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Capitolo 1.
La psiche mette in scena la propria sofferenza tramite il corpo, esibendola con un malessere fisico. Questa
sofferenza diventa degna di attenzione solo quando diventa una vera e propria minaccia per il soggetto e la
sua efficienza. Queste malattie dell'anima nel passato colpivano tassativamente le donne. Le crisi isteriche
femminili erano caratterizzate da contratture e posture e anche nuove drammatizzazioni caratterizzate da
ripetizioni, infatti nel XX secolo l'isteria inizia a sgretolarsi in patologie diverse, ciascuna caratterizzata dalla
ripetizione dello stesso fotogramma di scena. Tra queste patologie troviamo espressione sintomatologiche
riconducibili tutte all'isteria; in cui è il corpo che prende la parola al fine di tradurre il malessere della psiche.
La medicina egizia vede come causa dell'isteria l'organo genitale femminile, concepito come animato e
dotato di propria volontà. Tale utero se inquieto tenderebbe a spostarsi nel corpo alla ricerca di quiete. La
cura consiste nel convincere l'organo a rientrare nella sua sede.
Tale descrizione di isteria si ritrova nelle epoche avvenire e, secondo il mito, sembra aver generato la nascita
della psichiatria. Fu Melampo a parlare di follia delle donne derivante dall'utero intossicato per mancanza di
orgasmo dando origine all’idea di una follia femminile legata alla mancanza di una normale vita sessuale.
Nell'antica Grecia una cura per la “malinconia dell'utero” era l'orgia sessuale.
Sarà Ippocrate, (V secolo a.C.) intrecciando la riflessione di carattere biologico con quella relazionale e
sociale, ad affermare che la cura sessuale è bene che sia realizzata nell'ambito coniugale, in quanto orge
menadiche possono andare a incrementare l'eccitazione.
Simile la visione di Galeno, che sposta l'attenzione su vagina e clitoride sostenendo che in questi organi si
accumulerebbero le sostanze tossiche non espulse con l'orgasmo. La cura consiste nel liberarsi di queste
sostanze tramite un’attività sessuale continuativa.
Nel Medioevo la strega viene considerata incarnazione dell'isterica e per questo affidata all'esorcista e
all'inquisitore. Nel suo corpo si palesano i sintomi dell'isteria che in questo periodo vengono trasformati in
espressione di impossessamento demoniaco. Al tempo stesso alcuni di questi segni saranno indice di ascesi
(leggerezza legata all'astenersi dal cibo).
La persecuzione delle streghe viene sostituita dall'interazione degli e emarginati (e quindi i folli) in asili al
fine di proteggerli ma al tempo stesso separarli dal resto del mondo (XVII-XVIII). Saranno periodi segnati dal
nascondimento dell'isteria.
Durante la Rivoluzione Francese ci sarà un editto che consentirà di poter puntare l'attenzione sulle donne
affette da isteria. Nel settecento saranno rinchiuse più di settemila donne nella clinica di Charcot, ed è
proprio in questo periodo che si palesa il legame che c'è tra la pazzia femminile e l'appartenenza di classe;
infatti la storia dell'isteria vede un diverso coinvolgimento di classi sociali nelle differenti epoche storiche:
nel Medioevo la donna povera incarnava la strega e poi nel Settecento era la donna reclusa negli asili per
diseredati. Arriviamo poi, con Charcot e Freud, all’identificazione dell'isterica nella donna agiata.
Questo legame sociale andrà perdendosi nell'Ottocento, anno in cui si stabiliscono altre due grandi
patologie psichiche di genere: nevrastenia per i maschi e isteria per le femmine. Con il termine nevrastenia
si indicava lo stato di affaticamento psicofisico causato da un problema reale. L'isteria femminile invece è
priva di riconoscimento causale e ancorata alla teatralità della manifestazione dei sintomi fisici e all'idea di
finzione. Rappresenta quindi una realtà dettata dall'inadeguatezza della sfera sessuale, in cui l'utero è posto
al centro dell'attenzione. Platone ricollegandosi a questo discorso definisce la vulva come un animale
desideroso di procreare che si addolora se non soddisfatto e che unito all'utero in cerca di quiete va a
generare tutti i sintomi legati all'isteria. La donna isterica è selvaggia, si mostra scontrosa e nega, ma al
tempo stesso coltiva, il desiderio di coito. Cambiamento fondamentale si ha nel 1859 con Briquet, primo
medico che spostò l'attenzione dall'utero alla sfera cerebrale. Attraverso uno studio su circa 400 pazienti si
oppose al binomio sesso-isteria dimostrando che le crisi isteriche erano quasi completamente assenti tra le
vergini e molto frequenti tra le prostitute, in questo modo l'immagine della donna isterica non coincideva
più con l'amazzone desiderosa ma bensì con quella di una donna che chiede di essere protetta e consolata,
desiderata e amata. Non è importane che sia realizzato il suo desiderio sessuale ma che sia
contraccambiato, per l'isterica è importante riuscire a risvegliare il desiderio dell'altro e di trarne esistenza.
Briquet sostiene quindi che le zone del sistema nervoso che generano emozioni sono scosse da altre più
violente andando a creare malinconia e tristezza.
Nel 1887 Charcot verifica che tramite ipnosi è possibile causare una crisi isterica, dimostrando che l'isteria
non ha una radice fisiologica ma esclusivamente psichica. Considera l'isteria come una patologia derivante
da un trauma, non necessariamente di natura sessuale. Parla anche dei casi maschili dando nuova
interpretazione; infatti si passa dal cane rabbioso che cerca quiete nel nostro corpo (utero), all'idea di un
corpo estraneo che può prendere il sopravvento causando dei danni alla personalità. Nonostante
l'allontanamento che si ha con Charcot dalla visione uterocentrica all'epoca c'era sempre qualche medico
che prescriveva pratiche quasi “punitive, come la tecnica del gavage (Virginia Wolf) e la terapia dei bagni.
Nel 1889 Janet, medico operante alla Salpetriere propone una nuova interpretazione dell'isteria parlando di
idee-fisse. I soggetti malati sono vittime di queste idee-fisse, intese come riproponimento di un evento
traumatico. Esse possono facilmente insediarsi in un'identità debole caratterizzata dalla dissociazione tra
attività di memoria rispetto a eventi particolarmente traumatici e dal possibile riemergere di ciascuno.
Definisce i soggetti isterici come prigionieri di idee fisse che li rendono incapaci di sintetizzare le esperienze
emozionali e propone una cura che agisca sia sulla dimensione emozionale che su quella razionale,
stimolando la riflessione cognitiva sulla propria esperienza.
Per affrontare nel modo giusto la tematica dell'isteria è necessario usare un approccio integrato tra le varie
discipline che riguardano la costruzione del Sé infatti tale patologia si collega con la perdita del sé, con la
possessione e con il legame tra pazzia e dimensione femminile. In tutto ciò è fondamentale tenere conto
delle diverse cornici storiche e antropologiche in cui si presenta.
Possiamo anche affermare che la crisi isterica ha dei tratti in comune con quella epilettica, sarà Freud
stesso a considerare la forma patologica particolare dell'isteria-epilessia. Essa fa riferimento a due forme di
epilessia; una di carattere organico e una di carattere affettivo all’interno del quale la componente
epilettica rappresenterebbe un sintomo dell'isteria (mimesi isterica dell'epilessia). Cio significa che secondo
Freud l'epilessia di carattere affettivo rappresenta l'espressione più autentica dello psichismo. Ma è bene
sottolineare che epilessie e istero-epilessia non possono essere concepite come un'unica malattia: la prima
è una malattia in cui i tratti isterici sono secondari, la seconda è una vera e propria manifestazione isterica
che mima gli accessi di tipo epilettico
Sarà Juliet Mitchell a sostenere la predominanza della schizofrenia, che ha soppiantato l’isteria perché
risultava indicibile l'isteria maschile in quanto troppo allusiva all'ambivalenza sessuale.
Dalla prima guerra mondiale la storia della psichiatria presenta una rottura: i sopravvissuti al conflitto
presentano spesso i sintomi propri dell'isteria. Ricoverati in strutture apposite, presentavano
un’identificazione profonda con l'altro simile morto → si tratta dell'identificazione con qualcosa che è
andato perduto e dalla quale scaturisce il senso di colpa che si accompagna a ogni lutto. Si verifica così una
sovrapposizione di corpi → la parti del corpo che dolgono corrispondono alle parti colpite dell'amico morto.
Diventa evidente l'esistenza di forme patologiche esistenti anche tra i maschi. Ma la terminologia legata
all'isteria non fu utilizzata, furono adottate espressioni come “nevrosi da stress” o “nevrosi da paura”
CASO DORA
Caso come ripensamento rispetto a una sconfitta, essa è legata all'indicibilità del desiderio femminile.
Questo caso mette in luce il ruolo del transfert e la dimensione del trauma infantile all'origine della
patologia. A questo proposito Freud afferma come il trauma all’origine dell'isteria possa anche non
corrispondere a un’esperienza reale ma anche solo alla fantasia. Dora mette in luce il ruolo del transfert e la
dimensione fantasmatica del trauma infantile all'origine dell'isteria.
Capitolo 2.
Dalla centralità del conflitto alle patologie d'identità
Agli esordi l'origine del conflitto interiore era di carattere sessuale. Al tempo, a prescindere da ogni valore
etico o religioso, ogni uomo di un certo status sociale poteva superare il conflitto solo praticando legami
affettivi” paralleli”: famiglia da una parte, e legame appassionano con una donna di tutt'altra natura
dall'altra. Si trattava di una donna sensuale e raffinata il cui valore poteva essere misurato in base alla sua
capacità di rovinare economicamente l'uomo che ne diveniva protettore.
Si fronteggiano quindi due immagini opposte della donna, ed è qui che si presenta l'isteria in quanto essa
drammatizza l'impossibilità di scegliere davanti a due prescrizioni opposte e inconciliabili: mostrarsi schiava
e pudica ma allo stesso tempo capace di godere del mondo e del proprio corpo.
Con il passare del tempo le vicissitudini storiche hanno reso obsoleti i sensi di colpa legati a problematiche
sessuali, infatti i movimenti sociali del tempo hanno fatto sì che si ritornasse alla lettura tradizionale dei
rapporti affettivi e del legame tra amore e sessualità, abbandonando l'ipocrisia della doppia morale. È qui
che va diffondendosi una nuova concezione della sessualità, che si trasforma da elemento custodito con
vergogna a una modalità comunicativa degli affetti non necessariamente legata alla procreazione. Si
trasforma anche il rapporto di coppia: si capisce di poter avere all'interno di esso una vasta gamma di
momenti di comunicazione corporea un tempo banditi, la sessualità viene concepita come il desiderio di
dare e ricevere tenerezza e sentirsi vicini anche a livello corporeo. In questo senso il corpo diventa un mezzo
espressivo. Inoltre si parla di innamoramento come base della relazione coniugale che pone l'uomo e la
donna su un piano di maggiore parità, è così che la dimensione sessuale si svincola dalla categoria del senso
di colpa.
Il sentimento del senso di colpa cambia ma non scompare, semplicemente ha una causa scatenante diversa:
l'insuccesso → apparire seriali, non degni di nota. L'idea di vergogna, che prende il posto della colpa, viene
quindi ribaltata: in passato essa era originata dall'esibirsi nella propria nudità, oggi invece è originata dal
non farlo, dal non essere notati, si trasforma da una vergogna profonda e intima a una superficiale legata a
un’immagine svilita di sé.
In tale contesto il senso di colpa ha perso la sua cittadinanza, ci si può riferire sia a quello legato alla
sessualità ma anche a quello legato all'infelicità altrui. Inoltre la categoria della colpa ha lasciato il posto a
un'altra paura che è correlata all'immagine ideale di uomini e donne propugnata oggi. Si tratta della paura
di mostrarci come siamo veramente; deboli, limitati, imperfetti e persone non realizzate. Questo vale sia per
gli uomini che per le donne, in quanto entrambi sono chiamati a mostrare opposte disponibilità e
competenze: devono spendersi nel sociale coltivando amicizie e gestendo le relazioni familiari, senza
indulgere a sentimenti considerati negativi.
Ci si vergogna inoltre di mostrare la propria fragilità: in passato questo timore riguardava esclusivamente gli
uomini in quanto le donne erano costrette a esternare le proprie debolezze, ma oggi nelle aspettative sociali
le donne sono assimilate agli uomini (hanno ottenuto il diritto di mostrare debolezza e sconforto)
Tutti i disturbi di personalità rappresentano un meccanismo difensivo che portano il soggetto a sentirsi
soddisfatto così com'è; ciò porta alla resistenza ad ogni tipo di cura e terapia. Si collocano tra le nevrosi e le
psicosi, condividendo con le prime la conservazione del senso di realtà e con le seconde il tipo primitivo di
angosce. Il senso di realtà impedisce la percezione di una condizione come patologica → differenza tra
normalità e patologia legata a livelli di disfunzione sociale che vengono confrontati con le autovalutazioni
del soggetto in relazione al contesto, occorre tenere contro degli ambiti sociali e storico culturali, all'interno
dei quali si crea la diagnosi.
Tra i diversi disturbi di personalità quello di tipo narcisistico è il più difficile da individuare, perché viviamo in
un contesto politico-sociale improntato al narcisismo e che sembra talvolta incoraggiare i segni clinici di
questa patologia. [mito di narciso] Narciso innamorandosi della propria immagine e non riuscendo a vedere
altro, muore tentando di ricreare l'illusione, sperimentata all'inizio della vita, di fusionalità protettiva,
assenza di bisogni etc. (?). Il narcisismo patologico può essere letto anche come un'intolleranza rispetto al
tempo che passa inesorabile e che crea il cambiamento della propria immagine → le persone narcisiste
provano una rottura depressiva in età avanzata. Esso contempera sia la patologia sia la normalità, può
esprimersi patologicamente con il voler ricreare una situazione di autorefenzialità relazionale, intrisa di
sentimenti di persecutorietà nei confronti di chi può danneggiarla. Infine può esprimersi fisiologicamente
assumendo l'aspetto della ricerca di conferma e sicurezza del proprio valore mantenendo una propria
autostima. Quest'ultimo rappresenta un aspetto sano, ma soprattutto fondamentale per affrontare
l'esistenza, consiste nella capacità di essere soddisfatti di sé in relazione a quanto realmente ci appartiene.
Ci sono fisiologiche accentuazioni del narcisismo in determinati momenti della nostra vita, si può osservare
a partire dall'età adolescenziale, riflettendo sul rapporto adolescenti-consumismo.
L'adolescenza non deve essere concepita come fase di preparazione all'età adulta ma bensì come processo
di separazione-individuazione, che avviene già nei primi tre anni di vita come percorso di conquista
all'autonomia, e alla nascita psichica che si conclude con la capacità di differenziare l'Io dal non Io. Tale
processo è destinato a ripetersi in un'età della vita che prevede una transizione; si parla di età di confine che
è appunto l'adolescenza.
Quest'ultima si realizza attraverso una seconda nascita psicofisica, e quindi necessita di un secondo
processo di separazione-individuazione. In questa fase si susseguono una serie di cambiamenti sia nel corpo
che nel modo di interpretare il mondo, il soggetto adolescente si muove in oscillazione tra il desiderio di
autonomia e la tentazione di regredire nell'alveo protettivo della famiglia.
Tale transizione può essere “catastrofica” cioè delineata da un incessante alternarsi di perdite acquisizioni.
Ciò può essere espresso come bipolarità conflittuale: conflitto tra sicurezza (richiami regressivi) e libertà
(desideri di istanze nuove), la sicurezza ha però come prezzo la prigionia generata dal confondersi con
l'altro, mentre la libertà può portare all'individuazione estrema fino all'incapacità relazionale. L'equilibrio
psicofisico è dato dalla capacità di trovare un equilibrio tra queste due istanze. Tale conflitto si lega le
problematiche del narcisismo e del consumismo:
In fase adolescenziale il corpo (come il cibo) è usato come strumento comunicativo per traslato, tramite
esperienze manifesta il conflitto tra destino e libertà, che si concretizza con il bisogno di affermare la propria
individualità. Il vuoto generato dalla difficoltà di sostituirle vecchie sicurezze con certezze nuove
contribuisce a incrementare l'immagine grandiosa del se che caratterizza l'adolescenza, tale immagine è
generata dal connubio tra la tentazione di assaporare l'onnipotenza della fusionalità all'interno del nucleo
protettivo familiare e gli slanci della mente che possono abbracciare molte possibilità. Si genera così la
possibile base del disturbo narcisistico. Per far sì che tale disturbo diventi patologico occorre un aumento
della discrepanza tra la realtà e la grandiosa rappresentazione del Se. La conseguenza dell'aumento della
discrepanza è la solitudine del soggetto in virtù delle aspettative irrealistiche, della sospettosità e della
diffidenza verso il punto di vita dell'altro.
Il disturbo narcisistico possiede determinate caratteristiche della personalità quali il senso di un Se
grandioso, indifferenza nei confronti delle altre persone, bisogno impagabile di essere al centro
dell'ammirazione e di essere socialmente riconosciuti. Il soggetto si trova prigioniero di fantasie di successo
e di riconoscimento sociale, il sentirsi speciale determina in lui la convinzione che solo persone altrettanto
speciali e superiori rispetto alla massa degli individui possano comprenderlo e frequentarlo. Diventa
dipendente dalle conferme e dagli altri che sono utilizzati come strumenti per raggiungere i propri scopi.
Ovviamente ogni successo attribuito ad altri diventa motivo di invidia, proiettando sugli oggetti di tale
invidia il proprio sentimento. Tutto ciò si traduce nell'impossibilità di sentimenti e legami empatici e nel far
proprio l'atteggiamento dell'ipercritica, riversato su punti di vista diversi dai propri.
Non tutti i soggetti patologici di esplicitano come grandiosi, molti esaltano invece l'aspetto della fragilità e
dipendenza dagli altri, essi presentato come sintomi una suscettibilità esasperata, eccesso di vigilanza e il
senso di vergogna rispetto ai propri limiti. Tale corte sintomatologico convive con gli stessi sogni e fantasie
di grandezza del narcisista grandioso, nel secondo tipo il contrasto tra i sogni irrealistici di successo e il
sentimento di vergogna si fa rilevante. Cio è dovuto alle vicissitudini dell'attaccamento e alla carenza di
empatia nei loro confronti nel momento di strutturazione dell'identità. Ci sono delle affinità con il disturbo
borderline, hanno in comune aspetti di onnipotenza e idealizzazione del se, e sentimenti di invidia misti al
desiderio di controllo maniacale della realtà, ma al livello comportamentale il disturbo narcisistico può
assumere diverse forme di difesa in relazione a un assetto patologico fragile formatosi come reazione a una
ferita narcisistica insanata.
Considerato come una delle patologie più difficili da curare, la sua consistenza non è del tutto verificabile
perché nelle forme meno gravi può essere diagnosticato correttamente. Molto spesso questi soggetti
vengono diagnosticati come bipolari, viene attribuita a bipolarità umorale l'alternanza tra la ricerca
insaziabile di oggetti e persone da “consumare” (?) e il senso incolmabile di vuoto, tipica del disturbo
borderline, si crea un sentimento che è la conseguenza dell'impossibilità di soddisfare il proprio bisogno
relazionale di conferma.
Il disturbo in questione può evidenziarsi nella seconda infanzia o nell'adolescenza tramite problematiche
relazionali e una distorsione della realtà accompagnata da eccessiva produzione di ansia. I soggetti
borderline preadolescenti sono caratterizzati da un'incapacità di tollerare le frustrazioni, dalla forte
dipendenza e dalla comparsa di paure abbandoniche molto intense che tende a evitare.
Per diagnosticare il disturbo borderline si fa riferimento a cinque tipologie di segni:
• 1. Paura esasperata della separazione e dell'abbandono che può essere reale o fantasticato ma
comunque talmente intenso da risultare disruttivo come un abbandono reale.
• 2. Alternanza tra svalutazione e idealizzazione dell'altro che colora i rapporti di instabilità e
conflittualità destinata a tradursi in fragilità dell’immagine di sé
• 3. carattere impulsivo che si evidenzia nella compulsione a comprare beni inutili (Tiger rovina di
tutti), nel vivere rapporti sessuali promiscui e numerosi, o nella dipendenza da sostanze.
• 4. Aggressività e tendenza a distruggere che si traducono in atteggiamenti di minaccia
• 5. Continua alternanza tra irritabilità e ansia con la tristezza, rapidi passaggi dalla coloritura euforica
a quella depressiva. La rabbia compare all’improvviso e ai suoi eccessi si alternano sentimenti di
noia.
Una caratteristica fondamentale di questi soggetti è l'instabilità delle relazioni con gli altri e conseguente
instabilità di sé tra idealizzazione e svalutazione. Tale alternanza nel disturbo narcisistico maschera una
insicurezza autosvalutativa mentre in questo caso in due aspetti si presentano completamente scissi l'uno
dall'altro.
Attorno a un soggetto patologico c’è un nucleo familiare connotato dagli opposti elementi della pseudo
coesione e della fuga → PAG 68-69 non ci ho capito una mazza
Il 90% dei soggetti borderline intraprende azioni autodistruttive di diversa natura, e tra tutte queste pratiche
la più densa di metafore è quella del tagliarsi. Si tratta di un'azione sempre presente che trova spazio anche
nelle produzioni artistiche quali la body art: il corpo viene vendicato come forma di creazione, tutto è messo
in evidenza, dissociato dall'individuo e trasformato in materia prima dell'opera d'arte. I tagli di Gina Pane
sembravano alludere alla materialità della sofferenza e la possibilità di attraversarla elevandosi
spiritualmente.
Le patiche dell'autodistruzione sono molto frequenti all'interno delle carceri: in un luogo in cui si è
espropriati della propria identità tagliarsi diventa come una dichiarazione di esistenza. L'atto di infliggersi
ferite può essere letto come una comunicazione estrema usata al posto della parola, il simbolismo del taglio
è legato all'apertura che si pratica tra mondo esterno e mondo interno, la cui transizione risulta dolorosa.
In relazionale al contesto, tagliarsi può assumere il senso di una punizione o all'opposto di una purificazione,
è ricerca del dolore in una parte del corpo per evitare il dolore più grande del suo annullamento attraverso
la morte. Nel paziente borderline l'autolesionismo costituisce un modo diretto di comunicare e esprimersi,
essi passano dalla tensione crescente del desiderio di farsi male al sollievo che sperimentano subito dopo. Si
tratta di un'azione che vedono come quotidiana, tesa a sedare l'ansia dell'essere abbandonati, che viene
sentita come insopportabile.
Il termine borderline allude a una possibile terra di confine che si pone come una terra di nessuno, secondo
alcuni studiosi, esiste un’“organizzazione borderline di personalità” che rappresenta gli elementi strutturali
comuni a molti diversi disturbi di personalità, e in particolare un'identità estremamente fragile e instabile
associata all'utilizzo di difese primitive, un instabile rapporto con l'esame di realtà e una certa
organizzazione familiare.
Questa multifattorialità che causa il disturbo può essere generata dalla preminenza di traumi quali
l'inadeguatezza delle cure affettive o l'aver subito un evento traumatico nell'infanzia.
Otto Kernberg interpreta il disturbo psichico come esito di un processo di separazione-individuazione non
riuscito. Significa che il soggetto borderline, durante tale processo, rimane prigioniero in una delle fasi; il
“riavvicinamento”. Definita da Margaret Mahler, tale fase è caratterizzata dall'uso totalizzante del
meccanismo difensivo della scissione: un meccanismo in relazione al quale le persone possono essere
distinte in buone o cattive e trasformate in figure idealizzate o persecutorie. Nella fase di riavvicinamento il
bambino sperimenta l'allontanamento dalla madre per poi ritornare vicino a lei (ripensamento rispetto al
desiderio di avventurarsi nella sfera della propria autonomia). Egli vive dunque un costante andirivieni<.
Vuole fuggire ma non è in grado di liberarsi, vuole restare, a non si sente soddisfatto dalla permanenza
vicino alla madre. Secondo Kernberg il soggetto borderline vive questo inconcludente negarsi e arrendersi
che gli rende impossibile costruire legami forti e non connotati da adesività simbiotica.
Cancrini afferma che non si tratta di un meccanismo di comportamento proprio solo della struttura
borderline, ma di un paradigma che, mentre descrive il funzionamento del soggetto borderline, non ne
rappresenta la causa o l'origine, ma solo il modo di essere. Ciò significa che tale paradigma
comportamentale si può attivare in ogni essere umano, indipendentemente dalla sua struttura di
personalità, in circostante determinate.
L'idea di un paradigma arcaico si ricollega alla “posizione psichica; essa rappresenta un modo particolare di
interagire con sé stessi e con l'ambiente, che caratterizza determinati momenti dello sviluppo precoce, ma
che può ripresentarsi lungo tutto l'arco dell'esistenza.
La difficoltà della diagnosi del disturbo e la sua invisibilità ha a che fare con il principio di conservazione
della realtà; non riusciamo a leggere la diagnosi nel soggetto quando osserviamo preservata la dimensione
di realtà. Il paradigma del riavvicinamento descrive il funzionamento borderline come un modo di
pietrificare la realtà: la staticità, la ripetizione dei ritmi quotidiani è rassicurante.
Quella che Kernberg definisce struttura borderline può essere invece un funzionamento attivabile, in misura
maggiore o minore, in virtù degli elementi attinenti al soggetto o in virtù di aspetto ambientali. Molto
spesso infatti, nell'ambiente degli affetti familiari, il soggetto borderline può assumere comportamenti
aggressivi (espressioni incontrollate di rabbia che si concretizzano nella pratica del sadismo), e può invece
assumere atteggiamenti di indulgenza nei confronti di interlocutori non troppo intimi.
Il motivo di questo diverso comportamento è legato al contesto che assume la capacitò significativa di
attivare l'esperienza borderline. Tra la componente ambientale e quella soggettiva c'è un equilibrio che
varia da persona a persona.
Possiamo parlare di funzionamento borderline a livello di gruppo o di coppia: può darsi che le parti
borderline esistenti nei componenti più sani si attivino per identificazione rispetto ai componenti malati.
Nell'ambito della coppia il comportamento è analogo; la coppia borderline passa da periodi di armonia ad
altri distruttivi nei quali vieni giurato odio eterno.
Tali fenomeni si verificano perché il disturbo di personalità spinge a ripetere le originarie esperienze
relazionali → si tratta di esperienze malate e distruttive: il soggetto borderline, per ripetere l'esperienza
traumatica nella sua curvatura soggettiva, tende a manipolare l'altro.
CAPITOLO 3
3.1 Patologia psichica e conflitti irrisolti di una cultura.
In questo capitolo verranno analizzate due ipotesi di fondo:
1 – che la patologia psichica muti con il mutare storico e antropologico, ovvero che sia legata alla cultura
2 – che la patologia psichica possa anche essere espressione di una applicazione perfezionistica ed
enfatizzata dei modelli socialmente in auge
esempio provocatorio del fenomeno della pedofilia: la tentazione di mischiare amore, sopraffazione e
distruttività sembra imporsi con veemenza nella nostra epoca, un’estremizzazione di questo concetto può
essere visto nella figura del pedofilo che vede il bambino desiderabile in quanto facilmente soggiogabile,
relazionalmente debole e di fragile identità.
Risulta chiaro da un’analisi dei comportamenti in periodo di guerra, trasversale alle epoche, che una
identità fragile, minacciata da una imminente possibilità di morte, porta alcuni o molti a cercare una
sicurezza perduta ed una conferma del proprio potere relazionale negli “occhi terrorizzati di un altro essere
vivente o nelle sue grida di dolore”.
In alcune epoche storiche il bisogno di esorcizzare la paura dell’altro si è tradotto nell’esibizione del
supplizio comminato al corpo: “Sorvegliare e Punire” (M. Focault, 1975) minuziosa descrizione della tortura,
e poi dello squartamento per opera di quattro cavalli, del corpo del regicida Damiens nel 1757.
Alla luce di queste considerazioni possiamo rileggere l’aspetto della creazione sociale della patologia come
strumento per difendersi dalla percezione della propria fragilità e del proprio disorientamento tramite
l’esaltazione della fragilità e del disorientamento altrui.
Focault descrive, superata l’epoca dei supplizi, un annientamento metaforico ed allusivo ma non meno
destrutturante: si passa dal “comminare sofferenze fisiche e visibili” al “disciplinare il corpo stesso
attraverso interdizioni morali”, punizioni meno immediatamente fisiche. Questo è chiaro poiché
l’esposizione e lo spettacolo di corpi suppliziati o morti è gradualmente scomparsa.
Ad ogni modo, anche quando il corpo cessa di essere lo strumento socialmente deputato alla punizione,
torna ad esserlo per mezzo della soggettività del dolore il centro della scena viene occupato dai corpi
emaciati ed evanescenti della ragazza anoressica o bulimica, quello preda di convulsioni dell’isterica o
quello posseduto dai più gravi disturbi d’ansia.
La progressiva atrofizzazione della dimensione interna va di pari passo con l’incremento di patologie legate
all’utilizzazione del corpo come mediatore comunicativo del dolore psichico.
La definizione ed il reciproco legame fra patologia e normalità è cambiato, così come sono cambiate anche
le patologie emergenti in relazione al periodo strico o al contesto socioculturale. In etnopsichiatria la
questione del legame fra patologia psichica e contesto culturale è molto studiata.
George Devereux è l’etnopsichiatria che definì il concetto di “disturbo etnico”, che individua le sue radici
nelle conflittualità più profonde di un’epoca. Un disturbo può essere definito etnico quando è molto
frequente all’interno di un aggregato culturale rispetto ad altri e quando è rintracciabile una sorta di
continuità fra le dinamiche normali interne ad una certa cultura e quelle patologiche legate ad una
esperienza personale delle stesse (ovvero quando i sintomi sono l’estremizzazione di aspetti considerati
normali, se non positivi, all’interno della società).
Devereux studia ampiamente il concetto di identità in quanto ambivalente, una dimensione invisibile e
sfuggente con lo scopo di difenderci dagli attacchi degli altri (preda) ma anche di nascondere i nostri
attacchi agli occhi degli altri (predatore).
Il concetto di “disturbo etnico” trova una corrispondenza nelle “sindromi socialmente caratterizzate”,
sebbene tutte le patologie possano essere lette come tali con diverse intensità.
I sintomi assumono un significato duplice:
- Sono direttamente definiti in relazione all’idea dominante di normalità, in quanto vi si oppongono
collocandosi nei territori della patologia e della pazzia
- Sono prodotti dall’idea di normalità non solo per contrasto ma anche per un perfezionistico aderire
alle prescrizioni ed alle aspettative sociali, finendo per renderle tanto rigide ed assolute da creare
quasi una caricatura involontaria dei modelli di comportamenti socialmente considerati adeguati.
Devereux porta ad esempio la sindrome Amok diffusa nelle regioni del sud est asiatico (Malesia, Indonesia,
Nuova Guinea): questa sindrome prende il nome dal grido del feroce cavaliere malese che viene preso
come figura di riferimento e mito all’interno della società, la sindrome stessa ne prende il nome poiché
sembra originarsi da un’adesione talmente letterale al modello di cavaliere da trasformarsi in devianza.
La patologia stessa si manifesta come un’esplosione improvvisa di violenza che si intensifica fino a sfociare
in un atto delittuoso, questo trae origine da un’offesa ricevuta o dall’accumulo di tensione legato al
sopportarne di successive. Dopo una prima fase di ritiro relazionare, inizia il crescendo di violenza rivolto
prima ai familiari e poi agli estranei che porta a varie uccisioni, fino al momento in cui il malato si accascia a
terra con perdite di memoria ed esaurimento.
L’Amok viene interpretato come uno sfogo dell’aggressività che in una società autoritaria viene molto
repressa.
Una seconda sindrome esposta da Devereux come esempio di disturbo etnico è il “ Koro”, tipica delle
regioni del Sud della Cina: questa colpisce solo i maschi e consiste nella irragionevole percezione di un
progressivo ritirarsi del pene all’interno dell’addome, seguita da panico e sentimenti di morte imminente.
Questa sindrome sembra originarsi da ferite narcisistiche relative all’autostima che legate ad antiche
credenze mediche relative al ritirarsi del pene, scatenano nell’uomo angosce sessuali.
Questa sindrome come quella dell’anoressia è legata ad una dispercezione del proprio corpo: l’anoressica
crede di occupare troppo spazio mentre il soggetto affetto da Koro sente di occuparne troppo poco. Queste
due idee opposte sono legate alle aspettative e diversità culturali di genere, per le quali la donna si deve far
invisibile mentre gli uomini devono occupare prepotentemente quanto più spazio possibile.
Seguendo lo schema di Devereux anche l’isteria potrebbe essere descritta come disturbo etnico, in quanto
convoglia le contraddizioni della società Viennese di fine Ottocento in relazione alle aspettative nei
confronti delle donne delle classi medio-alte: essere femminili e sensuali ma allo stesso tempo represse e
pudiche. i sintomi isterici incarnano la drammatizzazione ed esasperazione dei conflitti legati alle identità
di genere.
L’anoressia può essere letta come adesione totale ai dettami sociali della fine del 20esimo secolo, legati
all’idea di perfezione ed efficienza delle menti e dei corpi e alla possibilità di dominare i secondi attraverso
le prime.
L’incremento progressivo dell’espandersi dei disturbi dell’alimentazione appare evidente da vent’anni a
questa parte questo conferma l’idea che i disturbi come l’anoressia si palesano, tanto prepotentemente
da essere considerati emergenze sociali, nelle epoche nelle quali si assiste ad una conflittualità esasperata
fra due generazioni consecutive di donne in merito alla concezione che ciascuna propugna del ruolo
femminile e all’identificarsi con il proprio genere i movimenti di donne della metà degli anni 70 hanno
messo in crisi gli stereotipi di genere e l’idea che la donna sia penalizzata dalla sua capacità di fare figli,
portando quindi la necessità delle donne di ridefinirsi come persone intere che valgono non solo per la loro
capacità di dare la vita ma anche per le loro capacità intellettuali e relazionari.
L’anoressia nervosa si connota come la compulsione a rifiutare di nutrirsi, ma a un livello più profondo si
presenta come rifiuto dell’espressione corporea della femminilità (perdita delle mestruazioni, dei caratteri
sessuali secondari femminili, della femminilità).
Quando si parla di anoressia occorre stabilire la differenza fra il sintomo e la sindrome: la sindrome è
definita da una dispercezione del sé corporeo e dal perseguire un ideale di peso ideale e di bellezza
identificato con l’essere magri. Per cui il sintomo dominante non è il rifiuto di alimentarsi ma la volontà di
raggiungere una forma perfetta legato ad una dispercezione della propria condizione di partenza.
è un disturbo da non sottovalutare in quanto peggiorativo e capace di portare alla morte, è allo stesso
tempo difficile da individuare poiché si manifesta in maniera subdola con comportamenti di per sé comuni
fra le giovani ragazze: eccessivo investimento affettivo nei confronti del proprio peso corporeo e delle
diete.
Questo disturbo colpisce solitamente ragazzine con un peso leggermente superiore a quello considerato
“socialmente accettabile” o quando il peso è nella norma, non tanto in quelle obese. (proprio perché non è
legato ad una necessità di dimagrire, ma da una dispercezione della propria forma fisica)
Le anoressiche non sono disinteressate al cibo, ne sono spesso ossessionate e dimostrano interessi culinari
ma decidono di privarsene per soddisfare la propria idea dominante di raggiungimento di una magrezza
ideale.
Nel contesto familiare la sindrome pone l’anoressica, evidentemente debole, al centro delle dinamiche
familiari che la portano a sviluppare comportamenti tirannici. Lo studio di questa patologia ha portato
all’individuazione di un modello familiare patogeno caratterizzato da un padre assente e molto legato al
lavoro, ed una madre onnipresente e carica di virtù tanto da risultare come un modello di perfezione
inimitabile ed irraggiungibile.
Due interpretazioni della patologia:
- La figlia diventa anoressica poiché decide di non diventare donna, in quanto è certa che non riuscirà
a mantenere il confronto con la madre. (l’anoressia è una fuga)
- La figlia cerca ossessivamente, con un modello rigido, di aderire agli ideali socialmente imposti e
rispetto ai quali la famiglia si dimostra sensibile: ideali di perfezione del corpo e della mente,
obbiettivo di ottenere riconoscimento e successo. (l’anoressia è un atto di diligenza e compiacenza)
Anoressia e Bulimia
Per molto tempo si è ritenuto il disturbo bulimico sintomatologicamente opposto a quello anoressico. È
ormai sempre più considerata una forma peculiare di anoressia: la patologia di tipo anoressico si divide in
anoressia restrittiva e anoressia-bulimia.
La bulimia insorge più tardivamente dell’anoressia, nel periodo di passaggio dalla condizione di adolescente
alla condizione di adulta.
Sembra regolata dalla legge del tutto o del niente, per questo funzionamento binario viene spesso legata al
disturbo borderline che si basa sull’alternare il consumo sfrenato al senso di vuoto e inutilità generato dal
consumare stesso.
L’anoressica bulimica vive la scissione tra un falso Sé di donna adulta, emancipata ed affermata
professionalmente e un vero Sé segreto legato alla fragilità e al senso di vuoto, che ha sfogo nelle
abbuffate.
L’orgia bulimica è caratterizzata dall’assenza di piacere, gli alimenti vengono ingurgitati in fretta e vomitati
portando sensi di colpa e di vergogna, depressione, rabbia.
Molte ragazzine che riescono a superare l’anoressia in fase adolescenziale finiscono per trascorrere la
propria vita in una continua alternanza fra anoressia e bulimia.
Studi dimostrano che le bambine che finiscono per soffrire di anoressia e bulimia sono sempre obbedienti e
dipendenti dalla madre e dalle altre autorità.
Appare opportuno a livello terminologico parlare di disturbi dell’alimentazione piuttosto che distinguere
anoressia e bulimia poiché sono strettamente legate fra loro e spesso si manifestano anche in modo ciclico,
ma anche perché non sono altre che mezzi distinti di raggiungere lo stesso obbiettivo: l’ideale della
magrezza.
Nei disturbi dell’alimentazione, l’anoressia bulimica e non, viene vista soggettivamente come una cura ad
una condizione che è quella della grassezza e si esprime come eccesso di compiacenza rispetto alle
prescrizioni sociali relative alla salute ed al benessere del corpo, voler essere tanto normali da precipitare
nella condizione della patologia. L’idea sociale del legame stretto fra successo e bellezza/perfezione per le
donne spinge le ragazze verso il tentativo anoressico.
L’anoressia è una patologia conosciuta da sempre emerge nella seconda metà dell’ottocento, scompare
lungo tutto l’arco del novecento e ricompare improvvisa e indomabili, sotto forma di emergenza sociale,
intorno agli anni 80. (ha un andamento intermittente dal punto di vista storico, legato alla tradizione fra
modelli diversi di femminilità)
Nel corso delle diverse epoche il dilemma del rapporto corpo/mente assume, seppur con percorsi
differenti, il carattere di controllo della seconda sul primo.
Possiamo dare più interpretazioni della condizione anoressica:
- È un tentativo di punirsi, annullando la propria stessa esistenza
- È un modo per esprimere la propria onnipotenza mostrandosi in grado di vincere gli istinti con la
sola forza intellettuale
Questa ambivalenza di interpretazioni spiega le rotture e continuità storiche: sante ascetiche divinizzate o
streghe indemoniate? È un atto di purificazione e ascesi (Imitatio Christy) o è una sfida demoniaca e
onnipotente rispetto alle leggi divine che regolano anche gli aspetti materiali e biologici della vita?
L’anoressia è contrassegnata da una negazione maniacale del proprio star male e della sofferenza legata al
digiuno, le anoressiche affermano quasi sempre di stare bene e di ritenersi fiere e orgogliose della loro
capacità di controllo razionale della dimensione materiale dell’esistenza e del loro corpo disincarnato e
purificato.
Le anoressiche hanno in comune con le sante ascetiche del tardo medioevo il perseguire la frustrazione
paradossale dei bisogni corporei e il trarre piacere dalla privazione stessa.
L’aspetto ossessivo sta nel continuo confronto fra quello che si sente di essere e l’immagine ideale di sé.
Il digiuno genera inoltre distorsioni percettive che portano al rifiuto di una vita normale in favore di una
tensione continua verso una realtà altra e ideale, incorporea.
L’anoressica drammatizza l’amore di sé attraverso l’atto paradossale della distruzione di sé, abita la linea di
confine fra vita e morte e trova il suo equilibrio patologico nel non precipitare.
I significati simbolici all’atto di nutrirsi sono soggettivi ma si legano anche a quelli sociali: nel XX secolo il
cibo diventa un mediatore di affetto nella relazione fra genitore e figlio, andando a sostituire il contatto
fisco (carezze abbracci) e la comunicazione.
Dopo le sante ascetiche e le digiunatrici indemoniate nasce un nuovo fenomeno, quello dell’inedia del
corpo come spettacolo: ragazze e donne digiunatrici danno spettacolo di sé nelle lore case e si fanno
costantemente controllare per provare il digiuno – provocando stupore e orrore, ammirazione e fascino.
Questo fenomeno è ricollegabile all’abitudine molto antica (ve ne sono esempi dall’antico Egitto fino al XIX
secolo) di personaggi ricchi e potenti, anche re, di tenere a corte creature bizzarre.
Attraverso le epoche essere diversi ha significato trarre dalla propria disgrazia la propria fortuna, esibendosi
a pagamento (spesso le ragazze digiunatrici riuscivano a sostenere famiglie intere con i loro spettacoli).
Anche molti nobili e re si recarono dalle ragazze digiunatrici per un percorso di conoscenza e rassicurazione
insieme ì, della propria congruenza rispetto alla natura.
Nella seconda metà dell’Ottocento, quando compare per la prima volta di un preciso disturbo femminile
legato al rifiuto del cibo, si sviluppa in sostituzione a quello femminile un fenomeno maschile, quello dei
digiunatori maschi o artisti scheletri. L’esibizione dell’inedia maschile non avviene più in casa ma
all’esterno, in circhi o fiere con il solo scopo di lucrare dimostrando la loro particolare abilità di resistere
senza cibarsi per un periodo predeterminato. (esempio: “Un Digiunatore” di Kafka, 1922 – l’uomo digiuna
per un periodo prestabilito di 40 giorni). Mentre quello che gli uomini digiunatori offrono è lo spettacolo
della loro capacità di controllo, le donne digiunatrici si trasformano in una particolare categoria di isteriche,
pretendono di essere credute quando affermano di digiunare da anni, di non urinare né defecare:
pretendono di essere viste come portatrici di forza soprannaturale.
Nel romanzo di Kafka abbiamo la descrizione del momento della fine del digiuno, in cui l’uomo circondato
da una grande folla trepidante esce dalla gabbia questo episodio è parallelo alla situazione della
moderna anoressica che diventa centro dell’attenzione del microcosmo familiare, lei diventa regina e
tiranna delle persone che le vogliono bene.
A partire dagli anni 30 del XX secolo con l’avvento dei nuovi media, l’interesse per il fenomeno dei
digiunatori scema e il fascino lascia il posto a un senso di raccapriccio nei confronti di un corpo seviziato e
punito. Questo passaggio viene metaforizzato nel film “Freaks” del regista Todd Browning (1932), nel quale
si trovano molti personaggi bizzarri tra cui un famoso uomo scheletro che interpreta sé stesso: Pete
Robinson, di soli 26 kg e sposato con una donna cannone di 212 kg.
Allo stesso modo il racconto di Kafka descrive il passaggio del digiunatore dall’essere elemento di
ammirazione ad elemento di indifferenza e orrore. Kafka riesce a cogliere e descrivere la dimensione
interiore di una persona che pratica il digiuno con il fine di mortificarsi volontariamente, e che lo fa
paradossalmente per guadagnarsi l’ammirazione altrui in modo da provare un senso di onnipotenza
narcisistica. Kafka dipinge la condizione della sofferenza patologica autoindotta come impossibile da capire
se non si prova in prima persona.
La paura rappresenta una dimensione inalienabile dell’esistenza e può allo stesso tempo rendere possibile
o impedire ogni trasformazione adattiva.
È una reazione fisiologica agli stimoli ambientali ed a quelli della dimensione interna, rende possibile
attivarci, allertare ogni difesa costruttiva e ogni nostra risorsa ed energia positiva. Quando invece è in
eccesso o sproporzionata rispetto allo stimolo, può portare risultati opposti a quelli che dovrebbero: ci può
pietrificare rendere impotenti all’azione.
Questa condizione di immobilità portata dalla paura blocca completamente il processo e l’esperienza
conoscitiva, che non è niente altro che un processo di trasformazione dei saperi generatosi all’incontro tra
punti di vista diversi (l’isolamento difensivo rende impossibile ogni confronto e quindi rende impossibile
l’apprendimento). Difatti l’esperienza conoscitiva richiede un coinvolgimento emotivo profondo
dell’individuo, il quale deve affrontare non solo il nuovo concetto da assimilare ma anche lo sgomento che
questo gli procura rispetto al precedente equilibrio.
L’apprendimento è dunque connotato sì dal fascino attrattivo, ma anche allo stesso tempo dalle tentazioni
di fuga è un processo che si realizza se la paura ci avverte della necessità di cambiare qualcosa perché ci
si possa ancora sentire adatti nel proprio ambiente, fallisce la sua realizzazione quando la paura assume un
connotato patologico impedendoci di esporci al giudizio altrui in modo da non perdere l’equilibrio e le
certezze precedenti.
All’interno del generale processo di formazione, l’educazione assume un ruolo primario in quanto vettore
che orienta il percorso relazionale verso l’utilizzo della paura come stimolo di trasformazione e non come
difesa dal disorientamento che ogni cambiamento necessariamente produce; difatti non è possibile
trasformare un aspetto della nostra vita o della nostra visione del mondo senza che tutto l’assetto
precedente venga messo in discussione alla ricerca di un nuovo equilibrio.
Nonostante il legame fra capacità di rispondere agli stimoli e paura sia oramai scientificamente evidente,
tendiamo a considerare la paura negativamente associandola ad una condizione di debolezza psichica. In
realtà è necessario distinguere due tipi diversi di paura:
- paura fisiologica: non nuoce, al contrario giova all’adattamento ed è un modo per difenderci dai pericoli
possibili ci mette in grado di agire, trasformare, proteggere
- tipo di paura interpretabile con gli strumenti della clinica: rappresenta una minaccia reale di distruzione
psichica autogenerata per difendere il proprio Sé, considerato troppo fragile, da un conflitto. ci
attanaglia, paralizza, pietrifica
La paura di avere paura si connette strettamente alla paura del conflitto e si avvicina alla paura stessa di
esistere (avvertire una “crisi di presenza”, sentirsi dominati dall’insicurezza ontologica dell’esistenza = non
sentirsi in diritto di esistere). Questa paura si incarna nella sensazione costante di inadeguatezza della
propria immagine esposta allo sguardo altrui, risultando nella fobia sociale (fobia scolastica nei bambini).
La paura patologica, ovvero la paura della paura, fa sì che non si sappia più distinguere la differenza fra
paura positiva e paura patologica non riuscendo più a sfruttare il fattore positivi della paura fisiologica,
come le sue valenze adattive e protettive di fronte al cambiamento.
La paura del cambiamento è propria della condizione di debolezza e fragilità psichica, la rivediamo anche
nei bambini piccoli e negli anziani che vivono di routine ben precise. Nella patologia più grave, l’autismo, chi
ne soffre non riesce a tollerare il cambiamento anche minimo in qualsiasi ambito (ambiente, routine).
Più la paura è intensa e pervasiva più impedisce il conoscere e l’apprendimento in sé, in quanto processo di
trasformazione dei saperi precedenti e dunque dell’esistente.
Fra le paure quella più patologica è la paura della paura, intimamente legata sia all’ansia patologica che alla
depressione, soprattutto nella sua componente autosvalutativa: consiste nella convinzione di non essere in
grado di fronteggiare la paura e la minaccia che la determina, arrivando rapidamente alla dimensione
depressiva di svalutazione globale di sé.
Il termine ansia fa etimologicamente riferimento alla percezione del soffocare e dell’essere strangolati, è
originato nel suo senso metaforico nell’ambito filosofico come senso metaforico di paura, turbamento e
incertezza.
L’ansia è infatti un correlato dell’irrompere delle categorie del possibile, dell’imprevisto e della
trasformazione che introducono contemporaneamente lo stupore della scoperta e la perdita della sicurezza
infatti la condizione di debolezza psicofisica è definita dal bisogno di ripetizione, familiarità e
prevedibilità. Sia i bambini piccoli che le persone anziane ricercano, data la loro fragilità dovuta dalla loro
progettualità pesantemente condizionata, la ripetizione dei ritmi quotidiani per sentirsi a loro agio.
L’ansia e l’angoscia sono infatti legate non al passato ma al futuro.
L’ansia è parte dell’esistenza stessa e coinvolge tutti in un certo livello, ma quando travalica le
caratteristiche della normalità va ad influenzare negativamente la vita affettiva e relazionale di chi ne è
preda.
L’ansia fisiologica fa parte della nostra vita e muta con noi, può connotarsi come segnale di allarme che
rende possibile attivare le proprie risorse per non soccombere alle minacce esterne.
In questo campo il compito della pedagogia è quello di insegnare ad affrontare i conflitti, far acquisire la
capacità di elaborarli invece di esasperarli/negarli questo dovrebbe essere obbiettivo primario del
processo formativo
L’ansia passa da fisiologica a patologica quando sorge per difendersi da se stessa: la paura dell’ansia genera
ulteriore ansia questo porta al tentativo di dipanare il conflitto attraverso meccanismi di scissione del
bene e del male, invece di riuscire a vedere l’intreccio dei due.
L’educazione come prevenzione dovrebbe insegnare a comprendere il punto di vista dell’altro, non
condividendolo ma chiedendosi da cosa è determinato per capirne il senso recondito o i bisogni impliciti.
È necessario imparare a convivere con l’ansia proprio perché serve per attivarci e reagire efficacemente agli
stimoli ambientali e sta alla base delle stesse esperienze creative. Ci permette di agire, di scegliere, di
decidere anche a prezzo di modificare rassicuranti equilibri per trasformarci in relazione agli stimoli esterni.
L’ ansia dà luogo alla creatività intesa come modo per “ripensare” ciò che è perduto o momentaneamente
manca, è quindi un modo per elaborare il lutto e la mancanza. Ci permette di attivarci e riemergere dal
passato dialettica tra spinta innovatrice e regressione riflessiva.
Ci permette di abitare il ritmo notte-veglia che rende concreta questa dialettica l’alternanza fra il lasciarsi
andare al sonno (perdita di consapevolezza) e della certezza dei propri confini identitari/l’attivarsi
energetico al risveglio (riappropriazione di sé e dei propri confini psicofisici)
Potremmo affermare che l’esperienza del vuoto e della separazione determini il pensiero stesso, che non
esisterebbe se questi non ci fossero.
Il pensiero nasce dall’attività simbolica, la quale è stimolata dalla necessità di contattare il dolore della
separazione e la paura del vuoto che in conseguenza si sperimenta.
La nascita del simbolo psicodinamico è preceduta da una fase di passaggio nella quale il bambino utilizza
per la prima volta un oggetto materiale che assume una funzione immateriale (una sorta di proto
simbolismo, legato in parte ancora alla dimensione materiale). Winnicott definisce questo oggetto come
“transizionale”, è un oggetto che il bambino sa gli è stato donato da una persona, e che nell’assenza della
persona stessa gli permetterà di ricrearla in fantasia e lo consolerà attraverso le afferenze sensoriali
dell’oggetto, per rassicurarsi rispetto al suo ritorno.
Si tratta di un oggetto con caratteristiche percettive che ricordano il corpo materno: calore, morbidezza,
rotondità.
L’oggetto diventa indispensabile prima dell’addormentarsi e nell’assenza della figura materna o delle figure
significative, mentre perde di significato al momento del risveglio poiché si ha il ritorno nel campo
percettivo di ciò che questo avrebbe dovuto sostituire.
I bambini autistici, non tollerando l’idea di una relazione fra entità distinte (io e non io), non conoscono
l’uso di un oggetto simile: curiosamente si servono di oggetti feticcio che non usano nei momenti della
separazione ma nel momento del contatto con le figure significative, questo oggetto viene usato dal
bambino autistico come scudo/barriera fra sé e l’interlocutore che verrebbe altrimenti percepito come
intrusivo e pericoloso. Tustin descrive l’oggetto autistico come opposto a quello transizionale, sul punto di
vista sensoriale: freddo, duro, spigoloso, liscio.
Il simbolo nasce quindi per elaborare e attraversare la separazione trasformando il dolore psichico in risorsa
creativa. Contiene in sé il dolore della separazione e la possibilità di elaborarlo e di trovare consolazione
coltivando la speranza del ritrovamento l’ansia della separazione si traduce in motore positivo di
crescita.
Questo tipo di ansia fisiologica e positiva ci accompagna nella quotidianità ed è definita dalla necessità di
fare scelte o affrontare imprevisti/cambiamenti, questa ci permette di farci forti affrontandone i sintomi : il
sudore della tensione, il rossore dell’imbarazzo, i tremori dell’attesa tentare di eliminare l’ansia dalla
nostra esperienza significa costruire una dimensione di ansia malata (patologica) tesa non a difenderci ma a
distruggerci.
L’ansia può rappresentare sé stessa o più malattie della psiche, si trasforma e può coniugarsi con altre
patologie. L’ansia rappresenta un portato della paura del non essere: del vuoto, della libertà, del
cambiamento. Nel nostro particolare contesto storico-sociale caratterizzato dal continuo far fronte a
imprevisti ed alla mutevolezza degli eventi, è possibile distinguere l’ansia fisiologica da quella patologica in
relazione all’adattamento rispetto all’ambiente:
- L’ansia fisiologica è al servizio dell’adattamento e spinge la ricerca di una risposta il più possibile
adeguata ad una particolare situazione
- L’ansia patologica è del tutto disancorata dalla realtà, è indipendente dagli stimoli ambientali e
nasce senza reali motivazioni, è legata piuttosto ad anacronistiche minacce interne non
riconosciute come tali è insomma un’ ansia paradossale perché sorge come difesa da possibili
minacce, ma genera essa stessa le condizioni perché queste si palesino.
L’ansia risulta patologica se appare come una reazione non giustificata ed eccessivo rispetto a ciò che l’ha
scatenata (ansia generalizzata: è disfunzionale e permanente), ma può verificarsi anche senza una reale
causa con esplosioni acute e ricorrenti anche di breve durata.
Il compito preventivo della pedagogia risiede nel riuscire a distinguere l’ansia patologica e distruttiva da
quella fisiologica e benefica.
La fase immediatamente successiva al primo attacco è quella in cui spesso nasce l’ipocondria, si
tratta della fase della ricerca di una causa organica per spiegare i sintomi e placare il terrore
aggrappandosi alla ragione.
Da qui il progressivo ritirarsi da ogni ambito esterno alle mura di casa e dall’interazione con
persone non strettamente familiari, tanto da arrivare alla segreta aspettativa che starsene rinchiusi
in casa per il resto della vita sarà sufficiente per evitare il ripetersi degli attacchi.
La patologia ha andamenti diversi in base ai soggetti: improvvisi arresti, fasi di apparente
remissione dei sintomi, recrudescenze, intensificazioni.
Data l’intensità dei sintomi ci si p sempre trovati in difficoltà nel differenziarlo da patologie
neurologiche o cardiologiche:
- 1850 si iniziano a circoscrivere patologiche con corteo sintomatologico simile:” malattia da cuore
irritabile”, “sindrome agorafobica”.
- Freud individua le “nevrosi d’angoscia”, patologia caratterizzata da “aspettativa ansiosa” (una
specie di “disturbo dell’ansia generalizzata” accompagnato dall’irrompere di acute e repentine crisi
d’ansia.
- 1983 nel manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali viene per la prima volta riconosciuto
ufficialmente il disturbo da attacco di panico.
Negli ultimi decenni si è rilevata in incremento una paura senza nome, socialmente imposta, che si traduce
nella paura dell’estraneo e nella paura di diventare estranei in prima persona rispetto agli altri ed a sé
stessi. Da questa paura bifronte ci si difende con un’ansia malata e cattiva che ci spinge all’omologazione
materiale per mascherare la propria personale debolezza e renderci seriali.
Difatti l’omologazione del rispecchiamento conformista ci rassicura, rendendoci schiavi dell’effimero.
Ci siamo abituati a vedere l’ansia con una accezione prettamente negativa, tanto che non si riesce più a
convivere con l’ansia fisiologica necessaria per affrontare la quotidianità. Siamo spinti a pensare prima
come possibile e poi come ideale una dimensione di vita nella quale ogni rischio ed ogni errore sono
prevenuti, non capendo che questo andrebbe a minare la libertà e la scelta del singolo, o che l’errore è
necessario per approssimarsi alla risposta corretta. (non può esistere apprendimento senza errore)
Attraversare i territori dell’ansia fisiologica ci renderebbe più forti e in buona salute psichica, ma ci
impedirebbe di sfruttare la condizione minoritaria per ottenere affetto ed essere al centro della
sollecitudine e considerazione altrui (vantaggio secondario). Il prezzo da pagare per questa protezione è
però quello della prigionia e della dipendenza dall’altro, dalle sue cure materiali e dalla sua protezione.
(paragone con i soggetti affetti da disturbo borderline che per il terrore dell’abbandono manipolano chi gli
sta accanto, spingendoli di conseguenza alla fuga)
Compito preventivo della pedagogia: educare ad attraversare i territori della solitudine e dell’ansia per
arrivare alla costruzione di un’identità forte, capace di relazioni adeguate e sicura rispetto ad ogni possibile
deriva patologica.
Capitolo 4
4.1 Paura della propria imperfezione: la depressione
- Senso di impotenza
L’autosvalutazione nella seconda metà del 900 si è legata con la consapevolezza di scarsa efficienza, con
l'incapacità di essere all'altezza delle situazioni e all’insuccesso sociale.
Il farmaco antidepressivo viene somministrato spesso solo perché una persona si sente triste o prova
dolore per un lutto, senza una adeguata diagnosi depressiva: diventa un dopante, che rende le persone abili
e efficienti ad ogni costo.
Secondo Alain Ehrenberg il comportamento sociale oggi non segue i canoni della disciplina, ma quelli
dell’ascesa sociale e il conformarsi al successo: chi non ne fa parte viene medicalizzato e emarginato. Per lui
la tristezza e il dolore sono diventati aspetti del sé di cui vergognarsi e che devono essere emarginati: il
farmaco non viene utilizzato per attutire i sintomi ma per diventare sempre più efficienti. Le persone,
incapaci di provare tenerezza e indulgenza per se stesse e per gli altri, non riescono a capire che il dolore e
la tristezza potrebbero essere fonte di creatività.
Dagli anni ’70 del 900 e poi fino alla fine del secolo, si creano nuovi gruppi che si vogliono emancipare:
come le donne e i giovani, si inizia a pensare che “tutto è possibile” e “niente è più certo e sicuro”. Si pensa
che tutti possono scegliere i loro piccoli o grandi percorsi indipendentemente dalla condizione sociale o
dalla cultura. Queste nuove idee portano con sé ansia e depressione perché si afferma l’idea di dover per
forza essere se stessi: le donne e i giovani devono o vogliono provare il sentimento di affermarsi come tali.
1800
Prima erano considerate come uguali: la melanconia del soggetto era ambivalente, poteva tendere verso
l’inazione e l’ozio insensato oppure tradursi con la superiorità geniale. L’epoca romantica è il periodo il cui
la melanconia prende l’aspetto di un “dolore che incanta” come dice Keats: poeti come Byron, Shelley,
Faust parlano di melanconia. Era considerata come:
• Possessione demoniaca
• Genialità
La malinconia è collegata soprattutto al nuovo progresso scientifico, che promette felicità a tutti i costi ma
dietro al quale si ammanta il male e le tenebre come diceva Leopardi. Con i nuovi progressi la felicità
sembra a portata di mano eppure sfugge. In realtà l’infelicità e la scontentezza devono essere compagne
dell’entusiasmo e dell’anima: non c’è luce senza ombra. Per proteggere la gioia, c’è bisogno della
malinconia. Secondo Leopardi la melanconia è presente anche nelle gioia. È cosi che tale sentimento
diventa ricco di sensibilità, diventa uno sguardo sul mondo e sull’esistenza. Se nel 1800 la melanconia era
una facoltà che rendeva più consapevoli, oggi invece è una condizione del malato che non lo rende
congruente rispetto ai modelli sociali.
Leopardi considerava la tristezza depressiva con la grandezza titanica: soffrendo e penando l’artista
possedeva grande creatività che sfociava nell’immaginazione e nell’illusione, unica fonte di salvezza. Quella
di Leopardi era una tristezza patologica, derivante anche dal’ambiente familiare: questa è prigione, rifugio e
tomba, il padre Monaldo ha tolto ai bambini la loro infanzia adultolizzandoli precocemente in un mondo di
razionalità, la madre voleva che il figlio non esistesse. I maggiori filosofi che parlano di melanconia sono:
• Kierkegaard: per lui l’angoscia è il tessuto del vivere, la malinconia è ciò che ci fa capire la
vanità dell’affaccendarsi umano.
1900. In questo periodo storico la melanconia diventa frutto e causa dell'arte: fino ad arrivare al 900 dove
artisti come Schiele, Kokoschka o Klimt creano opere intrise di melanconia
• periodo romantico: melanconia fa vedere il mondo dall'alto, in modo lucido e geniale. Da essa
scaturisce grandezza d'animo ed'è una molla artistica. Per Dostoevskij è alla base dell'arte.
XX secolo. Con i veloci cambiamenti del XX secolo, chi è malinconico, riflessivo, è stigmatizzato come inutile
e viene emarginato. Per questo l'aspetto ambivalente della malinconia è scmparso: la creatività, la
riflessione, lo sguardo attento, vengono sovrastati dall'ozio e dall'inadattamento. Se prima la melanconia
aveva due aspetti, uno positivo e l'altro negativo, adesso la parte positiva è scomparsa.
Oggi la depressione è come un contagio epidemico: si diventa dipendenti non solo dai farmaci, ma da
oggetti, da persone, da situazioni. La depressione oggi è avvicinabile non più con la melanconia ma con il
narcisismo. L'Io narcisistico è insaziabile, ha bisogno di appagmento continuo e proprio per questo è
destinato alla frustrazione e col passare degli anni al vuoto e alla tristezza. Le persone non vogliono fare i
conti con i limiti umani e con le imperfezioni.
Nella seconda metà del XX secolo le persone volevano ascendere economicamente e socialmente e fare di
più rispetto alla famiglia a cui apparteneva. Ma la famiglia d'origine continua ad essere presente nell'animo
dell'uomo di successo, è una voce interna, che crea conflitto, vergogna e infine senso di colpa, perchè è
come se tradisse il nucelo al quale apparteneva. Non si riconosce più nel suo nucelo familiare, non ha
identità, soffre e si ammala di depressione patologica.
Oggi dolore e tristezza sono considerati sempre indesiderabili. Non siamo più in grado di separare l'ansia
patologica da quella quotidiana. Esiste infatti anche un'ansia fisiologica e necessaria, alla quale bisogna dar
voce e in basse alla quale bisogna autogestirci: quando un amico o un familiare ci consola, ci può lasciare
anche morire nell'incapacità di autodeterminarci creando ansia e depressione patologiche.
L'ansia si può sedare: attraverso una terapia farmacologica. Il farmaco la tiene a distanza, è come uno
scudo. Se non si supporta con un colloquio con lo psicologo si può diventare dipendenti del farmaco, si
evita il prblema senza affrontarlo. Lo psicologo dovrebbe educare il paziente sul farmaco.
L'ansia la si può guarire: attraversando dolore, lutto, perdita, vergogna ecc. Guarire significa essere capaci
di soffrire, mostrandosi agli altri imperfetti.
Molte persone stanno insieme ad altre per non stare sole e non tanto per il senso di condivisione: le
conoscenze appaiono effimere e superficiali. é importanti l'apparire e l'abito che si indossa. Essere soli si
traduce con l'evidenza della propria insignificanza sociale. Le persone cercano di identificarsi con con gli
altri per sentirsi riconosciuti. Si cerca di omologarci agli altri anche nelle idee e nel pensiero, allontanando il
conflitto e i diversi punti di vista.
Nelle diverse epoche il rapporto tra solitudine e depressione si è trasformato. Per Freud la melanconia si
intreccia con il lutto: il lutto è il percorso di elaborazione della perdita, la melanconia è la patologia dovuta
alla perdita.
La melanconia per alcuni studiosi da la possibilità di vivere esperienze creative. La solitudine permette di
dispiegare la potenzialità della mente, intreccia la dimensione razionale con con quella emozionale. Per
mettersi in contatto con i desideri, le paure, le emozioni viscerali e profonde c'è bisogno di solitudine.
Durante l'adolescenza ci si mette in contatto con la solitudine: si vive la gruppalità e poi la solitudine
alternandole. Si scrivono diari segreti e si ascolta la musica, che ha funzione anestetizzante. Saper stare da
soli è essenziale per saper stare in gruppo e con gli altri: altrimenti ci si attacca alle persone senza sceglierle
ma solo per timore di stare soli.
Margaret Mahler descrive il processo di separazione-individuazione: nei primi 3 anni di vita si diventa veri e
propri soggetti capaci di autodeterminarsi. Bisogna abituare il bambino alla solitudine senza sottoporlo alla
mancanza: si impara a stare soli tanto più siamo stati vicini ad un altro (la mamma).
L'essere umano in genere nega il conflitto, nega la paura, il dolore, la morte, la colpa, l'errore, la sconfitta.
Così facendo neghiamo la debolezza che ci definisce impedendoci di poter migliorare.
Si ha spesso paura della diversità: si può avere paura della persona che si ama, della persona malata, di
quella straniera e di divera età. Anche se ormai tutti quanti siamo assimilati in un universo globalizzato in
cui ognuno può sentirsi uguale e diverso dall'altro.
Nelle varie fasi storiche l'antropologia ha cercato di risolvere il problema delle differenze tra gli uomini. La
storia dell'antropologia si è scissa sempre in due: alcuni studiosi sostengono l'impossibilità del confronto tra
diverse culture e altri invece tesi a sottolineare le universalità e le analogie.
La paura dell'estraneo è maggiore in relazione ad un soggetto culturalmente diverso perchè non si accetta
la dimensione conflittuale delle relazioni umane e perchè si ha paura di quello che c'è di estraneo nell'altro.
Nella dimensione della realtà interna, cioè nel mondo interiore di oguno, bisogna far convivere la
tolleranza, la generosità che ci contraddistinguono con paure e atteggiamenti diversi. L'altro diventa
proiezione delle parti interne nostre indesiderate o temute.
Si ha paura dell'altro per la "sottrazione" che potrebbe scaturire da questo incontro: si ha paura che oggetti
che lo straniero potrebbe sottrarci, del lavoro che potrebbe prenderci, dei luoghi che potrebbero essere
contaminati ecc
- fa riferimento alle origini (genitori, famiglia) e alla loro continuazione in altra epoca storica
- fa riferimento al divenire, allo staccarsi dalla famiglia d'origine per crearne una nuova
Quando nasce la psicoanalisi l'identità si frantuma con la venuta dell'inconscio: l'identità diventa mutevole
e impermanente, si notano elementi apparentemente estranei della psiche o che non sapevamo di avere:
subentra e scopriamo l'estraneo in noi. Quando si incontra uno straniero, che magari abitava lontano dalla
nostra terra di origine, vengono riattivate parti interne misconosciute o lontane, e siamo costretti a fare un
viaggio all'interno di noi stessi a vesitare luoghi mentali e conflitti che sembravano superati.
La "sofferenza dell'identità" --> è collegata alla ricerca della propria identità, che contrassegna molti
migranti. Quando si intraprende un cammino proprio, di ricerca delle origini, ci si imbatte nel vuoto, cioè
non troviamo più i legami che ci identificavano.
Nel'infanzia: c'è un modo diverso di vivere e leggere il problema dello straniero che viene da un'altra
cultura. I bambini che emigrano subiscono tale evento, per loro non è un'esperienza e non compredono le
ragioni. L'identità è legata all'appartenenza, alla condivisione di spazi e tempi, alla nostalgia: i bambini
piccoli non hanno nostalgie come gli adulti.
Il concetto di complessità può essere interpretato come dimensione all’interno della quale considerare
l’esistenza di legami tra aspetti distanti della realtà e tra esperienze non immediatamente correlate. Implica
una visione sistematica e processuale degli aspetti causali dei diversi fenomeni. Tale reticolarità viene
piuttosto sottoposta a continui processi di negazione e occultamento.
Attualmente è molto usata l’interpretazione di carattere organicistico di ogni fenomeno psichico, fondata
sulla frammentazione delle esperienze che permette di misurarle e confrontarle. Il nuovo riduzionismo
funge anche da difesa, poiché l’idea che non sia possibile comprendere e interpretare tutto spaventa e
genera disorientamento.
La tendenza a frammentare le esperienze riconducendole a unità semplice è tanto più pericolosa in quanto
mina alla base la funzione formativa di ogni ambito che produca cultura. Un’illusione sottesa a questo
frammentare è quella di poter comprendere meglio anche il mondo interno attraverso la sua dissezione,
così da poter individuare la sede materiale di ogni devianza.
Secondo l’ottica della complessità sarebbe necessario riuscire a mettere in evidenza i legami nascosti tra
ambiti diversi di esperienza. Invece andiamo verso le molteplici forme del neoriduzionismo, che ripone
nella dimensione biologica la spiegazione di ogni possibile patologia.
Identificare la sede organica d’ogni disagio permette anche di parlare del determinismo. Esso ci permette di
sottrarci al lavoro del dubbio, al percorso introspettivo che potrebbe disvelare la nostra incapacità di
ascoltare l’altro, anche quando sia molto vicino. Un altro che con la sua fragilità può mettere in crisi le
nostre certezze e le nostre stesse esperienze.
Sia i percorsi normali dell’adattamento che quelli disadattivi della patologia psichica, si collocano
nell’ambito della necessità sempre più cogente di controllare il cambiamento e l’imprevisto, in un contesto
nel quale il farmaco si presenta come una sorta di nuovo idolo, utilizzato per illuderci di porre rimedio alle
crepe della nostra difficile e complessa relazionalità: censurandole.
Il farmaco permette risposte veloci di cura: non la guarigione, ma la remissione dei sintomi. Non sempre la
terapia farmacologica rappresenta la via più efficace.
Tentazioni riduzionistiche e deterministiche nascono come risposta illusoria e fallace al disorientamento e
all’inquietudine creati dalla complessità del reale e dalla sua mutevolezza incessante. Sono l’esperienza
della mancanza e quella del vuoto che spingono a ricreare l’oggetto la cui assenza ne rappresenta l’origine.
L’integrazione riguarda anche la capacità dialogica tra le agenzie educative e in particolare rende necessaria
una nuova considerazione del rapporto tra dimensione formativa nell’ambito della famiglia ed esterna ad
essa. La famiglia intesa come micro gruppo di affetti intimi. La famiglia è luogo di individuazione e ambito di
socializzazione, è al suo interno che si declina il conflitto tra individuo e gruppo.
Il microcosmo familiare è per antonomasia il luogo della mediazione. Lo è a livello della dimensione
temporale (relativamente ai rapporti tra generazioni diverse) ma anche per l’essere depositario della
memoria individuale di ciascuno. Lo è rispetto alla dinamica tra ambito individuale e ambito gruppale,
poiché si pone come palestra di elaborazione dei conflitti tra istanze di rassicurazione legate all’essere in
sintonia con l’altro.
Il micro gruppo familiare rappresenta anche la cornice di mediazione tra natura e cultura poiché è
all’interno di tale ambito che l’essere naturale si fa sociale e culturale, con il passaggio del bambino piccolo
dalla dimensione della sensorialità a quella psichica.
Il concetto di integrazione si lega strettamente a quello di competenza, poiché entrambi possono essere
ricondotti a una medesima antinomia e alla possibilità di costruire livelli sempre più avanzati di
elaborazione del conflitto tra le compresenti istanze di differenziazione e di partecipazione sociale. Livelli
capaci di rendere attuali nuove solidarietà sociale e reciproche sollecitudini tra gli uomini.
Tutto questo comporta una diversa accezione del termine “competenza”, che andrebbe intesa come
capacità di utilizzare le proprie conoscenze teoriche per trasformare la realtà: quella esterna e quella
attinente alla dimensione anteriore.
Per valorizzare questa diversa accezione della competenza è necessario sottolineare il suo legame con gli
aspetti metacognitivi. La dimensione metacognitiva viene infatti generalmente concepita come capacità di
riflessione in ambito gnoseologico e di differenziazione tra vari gradi e dimensioni dell’attività psichica.
Talvolta si affianca quella corrispondente alla capacità di selezionare strategie risolutive diverse in relazione
agli specifici compiti e di saper tradurre le proprie acquisizioni in contesti differenti da quelli originari.
In ambito formativo occorre considerare la competenza metacognitiva anche come capacità di riflettere su
sé stessi di collocarsi adeguatamente tra possibilità personalità e limiti formativi. Vi possono essere due
opposti modi di riflettere meta cognitivamente su di sé. Di fronte a un insuccesso idealizzando le capacità
dell’altro, o la si può ricondurre del tutto fuori di sé. Se in questo processo attribuzionale se le polarità
cognitive opposte non vengono integrate criticamente si genera una sorta di blocco apprenditivo. Nel caso
dell’idealizzazione delle capacità dell’altro e dell’autosvalorizzazione delle proprie appare del tutto inutile
mettere in moto il processo del loro incremento ma se l’ambiente esterno è sentito come fortemente
ostacolante non risulta credibile innescare un processo trasformativo destinato in partenza alla sconfitta.
Nella maggior parte dei soggetti si realizza un’infinità gamma di sfumature che vedono la predominanza
dell’uno o dell’altro atteggiamento e che danno in qualche modo ragione anche della differenza tra
personalità. Le due polarità metacognitive modulate dall’ambiente e dalle esperienze, si alternano nella
dimensione interiore di ciascuno creando fragili equilibri.
La pedagogia speciale è una disciplina relativamente nuova rispetto ad altre articolazioni della pedagogia e
della didattica ed è considerata come preposta esclusivamente all’individuazione di metodologie e tecniche
di integrazione e di inclusione, delegando gli aspetti teorici all’origine di tali riflessioni ad altre discipline
quali la neuropsichiatria, la psicologia e la sociologia. Nel porre tale separatezza tra gli aspetti teorici relativi
alle tematiche della riabilitazione e dell’integrazione e le loro ricadute concrete e applicative si consuma
una perdita di complessità relativa proprio alla riflessione sulla sofferenza psicofisica.
La pedagogia speciale si occupa della condizione di disabilità di tutte le possibili pratiche di integrazione e di
inclusione a partire dai costrutti teorici che le sorreggono e in relazione anche alle cornici di esistenza che le
rendono possibili o le ostacolano. Su un terreno si dovrebbe realizzare una maggiore tensione dialogica tra
le diverse articolazioni del sapere pedagogico e didattico e cioè relativamente agli aspetti preventivi rispetto
alla sofferenza psichica e all’insorgere di patologie. Anche la pedagogia speciale per il ventaglio di
conoscenze specifiche che le competono e che rendono possibile una maggiore e comprensione dei fattori
di rischio e di quelli di protezione. Esiste una riconosciuta e consistente tradizione di ricerca rispetto ai
fattori di rischio.
Uno dei principali fattori di protezione rispetto alle diverse derive patologiche è legato alla capacità di
usufruire di ambiti che favoriscono il sorgere di processi creativi nei quali l’identità si possa rafforzare
insieme all’immagine di sé. Un esempio per tutti può essere quello relativo al tempo libero, intesa come
non fai un cazzo (l’ho parafrasata perché era veramente vergognosa).
In analogia con quanto avviene per gli adulti persino il tempo del bambino è rigidamente suddiviso in quello
dedicato alle attività di studio da una parte e, dall’altra, quello del gioco e del divertimento. DI
conseguenza, nella scuola tradizionale, la motivazione ad apprendere è legata a fini prevalentemente
esterni. La creatività nasce e si sviluppa proprio nei luoghi dove gioco, studio e lavoro si incontrano e si
intersecano.
Il tempo libero viene sempre più identificato solo come tempo di socializzazione e non come tempo per sé.
Si può intendere come tempo per sé quello dedicato agli amici o alle persone care, ma anche quello della
solitudine riflessiva. In questa fase storica sembrano venire meno sia gli ambiti nei quali ci si piò realmente
sentire riconosciuti senza sogno di eccessivo ricorso al Falso-me, sia gli ambiti della solitudine creativa. La
socializzazione verso la quale si è sospinti è prevalentemente di tipo seriale e omologante, legata
all’esternalizzazione dei contenuti mentali piuttosto che alla loro interiorizzazione. Essa è correlata anche
alla tematica del consumismo, o del ricercare luoghi nei quali sia possibile esibire i simboli del proprio
riconoscimento e successo sociale. SI tratta di una socializzazione ingannevole. La socializzazione predicata
e socialmente imposta è effimera, si cercano gli altri per essere riconosciuti e nel farlo si diviene ancora più
anonimi.
Il conformarsi delle abitudini, atteggiamenti e stili di vita fa sì che venga scoraggiato il processo di
interiorizzazione delle esperienze e incrementato a dismisura, il movimento psichico opposto
dell’esternalizzare i contenuti soggettivi e intimi per omologarli rispetto a quelli socialmente apprezzati. Il
tempo che dovrebbe essere delle esperienze creative diviene quello degli eventi spettacolare ed effimeri
quanto impermanenti, che anziché arricchire il mondo interno ne determinano l’inesorabile atrofizzazione.
Nell’orgia consumistica che caratterizza le dimensioni attuali della socializzazione, la psiche si atrofizza e in
conseguenza diretta di ciò il corpo diviene mezzo comunicativo per traslato, preposto a metaforizzare ogni
disagio. Le patologie emergenti e in incremento sono basate proprio sull’utilizzazione del corpo al posto
delle parole. Di fronte a tutto questo la funzione preventiva dell’educazione può essere in primo luogo
quella della valorizzazione della solitudine come dimensione che rende possibile la riflessione interiore.
Accanto a essa può assumere un valore preventivo favorire la capacità dei soggetti di attraversare e tenere
viva la dimensione che Winnicott chiama “transizionale” e che riguarda l’area dell’illusione e della
creatività.
Si tratta di un’area intermedia alla quale si può accedere in qualsiasi età della vita e che per i bambini è
prevalentemente rappresentata dall’attività ludica. È possibile individuare straordinarie analogie tra gioco
di finzione e produzioni culturali degli adulti quali la letteratura, il cinema, il teatro e la musica. Tutte quante
si realizzano nel sovvertimento delle coordinate spazio temporale, poiché il tempo e lo spazio diventano
tempo e spazio affettivi. Il tempo che emerge, nel gioco come nell’illusione culturale, è quello circolare della
ricorsività, mentre lo spazio è quello allargato che rompe i confini tra il dentro e il fuori. Nel gioco si è
sdoppiati tra la vicenda drammatizzata e il nostro esserne spettatori passivi. In entrambi i casi ci si muove
sul terreno della coloritura affettiva.
Sia nell’attività ludica che nelle costruzioni culturali ci si serve del gioco ripetuto di equivalenze e metafore:
la scelta è quella della non definizione precisa di oggetti, eventi o esperienze. Il bambino può sentirsi
padron e creatore assoluto della realtà che costruisce ludicamente.
Il gioco di finzione ha in comune con l’arte la capacità di esprimere la connotazione emotiva di ogni
esperienza in maniera immediata e sintetica. Con la letteratura ha invece il poter assumere una valenza
narrativo-catartica. CI si situa nella dimensione del possibile, esprimendo anche emozioni e sentimenti
considerati riprovevoli o altri dei quali non siamo coscienti, e traendo da tale esperienza il coraggio
necessario per affrontare situazioni nuove.
Sia l’attività culturale dell’adulto che quella ludica del bambino si pongono come ponte tra mondo interno e
mondo esterno. Esse non solo servono a esprimere. Dei contenuti affettivi, ma anche di immetterne dentro
e a interiorizzare le proprie esperienze relazionali. Entrambe le tipologie di attività sono legate al processo
di elaborazione del lutto e della perdita. Esse sono infatti capaci di consolare il regno del continuo dove si
era inserita, attraverso l’esperienza della nascita, la rottura operata dall’irrompere del discreto.