Sei sulla pagina 1di 89

Marco Tullio Cicerone

TI Sogno di Scipione

Sellerio editore Palermo


Marco Tullio Cicerone

Il Sogno di Scipione

a cura di
Giuseppe Solaro

con una nota


di Luciano Canfora

testo latino a fronte

e con testi di Zanobi da Strada,


Metastasio ed Angelo Mai

Sellerio editore
Palermo
2008 © Sellerio editore via Siracusa 50 Palermo
e-mail: info@sellerio.it
www. sellerio. it

Cicero, Marcus Tullius

Il Sogno di Scipione l Marco Tullio Cicerone ; a cura di Giu­


seppe Solaro ; con una nota di Luciano Canfora ; testo latino a
fronte ; e con testi di Zanobi da Strada, Metastasio ed Angelo
Mai. - Palermo : Sellerio, 2008.
(La città antica l collana diretta da Luciano Canfora ; 31)
EAN 978-88-389-2280-0
!.Solaro, Giuseppe.
878.1 CDD-21 SBN Pal0211856

CIP- Biblioteca centrale della Regione siczliana <<Alberto Bombace>>

Titolo originale: Somnium Scipionis


Indice

Gli Scipioni maestri di impero di Luciano Canfora 9

Il Sogno di Scipione

Introduzione di Giuseppe Solaro 25

Somnium Scipionis M. Tuili Ciceronis excerptum


ex libro VI De re publica 30

I l Sogno di Scipione di Marco Tullio Cicerone tratto


dal sesto libro della Repubblica 31

Zanobi da Strada
Volgarizzamento del Sogno di Scipione 53

Pietro Metastasio
Il Sogno di Scipione 65

Angelus Maius
Sanctissimo Domino Nostro Pio VII Pontifici
Maximo 78

Angelo Mai
Al Santissimo Signore Nostro Pio VII Pontefice
Massimo 79

Note 83

7
Gli scipioni maestri di impero
di
Luciano Canfora

l. Prodromi ateniesi

Ha osservato ]érome Carcopino che !'«imperialismo», inte­


so come «maniera di agire e di pensare di un popolo che
pretende di subordinare a sé gli altri popoli» è «una creazio­
ne di Roma antica». 1 Egli osserva anche che «un primo ab­
bozzo» (une première ébauche) della pratica imperialistica
«aveva aleggiato (flotté) » nello spirito degli Ateniesi nel
momento in cui trasferirono ad Atene, sull'acropoli, il teso­
ro della Lega, cioè dell'impero àpxrf),
( ma che tale aspira­
zione fu definitivamente sconfitta con il fallimento della
guerra ateniese contro Siracusa, guerra che - come sappiamo
da Tucidide - aveva come obiettivo l 'assoggettamento del­
l'intera Sicilia. Del disegno imperiale di Atene proprio Tu­
cidide, cioè un contemporaneo che fu al tempo stesso stori­
co e protagonista di quei fatti, ci ha conservato una formu­
lazione molto autorevole: una formulazione che egli pre­
senta come risalente allo stesso Pericle, cioè al principale
assertore di quell 'impero.
Tucidide, nella sua Storia, dà varie volte la parola a Pericle
e gli fa esprimere pensieri della cui genuinità i moderni han­
no talvolta dubitato. Ma in questo caso si tratta di una breve
parafrasi di pensieri abitualmente ribaditi da Pericle, non di
un discorso più o meno artisticamente riscritto. Dunque l 'au-

1 Point de vue sur l'impérialisme romain, Paris 1934, p. 9.

9
tenticità periclea di queste affermazioni difficilmente può es­
sere revocata in dubbio.
Qual era dunque la «regola», la disciplina imperiale secondo
Pericle? «Egli sosteneva - così si esprime Tucidide - che gli
Ateniesi sarebbero riusciti a non soccombere nel conflitto [si
tratta della guerra contro Sparta e gli alleati] se fossero rima­
sti fermi dandosi, bens� pensiero della flotta ma astenendosi
assolutamente dal cercare di ampliare l 'impero nel corso del­
la guerra» (II, 65, 7). «Quelli invece [cioè gli Ateniesi, ma si
può intendere anche i successori di Pericle] fecero l 'esatto
contrario», commenta Tucidide. Orbe.,ne la visione periclea è
chiarissima e appare molto riduttiva. E la concezione difensi­
va, di mantenimento di un impero per il quale è già un suc­
cesso il sopravvivere. Linea "di mantenimento" che è di per sé
sintomo e preannunzio o vigilia di declino. Come infatti ac­
cadde all'impero di Atene. Ottenuto, dopo dieci anni di guer­
ra (431 -42 1 a. C.), il riconoscimento dello status quo con la
«pace di Nicia», con la quale finalmente Sparta riconosceva,
in un trattato internazionale, l 'esistenza dell'impero ateniese
"abusivamente" formatosi sul finire della guerra persiana,
Atene si imbarcò nella campagna contro Siracusa e dopo
quella terribile sconfitta trascorse, prima di arrendersi senza
condizioni, alcuni anni a cercare di impedire la ormai inarre­
stabile defezione dei suoi sempre meno numerosi "alleati".
Ma non sempre Pericle l 'aveva pensata in quel modo. Anni
prima del 431, quando, consapevolmente, aveva deciso di
giocare la carta della guerra, aveva lanciato una grande arma­
ta navale all 'attacco dell 'Egitto - al fine di sottrar/o al con­
trollo persiano - ed era stato il disastro. Anche lui sapeva, al­
lora, che un impero ridotto sulla difensiva prima o poi crolla.
Ma incalzato, nel 431 , dagli ultimatum spartani non aveva
altre alternative.
Prima di separarci dal "caso" ateniese ascoltiamo ancora
Pericle, questa volta nel celebre "epitafio". Qui troviamo
per la prima volta formulato un concetto cui Polibio, due
secoli e mezzo più tardi, darà forma sistematica riflettendo

lO
sulla forza e durevolezza dell 'impero romano: e cioè il nes­
so tra costituzione e impero. Pericle apre l'epitafio - il suo
discorso più noto e più frainteso - annunciando che non
tratterà, in quella solenne e ricorrente occasione pubblica,
l'origine e le vicissitudini dell'impero, ma risponderà al
quesito: grazie a quale condotta (émrrf&:vcnç) fu conse­
guito l'impero e grazie a quale ordinamento politico-costi­
tuzionale della loro città (Ile(}' oi'aç 1WÀneiaç) gli Ate­
niesi lo avevano reso «grande».
Per l 'esattezza, non chiama in causa soltanto la costituzione,
ma sia la costituzione (noÀueia) che lo stile di vita (rp6-
nol). Insomma, dice, in forma ammirativa, la stessa cosa che
angustia l'animo esasperato dell'oligarca al quale dobbiamo
la «Costituzione degli Ateniesi» tramandata tra gli scritti di
Seno/onte ma non certo sua: che cioè la democrazia, l 'odia­
ta democrazia, è indissolubilmente connessa all'impero.
Giacché la democrazia - osseroa l' oligarca - ha la sua base
nei marinai nullatenenti («canaglia», secondo la sua elegan­
te e pacata definizione) e l 'impero si fonda sulle navi, sulla
flotta. Dunque impero e sistema politico vanno insieme. Un
impero definibile come <<di rapina» a danno degli alleati­
sudditi (è questa la diagnosi dell'oligarca, ma non di lui sol­
tanto) per abbattere il quale c 'è solo da sperare nel tradimen­
to, nell'intesa col nemico in caso di sconfitta militare. Come
infatti accadde poi. Quella dell 'esacerbato oligarca è quasi
una profezia politica.
Tucidide, che forse conosceva questo scritto, approda, per
parte sua ad una conclusione simile quando osseroa che nem­
meno la sconfitta in Sicilia sarebbe bastata a far crollare l 'im­
pero e che invece esso cadde per le feroci rivalità politiche tra
le fazioni all'interno della città.
Anche qui ci si dovrà richiamare a Polibio, alla sua diagnosi
sul nesso impero-costituzione nel caso di Roma. Giacché per
Polibio - è questa la sua ferma convinzione - l 'ordinamento
politico romano, proprio in quanto immune dai difetti e dai
mali della democrazia, proprio in quanto regime "misto" in-

11
centrato sulla forza e sulla autorità del Senato, e non un regi­
me democratico (fragile e rovinoso), fu la vera ragione del
successo imperiale: fu la vera causa del quasi miracolo cui as­
sistette la generazione precedente alla sua: e cioè il mancato
collasso di Roma pur dopo Canne.

2. La conquista dell'Italia

Se abbiamo parlato di «impero» per quel tempo della storia


di Roma che ha nella guerra annibalica il momento culmi­
nante, ciò dipende dal fatto che la conquista, dura e violen­
temente perseguita, dell 'Italia è stata una prima fase del
cammino imperiale. E dipende inoltre dalla circostanza,
gravida di conseguenze, del formarsi, nelle élite dirigenti, di
un progetto imperiale - poi non più dismesso - per l 'ap­
punto in concomitanza e come effetto della vittoriosa lotta
contro Annibale.
«Per me -scrive ancora Carcopino - l'imperialismo dei Ro­
mani è nato nella coscienza dei loro capi quando essa, nei
duri anni della lotta contro Annibale, si mobilitò all 'idea di
un predominio irresistibile» (p. 1 0). Questa svolta, che così
efficacemente Carcopino coglie e colloca in primo luogo nel­
la testa del clan scipionico, è indiscutibile. Ma già la progres­
siva e ostinata conquista dell 'Italia obbedisce alla stessa logi­
ca, alla stessa pulsione, alla stessa idea di sé e del proprio ruo­
lo. E non ha esitato né arretrato nemmeno di fronte alle de­
cisioni estreme.
Al principio del De Cive Thomas Hobbes colloca in enorme
evidenza un eroe italico antiromano, Ponzio Telesino. Dopo
aver ricordato che Catone il Censore (secondo Plutarco) defi­
niva «belve feroci» tutti i re, chiunque essi fossero, commen­
ta: «Una ben maggiore belva era lo stesso popolo romano che
aveva depredato tutto il mondo per mezzo dei suoi generali
denominati Africani, Asiatici, Macedonici, Acaici e di tutti
gli altri che avevano ricevuto un soprannome dalle genti che

12
avevano spogliato!». Ed è a questo punto che ricorda il duro
atto d'accusa di Ponzio Telesino, alla vigilia della battaglia di
Porta Collina, combattuta senza successo contro Silla, quan­
do Ponzio, passando in rassegna le sue truppe, «gridava che
doveva essere diroccata e distrutta Roma stessa,>, e «che non
sarebbero mai scomparsi i lupi che privavano gli Italici della
loro libertà, se non fosse stata abbattuta la selva in cui trova­
vano rifugio,>.
Gli Italici erano stati schiacciati da Roma con una guetTa di
conquista durata secoli, cui solo la meteorica apparizione di
Annibale sul suolo italiano, verso la fine III secolo a. C. , ave­
va imposto un temporaneo atTesto.
Nel maggio dell925 il maggiore studioso allora vivente di
antichità classica, Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, fu
a Firenze nel quadro della "settimana tedesca": un segno di
riconciliazione culturale dopo la tremenda guetTa che aveva
contrapposto Italia e Germania fino a pochissimi anni pri­
ma. E pronunciò un discorso, intitolato Storia ltalica, che
nulla concedeva alla retorica del nostro nazionalismo, in
quel tempo particolarmente vigoroso. Pur conoscendo le fi­
sime del suo uditorio, Wilamowitz disse serenamente: «La
storia d 'Italia ha un contenuto più ricco [si intende: ben
oltre la vicenda della città dominatrice]. Un tempo tutte le
sue stirpi italiche ebbero la loro propria vita e una civiltà
propria che Roma ha distrutto, compresa la grecità della Si­
cilia». Paragonava la distruzione di Capua (211 a. C. ) alla
sorte tremenda toccata poi a Cartagine e a Corinto. E sog­
giungeva che l'ultimo sussulto, l'ultima lotta per la loro vi­
ta etnica, gli Italici l 'avevano tentata con la guetTa sociale,
di cui la vittoria feroce di Silla era stata in certo senso l'ul­
timo atto.
Quindici anni più tardi, nel1940, Simone Weil - allora gio­
vanissima - pubblicava un saggio memorabile, La politica
estera di Roma e la politica di Hitler, in cui, al di là del pa­
rallelo che istituisce sin dal titolo, fa una considerazione per
molti versi simile a quella del grande filologo tedesco, ma ri-

13
ferita al mondo gallico. Segnala infatti, e con molta efficacia,
che la cosiddetta romanizzazione della Gallia fu in realtà -
oltre che un genocidio in termini di vite umane - l 'estirpazio­
ne di una civiltà: di una civiltà che non parla più a noi per la
semplice ragione che è stata cancellata.
Nel considerare l 'unificazione romana del mondo mediterra­
neo e celtico-danubiano, gli storici sono di fronte ad un bi­
vio: o compiacersi di quel sanguinoso processo storico guar­
dando agli effetti (tale fu già l'atteggiamento di una parte del­
le élite greche le quali conseguirono un ruolo di "condominio
diseguale" del mondo romanizzato) oppure porre in luce i co­
sti non solo umani ma di civiltà che quel processo di unifica­
zione ha determinato.

3. Polibio «cantore» dell'impero di Roma e «inven­


tore» della «Storia universale»

La comparazione tra gli imperi precedenti e l 'impero ro?tlano


è il punto di partenza della trattazione polibiana (I. 2). E no­
tevole il catalogo che Polibio stabilisce: Persiani, Spartani,
Macedoni. Mancano gli Ateniesi: ciò è molto significativo. E
conferma che l 'esperienza imperiale ateniese fu percepita co­
me una «forza__tura » nell'ambito di una storia greca domina­
ta da Sparta. E Sparta la grande potenza ben prima della na­
scita della symmachia ateniese e dura ben dopo. 2 La symma­
chia ateniese è dunque avvertita come una ''parentesi", con­
nessa all'esplosione delle "democrazie", che entra in crisi già
con la guerra di Samo e si chiude definitivamente con l'incor­
porazione di Atene nell 'alleanza spartana in forza del tratta­
to del 404. Nella tradizione ateniese, invece, si periodizza la
storia greca a partire dall 'impero ateniese. Si pensi al celebre
brano della Terza Filippica demostenica (§ 23) in cui addi-

2 Nel 480 gli Ateniesi, in polemica con il "tiranno" di Siracusa, dichiara·


rono di essere pronti ad accettare soltanto la leadership spartana.

14
rittura l 'impero ateniese è il primo dell 'elenco e dura 73 an­
ni, quello spartano 29 [404-376!] e i Tebani «contarono
qualcosa da ultimo»! Analoga riflessione si intravede nel Pa­
negirico di Isocrate.
Polibio ha un orizzonte e una prospettiva più ampi: dai Per­
siani ai Romani, passando per i Macedoni. In questa prospet­
tiva "mondiale", per quel che riguarda la Grecia della città
c'è posto solo per gli Spartani, dei quali vien detto, che «do­
po aver a lungo lottato per l'egemonia sui Greci» l 'hanno
mantenuta soltanto per1 2 anni. Dei Persiani viene detto che
non riuscirono mai a fuoriuscire dai confini dell 'Asia e
quando tentarono ciò rischiarono il crollo. Riduttiva è an­
che la valutazione dell 'impero macedone: «dominarono
l 'Europa soltanto dall 'Adriatico all 'Istro e dominarono l 'A­
sia. Mai si spinsero a Occidente». Qui si colgono elementi di
una riflessione che doveva essere già affrontata nel circolo
scipionico, e che ritroviamo più tardi, in epoca augustea, nel
celebre excursus del IX libro liviano, dove Livio sostiene
che se Alessandro si fosse spinto a Occidente, sarebbe stato
sconfitto dai Romani! Tutti costoro - prosegue Polibio -
«lasciarono ad altri il predominio di gran parte della terra
abitata», e cioè - specifica - «Sicilia, Sardegna, Africa set­
tentrionale, nonché le bellicose popolazioni dell 'Europa
occidentale [i. e. Spagna e Gallia etc.]». Invece i Romani
«assoggettarono quasi tutta la terra abitata» e istituirono
una supremazia «irresistibile per i contemporanei, insupera­
bile per i posteri».
Nella conquista romana, Polibio sembra ravvisare una spe­
cie di logica immanente del divenire storico. Scrive infatti:

Anteriormente a questi avvenimenti [guerra punica, guerra di Ce/e­


siria etc.]le vicende delle varie parti del mondo erano isolate le une
dalle altre perché i fatti erano tra loro indipendenti quanto ai PIA­
NI [ progetti, orizzonte dei protagonisti], quanto alle conseguen­
=

ze e quanto ai teatri delle operazioni. Dopo questi avvenimenti in­


vece la storia viene a costituire quasi un corpo unitario: le vicen-

15
de dell'Italia e dell'Africa settentrionale si intrecciano a quelle del­
l'Asia e della Grecia e i fatti sembrano coordinarsi a un unico fi­
ne (!.3).

La spinta imperiale romana unifica, stringe in unità, la sto­


ria universale e determina il costituirsi (sia nella realtà, sia
di conseguenza sul piano del racconto) di una storia univer­
sale ORGANICA (CJ'WJ..laroezorjç). La ragione di ciò Poli­
bio la coglie nella volontà di potenza dei gruppi dirigenti ro­
mani [!.4]: «I Romani - scrive - osarono allora per la pri­
ma volta mirare apertamente al dominio anche sugli altri
territori e passare in Grecia e in Asia». [I.5]: «La sorte
[TVX1J] rivolse in un'unica direzione le vicende di quasi
tutta la terra abitata e tutte le costrinse a piegare ad un
solo fine».
Se la soluzione «annalistica» tucididea risultava inadatta al
racconto di una guerra - sia pure di una complessa e lunghis­
sima guerra che rischiava ad un certo punto di straripare e far­
si storia generale -, a maggior ragione quel sistema narrativo
andava scartato dinanzi alla vastità di una storia aspirante
programmaticamente ad un ambito universale. Di qui la scel­
ta di Eforo (unità apparente e meramente "paratattica" dila­
tabile indefinitamente); di qui l'opposta scelta polibiana di
u._na compatta universalità "organica".
E, per Polibio, storia universale organica quella che trova la
sua unità nell'intreccio non occasiona/e delle vicende. Esem­
pio ideale per l'appunto l 'espansione della repubblica romana
a partire dalla vittoria su Annibale. A partire da quel mo­
mento lo spirito di conquista romano e la sua progressiva rea­
lizzazione unificano (in rebus gestis) il mondo mediterraneo
e rendono intimamente unitaria la corrispettiva historia re­
rum gestarum. Un si/fatto impianto - questo sì davvero
"universale" - supera l'aporia insita in una storia continua
che, come quella di Eforo, rischia continuamente di frantu­
marsi in monografie. E al tempo stesso dà un senso alla suc­
cessione narrativa giacché il «prima» e il «poi» non si presen-

16
tana più nella casuale e falsa successione dovuta alla mera
trascrizione degli eventi.
C 'è perciò nel proemio polibiano, là dove si discorre del ca­
rattere «organico» del racconto che l 'autore promette, un
continuo trapasso dal piano degli eventi a quello della loro
narrazione. Infatti nel cinquantennio dell'espansione roma­
na, e solo allora, è accaduto che gli eventi, «prima dispersi
(cmopaoaç)», si intrecciassero: «a partire da quel momento
la storia (iaropia: parola che qui indica sia gli avvenimenti
che il loro racconto) ha formato un tutto organico, si sono in­
trecciate le vicende dell'Italia con quelle africane, quelle del­
l 'Asia con quelle della Grecia, e l 'insieme ha quel solo e me­
desimo sbocco» (l, 3, 3-4). Sembra dunque di capire che
l '<<arganicismo » sia in rebus ipsis: non di tutte le età può
darsi storia universale. Lo si può nel caso dell 'espansionismo
romano:

L'originalità della nostra opera e il prodigio della nostra epoca -


scrive Polibio - consiste in questo: come la Tyche ha spinto gli
eventi di tutto il mondo abitato tutti da una parte e li ha costretti a
tendere verso il medesimo fine, così è necessario attraverso l'opera
storiogra/ica raccogliere, per i lettori, in unità di visuale il piano che
la Tyche ha applicato per conseguire una tale coerente "cospirazio­
ne" universale degli eventi (I, 4, 7).

Polibio ripercorre la strada tucididea. Replica la "scoperta"


tucididea del convergere - come Tucidide si esprime - di
«quasi tutti gli uomini» (l, l, 2 ) nell 'ingranaggio di un unico
evento «grandissimo». Per Tucidide tale evento è la guerra
peloponnesiaca - il cui racconto si è trasformato in itinere
nel racconto di un 'intera epoca; per Polibio tale evento è l'e­
spansione romana tra la seconda punica e Pidna (168 a. C.).
Dunque Polibio non "inventa" la ricetta per risolvere le apo­
rie in cui si dibatte chi tenti la strada della storia universale,
sì piuttosto constata che in certi momenti della storia politi­
co-militare delle nazioni si determina un annodamento
(GVJ11CÀÉK:ea()az) degli eventi, una unità coinvolgente un co-

17
sì gran numero di protagonisti da conferire al racconto una
portata appunto «universale» e al tempo stesso internamente
coesa.

4. Maestri di impero

Ilfatto nuovo era l 'aspirazione, dei gruppi dirigenti romani, ad


un dominio su tutti i «popoli organizzati», 3 posti nel raggio
d'azione, sempre più vasto, della potenza militare romana.
«L'Empire romain se veut unique, c 'est-à-dire le seui à etre.
Sa volonté de conquete est une variété archaique de l 'iso!a­
tionnisme. Il considère camme inexistantes ou indignes !es na­
tions situées hors de sa mouvance». 4
Come dominio esercitato su realtà statali «organizzate» - dal
progredito mondo ellenistico all'arcaico mondo celtico -,
l 'impero romano fu l'unico esperimento di dominazione
«universale».
Aver sconfitto Cartagine (Zama, 2 02 a. C. ) fu la spinta deci­
siva. Il progetto di dominio illimitato si formò nella testa dei
generali che maggiormente avevano avuto il merito di tale
vittoria. Scipione - il quale fu tra gli assertori della «guerra
vittoriosa infinita» - aveva meditato lungamente sulla storia
di Alessandro Magno. Naturalmente per ogni guerra di con­
quista fu coniata una causa «giusta». «Sotto il pretesto di di­
fendere la propria sicurezza - scrive ancora Carcopino - i Ro­
mani non hanno smesso di affermare, con le armi in pugno, il
primato che in nome delle loro armi si arrogavano». Il loro
stile è poi diventato un modello.
Venti giorni prima della capitolazione della Germania, il
19 ottobre 1918, Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff

3 Peuples organisés è espressione coniata da Carcopino per indicare il tipo


di bersaglio contro cui si rivolse la conquista romana.
4 Maurice Duverger, introduzione a Le conceptd'empire, PUF, Paris 1980,
p. 17.

18
pubblicò nell'edizione berlinese del quotidiano «Der Tag»
un breve e molto efficace articolo intitolato Untergang
Karthagos. Nella situazione drammatica di quei giorni
convulsi, la breve rievocazione della distruzione di Cartagi­
ne, fortemente voluta dal Senato romano, parla in realtà del
presente, della prevedibile catastrofe tedesca, della resa in­
condizionata che gli occidentali pretendono dai Tedeschi
dopo aver inventato una "colpa tedesca". La rievocazione,
in tratti essenziali, dell'imperialismo rapace praticato dai
Romani non potrebbe essere più efficace: «I politici romani
avevano deciso la distruzione di Cartagine. I commercianti
e i capitalisti d 'Italia volevano liberarsi da scomodi concor­
renti. Nessun sentimentalismo appesantiva il vecchio Cato­
ne: lui vendeva gli schiavi, quando erano inabili a/ lavoro,
come vecchi cavalli. Ma almeno era onesto: diceva chiara­
mente quello che anche gli altri volevano, ma dissimulava­
no sotto frasi ipocrite. A cose /atte non sono neanche man­
cati i difensori della politica romana, che l'hanno giustifica­
ta come altamente morale e l'unica veramente lungimirante
dal punto di vista politico. Scatenare la guerra era facile:
bastò affidare questo compito ai vicini di Cartagine. Seppe­
ro anche alienarle soldati e sudditi. Utica, la maggiore città
punica, legata a Cartagine da secolare comunità politica e di
sangue, passò dalla parte di Roma [. . . ]». E parla anche del
crollo interno della Germania: «Ora, quando era ormai
troppo tardi, il coraggio della disperazione esplose in fulgi­
de fiamme. Adesso il popolo era unito. Si chiami pure folle
la resistenza che non poteva più contare sul successo; ma es­
sa fu tuttavia grandiosa, e l 'esercito romano ebbe un duro
lavoro. Il console romano [Scipione Africano minore] rab­
brividì dinanzi agli orrori cui dovette assistere. Come carne­
fice era troppo buono, ma il suo compito di carnefice lo as­
solse senza tenerezze».
Un dettaglio va aggiunto a questa descrizione: che la decisione,
presa a freddo, di annientare Cartagine quantunque vinta e da
tempo non più pericolosa, era stata presa esattamente nel mo-

19
mento stesso in cui i Cartaginesi saldavano l'ultima pesantissi­
ma rata delle cinquanta annualità di tributi cui li aveva sotto­
messi il trattato di pace (cioè di capitolazione) del 2 01 a.C.
«Il bottino e i tributi - scrive Carcopino - vennero prelevati
dapprincipio al solo fine di rimarcare la soggezione dei vinti e
perpetuar/a, ma finirono ben presto per piacere in quanto ta­
li: arricchirono i capi e, al tempo stesso, innalzarono il livel­
lo di vita del popolo». Così, ad esempio, a partire dal16 7 il
popolo poté non più pagare un'imposta che i tributi inflitti si­
ne die alla Macedonia rendevano inutile.
Oro e schiavi erano la posta in gioco nelle guerre del mondo
antico. Nel caso delle guerre di conquista romane si trattava
di tonnellate d 'oro e di eserciti di schiavi. E quando il botti­
no già fatto - nonostante il sistema di scientifico sfruttamen­
to delle province - cominciava ad esaurirsi, si profilavano
nuovi obiettivi di conquista: la decisione di Traiano di attac­
care il regno di Decebalo, cioè la Dacia, e di annetterla, nasce
da tale spinta. L'impero che non punta ad espandersi deperi­
sce: ciò è inerente al modo di produzione antico che impone
che la guerra si risolva nella spoliazione del vinto. Ecco per­
ché la strategia imperiale difensiva di Pericle, di cui si è detto
in principio, era perdente. Ecco perché nella «Rede aus der
Kriegszeit» Das Weltreich des Augustus Wilamowitz indi­
ca nella «pax Augusta» l'inizio della decadenza dell'impero.
Eppure per secoli, la reazione a questo sistema - spoliazione
del vinto nel momento della conquista e oppressione spietata
dopo la sua trasformazione in provincia - non fu quella che
ci si poteva aspettare. Per lo meno, le voci a noi giunte di cri­
tica all'imperialismo di rapina sono poche. La lettera di Mitri­
date ad Arsace che Sallustio inserì nelle Historiae rielaboran­
dola sulla base forse di un documento autentico, e il discorso
del capo britannico Calgaco («ubi solitudinem faciunt pacem
appellant»), reso eterno dalla scelta di Tacito di darne conto
con rilievo nell'Agricola (cap. 30) non sono che eccezioni.
I Romani seppero anche, dopo aver tratto dai vinti tutti i
vantaggi possibili, dividerli e creare una élite provinciale filo-

20
romana da r;ooptare, in alcuni casi, persino con l'immissione
in Senato. E sempre Tacito che coglie l'importanza e l 'effica­
cia di questa arte di governare l'impero, quando dà alle pa­
role di Claudio in favore dell'immissione in Senato dei «pri­
miores Galliae »5 il valore di risposta a distanza alle parole di
Calgaco.
Il segreto della durevolezza dell'impero - spiega Claudio - è
nell 'aver saputo cooptare. Se Atene e Sparta decaddero, ciò
deriva dall'uso geloso e miope che esse fecero della cittadi­
nanza. Romolo - prosegue Claudio - sin dalle origini aprì la
città appena sorta ad una «feccia» di stranieri e li fece citta­
dini optimo iure. Per Claudio, e si può dire anche per Taci­
to, è nella gestione della cittadinanza, nella sua progressiva
estensione, il segreto dell 'impero. Quando Caracalla (212
d. C.) la estese a tutte le civitates dell 'impero, parve che ne
venisse nuova e durevole linfa. Se, com'è probabile,6l'esten­
sione della cittadinanza introdotta da Caracalla (« Constitutio
antoniniana») era limitata appunto alle popolazioni urbane,
fu il mondo rurale a provocare di lì a poco una crisi quasi
mortale per l'impero: quella sommersione delle civitates ad
opera delle masse di contadini-soldati che diede a Michail
Rostovcev la spinta ad immaginare una suggestiva analogia
tra la crisi del III secolo e la Russia dell 'ottobre 191 7. La cri­
si invece fu superata grazie al formarsi di una nuova autoç_ra­
zia non più temperata dal conflitto col ceto senatorio. E la
teocrazia dioclezianea e poi cristiano-costantiniana. Essa
rendeva tutti pari di fronte all'autocrate, il quale grazie al­
l 'intuizione geniale di Costantino seppe assicurarsi il formi­
dabile appoggio della nuova, popolarissima, religione di sal­
vezza della quale egli stesso si impose come leader. Incomin­
ciava allora un altro genere di impero, che facendo perno sul­
la "Seconda Roma" durò per un millennio.

' Della Gallia Cornata a suo tempo annientata da Cesare (Cfr. Annali, Xl,
24-25).
'' È la tesi efficacemente sostenuta da Santo Mazzarino.

21
Il Sogno di Scipione
Introduzione
di
Giuseppe Solaro

Il Sogno di Scipione e il mito di Er


Sogno di Scipione (Somnium Scipionis) è il titolo con il qua­
le ci è stata tramandata la conclusione del De re publica di
Cicerone. Essa contiene infatti la descrizione di un sogno
che Scipione Emiliano, protagonista del dialogo ciceronia­
no, avrebbe fatto mentre si trovava in Africa alla corte
del re Massinissa. Cosl come egli stesso alla fine del dialo­
go racconta, non appena approdato in territorio africano,
nel 14 9 a . C . , Scipione, allora un trentacinquenne tribuna
militare al comando di una delle legioni romane impegna­
te nella conquista di Cartagine, aveva voluto rendere su­
bito omaggio al re che aveva combattuto insieme a suo
nonno, Scipione Africano, durante la seconda guerra pu­
nica, conclusasi con la memorabile sconfitta di Annibale a
Zama nel 202 a . C .
Nel vederlo giungere presso d i sé, il vecchio r e dei Numi­
di - Scipione racconta - lo aveva accolto con notevole en­
tusiasmo e nel corso del loro incontro i due avevano par­
lato a lungo della situazione politica a Roma e nel regno di
Numidia. Massinissa aveva poi rievocato al suo illustre e
giovane ospite le imprese del suo grande e defunto avo,
che il re - racconta Scipione - ricordava in ogni minimo
particolare. Al termine della conversazione, Scipione era
rimasto ospite di Massinissa e nella notte a corte durante
il sonno aveva avuto una visione. Gli era infatti apparsa

25
una figura, che putacaso aveva proprio le sembianze del
suo defunto avo, Scipione Africano, il quale dall'aldilà si
manifestava al nipote per preannunciargli la sua futura
carriera, che - l' avo gli rivelava - avrebbe avuto inizio di
ll a breve con la distruzione della città di Cartagine.
Durante questa sua apparizione, l'Africano aveva mo­
strato inoltre a Scipione il luogo beato nel quale la sua
anima viveva e dove anche Scipione un giorno sarebbe
potuto approdare se avesse compiuto fino in fondo la
missione che la divinità gli aveva assegnato sulla Terra.
Nel contemplare la bellezza di questo luogo, avvolto in
una luce bianca meravigliosa e riservato in cielo ai soli
benefattori della patria, Scipione aveva desiderato rag­
giungere subito lassù i suoi parenti defunti, ma gli era ap­
parsa poi un'altra figura dai tratti a lui molto familiari,
quella del suo amatissimo padre, il console Lucio Emilio
Paolo, defunto anch'egli ormai da tempo, che nel sogno
anch'egli, cosl come il nonno, lo aveva spronato a com­
piere senza indugi la sua divina missione per la gloria di
Roma e dei suoi stessi avi. Soltanto cosl, infatti - nel so­
gno il padre gli aveva rivelato -, dopo la morte Scipione
avrebbe potuto ottenere l'ambita ricompensa celeste: al­
trimenti la sua anima sarebbe stata costretta a vagare
s, e nza meta per tutta l 'eternità.
E questo il sogno che dunque alla fine del De re publica
Scipione racconta di aver fatto mentre si trovava in Afri­
ca ospite del re Massinissa, alla vigilia dell'assedio di Car­
tagine, città che egli avrebbe conquistato con la carica or­
mai di console nel 14 6 a . C . Cessato il racconto del sogno,
si concludeva quindi anche il dialogo rappresentato da Ci­
cerone nel De re publica, che, com'è noto, era ambientato
non a caso proprio nell 'anno della morte del protagonista,
il 12 9 a.C. (Il sogno pertanto introduce nella conclusione
dell'opera una vera e propria retrospettiva, che fa risalire
il tempo della narrazione all'indietro fino agli esordi della
brillante carriera politica e militare di Scipione).

26
Già gli antichi commentatori di questo suggestivo testo si
interrogarono sulla funzione di siffatta conclusione nell'e­
conomia di un'opera che- com'è noto - nei primi cinque
libri tratta di un argomento apparentemente ben diverso,
cioè dello Stato ideale. Osservava Macrobio, autore di un
lungo commento in due libri al Sogno di Scipione, che Ci­
cerone dovette certamente ispirarsi al celebre mito di Er,
collocato non a caso anch'esso da Platone proprio alla fi­
ne della Repubblica e riguardante anch'esso, cosl come il
Sogno di Scipione, il tema dell'immortalità dell'anima. lvi
Platone - com'è noto- narra infatti dell'esperienza oltre­
mondana di un soldato della Panfilia, Er, il quale, dopo
essere morto in battaglia, il dodicesimo giorno resuscitato
avrebbe raccontato del suo lungo viaggio nell'aldilà. Cice­
rone - osservava già Macrobio - ispirandosi quindi al mo­
dello platonico avrebbe scelto di concludere il suo tratta­
to sullo Stato con un racconto analogo al mito di Er, che
mostrasse in modo tangibile ai responsabili della cosa pub­
blica i premi e i castighi che attendono le anime nell'aldilà
in conseguenza della loro condotta terrena. 1

Da Macrobio a Dante

Sogno di Scipione (Somnium Scipionis M. Tulli Ciceronis ex­


cerptum ex libro VI de re publica), come ricordavamo all'i­
nizio, è dunque il titolo con il quale la conclusione del De
re publica ci è stata tramandata. Non si tratta tuttavia cer­
tamente di un titolo d'autore. Nel Laelius (IV, 14) , dove
Cicerone fa riferimento al Sogno di Scipione, il testo non è
citato infatti con nessun titolo ma è indicato soltanto qua­
le «parte conclusiva » (extremum) dell 'opera, riguardante il
tema dell 'immortalità dell 'anima (de immortalitate animo­
rum). Il titolo tramandato, Sogno di Scipione, è dunque
conseguenza del fatto che il testo fu estrapolato dalla sua
sede originaria per essere diffuso come un opuscolo a sé

27
stante. Secondo un'ipotesi di Konrat Ziegler (Zu Text und
Textgeschichte der Rep. Ciceros, in « Hermes», a. LXVI
1931, alle pp . 2 78 sg . ), l'estrapolazione deve probabil­
mente risalire all'epoca in cui fu allestito il primo esempla­
re manoscritto che, come molti codici ancora oggi super­
stiti, conteveva il testo del Sogno di Scipione insieme con
il relativo commento di Macrobio, che è databile al 43 0
ca. d.C. (Non a caso anche il titolo attribuito dalla tradi­
zione all'estratto risulta essere attestato già in Macrobio).
Come sempre accade in casi analoghi, l'estrapolazione,
pur avendo giovato alla conoscenza ed alla diffusione del­
l'estratto, ancora oggi tramandato in numerosi esemplari
manoscritti, ha posto però in grave pericolo la sopravvi­
venza degli altri libri del De re publica, i quali - com'è no­
to - si conservano oggi, in modo frammentario, nel solo
codice Vaticano latino 5 75 7, celebre palinsesto scoperto
nel1819 da Angelo Mai.2 Proprio quale breve estratto del
De re publica il Sogno di Scipione finl quindi con il godere
di grande fortuna sin dalla tarda antichità, cosl come di­
mostra, oltre che il commento di Macrobio, anche la Di­
sputatio de Somnio Scipionis del retore cartaginese Favonio
Eulogio, discepolo di Agostino, conservata oggi in un so­
lo manoscritto (Bruxelles, Bibliothèque royale, ms. class.
lat. 1008 0, sec. Xl). Un caso che tra i molti vale qui la pe­
na di segnalare è però soprattutto quello del possibile in­
flusso del testo ciceroniano sulla Divina Commedia:3 il
confronto con alcuni celebri luoghi dell'opera dantesca
sembrerebbe infatti suggerire la presenza di precise remi­
niscenze della fonte latina.4

AVVERTENZA. Il testo latino del Sogno di Scipione che qui si adot­


ta è quello stabilito da K. Ziegler in M. Tuili Ciceronis De re pu­
blica librorum sex quae mansuerunt septimum recognovit K.
Ziegler, Lipsiae, in aedibus Teubneri, MCMLXIX, pp. 126-36.
La numerazione del testo principia con il paragrafo 9 poiché si

28
omette qui la parte iniziale dell'ultimo libro del De re publica,
che precede il Sogno di Scipione ed è oggi nota soltanto attraver­
so la tradizione indiretta. Alle pagine 51-61 si propone il testo
del volgarizzamento del Sogno di Scipione di Zanobi da Strada
secondo l'edizione critica curata da Simona Brambilla («Studi
Petrarcheschi» 13, 2000, pp. 47-65). Di seguito si propone inol­
tre il testo de Il sogno di Scipione del Metastasio, suggestiva rie­
laborazione cristiana della fonte latina, edito in Tutte le opere di
Pietro Metastasio, a cura di B. BRUNELLI, Milano, Arnoldo Mon­
dadori Editore, 1967, volume secondo, pp. 236-248. Infine, al­
le pp. 76-79, si propone il testo della dedica dell'editio princeps
del De re publica di Angelo Mai (M. Tuili Ciceronis De re publi­
ca quae supersunt edente Angelo Maio Vaticanae Bibliothecae
Praefecto, Rom ae, in Collegio Ur bano apud Burliaeum,
MDCCCXXII, pp. III-VI).

29
Somnium Scipionis
M. Tuili Ciceronis
excerptum ex libro VI De re publica
Il Sogno di Scipione
di Marco Tullio Cicerone
tratto dal sesto libro della «Repubblica»
[9] Cum in Africam venissero M . ' M anilio consuli ad
quartam legionem tribunus ut scitis militum, nihil mihi
fuit potius guam ut Masinissam convenirem, regem fa­
miliae nostrae iustis de causis amicissimum. Ad quem ut
veni, complexus me senex conlacrimavit aliquantoque
post suspexit ad caelum, et: 'grates' inquit ' tibi ago sum­
me Sol, vobisque reliqui caelites, quod ante quam ex hac
vita migro, conspicio in meo regno et his tectis P. Cor­
nelium Scipionem, cuius ego nomine recreor ipso: ita
numquam ex animo meo discedit illius optimi atque in­
victissimi viri memoria. ' Deinde ego illum de suo regno,
ille me de nostra re publica percontatus est, multisque
verbis ultro citroque habitis ille nobis est consumptus
dies.
[10] Post autem apparatu regio accepti, sermonem in
multam noctem produximu s, cum senex nihil nisi de
Africano loqueretur, omniaque eius non facta solum sed
etiam diet a meminisset. Deinde ut cubitum discessi­
mus, me et de via fessum, et qui ad multam noctem vi­
gilassero, artior quam solebat somnus complexus est.
Hic mihi - credo equidem ex hoc quod eramus locuti:
fit enim fere ut cogitationes sermonesque nostri pariant

32
[9] Dopo essere giunto in Africa in qualità - come sapete5 -
di tribuno militare al comando della quarta legione agli or­
dini del console Manio Manilio,6niente fu per me più im­
portante che recarmi da Massinissa, il re che per giuste ra­
gioni era molto amico della mia famiglia. 7 Non appena fui
da lui, il vecchio abbracciandomi si mise a piangere e do­
po un po' alzando gli occhi al cielo disse: <uingrazio te,
sommo Sole,8 e voi tutte, divinità del cielo, perché prima
di abbandonare questa vita vedo qui nel mio regno e pro­
prio nella mia casa Publio Cornelio Scipione, il cui nome,
al solo udirlo pronunciare, mi fa ringiovanire: nel mio
cuore, infatti, non viene mai meno il ricordo di quell 'uo­
mo straordinario e senza ombra di sconfitta ».9 lo gli feci
quindi alcune domande sul suo regno, lui ne fece a me sul­
la nostra repubblica e la giornata si consumò rapidamente
nel succedersi delle nostre reciproche domande e risposte.
[lO] Ricevuti poi con pompa regale, 10 proseguimmo la no­
stra conversazione fino a notte inoltrata, mentre il vec­
chio non faceva che parlare dell'Africano, di cui ricorda­
va non soltanto tutte le imprese che aveva compiuto ma
anche tutte le parole che aveva detto. Quando poi ci sepa­
rammo per andare a dormire, stanco com'ero per il viag­
gio 1 1 e per la lunga veglia notturna, caddi in un sonno più
profondo del solito. Fu allora che mi apparve l'Africano
(credo certamente perché avevamo parlato di lui: talvolta
accade infatti che i nostri pensieri e i nostri discorsi gene-

33
aliquid in somno tale, quale de Homero scribit Ennius,
de qua videlicet saepissime vigilans solebat cogitare et
loqui - Africanus se ostendit ea forma guae mihi ex
imagine eius guam ex ipso erat notior; quem ubi agna­
vi, equidem cohorrui; sed ille: ' ades' inquit ' animo et
omitte timorem Scipio, et guae dicam trade memoriae .
[11] Videsne illam urbem, guae parere populo Romano
coacta per me renovat pristina bella nec potest quiesce­
re ?' Ostendebat autem Karthaginem de excelso et pie­
no stellarum, illustri et clara quodam loco. 'Ad guam tu
oppugnandam nunc venis paene miles, hanc hoc biennio
consul evertes, eritque cognomen id tibi per te partum
quod habes adhuc hereditarium a nobi s . Cum autem
Karthaginem deleveri s , triumphum egeris censorque
fueris, et obieris legatus Aegyptum, S yriam, Asiam,
Graeciam, deligere i terum consul absens bellu mque
maximum conficies, Numantiam excindes. Sed cum eris
curru in Capitolium invectu s, offendes rem publicam
consiliis perturbatam nepotis mei. [12] Hic tu Africane
ostendas oportebit patriae lumen animi ingeniique tui
consiliique. Sed eius temporis ancipitem video quasi fa­
torum viam. Nam cum aetas tua septenos octiens solis
anfractus reditusque converterit, duoque hi numeri,
quorum uterque plenus alter altera de causa habetur,
circuitu naturali summam tibi fatalem confecerint, in te
unum atque in tuum nomen se tota convertet civitas, te
senatus, te omnes boni, te sodi, te Latini intuebuntur,
tu eris unus in qua nitatur civitatis salus, ac ne multa:
dictator rem publicam constituas oportebit, si impias
propinquorum manus effugeris . '

34
rino nel sonno qualcosa di simile a ciò che Ennio scrive a
proposito di Omero, a cui evidentemente durante il gior­
no era solito pensare e del quale era solito parlare molto
spesso)12 nell'aspetto che mi era familiare più dal suo ri­
tratto che per averlo conosciuto di persona . 13 Non appena
vidi che era lui, rimasi sgomento, ma lui mi disse: « Scipio­
ne, stai tranquillo, abbandona pure ogni timore e tieni be­
ne a mente quello che ti dirò » . 14 [11] « Vedi tu quella città
che, dopo essere stata costretta da me ad obbedire al po­
polo romano, rinnova antichi conflitti senza riuscire a tro­
vare pace ? » (mi mostrava intanto Cartagine da un luogo
molto elevato e pieno di stelle, chiaro e splendente). <<Tu
che giungi ora qui quasi come un semplice soldato per cin­
gerla d'assedio, 15 nei prossimi due anni la raderai al suolo
essendo diventato ormai console e meritandoti così il so­
prannome che ora hai soltanto in eredità da me. 16 Poi, do­
po che avrai distrutto Cartagine e che avrai celebrato il
trionfo e sarai stato nominato censore e sarai andato come
ambasciatore in Egitto, Siria, Asia, Grecia, sarai eletto
console una seconda volta mentre sarai lontano da Roma
e concluderai una guerra importantissima radendo al suo­
lo Numanzia . 17 Quando però ti condurranno in Campido­
glio sul carro trionfale, troverai lo S tato sconvolto dalle
oscure trame di un mio nipote. 18 [12 ] Tu, allora, Africano,
dovrai mostrare alla patria la luce del tuo cuore, della tua
intelligenza e della tua saggezza. Vedo però che in quel
tempo la via che chiamiamo del destino si biforcherà.
Quando infatti il corso della tua vita avrà completato 8
volte 7 rivoluzioni del Sole, 19 e questi due numeri, i quali
entrambi - ciascuno per una diversa ragione - sono consi­
derati perfetti/0 con naturale sequenza21 avranno ottenu­
to la somma di anni che ti è stata assegnata in sorte, a te
solo e al tuo nome si rivolgerà tutta la città, a te guarde­
ranno il senato, tutta l'aristocrazia, gli alleati italici e lati­
ni, tu sarai il solo al quale affidare la salvezza dello Stato
e, non aggiungo altro, quale dittatore sarà tuo compito

35
Hic cum exclamavisset Laelius ingemuissentque vehe­
mentius ceteri, leniter arridens Scipio: ' s t ! Quaeso' in­
quit ' ne me e somno excitetis, et parumper audite ce­
tera . '
[13] ' Sed quo sis Africane alacrior ad tutandam rem publi­
cam, sic habeto: omnibus qui patriam conservaverint,
adiuverint, auxerint, certum esse in caelo definitum lo­
cum, ubi beati aevo sempiterno fruantur; nihil est enim il­
li principi deo, qui omnem mundum regit, quod quidem
in terris fiat acceptius, quam concilia coetusque hominum
iure sociati, quae civitates appellantur; harum rectores et
conservatores hinc profecti huc revertuntur. '
[14] Hic ego etsi eram perterritus non tam martis metu
quam insidiarum a meis, quaesivi tamen viveretne ipse
et Paulus pater et alii quos nos extinctos esse arbitrare­
mur. ' Immo vero' inquit 'hi vivunt qui e corporum vin­
clis tamquam e carcere evolaverunt, vestra vero quae di­
citur vita mors est. Quin tu aspicis ad te venientem
Paulum patrem ? ' Quem ut vidi, equidem vim lacrima­
rum profudi, ille autem me complexus atque osculans
fiere prohibebat.
[15 ] Atque ego ut primum fletu represso loqui posse
coepi, 'quaeso' inquam 'pater sanctissime atque optu­
me, quoniam haec est vita ut Africanum audio dicere,
quid moror in terris ? Quin huc ad vos venire propero ? '
' Non e s t ita' inquit ille. ' Nisi enim cum deus i s , cuius
hoc templum est omne quod conspicis, istis te corporis
custodiis liberaverit, huc tibi aditus patere non potest.
Homines enim sunt hac lege generati, qui tuerentur il­
lum globum, quem in hoc tempio medium vides, quae

36
rifondare la repubblica, a condizione però che tu riesca a
sfuggire alle mani empie dei tuoi familiari ». 22
A questo punto, poiché Lelio23 aveva emesso un urlo e gli
altri avevano iniziato a gemere con grande veemenza, Sci­
piene sorridendo loro dolcemente disse: « Sss !24 Vi prego,
non svegliate il mio sonno e ascoltate ancora un po' il rac­
conto del mio avo ».
[13] « Ma perché tu, Africano, sia più risoluto nel difende­
re la repubblica, sappi questo, che a tutti coloro che hanno
preservato, sostenuto, accresciuto la patria, è riservato in
cielo un luogo ben preciso, dove vivere beatamente in eter­
no.25 Niente, infatti, di ciò che esiste sulla Terra è più gra­
dito alla divinità suprema, che regge tutto l'universo, di
quelle associazioni e gruppi di uomini fondati sul diritto
denominati Stati;26 coloro che li reggono e li preservano,
partiti da questo luogo, in questo luogo fanno ritorno ».
[14] A questo punto, sebbene fossi spaventato non tanto
per la paura di morire quanto per le insidie che mi sareb­
bero venute dai miei familiari, gli domandai se lui vivesse
e se vivesse mio padre Paolo e altri che noi consideravamo
estinti. Egli rispose: « Certamente! Vivono coloro che si
sono liberati dei vincoli del corpo come si fugge da una
prigione, mentre quella che voi chiamate vita è morte.27
Ma perché non rivolgi lo sguardo verso tuo padre Paolo
che viene verso di te ? » . Non appena lo vidi, versai un ma­
re di lacrime, mentre lui abbracciandomi e baciandomi mi
impediva di piangere.
[15 ] Allorché, soffocato il pianto, fui di nuovo in grado di
parlare, gli domandai: <<padre mio ottimo e degno della
massima venerazione, se è questa la vera vita, come sento
dire dall'Africano, perché indugio sulla Terra ? Non do­
vrei affrettarmi a venire qui da voi ? » . « Non è cosl» - mi
rispose. « Infatti, se la divinità, cui appartiene l'immenso
spazio intorno a te, non ti avrà liberato dalla prigione del
corpo, non si potrà aprire per te l'accesso a questo luogo.
Gli uomini, infatti, furono creati a questa condizione, che

37
terra dicitur, iisque animus datus est ex illis sempiternis
ignibus guae sidera et stellas vocatis, guae globosae et
rotundae, divinis animatae mentibus, circos suos orbe­
sque conficiunt celeritate mirabili. Quare et tibi Publi
et piis omnibus retinendus animus est in custodia cor­
poris, nec iniussu eius a quo ille est vobis datus, ex ho­
minum vita migrandum est, ne munus humanum adsi­
gnatum a deo defugisse videamini. [16] Sed sic Scipio
ut avus hic tuus, ut ego qui te genui, iustitiam cole et
pietatem, guae cum magna in parentibus et propinquis,
tum in patria maxima est ; ea vita via est in caelum et in
hunc coetum eorum qui iam vixerunt et corpore laxati
illum incolunt locum quem vides - erat autem is splen­
didissimo candore inter flammas circus elucens -, quem
vos ut a Grais accepistis orbem lacteum nuncupatis . ' Ex
quo omnia mihi contemplanti praeclara cetera et mira­
bilia videbantur . Erant autem eae stellae quas num­
quam ex hoc loco vidimus, et eae magnitudines omnium
quas esse numquam suspicati sumus, ex quibus erat ea
minima quae ultima a caelo, citima a terris luce lucebat
aliena. Stellarum autem globi terrae magnitudinem faci­
le vincebant. lam vero ipsa terra ita mihi parva visa est,
ut me imperii nostri quo quasi punctum eius attingimus
paeniteret.
[17 ] Quam cum magis intuerer, 'quaeso , ' inquit Africa­
nus, ' quousque humi defixa tua mens erit ? Nonne aspi­
cis guae in tempia veneris ? Novem tibi orbibus vel po­
tius globis conexa sunt omnia, quorum unus est caele­
stis, extumus, qui reliquos omnes complectitur, summus
ipse deus arcens et continens ceteros; in quo sunt infixi

38
prendessero stabile dimora nel globo che vedi collocato al
centro dello spazio che ti circonda28 e che è chiamato Ter­
ra, e fu loro affidata un'anima costituita della stessa ma­
teria di quei fuochi eterni che voi chiamate astri e stelle e
che, corpi sferici animati da un divino intelletto, compio­
no le loro orbite circolari con mirabile velocità . Per que­
sto, tu, Publio, e tutti gli uomini giusti dovete custodire
l'anima nella sua prigione corporea senza abbandonare la
vita umana contro la volontà di chi vi ha fatto dono della
vostra anima, perché non sembri che abbiate voluto elu­
dere il compito che la divinità vi ha assegnato sulla Terra .
[16] Tu, dunque, Scipione, come tuo nonno qui presente
e come me, che ti ho generato, onora la giustizia e la
pietà, che non dev'essere soltanto grande '(erso i genitori
e i familiari, ma grandissima per lo Stato. E una vita cosl
condotta la via che porta al cielo e a questo consesso di
uomini che già vissero e che, liberati dal peso del corpo,
abitano il luogo che vedi (era esso un cerchio che brillava
tra le fiamme con un meraviglioso chiarore) , che dai Gre­
ci avete imparato a chiamare la "via lattea"». A me che da
quel luogo osservavo l'universo tutte le altre cose appari­
vano mirabili e straordinarie. C'erano le stelle che qui dal­
la Terra non abbiamo mai potuto vedere e la loro grandez­
za era quale noi non avremmo mai potuto immaginare.
Tra queste la più piccola era quella che, la più lontana dal
cielo e la più vicina alla Terra, splendeva di luce riflessa.29
La loro dimensione superava di gran lunga la grandezza
della Terra, anzi la Terra mi parve cosl piccola che mi rin­
crebbe del nostro impero, con il quale ne occupiamo a ma­
lapena un punto.
[17 ] Poiché la guardavo con insistenza , l 'Africano do­
mandò: «dimmi, fino a quando la tua attenzione resterà
concentrata sulla Terra ? Non ti accorgi degli immensi
spazi nei quali sei giunto ? Ecco qui al tuo cospetto l'uni­
verso composto di nove cerchi o, per meglio dire, sfere, di
cui una sola è quella veramente celeste, la più lontana, che

39
illi qui volvuntur stellarum cursus sempiterni. Huic su­
biecti sunt septem qui versantur retro contrario motu
atque caelum. Ex quibus summum globum possidet illa
quam in terris Saturniam nominant . Deinde est homi­
num generi prosperus et salutaris ille fulgor qui dicitur
Iovis . Tum rutilus horribilisque terris quem Martium
dicitis . Deinde su bter mediam fere regionem Sol obti­
net, dux et princeps et moderator luminum reliquorum.
Mens mundi et temperatio, tanta magnitudine ut cunc­
ta sua luce lustret et compleat. Hunc ut comites conse­
quuntur Veneris alter, alter Mercurii cursus, in infimo­
que orbe Luna radiis S olis accensa convertitur. I nfra
autem eam iam nihil est nisi mortale et caducum prae­
ter animos munere deorum hominum generi datos, su­
pra Lunam sunt aeterna omnia. Nam ea quae est media
et nona, Tellus, neque movetur et infima est, et in eam
feruntur omnia nutu suo pondera . '
[18 ] Quae cum intuerer stupens, u t me recepi, 'quis
hic' inquam ' est qui complet aures meas tantus et tam
dulcis sonus ?' ' Hic est' inquit 'ille qui intervallis co­
niunctus imparibus, sed tamen pro rata parte ratione
distinctis, impulsu et motu ipsorum orbium efficitur,
et acuta cum gravibus temperans varios aequabiliter
concentus efficit; nec enim silentio tanti motus incita­
ri possunt, et natura fert ut extrema ex altera parte
graviter, ex altera autem acute sonent. Quam ob cau­
sam summus ille caeli stellifer cursus, cuius conversio
est concitatior, acuto et excitato movetur sono, gravis­
simo autem hic Lunaris atque infimus; nam terra nona
immobilis manens una sede semper haeret, complexa

40
comprende in sé tutte le altre, dio supremo che contiene
e racchiude in sé tutti gli altri dei: in questa sfera sono in­
fisse le orbite delle stelle che ruotano per l'eternità. Sotto
di essa ci sono sette sfere che ruotano in direzione oppo­
sta con moto contrario a quello del cielo. 30 Tra queste il
globo più alto è occupato da quella che sulla Terra viene
chiamata Saturno. Ecco poi quell'astro prospero e saluta­
re per il genere umano che è chiamato Giove. Ed ecco poi
quella sfera di colore rosso vivo ed orribile per la Terra,
che voi chiamate Marte. Al di sotto, in una regione quasi
centrale, ecco quindi il Sole, guida, principe e regolatore
di tutti gli altri corpi celesti; mente e misura del mondo,
esso è di una grandezza tale da irradiare e pervadere con
la sua luce tutto quanto l'universo. 3 1 Lo seguono, quasi
come compagni di viaggio,32 l'orbita di Venere e quella di
Mercurio , mentre nel cerchio più basso, illuminata dai
raggi del Sole, ruota la Luna. Sotto la Luna non c'è più
niente che non sia mortale e caduco oltre l'anima, conces­
sa dagli dei in dono al genere umano, mentre al di sopra
della Luna tutto è eterno. Infatti, la sfera che è al centro
dell'universo, e che è la nona, la Terra, rimane immobile
ed occupa il punto più basso e verso di essa tendono per
loro naturale inclinazione tutti i gravi »Y
[18] Mentre guardavo ammirato tutto questo, quando mi
riebbi, domandai: « che suono è mai questo, cosl forte e
cosl melodioso, che mi invade le orecchie ? » . L'Africano
rispose: <� è il suono che, mediante la combinazione di in­
tervalli disuguali e tuttavia perfettamente concordi, si
produce per la spinta ed il movimento delle stesse sfere
celestP4 e che, moderando toni acuti con toni gravi, emet­
te armonie uniformemente diverse. Moti cosl imponenti
non potrebbero infatti mai prodursi nel silenzio35 ed è na­
turale che le due estremità dell'universo risuonino rispet­
tivamente l'una in modo grave e l'altra in modo acuto.
Per questo, l'orbita più alta del cielo, quella delle stelle, la
cui rotazione è più veloce, si muove emettendo un suono

41
medium mundi locum. Illi autem octo cursus, in quibus
eadem vis est duorum, septem efficiunt distinctos in­
tervallis sonos, qui numerus rerum omnium fere nodus
est; quod docti homines nervis imitati atque cantibus,
aperuerunt sibi reditum in hunc locum, sicut alii qui
praestantibus ingeniis in vita humana divina studia co­
luerunt . [19] Hoc sonitu oppletae aures hominum ob­
surduerunt; nec est ullus hebetior sensus in vobis, sicut
ubi Nilus ad illa quae Catadupa nominantur praecipitat
ex altissimis montibus, ea gens quae illum locum adco­
lit propter magnitudinem sonitus sensu audiendi caret.
Hic vero tantus est totius mundi incitatissima conver­
sione sonitus, ut eum aures hominum capere non pos­
sint, sicut intueri solem adversum nequitis, eiusque ra­
diis acies ves tra sensusque vincitur . '
[20] Haec ego admirans, referebam tamen oculos ad ter­
ram identidem. Tum Africanus: 'sentio' inquit 'te sedem
etiam nunc hominum ac domum contemplati; quae si tibi
parva ut est ita videtur, haec caelestia semper spectato, il­
la humana contemnito. Tu enim quam celebritatem ser­
monis hominum aut quam expetendam consequi gloriam
potes ? Vides habitari in terra raris et angustis in locis, et
in ipsis quasi maculis ubi habitatur vastas solitudines inte­
riectas, eosque qui incolunt terram non modo interruptos
ita esse ut nihil inter ipsos ab aliis ad alios manare possit,
sed partim obliquos, partim transversos, partim etiam ad­
versos stare vobis. A quibus expectare gloriam certe nul­
lam potestis.
[21] Cernis autem eandem terram quasi quibusdam re­
dimitam et circumdatam cingulis, e quibus duos maxi-

42
acuto e vibrante,36 mentre l'orbita lunare, che è la più bas­
sa, emette un suono molto grave. La Terra, infatti, che ri­
mane immobile in nona posizione, se ne sta sempre fissa
in una stessa sede comprendendo in sé il centro dell'uni­
verso. Le otto orbite celesti, due delle quali hanno la me­
desima velocità ,37 emettono sette suoni distinti tra loro
per intervalli e questo numero è per cosl dire il nodo che
lega tutte quante le cose. 38 I dotti che con le corde di uno
strumento musicale o con il canto hanno imitato questo
suono, si sono aperti la via che riconduce a questo luogo,
cosl come altri che con il loro superiore intelletto si sono
dedicati durante la vita umana a studi di natura divina . 39
[19] Le orecchie degli uomini, invase da questo suono, ne
sono rimaste assordate ;40 nessun altro vostro senso è in­
fatti più debole dell 'udito, cosl come accade là dove il Ni­
lo precipita da monti altissimi nella regione chiamata Ca­
tadupa: la popolazione che abita quel luogo è divenuta
sorda per il rumore provocato dalla caduta dell'acqua.41 Il
rimbombo provocato dalla rapidissima rotazione dell'inte­
ro universo è quindi cosl forte che le orecchie umane non
possono percepirlo, cosl come non potete tenere lo sguar­
do fisso verso il Sole senza che il vostro senso della vista
sia sopra Ha tto dai suoi raggi ». 42
[20] Sebbene contemplassi ammirato questo spettacolo,
ogni tanto tuttavia ritornavo con lo sguardo verso la Ter­
ra. Allora l'Africano disse: « vedo che continui a contem­
plare la sede e la dimora degli uomini, che, se ti sembra,
com'è, piccola, rivolgi sempre i tuoi occhi alle cose celesti,
trascurando quelle umane. Infatti, quale notorietà sulla
bocca della gente, quale gloria potresti mai sperare di ot­
tenere ? Vedi che sulla Terra si abita in pochi e angusti
spazi e che in questi stessi spazi abitati, simili a macchie,
si interpongono vaste zone desertiche e vedi che gli abi­
tanti della Terra non soltanto sono cosl distanti gli uni da­
gli altri che nulla si potrebbe mai diffondere tra loro, ma
sono distribuiti cosl da rimanere alcuni in posizione obli-

43
me inter se diversos et caeli verticibus ipsis ex utraque
parte subnixos obriguisse pruina vides, medium autem
illum et maximum solis ardore torreri . Duo sunt habita­
biles, quorum australis ille, in quo qui insistunt adversa
vobis urgent vestigia, nihil ad vestrum genus; hic autem
alter subiectus aquiloni quem incolitis cerne guam tenui
vos parte contingat. O mnis enim terra guae colitur a
vobis, angustata verticibus, lateribus latior, parva quae­
dam insula est circumfusa ilio mari quod Atlanticum,
quod magnum, quem Oceanum appellatis in terris, qui
tamen tanto nomine guam sit parvus vides. [22] Ex his
ipsis cultis notisque terris num aut tuum aut cuiusquam
nostrum nomen vel Caucasum hunc quem cernis tran­
scendere potuit vel illum Gangen tranatare ? Quis in re­
liquis orientis aut obeuntis solis ultimis aut aquilonis
austrive partibus tuum nomen audiet ? Quibus amputa­
tis cernis profecto quantis in angustiis vestra se gloria
dilatari velit. lpsi autem qui de nobis loquuntur, guam
loquentur diu ?
[2 3] Quin etiam si cupiat proles illa futurorum hominum
deinceps laudes unius cuiusque nostrum a patribus accep­
tas posteris prodere, tamen propter eluviones exustione­
sque terrarum, quas accidere tempore certo necesse est,
non modo non aeternam, sed ne diuturnam quidem glo­
riam adsequi possumus. Quid autem interest ab iis qui po­
stea nascentur sermonem fore de te, cum ab iis nullus fue­
rit qui ante nati sunt ? [24] Qui nec pauciores et certe me­
liores fuerunt viri, praesertim cum apud eos ipsos a qui­
bus audiri nomen nostrum potest, nemo unius anni me­
moriam consegui possit. Homines enim populariter an-

44
qua, altri in posizione trasversale, altri addirittura agli an­
tipodi rispetto a voi.43 E da questi certamente non potete
attendervi nessuna gloria.
[21] Inoltre, come vedi, la Terra è circondata e cinta co­
me da fasce, due delle quali noti che, opposte tra loro e
sorrette proprio dai due poli celesti, si sono irrigidite per
il gelo, mentre la fascia intermedia, che è anche la più am­
pia, è arsa dal calore del Sole. 44 Le fasce abitabili sono
due, di cui quella australe, i cui abitanti lasciano sul suolo
impronte agli antipodi rispetto a voi, non ha nessun rap­
porto con la vostra stirpe; quest 'altra, invece, esposta al­
l'aquilone, che voi abitate, vedi bene quanto esigua parte
ve ne tocchi. Infatti, tutta la Terra da voi abitata, schiac­
ciata ai poli, più larga ai lati, è come una piccola isola cir­
condata da quel mare che sulla Terra chiamate ora Atlan­
tico ora mare magnum ora Oceano, che tu vedi però quan­
to sia piccolo a dispetto di tanto nome. [22] Forse che da
queste stesse terre abitate e conosciute il tuo nome o quel­
lo di uno di noi avrebbe mai potuto quaggiù valicare il
Caucaso o laggiù guadare il Gange ?45 Chi mai nei rima­
nenti estremi confini della Terra, dove il Sole sorge o tra­
monta o dove soffiano l'aquilone o l'austro, sentirà pro­
nunciare il tuo nome ?46 Ma se si escludono questi territo­
ri, vedi bene in quali angusti confini la vostra gloria aspi­
ri a diffondersi. D'altronde, gli stessi uomini che parlano
di noi, quanto a lungo ne parleranno ? » .
[2 3] « Ma s e anche l a futura discendenza umana s i propo­
nesse di tramandare ai posteri di generazione in genera­
zione le lodi di ognuno di noi ricevute in eredità dai pa­
dri, tuttavia a causa delle inondazioni e deflagrazioni ter­
restri, 47 che si verificano inesorabilmente in periodi pre­
stabili ti, non potremmo mai ottenere non solo una gloria
eterna ma neppure duratura. E a che vale che di te dica­
no i posteri, se nessun discorso fu mai pronunciato dai no­
stri antenati ? [24 ] Che furono uomini non inferiori per
numero e certamente migliori per virtù, senza considera-

45
num tantum modo solis, id est unius astri, reditu metiun­
tur; re ipsa autem cum ad idem unde seme! profecta sunt
cuncta astra redierint, eandemque totius caeli descriptio­
nem longis intervallis rettulerint, tum ille vere vertens an­
nus appellari potest; in quo vix dicere audeo quam multa
hominum saecla teneanturo Namque ut olim deficere sol
hominibus exstinguique visus est, cum Romuli animus
haec ipsa in tempia penetravit, quandoque ab eadem par­
te sol eodemque tempore iterum defecerit, tum signis om­
nibus ad idem principium stellisque revoca tis expletum
annum habeto; cuius quidem anni nondum vicesimam
partem scito esse conversamo
[25] Quocirca si reditum in hunc locum desperaveris, in
quo omnia sunt magnis et praestantibus viris, quanti tan­
dem est ista hominum gloria, quae pertinere vix ad unius
anni partem exiguam potest ? lgitur alte spectare si voles
atque hanc sedem et aeternam domum contueri, neque te
sermonibus vulgi dederis, nec in praemiis humanis spem
posueris rerum tuarum; suis te oportet inlecebris ipsa vir­
tus trahat ad verum decuso Quid de te alii loquantur, ipsi
videant, sed loquentur tameno Sermo autem omnis ille et
angustiis cingitur his regionum quas vides, nec umquam
de ullo perennis fuit, et obruitur hominum interitu, et
oblivione posteritatis extinguitur o '
[26] Quae cum dixisset, 'ego vero' inquam ' Africane, si­
quidem bene meritis de patria quasi limes ad caeli adi­
tum patet, quamquam a pueritia vestigiis ingressus pa­
tris et tuis decori vestro non defui, nunc tamen tanto
praemio exposito enitar multo vigilantius' Et ilie: ' tu
o

vero enitere et sic habeto, non esse te mortalem sed cor-

46
re che anche presso gli uomini, dai quali il nostro nome
può essere udito, nessuno potrebbe ottenere di essere ri­
cordato per la durata di un solo anno. Gli esseri umani,
infatti, solitamente calcolano l'anno dalla rivoluzione solo
del Sole, cioè di un unico astro, ma quando tutti gli astri
saranno ritornati nella medesima posizione dalla quale so­
no partiti all ' inizio e dopo lunghi intervalli di tempo
avranno ristabilito la configurazione iniziale di tutto il
cielo, allora si potrà ritenere che sia veramente trascorso
un anno: nel quale anno a stento io oserei dire quante ge­
nerazioni umane siano comprese. 48 E infatti, così come un
giorno agli uomini parve che il Sole scomparisse e si estin­
guesse, quando l'anima di Romolo entrò proprio in questi
spazi celesti, allorché il sole scomparirà una seconda volta
dalla stessa parte e nello stesso intervallo di tempo, quan­
do tutti quanti gli astri e tutte le stelle saranno ritornati al
loro medesimo punto di partenza, allora potrai ritenere
l'anno compiuto: ma sappi che di questo anno non è tra­
scorsa in realtà neppure la ventesima parte ».
[25] « Se tu quindi disperassi di poter ritornare in questo
luogo, dove tutto si confà ad uomini grandi e nobili, qua­
le valore avrebbe alla fine codesta gloria umana, che a ma­
lapena può comprendere un'esigua parte di un solo anno ?
Se tu dunque vorrai volgere il tuo sguardo verso l'alto e
contemplare questa sede ed eterna dimora, non ti affide­
rai ai discorsi della gente né riporrai le speranze della tua
vita in ricompense terrene; la virtù stessa dovrà condurti
con il suo fascino verso la vera gloria: ciò che altri uomini
potrebbero dire di te, è affar loro, tanto comunque parle­
ranno. Ogni loro discorso resta tuttavia circoscritto negli
angusti confini che vedi né è mai stato eterno per nessu­
no, anzi cessa con la morte degli uomini e si estingue nel­
l'oblio dei posteri ».
[26] Dopo che ebbe detto ciò, dissi io: «Africano, se vera­
mente ai benefattori della patria si apre quasi una via che
conduce alle porte del cielo, sebbene fin da ragazzo, se-

47
pus hoc; nec enim tu is es quem forma ista declarat, sed
mens cuiusque is est quisque, non ea figura guae digito
demonstrari potest. Deum te igitur scito esse, siquidem
est deus qui viget, qui sentit, qui meminit, qui provi­
det, qui tam regit et moderatur et movet id corpus cui
praepositus est, guam hunc mundum ille princeps deus;
et ut mundum ex quadam parte mortalem ipse deus ae­
ternus, sic fragile corpus animus sempiternus movet .
[2 7 ] Nam quod semper movetur, aeternum est; quod au­
tem motum adfert alicui quodque ipsum agitatur aliun­
de, quando finem habet motus, vivendi finem habeat
necesse est. Salurn igitur quod se ipsum movet, quia
numquam deseritur a se, numquam ne moveri quidem
desinit; quin etiam ceteris guae moventur hic fans, hoc
principium est movendi. Principii autem nulla est origo;
nam ex principio oriuntur omnia, ipsum autem nulla ex
re alia nasci potest; nec enim esset id principium quod
gigneretur aliunde; quodsi numquam oritur, ne occidit
quidem umq u a m . N a m principi um exstinctum nec
ipsum ab alia renascetur, nec ex se aliud creabit, siqui­
dem necesse est a principio oriri omnia. lta fit ut motus
principium ex eo sit quod ipsum a se movetur; id autem
nec nasci potest nec mori; vel concidat omne caelum
omnisque natura et consistat necesse est, nec vim ullam
nanciscatur qua a primo impulsa moveatur. [2 8 ] Cum
pateat igitur aeternum id esse quod se ipsum moveat,
quis est qui hanc naturam animis esse tributam neget ?
l nanimum est enim omne quod pulsu agitatur externo;
quod autem est animai, id motu cietur interiore et suo;
nam haec est propria natura animi atque vis; guae si est

48
guendo le orme di mio padre e le tue, io non sia mai venu­
to meno al vostro onore, ora tuttavia con la speranza di
una ricompensa cosl grande mi impegnerò con molto mag­
giore cura». E lui: « tu certamente impegnati e tieni bene
a mente questo, che non sei mortale tu ma questo tuo cor­
po: infatti, tu non sei colui che questo tuo aspetto esterio­
re rivela, ma di ogni uomo la vera essenza è l'intelletto,
non l'immagine che si può indicare con il dito. Sappi dun­
que che tu sei un dio, 49 se è un dio quello che vive, che
sente, che ricorda, che prevede, che regge e governa e
muove questo corpo cui è preposto cosl come il dio supre­
mo regge, governa e muove il mondo; e come la divinità
eterna muove il mondo in parte mortale, cosl l'anima eter­
na muove il corpo corruttibile. [2 7] Infatti, ciò che è sem­
pre in movimento, è eterno, mentre ciò che muove un'al­
tra entità ma che a sua volta è mosso da altro, quando il
movimento cessa, necessariamente cessa anch'esso di esi­
stere. Pertanto soltanto ciò che si muove di moto proprio,
poiché non è mai abbandonato da se stesso, non cessa mai
di muoversi ed è anzi fonte e principio del movimento di
tutte le altre cose che si muovono .50 Del principio però
non esiste un'origine; dal principio, infatti, nascono tutte
le cose, ma il principio stesso non può avere origine da
niente: non sarebbe infatti il principio ciò che nascesse da
altro; e come non nasce da niente, cosl esso non ha nep­
pure mai una fine. Infatti, ove estinto, il principio non ri­
nascerà da niente né genererà da sé più niente, se è vero
che tutto necessariamente ha origine dal principio. Ne
consegue che il principio del movimento deriva da ciò che
si muove da sé ed esso non può né nascere né morire, al­
trimenti tutto il cielo fatalmente crollerebbe e tutta la na­
tura non solo si arresterebbe ma non riuscirebbe più a tro­
vare una forza che dia l'impulso iniziale al movimento.
[28] Poiché dunque è evidente che è eterno ciò che si
muove di moto proprio, chi potrebbe negare che all 'anima
sia stata attribuita siffatta natura ? Infatti è privo di ani-

49
una ex omnibus quae se ipsa moveat, neque nata certe
est et aeterna est. [2 9] Hanc tu exerce in optimis rebus!
Sunt autem optimae curae de salute patriae, quibus agi­
tatus et exercitatus animus velocius in hanc sedem et
domum suam pervolabit, idque ocius faciet, si iam tum
cum erit inclusus in corpore, eminebit foras, et ea quae
extra erunt contemplans quam maxime se a corpore ab­
strahet. Namque eorum animi qui se corporis voluptati­
bus dediderunt, earumque se quasi ministros praebue­
runt, impulsuque libidinum voluptatibus oboedientium
deorum et hominum iura violaverunt, corporibus elapsi
circum terram ipsam volutantur, nec hunc in locum nisi
multis exagitati saeculis revertuntur . '
llle discessit; ego somno solutus sum.

50
ma tutto ciò che è mosso da un impulso esterno mentre
ciò che ha un'anima si muove di un moto interiore e pro­
prio. Ed è questa dunque la forza naturale propria dell'a­
nima umana, che, se tra tutte le entità è la sola dotata di
moto proprio, è certamente ingenerata ed eterna. [2 9] Tu
allora esercitala nelle imprese umane migliori ! Che sono
quelle che mirano alla salvezza della patria: l'anima che si
sia impegnata ed esercitata in esse ascenderà più veloce­
mente verso questa sede e sua vera dimora e lo farà anco­
ra più velocemente se fin da quando si troverà rinchiusa
nel corpo se ne trarrà fuori e contemplando la realtà ester­
na si terrà il più possibile lontano dal corpo.51 Infatti, le
anime di quanti si dedicarono ai piaceri materiali divenen­
done come schiavi e che sulla spinta delle passioni, che
tengono dietro ai piaceri, violarono le leggi divine e uma­
ne, dopo aver abbandonato il corpo continuano a vagare
intorno alla Terra e non ritornano in questo luogo se non
dopo aver penato per molti secoli ».52
Egli scomparve ed io mi svegliai.53

51
Zanobi da Strada
Volgarizzamento del Sogno di Scipione
Proemio

Tulio Cicerone, veggiendo alquanti attediati del buono


reggimento della patria, perché mancavano forse di degni
premii, volle mostrare che i valenti reggitori, benché qui
non fossono premiati, potessono aspettare degni meriti al­
le loro virtuose opere. E cciò fece fingendo che a Scipio­
ne aparisse in sogno l'avolo Scipione Africano, e il padre
Paulo; dove si dimostrano i premi e Ile glorie de' buoni
reggitori, come usanza era, apo gli antichi filosofi, o per
ragioni, o per intendimenti, o per favole, o per exempli
disporre gli animi a virtudi.
E questo sogno è tratto dal sexto della Republica del det­
to Tulio, il quale finge in questa forma, volgarezzato per
maestro Zanobi da Strada a preghiera di Johanni Villani.

Essendo io pervenuto in Africa da Mallio Cornelio conso­


lo, al quarto della legione, come sapete, tribuno de' cava­
lieri, niuna cosa mi parve meglio che ritrovarmi con Mas­
sinissa re, per degne opere amicissimo della nostra fami­
glia. Al quale io essendo venuto, il vecchio re, abraccian­
domi, lagrimò , e poco poi riguardò in cielo e disse: << 0
sommo Sole, io ti rendo grazie, et a voi tutti, Iddii del cie­
lo, che, inanzi che io passi di questa vita, io veggio nel
mio reame e sotto i miei tetti Publio Cornelio Scipione,

53
del cui nome io sono chiamato; e cosl mai dell'animo mio
non si parte la memoria di quello valentissimo huomo» . E
poi domandò l'uno l' altro, io lui del suo reame et elli me
della nostra republica; et avuto tra nnoi molte parole, più
e meno cosl finimo quello dl.
Poi, nelle reali camere ricevuti, in grande parte della notte
il nostro parlare prolungamo; non parlando quello nobile
vecchio se non dell'Africano e recitando non solamente i
fatti, ma eziandio tutti i suoi detti. E poi, essendo iti a dor­
mire, sl per la via, sl perchè gran parte della notte aveva ve­
ghiato, più strettamente che non solea mi prese il sonno.

II

Cosl dunque, i n verità, mi credo io che nnoi avavamo par­


lato, però che spesso adiviene che ' nostri pensieri e ragio­
namenti generino alcuna cosa nel sonno, tale come d'O­
mero scrive Ennio, del quale elli veghiante solea parlare e
pensare; cosl adunque Africano mi si mostrò in quella for­
ma che ssl per la sua immagine sl per lui medesimo m'era
più manifesta. Il quale tosto come cognobbi in verità tut­
to isbalordl; et egli a mme: «0 Scipione, sta' fermo nell 'a­
nimo e non temere, e quelle cose che io dirò nota e tielle
a mente». E cominciò cosl: «Vedi tu quella città la quale,
costretta per me a ubidire il popolo romano, muove l'an­
tiche battaglie e non si può quietare », e mostrava Carta­
gine di luogo eccelso, nobile e chiaro e pieno di stelle, « al­
la quale tu vieni a combattere appena cavaliere ? Questa
città qui tu, consolo, infra due anni sovvertirai et acqui­
stera'ti quello sopranome che ttu hai da nnoi ancora ere­
ditario. Ma, vinto che avrai Cartagine et avuto il trionfo,
e suto che ssarai censore et ito legato in Egitto, Grecia,
Syria et Asia, ancora da capo, consolo absento, grandissi­
ma battaglia farai e sogiogherai Numantia. Ma, da cche
sarai nel carro portato nel Capitolio, offenderai la republi-

54
ca, turbata per consigli del mio nipote; qui tu, Africano,
converrà che mostri el lume dell'animo e dello ingegno
tuo. Et io veggio già la dubbiosa via de' fati di quello tem­
po, però che, da cche la tua età arà rivolto sette giri otto
volte et avrà converso i tornamenti, e questi due numeri,
de' quali l'uno e ll'altro, essendo pieno l'uno e per altra
cagione che l'altro, t'avranno compiuta la somma fatale,
in te solo e nel tuo nome tutta la città si rivolgerà. Te il
Senato, te tutti i buoni huomini, te i compagni, te raguar­
deranno tutti i Latini; tu sarai solo in cui si sforzerà la sa­
lute della città. Et acciò che io non dica troppo, tu, ditta­
tore, converrà che ordini la republica, se Ile crudeli mani
de' parenti saprai fuggire>).

III

Qui, avendo cosi exclamato Lelio, e tutti li altri forte


avendo pianto, Scipione, un poco singhiozante, disse: « lo
vi priego che non mi destiate del sonno, e licito mi sia pa­
cificamente tutte l'altre cose udire>).
« Ma, acciò che ttu, Africano, sia più allegro a difendere
la repubblica , cosi sappi che a tutti coloro che avranno
conservato, aiutato o acresciuto la patria, certo luogo è
determinato in cielo, dove ellino usino del beato evo et­
ternalmente. Però che nulla è che, a quello prencipe Id­
dio, che tutto il mondo regge, in terra sia più accepto, che
'consigli e le compagnie delli h uomini ragionevolmente
raccolti, che ssi chiamano cittadi: i rettori e conservatori
di quelle, quindi uscendo, qua su tornanO>).

IV

Qui adunque, bench 'io fossi spaurito, non tanto per


paura di morte, quanto delle insidie da' miei, pure do-

55
mandai se viveva elli e Paolo mio padre e molti altri, i
quali sapavamo ch'erano morti. « Anzi» disse elli « que­
sti vivono, che ssono riusciti de' vincoli de' corpi co­
me di pregione; ma lla vostra, che ssi chiama vita, è
morte. Ecco , vedi Paolo tuo padre che viene a tte! » . Il
quale tosto com 'io vidi, in verità tutto mi ruppi di la­
grime; et elli, abracciandomi e baciandomi, non mi la­
sciava piangere.
Et io, tosto come pote' ristare del pianto e cominciare a
parlare, dissi a llui: « Io ti priego, padre santissimo et ot­
timo, però che qui è vita secondo che odo dire l'Africa­
no, io perché sto in terra, perché non mi spaccio di ve­
nire costà ? » . Et elli a mme: « Non fare così, però che,
se questo Iddio, di cui è tutto questo tempio che ttu ve­
di, non t 'arà prima liberato da questi legami del corpo,
qua su non ti si può manifestare l 'entrata. Però che Ili
uomini sono generati con questa legge, i quali abitano
questo cerchio di mezzo che ttu vedi , che ssi chiama
Terra, et a ccostoro è dato l'animo da quelli sempiterni
fuochi, che voi chiamate sideri e stelle, le quali, grosse
e tonde, inanimate delle divine menti, compiono i suoi
cerchi e ritondità con velocità maravigliosa. Onde et a
tte, Publio, è da essere conservato l ' animo in guardia
del corpo in tutte le cose piatose, né della vita delli huo­
mini è da passare contro al comandamento di colui da
cui quello v'è dato, acciò che non paia che voi fuggiate
il dono datovi da dDio.

Ma, o Scipione, così coltiva la giustizia e Ila pietà come


questo tuo avolo, la quale sl nel padre e nella madre, sl ne'
parenti è grande, sì nella patria è grandissima. Questa sl
fatta vita è via in cielo et in questa compagnia di costoro,
che già sono vivuti e riusciti del corpo, abitano quello luo-

56
go che tu vedi », et era costui con una bianchezza splendi­
dissima, rilucente tra ile fiamme, «el quale voi, come da'
Greci avete udito, chiamate Cerchio Latteo, overo Ga­
laxia ». Per lo quale a me, tutte queste cose vegiente, tut­
te l'altre cose mi parevano predare e maravigliose. E que­
ste erano stelle, le quali non avavamo mai pensato che co­
si fossono; e queste erano le grandezze di tutte le stelle, e
' globi di quelle agevolmente vinceano la grandezza di tut­
ta la Terra. E già essa Terra mi parea sl piccola che mmi
facea pentere dello 'mperio, al quale noi eravamo venuti
come a un punto.

VI

La quale io forte raguardando, <do ti domando» disse l'A­


fricano <dnsino quando sarà la tua mente defixa nella Ter­
ra; non vedi tu in che templi se' venuto ? Di nove cerchi,
o vuoli globi, sono tutte queste cose connexe; de' quali
l ' uno, ultimo , è il celestiale cerchio di fuori, el quale
abraccia tutti gli altri, e sommo Iddio, contenente et ordi­
nante tutti gli altri; nel quale sono infissi quelli sempiter­
ni corsi delle stelle che ssi volgono . Al quale sette ne sono
sugetti, che ssi volgono adietro, per contrario movimento
al cielo; tra' quali l'uno cerchio possiede quella stella che
in terra si chiama Saturno.
Poi è quello folgore prospero e salutevole alla generazio­
ne delli uomini, che ssi chiama Giove; poi quello ri­
splendiente et orribile alle terre, che voi chiamate Mar­
te. Poi, di sotto, quasi alla mezza regione, abita il Sole,
duca e prencipe e moderatore di tutti li altri lumi, men­
te e tempera mento del mondo, con tanta grandezza
ch'elli illumini e compia tutte le cose con sua luce. A
ccostui seguitano gli altri corsi come compagni, l'uno di
Venere, l'altro di Mercurio; nel basso cerchio si rivolge
la Luna, accesa de' razzi del Sole. Di sotto a quella niu-

57
na cosa è, se non mortale e caduca, fuori che ll 'anime
date alla generazione delli huomini per dono delli Iddii;
sopra la Luna sono tutte le cose etterne. E quella ch 'è
mezza tra questi cerchi e nona, cioè la Terra, non si
muove et è infima a ttutte, et a quella caggiano, per lo­
ro natura, tutte le cose gravi ».

VII

Le quali cose tutte raguardando, tornato in me dissi :


«Che è questo sl dolce e sl grande suono el quale riempie
e' miei orecchi ? >>. Et egli a me: « Questo è quello suono
che, congiunto per disuguali intervalli, ma pure, per diter­
minata parte, ragionevolemente distinti, si fa per lo movi­
mento e grande impeto de' detti cieli; e Ile gravi cose col­
le agute ordinante, fa questi canti igualmente. Però che
tanti e sl grandi movimenti niente si possono muovere
con silenzio, ché naturalmente quale più tardo, qual meno
suonano, quale gravemente, quale acutamente. Per la qua­
le cagione quello sommo stellato cielo, il cui movimento è
più veloce, agutamente si muove e con suono più desto; e
questo cerchio lunare, infimo, si muove con uno suono
gravissimo. Però che Ila Terra, nona, immobile sempre, ha
la sedia più bassa, la quale tiene il più basso luogo del
mondo; ma quelli otto cerchi e corsi, ne' quali è quella
medesima virtu, fanno sette suoni di due intervalli: il qua­
le numero è quasi nodo di tutte le cose. Per lo quale i sa­
vi huomini, seguitandolo co' loro nervi, hanno manifesta­
to a lloro il tornamento in questo luogo; come gli altri, i
quali, co' nobili ingegni, nella humana vita hanno coltiva­
to i divini studi. Per questo suono compiuti e ripieni, gli
orecchi delli uomini sono asordati e non è più grosso sen­
timento in noi che ssl come il Nilo a que' luoghi, che ssi
chiamano Cantadippy, ruina delli altissimi monti, e quel­
la gente che quivi abita, per la grandezza del suono, non

58
ha il sentimento dell'udire. E questo canto è uno suono di
velocissimo movimento di tutto il mondo, intanto che li
orecchi delli uomini no 'l possono comprendere, sl come
voi non potete comprendere dirimpetto a voi il Sole, et il
sentimento e lla vista vostra è vinto da quella>).

VIII

Queste cose io raguardando, rivolgea li occhi pure alla


Terra. Allora disse l'Africano : «Io sento che ttu guardi
ancora la sedia e lla casa delli huomini, la quale se tti pa­
re piccola com'ella è, queste cose celeste sempre spera e
quelle humane dispregia. Però che ttu che allegrezza di
parlare d'uomini, o che gloria da cercare puoi aquistare ?
Vedi che vi s'abita in luoghi radi e stretti, et in quelle ma­
cole dove s'abita vedi interposte grandi solitudini. Et an­
cora, costoro che abitano la Terra non solamente essere
tanto distanti, che niente tra lloro e gli altri possa essere,
ma parte vi sono per torti, parte per adversi, da ' quali niu­
na gloria potete aspettare.
E vedi tu questa medesima Terra, raccerchiata et ator­
neata di cinture, delle quali due spezialmente sono ina­
sprite di freddo, diverse tra lloro, e sottoposte da ogni
parte alla sommità del cielo ? E vedi quello mezzo e gran­
dissimo ardore del Sole abronzare ? Le due sono abitabi­
li, delle quali l'una, australe, non si apartiene alla vostra
generazione: nella quale quelli che stanno hanno a voi le
vestigie adverse; e questa altra, soggetta all'Aquilone, la
quale voi abitate, vedi in come brieve parte vi tocca.
Però che tutta la terra che da voi s ' abita , stretta nella
sommità, larga dalle pendici, è una piccola isola raccer­
chiata da quello mare, che voi chiamate Atalatico, gran­
de, overo Occeano, il quale, benché abbia tanto nome,
vedi quanto sia piccolo . E questo per le terre da voi abi­
tate e conosciute.

59
IX

Deh, dimmi: poté mai il tuo nome, o di niuno di voi, tra­


passare quello monte Caucaso che ttu vedi, overo notare
di là da quello fiume Gange ? Overo chi nelle altre parti
dell'oriente o dell'ultimo de' raccerchiante Sole, overo
nelle parti dell'Aquilone o dell'Austro udirà il tuo nome ?
Anche ti dico più, che, se Ila schiatta delli huomini fu­
turi, da quinci inanzi, desideri di manifestare a quelli
che dietro verranno le lode di ciascuno di noi, ricevute
dalli antichi nostri, pure, per le divisioni et ardore del­
le terre, le quali di tempo in tempo è di necessità che
vengano, non solamente etterna, ma pure lunga loda po­
tremo aquistare. Ma dimmi: a tte che ffa che da ccolo­
ro che ppoi nasceranno si parli di te, conciò sia cosa che
da quelli che inanzi sono suti non se ne sia parlato - i
quali non furono meno, in verità, migliori - e spezial­
mente apo quelli medesimi, da ' quali il nostro nome si
può udire, niuno può aquistare memoria pure d 'uno an­
no ? Però che Ili uomini, volgarmente parlando, misura­
no l'anno solamente del Sole, cioè ritornamento d 'una
stella; ma, da che tutte le stelle saranno ritornate a quel­
lo medesimo luogo, dond'elle si mossano, et aranno co­
minciato quella medesima discrezione del cielo con lun­
ghi intervalli, allora quello veramente anno rivolto si
potrà chiamare; nel quale appena io ardisco di dire
quanti secoli d'uomini sono tenuti. Però che, come per
adietro, quando l ' animo di Romolo penetrò in questi
templi, parve agli uomini che 'l Sole si spegnesse, quan­
do da quella medesima parte et in quello medesimo tem­
po da capo il Sole venisse meno, allora, ritornate tutte
le stelle e tutti i segnali a' loro principii, abbi quello per
anno compiuto; e di questo anno sappi ch'ancora la vi­
gesima parte non è passata.
Per la qual cosa, se tti dispererai di tornare in questo luo­
go, pure che vale questa gloria degli uomini, che appena

60
s'apartiene a così poca parte come un anno ? Adunque, se
ttu vorrai altamente raguardare e vedere questa sedia et
etterna casa, non ti darai a' sermoni del popolo e non por­
rai la speranza delle cose tue ne' premii umani; se vuogli
e conviene che ila virtù ti tragga da questi diletti al vero
honore. E quello che gli altri di te parleranno, elli il veg­
giano; che nné pure parleranno; e tutto quel parlare è cin­
to da queste strettezze delle regioni, e mai non fu perpe­
tuo d'alcuno, et è sotterrato morto l'uomo e spegnesi per
la dimenticanza de' posteri.

Le quali cose avendo elli detto, io parlai a llui dicendo:


«0 Africano, se a quelli che hanno bene meritato della
patria si manifesta l'entrata al cielo da questo paese qua­
si come termine, infino dalla mia puerizia, essendo io en­
trato nelle tue forme e del padre mio, non mi partì mai
dal nostro honore; ma ora, essendomi 'sposto tanto pre­
mio, mi sforzerò molto più solicitamente » . Ed elli a
mme: << E ttu così fa' e così sappi te non essere mortale,
ma questo corpo sì; però che ttu non se' colui la cui for­
ma ti fa parere, ma lla mente tua è quella che con dito
non si può segnare. Sappi dunque te essere come Iddio,
se in verità Iddio è quello che sta fermo, che sente, che
ssi ricorda, che provede, che cosl providamente regge et
ordina e muove quel corpo a cui elli è proposto, come
questo mondo quello prencipe I ddio; e come questo
mondo in alcuna parte è mortale et Iddio eterno, così
l' animo sempiterno muove il fragile corpo . Però che
quello che sempre si muove è etterno; e quello che dà
movimento altrui e quello che ssi muove altronde, quan­
do ha fine di movimento è di necessità ch'abbia fine di
vivere. Solo adunque quello che sse medesimo muove e
mai da ssé non manca, e mai non ristà di muovere; anzi

61
e più tosto a tutte le cose che ssi muovono, questi è fon­
te, questo è il principio di muoversi. Et al principio non
è mai niuno principio: però che dal principio tutte le co­
se nascono; ma elli da niuna altra cosa può nascere, però
che non può essere quello principio che d' altronde si ge­
neri. E cosl, se mai non cominciò, mai non verrà meno:
però che 'l principio morto né potrà rinascere da un al­
tro, e da ssé non ne creerà un altro; e sse così è, è di ne­
cessità che tutte le cose nascano dal principio : seguita
che 'l principio del movimento sia da quella cosa che da
ssé si muova, e cciò non può nascere né morire. E se tut­
to il cielo cadesse, e tutta la natura, che questo stea fer­
mo, di bisogno è che niuna cosa sostenga forza che ssi
muova dal primo impulso, cioè movimento . Adunque
manifesto è, secondo che quello è etterno che da sse me­
desimo si muove, però che chi negherà questa natura es­
sere da t a agli animi ? Però che nell 'animo è ciò che ssi
muove per movimento strano ; ma quello c h ' è anima,
quello si muove per movimento dentro e suo propio:
però che questa è la natura dell'animo e Ila sua virtù; la
quale, se cosl è, di tutte le cose, la quale si muova, certo
non è nata et è etterna.

XI

«E questa natura esercita nelle ottime cose, e sono l'otti­


me cura della salute della patria, nelle quali l'animo com­
mosso et esercitato più velocemente volerà in questa se­
dia . Deh, questo sappi tosto: che già com 'elli sarà rac­
chiuso nel corpo n'uscirà fuori, e, contemplando le cose
che saranno di fuori, si astraerà maximamente dal corpo.
Però che Il' anime di coloro che ssi sono dati a' diletti del
corpo, et alle opere di quelli si saranno dati come ministri
e servi, e per impeto di luxuria, ubidienti a' diletti, han­
no corrotto e sforzato le ragioni degli uomini e degli Id-

62
dii, uscendo de' corpi si ravvolgono intorno alla Terra et
in questo luogo non tornano se non tormentate per mol­
ti secoli » .
Quelli s i partl e t io mi destai dal sonno.

63
Pietro Metastasio
Il Sogno di Scipione

Azione teatrale allusiva alle sfortunate campagne delle armi


austriache in Italia, rappresentata la prima volta con musica
del Predieri nell 'imperia! Favorita alla presenza de ' sovrani il
di primo ottobre 17 35, per festeggiare il giorno di nascita del­
l 'imperator Carlo VI, d 'ordine dell 'imperatrice Elisabetta. 54

Argomento

A pochi può essere ignoto Publio Cornelio Scipione, il di­


struttor di Cartagine. Fu egli, nipote per adozione dell'altro
che l'avea resa tributaria di Roma (e che noi, a distinzione
del nostro, chameremo sempre col solo prenome di Publio) ,
ed era figliuolo di quell'Emilio da cui Perseo, il re di Mace­
donia, fu già condotto in trionfo.55 Unl il nostro eroe cosl
mirabilmente in se stesso le virtù dell'avo e del padre, che il
più eloquente romano volle perpetuarne la memoria nel ce­
lebre sogno da lui felicemente inventato; e il quale ha servi­
to di scorta al presente drammatico componimento.

Interlocutori

SCIPIONE
LA COSTANZA
LA FORTUNA56

65
PUBLIO avo adottivo di Scipione.
EMILIO padre di Scipione.
'
CORO D EROI

L'Azione si figura in Africa nella reggia di Massinissa.

SCIPIONE dormendo, la COSTANZA e la FORTUNA


FORT. Vieni e siegui i miei passi,
O gran figlio d'Emilio.
COST. I passi miei,
Vieni, e siegui, o Scipion.
SCIP. Chi è mai l'audace
Che turba il mio riposo ?
FORT. lo son.
COST. Son io;
E sdegnar non ti déi,
FORT. Volgiti a me.
COST. Guardami in volto.
SCIP. Oh dèi,
Quale abisso di luce!
Quale ignota armonia! Quali sembianze
Son queste mai sì luminose e liete!
E in qual parte mi trovo ? E voi chi siete ?
COST. Nutrice degli eroi.
FORT. Dispensatrice
Di tutto il ben che l'universo aduna.
COST. Scipio, io son la Costanza.
FORT. Io la Fortuna.
SCIP. E da me che si vuoi ?
COST.
Nel cammin della vita Ch'una fra noi
Tu per compagna elegga.
FORT. Entrambe offriamo
Di renderti felice.
COST. E decider tu déi
Se a me più credi, o se più credi a lei.
SCIP. lo ? Ma, dèe . . . Che dirò ?

66
FORT. Dubiti!
COST. Incerto
Un momento esser puoi !
FORT. Ti porgo il crine,
E a me non t 'abbandoni ?
COST. Odi il mio nome,
Né vieni a me ?
FORT. Parla .
COST. Risolvi.
SCIP. E come ?
Se volete ch'io parli,
Se risolver degg'io, lasciate all'alma
Tempo da respirar, spazio onde possa
Riconoscer se stessa.
Ditemi dove son, chi qua mi trasse,
Se vero è quel ch'io veggio,
Se sogno, se son desto o se vaneggio.
Risolver non osa
Confusa la mente,
Ché oppressa si sente
Da tanto stupor.
Delira dubbiosa,
Incerta vaneggia
Ogni alma che ondeggia
Fra' moti del cor.
COST. Giusta è la tua richiesta. A parte a parte
Chiedi pure, e saprai
Quanto brami saper.
FORT. Sl, ma sian brevi,
Scipio, le tue richieste. Intollerante
Di riposo son io . Loco ed aspetto
Andar sempre cangiando è mio diletto.
Lieve sono al par del vento;
Vario ho il volto, il piè fugace;
Or m'adiro, e in un momento
Or mi torno a serenar.
Sollevar le moli oppresse

67
Pria m'alletta, e poi mi piace
D 'atterrar le moli istesse
Che ho sudato a sollevar.
SCIP. Dunque ove son ? La reggia
Di Massinissa, ove poc'anzi i lumi
Al sonno abbandonai,
Certo questa non è .
çosT. No: lungi assai
E l'Africa da noi. Sei nell'immenso
Tempio del ciel.
FORT. Non lo conosci a tante
Che ti splendono intorno
Lucidissime stelle ? A quel che ascolti
Insolito concento
Delle mobili sfere ? A quel che vedi
Di lucido zaffiro
Orbe maggior che le rapisce in giro ?
SCIP. E chi mai tra le sfere, o dèe, produce
Un concento sl armonico e sonoro ?
COST. L'istessa ch'è fra loro
Di moto e di misura
Proporzionata ineguaglianza. Insieme
Urtansi nel girar: rende ciascuna
Suon dall'altro distinto;
E si forma di tutti un suon concorde.
Varie cosl le corde
Son d'una cetra; e pur ne tempra in guisa
E l'orecchio e la man l'acuto e il grave,
Che dan, percosse, un'armonia soave.
Questo mirabil nodo
Che gl'ineguali unisce,
Questa ragione arcana
Che i dissimili accorda,
Proporzion s'appella, ordine e norma
Universal delle create cose.
Questa è quel che nascose,
D'alto saper misterioso raggio,

68
Entro i numeri suoi di Samo il saggio .57
SCIP. Ma un'armonia sl grande
Perché non giunge a noi ? Perché non l'ode
Chi vive là nella terrestre sede ?
COST. Troppo il poter de' vostri sensi eccede.
Ciglio che al sol si gira.
Non vede il sol che mira,
Confuso in quell'istesso
Eccesso di splendor.
Chi là del Nil cadente
Vive alle sponde appresso,
Lo strepito non sente
Del rovinoso umor.
SCIP. E quali abitatori . . .
FORT. Assai chiedesti:
Eleggi al fin.
SCIP. Soffri un istante. E quali
Abitatori han queste sedi eterne ?
COST. Ne han molti e vari in varie parti.
SCIP. In questa,
Ove noi siam, chi si raccoglie mai ?
FORT. Guarda sol chi s'appressa, e lo saprai.
'
PUBLIO, CORO D EROI, indi EMILIO, e detti.
CORO
Germe di cento eroi,
Di Roma onor primiero,
Vieni, che in ciel straniero
Il nome tuo non è.
Mille trovar tu puoi
Orme degli avi tuoi
Nel lucido sentiero
Ove inoltrasti il piè.
SCIP. Numi, è vero o m'inganno ? Il mio grand'avo,
Il domator dell' African rubello
Quegli non è ?
PUBL. Non dubitar, son quello .
SCIP. Gelo d'orror! Dunque gli estinti . . .

69
PUBL. Estinto,
Scipio, io non son.
SCIP. Ma in cenere disciolto
Tra le funebri faci,
Gran tempo è già, Roma ti pianse.
SCIP. Ah taci:
Poco sei noto a te. Dunque tu credi
Che quella man, quel volto,
Quelle fragili membra onde vai cinto
Siano Scipione ? Ah non è ver! Son queste
Solo una veste tua. Quel che le avviva
Puro raggio immortal, che non ha parti
E scioglier non si può, che vuoi, che intende,
Che rammenta, che pensa,
Che non perde con gli anni il suo vigore,
Quello, quello è Scipione: è quel non muore.
Troppo iniquo il destino
Saria della virtù, s'oltre la tomba
Nulla di noi restasse; e s'altri beni
Non vi fosser di quei
Che in terra per lo più tocca a' rei.
No, Scipio: la perfetta
D'ogni cagion Prima Cagione, ingiusta
Esser così non può. V'è dopo il rogo,
V'è mercé da sperar. Quelle che vedi
Lucide eterne sedi,
Serbansi al merto; e la più bella è questa
In cui vive con me qualunque in terra
La patria amò, qualunque offrì pietoso
Al pubblico riposo i giorni sui,
Chi sparse il sangue a benefizio altrui.
Se vuoi che te raccolgano
Questi soggiorni un dì,
Degli avi tuoi rammentati,
Non ti scordar di me.
Mai non cessò di vivere
Chi come noi morì:

70
Non meritò di nascere
Chi vive sol per sé.
SCIP. Se qui vivon gli eroi . . .
FORT. Se paga ancora
La tua brama non è, Scipio, è già stanca
La tolleranza mia. Decidi . . .
COST. Eh lascia
Ch'ei chieda a voglia sua. Ciò ch'egli apprende
Atto lo rende a giudicar fra noi.
SCIP. Se qui vivon gli eroi
Che alla patria giovar, tra queste sedi
Perché non miro il genitor guerriero ?
PUBL. L'hai su gli occhi e noi vedi ? ,
SCIP. E vero, è vero .
Perdona, errai, gran genitor; ma colpa
Qelle attonite ciglia
E il mio tardo veder, non, della mente,
Che l'immagine tua sempre ha presente.
Ah sei tu! Già ritrovo
L'antica in quella fronte
Paterna maestà. Già nel mirarti
Risento i moti al core
Di rispetto e d 'amore. Oh fausti numi !
Oh caro padre! Oh lieto dl! Ma come
Sl tranquillo m'accogli ? Il tuo sembiante
Sereno è ben, ma non commosso . Ah dunque
Non provi in rivedermi
Contento eguale al mio!
EMI. Figlio, il contento
Fra noi serba nel Cielo altro tenore.
Qui non giunge all'affanno, ed è maggiore.
SCIP. Son fuor di me. Tutto quassù m'è nuovo,
Tutto stupir mi fa.
EMI. Depor non puoi
Le false idee che ti formasti in terra,
E ne stai sl lontano. Abbassa il ciglio:
Vedi laggiù d'impure nebbie avvolto

71
Quel picciol globo anzi quel punto ?
�CIP. Oh stelle !
E la terra ?
EMI. Il dicesti.
SCIP. E tanti mari
E tanti fiumi, e tante selve e tante
Vastissime province, opposti regni,
Popoli differenti ? E il Tebro ? E Roma ? . . .
E M I . Tutto è chiuso in quel punto.
SCIP. Ah padre amato,
Che picciolo, che vano,
Che misero teatro ha il fasto umano!
EMI. Oh se di quel teatro
Potessi, o figlio, esaminar gli attori;
Se le follie, gli errori,
I sogni lor veder potessi, e quale
Di riso per lo più degna cagione
Gli agita, gli scompone,
Li rallegra, gli affligge o gl'innamora,
Quanto più vil ti sembrerebbe ancora !
Voi colaggiù ridete
D'un fanciullin che piange,
Ché la cagion vedete
Del folle suo dolor.
Quassù di voi si ride,
Ché dell'età sul fine,
Tutti canuti il crine,
Siete fanciulli ancor.
SCIP. Publio, padre, ah lasciate
Ch'io rimanga con voi. Lieto abbandono
Quel soggiorno laggiù troppo infelice.
FORT. Ancor non è permesso.
COST. Ancor non lice.
PUB. Molto a viver ti resta.
SCIP. lo vissi assai;
Basta, basta per me.
EMI. Si, ma non basta

72
A' disegni del Fato, al ben di Roma,
Al mondo, al Ciel.
PUB . Molto facesti e molto
Di più si vuol da te. Senza mistero
Non vai, Scipione, altero
E degli aviti e de' paterni allori.
I gloriosi tuoi primi sudori
Per le campagne ibere
A caso non spargesti; e non a caso
Porti quel nome in fronte
Che all'Africa è fatale. A me fu dato
Il soggiogar si gran nemica; e tocca
Il distruggerla a te. Va, ma prepara
Non meno alle sventure
Che a' trionfi il tuo petto. In ogni sorte
L'istessa è la virtù. L'agita, è vero,
Il nemico destin, ma non l'opprime;
E quando è men felice, è più sublime.
Quercia annosa su l'erte pendici
Fra 'l contrasto de' venti nemici
Più sicura, più salda si fa.
Ché se 'l verno le chiome le sfronda,
Più nel suolo col piè si profonda;
Forza acquista, se perde beltà.
SCIP. Giacché al voler de' Fati
L'opporsi è vano, ubbidirò.
COST. Scipione,
Or di scegliere è tempo.
FORT. !strutto or sei;
Puoi giudicar fra noi.
SCIP. Publio, si vuole
Ch'una di queste dèe . . .
PUB. Tutto m'è noto.
Eleggi a voglia tua.
SCIP. Deh mi consiglia,
Gran genitor!
EMI. Ti usurperebbe, o figlio,

73
La gloria della scelta il mio consiglio.
FORT. Se brami esser felice,
Scipio, non mi stancar: prendi il momento
In cui t'offro il mio crin.
SCIP. Ma tu che tanto
Importuna mi sei, di' : qual ragione
Tuo seguace mi vuoi ? Perché degg'io
Sceglier più te che l'altra ?
FORT. E che farai
S 'io non secondo amica
L'imprese tue ? Sai quel ch'io posso ? Io sono
D ' ogni mal, d'ogni bene.
L'arbitra colaggiù. Questa è la mano
Che sparge a suo talento e gioie e pene,
Ed oltraggi ed onori,
E miserie, e tesori. Io son colei
Che fabbrica, che strugge,
Che rinnova gl'imperi. Io, se mi piace,
In soglio una capanna, io, quando voglio,
Cangio in capanna un soglio. A me soggetti
Sono i turbini in cielo,
Son le tempeste in mar. Delle battaglie
lo regolo il destin. Se fausta io sono,
Dalle perdite istesse
Fo germogliar le palme; e s'io m'adiro,
Svelgo di man gli allori
Sul compir la vittoria ai vincitori.
Che più ? Dal regno mio
Non va esente il valore,
Non la virtù; ché, quando vuol la Sorte,
Sembra forte il più vii, vile il più forte;
E a dispetto d'Astrea58
La colpa è giusta e l'innocenza è rea.
A chi serena io miro,
Chiaro è di notte il cielo;
Torna per lui nel gelo
La terra a germogliar.

74
Ma se a taluno io giro
Torbido il guardo e fosco,
Fronde gli niega il bosco,
Onde non trova in mar.
SCIP. E a sl enorme possanza
Chi s'opponga non v'è ?
COST. Sl, la Costanza.
Io, Scipio, io sol prescrivo
Limiti e leggi al suo temuto impero.
Dove son io non giunge
L'instabile a regnar; ché in faccia mia
Non han luce i suoi doni, ,
Né orror le sue minacce. E ver che oltraggio
Soffron talor da lei
Il valor, la virtù; ma le bell'apre,
Vindice de' miei torti, il tempo scopre.
Son io, non è costei,
Che conservo gl'imperi: e gli avi tuoi,
La tua Roma lo sa. Crolla ristretta
Da Brenno, è ver, la libertà latina
Nell'angusto Tarpeo, ma non ruina .
Dell' Aufido alle sponde
Si vede, è ver, miseramente intorno
Tutta perir la gioventù guerriera
Il console roman, ma non dispera.
Annibale s'affretta
Di Roma ad ottener l'ultimo vanto,
E co' vessilli suoi quasi l'adombra;
Ma trova in Roma intanto
Prezzo il terren che il vincitore ingombra.
San mie prove sl belle; e a queste prove
Non resiste Fortuna. Ella si stanca;
E al fin cangiando aspetto,
Mia suddita diventa a suo dispetto.
Biancheggia in mar lo scoglio,
Par che vacilli, e pare
Che lo sommerga il mare

75
Fatto maggior di sé.
Ma dura a tanto orgoglio
Quel combattuto sasso;
E 'l mar tranquillo e basso
Poi gli lambisce il piè.
SCIP. Non più. Bella Costanza,
Guidami dove vuoi. D'altri non curo;
Eccomi tuo seguace.
FORT. E i doni miei ?
SCIP. Non bramo e non ricuso.
FORT. E il mio furore ?
SCIP. Non sfido e non pavento.
FORT. In van potresti,
Scipio, pentirti un dl. Guardami in viso:
Pensaci, e poi decidi.
SCIP. Ho già deciso.
Di' che sei l'arbitra
Del mondo intero,
Ma non pretendere
Perciò l'impero
D'un'alma intrepida,
D'un nobil cor.
Te vili adorino,
Nume tiranno,
Quei che nonprezzano,
Quei che non hanno
Che il basso merito
Del tuo favor.
FORT. E v'è mortai che ardisca
Negarmi i voti suoi ? che il favor mio
Non proccuri ottener ?
SCIP. Sl, vi son io.
FORT. E ben, provami avversa . Olà, venite,
Orribili disastri, atre sventure,
Ministre del mio sdegno:
Quell'audace opprimete; io vel consegno.
SCIP. Stelle, che fia ? Qual sanguinosa luce!

76
Che nembi! che tempeste!
Che tenebre son queste! Ah qual rimbomba
Per le sconvolte sfere
Terribile fragor! Cento saette
Mi striscian fra le chiome; e par che tutto
Vada sossopra il ciel. No, non pavento,
Empia Fortuna: in van minacci; in vano,
Perfida, ingiusta dea . . . Ma chi mi scuote ?
Con chi parlo ? Ove son ? Di Massinissa
Questo è pure il soggiorno. E Publio ? E il padre ?
E gli astri ? E 'l Ciel ? Tutto sparl. Fu sogno
Tutto ciò ch'io mirai ? No, la Costanza
Sogno non fu: meco rimase. lo sento
Il nume suo che mi riempie il petto.
V 'intendo, amici dèi: l'augurio accetto.
LICENZA
Non è Scipio, o signore, (ah chi potrebbe
Mentir dinanzi a te!) non è l'oggetto
Scipio de' versi miei. Di te ragiono,
Quando parlo di lui. Quel nome illustre
E un vel di cui si copre
Il rispettoso mio giusto timore.
Ma Scipio esalta il labbro, e Carlo il core.
Ah perché cercar degg'io
Fra gli avanzi dell'oblio
Ciò che in te ne dona il Ciel!
Di virtù chi prove chiede,
L'ode in quelli, in te le vede:
� l'orecchio ognor del guardo
E più tardo e men fedel.
CORO
Cento volte con lieto sembiante,
Grande Augusto, dall'onde marine
Torni l'alba d'un df sì seren:
E rispetti la diva incostante
Quella fronda che porti sul crine,
L'alma grande che chiudi nel sen.

77
Angelus Maius
Sanctissimo Domino Nostro
Pio VII Pontifici Maximo

Beatissime Pater. Ego a Te plurimis beneficiis affec­


tus, et, quod mihi maxime iucundum est, in vaticano
bonarum artium domicilio colloca tus, nunc debitum
grati animi officium atque indus triae meae testimo­
nium reverenter exhibeo. Et si autem e pontificio tot
codicum pretiosorum thesauro permulta ineditae mo­
numenta sapientiae depromenda sunt, tamen quod tuo
nomini , Pater Sanctissime, inscriberetur, nihil prope
erat aptius quam Ciceronis egregiae de re publica reli­
quiae, et M. Aurelii ac Frontonis epistulae . Sed enim
litteras eius aetatis, quae pietate Antoninorum incla­
ruit, alius propediem mihi erit apud S anctitatem tuam
commendandi locus . Nunc oro, Pontifex Maxime, ut
politicam Ciceronis doctrinam iure veluti hereditatis
Tibi obvenientem benigne excipias: quam elapsam ma­
nibus hominum Silvester Papa I I , in apostolico quam­
quam fastigio nondum positus, ad se olim deferendam
curabat; Clemens autem Papa VI viro illustri Petrar­
chae summis opibus conquirendam mandavit; denique
Paulus V palimpsesti latebris abditam multisque iam
membris imminutam e Liguriae vetere ac celebri Bene­
dictorum PP. coenobio Romam vocavit . Rursus ut li­
brum meum ad pontificales manus tuas venire clemen­
ter sina s , iusta ut opinor exempla sunt Decessorum
tuorum. Nam quum Plato, Aristoteles et Cicero prima
lumina habeantur politicorum, Plato quidem in Leonis

78
Angelo Mai
Al Santissimo Signore Nostro
Pio VII59 Pontefice Massimo

Padre Beatissimo. lo, che da te sono stato colmato di moltissi­


mi benefici, e, cosa che mi rallegra più di ogni altra, da te es­
sendo stato collocato nella dimora vaticana delle arti dell'inge­
gno,60 esibisco ora con ossequio la testimonianza dovuta del
mio animo grato e della mia sollecitudine. Sebbene in verità
moltissimi siano i documenti di inedita saggezza che attendo­
no di essere riportati alla luce dal tesoro pontificio ricco di tan­
ti preziosi codici, poiché tuttavia nel nostro caso la dedica si ri­
volgeva al tuo nome, Santissimo Padre, niente forse era più
adatto degli illustri resti del De re publica di Cicerone e delle
epistole di Marco Aurelio e di Frontone. Ma quanto ai docu­
menti epistolari di quell'epoca, che divenne celebre per la pie­
tas degli Antonini, ben presto ci sarà un'altra occasione per
raccomandarli al cospetto della Tua Santità. 61 Ora ti prego,
Pontefice Massimo, di accogliere con benevolenza la dottrina
politica di Cicerone che giunge incontro a te quasi per diritto
ereditario: essa, che era scivolata via dalle mani degli uomini,
papa Silvestro II, sebbene non ancora posto al culmine della
dignità apostolica, domandava un tempo che gli fosse riconse­
gnata;62 in seguito, papa Clemente VI con enormi mezzi diede
incarico al sommo Petrarca di ricercarla;63 infine Paolo V la ri­
condusse a Roma, sepolta dov'era nei recessi di un palinsensto
e ormai già priva di molte sue parti, da un antico e illustre mo­
nastero di Padri Benedettini di quella che fu un tempo la Li­
guria. 64 E perché tu ora con clemenza lasci che il mio libro
giunga nelle tue mani di pontefice, varrà, io credo, il giusto

79
X nomine graece primum apparuit; latina civilium Ari­
stotelis librorum interpretatio Eugenium IV patronum
nacta est : iam superest ut noster Tullius (qui male licet
affectus, splendore tamen sui nominis longe rutilat) in
Pii VII clientelam lubens veniat . Quamquam huius ob­
sequii non ea sola causa est, quod volumen de regenda
re publica ad Rectorem orbis christiani tempestive di­
gneque mittitur; verum id singulari fato congruit ra­
tioni ac moderationi prindpatus tui . Politicus enim
Cicero baud vaganti sermone disputar, sed defixo, ut
ipse ait, in romana re publica; eamque nititur, virtute
maiorum et legibus instaurandis , ab eo discrimine in­
teritus, quod ipse consul averterat, cohibere. lamvero
nostris temporibus parentem Te ac restitutorem roma­
nae dominationis nemo est qui non appellet : quam fle­
biliter extinctam lux prima benefici regni tui in vitam
subito revocavit. Mox graviore turbine exorto, qui
ta mdiu sacri pectoris tui sollicitavit quietem, num­
quam Te flecti passus es, quominus imperii pontifica­
lis perennitatem caelestibus fulcires praesidiis. lgitur
oh rem publicam tam bene tamque fortiter gestam cum
implesti orbem terrarum nominis tui gloria , tum est
amor erga Te singularis omnium hominum . Ecce au­
tem religione quam tot clades adflixerant recreata,
provinciis in laeta pace compositis, urbe innumeris or­
namentis ditata, scriptis summa aequitate prudentia­
que legibu s , renovatis litterarum et artium st udii s;
ipse Tibi iam Cicero, Pater Beatissime, novis in tua bi­
bliotheca copiis auctus gratulari videtur. Certe dignus
es, Pontifex Optime Maxime, quem tullianae eloquen­
tiae honor non mea tenuis praedicatio colat.

80
esempio dei tuoi Predecessori. Infatti, dacché Platone, Aristo­
tele e Cicerone sono considerati i primi astri della dottrina po­
litica, Platone è apparso invero per la prima volta in greco sot­
to gli auspici di Leone X;65 la traduzione latina della Politica di
Aristotele godette del patrocinio di Eugenio IV:66 non resta
dunque che il nostro Tullio (il quale, pur malconcio, tuttavia
molto riluce per lo splendore del suo nome) giunga lieto sotto
la protezione di Pio VII. E però la ragione del mio ossequio
non è soltanto questa, la dedica cioè conveniente ed opportu­
na di un volume sull'amministrazione della cosa pubblica al
Reggente del mondo cristiano; ciò tuttavia per un caso parti­
colare ben si adatta all'equilibrio e al tono del tuo governo. In­
fatti il Cicerone politico non divaga ma svolge un discorso ben
radicato, come egli dice, nello Stato romano;67 e si sforza, ri­
chiamandosi alla virtù e alle leggi degli antenati, di prevenire
in quello Stato la crisi mortale che egli stesso durante il suo
consolato era riuscito a scongiurare. Nell'epoca nostra non c'è
nessuno veramente che non ti invochi quale padre e restaura­
tore della grandezza di Roma: che, estintasi tristemente, la pri­
ma luce del tuo benefico regno all'improvviso riportò in vita.
Poi prodottosi un più grave sconvolgimento, che cosl a lungo
ha turbato la serenità del tuo sacro cuore, non ti sei mai fatto
piegare senza sostenere con l'aiuto del cielo la perennità del
potere papale. Pertanto grazie ad uno Stato cosl bene e con
tanta fortezza amministrato non soltanto hai riempito il mon­
do della gloria del tuo nome ma a te si rivolgono con singolare
affetto tutti gli uomini. Ma ecco che dopo che la religione, che
tante disgrazie avevano afflitto, è stata rifondata, una pace si­
cura è stata restituita alle province, Roma è stata abbellita con
innumerevoli ornamenti, sono state redatte leggi con estrema
equità e saggezza, è stato rinnovato lo studio delle lettere e del­
le arti, ormai dunque anche Cicerone, Padre Beatissimo, sem­
bra rallegrarsi essendo stato accresciuto di un nuovo esempla­
re nella tua biblioteca. Ma certamente tu meriti, Pontefice Ot­
timo Massimo, di essere onorato non dal mio debole elogio
bensl dalla grandezza dell'eloquenza tulliana.

81
Note
1 Un breve confrontro tra il mito di Er ed il Sogno di Scipione è già in Ago­
stino, De civitate dei, 22, 28.
2 La celebre scoperta del Mai fu salutata con entusiasmo da Giacomo Leo­
pardi nella sua famosa canzone Ad Angelo Mai quand'ebbe trovato i libri di
Cicerone 'Della R epubblica', composta nel gennaio 1 820. L'editio princeps
del De re publica, curata dallo stesso Mai, fu pubblicata nel 1822. L'ulti­
mo autore che cita il De re publica di prima mano è probabilmente Isido­
ro di Siviglia (morto nel 636 d.C.). Una testimonianza dubbia è quella
contenuta in una lettera di Gerberto di Aurillac del 986 d.C. (nr. 86 ed.
F. Weigle), nella quale il De re publica risulta essere menzionato in un bre­
ve elenco di « Tulliana opuscula>>. Gerberto allude qui però forse al solo
Sogno di Scipione (cfr. R. Caldini Montanari, Tradizione mediev ale ed edi­
zione critica del Somnium Scipionis, Firenze, SISMEL, Edizioni del Gal­
luzzo, 2002, pp. 421-23).
3 E. Malato (Dante, Roma, Salerno Editrice, 1 999, p. 347) segnala tra i
modelli della Divina Commedia, insieme al Sogno di Scipione, la letteratu­
ra medievale delle 'visioni' .
4 «Che Dante - scriveva Alessandro Ronconi - abbia conosciuto il Som­
nium Scipionis, se si pensa alla sua lunga diffusione lungo il corso del Me­
dioevo, grazie a Macrobio, è in sé altamente verosimile: se e dove siano
da vederne le tracce o le riprove, è questione aperta» (Enciclopedia Dan­
tesca, s.v. Cicerone, p. 995). Un'analogia tra In/ II, 76-78 e Somn. Scip.
q - r 9 fu segnalata a suo tempo da E. Moore (Studies in Dante, First Se­
ries, Scripture and Classica! Authors in Dante, Oxford 1 8 9 6 , p. 262).
Un'ampia messe di somiglianze contenutistiche e stilistiche è stata però
raccolta in seguito da Georg Rabuse per la voce Macrobio dell' Enciclope­
dia Dantesca. Le prove forse più cogenti si trovano tut tavia in Ch. Richel­
mi, Circulata melodia. L 'armonia delle sfere nella Commedia di Dante Ali­
ghieri (http://users.unimi.it/-gpiana/dm5dancr.htm). A quelle raccolte dal­
la Richelmi aggiungerei una possibile eco del ciceroniano tantus sonus
(Somn. 18) in Dante, Par., l , 84 di cotanto acume.

85
5 Scipione si rivolge ai suoi interlocutori nel dialogo del De re publica.
6 Scipione Emiliano giunse in Africa nel l49 a.C. per prendere parte alla
terza guerra punica, che si sarebbe conclusa con la distruzione di Cartagi­
ne nel l46 a.C. L'esercito romano era guidato dai consoli Mania Manilio
e Lucio Marcio Censorino. Allora tribuna militare, Scipione era al coman­
do della quarta legione, che insieme alla terza riceveva ordini dal console
Manilio, il quale è peraltro uno degli interlocutori del dialogo del De re
publica. M. ' Mani/io consuli, la lezione accolta da Ziegler, è congettura del
Sigonio. R. Montanari Caldini (Cum in A/ricam venissem hoc Mani/io con­
su/e, « Prometheus» 10, 1984, pp. 224-40) ha proposto invece di accoglie­
re la lezione hoc Mani/io consule tramandata nel solo codice Paris, Bibl.
Nat., n.a. lat. 454.
7 Re della Numidia, con la sua celebre cavalleria Massinissa aveva contri­
buito alla vittoria di Scipione Africano contro Annibale a Zama nel 202
a.C. All'epoca della visita dell'Emiliano, nel l49 a.C., egli aveva ormai 9 1
anni.
8 Nel mondo antico, presso numerose popolazioni orientali e africane, il

Sole era venerato come la principale delle divinità.


9 Massinissa allude naturalmente a Scipione Africano, nonno adottivo di
Scipione, la cui figura il nipote evocava grazie al suo stesso nome (Publio
Cornelio Scipione).
10 Apparatus fa riferimento in particolare al banchetto: cfr. Cic. Phil. 2,
1 0 1 , Or. 83, Vat. 3 1 .
1 1 I codici più antichi leggono qui de via (anziché de via /essum); altri testi­
moni recano invece defessum via. La lezione de viafessum adottata da Zie­
gler sembra trovare riscontro in Cic. Acad. l , l nisi de via /essus esset.
12 Si allude qui ad un celebre luogo enniano (Ann. l , 5-6 somno leni placi­
doque revinctus/ visus Homerus adesse poeta), tramandato da Cic. Luc. 16,
51. Secondo A. Ronconi (Cicerone, Somnium Scipionis, intr. e comm. di
A. Ronconi, Firenze, La Nuova Italia, 19672 , p. 63), questo riferimento
sarebbe una semplice reminiscenza letteraria. Secondo invece U. Todini
(L'altro Omero, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1992, p. 16, n. 5),
esso indicherebbe l'adesione di Cicerone alla teoria della metempsicosi.
" Al momento della morte di Scipione Africano, nel l83 a . C . , l'Emiliano
aveva circa due anni. Il ritratto di famiglia (imago) era la maschera di ce­
ra collocata nell'atrio della dimora avita.
14 Altri intende trade memoriae nel senso di « tramanda ai posteri ».
1 5 Paene mi/es allude al fatto che nel 149 a.C. Scipione aveva il grado di
tribuna militare, dunque era poco più che un semplice soldato.
16 Dopo essere stato adottato dall'Africano, l'Emiliano, figlio del console
Lucio Emilio Paolo, assunse il cognome del nonno adottivo.
1 7 Scipione divenne console nel 1 4 7 a . C . , censore nel l42 a . C . , console
per la seconda volta nel 1 34 a.C. La lunga ambasceria qui ricordata risale

86
invece agli anni 140- 139 a.C. La città di Numanzia, roccaforte dei Celti­
beri, fu da lui conquistata nell'autunno del 1 3 3 a.C.
1 8 Si allude a Tiberio Gracco, figlio di Cornelia, figlia di Scipione Africa­
no. Costui promosse la famosa legge agraria mentre l'Emiliano era impe­
gnato nell'assedio di Numanzia.
19 Cioè 56 ( = 8x7) anni solari, quanti l' Emiliano ne avrebbe effettiva­
mente vissuto (dal l85 al l29 a.C.).
20
La teoria secondo cui alcuni numeri erano da considerare perfetti (gr.
tèleioi, lat. pieni) era fatta risalire a Pitagora, il quale l'avrebbe appresa da­
gli Egizi (cfr. Diod. l, 98, 2). L'8 era ritenuto perfetto perché otto erano
i pianeti allora conosciuti, il 7 perché era la somma del pari e del dispari
(cfr. Fav. Eu!. Disput. de Somn. Scip. 12). Secondo Macrobio, la durata
della vita di Scipione era perfetta perché prodotto del pari (8), madre del­
le cose, e del dispari (7), padre delle cose.
21 Circuitus naturalis indica qui il percorso dello zodiaco.
22
Nel 129 a.C., nel giorno in cui avrebbe dovuto parlare al popolo sulla
questione agraria, Scipione fu trovato morto nel proprio letto e non poté
più assumere quindi i poteri di dittatore. Le fonti oscillano tra la versio­
ne della morte violenta (per la quale sembra qui propendere lo stesso Ci­
cerone), di cui furono accusati alcuni esponenti del partito graccano fami­
liari di Scipione, e quella della morte naturale.
21
Gaio Lelio , protagonista del De amicitia e uno dei personaggi del De re
publica, fu tra gli amici più cari di Scipione, insieme al quale egli aveva
combattuto a Cartagine.
24
St! è correzione degli editori (i codici leggono et) .
2' Cfr. Lucr. 2, 647 immortali aevo summa cum pace /ruatur.
26 Cfr. Cic. De re pub. l, 2 5 : <da cosa pubblica è cosa del popolo, ma po­
polo non è una società di uomini costituita in qualsiasi modo (hominum
coetus quoquo modo congregatus), bensl una società di molti uomini fonda­
ta su di un accordo di diritto e per l'utilità comune (coetus multitudinis iu­
ris consensu etutilitatis communione sociatus)>>.
27
Il concetto risale ad Eraclito, fr. 62 DK. L' immagine del carcere è trat­
ta invece da Plat. Phaed. 67d.
28
Cfr. Cic. sen. 2 1 , 77 . . . qui terras tuerentur.
29 Secondo una teoria attribuita già a Talete, la Luna brillava del riflesso
della luce solare.
10 Nell'antichità si pensava che la sfera delle stelle fisse ruotasse da est ad
ovest; in direzione opposta si riteneva che ruotassero i pianeti.
" Cfr. Dante, Par. 10, 28-30 lo ministro maggior de la natura./ che del va­
/or del ciel /o mondo imprenta/ e col suo lume il tempo ne misura.
" Venere e Mercurio sono qui definiti comites del princeps celeste con un lin­
guaggio tratto dalla sfera politica (cfr. Catuli. 28, l Pisonis comites). Non si può
però del tutto escludere che essi fossero considerati da Cicerone quali satelliti

87
in senso astronomico del Sole: si tratterebbe in tal caso di una forma di <<rudi­
mentale eliocentrismo», come fu osservato già da A. Ronconi (op. cit., p. 105).
33 Diog. Laer. 9, 2 1 scrive che Parmenide per primo aveva affermato che
la terra era di forma sferica e si trovava al centro dell'universo (en mésoi).
H Interoallis coniunctus imparibus è lezione da preferire ad interoallis di­
siunctus imparibus, che è lezione insinuatasi probabilmente per banalizza­
zione nella tradizione indiretta (Favonio Eulogio e Macrobio). Nella sua
quinta edizione del De re publica ( 1 960, p. 1 3 1 ) , K. Ziegler, che nella
quarta aveva optato per la tradizione indiretta ( 1 958, p. 1 3 1), ha accolto
in modo definitivo la tradizione diretta.
Jl Il passo sarà imitato da Boezio, inst. mus. l, 2 qui enimfieri p otest, ut tam
velox caeli machina taciti silentisque cursu moveatur?
J6 Acuto et excitato è lezione restituita grazie a Boezio, inst. mus. l , 27. Per
influsso del precedente acute, sia i manoscritti che Macrobio hanno infat­
ti lezioni erronee (i primi acute et excitato, il secondo acute excitato).
H Venere e Mercurio.
Js Il numero 7 era considerato perfetto perché somma del pari e del dispa­
ri: vedi Favonio Eulogio, Disp. de Somn. Scip. 12, il quale scrive che tale
numero multum in natura dominatur (sette erano infatti le stelle dell'Orsa,
sette le fasi lunari).
J• Cfr. Quint. inst. or. l, 10, 12 « nessuno potrebbe dubitare che uomini
famosi per la loro sapienza abbiano avuto particolare interesse per la mu­
sica, dal momento che Pitagora e i suoi seguaci diffusero l' opinione, ere­
ditata senza dubbio fin dall'antichità, che il mondo stesso è stato costitui­
to secondo un criterio razionale in un secondo momento imitato dalla lira
(mundum ipsum ratione esse compositum, quam postea sit lyra imitata), e
non contenti di quella concordia che regna tra elementi differenti e che
chiamiamo 'armonia', essi hanno anche attribuito un suono a questi mo­
vimenti».
40 Secondo Aristotele (cael. 2, 9, 290b), il suono dei pianeti non poteva es­
sere udito dagli uomini perché precedente il momento della loro nascita.
41 Riguardo alle cascate d'acqua di Catadupa (dal gr. katadoupéo, 'cado
con rumore'), che erano note già ad Erodoto, Seneca, nat. quaest. 4, 2, 5
scrive che i Persiani che abitavano in quella regione per il rumore furono
costretti a spostarsi ad quietiora.
42 Giamblico, La vita pitagorica, 65 afferma che il solo Pitagora era in gra­

do di udire la musica dei pianeti. Nel Sogno di Scipione Cicerone sembra


tuttavia far propria la teoria secondo cui quel suono poteva anche essere
udito in sogno (cfr. W. Burkert, Lore and science in ancient pythagorism,
Harvard University Press 1972, p. 357). Nella Divina Commedia, tale mu­
sica, invece, com'è stato osservato, «risuona alla fantasia del Poeta che ha
compiuto la sua purificazione sulla cima della montagna santa, dopo aver
attraversato il duplice regno del peccato» (B. Nardi, La novità del suono e

88
'l grande lume, in Saggi di filosofia dantesca, Firenze, La Nuova Italia,
I967, p. 77).
41 Obliqui (gr. perioikoi) indica coloro che abitano sul nostro stesso meridia­
no ma nell'emisfero australe; transversi (gr. àntoikoi), coloro che abitano nel
nostro stesso parallelo ma sul meridiano opposto; adversi (gr. antìpodes)
quanti abitano infine nell'emisfero australe sul meridiano opposto al nostro.
44 L'equatore.
" Gli estremi limiti orientali (a nord-est e a sud-est) del mondo allora co­
nosciuto. A questo passo allude Boezio, cons. 2, 7 aetate denique M. Tulli,
sic ut ipse quodam loco significat, nondum Caucasum montem Romanae rei
publicae fama transcenderat. lvi però il riferimento un po' vago a Cicerone
ha indotto alcuni moderni (Usener, Plasberg) a ritenere che Boezio non
avesse conoscenza diretta del Sogno di Scipione (di opinione contraria P.
Courcelle, La Consolation de Phi/osophie dans la tradition littéraire. Antécé­
dents et postérité de Boèce, Paris, Études Augustiniennes, I967, p. 123) .
46 Aquilone o Borea era il vento che soffiava da nord; l 'austro o astro era
invece il vento piovoso del sud.
4 7 Riferimento alla teoria stoica dei cataklusmòi e delle ekpuròseis.
48 L'anno cosmico (magnus annus) non era calcolato nell'antichità in modo
unanime. Secondo Eraclito, comprendeva I0800 anni solari; secondo Pla­
tone, 15000.
49 Cfr. Cic. Tusc. I, 26, 65 animus qui ... ut ego dico, divinus est, ut Euripi­

des dicere audet, deus.


'° Cicerone traduce qui un famoso passo platonico (Phaedr. 245c touto pe­
ghè kai archè kinéseos). Lo stesso luogo platonico è ripreso anche in Cic.
Tusc. I, 22, 5 3 .
" Cicerone ritornerà sull'argomento i n Tusc. I , 3 1 , 74-75 <da vita del fi­
losofo, sempre secondo il medesimo [Platone: cfr. Phaed. 67d], è tutta una
preparazione della morte. In realtà, che altro facciamo quando cerchiamo
di svincolare l'anima dal piacere, cioè dal corpo, dalle nostre sostanze, che
sono a sostegno e servizio del corpo, dall'attività politica, da ogni affare,
che facciamo, dico, se non richiamare l 'anima in se stessa, costringerla ad
una vita autonoma, e soprattutto separarla dal corpo ? Ma separare l'ani­
ma dal corpo vuoi dire imparare a morire, e nient'altro. Perciò, dà retta a
me, esercitiamoci a ciò e teniamoci disgiunti dal corpo, cioè abituiamoci a
morire. Cosl, finché staremo in questo mondo, la nostra condotta sarà si­
mile a quella vita celeste, e, quando liberàti da questi legami arriveremo
lassu, il viaggio dell'anima sarà meno rallentato. Giacché, le anime che ri­
masero sempre nelle pastoie del corpo, anche quando se ne sono liberate,
procedono più lentamente, come coloro che per molti anni rimasero in ca­
tene. Quando giungeremo là, allora finalmente vivremo. Questa vita in­
fatti è in realtà una morte, e potrei farne il compianto, se fosse gradito»
(trad. di Nino Marinone).

89
52 Scrive Favonio Eulogio (Disputatio de Somnio Scipionis, l , l) che Cice­
rone avrebbe composto il Sogno di Scipione per dimostrare che «i discorsi
sull'immortalità dell'anima e sul cielo non erano fantasie di filosofi so­
gnanti o favole inverosimili, derise dagli epicurei, ma congetture di uomi­
ni saggi>> (v idelicet scite significans haec, quae de animae immortalitate dice­
rentur caeloque, nec somniantium philosophorum esse commenta nec fabulas
incredibiles, quas Epicurei derident, sed prudentium coniecturas).
53 Cosl nei manoscritti si conclude il testo del Sogno di Scipione. Non è cer­
to però che finisse con queste precise parole anche il dialogo del De re pu­
blica (vedi su ciò R. Caldini Montanari, op. cit., p. 247).
54 Il libretto del Metastasio sarebbe poi stato musicato in numerose altre oc­
casioni e infine anche da Mozart (KV 126) e rappresentato nel 1772 a Sali­
sburgo in occasione dell'insediamento del principe-arcivescovo Hieronymus
Joseph Franz von Paula conte di Colloredo. Per un elenco delle rappresenta­
zioni, vedi D. Faravelli, Cicerone, Metastasio, Mozart: il Sogno di Scipione, in
www .rivistazetesis. it/Mozartsognoscipione.htm (p. 20, n. 7).
55 Lucio Emilio Paolo, padre di Scipione Emiliano, sconfisse Perseo, re di
Macedonia, a Pidna nel l68 a.C.
5 6 I due personaggi allegorici della Costanza e della Fortuna, assenti nel
Sogno di Scipione ciceroniano, derivano dal quindicesimo libro dei Punica
di Silio Italico (vv. 20-128), dove Scipione è chiamato a compiere una
scelta analoga tra la Virtus e la Voluptas: ivi peraltro, nei vv. 105-6, la
Virtù evoca anche la dea Fortuna e i suoi doni fugaci (nec bona censendum,
quae Fors infida dedisse/ atque eadem rapuisse valet) .
57 Pitagora.
58 Dea della giustizia, identificata con Dike.
59 Gregorio Luigi Barnaba Chiaramonti, nato a Cesena il 14 agosto
1742, fu eletto pontefice il 14 marzo 1 800 col nome di Pio VII. Insie­
me con il suo celebre segretario di stato, il cardinale Consalvi, risollevò
le sorti della Chiesa cattolica rimasta prostrata dall'influsso della rivolu­
zione francese. Il quadro politico mutò tuttavia ben presto a causa del­
le mire espansionistiche di Napoleone, che fu incoronato imperatore a
Parigi proprio da Pio VII nel 2 dicembre 1 804. Ciò - com'è noto - non
valse però a ridurlo a più miti pretese: il 17 maggio 1 809 Napoleone
avrebbe decretato la fine del potere temporale dei papi e nella notte tra
il 5 ed il 6 luglio avrebbe fatto anche arrestare Pio VII. Il papa poté
rientrare trionfalmente a Roma soltanto il 24 maggio 1 8 1 4 (morirà il 20
agosto 1 823). La dedica dell'edizione del De re pub/ica di Angelo Mai è
del 1822.
60
Il Mai ( 1 782-1854), gesuita, già scrittore della Biblioteca Ambrosiana
(dal 1 8 1 0), fu nominato prefetto della Biblioteca Vaticana nel l 8 1 9 (di­
venterà cardinale nel 1838). Egli scoprl nuovi fondamentali testi dell'an­
tichità: frammenti di orazioni ciceroniane, testi giuridici pregiustinianei,

90
le lettere di Frontone, citate nella dedica qui di seguito, nonché il De re
publica di Cicerone ritrovato in un palinsesto della Biblioteca Vaticana
che egli finl col danneggiare avendo abusato, per ricostruire la scrittura
inferiore del codice, di un potente reagente chimico quale l'acido gallico
(a quel tempo - com'è noto - non era infatti ancora stata inventata la lam­
pada di Wood). Celebri quanto burrascosi furono i suoi rapporti con un
altro grande scopritore di manoscritti della sua stessa epoca, Barthold
Georg Niebuhr, della cui preziosa collaborazione il Mai peraltro si avval­
se proprio per l'edizione del De re publica. Egli fu inoltre il curatore delle
seguenti importanti sillogi editoriali: Scriptorum veterum nova collectio (lO
voli., 1825-38); Classicorum auctorum e Vaticanis codicibus editorum series
( 1 0 voli. , 1828-38); Spicilegium Romanum (10 voli . , 1839-44); Nova Pa­
trum Bibliotheca (7 voli., 1852-54).
61 Qui il Mai allude all'edizione accresciuta delle lettere di Frontone e di

Marco Aurelio che sarebbe stata da lui pubblicata l'anno dopo, nel 1823
(C. Frontonis et M. Aure/ii imper. Epistulae; L. Veri et Antonini Pii et Ap­
piani epistularum reliquiae; fragmenta Frontonis etscripta grammatica. Editio
prima romana plus centum epistulis aucta ex codice rescripto bibliothecae
pontificiae vaticanae, curante Angelo Maio, Romae, 1823). L' opera di
Marco Cornelio Frontone, insieme con l'epistolario di Marco Aurelio, era
stata pubblicata dal Mai per la prima volta nel 1 8 1 5 (Opera inedita, cum
epistulis item ineditis Antonini Pii, M. Aure/ii, L. Veri et Appiani, necnon
aliorum veterum fragmentis. lnvenit et commentario praevio, notisque illu­
stravit Angelus Maius, Mediolani, typis regiis, 1 8 15).
62
Il Mai allude ad una importante lettera di Gerberto di Aurillac (papa col
nome di Silvestro II dal 999 al 1003), risalente al 986 d.C., nella quale
Gerberto chiede a Costantino di Fleury, in viaggio verso Reims, dove
Gerberto allora si trovava, di portare con sé alcuni opuscoli ciceroniani
tra i quali egli menziona proprio il De re publica: comitentur - scrive infat­
ti Gerberto nella conclusione della lettera - iter tuum Tulliana opuscula ve!
de re publica ve/ in Verrem ve/ quae pro defensione multorum plurima Roma­
nae eloquentiae parens conscripsit (p. 1 14, nr. 86, rr. 16-18 Weigle) .
63 Il Petrarca cercò invano più volte di recuperare il testo del De re publi­
ca fino a rinunciare all'impresa (vd. G. Voigt, Die Wiederbelebung des
classischen Alterthums oder das erste ]ahrhundert des Humanismus, Berlino,
W. De Gruyter, 19604 [ 1859'], vol. l, p. 38).
64
=

Si tratta del celebre monastero di San Colombano a Bobbio, i cui ma­


noscritti nel diciassettesimo secolo andarono in parte a Torino, in parte a
Milano alla Biblioteca Ambrosiana (nel 1 606), in parte alla Biblioteca Va­
ticana, nel 1 6 1 8 , durante il pontificato di Paolo V (Camillo Borghese),
morto nel 1 62 1 .
65 S i allude qui all'edizione dell'opera platonica pubblicata nel 1 5 1 3 (Om­

nia Platonis opera graece. Venetiis, in aedibus Aldi et And. Soceri, mense

91
septembri, MDXIII) durante il pontificato di Leone X (Giovanni de' Me­
dici), secondogenito di Lorenzo il Magnifico, il quale fu papa dall' 1 1 mar­
zo del 1 5 1 3 , anno in cui provvide anche a riformare l'università romana,
fino al 1521.
66 È la celebre traduzione latina della Politica di Aristotele di Leonardo

Bruni, databile al 1438. Essa fu data alle stampe a Firenze nel 1478 (ve­
di Aristote, Politique, livres I et Il, texte établi et traduit par Jean Aubon­
net, Paris, Les Belles Lettres, 1960, p. CLXVI).
67 Cfr. Cic. De re p. 2, 1 1 , 22 . . . et disputes non vaganti oratione sed defixa
in una re publica.

92

Potrebbero piacerti anche