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Fisica IV°

LA GRAVITAZIONE
Le leggi di Keplero

Come i pianeti si muovano nel cielo è una questione che affascina l’uomo sin dall’antichità. Molti modelli ne sono
stati presentati nel corso della storia. Secondo Aristotele (e Tolomeo), il moto dei pianeti e degli altri satelliti
(come la la Luna) avveniva in traiettoria circolare attorno alla Terra, posta al centro dell’universo: i
corpi celesti, infatti, erano ritenuti perfetti, ed era quindi conseguenza che le loro orbite fossero descritte da cerchi
concentrici, forme perfette, infinite, prive di inizio e fine, immutabili; il moto di ciò che avveniva sulla terra, caduco
e corruttibile, obbediva invece a leggi differenti.

Lo scienziato polacco Copernico propose un modello dell’universo in cui al centro era situato il Sole, e attorno ad
esso ruotassero, sempre in orbite circolari concentriche, gli altri pianeti, compresa la terra: questo rendeva conto di
alcuni fenomeni che si riscontrano sul nostro pianeta, e di molte osservazioni fatte dallo stesso Copernico; tuttavia,
anche il modello copernicano non riusciva a render conto di molti altri dati raccolti dalle osservazioni
astronomiche.

All’inizio del 1600, lo scienziato tedesco Johannes von Kepler (latinizzato in Giovanni Keplero) formulò tre
leggi, sulla base delle osservazioni del suo maestro danese Tycho Brahe, che prevedevano perfettamente (e lo fanno
tutt’ora) il moto dei pianeti all’interno del sistema solare.

Va precisato che queste sono leggi sperimentali, ovvero prevedono correttamente il comportamento dei corpi
celesti entro il sistema solare, in accordo con i dati sperimentali, ma non ne spiegano le cause.

Prima Legge

L’enunciato della prima legge di Keplero riguarda la forma delle orbite:

 “Le orbite descritte dai pianeti attorno al Sole sono ellissi di cui il sole occupa uno dei fuochi”

Ricordiamo che un ellisse è una figura piana, definita come il luogo dei punti del piano la cui somma delle distanze
da due punti fissi, detti fuochi, è costante. Con riferimento alla figura sottostante, indichiamo con aa la lunghezza
del semiasse maggiore dell’ellisse, con bb la lunghezza del semiasse minore. La distanza dei due fuochi dal centro
dell’ellisse sarà cc, calcolato tramite il teorema di pitagora: c = \sqrt{a^2 - b^2}c=a2−b2.
Per la prima legge di Keplero, il Sole occupa la posizione di uno dei due fuochi, mentre l’altro fuoco è
lasciato libero; il punto in cui un pianeta orbitante attorno al Sole gli è più vicino si chiama perielio, mentre il
punto dell’orbita in cui il pianeta è più distante è detto afelio (sono entrambe parole che derivano dal greco antico:
infatti, helios vuol dire “sole”, perì significa “accanto”, e apò significa “lontano”).

La prima legge, oltre a regolare la forma dell’orbita, fornisce anche un’informazione in più: essendo un ellisse una
figura piana, le orbite avvengono su un unico piano.

Seconda Legge

La seconda legge di Keplero regola la velocità orbitale di un pianeta: essa non è costante, come in un moto
circolare uniforme; la sua magnitudine è infatti determinata dalla sua posizione. L’enunciato della seconda legge è
il seguente:

 “il raggio vettore che unisce il sole al pianeta orbitante descrive aree uguali in tempi uguali”

Per “raggio vettore” si intende il vettore che possiede per direzione la retta passante per il punto che indica la
posizione del pianeta e il punto che indica la posizione del Sole, per verso quello che dal Sole punta al pianeta e
per modulo la distanza consistente tra il pianeta stesso e il Sole: in parole povere, una freccia che punta dal Sole al
pianeta orbitante. Man mano che il pianeta compie la sua orbita, questo vettore descrive un’area, una specie
di “settore ellittico”.
Supponiamo che trascorra un intervallo di tempo di durata \Delta tΔt, e che in questo intervallo di tempo il
pianeta venga a portarsi dalla posizione iniziale x_1x1 a quella finale x_2x2, compiendo dunque
uno spostamento \Delta \vec{x} = x_2 - x_1Δx=x2−x1. La seconda legge asserisce che, fermo restando
l’intervallo di tempo \Delta tΔt, l’area di questo settore ellittico rimane sempre la stessa,
indipendentemente dalla posizione di partenza x_1x1 del pianeta:

La velocità del pianeta orbitante non è costante: come si vede dalle immagini, più il pianeta si trova vicino al
sole, minore è il raggio, e, di conseguenza, maggiore deve essere la velocità con cui il pianeta si muove. Se la
velocità fosse costante, le aree descritte dal raggio pianeta-sole in intervalli di tempo uguali sarebbero differenti.

Possiamo enunciare la seconda legge di Keplero con una formula matematica. Immaginiamo che un pianeta orbiti
attorno al Sole per un intervallo di tempo di durata \Delta tΔt. Se chiamiamo \Delta \mathcal{S}ΔS l’area
descritta dal raggio vettore in questo periodo di tempo, la seconda legge di Keplero ci indica che questa quantità
rimane costante durante il moto: possiamo dunque asserire che la velocità areolare, ossia il rapporto tra l’area
spazzata dal raggio vettore \Delta \mathcal{S}ΔS e la durata \Delta tΔt dell’intervallo di tempo impiegato a
descriverla, è costante:\frac{\Delta \mathcal{S}} {\Delta t } = \text{ costante}ΔtΔS= costante

Terza Legge

La terza e ultima legge di Keplero concerne il periodo impiegato da un pianeta a compiere un’orbita completa.
Essa stabilisce che:

 “il rapporto tra il cubo del semiasse maggiore dell’orbita e il quadrato del periodo di
rivoluzione è lo stesso per tutti i pianeti”
Abbiamo introdotto il periodo TT per il moto armonico e il moto circolare; il periodo non è una grandezza
tipica solo di quei moti, ma caratterizza un'intera categoria di moti, detti appunto moti periodici: un certo punto
materiale si muove di moto periodico se, dopo un certo lasso di tempo, esso ritorna in una posizione
precedentemente raggiunta con la medesima velocità. Si dice periodo di un moto periodico il più piccolo
intervallo di tempo TT per cui questo fenomeno si verifica.

In base alla prima e alla seconda legge di Keplero, il moto dei pianeti nel sistema solare è un moto
periodico: essendo l’orbita ellittica (che è una curva chiusa), il pianeta tornerà sicuramente su posizioni occupate
precedentemente; inoltre, data la seconda legge di Keplero, la velocità orbitale posseduta da un pianeta sarà
determinata dalla sua posizione nell’orbita, e quindi, passando per lo stesso punto, anche la velocità sarà la
medesima. Ne concludiamo che il moto dei pianeti nel sistema solare è periodico.

Per un’orbita chiusa, il periodo è semplicemente la durata di “un giro completo”. Se chiamiamo TT il
periodo del moto di un pianeta, e aa la misura del semiasse maggiore della sua orbita, la terza legge di Keplero può
essere riassunta dalla seguente formula matematica:\frac{ a^3 }{ T^2 } = \text{ costante}T2a3= costanteLa
costante venne determinata da Keplero in persona, e per questo viene a volte indicata con la lettera KK e prende il
nome di “costante di Keplero”. Questa costante dipende dal corpo celeste attorno a cui viene calcolata l’orbita.

Le leggi di Keplero, pur descrivendo perfettamente tutti i fenomeni celesti che si possono osservare nel nostro
sistema solare, non spiegano le cause di questi stessi fenomeni: come accennato in principio, esse sono
infatti leggi sperimentali, le quali prevedono esattamente, con calcoli matematici, i risultati delle osservazioni
scientifiche. Il motivo per il quale il sistema solare, e in generale un sistema di corpi orbitanti attorno ad uno molto
più massivo, aderisca per filo e per segno alle leggi di Keplero venne illustrato da Isaac Newton con la teoria
della gravitazione universale: mediante lo sviluppo di nuove discipline matematiche, egli riuscì a mostrare
la validità delle leggi di Keplero, assumendo come punto di partenza le leggi della dinamica e la
legge di gravitazione universale.

In particolare, il lavoro di Newton consistette dei seguenti punti:

 Per la forza gravitazionale, il momento meccanico \vec{M}M risulta nullo, poichè la forza è sempre
diretta come il braccio: di conseguenza, il momento angolare \vec{L}L si conserva. Si può
dimostrare come il modulo del momento angolare, in questo caso, sia il doppio della quantità \frac{\Delta
\mathcal{S}}{ \Delta t}ΔtΔS descritta precedentemente: dunque, anche quest’ultima si conserva.
Conservandosi come vettore, il momento angolare definisce anche il piano su cui avviene il moto del pianeta.

 Sfruttando tecniche matematiche da lui stesso inventate (che oggi vanno sotto il nome di calcolo
infinitesimale), Newton riuscì a ricondursi al calcolo della forma dell’orbita, giungendo ai risultati previsti
da Keplero: le orbite, sotto precise ipotesi, risultavano ellittiche.
 Riconducendo la misura del semiasse maggiore ad altre quantità (precisamente, all’energia cinetica posseduta
dal corpo celeste, al suo momento angolare, alla massa del pianeta in questione e alla costante di gravitazione
universale), Newton dimostrò che il quadrato del periodo di rivoluzione di un pianeta doveva
essere proporzionale al cubo del semiasse maggiore della sua orbita, in accordo con le leggi di Keplero.

LEGGE GRAVITAZIONE UNIVERSALE


La forza di gravità è una forza nota sin dall’antichità. Moltissimi fenomeni cui assistiamo ogni giorno possono essere
spiegati grazie a essa: è la causa per cui rimaniamo a contatto col suolo, ci incliniamo verso il centro della curva
quando sterziamo in moto e la Terra gira attorno al Sole descrivendo un’orbita ellittica.

 Isaac Newton, scienziato cui si devono le tre leggi della dinamica, enunciò la forza di gravità nella sua
opera Philosophiae Naturalis Principia Mathematica (1687), in termini coerenti con le osservazioni disponibili
a quei tempi, e in accordo con i prinicipi della dinamica da lui stesso enunciati: quest’enunciato è sufficiente a
spiegare gran parte dei fenomeni che ci circondano ancora oggi.
 La legge formulata da Newton afferma quanto segue: due corpi dotati di massa si attraggono con una
forza che è direttamente proporzionale al prodotto delle masse e inversamente proporzionale
al quadrato della distanza che li separa.
 La direzione della forza risulta quindi essere la retta che congiunge i due punti materiali; il verso quello che da
un corpo punta verso l’altro; il modulo è definito da\boxed{F = G \frac{m_1 \ m_2}{ r^2 } }F=Gr2m1 m2
in cui compaiono due masse m_1m1 e m_2m2, la distanza tra i due punti materiali rr, e la costante di
proporzionalità GG.

 Questa costante è estremamente importante ed è nota come costante di gravitazione universale.
Nel Sistema Internazionale, il suo valore è pari a circa 6 ,67 \ 10^{-11}\text{ N}\text{m}^2 /
\text{kg}^26,67 10−11 Nm2/kg2; questo valore fu ricavato dallo scozzese Henry Cavendish (per questo motivo
è anche conosciuta come costante di Cavendish). Si chiama “universale” in quanto il suo valore non cambia al
cambiare dell’osservatore e del sistema di riferimento, e sembra essere una delle costanti che definisce
intrinsecamente il nostro universo.


 Per sua stessa definizione, la forza di gravità sussiste come interazione tra due corpi: in base al principio di
azione-reazione, il modulo della forza esercitata da un corpo sull’altro deve essere uguale.
 Mediante l'applicazione rigorosa dei principi della dinamica e presupponendo che tra due corpi sussistesse solo
l'interazione gravitazionale, da lui stesso enunciata, Newton riuscì a dimostrare le tre leggi di Keplero.
 Esempio: Calcolare l'intensità della forza di gravità che agisce tra due alunni di massa 70 \text{ kg}70 kg e 65
\text{ kg}65 kg distanti 2,5 \text{ m}2,5 m l'uno dall'altro.
 Sostituiamo direttamente nella formula e otteniamo:
 F = \frac{ 6,67 \cdot 10^{-11} \cdot (70 \cdot 65) }{ 2,5 }= 4,8 \cdot 10^{-8} \text{
N}F=2,56,67⋅10−11⋅(70⋅65)=4,8⋅10−8 N.
 Invece il peso dei due alunni, supponendo che siano sulla superficie terrestre, è pari a 60 \cdot 9,8 = 588 =
5,88 \cdot 10^{2} \text{ N}60⋅9,8=588=5,88⋅102 N e 75 \cdot 9,8 = 735 = 7,35 \cdot 10^{2} \text{
N}75⋅9,8=735=7,35⋅102 N rispettivamente. Osservando la differenza tra l’ordine di grandezza del peso e
quello della forza gravitazionale (ben dieci ordini!), non ci si stupisce che i due alunni rimangano dove sono e
non volino l’uno contro l’altro. Tutt’altro discorso invece sarebbe trattare il medesimo problema ma nel vuoto:
in assenza di un’accelerazione \vec{g}g, i due alunni inizierebbero a muoversi lungo la retta che li congiunge,
seppur molto lentamente.

Accelerazione di gravità sulla superficie della terra

L’accelerazione di gravità
Il moto di un oggetto lasciato cadere verso il basso è influenzato dalla presenza dell’aria. Infatti l’aria oppone una resistenza al moto che dipende dalla forma
dell’oggetto: un foglio di alluminio cade molto più lentamente di un foglio identico ma appallottolato.

Con una serie di esperimenti che segnano l’inizio della fisica moderna, Galileo Galilei (1564-1642) dimostrò che le differenze fra i moti di caduta dipendono solo
dalla resistenza dell’aria. Infatti

quando la resistenza dell’aria è trascurabile, tutti i corpi cadono con la stessa accelerazione g, detta accelerazione di gravità.

Sulla superficie terrestre l’accelerazione di gravità è (con due cifre significative):

g = 9,8 m/s2

In realtà il valore di g cambia da punto a punto, perché dipende fra l’altro dall’altezza del punto sul livello del mare e dalla sua latitudine. Sulla superficie
terrestre g è compreso fra 9,78 m/s2 e 9,83 m/s2; nei calcoli useremo sempre il valore 9,8 m/s2.

LA TEMPERATURA
Dilatazione lineare e volumica
Generalmente i corpi, se riscaldati a pressione costante, aumentano di dimensioni al crescere della temperatura.
Tale effetto riveste particolare importanza nella pratica: infatti di esso si deve tener conto nella costruzione di ponti,
di edifici, di linee ferroviarie e di strumenti di precisione. Se non compensata, la dilatazione termica dei corpi può
portare a deformazioni pericolose, a rotture disastrose o a misurazioni falsate. Tuttavia tale fenomeno fisico non deve
essere visto come un effetto negativo, dal momento che, ad esempio, nei termometri esso viene sfruttato per misurare
la temperatura e del resto numerosi servomeccanismi di controllo sfruttano proprio le variazioni di dimensioni di
opportuni sensori per funzionare.

Da un punto di vista fisico e pratico vengono considerate per i solidi la dilatazione termica lineare e la dilatazione
termica cubica, mentre per i liquidi (che non hanno forma propria e quindi dimensioni definite) non ha molto senso
parlare di dilatazione lineare, ma interessano invece
le variazioni di volume.
Sostanza λ [ºC-1] Sostanza λ [ºC-1]
Dilatazione termica lineare Acciaio 1,2x10-5 Ottone 1,9x10-5
Per variazioni ΔT abbastanza piccole di temperatura
Alluminio 2,4x10-5 Piombo 2,9x10-5
T, la variazione ΔL della lunghezza L di una delle
dimensioni di un corpo solido risulta proporzionale Cemento 1,2x10-5 Rame 1,7x10-5
a ΔT, se la pressone è costante. Si può quindi Ferro 9,1x10-6 Vetro 1,0x10-5
scrivere la relazione ΔL = λLΔT oppure, il che è lo Invar (lega Fe-Ni) 7,0x10-7
Quarzo 7,0x10-7
stesso, L + ΔL = L(1 + λΔT). Superinvar (lega Fe-Ni-Cr) 8,0x10-8
Il coefficiente λ, detto coefficiente di dilatazione
lineare, è caratterisitco di ogni materiale ed è in Coefficiente di dilatazione lineare a 20 ºC
genere funzione della temperatura. Si ricava che λ = (1/L)(ΔL/ΔT) ovvero che esso è uguale all'allungamento
relativo (ΔL/L) dell'unità di lunghezza per variazione unitaria di temperatura (ad esempio di 1 grado Celsius). L'unità
di misura di λ è 1/grado (per esempio ºC-1).
Nonostante i valori molto piccoli del coefficiente λ riportati per alcune sostanze in tabella, le dilatazioni posso
provocare effetti assai dannosi. Infatti si consideri una sbarra d'acciaio incastrata alle estremità. All'aumentare della
temperatura T, la sbarra tende ad allungarsi, ma la dilatazione è impedita dai vincoli, per cui su di essa si producono
degli sforzi di compressione anche notevoli. Ad esempio, per un aumento di temeratura di 10 ºC corrisponderebbe un
allungamento di una parte su 10000. Tenendo conto del modulo di elasticità del materiale, si otterrebbe uno sforzo di
compressione di 210 kg forza per centimetro quadrato. La sbarra potrebbe entrare nella zona di intabilità per carico
di punta deformandosi pericolosamente. E' proprio per evitare l'insorgenza di tali sollecitazioni che a volte i ponti
sono incastrati solo da una parte, mentre dall'altro lato appoggiano su rulli per essere liberi di dilatarsi.
Si segnala infine che per la costruzione di meccanismi metallici d'alta precisione si ricorre a leghe speciali (Invar o
Superinvar) al fine di limitare al massimo l'effetto distorsivo nella misurazione dovuta alla dilatazioine termica. Tali
leghe hanno coefficienti di dilatazione lineare rispettivamente di circa 10 e 300 volte minori di quelli dei metalli
ordinari.

Dilatazione termica cubica Sostanza α [ºC-1] Sostanza α [ºC-1]


Nella determinazione della variazione del volume ΔV Acqua 1,8x10 -4 Cloroformio 14,0x10-4
di un corpo al variare della temperatura T si deve -4
Alcool etilico 10,4x10 Glicerina 5,3x10-4
prima di tutto distinguere tra corpi isotropi (per i quali
il coefficiente di dilatazione lineare λ assume lo stesso Benzina 9,6x10-4 Mercurio 1,8x10-4
valore in tutte le direzioni) e corpi anisotropi (nei Coefficiente di dilatazione cubica a 20 ºC
quali λ varia al variare della direzione).
Nel caso di corpi isotropi vale la relazione ΔV = VαΔT dove α = 3λ. Il coefficiente α prende il nome di coefficiente
di dilatazione cubica. Esso è caratteristico di ogni sostanza e in genere risulta funzione della temperatura T. Si ricava
che α = (1/V)(ΔV/ΔT) ovvero che esso è uguale all'aumento relativo (ΔV/V) dell'unità di volume per variazione
unitaria di temperatura (ad esempio di 1 grado Celsius). L'unità di misura di α è 1/grado (per esempio ºC -1).
In base ai valori del coefficiente di dilatazione cubica (alcuni dei quali sono riportati in tabella), per i liquidi si può
concludere che, rispetto ai solidi, il loro coefficiente α è tra 10 e 100 volte maggiore.
E' chiaro che all'aumentare del volume di un corpo che si dilata la sua densità diminuisce, dal momento che la massa
non può che rimanere costante. A questo comportamento fa eccezione l'acqua che, nell'intervallo di temperatura da 0
ºC a 4 ºC ha un coefficiente di dilatazione cubica negativo, cioè all'aumentare della temperatura il volume diminuisce
e la densità aumenta (Apparecchio di Hope per il massimo di densità dell'acqua).

Le trasformazioni di un gas
as: variabili di stato e tipologie di trasformazioni
3'
Ogni sostanza, a seconda della pressione e della temperatura cui è sottoposta, si può presentare in tre
stati: solido, liquido, aeriforme. I gas non hanno, a differenza degli altri due, un volume proprio ma occupano
tutto lo spazio disponibile che dipende dalla pressione e dalla temperatura. 8 secondi)

Quando si ha a che fare coi gas si preferisce utilizzare come grandezza fisica la quantità di sostanza, la cui unità
di misura è la mole (mol). Essa è definita come la quantità di sostanza contenente un certo numero di atomi o
particelle, conosciuto come numero di Avogadro, pari a circa 6.023 x 1023. Un’altra grandezza molto importante
è la massa molare che esprime in grammi la massa di una mole di sostanza.

Lo stato fisico di un quantitativo di gas è caratterizzato da tre variabili di stato che sono la temperatura, la
pressione e il volume. Variando i valori di queste grandezze hanno origine le trasformazioni termodinamiche:
da uno stato iniziale, caratterizzato da determinati valori di pressione, volume e temperatura, si giunge a uno stato
finale caratterizzato da altri e nuovi valori.
Ci sono tre tipi di trasformazione fisiche particolarmente importanti, governate da altrettante leggi
termodinamiche:

 Trasformazioni isoterme: avvengono a temperatura costante, mentre variano la pressione e il volume.


Da esperimenti inerenti questo tipo di trasformazione è emerso che la pressione e il volume di un gas
sono inversamente proporzionali. Il risultato esprime la legge elaborata da Boyle-
Mariotte: pV=kpV=k dove pp indica la pressione (che si misura in Pascal, Pa), VV il volume (che si misura
in m3) e kk è una costante di proporzionalità. La trasformazione può essere rappresentata sul piano
di Clapeyron, che riporta sull’asse delle ascisse i valori del volume e sull’asse delle ordinate i valori della
pressione.

 Trasformazioni isobare: avvengono a pressione costante, mentre variano la temperatura e il volume.


Studiando questa tipologia di trasformazione è stato ricavato un altro principio secondo cui la variazione di un
volume del gas è direttamente proporizionale alla variazione di temperatura. Si tratta di ciò che ci dice
la prima legge di Gay-Lussac:V = V_0(1 +\alpha\Delta t)V=V0(1+αΔt) Dove VV è il volume
finale; V_0V0 è il volume atemperatura di zero gradi centigradi, e il coefficente \alphaα, chiamato coefficiente
di dilatazione dei gas a pressione costante, è pari a 0,00366 K-1 (ottenuto come l'inverso della temperatura in
gradi centigradi dello zero assoluto: (273,15 K)-1). La rappresentazione grafica, con temperatura in ascissa e
volume in ordinata, è una semiretta che interseca l’asse delle ordinate in corrispondenza del valore V_0V0 e il
suo coefficiente angolare è pari a \alphaα

 Trasformazioni isocore: avvengono a volume costante, mentre variano la temperatura e la pressione. La


variazione di pressione del gas, in questo caso, è direttamente proporzionale alla variazione di temperatura
secondo la seguente equazione detta equazione di Charles (o seconda legge di Gay -
Lussac):p=p_0(1+\beta\Delta t)p=p0(1+βΔt) Dove pp è la pressione, p_0p0 la pressione a temperatura di 0
gradi centigradi e \betaβ il coefficiente di dilatazione del gas a volume costante il cui valore coincide con quello
di \alphaα. La rappresentazion grafica, con temperatura in ascissa e pressione in ordinata, è una semiretta che
interseca l’asse delle ordinate nel punto p_0p0 e ha per coefficiente angolare \betaβ.

Gas perfetti
Un gas ideale, o gas perfetto[1][2], è un gas descritto dall'equazione di stato dei gas perfetti, e che
quindi rispetta la legge di Boyle-Mariotte, la prima legge di Gay-Lussac o legge di Charles, e
la seconda legge di Gay-Lussac, in tutte le condizioni di temperatura, densità e pressione.[3][4][5] In
questo modello le molecole del gas sono assunte puntiformi e non interagenti. I gas reali si
comportano con buona approssimazione come gas perfetti quando la pressione è sufficientemente
bassa e la temperatura sufficientemente alta

Per gas ideale si intende un gas che possieda le seguenti proprietà:[7]

 le molecole sono puntiformi e pertanto hanno un volume trascurabile;


 interagiscono tra loro e con le pareti del recipiente mediante urti perfettamente elastici (ovvero
non vi è dispersione di energia cinetica durante gli urti);
 non esistono forze di interazione a distanza tra le molecole del gas: le molecole si dicono non
interagenti;
 le molecole del gas sono identiche tra loro e indistinguibili;
 il moto delle molecole è casuale e disordinato in ogni direzione ma soggetto a leggi
deterministiche.
In conseguenza di ciò:

 il gas non può essere liquefatto per sola compressione, ossia non subisce trasformazioni di stato;
 il calore specifico è funzione della temperatura;
 l'energia interna è data solamente dall'energia cinetica, non da quella potenziale; essa rimane
costante e non viene dissipata.
In un gas ideale l'energia cinetica media delle molecole del gas è direttamente proporzionale
alla temperatura:
I gas ideali vengono descritti dalla legge dei gas perfetti con buona approssimazione solo
quando la pressione è sufficientemente bassa e la temperatura sufficientemente alta. In caso
contrario è valida la legge dei gas reali.
Deginizione di numero di Avogadro e mole

La costante di Avogadro, chiamata così in onore di Amedeo Avogadro e denotata dal

simbolo o [1], è il numero di particelle (atomi, molecole o ioni) contenute in

una mole. Tale costante ha le dimensioni dell'inverso di una quantità di sostanza (cioè mol-
1). Tale costante è pari a 6,02214076 × 1023 .

Il numero di Avogadro, che ha il medesimo valore numerico della costante di Avogadro,


è invece una quantità adimensionale: 6,02214076 × 1023 [2]. Tuttavia, la denominazione
"numero di Avogadro" era utilizzata prima del 1971 per indicare la stessa costante di
Avogadro, e talvolta viene ancora utilizzata con quest'ultimo significato [3].
La mole (ex grammomole, simbolo mol) è l'unità di misura della quantità di
sostanza.[1] Dal 1971 è una delle sette grandezze fisiche fondamentali del Sistema
internazionale.[2]
A partire dal 20 maggio 2019, la mole è definita come la quantità di sostanza che contiene
esattamente 6,022 140 76 × 1023 [3] entità[4] fondamentali[5], essendo questo il valore
numerico della costante di Avogadro quando espressa in mol-1 (numero di Avogadro).
Tale definizione è stata introdotta nel novembre 2018 nel corso della 26ª Conferenza
generale dei pesi e delle misure, sostituendo la vecchia definizione basata sul numero
di atomi contenuti in 12 grammi di carbonio-12 (12C, ossia l'isotopo
del carbonio con numero di massa 12). In effetti, la ridefinizione della mole è stata decisa
per rendere le unità di misura indipendenti tra di loro (prima la definizione di mole era
legata alla massa) e perché allo stato attuale delle cose è possibile determinare il valore
numerico della costante di Avogadro con un livello di incertezza accettabile.[3]
Il numero di particelle contenute in una mole è noto come numero di Avogadro,
dal chimico e fisico italiano Amedeo Avogadro.
Il concetto di mole fu introdotto da Wilhelm Ostwald nel 1896.[6]
Esempio: in 1 litro di una soluzione acquosa contenente 6 moli di idrossido di sodio disciolti. La
mole è un'unità di misura largamente utilizzata in chimica.

L'equazione di stato dei gas perfetti


L'equazione di stato dei gas perfetti (o ideali), nota anche come legge dei gas perfetti,
descrive le condizioni fisiche di un "gas perfetto" o di un gas "ideale", correlandone
le funzioni di stato. Venne formulata nel 1834 da Émile Clapeyron.

La sua forma più semplice ed elegante è:


dove le variabili sono in ordine: la pressione, il volume, la quantità di sostanza, la costante
dei gas e la temperatura assoluta. L'equazione di stato dei gas perfetti descrive bene il
comportamento dei gas reali per pressioni non troppo elevate e per temperature non
troppo vicine alla temperatura di liquefazione del gas. Una migliore descrizione del
comportamento dei gas reali è dato dall'equazione di stato di Van der Waals.
IL CALORE
In termodinamica e in termochimica, il calore è definito come il contributo di energia trasformata a
seguito di una reazione chimica o nucleare e trasferita tra due sistemi o tra due parti dello stesso
sistema, non imputabile ad un lavoro o ad una conversione tra due differenti tipi di energia. Il calore
quindi è una forma di energia trasferita e non una forma di energia contenuta come l'energia
interna.[1
IL CALORE
 La termologia e la termodinamica sono delle scienze che si occupano degli effetti che la
temperatura può avere sui corpi (ad esempio cambiarne lo stato).
 Il calore è una forma di energia che da un corpo passa ad un altro. Il primo fisico a darne una
definizione completa (assumendo che il calore è energia) e a farne delle considerazioni fu nell’800
Joule, prima si pensava che fosse una specie di sostanza immateriale che da un corpo veniva
passata all’altro.
 L’esperimento che portò Joule ai suoi risultati fu la costruzione di un calorimetro: un contenitore
con all’interno dell’acqua, due pesetti della stessa massa collegati con dei cavi a un perno, a sua
volta collegato con delle eliche, che con il loro movimento (salita e discesa) fanno girare di moto
rotatorio le eliche. Quindi la forza meccanica fa girare le eliche e dal loro moto la temperatura
dell’acqua aumentava.

Energia Meccanica  Energia cinetica

 L’unità di misura dichiarata da Joule è la caloria:

1 cal = 4,187 J

 Una caloria è esattamente il calore (la quantità di energia) che serve per scaldare di un grado un
grammo di acqua, da 14,5°C a 15,5°C.
 Il calore può essere ricevuto tramite il contatto con un corpo più caldo, l’energia passa sempre dal
corpo con temperatura maggiore al corpo con temperatura minore. Un corpo scalda l’altro perché ha
una temperatura maggiore e non per la sua energia interna (se le molecole sono biatomiche, ovvero
girano in più versi, avranno più energie che convergono a formare la loro energia interna).
 Il calore o l’energia che accumulo o perdo è sempre in proporzione alla temperatura che ricevo o
perdo.
ΔE = C ٠ ΔT

 ΔE è l’energia persa o acquistata che è in proporzione con la temperatura;


 ΔT è la temperatura (se varia la temperatura varia anche la mia energia);
 C è la capacità termica, ovvero la quantità di energia che serve per aumentare di 1 grado K, 1 Kg
di una certa sostanza. C si misura in [J/K].
 La capacità termica dipende da due fattori:
1. La massa del corpo;
2. La sostanza di cui è costituito (se aumento le temperature di un pezzo di pane e del
ferro otterrò energie diverse).
C=c٠m
 c è il calore specifico che ogni corpo possiede (dipende dalla sostanza di cui il corpo è
costituito) e si misura in [J/(Kg٠K)] oppure in [cal/(g٠°C)].

[cal/(g٠°C)] ٠ 4186 = [J/(Kg٠K)]

 c dell’acqua vale 4186 [J/(Kg٠K)]. Nel grafico che mostra come varia c al variare della
temperatura (variazione abbastanza irrilevante), c si abbassa più ci si avvicina a 35°C e si alza
verso i 100°C. se si fa una media risulta che c = 4,186 che corrisponde alla temperatura di 14,5
°C.
 c è una grandezza che ogni corpo possiede, è una forma di energia, l’energia che aumenta di 1
grado K 1 Kg di una certa materia.

h=Q/m٠g

 ΔE o Q = c ٠ m ٠ ΔT

 ΔE = Q in questo caso non si chiama energia ma calore, può essere sia un valore positivo sia
negativo: dipende dalla temperatura (se Tf < Ti  valore negativo, sto perdendo calore)
perché m e c sono sempre positive.
 m  masse diverse acquisiscono il calore in modo diverso.
 ΔT  lo scambio di energia dipende dalla temperatura.

CALORIMETRIA E POTERE CALORIFICO

 La temperatura raggiunta da due corpi dopo il passaggio di calore dal corpo più caldo a quello
meno caldo è detta temperatura d’equilibrio e si tratta di una media ponderata (per calcolare il
potere calorifico si può utilizzare uno strumento detto bomba calorimetrica).
Q1 = - Q2 }SISTEMA ISOLATO

 Il calore perso dal primo corpo è acquisito dall’altro, secondo il principio di conservazione del calore
 Q1 + ( - Q2) = 0
c1 ٠ m1 ٠ ΔT1 = - c2 ٠ m2 ٠ ΔT2

c1 ٠ m1 ٠ (Tf-T1) = - c2 ٠ m2 ٠ (Tf-T2)

c1 = - c2 ٠ m2 ٠ (Tf-T2) \ m1 ٠ (Tf-T1)
 Le sostanze che hanno potere calorifico sono combustibili (gas metano). Si misura in [MJ/Kg] per i
combustibili e in [MJ/100g] per gli alimenti.

E=P٠m

MODALITÀ DI TRASMISSIONE DEL CALORE

CONDUZIONE

 È il passaggio di calore che avviene tramite un solido che mette a contatto due ambienti.
 È possibile calcolare il calore passato (Fourier):
Q = λ ٠ A ٠ [(T2 - T1) \ L] ٠ Δt

 A è la superficie di contatto in m2;


 L è la lunghezza del corpo tra i due solidi (detto corpo conduttore);
 Δt è il tempo in cui avviene lo scambio di calore.
 λ è la costante di conducibilità termica (diversa per ogni materiale), si misura in [J\m٠K٠s] oppure
in [W\m٠K], più è grande e meglio passa il calore, se è molto piccola il materiale è un isolante.

CONVEZIONE

 È lo scambio di calore attraverso un fluido che innesca al suo interno moti convettivi, il calore va
verso l’alto. È un passaggio più lento.

IRRAGGIAMENTO

 È lo scambio di calore che avviene tra due corpi quando tra questi c’è il vuoto, non serve un mezzo
materiale, è pura energia che si sposta da un corpo all’altro, sono onde elettromagnetiche.
 Attraverso la Legge di Boltzman si può calcolare l’energia che un corpo perde:

Pe = e ٠ ϭ ٠ A ٠ Te4

 e è un parametro, una costante adimensionale, varia da 1 a o e dipende dal colore del corpo (più è
scuro e più e sarà vicino a 1);
 Pe è il potere emesso;
 Ϭ è la costante di Boltzman che vale 5,67 ٠ 10-8 W\(m٠K4);
 Se si moltiplica il potere emesso per il tempo si troverà il calore emesso.
 Con la stessa formula si può trovare anche il potere assorbito.

GLI STATI DELLA MATERIA

 U  è l’energia interna che un corpo possiede ed è data dalla somma di due energie:
U = K + Ep  Energia potenziale come misura dell’energia che attrae le particelle fra loro

 Si può dire che K si considera con segno positivo (algebricamente) per dire che una particella si
allontana dall’altra, e che Ep abbia segno negativo per dire che due particelle si attraggono.

 Se K > | Ep | il corpo è un gas;


 Se K < | Ep | il corpo è un solido;
 Se K = | Ep | il corpo è un liquido.
 I tre stati della materia sono :solido, liquido e aeriforme. Ci sono delle temperature (di fusione,
evaporizzazione,…) in cui avvengono i passaggi di stato, queste temperature, sia quelle di andata sia
quelle di ritorno rimangono sempre le stesse.
 Supponendo di avere una pressione costante:
Q=L٠m

 L è il calore latente, ovvero il calore che serve per far cambiare stato a 1 Kg di una sostanza.
 È importante ricordare che esiste una temperatura critica che distingue tra vapore e gas (l’acqua ad
esempio dopo i 374°C diventa gas).

LA TERMODINAMICA

La termodinamica è la branca della fisica che descrive le trasformazioni subite da un


sistema macroscopico a seguito di uno scambio di energia con altri sistemi o con
l'ambiente. I principi della termodinamica sono d’importanza fondamentale in ogni campo
della scienza e della tecnica.
IL SISTEMA TERMODINAMICO

Per sistema termodinamico s’intende una porzione di materia idealmente isolata da tutto il resto
dell'universo, considerato come ambiente esterno. Di un sistema termodinamico, nell'accezione classica
della termodinamica, non interessano le caratteristiche microscopiche costitutive, ovvero l'intima struttura
interna, ma solo le caratteristiche globali, macroscopiche, identificate mediante grandezze quali la
pressione o la temperatura, dette coordinate termodinamiche. Si distingue tra sistemi isolati, sistemi
aperti, sistemi chiusi; un sistema è detto isolato quando, attraverso il suo contorno non viene scambiata né
materia, né energia, sotto forma sia di lavoro meccanico, sia di calore; un sistema in cui avvengano scambi
di materia con l'ambiente esterno è detto aperto e scambia anche energia sotto forma di lavoro e/o calore,
mentre un sistema viene definito chiuso quando scambia energia con l’ambiente, ma manca lo scambio di
materia con questo. Lo stato di un sistema è l'insieme delle proprietà del sistema identificabile mediante
valori definiti di grandezze macroscopiche, cioè di coordinate termodinamiche. Quando un sistema
macroscopico passa da uno stato di equilibrio a un altro si dice che ha luogo una trasformazione
termodinamica. Alcune trasformazioni sono reversibili, altre irreversibili. I principi della termodinamica,
scoperti nel XIX secolo, regolano tutte le trasformazioni termodinamiche e ne fissano i limiti.

PRINCIPI DELLA TERMODINAMICA


La termodinamica si fonda su quattro principi di cui il primo e il secondo sono i più importanti. Il
principio zero dice che due sistemi in equilibrio termico con un terzo sistema sono in equilibrio
termico tra loro; il concetto di temperatura di un sistema viene definito mediante tale principio
come la proprietà che determina se un sistema è in equilibrio termico con altri. Qualunque sistema,
posto in contatto con un ambiente idealmente infinito e a temperatura determinata, si porterà in
equilibrio con quest'ultimo, cioè raggiungerà la stessa temperatura dell'ambiente. Il cosiddetto
ambiente infinito è un'astrazione matematica chiamata riserva di calore; in realtà è sufficiente che
l'ambiente sia abbastanza grande rispetto al sistema sotto indagine e che siano trascurabili le
variazioni delle variabili termodinamiche che ne specificano lo stato. Il primo principio della
termodinamica può essere considerato come una formulazione particolare del principio di
conservazione dell'energia; esso si fonda sul principio d’equivalenza del calore e del lavoro,
formulato tra la fine del sec. XVIII e l'inizio del sec. XIX e verificato con un dispositivo ideato da
Joule. Per formulare il primo principio correttamente si stabilisce convenzionalmente che una
quantità di calore Q è positiva se è assorbita dal sistema in esame, mentre è negativa se viene
ceduta; un lavoro W è positivo se è fatto dal sistema, negativo se viene fatto sul sistema. Il primo
principio può essere così enunciato: esiste una funzione di stato U, detta energia interna, tale che
se un sistema subisce una trasformazione da uno stato iniziale 1 a uno stato finale 2, scambiando
una quantità di calore Q con l'esterno ed effettuando un lavoro meccanico W, si ha che:

U2-U1=Q-W

dove U1 e U2 rappresentano rispettivamente l'energia interna iniziale e finale; il valore di


U dipende esclusivamente dalla configurazione del sistema e in particolare dalle sue
coordinate termodinamiche, per cui il valore U2-U1 è indipendente dalla trasformazione
con cui il sistema passa dallo stato iniziale 1 allo stato finale 2; il calore e il lavoro
considerati separatamente non sono funzioni di stato.
Il primo principio può essere espresso in forma differenziale:
ΔU=ΔQ-ΔW

dove ΔU è un differenziale esatto, mentre ΔQ e ΔW non lo sono. Il significato fisico del


primo principio è analogo a quello della conservazione dell'energia. Se un sistema riceve
una quantità di calore, questa viene totalmente utilizzata per fare lavoro e per aumentare
l'energia interna del sistema. In una trasformazione isocora (a volume costante) non è
possibile compire un lavoro e perciò
ΔW=0
possiamo quindi riscrivere il primo principio come:
ΔU=ΔQ
non potendo compiere un lavoro il sistema manifesta la variazione di energia interna come
variazione di calore (aumento o diminuzione della temperatura)
In una trasformazione adiabatica, caratterizzata dal fatto che il sistema non scambia
calore con l’ambiente, in questo tipo di trasformazione
ΔQ=0

e il primo principio prende la forma:


ΔU=-ΔW
il lavoro viene fatto a spese dell'energia interna; Una conseguenza importante che si
deduce dal primo principio è l'impossibilità di creare il moto perpetuo di prima specie. Se
due corpi con temperature differenti vengono messi a contatto, si osserva che le due
temperature tendono a uguagliarsi per passaggio di calore dal corpo più caldo verso quello
più freddo; il lavoro compiuto per vincere gli attriti durante il movimento, per esempio
nell'esperimento di Joule, si trasforma in energia interna che tende ad aumentare la
temperatura del sistema; entrambi i processi considerati sono compatibili con il primo
principio e sono comuni in natura; la realizzazione dei processi inversi (passaggio
spontaneo del calore da un corpo più freddo a un corpo più caldo e trasformazione in
lavoro dell'energia dissipata negli attriti), sebbene compatibile con il primo principio della
termodinamica, risulta impossibile.

Il secondo principio della termodinamica è una generalizzazione dell'evidenza


sperimentale che certe trasformazioni sono irreversibili. Esso è formulato in molti modi
diversi, ciascuno dei quali ne mette in risalto un particolare aspetto, ma tutti sono
logicamente equivalenti. Clausius lo formulò nel seguente modo: è impossibile che una
macchina ciclica produca come unico risultato un trasferimento continuo di calore da un
corpo a un altro che si trova a temperatura più elevata; Kelvin insieme a Planck formulò il
secondo principio così: è impossibile una trasformazione il cui unico risultato finale sia
trasformare in lavoro del calore preso a una sorgente che si trova tutta alla stessa
temperatura. Questa affermazione nega la possibilità di costruire un moto perpetuo di
seconda specie, cioè una macchina termica che produca lavoro meccanico estraendo
calore da un'unica sorgente, senza restituirne una parte a una sorgente che si trovi a
temperatura più bassa; il secondo principio, qualunque sia la sua formulazione, nega la
possibilità di creare un moto perpetuo di seconda specie.
Il terzo principio della termodinamica fu introdotto dal fisico austriaco Nernst per definire
il concetto di entropia, che mediante il primo e il secondo principio viene formulato in
modo incompleto; Nernst afferma che l’entropia di un sistema alla temperatura di zero
gradi Kelvin, (zero assoluto) è pari a zero, ma stabilisce anche che è impossibile
raggiungere lo zero assoluto con un numero finito di trasformazioni. Questo principio ci
dimostra quindi che è impossibile raggiungere lo zero assoluto in quanto l’entropia di un
corpo non potrà mai essere pari a zero (gli elettroni per esempio saranno sempre in
movimento, il quale produrrà calore e quindi entropia).
LA TERMODINAMICA E IL MOTO PERPETUO:

Abbiamo prima parlato di moto perpetuo, questo è un particolare tipo di moto che resti
costante nel tempo, senza subire variazione alcuna. Limpido è il fatto che tale esempio è
naturalmente ideale, astratto sulla terra in quanto esiste un fattore determinante che
contribuisce alla dissipazione di quell’energia che permette all’oggetto di spostarsi:
l’attrito.

Per quanto riguarda la termodinamica, il concetto di moto perpetuo è strettamente legato


a quello delle macchine termiche, ossia a strutture capaci di ricavare lavoro continuativo a
spese dell’energia interna ricevuta tramite scambi di calore. In tale campo il moto
perpetuo viene suddiviso in due tipologie, di prima specie e di seconda specie, legate
indissolubilmente ai due principi della termodinamica che negano ogni possibilità di una
loro esecuzione. Il moto perpetuo di prima specie, come già detto, viene negato dal primo
principio, infatti se si fa compiere a una macchina termica un lavoro, tale che la sua energia
interna resti invariata, quindi senza dispendio di energia si ha che:

Q=W.

Entrambi gli enunciati del secondo principio negano la possibilità di realizzazione del moto
perpetuo di seconda specie, cioè quello di una macchina termica che, pur funzionando
senza contraddire il primo principio della termodinamica, durante ogni ciclo prende calore
da un’unica sorgente a temperatura costante.

Tale macchina è subito contraddetta dalla formulazione Clausius, ma in qualunque caso,


quella di Kelvin la nega pure, in quanto è noto che secondo la fisica i due corpi tenderanno
a scambiarsi calore fino al raggiungimento di una temperatura uguale nei due corpi detta
di equilibrio. A questo punto la macchina non potrà più trarre calore dallo stesso corpo,
senza andare contro la seconda formulazione descritta, a meno che non intervenga una
terza fonte più fredda della macchina.

In particolare poi il secondo principio indica che nella realizzazione di una macchina che
compia lavoro ciclicamente, non tutta la differenza fra calore sottratto e calore ceduto si
trasforma in lavoro, ma solo una parte di essa. Una macchina di questo tipo, dunque, ha
sempre efficienza minore di 1: questa formulazione del secondo principio, che è in effetti
fu la prima espressione del principio, va sotto il nome di teorema di Carnot che afferma
che: nelle trasformazioni di calore in lavoro meccanico, solo una parte di calore e'
trasformabile; il resto si ritrova ancora sotto forma di calore, ma a temperatura inferiore a
quella della sorgente. Chiamiamo Q2 la quantità di caloriche una macchina termica assorbe,
durante un lavoro, alla temperatura più alta T2, e Q1 la quantità di calore “persa” alla
temperatura inferiore T1; il lavoro totale compiuto dal sistema è dato dalla differenza tra
Q 2 e Q1 :

W=Q2-Q1

E Q1 e per forza maggiore di zero. Il rendimento ηè una grandezza che misura l’efficienza
con cui una macchina termica converte il calore in lavoro, e definito come il rapporto tra il
lavoro e la quantità di calore alla temperatura più alta, quindi:

W

Q2

sostituendo Q2-Q1 al posto di W abbiamo

Q2  Q1 Q
  1 1
Q2 Q2

dal momento che Q1 non potrà mai essere zero troviamo che:   1 e perciò il rendimento
della nostra macchina termica sarà sempre inferiore al 100%.

È dimostrato quindi che il rendimento migliore di una macchina termica che opera con de
sorgenti a diverse temperature assolute T1 e T2 è sempre dato dalla relazione del teorema
di Carnot:

T1
  1
T2

per entrambe le formule si può solamente tentare di ridurre rispettivamente T1 e Q1.

Si dice onda una perturbazione che si propaga in una regione dello spazio.
Alcune onde si propagano attraverso un mezzo materiale elastico: il suono
attraverso l’ aria ; le onde del mare attraverso l’ acqua. Si parla in questo
caso di onde elastiche o onde meccaniche. Altre onde, come la luce, e in
generale le onde elettromagnetiche non necessitano di alcun mezzo
materiale per la loro propagazione cioè si propagano nel vuoto. Quando un’
onda attraversa un corpo esso comincerà ad oscillare per moto ondulatorio
facendo vibrare ogni elemento intorno ad un centro di equilibrio. Quando l’
onda è passata ogni elemento riprende la posizione originaria e il mezzo
riacquista il suo stato di equilibrio e le sua forma iniziale. Si può dire che ciò
che si propaga in un’onda è l’ energia poiché lo stato di equilibrio in una zona
del mezzo è modificato dall’ azione di una forza esterna, e questa energia
impiegata per produrre questa modificazione viene trasmessa alle particelle
vicine. Uno strumento utile per analizzare il comportamento delle onde sull’
acqua è l’ondoscopio.

Se provochiamo una perturbazione momentanea lungo una molla in un fluido


si è generata un’ onda impulsiva o impulso.

Viene detta ampiezza dell’ impulso lo spostamento massimo di un punto


appartenente al mezzo in oscillazione dalla posizione di equilibrio. Se invece
di dare una semplice scossa a un capo della corda, questa viene agitata
periodicamente allora la corda viene deformata in una serie di
creste(massimi) e valli (minimi).

In questo caso si tratta di un’ onda periodica ossia il fenomeno prodotto in un


mezzo elastico quando da una sorgente vengono inviati in modo continuo
impulsi che hanno la stessa durata e la stessa ampiezza. In base alla
dimensione del mezzo le onde si propagano in diverse direzioni ad esempio
nella corda, l’ onda si potrà propagare solo in una direzione, mentre nell’
acqua l’onda si propagherà in tutte le direzioni possibili del piano.

Volendo rappresentare l’ andamento di un’ onda mediante un grafico


abbiamo due possibilità:rappresentare l’ onda nello spazio in un dato istante
oppure rappresentare il moto dell’ onda in funzione del tempo. In ordinate
viene riportato lo spostamento della particella del mezzo elastico dalla
posizione di equilibrio ( elogazione).
CARATTERISTICHE DELL’ ONDA

Viene definita ampiezza dell’ onda lo spostamento massimo dalla posizione


di equilibrio ( elongazione ) di un punto appartenente al mezzo in oscillazione.
La distanza tra due massimi e due minimi è detta lunghezza d’ onda . Essa
rappresenta il cammino percorso dall’onda in un periodo. In questo intervallo
di tempo il massimo avrà preso il posto del massimo precedente.

La durata di un impulso cioè la durata di un’oscillazione completa di una


particella viene chiamata periodo e sarà indicata con T.

Il numero di oscillazioni compiute dalla sorgente nell’ unità di tempo viene


chiamato frequenza dell’ onda e indicato con f.

Periodo frequenza e ampiezza dell’ onda coincidono con periodo frequenza e


ampiezza di oscillazione della sorgente, che vibra di moto armonico. La
velocità dipende dal mezzo elastico in cui si propaga l’onda .

F = 1\T
Il suono è la sensazione uditiva prodotta dalle vibrazioni regolari dei corpi
elastici. Il suono quindi ha innanzitutto bisogno di un mezzo materiale in cui
propagarsi.I corpi elastici comunemente usati per la produzione del suono
sono : corde , lamine membrane e aria. Anche l’ acqua trasmette molto bene
il suono. Navi e sommergibili si servono di questa proprietà per sondare zone
di mare in cui possono esserci presenti ostacoli .L’ apparecchio utilizzato è il
sonar. Esso emette ultrasuoni e capta quelli eventualmente riflessi dagli
ostacoli. Il fatto che per propagarsi il suono abbia bisogno di un mezzo può
essere provato sperimentalmente: basta mettere un campanello elettrico
dentro una campana di vetro appoggiata sul piatto di una pompa a vuoto.
Finche la pompa a vuoto non è messa in funzione il suono del campanello
viene udito. Mettendo in funzione la pompa a vuoto l’ aria viene eliminata
dalla campana e il suono non può essere più udito. Trattandosi di una
perturbazione che si trasmette in un mezzo elastico, il suono può essere
qualificato come onda elastica.

La sorgente sonora mette in vibrazione le molecole dell’ aria intorno a se;


queste urtano contro le molecole a loro più vicine , che vengono a loro volta
messe in vibrazione. Dentro l’ orecchio l’ aria mette in vibrazione il timpano.
La vibrazione del timpano viene percepita dal cervello come suono. L’ altezza
del suono è in relazione con la frequenza di vibrazione della sorgente : più
alta è la frequenza più il suono viene percepito come acuto. Non tutti i suoni
sono udibili dall’ orecchio umano ; perchè l’ orecchio li percepisca è
necessario che la sorgente oscilli con una frequenza che va da 20 Hz a
20.000 Hz. Le vibrazione con frequenza maggiore non udibili sono chiamate
ultrasuoni, i suoni non udibili a causa delle basse frequenze sono invece
detti infrasuoni. Nell’ aria a 20 ° C di temperatura la velocità del suono è di
340 m\s. nell’ acqua è di 1450 m\s. La velocità del suono è maggiore nei
solidi e nei liquidi che nel’ aria.

La velocità del suono dipende anche dalla temperatura del mezzo. Infatti al
crescere della temperatura cresce la velocità di propagazione del suono.

Esistono diversi modi per determinare la velocità del suono. Il più semplice è
quello di utilizzare l’ eco.

Ci si posiziona davanti a una parete riflettente come il fianco di una


montagna. Valutando il tempo di andata e ritorno del suono e conoscendo la
distanza della parete si può calcolare il valore della velocità. Cosi
conoscendo la velocità del suono, si può calcolare a che distanza è scoccato
un fulmine: si misura l’ intervallo di tempo che intercorre tra il bagliore e il
tuono, sapendo che la velocità della luce è enormemente più grande del
suono, il tempo impiegato dalla luce può essere trascurato. Si moltiplica il
valore della velocità del suono per l’intervallo tra il bagliore e il tuono e si
ottiene la distanza.

La voce è dovuta alla vibrazione delle corde vocali, provocata dall’ aria
espirata con maggiore o minore forza.

Uno strumento che costituisce un ‘importante sorgente sonora è il diapason.

Si tratta di un dispositivo costituito da una forcella di acciaio a forma di U . il


diapason in oscillazione fa spostare i due rambi da cui è formato: in avanti
comprime lo strato di aria immediatamente a contatto, in dietro produce una
rarefazione: questo meccanismo fa si che esso produce un suono (il la) ,
importante per l’ accordatura degli strumenti o per l’ intonazione a cappella
dei cantanti.

Nel caso delle onde sonore che si propagano nell’aria l’ ampiezza è la


differenza tra la pressione massima e la pressione atmosferica, la lunghezza
d’ onda è la distanza tra massimi contigui di pressione , la frequenza è il
numero di oscillazioni complete di pressione che si verificano in un secondo
e il periodo è il tempo necessario perché avvenga un’ intera oscillazione.
Anche per le onde sonore vale questa relazione:

lung d’ onda=v \f

I CARATTERI DEL SUONO

Un suono è caratterizzato da altezza intensità e timbro.

 L’ altezza del suono è legata alla frequenza della vibrazione della


sorgente: maggiore è la frequenza e più il suono viene percepito come
acuto, minore è la frequenza e più il suono viene percepito come grave.
 Il timbro è la qualità del suono; la stessa nota suonata da un pianoforte
o da un violino ha un timbro diverso, con la stessa frequenza ma
diversa forma di vibrazione
.

 L’ intensità del suono è invece legata all’ ampiezza dell’


oscillazione.che determina anche l’ energia trasportata dall’ onda: l’
intensità si definisce come l’ energia trasportata in un secondo
attraverso una superfice di area 1m2. la sua unità di misura è il W\m2. il
campo di udibilità dell’ orecchio è molto ampio : dal silenzio fino alle
massime intensità percepibili c’è un intervallo molto ampio. Per questo
motivo si ricorre a una scala pratica la cui unità di misura è il decibel.
AFFINCHE SI PRODUCA UN SUONO BISOGNA CHE :

La frequenza è inversamente proporzionale alla lunghezza della corda: più


lunga una corda, minore è il numero delle vibrazioni al minuto secondo e
meno acuto è il suono prodotto

La frequenza è inversamente proporzionale al diametro: più grossa una


corda, minore è il numero delle vibrazioni e meno acuto il suono prodotto;

La frequenza è direttamente proporzionale al quadrato della tensione: più si


tende una corda, maggiore è il numero di vibrazioni e più acuto è il suono
prodotto

La frequenza è inversamente proporzionale al quadrato della densità: più la


corda è densa, minore è il numero delle vibrazioni e meno acuto è il suono
prodotto
RIFLESSIONE E RIFRAZIONE DEL SUONO
Quando un’onda sonora colpisce una superfice , viene riflessa . La riflessione
delle onde sonore segue la legge ricavata per le onde meccaniche. L’onda
sonora riflessa sembra provenire da una sorgente posta dientro la superfice.

Il fenomeno dell’ eco è il risultato della riflessione del suono da parte di


fianchi di montagne o pareti di roccia. La parete riflettente deve però avere
dimensioni maggiori della lunghezza d’ onda del suono. Deve anche essere
più lontana di 17 m, altrimenti l’ orecchio umano non è in grado di distinguere
il suono originario da quello riflesso. L’ orecchio umano infatti non distingue
suoni che non siano distanti nel tempo di almeno 0,1 sec. Cosi la distanza
minima L dalla parete dovrà essere:

L= v t\2= 340m\s 0,1sec\2= 17m

Il 2 al denominatore è dovuto al fatto che il suono deve percorrere due volte

( avanti e dietro ) la distanza.

Anche il rimbombo che si sente all’ interno di locali chiusi completamente


vuoti è dovuti alla riflessione del suono, poiché al suono originale si
sovrappongono i suoni dovuti alla riflessione delle pareti. Per evitare questo
fenomeno è necessario porre sulle pareti tendaggi affinché il suono venga
assorbito e non riflesso.

La diffrazione è la proprietà delle onde di propagarsi anche dietro un ostacolo


e di allargarsi dopo aver attraversato aperture strette.

I suoni danno origine anche a fenomeni di interferenza : essa si verifica


quando si ha l’ accavallamento di due onde sonore con uguale frequenza ed
intensità; in questo caso , se le onde hanno la stessa fase, si avrà un suono
risultante con la stessa altezza e intensità doppia, se invece le onde di
presentano con fase opposta il suono si annullerà completamente e si avrà
quindi l’ interferenza.
I battimenti si hanno quando due onde sonore di frequenza leggermente
diversa vengono prodotte contemporaneamente. Essendo un suono di
frequenza più bassa della soglia uditiva, esso non è percepito direttamente
dal nostro orecchio.

LA RISONANZA

Si verifica quando una sorgente viene investita da un onda sonora di


frequenza uguale a quella che è in grado di emettere: epr esempio se
accostiamo due diapason facendone oscillare uno , vedremo che dopo un po
comincerà ad oscillare anche il secondo senza averlo colpito. Questo avviene
perché i due diapason producono e ricevono spinte con la stessa frequenza e
per tanto rinforzano sistematicamente la vibrazione .
L’ EFFETTO DOPPLER

Nella vita quotidiana ci accorgiamo che quando la sirena di un’


autoambulanza si sta avvicinando, il suono è più acuto mentre quando si
allontana è più grave, questo fenomeno è detto effetto Doppler dal nome del
fisico austriaco Christian Doppler

Esso si verifica quando sorgente sonora e ricevitore sono in movimento l’una


rispetto all’altra .

Supponiamo che la sorgente si avvicini al ricevitore lungo la retta che li


congiunge.

Se la sorgente è in movimento le onde che questa emette si infittiscono


davanti a essa ai, si riduce la lunghezza d’ onda e la aumenta la frequenza.

Al contrario le onde si diradano dietro la sorgente ,dove aumenta la


lunghezza d’ onda e si riduce la frequenza.
Osservatore in movimento e sorgente ferma

 l’osservatore si avvicina alla sorgente

 l’osservatore si allontana dalla sorgente

Osservatore fermo e sorgente in movimento

 l’osservatore si allontana dalla sorgente

 l’osservatore si avvicina alla sorgente


La musica è un’applicazione straordinaria della fisica . Ad ogni nota musicale
corrisponde un’onda sonora periodica di una determinata frequenza.

L’ insieme delle note e detto scala musicale .Le note musicale vengono
prodotte con vari strumenti . In alcuni come il violino vi sono corde elastiche
che vengono poste in vibrazione e vengono chiamati strumenti a corda ,
invece sono detti strumenti a fiato quando viene messa in vibrazione l’ aria
contenuta in essi.

Si dice intervallo il rapporto tra le frequenze di due note.

Se il rapporto è =1 allora si tratta di un unisono , se è = 2 è un ottava.

La frequenza delle note è

Do =1
Re =9\8

Mi =5\4

Fa =4\3

Sol =3\2

La =5\3

Si = 15\8

Do =2

La scala musicale è costituita da diverse ottave. I tasti bianchi producono le


note della scala diatonica e i tasti neri producono i diesis e i bemolli. Il
semitono è la più piccola distanza che passa tra due suoni. Due semitoni
costituiscono un tono. L’ insieme di più note è si chiama accordo.

La scala cromatica naturale è una successione di note comprese diesis e


bemolli ,dove il diesis è di frequenza maggiore alla note e il bemolle di
frequenza minore. Ad ogni nota corrispondeva un diesis e un bemolle, questo
fece si che la scala fosse formata da 17 suoni . Questo creava dei problemi
nella costruzione di strumenti. Fu Bach che riuscì a risolvere questo
problema introducendo la scala cromantica temperata dove il diesis di una
note coincideva con il bemolle di un'altra.

LA LUCE

LUCE onda trasversale e si propaga nel vuoto. Si ha un'ombra netta solo se la sorgente è
puntiforme, altrimenti si ha una zona d'ombra e una zona di penomra CONO D'OMBRA è la zona
dove non arrivano i raggi luminosi ECLISSI LUNA sole, terra Luna (la luna si trova nel cono d'ombra
della terra) ECLISSI SOLE Sole, Luna, TerraVelocità luce nel vuoto 300000000m/s

Quando la luce passa attraverso due mezzi diversi si scompone: un raggio torna (RAGGIO
RIFLESSO) e uno passa la superficie e prosegue il suo percorso (RAGGIO. RIFRATTO) 1a LEGGE
DELLA RIFLESSIONE Il raggio incidente, il raggio riflesso e la normale sono complanari 2a LEGGE
DELLA RIFLESSIONE L'angolo di incidenza () e uguale all'angolo di riflessione () ( = angolo tra la
normale e il raggio riflesso,  = angolo tra la normale e il raggio incidente).
Leggi della riflessione.
Il raggio incidente e il
raggio flesso giacciono
sullo stesso piano.
L’angolo d’incidenza e
l’angolo di riflessione
sono uguali.

INGRANDIMENTO (G)= lunghezza immagine / lunghezza sorgente G=q/p.

Gli SPECCHI PIANI danno un'immagine virtuale diritta e con ingrandimento 1

SPECCHI CURVI in uno specchio parabolico un fascio di raggi paralleli all'asse viene riflesso in un
punto solo (F) SPECCHI SFERICI Il fuoco (F) si trova sempre a metà raggio si comportano come
specchi parabolici se sono di piccola apertura CONCAVO la posizione dell'immagine dipende da
dove si trova (es. telescopi, fanali delle automobili) CONVESSO immagine virtuale (es. specchietto
retrovisore delle automobili) La SORGENTE può trovarsi: prima del centro, tra il centro e il fuoco,
prima del fuoco

IMMAGINE REALE Se i raggi riflessi si intersecano IMMAGINE VIRTUALE Se si intersecano solo i


prolungamenti dei raggi riflessi o rifratti

LEGGE DEI PUNTI CONIUGATI q = distanza dell'immagine dallo specchio; f = distanza del fuoco
dallo specchio (r/2); p = distanza della sorgente dallo specchio 1/p+1/q = 1/f (se l'immagine è
virtuale q ed f sono negativi).

RIFRAZIONE è il passaggio da un
mezzo trasparente ad un altro 1a
LEGGE DELLA RIFRAZIONE Raggio
incidente, normale, raggio riflesso
sono complanari 2a LEGGE DELLA
RIFRAZIONE Il sen dell'angolo di incidenza (i) fratto il sen dell'angolo di rifrazione ( r) è una
costante (dipende dai due mezzi) La costante si indica con n B (indice di rifrazione relativo del
mezzo B relativo al mezzo A) nAB>1i > r Se l'indice di rifrazione è < di 1, il raggio nella rifrazione
si avvicina alla normale, altrimenti si allontana nAB = 1/nBA Nel passaggio attraverso una lastra di
materiale l'angolo di uscita è uguale all'angolo di entrata, ma è spostato.

Un raggio luminoso, provenendo


dall’aria, si rifrange nell’acqua. La
prima legge della rifrazione afferma
che il raggio incidente, il raggio
rifratto e la normale giacciono tutti
sullo stesso piano. La seconda legge
stabilisce una relazione tra l’angolo
INDICE DI RIFRAZIONE ASSOLUTO uguale all'indice di rifrazione relativo in cui il primo mezzo è il
d’incidenza e l’angolo di rifrazione
vuoto nAB = nB/Na Sen î / Sen r^ = OP’ / QQ’ è costante
qualunque sia l’angolo di incidenza.
Se il raggio si avvicina alla normale il secondo mezzo è + denso del primo RIFLESSIONE TOTALE
Il valore di questo rapporto è l’indice
L'angolo limite è l'angolo di incidenza che ha un angolo di rifrazione =a 90° (il raggio è parallelo alla
di rifrazione dell’acqua relativo
superficie) Se  è + grande dell'angolo limite non c'è il raggio rifratto, ma solo quello riflesso, si
all’aria.
parla di riflessione totale

DISPERSIONE DELLA LUCE è la scomposizione in diversi colori della luce bianca che incide sul
prisma ANGOLO DI DEVIAZIONE è formato dalla direzione del raggio incidente con quella del
raggio che emergedal prisma SPETTRO è la striscia colorata in cui si suddivide la luce bianca
(Rosso, arancione, giallo, verde, indaco, blu, violetto)

LENTI SFERICHE corpi rifrangenti limitati da superfici sferiche CONVERGENTI + spesse al centro +
sottili ai lati() (es. lente di ingrandimento, lenti dei microscopi, cannocchiale). DIVERGENTI + sottili
al cento e + spesse ai lati )( I raggi che giungono paralleli all'asse vengono rifratti due volte e
convergono in un unico punto chiamato fuoco (es. occhiali da miope) DISTANZA FOCALE distanza
fra i fuochi e il centro della lente.

CONVERGENTI L'immagine dipende da dove si trova la sorgente: se oltre il centro (immagine reale
capovolta rimpicciolita) se tra centro e fuoco (immagine reale capovolta ingrandita) se tra fuoco e
lente (immagine virtuale diritta ingrandita)
DIVERGENTI I prolungamenti dei raggi rifratti passano per il fuoco vicino alla sorgente immagine
virtuale diritta rimpicciolita o ingrandita

MODELLO ONDULATORIO la luce si comporta come un'onda

MODELLO CORPUSCOLARE è una successione di fotoni detti anche quanti di luce FOTONI massa
nulla, portano energia

La LUCE si comporta come un'onda in alcuni fenomeni e in modo corpuscolare in altri

ASPETTO ONDULATORIO diffrazione (la luce incontra un'ostacolo di dimensiooni uguali o minori
della lunghezza d'onda, l'onda invade la zona d'ombra) interferenza (in un punto arrivano due
onde prodotte da sorgenti diverse: costruttiva si sommano distruttiva si annullano)

ASPETTO CORPUSCOLARE effetto fotoelettrico (quando la luce colpisce un certo materiale


vengono emessi degli elettroni

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