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LINGUE DELL'EDUCAZIONE

Tullio De Mauro

“Lingua di casa”, “lingua di mercato”

Dal 1975, anno in cui furono scritte le Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica,1 molto è
cambiato, si osserva giustamente, in Italia e nel mondo. Hanno perduto efficacia? Vediamo. Intanto
si deve pure osservare che, dopo aver lasciato tracce non esplicite in qualche documento linguistico
europeo, ora sono richiamate esplicitamente in un testo del Consiglio d’Europa, il Documento
europeo per le lingue dell’educazione/DERLE apparso nel 20092 E il testo delle Dieci testi, tradotto
in neogreco un paio di anni fa da un editore di Atene, appare ora anche in traduzione inglese e
francese. Ma questo conta poco, Croce ammoniva saggiamente che “la folla o il deserto nulla
aggiungono o tolgono al carattere di verità di una dottrina”. Reggono le “verità” delle Dieci tesi
oppure i fatti le hanno falsificate?
Un punto essenziale, forse il punto più importante, di quelle tesi era mettere al centro di ogni attività
educativa l’educazione linguistica e ciò in forza di un ragionamento teorico che nei 35 anni trascorsi
si è irrobustito sempre di più. Dalle riflessioni teoriche del Novecento e contemporanee sappiamo
che una lingua è fatta in modo tale da poter rispondere alle esigenze di relazione e di conoscenza
degli individui e delle comunità umane. Ripeto: qualsiasi lingua, nel suo nucleo anche più
elementare di parole apprese nell’ambito familiare e nella vita quotidiana.
Non mi stanco di ricordare che del resto già nell’Ottocento un grande pensatore e affascinante
scrittore danese, Søren Kierkegaard, in un suo saggio sugli stadi nel cammino della vita, insisteva
proprio su questo punto: “la ‘lingua di casa’, ‘la lingua del mercato’ possiede già tutti i requisiti per
rispondere alle esigenze più importanti di cui abbiamo bisogno per la vita di relazione e per lo
sviluppo delle nostre conoscenze, ci dà sempre strumenti, diceva, per lottare con l’inesprimibile”.3
Del resto, chi ha letto il De vulgari eloquentia di Dante ricorda le lodi di Dante alla prima lingua,
quella che impariamo nutricem imitantes: questa gli appariva nobilior rispetto alle lingue da
apprendere con lungo studio dai maestri. Perché la parte più umile e trita del patrimonio verbale
abbia tanta potenza abbiamo cercato di capirlo sempre meglio negli ultimi decenni. L'essere umano,
che è un animal loquens, partendo dal vocabolario fondamentale di una lingua, e cioè dalle circa
duemila parole che anche in un Paese come l’Italia ogni bambino nativo già in genere conosce
entrando a scuola, è capace di imparare a usare tante altre parole. Noi esseri umani lo facciamo
sfruttando una proprietà che i logici hanno indicato ai linguisti (a quelli disposti ad ascoltarli) come
caratteristica specifica dell’attività verbale: mi riferisco all’uso metalinguistico-riflessivo, cioè alla
possibilità di adoperare le parole della lingua che già conosciamo per chiedere o per dare
spiegazioni sull’uso e sul significato di parole e forme che possano suonare nuove. Questa proprietà
è la proprietà costitutiva della possibilità che ogni lingua ha di ampliare indefinitamente il suo
vocabolario e di combinare le parole del vocabolario in un numero potenzialmente infinito di frasi.
L’espandibilità della lingua ne fa uno strumento fondamentale riguardo a due aspetti
complementari. Ci permette di relazionarci agli altri componenti della nostra e di altre comunità e ci
permette di esprimere, vivere e ordinare esperienze vitali, sensazioni, emozioni e nozioni nuove.
Se si capisce questo si capisce anche perché per la scuola, e non soltanto per l’insegnante che deve
occuparsi della materia chiamata italiano, ma per tutti gli insegnanti, occorre che sia chiaro un
primo fatto: la scuola lavora e deve saper lavorare di rimessa e di rifinitura, per così dire. C’è un

1
Vedi http://www.giscel.org/dieciTesi.htm.
2
Una versione italiana curata da Silvana Ferreri e Rosa Calò è stata concordata e pubblicata ora dall’editore
Settecittà di Viterbo.
3
Søren Kierkegaard, Stadi sul cammino della vita, Milano, BUR Biblioteca Universale Rizzoli, 2001, p. 325.

1
patrimonio di conoscenze con cui il bambino o la bambina entra nella scuola che va salvaguardato e
rispettato perché là c’è la prima radice dell’apprendimento linguistico più complesso e
dell’apprendimento di altre lingue. Questo era vero nel 1975 ed è ancora più vero oggi, quando il
patrimonio prescolastico del bambino si arricchisce di apporti esterni alla famiglia, teletrasmessi o
informatici. Come raccomanda Marco Rossi Doria, la scuola deve saper tendere l’orecchio a questo
mondo linguistico pre- ed extrascolastico per poter portare gli alunni a integrare e sviluppare il loro
patrimonio di mezzi linguistici. E ciò è ancora più vero ed esige ancora più attenzione quando ci
troviamo dinanzi a bambini che portano in classe l’eredità e la radice di lingue assai diverse dalla
nostra e dai nostri dialetti, ma tornerò più in là su questo punto. Gli insegnanti debbono sapere che
partono da un nocciolo primario già costituito. Prima di tutto devono quindi imparare a riconoscerlo
e a rispettarlo, anche quando si presenta in forme eterodosse rispetto agli ideali di stile che possono
prevalere nella scuola – possono e non già devono.
A partire dalla “lingua di casa” del bambino e dalla sua integrazione la scuola ha l’enorme compito
di sviluppare la capacità di interrogazione con le parole e delle parole, la capacità di far acquisire
nuove esperienze e nuovi saperi. Ricordiamo ciò con quanto Albert Einstein ha scritto nella sua
autobiografia intellettuale: «La maggior parte di quanto sappiamo e crediamo di sapere ci è stata
insegnata da altri per mezzo di una lingua che altri hanno creato. Senza la lingua la nostra facoltà di
pensare sarebbe assai meschina e paragonabile a quella degli altri animali superiori».4
Le Tesi volevano mettere in crisi sia la convinzione che l’insegnamento linguistico parta da zero e
si svolga nel vuoto sia l’insegnamento/apprendimento monodisciplinare delle capacità linguistiche.
Non c’è materia, non c’è insegnante che non debba e non possa concorrervi. Dovremmo saper
realizzare un quadro di didattica molto aperto, in cui il bambino e la bambina e poi l’alunno
adolescente siano portati a porsi e a porre delle domande vere, non quelle già scritte in calce alla
pagina del libro, ma quelle che sono suscitate da un rapporto vivo con esperienze nuove, con saperi
nuovi che ogni insegnamento man mano offre. Con la padronanza dei mezzi verbali si accrescono
così intelligenza e conoscenza. Vorrei ricordare che su questa stessa strada ho poi incontrato negli
anni le convincenti riflessioni generali di Dario Antiseri sull’insegnamento “per problemi” e le
concettualmente assai simili belle esperienze sviluppate da Carlo Bernardini con le maestre delle
scuole dell’infanzia di Scandicci in tema di apprendimento pre-elementare delle scienze.
In materia di linguaggio ci sono anche cose che la scuola può insegnare quasi partendo da zero. Si
pensi alla scrittura: in larga parte i bambini arrivano a scuola senza dominare la capacità di
trasferire il discorso parlato in testo scritto e senza la capacità di orientarsi dinanzi a un testo scritto.
Se non l’abc stesso, come anche accade, certo il dominio e lo sfruttamento dell’abc possono avere
una parte importante e specifica nell’insegnamento, ma sempre nella consapevolezza che l’abc,
l’ortografia usuale e particolare nella produzione scritta di una lingua, si impara tanto meglio quanto
più il complesso dei rapporti tra il bambino e la lingua viene curato e sviluppato.
Come hanno mostrato Emilia Ferreiro e altre diverse evidenze sperimentali sull’apprendimento del
grafismo e della scrittura, c’è un cammino spontaneo di maturazione che bisogna avere la pazienza
di rispettare, che porta all’acquisizione di un modo corretto di usare le forme scritte di una
determinata lingua. Questo cammino è fatto anzitutto di spinte pre-ortografiche, cioè di spinte a
sentire che è importante e utile – e non perché lo dice il professore o il maestro – fissare ciò che si
vuol dire in una forma scritta facilmente recuperabile per altri e dunque in una forma scritta avviata
a un ragionevole standard di regole e di forme. I bambini e le bambine devono sentire che è
importante accedere alla lettura di ciò che altri hanno scritto e stampato o che ci mandano in video o
sul telefonino. Solo se si alimenta e sviluppa la voglia di accedere alla lettoscrittura nel quadro di un
insegnamento molto aperto e stimolante, possiamo mettere da parte l’insegnamento ortografico
tradizionale, tanto pieno di ossessionanti trabocchetti in ambienti linguistici segnati dalla variazione
come l’Italia: tubo si scrive con una b dice un insegnante pronunciando magari la parola con una
bella b intensa, alla romana o alla napoletana; rabbia si scrive con due b, e magari la parola è

4
A. Einstein, Autobiografia scientifica, Torino, Boringhieri, 1979, p. 133 .

2
pronunciata con una b “scempia”, come può accadere che faccia un insegnante settentrionale. Al
bambino non resta che obbedire a queste indicazioni, e se non obbedisce l’insegnante rischia di
intervenire punitivamente, correttivamente su questi dettagli. Provoca guasti nel merito e avvia
l’alunno a pensare che a scuola vogliono cose strane e inesplicabili. Perché sia detto con chiarezza:
appartiene per il bambino ai sacrosanti misteri capire perché accidenti mai a parità di pronuncia
della zeta azione si deve scrivere, per carità, mai sia altrimenti, con una zeta sola, e pazzo con due
oppure perché lui nelle conte e filastrocche sillaba cas-ti-go ma se per caso riproduce una cosa del
genere scrivendo apriti cielo. Si dirà: ben altre cose strane e inesplicabili rischia di insegnargli la
scuola in materia di lingua se l’insegnante non ha mai letto un qualsiasi buon manuale di storia della
lingua italiana, ma queste prime impronte rischiano di convincerlo per sempre che quel che la
scuola gli insegna appartiene forse all’ordine di un oscuro dover essere, non a quello dell’essere.
Questo modo di insegnare, se la tempra del bambino o della bambina non è forte, può disorientare.
Ai maestri e alle maestre occorre ripetere quello che le Tesi raccomandavano e che a me è capitato
di scrivere da anni ormai remoti: insegnate l’affetto e l’interesse per la lettura, l’affetto e l’interesse
per la scrittura e poi la correttezza ortografica verrà da sé. E verrà anche la correttezza grammaticale
particolarmente nella forma scritta. L’imponente presenza di alunni di altra lingua nativa non fa che
aggiungere ragioni alla scelta di questa strada.
Tenere d’occhio l’ambiente linguistico di provenienza degli allievi non vale solo per il miglior
apprendimento dell’ortografia. È l’insieme delle capacità linguistiche, è il loro intero sviluppo che
impongono questo sguardo all’esterno delle mura scolastiche. Da tanti anni, dai tempi della
“Biblioteca di lavoro” di Mario Lodi e Luciano Manzuoli, anche prima delle Dieci tesi, lavorando
con insegnanti ho cercato di suggerire che l’attenzione per l’ambiente linguistico e culturale esterno
può diventare un tema didattico, un tema che arricchisce le capacità d’osservazione di allievi e
allieve, ma anche serve a dare a chi insegna una più precisa consapevolezza della dimensione
nascosta, delle diversità e fratture che possono nascondersi nella mente e nelle effettive capacità di
comprensione di allievi magari tutti eguali in apparenza. Oggi questa attenzione è tanto più
necessaria per almeno tre grandi ordini di motivi.
La nostra scuola italiana, come del resto in tutti i Paesi europei, si trova a dovere essere sempre di
più multiculturale e multilingue. Il 7% della popolazione scolastica è costituito da bambine e
bambini di altre nazionalità, portatori di altre culture e di altre lingue. Il multilinguismo
dell’ambiente e il plurilinguismo che ne nasce in molti bambini e adolescenti di diversa lingua
nativa rappresentano certamente una via di arricchimento. Ma bisogna assicurare alcune condizioni
perché la ricchezza non si trasformi in un handicap, almeno dentro la scuola: occorre sostenere la
persistenza del rapporto con le lingue di provenienza, attrezzarsi per sviluppare questo sostegno con
insegnanti adeguati a ciò, creare le condizioni di scambio interlinguistico nella classe, nella scuola e
nell’istituto scolastico. Questo è norma o è usuale in tanti Paesi, dalla Svezia al Regno Unito o
all’Australia. Ne hanno parlato alcuni anni fa Miguel Siguan e William F. MacKey, in un libro
promosso dall’UNESCO e pubblicato in italiano presso un benemerito editore di Nuoro, Insula, col
titolo Educazione e bilinguismo1.
Secondo ordine di motivi indipendente dalla grande immigrazione in atto. Non diamo retta a
giornalisti e a taluni sapientoni male informati: l’Italia in Europa si caratterizza ancora per un alto
indice di diversità linguistica nativa. Soltanto poco più del 40% della popolazione ha adottato
l’italiano come lingua dominante fuori e dentro le mura di casa, e cioè anche nell’uso familiare.
Una percentuale assai maggiore usa accanto all’italiano uno dei tanti e tutt’altro che svaniti dialetti
(48%) e due altri blocchi cospicui di popolazione usano o uno dei dialetti in modo esclusivo (cioè
non parlano l’italiano né in casa né nemmeno con estranei) oppure parlano una delle 14 lingue di
minoranza, 13 delle quali (non purtroppo le parlate rom) riconosciute e tutelate dalla legge 430/99.
Bisogna sapere che si parte da queste realtà linguistiche nativamente eterogenee perché tutta intera
la classe cammini verso il pieno possesso dell’italiano e delle grandi lingue europee di cultura.
Giustamente il documento europeo che citavo all’inizio parla, finalmente, di “lingue”
dell’educazione: il plurale ormai si impone.

3
Ma c’è un terzo ordine di motivi, il meno avvertito almeno nella comune consapevolezza nazionale.
Periodicamente sui giornali si leggono lamentele: “i ragazzi non sanno leggere”, “i ragazzi non
sanno esprimersi”, “i ragazzi non sanno scrivere”. Si cercano affannosamente colpevoli: gli SMS,
internet e soprattutto la scuola. Tranne eccezioni, non si osserva che sarebbe strano che i nostri
adolescenti e giovani sapessero parlare e scrivere tutti “come un libro stampato” (diceva Collodi).
Per quanto la scuola abbia fatto e faccia (specie quella elementare e specie dagli anni Sessanta in
poi), ragazzini e adolescenti sono figli di una società adulta che, rispetto alle medie europee e dei
Paesi più ricchi, si segnala per bassissimi indici di lettura di quotidiani e di libri: una copia di
quotidiano ogni dieci abitanti e poco più di un terzo di lettori veri di un libro nell’anno. Ma indagini
osservative recenti promosse da Statistic Canada e svolte in vari Paesi del mondo, tra cui il nostro,
ci mettono in presenza di una condizione degli adulti assai peggiore e di una valutazione più severa
delle condizioni di alfabetizzazione della popolazione adulta italiana, anche di quella uscita dalla
scuola in possesso di livelli assai alti di scolarità. In questi ultimi sessant’anni, il cammino che
l’Italia ha fatto nella direzione dell’apprendimento della lingua nazionale è stato enorme. Negli anni
Cinquanta del Novecento l’uso della lingua nazionale era assolutamente minoritario: a essere
ottimisti non andava oltre un terzo la popolazione capace di capire un discorso in italiano e di
esprimersi in italiano. E il 60% era privo di licenza elementare. Ormai quasi il 90% della
popolazione adulta sa capire e sa esprimersi in italiano e i senza titolo sono ridotti a pochi punti
percentuali. Lo straordinario progresso riguarda soprattutto il parlato. Ma il possesso pieno e ricco
della capacità di controllo di una lingua, specie di una lingua internamente stratificata e ricca di
formazioni concorrenti come è l’italiano, lo si ha soltanto sviluppando l’abitudine alla lettura e
anche alla scrittura. Qui purtroppo c’è un deficit tradizionale e secolare dell’Italia di cui non
riusciamo a liberarci. I dati OCSE ci dicono che metà dei ragazzi ha difficoltà di lettura e scrittura.
L’OCSE e le indagini di Statistic Canada ci dicono che in questa condizione si trova non la metà,
ma l’80%, anzi, per l’esattezza, l’81% degli adulti. Ho cercato di divulgare la conoscenza di questo
dato, acquisito ormai da anni e accessibile in forma analitica nel rapporto curato da Vittoria Gallina
Letteratismo e abilità per la vita.5 Ma il dato non circola. E questo oscura il lavoro enorme che la
scuola tuttavia riesce a fare strappando la metà dei ragazzi alle condizioni di “illetteratismo” (così
amano dire i pedagogisti, io preferisco il consueto e più crudo analfabetismo) delle famiglie e degli
adulti. Ho visto con piacere che il nuovo presidente dell’ISTAT, Enrico Giovannini, valente
studioso di indicatori statistici socioculturali, ha accolto questi dati nella sua recente Relazione
annuale dell’ISTAT. Speriamo che il muro di silenzio si rompa. Del dato prendano intanto
coscienza gli insegnanti.
La scuola non dovrebbe essere lasciata sola. L’intera società adulta, l’intero ceto dirigente (politici,
giornalisti, imprenditori, studiosi, tutti i sindacati, e non la sola CGIL) dovrebbe capire che per il
presente e per l’avvenire del Paese occorre sviluppare politiche di sostegno alla circolazione della
lettura e quindi sviluppare stili di vita diversi non solo tra i ragazzi, ma anche e anzitutto tra gli
adulti.
La povertà linguistica e quindi culturale di molti ragazzi è conseguenza diretta della povertà di
stimoli che l’ambiente familiare e l’ambiente circostante danno ai ragazzi e alle ragazze. Case senza
libri (l’89%, secondo l’ISTAT), comuni senza centri pubblici di lettura e biblioteche territoriali (più
di tre quarti degli 8000 comuni) pesano sulla maggioranza dei ragazzi. Diversa è la situazione di
ragazze e ragazzi (vogliamo dire il 20%?) che hanno la fortuna di provenire da quegli esili strati di
popolazione in cui sono abituali la conversazione in casa, la lettura di libri, lo sviluppo di interessi
artistici e culturali.
La scuola fa già moltissimo per sottrarre alle condizioni di partenza negative, familiari e ambientali,
una parte dei ragazzi. Non ci riesce abbastanza, ma non può riuscirci da sola. Ma il peggio è che,
una volta usciti dalla scuola, magari con alti titoli di studio e magari con buone competenze, ragazzi
e ragazze diventando adulti ripiombano in una società in cui leggere e avere interessi culturali che
5
Vedi V. Gallina (a cura di), Letteratismo e abilità per la vita. Indagine nazionale sulla popolazione italiana
16-65 anni, Roma, Armando, 2006, p. 17.

4
vadano al di là dell’immediatezza è qualcosa di strano e di stravagante e quindi vanno di nuovo a
ingrossare la massa già consolidata di analfabeti adulti di ritorno. Per evitarlo occorre un impegno
molto più generale di tutta intera la nostra società, ma per ora ne siamo ben lontani, mi pare. Ma
non bisogna stancarsi e scoraggiarsi, mai.

Tullio De Mauro, professore di Linguistica Generale. È stato assessore alla Cultura della Regione
Lazio dal 1976 al 1978 e Ministro della Pubblica Istruzione nel 2000-2001. Si occupa di linguistica,
filosofia del linguaggio e educazione linguistica.

1
M. Siguan e W. F. MacKey, Educazione e bilinguismo, Insula, Nuoro, 1992.

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