e n., 99n., Bucharin, Nikolaj I., 22n.
101n., 110n. Buci-Glucksmann, Christine, 32n.
Annenkov, P. W., 94n., 96n., 97n. Burchell, Graham, 68n.
Badaloni, Nicola, 43n., 92n., 107n. Burgio, Alberto, 110n.
Balibar, Etienne, 41n., 50n., 67n., Butler, Judith, 40n., 120n.
98n., 119n. Cacciatore, Giuseppe, 75n.
Ballanche, Pierre-Simon, 73n. Cantimori Mezzomonti, Emma,
Baratta, Giorgio, 36n. 47n., 71n.
Bauer, Bruno, 37n., 38n., 47, 92. Caprioglio, Sergio, 31n.
Bauer, Edgar, 47. Capuzzo, Paolo, 26n.
Bauer, Otto, 65. Cavaignac, Louis-Eugène, 81.
Bensussan, Gérard, 95n. Cerroni, Umberto, 21n.
Bernstein, Eduard, 65. Cesa, Claudio, 58n.
Bieler, Andreas, 110n. Ciliberto, Michele, 109n.
Bismarck, Otto von, 77n. Consiglio, Franco, 58n.
Blanqui, Auguste, 74 e n., 80. Cornu, Auguste, 74n., 76n.
Bloch, Joseph, 65n. Cospito, Giuseppe, 50n., 110n.
Bobbio, Norberto, 92n. Cowling, Mark, 45n., 88n.
Bodei, Remo, 115n., 119n. Critchley, Simon, 26n.
Bolaffi, Angelo, 53n. Croce, Benedetto, 41n., 48 e n.
Bolaffi, Guido, 101n. D’Hondt, Jacques, 58n.
Bonaparte, Louis, 45, 64, 67, 77n., Dal Pra, Mario, 92n., 95n., 97n.,
86-9. 101n.
Bonaparte, Napoleone, 87, 88. Darwin, Charles, 23, 30.
Bongiovanni, Bruno, 75n., 89n. Della Volpe, Galvano, 92n., 98n.
Borgia, Cesare, 81. Derrida, Jacques, 56n.

* Per la frequenza con la quale compaiono, i nomi Antonio Gramsci e Karl Marx non
sono registrati in questo indice.

123
Deutscher, Isaac, 33n. Illuminati, Augusto, 89n.
Duso, Giuseppe, 72n. Ives, Peter, 110n.
Engels, Friedrich, 7, 15, 22 e n., 23 e Izzo, Francesca, 33n.
n., 24, 30, 40n., 47n., 48n., Janvier, Antoine, 74n.
60n., 64n., 65 e n., 67n., 69, Kanoussi, Dora, 33n.
71n., 72n., 73, 74n., 76n., 77n., Kant, Immanuel, 7, 48n., 50 e n.,
78 e n., 79n., 90n., 91, 92 e n., 58n.
95n., 100n., 103n., 117n. Kautsky, Karl, 65, 66, 91.
Feher, Ferenc, 75n. Korsch, Karl, 22n., 23, 66 e n.
Fergnani, Franco, 117n. Kouvélakis, Eustache, 41n.
Ferri, Franco, 115n. Labica, Georges, 51n., 58n., 92n.,
Feuerbach, Ludwig, 22, 51 e n., 52 e 94n., 95n., 98n.
n., 53 e n., 54, 55 e n., 58, 62, 95. Labriola, Antonio, 9, 65, 66 e n.,
Finelli, Roberto, 54n., 91n., 92n., 69n., 103 e n., 104 e n.
106n., 107n. Laclau, Ernesto, 26, 27, 29n., 36n.,
Fineschi, Roberto, 92n. 37n., 40n., 41n., 43n., 66n.,
Förder, Herwig, 92n., 94n. 69n., 88n., 105-20.
Forenza, Eleonora, 24n. Lacorte, Carmelo, 106n.
Foucault, Michel, 68n. Lefebvre, Henri, 92n.
Francioni, Gianni, 50n. Legrand, Stéphane, 74n.
Frosini, Fabio, 33n., 41n., 62n., Lenin, Nikolaj, pseudonimo di
110n. Vladimir I. Ul’janov, 12, 22n.,
Garin, Eugenio, 24 e n., 66n., 103n. 23, 31n., 34n., 66.
Garo, Isabelle, 117n. Leske, Carl W., 65n.
Gentile, Giovanni, 43. Liguori, Guido, 24n., 36n., 71n.,
Gerratana, Valentino, 24n., 35n. 110n., 116n.
Giasi, Francesco, 33n. Litri, Marina, 109n.
Gigot, Philippe-Charles, 92n. Lomonaco, Fabrizio, 75n.
Goethe, Johann W., 50, 60 e n. Löwith, Karl, 51n.
Göschel, Carl F., 51n. Lukács, György, 23, 53n., 56n.
Grimm, Jacob, 81n. Luporini, Cesare, 41n.
Grimm, Wilhelm, 81n. Macherey, Pierre, 67n.
Groethuysen, Bernard, 41n. Machiavelli, Niccolò, 73n., 81, 107,
Gründer, Karlfried, 51n. 108.
Guastini, Riccardo, 74n. Maenchen-Helfen, O., 58n., 74n.,
Guizot, François, 67, 88. 76n., 92n.
Haller Ludwig von, 57n. Mandel, Ernest, 91 e n.
Hegel, Georg W. F., 23, 26, 31, 41, Marchart, Oliver, 26n.
48, 50, 51 e n., 55, 57n., 58 e n., Martin, James, 45n., 88n.
59, 61, 62, 95n., 105 e n., 106 e Mehring, Franz, 91 e n., 92n., 117n.
n., 107 e n. Michel, Karl Markus, 51n., 105n.
Hess, Moses, 47, 48. Misuraca, Pasquale, 36n.
Hobsbawm, Eric J., 42n. Moldenhauer, Eva, 51n., 105n.
Höle, Thomas, 91n. Molnár, Erik, 69n., 71n., 74n., 77n.,
Hyppolite, Jean, 58n. 78n.
Iacono, Alfonso M., 98n. Morton, Adam D., 110n.

124
Mouffe, Chantal, 29n., 36n., 66n., Thomas, Peter, 41n., 115n.
105n. Tomba, Massimiliano, 37n., 93n.
Muscetta, Carlo, 43n. Tosel, André, 36n., 41n.
Nikolaevskij, Boris I., 58n., 74n., Trockij, Lev D., pseudonimo di Lev
76n., 92n. D. Bronstein, 33 e n.
Oeing-Hanhoff, Ludger, 51n. Tronti, Mario, 41n.
Orco, Ramirro de, 81. Vacca, Giuseppe, 26n., 32n., 109n.
Paladini Musitelli, Marina, 33n., Vinale, Adriano, 62n.
78n. Violi, Carlo, 92n.
Parvus, Alexander, pseudonimo di Voza, Pasquale, 24n., 71n.
Israel L. Helphand, 32, 33 e n. Weischedel, Wilhelm, 48n.
Pelger, Hans, 23n. Weydemeyer, Joseph, 23n., 67n.
Perini, Leandro, 67n., 77n., 78n., +i,ek, Slavoj, 40n., 120n.
101n., 102n.
Petronio, Giuseppe, 33n.
Pfeifer, Wolfgang, 82n.
Plechanov Georgij V., 65.
Ragionieri, Ernesto, 91n.
Rametta, Gaetano, 72n.
Rancière, Jacques, 9, 72n., 73n.
Razeto Migliaro, Luis, 36n.
Reichelt, Helmut, 51n., 64n.
Renault, Emmanuel, 41n., 93n.
Ricardo, David, 97, 102, 116.
Ritter, Joachim, 51n.
Rjazanov, David B., 22n., 23.
Robespierre, Maximilien, 58n.
Rojahn, J., 95n.
Rosdolsky, Roman, 64n.
Rossanda, Rossana, 71n.
Rossi, Angelo, 32n.
Rossi, Mario, 91n., 92n., 94n., 97n.,
98n., 99n., 104n.
Rossi-Landi, Ferruccio, 59n., 61n.
Sakai, Naoki, 41n.
Santucci, Antonio A., 22n.
Schirru, Giancarlo, 26n.
Schmidt, Raymund, 50n.
Schweitzer, J. B. von, 93n., 94n.
Smith, Adam, 102.
Solomon, Jon, 41n.
Spinoza, Baruch, 26.
Sweezy, Paul M., 101n.
Taubert, Inge, 23n.
Texier, Jacques, 71n.
Thierry, Augustin, 67, 68n.

125
Indice

Prefazione
di Augusto Illuminati 7

Da Gramsci a Marx

Introduzione 21

Dalla filosofia di Marx alla filosofia della praxis 29

Immanenza e traducibilità: Marx 1844-1845 47

Il posto della politica: da Le lotte di classe in Francia


al 18 Brumaio di Luigi Bonaparte 63

Verità e ideologia nella Miseria della filosofia 91

Egemonia e verità: sulla critica di Laclau a Gramsci 105


Finito di stampare nel mese di ottobre 2009
presso la tipografia Iacobelli – Pavona (Roma)
per conto delle edizioni DeriveApprodi

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