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TI Sogno di Scipione
Il Sogno di Scipione
a cura di
Giuseppe Solaro
Sellerio editore
Palermo
2008 © Sellerio editore via Siracusa 50 Palermo
e-mail: info@sellerio.it
www. sellerio. it
Il Sogno di Scipione
Zanobi da Strada
Volgarizzamento del Sogno di Scipione 53
Pietro Metastasio
Il Sogno di Scipione 65
Angelus Maius
Sanctissimo Domino Nostro Pio VII Pontifici
Maximo 78
Angelo Mai
Al Santissimo Signore Nostro Pio VII Pontefice
Massimo 79
Note 83
7
Gli scipioni maestri di impero
di
Luciano Canfora
l. Prodromi ateniesi
9
tenticità periclea di queste affermazioni difficilmente può es
sere revocata in dubbio.
Qual era dunque la «regola», la disciplina imperiale secondo
Pericle? «Egli sosteneva - così si esprime Tucidide - che gli
Ateniesi sarebbero riusciti a non soccombere nel conflitto [si
tratta della guerra contro Sparta e gli alleati] se fossero rima
sti fermi dandosi, bens� pensiero della flotta ma astenendosi
assolutamente dal cercare di ampliare l 'impero nel corso del
la guerra» (II, 65, 7). «Quelli invece [cioè gli Ateniesi, ma si
può intendere anche i successori di Pericle] fecero l 'esatto
contrario», commenta Tucidide. Orbe.,ne la visione periclea è
chiarissima e appare molto riduttiva. E la concezione difensi
va, di mantenimento di un impero per il quale è già un suc
cesso il sopravvivere. Linea "di mantenimento" che è di per sé
sintomo e preannunzio o vigilia di declino. Come infatti ac
cadde all'impero di Atene. Ottenuto, dopo dieci anni di guer
ra (431 -42 1 a. C.), il riconoscimento dello status quo con la
«pace di Nicia», con la quale finalmente Sparta riconosceva,
in un trattato internazionale, l 'esistenza dell'impero ateniese
"abusivamente" formatosi sul finire della guerra persiana,
Atene si imbarcò nella campagna contro Siracusa e dopo
quella terribile sconfitta trascorse, prima di arrendersi senza
condizioni, alcuni anni a cercare di impedire la ormai inarre
stabile defezione dei suoi sempre meno numerosi "alleati".
Ma non sempre Pericle l 'aveva pensata in quel modo. Anni
prima del 431, quando, consapevolmente, aveva deciso di
giocare la carta della guerra, aveva lanciato una grande arma
ta navale all 'attacco dell 'Egitto - al fine di sottrar/o al con
trollo persiano - ed era stato il disastro. Anche lui sapeva, al
lora, che un impero ridotto sulla difensiva prima o poi crolla.
Ma incalzato, nel 431 , dagli ultimatum spartani non aveva
altre alternative.
Prima di separarci dal "caso" ateniese ascoltiamo ancora
Pericle, questa volta nel celebre "epitafio". Qui troviamo
per la prima volta formulato un concetto cui Polibio, due
secoli e mezzo più tardi, darà forma sistematica riflettendo
lO
sulla forza e durevolezza dell 'impero romano: e cioè il nes
so tra costituzione e impero. Pericle apre l'epitafio - il suo
discorso più noto e più frainteso - annunciando che non
tratterà, in quella solenne e ricorrente occasione pubblica,
l'origine e le vicissitudini dell'impero, ma risponderà al
quesito: grazie a quale condotta (émrrf&:vcnç) fu conse
guito l'impero e grazie a quale ordinamento politico-costi
tuzionale della loro città (Ile(}' oi'aç 1WÀneiaç) gli Ate
niesi lo avevano reso «grande».
Per l 'esattezza, non chiama in causa soltanto la costituzione,
ma sia la costituzione (noÀueia) che lo stile di vita (rp6-
nol). Insomma, dice, in forma ammirativa, la stessa cosa che
angustia l'animo esasperato dell'oligarca al quale dobbiamo
la «Costituzione degli Ateniesi» tramandata tra gli scritti di
Seno/onte ma non certo sua: che cioè la democrazia, l 'odia
ta democrazia, è indissolubilmente connessa all'impero.
Giacché la democrazia - osseroa l' oligarca - ha la sua base
nei marinai nullatenenti («canaglia», secondo la sua elegan
te e pacata definizione) e l 'impero si fonda sulle navi, sulla
flotta. Dunque impero e sistema politico vanno insieme. Un
impero definibile come <<di rapina» a danno degli alleati
sudditi (è questa la diagnosi dell'oligarca, ma non di lui sol
tanto) per abbattere il quale c 'è solo da sperare nel tradimen
to, nell'intesa col nemico in caso di sconfitta militare. Come
infatti accadde poi. Quella dell 'esacerbato oligarca è quasi
una profezia politica.
Tucidide, che forse conosceva questo scritto, approda, per
parte sua ad una conclusione simile quando osseroa che nem
meno la sconfitta in Sicilia sarebbe bastata a far crollare l 'im
pero e che invece esso cadde per le feroci rivalità politiche tra
le fazioni all'interno della città.
Anche qui ci si dovrà richiamare a Polibio, alla sua diagnosi
sul nesso impero-costituzione nel caso di Roma. Giacché per
Polibio - è questa la sua ferma convinzione - l 'ordinamento
politico romano, proprio in quanto immune dai difetti e dai
mali della democrazia, proprio in quanto regime "misto" in-
11
centrato sulla forza e sulla autorità del Senato, e non un regi
me democratico (fragile e rovinoso), fu la vera ragione del
successo imperiale: fu la vera causa del quasi miracolo cui as
sistette la generazione precedente alla sua: e cioè il mancato
collasso di Roma pur dopo Canne.
2. La conquista dell'Italia
12
avevano spogliato!». Ed è a questo punto che ricorda il duro
atto d'accusa di Ponzio Telesino, alla vigilia della battaglia di
Porta Collina, combattuta senza successo contro Silla, quan
do Ponzio, passando in rassegna le sue truppe, «gridava che
doveva essere diroccata e distrutta Roma stessa,>, e «che non
sarebbero mai scomparsi i lupi che privavano gli Italici della
loro libertà, se non fosse stata abbattuta la selva in cui trova
vano rifugio,>.
Gli Italici erano stati schiacciati da Roma con una guetTa di
conquista durata secoli, cui solo la meteorica apparizione di
Annibale sul suolo italiano, verso la fine III secolo a. C. , ave
va imposto un temporaneo atTesto.
Nel maggio dell925 il maggiore studioso allora vivente di
antichità classica, Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, fu
a Firenze nel quadro della "settimana tedesca": un segno di
riconciliazione culturale dopo la tremenda guetTa che aveva
contrapposto Italia e Germania fino a pochissimi anni pri
ma. E pronunciò un discorso, intitolato Storia ltalica, che
nulla concedeva alla retorica del nostro nazionalismo, in
quel tempo particolarmente vigoroso. Pur conoscendo le fi
sime del suo uditorio, Wilamowitz disse serenamente: «La
storia d 'Italia ha un contenuto più ricco [si intende: ben
oltre la vicenda della città dominatrice]. Un tempo tutte le
sue stirpi italiche ebbero la loro propria vita e una civiltà
propria che Roma ha distrutto, compresa la grecità della Si
cilia». Paragonava la distruzione di Capua (211 a. C. ) alla
sorte tremenda toccata poi a Cartagine e a Corinto. E sog
giungeva che l'ultimo sussulto, l'ultima lotta per la loro vi
ta etnica, gli Italici l 'avevano tentata con la guetTa sociale,
di cui la vittoria feroce di Silla era stata in certo senso l'ul
timo atto.
Quindici anni più tardi, nel1940, Simone Weil - allora gio
vanissima - pubblicava un saggio memorabile, La politica
estera di Roma e la politica di Hitler, in cui, al di là del pa
rallelo che istituisce sin dal titolo, fa una considerazione per
molti versi simile a quella del grande filologo tedesco, ma ri-
13
ferita al mondo gallico. Segnala infatti, e con molta efficacia,
che la cosiddetta romanizzazione della Gallia fu in realtà -
oltre che un genocidio in termini di vite umane - l 'estirpazio
ne di una civiltà: di una civiltà che non parla più a noi per la
semplice ragione che è stata cancellata.
Nel considerare l 'unificazione romana del mondo mediterra
neo e celtico-danubiano, gli storici sono di fronte ad un bi
vio: o compiacersi di quel sanguinoso processo storico guar
dando agli effetti (tale fu già l'atteggiamento di una parte del
le élite greche le quali conseguirono un ruolo di "condominio
diseguale" del mondo romanizzato) oppure porre in luce i co
sti non solo umani ma di civiltà che quel processo di unifica
zione ha determinato.
14
rittura l 'impero ateniese è il primo dell 'elenco e dura 73 an
ni, quello spartano 29 [404-376!] e i Tebani «contarono
qualcosa da ultimo»! Analoga riflessione si intravede nel Pa
negirico di Isocrate.
Polibio ha un orizzonte e una prospettiva più ampi: dai Per
siani ai Romani, passando per i Macedoni. In questa prospet
tiva "mondiale", per quel che riguarda la Grecia della città
c'è posto solo per gli Spartani, dei quali vien detto, che «do
po aver a lungo lottato per l'egemonia sui Greci» l 'hanno
mantenuta soltanto per1 2 anni. Dei Persiani viene detto che
non riuscirono mai a fuoriuscire dai confini dell 'Asia e
quando tentarono ciò rischiarono il crollo. Riduttiva è an
che la valutazione dell 'impero macedone: «dominarono
l 'Europa soltanto dall 'Adriatico all 'Istro e dominarono l 'A
sia. Mai si spinsero a Occidente». Qui si colgono elementi di
una riflessione che doveva essere già affrontata nel circolo
scipionico, e che ritroviamo più tardi, in epoca augustea, nel
celebre excursus del IX libro liviano, dove Livio sostiene
che se Alessandro si fosse spinto a Occidente, sarebbe stato
sconfitto dai Romani! Tutti costoro - prosegue Polibio -
«lasciarono ad altri il predominio di gran parte della terra
abitata», e cioè - specifica - «Sicilia, Sardegna, Africa set
tentrionale, nonché le bellicose popolazioni dell 'Europa
occidentale [i. e. Spagna e Gallia etc.]». Invece i Romani
«assoggettarono quasi tutta la terra abitata» e istituirono
una supremazia «irresistibile per i contemporanei, insupera
bile per i posteri».
Nella conquista romana, Polibio sembra ravvisare una spe
cie di logica immanente del divenire storico. Scrive infatti:
15
de dell'Italia e dell'Africa settentrionale si intrecciano a quelle del
l'Asia e della Grecia e i fatti sembrano coordinarsi a un unico fi
ne (!.3).
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tana più nella casuale e falsa successione dovuta alla mera
trascrizione degli eventi.
C 'è perciò nel proemio polibiano, là dove si discorre del ca
rattere «organico» del racconto che l 'autore promette, un
continuo trapasso dal piano degli eventi a quello della loro
narrazione. Infatti nel cinquantennio dell'espansione roma
na, e solo allora, è accaduto che gli eventi, «prima dispersi
(cmopaoaç)», si intrecciassero: «a partire da quel momento
la storia (iaropia: parola che qui indica sia gli avvenimenti
che il loro racconto) ha formato un tutto organico, si sono in
trecciate le vicende dell'Italia con quelle africane, quelle del
l 'Asia con quelle della Grecia, e l 'insieme ha quel solo e me
desimo sbocco» (l, 3, 3-4). Sembra dunque di capire che
l '<<arganicismo » sia in rebus ipsis: non di tutte le età può
darsi storia universale. Lo si può nel caso dell 'espansionismo
romano:
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sì gran numero di protagonisti da conferire al racconto una
portata appunto «universale» e al tempo stesso internamente
coesa.
4. Maestri di impero
18
pubblicò nell'edizione berlinese del quotidiano «Der Tag»
un breve e molto efficace articolo intitolato Untergang
Karthagos. Nella situazione drammatica di quei giorni
convulsi, la breve rievocazione della distruzione di Cartagi
ne, fortemente voluta dal Senato romano, parla in realtà del
presente, della prevedibile catastrofe tedesca, della resa in
condizionata che gli occidentali pretendono dai Tedeschi
dopo aver inventato una "colpa tedesca". La rievocazione,
in tratti essenziali, dell'imperialismo rapace praticato dai
Romani non potrebbe essere più efficace: «I politici romani
avevano deciso la distruzione di Cartagine. I commercianti
e i capitalisti d 'Italia volevano liberarsi da scomodi concor
renti. Nessun sentimentalismo appesantiva il vecchio Cato
ne: lui vendeva gli schiavi, quando erano inabili a/ lavoro,
come vecchi cavalli. Ma almeno era onesto: diceva chiara
mente quello che anche gli altri volevano, ma dissimulava
no sotto frasi ipocrite. A cose /atte non sono neanche man
cati i difensori della politica romana, che l'hanno giustifica
ta come altamente morale e l'unica veramente lungimirante
dal punto di vista politico. Scatenare la guerra era facile:
bastò affidare questo compito ai vicini di Cartagine. Seppe
ro anche alienarle soldati e sudditi. Utica, la maggiore città
punica, legata a Cartagine da secolare comunità politica e di
sangue, passò dalla parte di Roma [. . . ]». E parla anche del
crollo interno della Germania: «Ora, quando era ormai
troppo tardi, il coraggio della disperazione esplose in fulgi
de fiamme. Adesso il popolo era unito. Si chiami pure folle
la resistenza che non poteva più contare sul successo; ma es
sa fu tuttavia grandiosa, e l 'esercito romano ebbe un duro
lavoro. Il console romano [Scipione Africano minore] rab
brividì dinanzi agli orrori cui dovette assistere. Come carne
fice era troppo buono, ma il suo compito di carnefice lo as
solse senza tenerezze».
Un dettaglio va aggiunto a questa descrizione: che la decisione,
presa a freddo, di annientare Cartagine quantunque vinta e da
tempo non più pericolosa, era stata presa esattamente nel mo-
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mento stesso in cui i Cartaginesi saldavano l'ultima pesantissi
ma rata delle cinquanta annualità di tributi cui li aveva sotto
messi il trattato di pace (cioè di capitolazione) del 2 01 a.C.
«Il bottino e i tributi - scrive Carcopino - vennero prelevati
dapprincipio al solo fine di rimarcare la soggezione dei vinti e
perpetuar/a, ma finirono ben presto per piacere in quanto ta
li: arricchirono i capi e, al tempo stesso, innalzarono il livel
lo di vita del popolo». Così, ad esempio, a partire dal16 7 il
popolo poté non più pagare un'imposta che i tributi inflitti si
ne die alla Macedonia rendevano inutile.
Oro e schiavi erano la posta in gioco nelle guerre del mondo
antico. Nel caso delle guerre di conquista romane si trattava
di tonnellate d 'oro e di eserciti di schiavi. E quando il botti
no già fatto - nonostante il sistema di scientifico sfruttamen
to delle province - cominciava ad esaurirsi, si profilavano
nuovi obiettivi di conquista: la decisione di Traiano di attac
care il regno di Decebalo, cioè la Dacia, e di annetterla, nasce
da tale spinta. L'impero che non punta ad espandersi deperi
sce: ciò è inerente al modo di produzione antico che impone
che la guerra si risolva nella spoliazione del vinto. Ecco per
ché la strategia imperiale difensiva di Pericle, di cui si è detto
in principio, era perdente. Ecco perché nella «Rede aus der
Kriegszeit» Das Weltreich des Augustus Wilamowitz indi
ca nella «pax Augusta» l'inizio della decadenza dell'impero.
Eppure per secoli, la reazione a questo sistema - spoliazione
del vinto nel momento della conquista e oppressione spietata
dopo la sua trasformazione in provincia - non fu quella che
ci si poteva aspettare. Per lo meno, le voci a noi giunte di cri
tica all'imperialismo di rapina sono poche. La lettera di Mitri
date ad Arsace che Sallustio inserì nelle Historiae rielaboran
dola sulla base forse di un documento autentico, e il discorso
del capo britannico Calgaco («ubi solitudinem faciunt pacem
appellant»), reso eterno dalla scelta di Tacito di darne conto
con rilievo nell'Agricola (cap. 30) non sono che eccezioni.
I Romani seppero anche, dopo aver tratto dai vinti tutti i
vantaggi possibili, dividerli e creare una élite provinciale filo-
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romana da r;ooptare, in alcuni casi, persino con l'immissione
in Senato. E sempre Tacito che coglie l'importanza e l 'effica
cia di questa arte di governare l'impero, quando dà alle pa
role di Claudio in favore dell'immissione in Senato dei «pri
miores Galliae »5 il valore di risposta a distanza alle parole di
Calgaco.
Il segreto della durevolezza dell'impero - spiega Claudio - è
nell 'aver saputo cooptare. Se Atene e Sparta decaddero, ciò
deriva dall'uso geloso e miope che esse fecero della cittadi
nanza. Romolo - prosegue Claudio - sin dalle origini aprì la
città appena sorta ad una «feccia» di stranieri e li fece citta
dini optimo iure. Per Claudio, e si può dire anche per Taci
to, è nella gestione della cittadinanza, nella sua progressiva
estensione, il segreto dell 'impero. Quando Caracalla (212
d. C.) la estese a tutte le civitates dell 'impero, parve che ne
venisse nuova e durevole linfa. Se, com'è probabile,6l'esten
sione della cittadinanza introdotta da Caracalla (« Constitutio
antoniniana») era limitata appunto alle popolazioni urbane,
fu il mondo rurale a provocare di lì a poco una crisi quasi
mortale per l'impero: quella sommersione delle civitates ad
opera delle masse di contadini-soldati che diede a Michail
Rostovcev la spinta ad immaginare una suggestiva analogia
tra la crisi del III secolo e la Russia dell 'ottobre 191 7. La cri
si invece fu superata grazie al formarsi di una nuova autoç_ra
zia non più temperata dal conflitto col ceto senatorio. E la
teocrazia dioclezianea e poi cristiano-costantiniana. Essa
rendeva tutti pari di fronte all'autocrate, il quale grazie al
l 'intuizione geniale di Costantino seppe assicurarsi il formi
dabile appoggio della nuova, popolarissima, religione di sal
vezza della quale egli stesso si impose come leader. Incomin
ciava allora un altro genere di impero, che facendo perno sul
la "Seconda Roma" durò per un millennio.
' Della Gallia Cornata a suo tempo annientata da Cesare (Cfr. Annali, Xl,
24-25).
'' È la tesi efficacemente sostenuta da Santo Mazzarino.
21
Il Sogno di Scipione
Introduzione
di
Giuseppe Solaro
25
una figura, che putacaso aveva proprio le sembianze del
suo defunto avo, Scipione Africano, il quale dall'aldilà si
manifestava al nipote per preannunciargli la sua futura
carriera, che - l' avo gli rivelava - avrebbe avuto inizio di
ll a breve con la distruzione della città di Cartagine.
Durante questa sua apparizione, l'Africano aveva mo
strato inoltre a Scipione il luogo beato nel quale la sua
anima viveva e dove anche Scipione un giorno sarebbe
potuto approdare se avesse compiuto fino in fondo la
missione che la divinità gli aveva assegnato sulla Terra.
Nel contemplare la bellezza di questo luogo, avvolto in
una luce bianca meravigliosa e riservato in cielo ai soli
benefattori della patria, Scipione aveva desiderato rag
giungere subito lassù i suoi parenti defunti, ma gli era ap
parsa poi un'altra figura dai tratti a lui molto familiari,
quella del suo amatissimo padre, il console Lucio Emilio
Paolo, defunto anch'egli ormai da tempo, che nel sogno
anch'egli, cosl come il nonno, lo aveva spronato a com
piere senza indugi la sua divina missione per la gloria di
Roma e dei suoi stessi avi. Soltanto cosl, infatti - nel so
gno il padre gli aveva rivelato -, dopo la morte Scipione
avrebbe potuto ottenere l'ambita ricompensa celeste: al
trimenti la sua anima sarebbe stata costretta a vagare
s, e nza meta per tutta l 'eternità.
E questo il sogno che dunque alla fine del De re publica
Scipione racconta di aver fatto mentre si trovava in Afri
ca ospite del re Massinissa, alla vigilia dell'assedio di Car
tagine, città che egli avrebbe conquistato con la carica or
mai di console nel 14 6 a . C . Cessato il racconto del sogno,
si concludeva quindi anche il dialogo rappresentato da Ci
cerone nel De re publica, che, com'è noto, era ambientato
non a caso proprio nell 'anno della morte del protagonista,
il 12 9 a.C. (Il sogno pertanto introduce nella conclusione
dell'opera una vera e propria retrospettiva, che fa risalire
il tempo della narrazione all'indietro fino agli esordi della
brillante carriera politica e militare di Scipione).
26
Già gli antichi commentatori di questo suggestivo testo si
interrogarono sulla funzione di siffatta conclusione nell'e
conomia di un'opera che- com'è noto - nei primi cinque
libri tratta di un argomento apparentemente ben diverso,
cioè dello Stato ideale. Osservava Macrobio, autore di un
lungo commento in due libri al Sogno di Scipione, che Ci
cerone dovette certamente ispirarsi al celebre mito di Er,
collocato non a caso anch'esso da Platone proprio alla fi
ne della Repubblica e riguardante anch'esso, cosl come il
Sogno di Scipione, il tema dell'immortalità dell'anima. lvi
Platone - com'è noto- narra infatti dell'esperienza oltre
mondana di un soldato della Panfilia, Er, il quale, dopo
essere morto in battaglia, il dodicesimo giorno resuscitato
avrebbe raccontato del suo lungo viaggio nell'aldilà. Cice
rone - osservava già Macrobio - ispirandosi quindi al mo
dello platonico avrebbe scelto di concludere il suo tratta
to sullo Stato con un racconto analogo al mito di Er, che
mostrasse in modo tangibile ai responsabili della cosa pub
blica i premi e i castighi che attendono le anime nell'aldilà
in conseguenza della loro condotta terrena. 1
Da Macrobio a Dante
27
stante. Secondo un'ipotesi di Konrat Ziegler (Zu Text und
Textgeschichte der Rep. Ciceros, in « Hermes», a. LXVI
1931, alle pp . 2 78 sg . ), l'estrapolazione deve probabil
mente risalire all'epoca in cui fu allestito il primo esempla
re manoscritto che, come molti codici ancora oggi super
stiti, conteveva il testo del Sogno di Scipione insieme con
il relativo commento di Macrobio, che è databile al 43 0
ca. d.C. (Non a caso anche il titolo attribuito dalla tradi
zione all'estratto risulta essere attestato già in Macrobio).
Come sempre accade in casi analoghi, l'estrapolazione,
pur avendo giovato alla conoscenza ed alla diffusione del
l'estratto, ancora oggi tramandato in numerosi esemplari
manoscritti, ha posto però in grave pericolo la sopravvi
venza degli altri libri del De re publica, i quali - com'è no
to - si conservano oggi, in modo frammentario, nel solo
codice Vaticano latino 5 75 7, celebre palinsesto scoperto
nel1819 da Angelo Mai.2 Proprio quale breve estratto del
De re publica il Sogno di Scipione finl quindi con il godere
di grande fortuna sin dalla tarda antichità, cosl come di
mostra, oltre che il commento di Macrobio, anche la Di
sputatio de Somnio Scipionis del retore cartaginese Favonio
Eulogio, discepolo di Agostino, conservata oggi in un so
lo manoscritto (Bruxelles, Bibliothèque royale, ms. class.
lat. 1008 0, sec. Xl). Un caso che tra i molti vale qui la pe
na di segnalare è però soprattutto quello del possibile in
flusso del testo ciceroniano sulla Divina Commedia:3 il
confronto con alcuni celebri luoghi dell'opera dantesca
sembrerebbe infatti suggerire la presenza di precise remi
niscenze della fonte latina.4
28
omette qui la parte iniziale dell'ultimo libro del De re publica,
che precede il Sogno di Scipione ed è oggi nota soltanto attraver
so la tradizione indiretta. Alle pagine 51-61 si propone il testo
del volgarizzamento del Sogno di Scipione di Zanobi da Strada
secondo l'edizione critica curata da Simona Brambilla («Studi
Petrarcheschi» 13, 2000, pp. 47-65). Di seguito si propone inol
tre il testo de Il sogno di Scipione del Metastasio, suggestiva rie
laborazione cristiana della fonte latina, edito in Tutte le opere di
Pietro Metastasio, a cura di B. BRUNELLI, Milano, Arnoldo Mon
dadori Editore, 1967, volume secondo, pp. 236-248. Infine, al
le pp. 76-79, si propone il testo della dedica dell'editio princeps
del De re publica di Angelo Mai (M. Tuili Ciceronis De re publi
ca quae supersunt edente Angelo Maio Vaticanae Bibliothecae
Praefecto, Rom ae, in Collegio Ur bano apud Burliaeum,
MDCCCXXII, pp. III-VI).
29
Somnium Scipionis
M. Tuili Ciceronis
excerptum ex libro VI De re publica
Il Sogno di Scipione
di Marco Tullio Cicerone
tratto dal sesto libro della «Repubblica»
[9] Cum in Africam venissero M . ' M anilio consuli ad
quartam legionem tribunus ut scitis militum, nihil mihi
fuit potius guam ut Masinissam convenirem, regem fa
miliae nostrae iustis de causis amicissimum. Ad quem ut
veni, complexus me senex conlacrimavit aliquantoque
post suspexit ad caelum, et: 'grates' inquit ' tibi ago sum
me Sol, vobisque reliqui caelites, quod ante quam ex hac
vita migro, conspicio in meo regno et his tectis P. Cor
nelium Scipionem, cuius ego nomine recreor ipso: ita
numquam ex animo meo discedit illius optimi atque in
victissimi viri memoria. ' Deinde ego illum de suo regno,
ille me de nostra re publica percontatus est, multisque
verbis ultro citroque habitis ille nobis est consumptus
dies.
[10] Post autem apparatu regio accepti, sermonem in
multam noctem produximu s, cum senex nihil nisi de
Africano loqueretur, omniaque eius non facta solum sed
etiam diet a meminisset. Deinde ut cubitum discessi
mus, me et de via fessum, et qui ad multam noctem vi
gilassero, artior quam solebat somnus complexus est.
Hic mihi - credo equidem ex hoc quod eramus locuti:
fit enim fere ut cogitationes sermonesque nostri pariant
32
[9] Dopo essere giunto in Africa in qualità - come sapete5 -
di tribuno militare al comando della quarta legione agli or
dini del console Manio Manilio,6niente fu per me più im
portante che recarmi da Massinissa, il re che per giuste ra
gioni era molto amico della mia famiglia. 7 Non appena fui
da lui, il vecchio abbracciandomi si mise a piangere e do
po un po' alzando gli occhi al cielo disse: <uingrazio te,
sommo Sole,8 e voi tutte, divinità del cielo, perché prima
di abbandonare questa vita vedo qui nel mio regno e pro
prio nella mia casa Publio Cornelio Scipione, il cui nome,
al solo udirlo pronunciare, mi fa ringiovanire: nel mio
cuore, infatti, non viene mai meno il ricordo di quell 'uo
mo straordinario e senza ombra di sconfitta ».9 lo gli feci
quindi alcune domande sul suo regno, lui ne fece a me sul
la nostra repubblica e la giornata si consumò rapidamente
nel succedersi delle nostre reciproche domande e risposte.
[lO] Ricevuti poi con pompa regale, 10 proseguimmo la no
stra conversazione fino a notte inoltrata, mentre il vec
chio non faceva che parlare dell'Africano, di cui ricorda
va non soltanto tutte le imprese che aveva compiuto ma
anche tutte le parole che aveva detto. Quando poi ci sepa
rammo per andare a dormire, stanco com'ero per il viag
gio 1 1 e per la lunga veglia notturna, caddi in un sonno più
profondo del solito. Fu allora che mi apparve l'Africano
(credo certamente perché avevamo parlato di lui: talvolta
accade infatti che i nostri pensieri e i nostri discorsi gene-
33
aliquid in somno tale, quale de Homero scribit Ennius,
de qua videlicet saepissime vigilans solebat cogitare et
loqui - Africanus se ostendit ea forma guae mihi ex
imagine eius guam ex ipso erat notior; quem ubi agna
vi, equidem cohorrui; sed ille: ' ades' inquit ' animo et
omitte timorem Scipio, et guae dicam trade memoriae .
[11] Videsne illam urbem, guae parere populo Romano
coacta per me renovat pristina bella nec potest quiesce
re ?' Ostendebat autem Karthaginem de excelso et pie
no stellarum, illustri et clara quodam loco. 'Ad guam tu
oppugnandam nunc venis paene miles, hanc hoc biennio
consul evertes, eritque cognomen id tibi per te partum
quod habes adhuc hereditarium a nobi s . Cum autem
Karthaginem deleveri s , triumphum egeris censorque
fueris, et obieris legatus Aegyptum, S yriam, Asiam,
Graeciam, deligere i terum consul absens bellu mque
maximum conficies, Numantiam excindes. Sed cum eris
curru in Capitolium invectu s, offendes rem publicam
consiliis perturbatam nepotis mei. [12] Hic tu Africane
ostendas oportebit patriae lumen animi ingeniique tui
consiliique. Sed eius temporis ancipitem video quasi fa
torum viam. Nam cum aetas tua septenos octiens solis
anfractus reditusque converterit, duoque hi numeri,
quorum uterque plenus alter altera de causa habetur,
circuitu naturali summam tibi fatalem confecerint, in te
unum atque in tuum nomen se tota convertet civitas, te
senatus, te omnes boni, te sodi, te Latini intuebuntur,
tu eris unus in qua nitatur civitatis salus, ac ne multa:
dictator rem publicam constituas oportebit, si impias
propinquorum manus effugeris . '
34
rino nel sonno qualcosa di simile a ciò che Ennio scrive a
proposito di Omero, a cui evidentemente durante il gior
no era solito pensare e del quale era solito parlare molto
spesso)12 nell'aspetto che mi era familiare più dal suo ri
tratto che per averlo conosciuto di persona . 13 Non appena
vidi che era lui, rimasi sgomento, ma lui mi disse: « Scipio
ne, stai tranquillo, abbandona pure ogni timore e tieni be
ne a mente quello che ti dirò » . 14 [11] « Vedi tu quella città
che, dopo essere stata costretta da me ad obbedire al po
polo romano, rinnova antichi conflitti senza riuscire a tro
vare pace ? » (mi mostrava intanto Cartagine da un luogo
molto elevato e pieno di stelle, chiaro e splendente). <<Tu
che giungi ora qui quasi come un semplice soldato per cin
gerla d'assedio, 15 nei prossimi due anni la raderai al suolo
essendo diventato ormai console e meritandoti così il so
prannome che ora hai soltanto in eredità da me. 16 Poi, do
po che avrai distrutto Cartagine e che avrai celebrato il
trionfo e sarai stato nominato censore e sarai andato come
ambasciatore in Egitto, Siria, Asia, Grecia, sarai eletto
console una seconda volta mentre sarai lontano da Roma
e concluderai una guerra importantissima radendo al suo
lo Numanzia . 17 Quando però ti condurranno in Campido
glio sul carro trionfale, troverai lo S tato sconvolto dalle
oscure trame di un mio nipote. 18 [12 ] Tu, allora, Africano,
dovrai mostrare alla patria la luce del tuo cuore, della tua
intelligenza e della tua saggezza. Vedo però che in quel
tempo la via che chiamiamo del destino si biforcherà.
Quando infatti il corso della tua vita avrà completato 8
volte 7 rivoluzioni del Sole, 19 e questi due numeri, i quali
entrambi - ciascuno per una diversa ragione - sono consi
derati perfetti/0 con naturale sequenza21 avranno ottenu
to la somma di anni che ti è stata assegnata in sorte, a te
solo e al tuo nome si rivolgerà tutta la città, a te guarde
ranno il senato, tutta l'aristocrazia, gli alleati italici e lati
ni, tu sarai il solo al quale affidare la salvezza dello Stato
e, non aggiungo altro, quale dittatore sarà tuo compito
35
Hic cum exclamavisset Laelius ingemuissentque vehe
mentius ceteri, leniter arridens Scipio: ' s t ! Quaeso' in
quit ' ne me e somno excitetis, et parumper audite ce
tera . '
[13] ' Sed quo sis Africane alacrior ad tutandam rem publi
cam, sic habeto: omnibus qui patriam conservaverint,
adiuverint, auxerint, certum esse in caelo definitum lo
cum, ubi beati aevo sempiterno fruantur; nihil est enim il
li principi deo, qui omnem mundum regit, quod quidem
in terris fiat acceptius, quam concilia coetusque hominum
iure sociati, quae civitates appellantur; harum rectores et
conservatores hinc profecti huc revertuntur. '
[14] Hic ego etsi eram perterritus non tam martis metu
quam insidiarum a meis, quaesivi tamen viveretne ipse
et Paulus pater et alii quos nos extinctos esse arbitrare
mur. ' Immo vero' inquit 'hi vivunt qui e corporum vin
clis tamquam e carcere evolaverunt, vestra vero quae di
citur vita mors est. Quin tu aspicis ad te venientem
Paulum patrem ? ' Quem ut vidi, equidem vim lacrima
rum profudi, ille autem me complexus atque osculans
fiere prohibebat.
[15 ] Atque ego ut primum fletu represso loqui posse
coepi, 'quaeso' inquam 'pater sanctissime atque optu
me, quoniam haec est vita ut Africanum audio dicere,
quid moror in terris ? Quin huc ad vos venire propero ? '
' Non e s t ita' inquit ille. ' Nisi enim cum deus i s , cuius
hoc templum est omne quod conspicis, istis te corporis
custodiis liberaverit, huc tibi aditus patere non potest.
Homines enim sunt hac lege generati, qui tuerentur il
lum globum, quem in hoc tempio medium vides, quae
36
rifondare la repubblica, a condizione però che tu riesca a
sfuggire alle mani empie dei tuoi familiari ». 22
A questo punto, poiché Lelio23 aveva emesso un urlo e gli
altri avevano iniziato a gemere con grande veemenza, Sci
piene sorridendo loro dolcemente disse: « Sss !24 Vi prego,
non svegliate il mio sonno e ascoltate ancora un po' il rac
conto del mio avo ».
[13] « Ma perché tu, Africano, sia più risoluto nel difende
re la repubblica, sappi questo, che a tutti coloro che hanno
preservato, sostenuto, accresciuto la patria, è riservato in
cielo un luogo ben preciso, dove vivere beatamente in eter
no.25 Niente, infatti, di ciò che esiste sulla Terra è più gra
dito alla divinità suprema, che regge tutto l'universo, di
quelle associazioni e gruppi di uomini fondati sul diritto
denominati Stati;26 coloro che li reggono e li preservano,
partiti da questo luogo, in questo luogo fanno ritorno ».
[14] A questo punto, sebbene fossi spaventato non tanto
per la paura di morire quanto per le insidie che mi sareb
bero venute dai miei familiari, gli domandai se lui vivesse
e se vivesse mio padre Paolo e altri che noi consideravamo
estinti. Egli rispose: « Certamente! Vivono coloro che si
sono liberati dei vincoli del corpo come si fugge da una
prigione, mentre quella che voi chiamate vita è morte.27
Ma perché non rivolgi lo sguardo verso tuo padre Paolo
che viene verso di te ? » . Non appena lo vidi, versai un ma
re di lacrime, mentre lui abbracciandomi e baciandomi mi
impediva di piangere.
[15 ] Allorché, soffocato il pianto, fui di nuovo in grado di
parlare, gli domandai: <<padre mio ottimo e degno della
massima venerazione, se è questa la vera vita, come sento
dire dall'Africano, perché indugio sulla Terra ? Non do
vrei affrettarmi a venire qui da voi ? » . « Non è cosl» - mi
rispose. « Infatti, se la divinità, cui appartiene l'immenso
spazio intorno a te, non ti avrà liberato dalla prigione del
corpo, non si potrà aprire per te l'accesso a questo luogo.
Gli uomini, infatti, furono creati a questa condizione, che
37
terra dicitur, iisque animus datus est ex illis sempiternis
ignibus guae sidera et stellas vocatis, guae globosae et
rotundae, divinis animatae mentibus, circos suos orbe
sque conficiunt celeritate mirabili. Quare et tibi Publi
et piis omnibus retinendus animus est in custodia cor
poris, nec iniussu eius a quo ille est vobis datus, ex ho
minum vita migrandum est, ne munus humanum adsi
gnatum a deo defugisse videamini. [16] Sed sic Scipio
ut avus hic tuus, ut ego qui te genui, iustitiam cole et
pietatem, guae cum magna in parentibus et propinquis,
tum in patria maxima est ; ea vita via est in caelum et in
hunc coetum eorum qui iam vixerunt et corpore laxati
illum incolunt locum quem vides - erat autem is splen
didissimo candore inter flammas circus elucens -, quem
vos ut a Grais accepistis orbem lacteum nuncupatis . ' Ex
quo omnia mihi contemplanti praeclara cetera et mira
bilia videbantur . Erant autem eae stellae quas num
quam ex hoc loco vidimus, et eae magnitudines omnium
quas esse numquam suspicati sumus, ex quibus erat ea
minima quae ultima a caelo, citima a terris luce lucebat
aliena. Stellarum autem globi terrae magnitudinem faci
le vincebant. lam vero ipsa terra ita mihi parva visa est,
ut me imperii nostri quo quasi punctum eius attingimus
paeniteret.
[17 ] Quam cum magis intuerer, 'quaeso , ' inquit Africa
nus, ' quousque humi defixa tua mens erit ? Nonne aspi
cis guae in tempia veneris ? Novem tibi orbibus vel po
tius globis conexa sunt omnia, quorum unus est caele
stis, extumus, qui reliquos omnes complectitur, summus
ipse deus arcens et continens ceteros; in quo sunt infixi
38
prendessero stabile dimora nel globo che vedi collocato al
centro dello spazio che ti circonda28 e che è chiamato Ter
ra, e fu loro affidata un'anima costituita della stessa ma
teria di quei fuochi eterni che voi chiamate astri e stelle e
che, corpi sferici animati da un divino intelletto, compio
no le loro orbite circolari con mirabile velocità . Per que
sto, tu, Publio, e tutti gli uomini giusti dovete custodire
l'anima nella sua prigione corporea senza abbandonare la
vita umana contro la volontà di chi vi ha fatto dono della
vostra anima, perché non sembri che abbiate voluto elu
dere il compito che la divinità vi ha assegnato sulla Terra .
[16] Tu, dunque, Scipione, come tuo nonno qui presente
e come me, che ti ho generato, onora la giustizia e la
pietà, che non dev'essere soltanto grande '(erso i genitori
e i familiari, ma grandissima per lo Stato. E una vita cosl
condotta la via che porta al cielo e a questo consesso di
uomini che già vissero e che, liberati dal peso del corpo,
abitano il luogo che vedi (era esso un cerchio che brillava
tra le fiamme con un meraviglioso chiarore) , che dai Gre
ci avete imparato a chiamare la "via lattea"». A me che da
quel luogo osservavo l'universo tutte le altre cose appari
vano mirabili e straordinarie. C'erano le stelle che qui dal
la Terra non abbiamo mai potuto vedere e la loro grandez
za era quale noi non avremmo mai potuto immaginare.
Tra queste la più piccola era quella che, la più lontana dal
cielo e la più vicina alla Terra, splendeva di luce riflessa.29
La loro dimensione superava di gran lunga la grandezza
della Terra, anzi la Terra mi parve cosl piccola che mi rin
crebbe del nostro impero, con il quale ne occupiamo a ma
lapena un punto.
[17 ] Poiché la guardavo con insistenza , l 'Africano do
mandò: «dimmi, fino a quando la tua attenzione resterà
concentrata sulla Terra ? Non ti accorgi degli immensi
spazi nei quali sei giunto ? Ecco qui al tuo cospetto l'uni
verso composto di nove cerchi o, per meglio dire, sfere, di
cui una sola è quella veramente celeste, la più lontana, che
39
illi qui volvuntur stellarum cursus sempiterni. Huic su
biecti sunt septem qui versantur retro contrario motu
atque caelum. Ex quibus summum globum possidet illa
quam in terris Saturniam nominant . Deinde est homi
num generi prosperus et salutaris ille fulgor qui dicitur
Iovis . Tum rutilus horribilisque terris quem Martium
dicitis . Deinde su bter mediam fere regionem Sol obti
net, dux et princeps et moderator luminum reliquorum.
Mens mundi et temperatio, tanta magnitudine ut cunc
ta sua luce lustret et compleat. Hunc ut comites conse
quuntur Veneris alter, alter Mercurii cursus, in infimo
que orbe Luna radiis S olis accensa convertitur. I nfra
autem eam iam nihil est nisi mortale et caducum prae
ter animos munere deorum hominum generi datos, su
pra Lunam sunt aeterna omnia. Nam ea quae est media
et nona, Tellus, neque movetur et infima est, et in eam
feruntur omnia nutu suo pondera . '
[18 ] Quae cum intuerer stupens, u t me recepi, 'quis
hic' inquam ' est qui complet aures meas tantus et tam
dulcis sonus ?' ' Hic est' inquit 'ille qui intervallis co
niunctus imparibus, sed tamen pro rata parte ratione
distinctis, impulsu et motu ipsorum orbium efficitur,
et acuta cum gravibus temperans varios aequabiliter
concentus efficit; nec enim silentio tanti motus incita
ri possunt, et natura fert ut extrema ex altera parte
graviter, ex altera autem acute sonent. Quam ob cau
sam summus ille caeli stellifer cursus, cuius conversio
est concitatior, acuto et excitato movetur sono, gravis
simo autem hic Lunaris atque infimus; nam terra nona
immobilis manens una sede semper haeret, complexa
40
comprende in sé tutte le altre, dio supremo che contiene
e racchiude in sé tutti gli altri dei: in questa sfera sono in
fisse le orbite delle stelle che ruotano per l'eternità. Sotto
di essa ci sono sette sfere che ruotano in direzione oppo
sta con moto contrario a quello del cielo. 30 Tra queste il
globo più alto è occupato da quella che sulla Terra viene
chiamata Saturno. Ecco poi quell'astro prospero e saluta
re per il genere umano che è chiamato Giove. Ed ecco poi
quella sfera di colore rosso vivo ed orribile per la Terra,
che voi chiamate Marte. Al di sotto, in una regione quasi
centrale, ecco quindi il Sole, guida, principe e regolatore
di tutti gli altri corpi celesti; mente e misura del mondo,
esso è di una grandezza tale da irradiare e pervadere con
la sua luce tutto quanto l'universo. 3 1 Lo seguono, quasi
come compagni di viaggio,32 l'orbita di Venere e quella di
Mercurio , mentre nel cerchio più basso, illuminata dai
raggi del Sole, ruota la Luna. Sotto la Luna non c'è più
niente che non sia mortale e caduco oltre l'anima, conces
sa dagli dei in dono al genere umano, mentre al di sopra
della Luna tutto è eterno. Infatti, la sfera che è al centro
dell'universo, e che è la nona, la Terra, rimane immobile
ed occupa il punto più basso e verso di essa tendono per
loro naturale inclinazione tutti i gravi »Y
[18] Mentre guardavo ammirato tutto questo, quando mi
riebbi, domandai: « che suono è mai questo, cosl forte e
cosl melodioso, che mi invade le orecchie ? » . L'Africano
rispose: <� è il suono che, mediante la combinazione di in
tervalli disuguali e tuttavia perfettamente concordi, si
produce per la spinta ed il movimento delle stesse sfere
celestP4 e che, moderando toni acuti con toni gravi, emet
te armonie uniformemente diverse. Moti cosl imponenti
non potrebbero infatti mai prodursi nel silenzio35 ed è na
turale che le due estremità dell'universo risuonino rispet
tivamente l'una in modo grave e l'altra in modo acuto.
Per questo, l'orbita più alta del cielo, quella delle stelle, la
cui rotazione è più veloce, si muove emettendo un suono
41
medium mundi locum. Illi autem octo cursus, in quibus
eadem vis est duorum, septem efficiunt distinctos in
tervallis sonos, qui numerus rerum omnium fere nodus
est; quod docti homines nervis imitati atque cantibus,
aperuerunt sibi reditum in hunc locum, sicut alii qui
praestantibus ingeniis in vita humana divina studia co
luerunt . [19] Hoc sonitu oppletae aures hominum ob
surduerunt; nec est ullus hebetior sensus in vobis, sicut
ubi Nilus ad illa quae Catadupa nominantur praecipitat
ex altissimis montibus, ea gens quae illum locum adco
lit propter magnitudinem sonitus sensu audiendi caret.
Hic vero tantus est totius mundi incitatissima conver
sione sonitus, ut eum aures hominum capere non pos
sint, sicut intueri solem adversum nequitis, eiusque ra
diis acies ves tra sensusque vincitur . '
[20] Haec ego admirans, referebam tamen oculos ad ter
ram identidem. Tum Africanus: 'sentio' inquit 'te sedem
etiam nunc hominum ac domum contemplati; quae si tibi
parva ut est ita videtur, haec caelestia semper spectato, il
la humana contemnito. Tu enim quam celebritatem ser
monis hominum aut quam expetendam consequi gloriam
potes ? Vides habitari in terra raris et angustis in locis, et
in ipsis quasi maculis ubi habitatur vastas solitudines inte
riectas, eosque qui incolunt terram non modo interruptos
ita esse ut nihil inter ipsos ab aliis ad alios manare possit,
sed partim obliquos, partim transversos, partim etiam ad
versos stare vobis. A quibus expectare gloriam certe nul
lam potestis.
[21] Cernis autem eandem terram quasi quibusdam re
dimitam et circumdatam cingulis, e quibus duos maxi-
42
acuto e vibrante,36 mentre l'orbita lunare, che è la più bas
sa, emette un suono molto grave. La Terra, infatti, che ri
mane immobile in nona posizione, se ne sta sempre fissa
in una stessa sede comprendendo in sé il centro dell'uni
verso. Le otto orbite celesti, due delle quali hanno la me
desima velocità ,37 emettono sette suoni distinti tra loro
per intervalli e questo numero è per cosl dire il nodo che
lega tutte quante le cose. 38 I dotti che con le corde di uno
strumento musicale o con il canto hanno imitato questo
suono, si sono aperti la via che riconduce a questo luogo,
cosl come altri che con il loro superiore intelletto si sono
dedicati durante la vita umana a studi di natura divina . 39
[19] Le orecchie degli uomini, invase da questo suono, ne
sono rimaste assordate ;40 nessun altro vostro senso è in
fatti più debole dell 'udito, cosl come accade là dove il Ni
lo precipita da monti altissimi nella regione chiamata Ca
tadupa: la popolazione che abita quel luogo è divenuta
sorda per il rumore provocato dalla caduta dell'acqua.41 Il
rimbombo provocato dalla rapidissima rotazione dell'inte
ro universo è quindi cosl forte che le orecchie umane non
possono percepirlo, cosl come non potete tenere lo sguar
do fisso verso il Sole senza che il vostro senso della vista
sia sopra Ha tto dai suoi raggi ». 42
[20] Sebbene contemplassi ammirato questo spettacolo,
ogni tanto tuttavia ritornavo con lo sguardo verso la Ter
ra. Allora l'Africano disse: « vedo che continui a contem
plare la sede e la dimora degli uomini, che, se ti sembra,
com'è, piccola, rivolgi sempre i tuoi occhi alle cose celesti,
trascurando quelle umane. Infatti, quale notorietà sulla
bocca della gente, quale gloria potresti mai sperare di ot
tenere ? Vedi che sulla Terra si abita in pochi e angusti
spazi e che in questi stessi spazi abitati, simili a macchie,
si interpongono vaste zone desertiche e vedi che gli abi
tanti della Terra non soltanto sono cosl distanti gli uni da
gli altri che nulla si potrebbe mai diffondere tra loro, ma
sono distribuiti cosl da rimanere alcuni in posizione obli-
43
me inter se diversos et caeli verticibus ipsis ex utraque
parte subnixos obriguisse pruina vides, medium autem
illum et maximum solis ardore torreri . Duo sunt habita
biles, quorum australis ille, in quo qui insistunt adversa
vobis urgent vestigia, nihil ad vestrum genus; hic autem
alter subiectus aquiloni quem incolitis cerne guam tenui
vos parte contingat. O mnis enim terra guae colitur a
vobis, angustata verticibus, lateribus latior, parva quae
dam insula est circumfusa ilio mari quod Atlanticum,
quod magnum, quem Oceanum appellatis in terris, qui
tamen tanto nomine guam sit parvus vides. [22] Ex his
ipsis cultis notisque terris num aut tuum aut cuiusquam
nostrum nomen vel Caucasum hunc quem cernis tran
scendere potuit vel illum Gangen tranatare ? Quis in re
liquis orientis aut obeuntis solis ultimis aut aquilonis
austrive partibus tuum nomen audiet ? Quibus amputa
tis cernis profecto quantis in angustiis vestra se gloria
dilatari velit. lpsi autem qui de nobis loquuntur, guam
loquentur diu ?
[2 3] Quin etiam si cupiat proles illa futurorum hominum
deinceps laudes unius cuiusque nostrum a patribus accep
tas posteris prodere, tamen propter eluviones exustione
sque terrarum, quas accidere tempore certo necesse est,
non modo non aeternam, sed ne diuturnam quidem glo
riam adsequi possumus. Quid autem interest ab iis qui po
stea nascentur sermonem fore de te, cum ab iis nullus fue
rit qui ante nati sunt ? [24] Qui nec pauciores et certe me
liores fuerunt viri, praesertim cum apud eos ipsos a qui
bus audiri nomen nostrum potest, nemo unius anni me
moriam consegui possit. Homines enim populariter an-
44
qua, altri in posizione trasversale, altri addirittura agli an
tipodi rispetto a voi.43 E da questi certamente non potete
attendervi nessuna gloria.
[21] Inoltre, come vedi, la Terra è circondata e cinta co
me da fasce, due delle quali noti che, opposte tra loro e
sorrette proprio dai due poli celesti, si sono irrigidite per
il gelo, mentre la fascia intermedia, che è anche la più am
pia, è arsa dal calore del Sole. 44 Le fasce abitabili sono
due, di cui quella australe, i cui abitanti lasciano sul suolo
impronte agli antipodi rispetto a voi, non ha nessun rap
porto con la vostra stirpe; quest 'altra, invece, esposta al
l'aquilone, che voi abitate, vedi bene quanto esigua parte
ve ne tocchi. Infatti, tutta la Terra da voi abitata, schiac
ciata ai poli, più larga ai lati, è come una piccola isola cir
condata da quel mare che sulla Terra chiamate ora Atlan
tico ora mare magnum ora Oceano, che tu vedi però quan
to sia piccolo a dispetto di tanto nome. [22] Forse che da
queste stesse terre abitate e conosciute il tuo nome o quel
lo di uno di noi avrebbe mai potuto quaggiù valicare il
Caucaso o laggiù guadare il Gange ?45 Chi mai nei rima
nenti estremi confini della Terra, dove il Sole sorge o tra
monta o dove soffiano l'aquilone o l'austro, sentirà pro
nunciare il tuo nome ?46 Ma se si escludono questi territo
ri, vedi bene in quali angusti confini la vostra gloria aspi
ri a diffondersi. D'altronde, gli stessi uomini che parlano
di noi, quanto a lungo ne parleranno ? » .
[2 3] « Ma s e anche l a futura discendenza umana s i propo
nesse di tramandare ai posteri di generazione in genera
zione le lodi di ognuno di noi ricevute in eredità dai pa
dri, tuttavia a causa delle inondazioni e deflagrazioni ter
restri, 47 che si verificano inesorabilmente in periodi pre
stabili ti, non potremmo mai ottenere non solo una gloria
eterna ma neppure duratura. E a che vale che di te dica
no i posteri, se nessun discorso fu mai pronunciato dai no
stri antenati ? [24 ] Che furono uomini non inferiori per
numero e certamente migliori per virtù, senza considera-
45
num tantum modo solis, id est unius astri, reditu metiun
tur; re ipsa autem cum ad idem unde seme! profecta sunt
cuncta astra redierint, eandemque totius caeli descriptio
nem longis intervallis rettulerint, tum ille vere vertens an
nus appellari potest; in quo vix dicere audeo quam multa
hominum saecla teneanturo Namque ut olim deficere sol
hominibus exstinguique visus est, cum Romuli animus
haec ipsa in tempia penetravit, quandoque ab eadem par
te sol eodemque tempore iterum defecerit, tum signis om
nibus ad idem principium stellisque revoca tis expletum
annum habeto; cuius quidem anni nondum vicesimam
partem scito esse conversamo
[25] Quocirca si reditum in hunc locum desperaveris, in
quo omnia sunt magnis et praestantibus viris, quanti tan
dem est ista hominum gloria, quae pertinere vix ad unius
anni partem exiguam potest ? lgitur alte spectare si voles
atque hanc sedem et aeternam domum contueri, neque te
sermonibus vulgi dederis, nec in praemiis humanis spem
posueris rerum tuarum; suis te oportet inlecebris ipsa vir
tus trahat ad verum decuso Quid de te alii loquantur, ipsi
videant, sed loquentur tameno Sermo autem omnis ille et
angustiis cingitur his regionum quas vides, nec umquam
de ullo perennis fuit, et obruitur hominum interitu, et
oblivione posteritatis extinguitur o '
[26] Quae cum dixisset, 'ego vero' inquam ' Africane, si
quidem bene meritis de patria quasi limes ad caeli adi
tum patet, quamquam a pueritia vestigiis ingressus pa
tris et tuis decori vestro non defui, nunc tamen tanto
praemio exposito enitar multo vigilantius' Et ilie: ' tu
o
46
re che anche presso gli uomini, dai quali il nostro nome
può essere udito, nessuno potrebbe ottenere di essere ri
cordato per la durata di un solo anno. Gli esseri umani,
infatti, solitamente calcolano l'anno dalla rivoluzione solo
del Sole, cioè di un unico astro, ma quando tutti gli astri
saranno ritornati nella medesima posizione dalla quale so
no partiti all ' inizio e dopo lunghi intervalli di tempo
avranno ristabilito la configurazione iniziale di tutto il
cielo, allora si potrà ritenere che sia veramente trascorso
un anno: nel quale anno a stento io oserei dire quante ge
nerazioni umane siano comprese. 48 E infatti, così come un
giorno agli uomini parve che il Sole scomparisse e si estin
guesse, quando l'anima di Romolo entrò proprio in questi
spazi celesti, allorché il sole scomparirà una seconda volta
dalla stessa parte e nello stesso intervallo di tempo, quan
do tutti quanti gli astri e tutte le stelle saranno ritornati al
loro medesimo punto di partenza, allora potrai ritenere
l'anno compiuto: ma sappi che di questo anno non è tra
scorsa in realtà neppure la ventesima parte ».
[25] « Se tu quindi disperassi di poter ritornare in questo
luogo, dove tutto si confà ad uomini grandi e nobili, qua
le valore avrebbe alla fine codesta gloria umana, che a ma
lapena può comprendere un'esigua parte di un solo anno ?
Se tu dunque vorrai volgere il tuo sguardo verso l'alto e
contemplare questa sede ed eterna dimora, non ti affide
rai ai discorsi della gente né riporrai le speranze della tua
vita in ricompense terrene; la virtù stessa dovrà condurti
con il suo fascino verso la vera gloria: ciò che altri uomini
potrebbero dire di te, è affar loro, tanto comunque parle
ranno. Ogni loro discorso resta tuttavia circoscritto negli
angusti confini che vedi né è mai stato eterno per nessu
no, anzi cessa con la morte degli uomini e si estingue nel
l'oblio dei posteri ».
[26] Dopo che ebbe detto ciò, dissi io: «Africano, se vera
mente ai benefattori della patria si apre quasi una via che
conduce alle porte del cielo, sebbene fin da ragazzo, se-
47
pus hoc; nec enim tu is es quem forma ista declarat, sed
mens cuiusque is est quisque, non ea figura guae digito
demonstrari potest. Deum te igitur scito esse, siquidem
est deus qui viget, qui sentit, qui meminit, qui provi
det, qui tam regit et moderatur et movet id corpus cui
praepositus est, guam hunc mundum ille princeps deus;
et ut mundum ex quadam parte mortalem ipse deus ae
ternus, sic fragile corpus animus sempiternus movet .
[2 7 ] Nam quod semper movetur, aeternum est; quod au
tem motum adfert alicui quodque ipsum agitatur aliun
de, quando finem habet motus, vivendi finem habeat
necesse est. Salurn igitur quod se ipsum movet, quia
numquam deseritur a se, numquam ne moveri quidem
desinit; quin etiam ceteris guae moventur hic fans, hoc
principium est movendi. Principii autem nulla est origo;
nam ex principio oriuntur omnia, ipsum autem nulla ex
re alia nasci potest; nec enim esset id principium quod
gigneretur aliunde; quodsi numquam oritur, ne occidit
quidem umq u a m . N a m principi um exstinctum nec
ipsum ab alia renascetur, nec ex se aliud creabit, siqui
dem necesse est a principio oriri omnia. lta fit ut motus
principium ex eo sit quod ipsum a se movetur; id autem
nec nasci potest nec mori; vel concidat omne caelum
omnisque natura et consistat necesse est, nec vim ullam
nanciscatur qua a primo impulsa moveatur. [2 8 ] Cum
pateat igitur aeternum id esse quod se ipsum moveat,
quis est qui hanc naturam animis esse tributam neget ?
l nanimum est enim omne quod pulsu agitatur externo;
quod autem est animai, id motu cietur interiore et suo;
nam haec est propria natura animi atque vis; guae si est
48
guendo le orme di mio padre e le tue, io non sia mai venu
to meno al vostro onore, ora tuttavia con la speranza di
una ricompensa cosl grande mi impegnerò con molto mag
giore cura». E lui: « tu certamente impegnati e tieni bene
a mente questo, che non sei mortale tu ma questo tuo cor
po: infatti, tu non sei colui che questo tuo aspetto esterio
re rivela, ma di ogni uomo la vera essenza è l'intelletto,
non l'immagine che si può indicare con il dito. Sappi dun
que che tu sei un dio, 49 se è un dio quello che vive, che
sente, che ricorda, che prevede, che regge e governa e
muove questo corpo cui è preposto cosl come il dio supre
mo regge, governa e muove il mondo; e come la divinità
eterna muove il mondo in parte mortale, cosl l'anima eter
na muove il corpo corruttibile. [2 7] Infatti, ciò che è sem
pre in movimento, è eterno, mentre ciò che muove un'al
tra entità ma che a sua volta è mosso da altro, quando il
movimento cessa, necessariamente cessa anch'esso di esi
stere. Pertanto soltanto ciò che si muove di moto proprio,
poiché non è mai abbandonato da se stesso, non cessa mai
di muoversi ed è anzi fonte e principio del movimento di
tutte le altre cose che si muovono .50 Del principio però
non esiste un'origine; dal principio, infatti, nascono tutte
le cose, ma il principio stesso non può avere origine da
niente: non sarebbe infatti il principio ciò che nascesse da
altro; e come non nasce da niente, cosl esso non ha nep
pure mai una fine. Infatti, ove estinto, il principio non ri
nascerà da niente né genererà da sé più niente, se è vero
che tutto necessariamente ha origine dal principio. Ne
consegue che il principio del movimento deriva da ciò che
si muove da sé ed esso non può né nascere né morire, al
trimenti tutto il cielo fatalmente crollerebbe e tutta la na
tura non solo si arresterebbe ma non riuscirebbe più a tro
vare una forza che dia l'impulso iniziale al movimento.
[28] Poiché dunque è evidente che è eterno ciò che si
muove di moto proprio, chi potrebbe negare che all 'anima
sia stata attribuita siffatta natura ? Infatti è privo di ani-
49
una ex omnibus quae se ipsa moveat, neque nata certe
est et aeterna est. [2 9] Hanc tu exerce in optimis rebus!
Sunt autem optimae curae de salute patriae, quibus agi
tatus et exercitatus animus velocius in hanc sedem et
domum suam pervolabit, idque ocius faciet, si iam tum
cum erit inclusus in corpore, eminebit foras, et ea quae
extra erunt contemplans quam maxime se a corpore ab
strahet. Namque eorum animi qui se corporis voluptati
bus dediderunt, earumque se quasi ministros praebue
runt, impulsuque libidinum voluptatibus oboedientium
deorum et hominum iura violaverunt, corporibus elapsi
circum terram ipsam volutantur, nec hunc in locum nisi
multis exagitati saeculis revertuntur . '
llle discessit; ego somno solutus sum.
50
ma tutto ciò che è mosso da un impulso esterno mentre
ciò che ha un'anima si muove di un moto interiore e pro
prio. Ed è questa dunque la forza naturale propria dell'a
nima umana, che, se tra tutte le entità è la sola dotata di
moto proprio, è certamente ingenerata ed eterna. [2 9] Tu
allora esercitala nelle imprese umane migliori ! Che sono
quelle che mirano alla salvezza della patria: l'anima che si
sia impegnata ed esercitata in esse ascenderà più veloce
mente verso questa sede e sua vera dimora e lo farà anco
ra più velocemente se fin da quando si troverà rinchiusa
nel corpo se ne trarrà fuori e contemplando la realtà ester
na si terrà il più possibile lontano dal corpo.51 Infatti, le
anime di quanti si dedicarono ai piaceri materiali divenen
done come schiavi e che sulla spinta delle passioni, che
tengono dietro ai piaceri, violarono le leggi divine e uma
ne, dopo aver abbandonato il corpo continuano a vagare
intorno alla Terra e non ritornano in questo luogo se non
dopo aver penato per molti secoli ».52
Egli scomparve ed io mi svegliai.53
51
Zanobi da Strada
Volgarizzamento del Sogno di Scipione
Proemio
53
del cui nome io sono chiamato; e cosl mai dell'animo mio
non si parte la memoria di quello valentissimo huomo» . E
poi domandò l'uno l' altro, io lui del suo reame et elli me
della nostra republica; et avuto tra nnoi molte parole, più
e meno cosl finimo quello dl.
Poi, nelle reali camere ricevuti, in grande parte della notte
il nostro parlare prolungamo; non parlando quello nobile
vecchio se non dell'Africano e recitando non solamente i
fatti, ma eziandio tutti i suoi detti. E poi, essendo iti a dor
mire, sl per la via, sl perchè gran parte della notte aveva ve
ghiato, più strettamente che non solea mi prese il sonno.
II
54
ca, turbata per consigli del mio nipote; qui tu, Africano,
converrà che mostri el lume dell'animo e dello ingegno
tuo. Et io veggio già la dubbiosa via de' fati di quello tem
po, però che, da cche la tua età arà rivolto sette giri otto
volte et avrà converso i tornamenti, e questi due numeri,
de' quali l'uno e ll'altro, essendo pieno l'uno e per altra
cagione che l'altro, t'avranno compiuta la somma fatale,
in te solo e nel tuo nome tutta la città si rivolgerà. Te il
Senato, te tutti i buoni huomini, te i compagni, te raguar
deranno tutti i Latini; tu sarai solo in cui si sforzerà la sa
lute della città. Et acciò che io non dica troppo, tu, ditta
tore, converrà che ordini la republica, se Ile crudeli mani
de' parenti saprai fuggire>).
III
IV
55
mandai se viveva elli e Paolo mio padre e molti altri, i
quali sapavamo ch'erano morti. « Anzi» disse elli « que
sti vivono, che ssono riusciti de' vincoli de' corpi co
me di pregione; ma lla vostra, che ssi chiama vita, è
morte. Ecco , vedi Paolo tuo padre che viene a tte! » . Il
quale tosto com 'io vidi, in verità tutto mi ruppi di la
grime; et elli, abracciandomi e baciandomi, non mi la
sciava piangere.
Et io, tosto come pote' ristare del pianto e cominciare a
parlare, dissi a llui: « Io ti priego, padre santissimo et ot
timo, però che qui è vita secondo che odo dire l'Africa
no, io perché sto in terra, perché non mi spaccio di ve
nire costà ? » . Et elli a mme: « Non fare così, però che,
se questo Iddio, di cui è tutto questo tempio che ttu ve
di, non t 'arà prima liberato da questi legami del corpo,
qua su non ti si può manifestare l 'entrata. Però che Ili
uomini sono generati con questa legge, i quali abitano
questo cerchio di mezzo che ttu vedi , che ssi chiama
Terra, et a ccostoro è dato l'animo da quelli sempiterni
fuochi, che voi chiamate sideri e stelle, le quali, grosse
e tonde, inanimate delle divine menti, compiono i suoi
cerchi e ritondità con velocità maravigliosa. Onde et a
tte, Publio, è da essere conservato l ' animo in guardia
del corpo in tutte le cose piatose, né della vita delli huo
mini è da passare contro al comandamento di colui da
cui quello v'è dato, acciò che non paia che voi fuggiate
il dono datovi da dDio.
56
go che tu vedi », et era costui con una bianchezza splendi
dissima, rilucente tra ile fiamme, «el quale voi, come da'
Greci avete udito, chiamate Cerchio Latteo, overo Ga
laxia ». Per lo quale a me, tutte queste cose vegiente, tut
te l'altre cose mi parevano predare e maravigliose. E que
ste erano stelle, le quali non avavamo mai pensato che co
si fossono; e queste erano le grandezze di tutte le stelle, e
' globi di quelle agevolmente vinceano la grandezza di tut
ta la Terra. E già essa Terra mi parea sl piccola che mmi
facea pentere dello 'mperio, al quale noi eravamo venuti
come a un punto.
VI
57
na cosa è, se non mortale e caduca, fuori che ll 'anime
date alla generazione delli huomini per dono delli Iddii;
sopra la Luna sono tutte le cose etterne. E quella ch 'è
mezza tra questi cerchi e nona, cioè la Terra, non si
muove et è infima a ttutte, et a quella caggiano, per lo
ro natura, tutte le cose gravi ».
VII
58
ha il sentimento dell'udire. E questo canto è uno suono di
velocissimo movimento di tutto il mondo, intanto che li
orecchi delli uomini no 'l possono comprendere, sl come
voi non potete comprendere dirimpetto a voi il Sole, et il
sentimento e lla vista vostra è vinto da quella>).
VIII
59
IX
60
s'apartiene a così poca parte come un anno ? Adunque, se
ttu vorrai altamente raguardare e vedere questa sedia et
etterna casa, non ti darai a' sermoni del popolo e non por
rai la speranza delle cose tue ne' premii umani; se vuogli
e conviene che ila virtù ti tragga da questi diletti al vero
honore. E quello che gli altri di te parleranno, elli il veg
giano; che nné pure parleranno; e tutto quel parlare è cin
to da queste strettezze delle regioni, e mai non fu perpe
tuo d'alcuno, et è sotterrato morto l'uomo e spegnesi per
la dimenticanza de' posteri.
61
e più tosto a tutte le cose che ssi muovono, questi è fon
te, questo è il principio di muoversi. Et al principio non
è mai niuno principio: però che dal principio tutte le co
se nascono; ma elli da niuna altra cosa può nascere, però
che non può essere quello principio che d' altronde si ge
neri. E cosl, se mai non cominciò, mai non verrà meno:
però che 'l principio morto né potrà rinascere da un al
tro, e da ssé non ne creerà un altro; e sse così è, è di ne
cessità che tutte le cose nascano dal principio : seguita
che 'l principio del movimento sia da quella cosa che da
ssé si muova, e cciò non può nascere né morire. E se tut
to il cielo cadesse, e tutta la natura, che questo stea fer
mo, di bisogno è che niuna cosa sostenga forza che ssi
muova dal primo impulso, cioè movimento . Adunque
manifesto è, secondo che quello è etterno che da sse me
desimo si muove, però che chi negherà questa natura es
sere da t a agli animi ? Però che nell 'animo è ciò che ssi
muove per movimento strano ; ma quello c h ' è anima,
quello si muove per movimento dentro e suo propio:
però che questa è la natura dell'animo e Ila sua virtù; la
quale, se cosl è, di tutte le cose, la quale si muova, certo
non è nata et è etterna.
XI
62
dii, uscendo de' corpi si ravvolgono intorno alla Terra et
in questo luogo non tornano se non tormentate per mol
ti secoli » .
Quelli s i partl e t io mi destai dal sonno.
63
Pietro Metastasio
Il Sogno di Scipione
Argomento
Interlocutori
SCIPIONE
LA COSTANZA
LA FORTUNA56
65
PUBLIO avo adottivo di Scipione.
EMILIO padre di Scipione.
'
CORO D EROI
66
FORT. Dubiti!
COST. Incerto
Un momento esser puoi !
FORT. Ti porgo il crine,
E a me non t 'abbandoni ?
COST. Odi il mio nome,
Né vieni a me ?
FORT. Parla .
COST. Risolvi.
SCIP. E come ?
Se volete ch'io parli,
Se risolver degg'io, lasciate all'alma
Tempo da respirar, spazio onde possa
Riconoscer se stessa.
Ditemi dove son, chi qua mi trasse,
Se vero è quel ch'io veggio,
Se sogno, se son desto o se vaneggio.
Risolver non osa
Confusa la mente,
Ché oppressa si sente
Da tanto stupor.
Delira dubbiosa,
Incerta vaneggia
Ogni alma che ondeggia
Fra' moti del cor.
COST. Giusta è la tua richiesta. A parte a parte
Chiedi pure, e saprai
Quanto brami saper.
FORT. Sl, ma sian brevi,
Scipio, le tue richieste. Intollerante
Di riposo son io . Loco ed aspetto
Andar sempre cangiando è mio diletto.
Lieve sono al par del vento;
Vario ho il volto, il piè fugace;
Or m'adiro, e in un momento
Or mi torno a serenar.
Sollevar le moli oppresse
67
Pria m'alletta, e poi mi piace
D 'atterrar le moli istesse
Che ho sudato a sollevar.
SCIP. Dunque ove son ? La reggia
Di Massinissa, ove poc'anzi i lumi
Al sonno abbandonai,
Certo questa non è .
çosT. No: lungi assai
E l'Africa da noi. Sei nell'immenso
Tempio del ciel.
FORT. Non lo conosci a tante
Che ti splendono intorno
Lucidissime stelle ? A quel che ascolti
Insolito concento
Delle mobili sfere ? A quel che vedi
Di lucido zaffiro
Orbe maggior che le rapisce in giro ?
SCIP. E chi mai tra le sfere, o dèe, produce
Un concento sl armonico e sonoro ?
COST. L'istessa ch'è fra loro
Di moto e di misura
Proporzionata ineguaglianza. Insieme
Urtansi nel girar: rende ciascuna
Suon dall'altro distinto;
E si forma di tutti un suon concorde.
Varie cosl le corde
Son d'una cetra; e pur ne tempra in guisa
E l'orecchio e la man l'acuto e il grave,
Che dan, percosse, un'armonia soave.
Questo mirabil nodo
Che gl'ineguali unisce,
Questa ragione arcana
Che i dissimili accorda,
Proporzion s'appella, ordine e norma
Universal delle create cose.
Questa è quel che nascose,
D'alto saper misterioso raggio,
68
Entro i numeri suoi di Samo il saggio .57
SCIP. Ma un'armonia sl grande
Perché non giunge a noi ? Perché non l'ode
Chi vive là nella terrestre sede ?
COST. Troppo il poter de' vostri sensi eccede.
Ciglio che al sol si gira.
Non vede il sol che mira,
Confuso in quell'istesso
Eccesso di splendor.
Chi là del Nil cadente
Vive alle sponde appresso,
Lo strepito non sente
Del rovinoso umor.
SCIP. E quali abitatori . . .
FORT. Assai chiedesti:
Eleggi al fin.
SCIP. Soffri un istante. E quali
Abitatori han queste sedi eterne ?
COST. Ne han molti e vari in varie parti.
SCIP. In questa,
Ove noi siam, chi si raccoglie mai ?
FORT. Guarda sol chi s'appressa, e lo saprai.
'
PUBLIO, CORO D EROI, indi EMILIO, e detti.
CORO
Germe di cento eroi,
Di Roma onor primiero,
Vieni, che in ciel straniero
Il nome tuo non è.
Mille trovar tu puoi
Orme degli avi tuoi
Nel lucido sentiero
Ove inoltrasti il piè.
SCIP. Numi, è vero o m'inganno ? Il mio grand'avo,
Il domator dell' African rubello
Quegli non è ?
PUBL. Non dubitar, son quello .
SCIP. Gelo d'orror! Dunque gli estinti . . .
69
PUBL. Estinto,
Scipio, io non son.
SCIP. Ma in cenere disciolto
Tra le funebri faci,
Gran tempo è già, Roma ti pianse.
SCIP. Ah taci:
Poco sei noto a te. Dunque tu credi
Che quella man, quel volto,
Quelle fragili membra onde vai cinto
Siano Scipione ? Ah non è ver! Son queste
Solo una veste tua. Quel che le avviva
Puro raggio immortal, che non ha parti
E scioglier non si può, che vuoi, che intende,
Che rammenta, che pensa,
Che non perde con gli anni il suo vigore,
Quello, quello è Scipione: è quel non muore.
Troppo iniquo il destino
Saria della virtù, s'oltre la tomba
Nulla di noi restasse; e s'altri beni
Non vi fosser di quei
Che in terra per lo più tocca a' rei.
No, Scipio: la perfetta
D'ogni cagion Prima Cagione, ingiusta
Esser così non può. V'è dopo il rogo,
V'è mercé da sperar. Quelle che vedi
Lucide eterne sedi,
Serbansi al merto; e la più bella è questa
In cui vive con me qualunque in terra
La patria amò, qualunque offrì pietoso
Al pubblico riposo i giorni sui,
Chi sparse il sangue a benefizio altrui.
Se vuoi che te raccolgano
Questi soggiorni un dì,
Degli avi tuoi rammentati,
Non ti scordar di me.
Mai non cessò di vivere
Chi come noi morì:
70
Non meritò di nascere
Chi vive sol per sé.
SCIP. Se qui vivon gli eroi . . .
FORT. Se paga ancora
La tua brama non è, Scipio, è già stanca
La tolleranza mia. Decidi . . .
COST. Eh lascia
Ch'ei chieda a voglia sua. Ciò ch'egli apprende
Atto lo rende a giudicar fra noi.
SCIP. Se qui vivon gli eroi
Che alla patria giovar, tra queste sedi
Perché non miro il genitor guerriero ?
PUBL. L'hai su gli occhi e noi vedi ? ,
SCIP. E vero, è vero .
Perdona, errai, gran genitor; ma colpa
Qelle attonite ciglia
E il mio tardo veder, non, della mente,
Che l'immagine tua sempre ha presente.
Ah sei tu! Già ritrovo
L'antica in quella fronte
Paterna maestà. Già nel mirarti
Risento i moti al core
Di rispetto e d 'amore. Oh fausti numi !
Oh caro padre! Oh lieto dl! Ma come
Sl tranquillo m'accogli ? Il tuo sembiante
Sereno è ben, ma non commosso . Ah dunque
Non provi in rivedermi
Contento eguale al mio!
EMI. Figlio, il contento
Fra noi serba nel Cielo altro tenore.
Qui non giunge all'affanno, ed è maggiore.
SCIP. Son fuor di me. Tutto quassù m'è nuovo,
Tutto stupir mi fa.
EMI. Depor non puoi
Le false idee che ti formasti in terra,
E ne stai sl lontano. Abbassa il ciglio:
Vedi laggiù d'impure nebbie avvolto
71
Quel picciol globo anzi quel punto ?
�CIP. Oh stelle !
E la terra ?
EMI. Il dicesti.
SCIP. E tanti mari
E tanti fiumi, e tante selve e tante
Vastissime province, opposti regni,
Popoli differenti ? E il Tebro ? E Roma ? . . .
E M I . Tutto è chiuso in quel punto.
SCIP. Ah padre amato,
Che picciolo, che vano,
Che misero teatro ha il fasto umano!
EMI. Oh se di quel teatro
Potessi, o figlio, esaminar gli attori;
Se le follie, gli errori,
I sogni lor veder potessi, e quale
Di riso per lo più degna cagione
Gli agita, gli scompone,
Li rallegra, gli affligge o gl'innamora,
Quanto più vil ti sembrerebbe ancora !
Voi colaggiù ridete
D'un fanciullin che piange,
Ché la cagion vedete
Del folle suo dolor.
Quassù di voi si ride,
Ché dell'età sul fine,
Tutti canuti il crine,
Siete fanciulli ancor.
SCIP. Publio, padre, ah lasciate
Ch'io rimanga con voi. Lieto abbandono
Quel soggiorno laggiù troppo infelice.
FORT. Ancor non è permesso.
COST. Ancor non lice.
PUB. Molto a viver ti resta.
SCIP. lo vissi assai;
Basta, basta per me.
EMI. Si, ma non basta
72
A' disegni del Fato, al ben di Roma,
Al mondo, al Ciel.
PUB . Molto facesti e molto
Di più si vuol da te. Senza mistero
Non vai, Scipione, altero
E degli aviti e de' paterni allori.
I gloriosi tuoi primi sudori
Per le campagne ibere
A caso non spargesti; e non a caso
Porti quel nome in fronte
Che all'Africa è fatale. A me fu dato
Il soggiogar si gran nemica; e tocca
Il distruggerla a te. Va, ma prepara
Non meno alle sventure
Che a' trionfi il tuo petto. In ogni sorte
L'istessa è la virtù. L'agita, è vero,
Il nemico destin, ma non l'opprime;
E quando è men felice, è più sublime.
Quercia annosa su l'erte pendici
Fra 'l contrasto de' venti nemici
Più sicura, più salda si fa.
Ché se 'l verno le chiome le sfronda,
Più nel suolo col piè si profonda;
Forza acquista, se perde beltà.
SCIP. Giacché al voler de' Fati
L'opporsi è vano, ubbidirò.
COST. Scipione,
Or di scegliere è tempo.
FORT. !strutto or sei;
Puoi giudicar fra noi.
SCIP. Publio, si vuole
Ch'una di queste dèe . . .
PUB. Tutto m'è noto.
Eleggi a voglia tua.
SCIP. Deh mi consiglia,
Gran genitor!
EMI. Ti usurperebbe, o figlio,
73
La gloria della scelta il mio consiglio.
FORT. Se brami esser felice,
Scipio, non mi stancar: prendi il momento
In cui t'offro il mio crin.
SCIP. Ma tu che tanto
Importuna mi sei, di' : qual ragione
Tuo seguace mi vuoi ? Perché degg'io
Sceglier più te che l'altra ?
FORT. E che farai
S 'io non secondo amica
L'imprese tue ? Sai quel ch'io posso ? Io sono
D ' ogni mal, d'ogni bene.
L'arbitra colaggiù. Questa è la mano
Che sparge a suo talento e gioie e pene,
Ed oltraggi ed onori,
E miserie, e tesori. Io son colei
Che fabbrica, che strugge,
Che rinnova gl'imperi. Io, se mi piace,
In soglio una capanna, io, quando voglio,
Cangio in capanna un soglio. A me soggetti
Sono i turbini in cielo,
Son le tempeste in mar. Delle battaglie
lo regolo il destin. Se fausta io sono,
Dalle perdite istesse
Fo germogliar le palme; e s'io m'adiro,
Svelgo di man gli allori
Sul compir la vittoria ai vincitori.
Che più ? Dal regno mio
Non va esente il valore,
Non la virtù; ché, quando vuol la Sorte,
Sembra forte il più vii, vile il più forte;
E a dispetto d'Astrea58
La colpa è giusta e l'innocenza è rea.
A chi serena io miro,
Chiaro è di notte il cielo;
Torna per lui nel gelo
La terra a germogliar.
74
Ma se a taluno io giro
Torbido il guardo e fosco,
Fronde gli niega il bosco,
Onde non trova in mar.
SCIP. E a sl enorme possanza
Chi s'opponga non v'è ?
COST. Sl, la Costanza.
Io, Scipio, io sol prescrivo
Limiti e leggi al suo temuto impero.
Dove son io non giunge
L'instabile a regnar; ché in faccia mia
Non han luce i suoi doni, ,
Né orror le sue minacce. E ver che oltraggio
Soffron talor da lei
Il valor, la virtù; ma le bell'apre,
Vindice de' miei torti, il tempo scopre.
Son io, non è costei,
Che conservo gl'imperi: e gli avi tuoi,
La tua Roma lo sa. Crolla ristretta
Da Brenno, è ver, la libertà latina
Nell'angusto Tarpeo, ma non ruina .
Dell' Aufido alle sponde
Si vede, è ver, miseramente intorno
Tutta perir la gioventù guerriera
Il console roman, ma non dispera.
Annibale s'affretta
Di Roma ad ottener l'ultimo vanto,
E co' vessilli suoi quasi l'adombra;
Ma trova in Roma intanto
Prezzo il terren che il vincitore ingombra.
San mie prove sl belle; e a queste prove
Non resiste Fortuna. Ella si stanca;
E al fin cangiando aspetto,
Mia suddita diventa a suo dispetto.
Biancheggia in mar lo scoglio,
Par che vacilli, e pare
Che lo sommerga il mare
75
Fatto maggior di sé.
Ma dura a tanto orgoglio
Quel combattuto sasso;
E 'l mar tranquillo e basso
Poi gli lambisce il piè.
SCIP. Non più. Bella Costanza,
Guidami dove vuoi. D'altri non curo;
Eccomi tuo seguace.
FORT. E i doni miei ?
SCIP. Non bramo e non ricuso.
FORT. E il mio furore ?
SCIP. Non sfido e non pavento.
FORT. In van potresti,
Scipio, pentirti un dl. Guardami in viso:
Pensaci, e poi decidi.
SCIP. Ho già deciso.
Di' che sei l'arbitra
Del mondo intero,
Ma non pretendere
Perciò l'impero
D'un'alma intrepida,
D'un nobil cor.
Te vili adorino,
Nume tiranno,
Quei che nonprezzano,
Quei che non hanno
Che il basso merito
Del tuo favor.
FORT. E v'è mortai che ardisca
Negarmi i voti suoi ? che il favor mio
Non proccuri ottener ?
SCIP. Sl, vi son io.
FORT. E ben, provami avversa . Olà, venite,
Orribili disastri, atre sventure,
Ministre del mio sdegno:
Quell'audace opprimete; io vel consegno.
SCIP. Stelle, che fia ? Qual sanguinosa luce!
76
Che nembi! che tempeste!
Che tenebre son queste! Ah qual rimbomba
Per le sconvolte sfere
Terribile fragor! Cento saette
Mi striscian fra le chiome; e par che tutto
Vada sossopra il ciel. No, non pavento,
Empia Fortuna: in van minacci; in vano,
Perfida, ingiusta dea . . . Ma chi mi scuote ?
Con chi parlo ? Ove son ? Di Massinissa
Questo è pure il soggiorno. E Publio ? E il padre ?
E gli astri ? E 'l Ciel ? Tutto sparl. Fu sogno
Tutto ciò ch'io mirai ? No, la Costanza
Sogno non fu: meco rimase. lo sento
Il nume suo che mi riempie il petto.
V 'intendo, amici dèi: l'augurio accetto.
LICENZA
Non è Scipio, o signore, (ah chi potrebbe
Mentir dinanzi a te!) non è l'oggetto
Scipio de' versi miei. Di te ragiono,
Quando parlo di lui. Quel nome illustre
E un vel di cui si copre
Il rispettoso mio giusto timore.
Ma Scipio esalta il labbro, e Carlo il core.
Ah perché cercar degg'io
Fra gli avanzi dell'oblio
Ciò che in te ne dona il Ciel!
Di virtù chi prove chiede,
L'ode in quelli, in te le vede:
� l'orecchio ognor del guardo
E più tardo e men fedel.
CORO
Cento volte con lieto sembiante,
Grande Augusto, dall'onde marine
Torni l'alba d'un df sì seren:
E rispetti la diva incostante
Quella fronda che porti sul crine,
L'alma grande che chiudi nel sen.
77
Angelus Maius
Sanctissimo Domino Nostro
Pio VII Pontifici Maximo
78
Angelo Mai
Al Santissimo Signore Nostro
Pio VII59 Pontefice Massimo
79
X nomine graece primum apparuit; latina civilium Ari
stotelis librorum interpretatio Eugenium IV patronum
nacta est : iam superest ut noster Tullius (qui male licet
affectus, splendore tamen sui nominis longe rutilat) in
Pii VII clientelam lubens veniat . Quamquam huius ob
sequii non ea sola causa est, quod volumen de regenda
re publica ad Rectorem orbis christiani tempestive di
gneque mittitur; verum id singulari fato congruit ra
tioni ac moderationi prindpatus tui . Politicus enim
Cicero baud vaganti sermone disputar, sed defixo, ut
ipse ait, in romana re publica; eamque nititur, virtute
maiorum et legibus instaurandis , ab eo discrimine in
teritus, quod ipse consul averterat, cohibere. lamvero
nostris temporibus parentem Te ac restitutorem roma
nae dominationis nemo est qui non appellet : quam fle
biliter extinctam lux prima benefici regni tui in vitam
subito revocavit. Mox graviore turbine exorto, qui
ta mdiu sacri pectoris tui sollicitavit quietem, num
quam Te flecti passus es, quominus imperii pontifica
lis perennitatem caelestibus fulcires praesidiis. lgitur
oh rem publicam tam bene tamque fortiter gestam cum
implesti orbem terrarum nominis tui gloria , tum est
amor erga Te singularis omnium hominum . Ecce au
tem religione quam tot clades adflixerant recreata,
provinciis in laeta pace compositis, urbe innumeris or
namentis ditata, scriptis summa aequitate prudentia
que legibu s , renovatis litterarum et artium st udii s;
ipse Tibi iam Cicero, Pater Beatissime, novis in tua bi
bliotheca copiis auctus gratulari videtur. Certe dignus
es, Pontifex Optime Maxime, quem tullianae eloquen
tiae honor non mea tenuis praedicatio colat.
80
esempio dei tuoi Predecessori. Infatti, dacché Platone, Aristo
tele e Cicerone sono considerati i primi astri della dottrina po
litica, Platone è apparso invero per la prima volta in greco sot
to gli auspici di Leone X;65 la traduzione latina della Politica di
Aristotele godette del patrocinio di Eugenio IV:66 non resta
dunque che il nostro Tullio (il quale, pur malconcio, tuttavia
molto riluce per lo splendore del suo nome) giunga lieto sotto
la protezione di Pio VII. E però la ragione del mio ossequio
non è soltanto questa, la dedica cioè conveniente ed opportu
na di un volume sull'amministrazione della cosa pubblica al
Reggente del mondo cristiano; ciò tuttavia per un caso parti
colare ben si adatta all'equilibrio e al tono del tuo governo. In
fatti il Cicerone politico non divaga ma svolge un discorso ben
radicato, come egli dice, nello Stato romano;67 e si sforza, ri
chiamandosi alla virtù e alle leggi degli antenati, di prevenire
in quello Stato la crisi mortale che egli stesso durante il suo
consolato era riuscito a scongiurare. Nell'epoca nostra non c'è
nessuno veramente che non ti invochi quale padre e restaura
tore della grandezza di Roma: che, estintasi tristemente, la pri
ma luce del tuo benefico regno all'improvviso riportò in vita.
Poi prodottosi un più grave sconvolgimento, che cosl a lungo
ha turbato la serenità del tuo sacro cuore, non ti sei mai fatto
piegare senza sostenere con l'aiuto del cielo la perennità del
potere papale. Pertanto grazie ad uno Stato cosl bene e con
tanta fortezza amministrato non soltanto hai riempito il mon
do della gloria del tuo nome ma a te si rivolgono con singolare
affetto tutti gli uomini. Ma ecco che dopo che la religione, che
tante disgrazie avevano afflitto, è stata rifondata, una pace si
cura è stata restituita alle province, Roma è stata abbellita con
innumerevoli ornamenti, sono state redatte leggi con estrema
equità e saggezza, è stato rinnovato lo studio delle lettere e del
le arti, ormai dunque anche Cicerone, Padre Beatissimo, sem
bra rallegrarsi essendo stato accresciuto di un nuovo esempla
re nella tua biblioteca. Ma certamente tu meriti, Pontefice Ot
timo Massimo, di essere onorato non dal mio debole elogio
bensl dalla grandezza dell'eloquenza tulliana.
81
Note
1 Un breve confrontro tra il mito di Er ed il Sogno di Scipione è già in Ago
stino, De civitate dei, 22, 28.
2 La celebre scoperta del Mai fu salutata con entusiasmo da Giacomo Leo
pardi nella sua famosa canzone Ad Angelo Mai quand'ebbe trovato i libri di
Cicerone 'Della R epubblica', composta nel gennaio 1 820. L'editio princeps
del De re publica, curata dallo stesso Mai, fu pubblicata nel 1822. L'ulti
mo autore che cita il De re publica di prima mano è probabilmente Isido
ro di Siviglia (morto nel 636 d.C.). Una testimonianza dubbia è quella
contenuta in una lettera di Gerberto di Aurillac del 986 d.C. (nr. 86 ed.
F. Weigle), nella quale il De re publica risulta essere menzionato in un bre
ve elenco di « Tulliana opuscula>>. Gerberto allude qui però forse al solo
Sogno di Scipione (cfr. R. Caldini Montanari, Tradizione mediev ale ed edi
zione critica del Somnium Scipionis, Firenze, SISMEL, Edizioni del Gal
luzzo, 2002, pp. 421-23).
3 E. Malato (Dante, Roma, Salerno Editrice, 1 999, p. 347) segnala tra i
modelli della Divina Commedia, insieme al Sogno di Scipione, la letteratu
ra medievale delle 'visioni' .
4 «Che Dante - scriveva Alessandro Ronconi - abbia conosciuto il Som
nium Scipionis, se si pensa alla sua lunga diffusione lungo il corso del Me
dioevo, grazie a Macrobio, è in sé altamente verosimile: se e dove siano
da vederne le tracce o le riprove, è questione aperta» (Enciclopedia Dan
tesca, s.v. Cicerone, p. 995). Un'analogia tra In/ II, 76-78 e Somn. Scip.
q - r 9 fu segnalata a suo tempo da E. Moore (Studies in Dante, First Se
ries, Scripture and Classica! Authors in Dante, Oxford 1 8 9 6 , p. 262).
Un'ampia messe di somiglianze contenutistiche e stilistiche è stata però
raccolta in seguito da Georg Rabuse per la voce Macrobio dell' Enciclope
dia Dantesca. Le prove forse più cogenti si trovano tut tavia in Ch. Richel
mi, Circulata melodia. L 'armonia delle sfere nella Commedia di Dante Ali
ghieri (http://users.unimi.it/-gpiana/dm5dancr.htm). A quelle raccolte dal
la Richelmi aggiungerei una possibile eco del ciceroniano tantus sonus
(Somn. 18) in Dante, Par., l , 84 di cotanto acume.
85
5 Scipione si rivolge ai suoi interlocutori nel dialogo del De re publica.
6 Scipione Emiliano giunse in Africa nel l49 a.C. per prendere parte alla
terza guerra punica, che si sarebbe conclusa con la distruzione di Cartagi
ne nel l46 a.C. L'esercito romano era guidato dai consoli Mania Manilio
e Lucio Marcio Censorino. Allora tribuna militare, Scipione era al coman
do della quarta legione, che insieme alla terza riceveva ordini dal console
Manilio, il quale è peraltro uno degli interlocutori del dialogo del De re
publica. M. ' Mani/io consuli, la lezione accolta da Ziegler, è congettura del
Sigonio. R. Montanari Caldini (Cum in A/ricam venissem hoc Mani/io con
su/e, « Prometheus» 10, 1984, pp. 224-40) ha proposto invece di accoglie
re la lezione hoc Mani/io consule tramandata nel solo codice Paris, Bibl.
Nat., n.a. lat. 454.
7 Re della Numidia, con la sua celebre cavalleria Massinissa aveva contri
buito alla vittoria di Scipione Africano contro Annibale a Zama nel 202
a.C. All'epoca della visita dell'Emiliano, nel l49 a.C., egli aveva ormai 9 1
anni.
8 Nel mondo antico, presso numerose popolazioni orientali e africane, il
86
invece agli anni 140- 139 a.C. La città di Numanzia, roccaforte dei Celti
beri, fu da lui conquistata nell'autunno del 1 3 3 a.C.
1 8 Si allude a Tiberio Gracco, figlio di Cornelia, figlia di Scipione Africa
no. Costui promosse la famosa legge agraria mentre l'Emiliano era impe
gnato nell'assedio di Numanzia.
19 Cioè 56 ( = 8x7) anni solari, quanti l' Emiliano ne avrebbe effettiva
mente vissuto (dal l85 al l29 a.C.).
20
La teoria secondo cui alcuni numeri erano da considerare perfetti (gr.
tèleioi, lat. pieni) era fatta risalire a Pitagora, il quale l'avrebbe appresa da
gli Egizi (cfr. Diod. l, 98, 2). L'8 era ritenuto perfetto perché otto erano
i pianeti allora conosciuti, il 7 perché era la somma del pari e del dispari
(cfr. Fav. Eu!. Disput. de Somn. Scip. 12). Secondo Macrobio, la durata
della vita di Scipione era perfetta perché prodotto del pari (8), madre del
le cose, e del dispari (7), padre delle cose.
21 Circuitus naturalis indica qui il percorso dello zodiaco.
22
Nel 129 a.C., nel giorno in cui avrebbe dovuto parlare al popolo sulla
questione agraria, Scipione fu trovato morto nel proprio letto e non poté
più assumere quindi i poteri di dittatore. Le fonti oscillano tra la versio
ne della morte violenta (per la quale sembra qui propendere lo stesso Ci
cerone), di cui furono accusati alcuni esponenti del partito graccano fami
liari di Scipione, e quella della morte naturale.
21
Gaio Lelio , protagonista del De amicitia e uno dei personaggi del De re
publica, fu tra gli amici più cari di Scipione, insieme al quale egli aveva
combattuto a Cartagine.
24
St! è correzione degli editori (i codici leggono et) .
2' Cfr. Lucr. 2, 647 immortali aevo summa cum pace /ruatur.
26 Cfr. Cic. De re pub. l, 2 5 : <da cosa pubblica è cosa del popolo, ma po
polo non è una società di uomini costituita in qualsiasi modo (hominum
coetus quoquo modo congregatus), bensl una società di molti uomini fonda
ta su di un accordo di diritto e per l'utilità comune (coetus multitudinis iu
ris consensu etutilitatis communione sociatus)>>.
27
Il concetto risale ad Eraclito, fr. 62 DK. L' immagine del carcere è trat
ta invece da Plat. Phaed. 67d.
28
Cfr. Cic. sen. 2 1 , 77 . . . qui terras tuerentur.
29 Secondo una teoria attribuita già a Talete, la Luna brillava del riflesso
della luce solare.
10 Nell'antichità si pensava che la sfera delle stelle fisse ruotasse da est ad
ovest; in direzione opposta si riteneva che ruotassero i pianeti.
" Cfr. Dante, Par. 10, 28-30 lo ministro maggior de la natura./ che del va
/or del ciel /o mondo imprenta/ e col suo lume il tempo ne misura.
" Venere e Mercurio sono qui definiti comites del princeps celeste con un lin
guaggio tratto dalla sfera politica (cfr. Catuli. 28, l Pisonis comites). Non si può
però del tutto escludere che essi fossero considerati da Cicerone quali satelliti
87
in senso astronomico del Sole: si tratterebbe in tal caso di una forma di <<rudi
mentale eliocentrismo», come fu osservato già da A. Ronconi (op. cit., p. 105).
33 Diog. Laer. 9, 2 1 scrive che Parmenide per primo aveva affermato che
la terra era di forma sferica e si trovava al centro dell'universo (en mésoi).
H Interoallis coniunctus imparibus è lezione da preferire ad interoallis di
siunctus imparibus, che è lezione insinuatasi probabilmente per banalizza
zione nella tradizione indiretta (Favonio Eulogio e Macrobio). Nella sua
quinta edizione del De re publica ( 1 960, p. 1 3 1 ) , K. Ziegler, che nella
quarta aveva optato per la tradizione indiretta ( 1 958, p. 1 3 1), ha accolto
in modo definitivo la tradizione diretta.
Jl Il passo sarà imitato da Boezio, inst. mus. l, 2 qui enimfieri p otest, ut tam
velox caeli machina taciti silentisque cursu moveatur?
J6 Acuto et excitato è lezione restituita grazie a Boezio, inst. mus. l , 27. Per
influsso del precedente acute, sia i manoscritti che Macrobio hanno infat
ti lezioni erronee (i primi acute et excitato, il secondo acute excitato).
H Venere e Mercurio.
Js Il numero 7 era considerato perfetto perché somma del pari e del dispa
ri: vedi Favonio Eulogio, Disp. de Somn. Scip. 12, il quale scrive che tale
numero multum in natura dominatur (sette erano infatti le stelle dell'Orsa,
sette le fasi lunari).
J• Cfr. Quint. inst. or. l, 10, 12 « nessuno potrebbe dubitare che uomini
famosi per la loro sapienza abbiano avuto particolare interesse per la mu
sica, dal momento che Pitagora e i suoi seguaci diffusero l' opinione, ere
ditata senza dubbio fin dall'antichità, che il mondo stesso è stato costitui
to secondo un criterio razionale in un secondo momento imitato dalla lira
(mundum ipsum ratione esse compositum, quam postea sit lyra imitata), e
non contenti di quella concordia che regna tra elementi differenti e che
chiamiamo 'armonia', essi hanno anche attribuito un suono a questi mo
vimenti».
40 Secondo Aristotele (cael. 2, 9, 290b), il suono dei pianeti non poteva es
sere udito dagli uomini perché precedente il momento della loro nascita.
41 Riguardo alle cascate d'acqua di Catadupa (dal gr. katadoupéo, 'cado
con rumore'), che erano note già ad Erodoto, Seneca, nat. quaest. 4, 2, 5
scrive che i Persiani che abitavano in quella regione per il rumore furono
costretti a spostarsi ad quietiora.
42 Giamblico, La vita pitagorica, 65 afferma che il solo Pitagora era in gra
88
'l grande lume, in Saggi di filosofia dantesca, Firenze, La Nuova Italia,
I967, p. 77).
41 Obliqui (gr. perioikoi) indica coloro che abitano sul nostro stesso meridia
no ma nell'emisfero australe; transversi (gr. àntoikoi), coloro che abitano nel
nostro stesso parallelo ma sul meridiano opposto; adversi (gr. antìpodes)
quanti abitano infine nell'emisfero australe sul meridiano opposto al nostro.
44 L'equatore.
" Gli estremi limiti orientali (a nord-est e a sud-est) del mondo allora co
nosciuto. A questo passo allude Boezio, cons. 2, 7 aetate denique M. Tulli,
sic ut ipse quodam loco significat, nondum Caucasum montem Romanae rei
publicae fama transcenderat. lvi però il riferimento un po' vago a Cicerone
ha indotto alcuni moderni (Usener, Plasberg) a ritenere che Boezio non
avesse conoscenza diretta del Sogno di Scipione (di opinione contraria P.
Courcelle, La Consolation de Phi/osophie dans la tradition littéraire. Antécé
dents et postérité de Boèce, Paris, Études Augustiniennes, I967, p. 123) .
46 Aquilone o Borea era il vento che soffiava da nord; l 'austro o astro era
invece il vento piovoso del sud.
4 7 Riferimento alla teoria stoica dei cataklusmòi e delle ekpuròseis.
48 L'anno cosmico (magnus annus) non era calcolato nell'antichità in modo
unanime. Secondo Eraclito, comprendeva I0800 anni solari; secondo Pla
tone, 15000.
49 Cfr. Cic. Tusc. I, 26, 65 animus qui ... ut ego dico, divinus est, ut Euripi
89
52 Scrive Favonio Eulogio (Disputatio de Somnio Scipionis, l , l) che Cice
rone avrebbe composto il Sogno di Scipione per dimostrare che «i discorsi
sull'immortalità dell'anima e sul cielo non erano fantasie di filosofi so
gnanti o favole inverosimili, derise dagli epicurei, ma congetture di uomi
ni saggi>> (v idelicet scite significans haec, quae de animae immortalitate dice
rentur caeloque, nec somniantium philosophorum esse commenta nec fabulas
incredibiles, quas Epicurei derident, sed prudentium coniecturas).
53 Cosl nei manoscritti si conclude il testo del Sogno di Scipione. Non è cer
to però che finisse con queste precise parole anche il dialogo del De re pu
blica (vedi su ciò R. Caldini Montanari, op. cit., p. 247).
54 Il libretto del Metastasio sarebbe poi stato musicato in numerose altre oc
casioni e infine anche da Mozart (KV 126) e rappresentato nel 1772 a Sali
sburgo in occasione dell'insediamento del principe-arcivescovo Hieronymus
Joseph Franz von Paula conte di Colloredo. Per un elenco delle rappresenta
zioni, vedi D. Faravelli, Cicerone, Metastasio, Mozart: il Sogno di Scipione, in
www .rivistazetesis. it/Mozartsognoscipione.htm (p. 20, n. 7).
55 Lucio Emilio Paolo, padre di Scipione Emiliano, sconfisse Perseo, re di
Macedonia, a Pidna nel l68 a.C.
5 6 I due personaggi allegorici della Costanza e della Fortuna, assenti nel
Sogno di Scipione ciceroniano, derivano dal quindicesimo libro dei Punica
di Silio Italico (vv. 20-128), dove Scipione è chiamato a compiere una
scelta analoga tra la Virtus e la Voluptas: ivi peraltro, nei vv. 105-6, la
Virtù evoca anche la dea Fortuna e i suoi doni fugaci (nec bona censendum,
quae Fors infida dedisse/ atque eadem rapuisse valet) .
57 Pitagora.
58 Dea della giustizia, identificata con Dike.
59 Gregorio Luigi Barnaba Chiaramonti, nato a Cesena il 14 agosto
1742, fu eletto pontefice il 14 marzo 1 800 col nome di Pio VII. Insie
me con il suo celebre segretario di stato, il cardinale Consalvi, risollevò
le sorti della Chiesa cattolica rimasta prostrata dall'influsso della rivolu
zione francese. Il quadro politico mutò tuttavia ben presto a causa del
le mire espansionistiche di Napoleone, che fu incoronato imperatore a
Parigi proprio da Pio VII nel 2 dicembre 1 804. Ciò - com'è noto - non
valse però a ridurlo a più miti pretese: il 17 maggio 1 809 Napoleone
avrebbe decretato la fine del potere temporale dei papi e nella notte tra
il 5 ed il 6 luglio avrebbe fatto anche arrestare Pio VII. Il papa poté
rientrare trionfalmente a Roma soltanto il 24 maggio 1 8 1 4 (morirà il 20
agosto 1 823). La dedica dell'edizione del De re pub/ica di Angelo Mai è
del 1822.
60
Il Mai ( 1 782-1854), gesuita, già scrittore della Biblioteca Ambrosiana
(dal 1 8 1 0), fu nominato prefetto della Biblioteca Vaticana nel l 8 1 9 (di
venterà cardinale nel 1838). Egli scoprl nuovi fondamentali testi dell'an
tichità: frammenti di orazioni ciceroniane, testi giuridici pregiustinianei,
90
le lettere di Frontone, citate nella dedica qui di seguito, nonché il De re
publica di Cicerone ritrovato in un palinsesto della Biblioteca Vaticana
che egli finl col danneggiare avendo abusato, per ricostruire la scrittura
inferiore del codice, di un potente reagente chimico quale l'acido gallico
(a quel tempo - com'è noto - non era infatti ancora stata inventata la lam
pada di Wood). Celebri quanto burrascosi furono i suoi rapporti con un
altro grande scopritore di manoscritti della sua stessa epoca, Barthold
Georg Niebuhr, della cui preziosa collaborazione il Mai peraltro si avval
se proprio per l'edizione del De re publica. Egli fu inoltre il curatore delle
seguenti importanti sillogi editoriali: Scriptorum veterum nova collectio (lO
voli., 1825-38); Classicorum auctorum e Vaticanis codicibus editorum series
( 1 0 voli. , 1828-38); Spicilegium Romanum (10 voli . , 1839-44); Nova Pa
trum Bibliotheca (7 voli., 1852-54).
61 Qui il Mai allude all'edizione accresciuta delle lettere di Frontone e di
Marco Aurelio che sarebbe stata da lui pubblicata l'anno dopo, nel 1823
(C. Frontonis et M. Aure/ii imper. Epistulae; L. Veri et Antonini Pii et Ap
piani epistularum reliquiae; fragmenta Frontonis etscripta grammatica. Editio
prima romana plus centum epistulis aucta ex codice rescripto bibliothecae
pontificiae vaticanae, curante Angelo Maio, Romae, 1823). L' opera di
Marco Cornelio Frontone, insieme con l'epistolario di Marco Aurelio, era
stata pubblicata dal Mai per la prima volta nel 1 8 1 5 (Opera inedita, cum
epistulis item ineditis Antonini Pii, M. Aure/ii, L. Veri et Appiani, necnon
aliorum veterum fragmentis. lnvenit et commentario praevio, notisque illu
stravit Angelus Maius, Mediolani, typis regiis, 1 8 15).
62
Il Mai allude ad una importante lettera di Gerberto di Aurillac (papa col
nome di Silvestro II dal 999 al 1003), risalente al 986 d.C., nella quale
Gerberto chiede a Costantino di Fleury, in viaggio verso Reims, dove
Gerberto allora si trovava, di portare con sé alcuni opuscoli ciceroniani
tra i quali egli menziona proprio il De re publica: comitentur - scrive infat
ti Gerberto nella conclusione della lettera - iter tuum Tulliana opuscula ve!
de re publica ve/ in Verrem ve/ quae pro defensione multorum plurima Roma
nae eloquentiae parens conscripsit (p. 1 14, nr. 86, rr. 16-18 Weigle) .
63 Il Petrarca cercò invano più volte di recuperare il testo del De re publi
ca fino a rinunciare all'impresa (vd. G. Voigt, Die Wiederbelebung des
classischen Alterthums oder das erste ]ahrhundert des Humanismus, Berlino,
W. De Gruyter, 19604 [ 1859'], vol. l, p. 38).
64
=
nia Platonis opera graece. Venetiis, in aedibus Aldi et And. Soceri, mense
91
septembri, MDXIII) durante il pontificato di Leone X (Giovanni de' Me
dici), secondogenito di Lorenzo il Magnifico, il quale fu papa dall' 1 1 mar
zo del 1 5 1 3 , anno in cui provvide anche a riformare l'università romana,
fino al 1521.
66 È la celebre traduzione latina della Politica di Aristotele di Leonardo
Bruni, databile al 1438. Essa fu data alle stampe a Firenze nel 1478 (ve
di Aristote, Politique, livres I et Il, texte établi et traduit par Jean Aubon
net, Paris, Les Belles Lettres, 1960, p. CLXVI).
67 Cfr. Cic. De re p. 2, 1 1 , 22 . . . et disputes non vaganti oratione sed defixa
in una re publica.
92