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II.4.A. I PRINCIPI
1) generico della prassi (senso ampio) = il principio significa che in previsione di mali
inevitabili, è preferibile consentire, scegliendolo, quello minore, per evitare quello
maggiore. In questo caso il male minore si riferisce alle conseguenze derivate da una
decisione in una situazione che obbliga a fare una scelta, ed essendo questa situazione
inevitabile, si sceglie la conseguenza meno dannosa.
2) specifico dell’etica della decisione = il principio significa che quando apparentemente
tutte o ciascuna delle possibili decisioni da prendere sono, di fatto, negative non esiste
alternativa, bisogna preferire la meno negativa. In questo caso si riferisce, invece, alla
decisione in se stessa, che si rivela problematica, perché qualunque decisione è negativa; in
tale situazione d’incertezza bisogna decidersi per quello che sembra il male minore.
1
F. C. FERNÁNDEZ SÁNCHEZ, «Principio e argomento del male minore», in PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA FAMIGLIA,
ed., Lexicon. Termini ambigui e discussi su famiglia, vita e questioni etiche, EDB, Bologna 2003, 725-736.
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La limitazione del principio: i limiti legati ai cosiddetti “assoluti morali”, oppure alle azioni
moralmente disordinate in se stesse.
1) La moralità di ogni singola azione si fonda sul suo rapportarsi alla VERITÀ MORALE in
quanto rivelata in modo plausibile a livello normativo. Il termine in sé protegge contro
qualsiasi intrusione di un’autorità eteronoma.
Il compito di teologia morale non è sminuire la validità del teorema; si vuole arrivare al suo
uso più differenziato senza semplificazione.
Simili considerazioni possono essere svolte a proposito del rapporto tra il singolo atto e
l’insieme delle sue circostanze, tra cui più importanti sono i condizionamenti (presupposti) e
le conseguenze. Occorre interrogarsi se tale rapporto influisca sul significato, ed in
conseguenza – sulla qualificazione morale dell’agire. È ipotizzabile il caso in cui i nuovi
punti di vista scoperti e finora non presi in considerazione possano influire sulla moralità di
azione circostanziata. Il giudizio morale visto così rimane in moto! Questo però non nega la
possibilità stessa delle azioni intrinsecamente disoneste: ogni volta quando si presenteranno
gli identici elementi essenziali dell’azione, la sua valutazione morale non può essere diversa
da quella trovata precedentemente.
3
K. DEMMER, Seguire le orme, 145-149 ; S. PRIVITERA, «Principi morali tradizionali», in F. COMPAGNONI – G. PIANA –
S. PRIVITERA, ed., Nuovo dizionario di Teologia Morale, San Paolo, Cinisello Balsamo 19994, 987-994.
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1) Bontà o almeno indifferenza morale dell’azione: l’atto da porre non può essere
intrinsecamente disonesto (cattivo).
2) Onestà del fine: l’intenzione deve essere indirizzata esclusivamente alla
produzione del rispettivo bene; il danno collaterale è soltanto tollerato rimanendo praeter
intentionem.
3) Non dipendenza dell’effetto buono da quello cattivo: il danno non deve essere
voluto come mezzo per poter ottenere il bene intenzionato.
La volontà del soggetto può dissociarsi da causalità materiale dell’effetto dannoso: in
questo caso l’intenzionalità a livello psichico-volitivo è ovviamente attiva, mentre a livello
del suo significato antropologico-morale è da qualificare passiva. Il fatto che il verificarsi
dell’effetto negativo nel tempo precede quello positivo, non cambia il giudizio morale (per
esempio, le cure delle malattie oncologiche); si tollera una tale conseguenza per una ragione
proporzionalmente grave.
4) ragione proporzionalmente grave: essa chiede una giusta proporzione tra i vari
effetti, la quale si manifesta nella ragione proporzionata. La moralità dell’atto in
questione si decide in ultima analisi qui.
A.4. L’EPICHEIA4
Il senso del principio: il venir meno dell'obbligatorietà della legge quando, nel caso
particolare, la sua applicazione si riveli manifestamente iniqua.
Applicazione: il momento in cui la soluzione data dal soggetto ad un problema per ben
precisi motivi (che devono risultare sempre moralmente giustificabili) diverge da quella
prevista dalla legge civile o penale, perché il caso in questione possiede elementi non
4
I principi 4 – 7 e le distinzioni ricorrenti indicate (B) – cf. S. PRIVITERA, «Principi morali tradizionali», 987-994.
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previsti o non prevedibili dal legislatore, che appunto inducano formulare un giudizio
morale diverso da quello già formulato dal legislatore stesso.
Proprio perché si tratta dei contesti non previsti e non prevedibili dal legislatore, - il
principio s’identifica con l’interpretazione, da parte del soggetto agente, della volontà del
legislatore o dello spirito della legge: il soggetto attua ciò che in quel momento corrisponde
alla prospettiva, dentro la quale la legge stessa è stata formulata.
Il principio si riferisce a quei casi in cui al quando le conseguenze previste dal legislatore
cambiano se ne sostituiscono oppure se ne aggiungono altre ancora più negative o positive,
importante talmente da richiedere la mutazione del giudizio finale, la cui valutazione, non
potendo essere inserita nella formulazione legislativa, viene affidata alla responsabilità del
soggetto morale.
Il ricorso all’epicheia presuppone equilibrio, maturità, formazione della coscienza, capacità
di giudizio da parte del singolo.
Es.: la legge stradale che limita la massima velocità e l’urgenza di portare all’ospedale il
ferito in pericolo di vita.
Emerge dalla visione del rapporto fra la PARTE e il TUTTO sul piano della realtà propria della
singola persona. La visione di preferenza del valore della totalità quando entra in conflitto
con il valore della parte.
Si identifica con la possibilità d’intervenire sull’integrità fisica del corpo umano: diventa
moralmente lecito un intervento lesivo della parte, che per i motivi vari si rende
indispensabile per il bene del tutto.
Il principio è usato:
- per indicare LA PRECEDENZA, la quale di attribuisce AL VALORE PREMORALE PIÙ
FONDAMENTALE DELLA VITA (il tutto) rispetto agli altri valori premorali meno
fondamentali (la parte).
- per indicare la preferenza che il soggetto dovrà accordare sempre al valore morale
della sua bontà personale, nel caso in cui essa entri in conflitto con altri valori
premorali, si tratti pure di quello della vita.
La distinzione utilizzata nel contesto del principio dell’azione con duplice effetto.
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Essenza: perché l’azione sia moralmente retta, è necessario volere la realizzazione
dell’effetto positivo, e non volere ma solo tollerare quella dell’effetto negativo.
Si riferisce alla distinzione, fondamentale in etica normativa, fra ATTEGGIAMENTO (con cui si
compie l’azione con doppio effetto) e comportamento; volere l’effetto negativo e non quello
positivo dell’azione si identifica con atteggiamento moralmente cattivo (peccaminoso).
Utilizzata, anche essa, nel contesto del principio dell’azione con duplice effetto.
Si riferisce alle caratteristiche che il COMPORTAMENTO deve possedere dal punto di vista
morale: l’effetto negativo deve risultare solo indirettamente dal compimento dell’azione a
doppio effetto; non può mai essere il suo fine diretto. Il fine diretto di tale azione deve
sempre identificarsi con l’effetto positivo.
(Esempio: l’asportazione dell’utero affetto da tumore di una donna incinta; effetto
collaterale della cura).
La problematica verte sul determinare il grado in cui le strutture ontiche, in quanto parte
costitutiva dell’atto intero, contribuiscono al significato antropologico e alla qualità morale
del rispettivo atto. Sempre c’è la possibilità di una certa zona d’ombra. La tradizione
manualistica per questo ragionava in termini di MORALITÀ FORMALE, lasciando sospeso il
problema della MORALITÀ MATERIALE: in caso di dubbio fondato (#) toccava all’intenzione
di essere l’ultima istanza di qualificazione morale.