Sei sulla pagina 1di 3

Il Canzoniere della Luce

Paolo Cherchi
(Introduzione a Canzoniere, Petrarca, a cura di Sabrina Stroppa, Einaudi)

I rerum vulgarium fragmenta esibiscono già dal titolo una struttura dispersiva eppure
pianificata. La natura programmatica non si evince esclusivamente dalla schematica
disposizione dei componimenti all'interno della raccolta, ma anche da quel "vulgarium" del
titolo. Nel linguaggio petrarchesco sta ad indicare una coerenza stilistica, una veste
linguistica uniforme: nello specifico poesia in lingua toscana.

All'interno del canzoniere la luce gioca un ruolo fondamentale ed è un tema che si ripete
in un continuum talvolta interrotto, che si mostra fin dal primo componimento e che termina
nell'ultimo in una chiusura circolare.
Collegamento diretto alla luce è la vista e lo sguardo: molti sono i verba videndi che si
riferiscono principalmente agli occhi della mente. Per esempio, l'Amore colpisce attraverso
lo sguardo, come tradizione stilnovistica ci insegna: il primo vero poeta della luce, infatti, è
da considerarsi Guido Cavalcanti. La donna di Cavalcanti emana una luce talmente forte
da far tremare l'aria attorno a lei e il poeta non la vede veramente: l'unica cosa che
percepisce è la distruzione che questo fulgore gli ha provocato dentro.
In Petrarca la luce acquisisce quasi forma sostanziale, capace non solo di dar forma a
corpi e rappresentazioni fantasmatiche, ma anche di fungere da cornice spaziale che
circonda Laura e che le fa da sfondo. Cherchi riporta la prima quartina del sonetto terzo,
descrizione dell'innamoramento di Petrarca:

Era il giorno ch’al sol si scoloraro


per la pietà del suo Fattore i rai,
quando i’ fui preso, et non me ne guardai,
ché i be’ vostr’occhi, donna, mi legaro.

L'amore per Laura nasce dagli occhi: quelli belli di Laura che incatenano il poeta.
L'allusione al fenomeno luminoso in questo incipit è fondamentale, in quanto descrizione
della passione e morte di Cristo, in cui il sole si oscura. I veri protagonisti di questo
sonetto, però, sono gli occhi: quelli del sole (i rai), che impallidiscono e scemano
d'intensità per la pietà del Cristo morto; quelli di Laura che catturano e incatenano, lucenti
non appena il sole si spegne; quelli del poeta che – incapace di proteggere la vista dal
peccato, proprio come fecero i primi uomini 1 – si lascia incatenare e ferire dall'amore.
Nell'incipit del sonetto si nota anche un richiamo formale al vangelo di Giovanni,
dipingendo il poeta come colpevole specchio della passione di Cristo.

quando i’ fui preso ...


ché i be’ vostr’occhi ... mi legaro.

comprehenderunt Iesum
et ligaverunt eum

1 "Allora si aprirono gli occhi ad entrambi e si accorsero che erano nudi."


Si riferisce al passo della Genesi in cui Adamo ed Eva, mangiato il frutto dell'albero della conoscenza, hanno
consapevolezza dell'ambiente e di sé. Allo stesso modo Petrarca non esercita la custodia oculorum, ovvero non
preserva il proprio sguardo da ciò che è proibito e potrebbe condurlo in tentazione: Laura in questo caso.
Occhi e luce sono due elementi concatenati: il ruolo di quest'ultima, infatti, è protagonista
indiscussa quando si irradia dagli occhi di Laura. La luce scolpisce nella memoria la figura
dell'amata e le dona spessore: la luce irradiata da Laura è così potente da influenzare
anche l'ambiente che la circonda, imprimendovi la propria immagine. La luce è il medium
che l'avvolge e lo spazio in cui si muove, l'aura che l'avvolge.
Talvolta, la luce non si limita a farle da cornice, bensì le dà forma e diviene tutt'uno con lei.
Si legge nella prima quartina del sonetto 90:

Erano i capei d’oro a l’aura sparsi


che ’n mille dolci nodi gli avolgea,
e ’l vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi, ch’or ne son sì scarsi;

L'idea che traspare è quella di una Laura quasi fantasmatica, tutt'uno con la luce, che brilla
e s'infiamma di luce propria, trapassata dalla luce stessa.
Analogalmente, l'idea viene restituita dalla canzone 126, "Chiare, fresche et dolci acque".
A parte l'iniziale "chiare" non c'è alcun elemento che esprima l'idea di luce e solarità,
eppure il lettore la avverte, sente vibrare l'ambiente della sua aura.
La luce che informa Laura ha la capacità di renderla presente anche quando non c'è.
Funge da varco, come una finestra – limite fra ambiente interno ed esterno – che fa
percepire a chi la guarda una presenza sott'intesa anche se non la si vede. Laura è una
presenza bivalente, sia presente che assente, mitificata, che vive nell'immagine mentale
di Petrarca che ricorda. La luce permane fino all'ultima volta in cui il poeta sogna Laura: è
avvolta dalla luce mistica di chi è ormai spirito – una luce non percepibile dai mortali. In
questo caso è proprio la luce ad impedire la visione – anche immaginaria – dell'amata.
Da questo momento in poi la luce scompare e aumenta l'attività introspettiva del poeta,
che guarda a fondo se stesso attraverso uno specchio. In realtà – contrariamente a quanto
si potrebbe pensare dati i temi del canzoniere – il tema dello specchio non è approfondito
più di tanto: sono specchi gli occhi di Laura – e anche dardi; c'è lo specchio davanti al
quale si gingilla l'amata, tutta chiusa in se stessa e per se stessa (sonetti 45 e 46); e poi
lo specchio introspettivo del sonetto 361, indice del raggiungimento di un'intimità nuova,
di un livello superiore:

Dicemi spesso il mio fidato speglio,


l’animo stanco, et la cangiata scorza,
et la scemata mia destrezza et forza:
- Non ti nasconder piú: tu se’ pur vèglio.

Le parole speglio e vèglio, messe in evidenza dalla rima, stanno a sottolineare che – dopo
essersi guardato a lungo dentro – il poeta ha raggiunto un altro livello di conoscenza di se
stesso.
La luce tornerà – a chiudere il cerchio – nell'ultimo componimento dei Fragmenta.
Ricompaiono i verba videndi, ma la prospettiva ora è cambiata: è quella di Dio. Il sole che
ritorna nell'ultima canzone – la 366 – non è più Apollo del mito di Dafne, né la cornice
quasi tangibile in cui si muove Laura. Adesso è pura sostanza divina:

Vergine bella, che di sol vestita,


coronata di stelle, al sommo Sole
piacesti sí, che ’n te Sua luce ascose [...]
Presso la tomba di Francesco Petrarca
Giosuè Carducci
(Saggio da Canzoniere, Petrarca, a cura di Sabrina Stroppa, Einaudi)

Petrarca – pur ispirandovisi – si allontana di molto dal classicismo, ma anche da molti


aspetti della forma mentis medievale. Solo e pensoso per i campi, lontano dagli uomini e a
tormentarsi il cuore, assomiglia – afferma Carducci – quasi al Werther.
Quel che lo rende il padre dell'umanesimo, un protoumanista, è l'abilità trascurata, nella
poetica di quel tempo, dell'introspezione, dell'arte come specchio del sé. Petrarca dà un
valore intimo alla propria anima, la rende degna di importanza lirica, la analizza. Quello
che lo accomuna ai suoi contemporanei, ovviamente, è il tema amoroso (principalmente) e
il profondo sentimento religioso, causa maggiore del suo excrucior. Il dissidio interiore è
parte integrante di Petrarca: quello fra – continua Carducci – fra la natura finita dell'uomo e
le sue aspirazioni infinite; fra l'umano e il divino, il pagano e il cristiano. L'innovazione di
Petrarchesca sta nell'elevazione del sensibile e nell'umanizzazione del divino, accostato ai
sentimenti umani. Questo concetto è alla base dell'estetica umanista. La natura più
tangibile della sua lirica si evidenzia soprattutto nel ritratto di Laura: ci appare spesso
come se fosse in carne ed ossa, riusciamo a percepirla, sentiamo la sua luce. I suoi capelli
biondi – scrive Carducci – si agitano veramente al vento, sono materiali.

La rivalutazione della natura, la sua ribenedizione – come la definisce Carducci –


influisce anche sulla visione che Petrarca ha della morte: si avvicina più alla realtà
classica di Platone e Sofocle. È serena, senza disperazioni disumanizzanti o allegorie di
scheletri rinsecchiti e putridi, anzi. La morte, scrive il poeta, appare addirittura bella sul
viso di Laura. Il contatto che Laura ha con il mondo terreno dopo la morte è sempre vivo:
quella fra il paradiso e la Terra non pare più un muro, piuttosto un velo. Visione che
Carducci definisce "innocente tradimento al medioevo". Ed è proprio questo tradimento
ad innescare nuovamente il dissidio dell'anima. Un dissidio che si accusa chiaramente
nella struttura formale del canzoniere: inno ed elegia insieme.

È elegia il patimento
È inno tutto ciò che è
del poeta, il ricordo
riferito alla Vergine: un
delle cose passate, le
registro solenne, alto,
immagini mentali, lo
classicamente perfetto.
struggimento.

Il protoumanesimo di Petrarca si deve anche al suo vivo interesse filologico e alla sua
attitudine – estremamente prolifica – alla corrispondenza. Scrisse diverse lettere – alcune
fittizie, altre no – e ne scambiò molte con personalità diffuse in Italia e in Europa. Lettere
che scambiò anche con il visionario "tribuno" di Roma Cola di Rienzo. La corrispondenza
con Cola ci rimanda ad una che più risalta fra le peculiarità di Petrarca: l'affetto verso
l'Italia. L'affetto che Petrarca nutre per il paese è immagine dell'Italia classica, quella
gloriosa conosciuta con Cicerone, Livio, Virgilio. Questo non deve però indurre nell'errore
di reputare Petrarca nostalgico dell'epoca mai vissuta 2.

2 Vedi approfondimento: Petrarca politico e la canzone all'Italia, saggio di Balduino.

Potrebbero piacerti anche