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DIRITTO ROMANO, ISTITUZIONI E STORIA – 

Eva Cantarella
I   romani   fecero   del   diritto   una   scienza,   un   sistema   articolato   di 
principi,   estratti   dalle   diverse   norme   che   regolavano   la   loro   vita 
sociale.   Esso,   attraverso   i   secoli,   è   giunto   sino   ai   nostri   giorni, 
influenzando   in   diversa   misura   il   diritto   di   molte   nazioni   moderne.   A 
partire   dall’anno   1000   circa,   infatti   il   diritto   romano,   attraverso   la 
Compilazione giustinianea in cui era stato raccolto nel secolo VI d.C., 
ricominciò   a   essere   studiato   nelle   scuole   (grazie   in   primis   a   Irnerio 
nella sua scuola di Bologna) e a essere utilizzato nella pratica in molti 
paesi europei; solo l’Inghilterra non recepì il diritto romano e mantenne 
la sua Common Law (influenzata comunque dal sistema romanistico).

Nacquero quindi due grandi famiglie di diritti di origine europea, quella 
dei diritti derivati dalla Common Law (nei vari paesi anglosassoni), e i 
diritti   di   tradizione   romanistica   (applicati   in   quasi   tutti   i   paesi 
europei i cui sistemi si basano sui principi affermati durante la seconda 
vita del diritto romano).

Tra i secoli XI e XIII lo studio del diritto romano fu opera e appannaggio 
della scuola dei glossatori (le glosse erano delle annotazioni che loro 
facevano   studiando   i   testi   giustinianei),   la   cui   opera   più   imponente   è 
quella di Accursio, composta di 96.000 glosse. Nei due secoli successivi 
(XIV   e   XV)   esso   venne   tradotto   in   principi   risolutivi   di   questioni 
scolastiche, nate nella pratica del commercio e della vita internazionale, 
che valevano in quanto communis opinio doctorum (opinione comune tra gli 
esperti).   Il   diritto   romano   ha   lasciato   tracce   di   sé   anche   quando   ha 
cessato   di   essere   diritto   vigente;   questo   accadde   nel   secolo   XIX,   a 
partire dall’emanazione del Codice francese napoleonico del 1804 e quello 
austriaco   del   1811,   cui   fecero   seguito,   i   codici   degli   Stati   italiani 
preunitari, i codici del Regno d’Italia del 1865 e, infine, nel 1900 il 
Codice civile tedesco (BGB).

Tutt’oggi   lo   studio   del   diritto   romano   continua   a   essere   parte 


fondamentale della formazione dei giuristi.

Storicizzare il diritto
I   sistemi   giuridici   che   fiorirono   nel   mondo   antico   prima   del   diritto 
romano   furono   molti.   Il   fatto   che   il   diritto   romano   si   sia   sviluppato 
acquistando un’importanza del tutto speciale non giustifica che esso sia 
prospettato come un fenomeno isolato e solitario, nato fuori della storia 
e degli influssi culturali dell’epoca. Esso non va studiato come fenomeno 
isolato   e   solitario,   ma   va   inserito   e   valutato   nell’ambiente   storico   e 
culturale in cui si sviluppò.
A. Premessa storica. La penisola prima di Roma
a) Il problema delle origini 
Secondo Erodoto, gli etruschi sarebbero venuti dalla Lidia (Asia Minore) 
tra il 1500 e il 1000 a.C., ma Dionigi di Alicarnasso sosteneva che gli 
etruschi   non   fossero   un   popolo   immigrato   da   terre   straniere,   ma   bensì 
indigeno; gli storici moderni tendono ad accettare questa seconda ipotesi, 
non   di   rado   collegando   il   sorgere   della   civiltà   etrusca   alle   ultime 
manifestazioni   di   quella   villanoviana.   Partendo   dall’insediamento 
originario in Toscana, gli etruschi si espansero a Nord sino alla Pianura 
Padana; a Sud, essi non solo dominarono Roma per una parte del secolo VI 
a.C., ma giunsero a Cuma, Napoli e nel salernitano e tra i secoli VII­VI 
a.C. avevano ormai conquistato il controllo del Mar Tirreno. Alla fine del 
secolo,   però,   il   potere   etrusco   cominciò   a   declinare;   nel   510   i   re 
etruschi   furono   cacciati   da   Roma,   ove   venne   instaurata   la   repubblica; 
questa sconfitta, insieme a quella subita nel 474 a.C. ad opera dei greci 
di Siracusa segnò per gli etruschi l’inizio della fine.

b) Le istituzioni politiche
Le città etrusche più importanti erano organizzate come città­stato, vale 
a dire come entità politiche autonome, al pari delle poleis greche e di 
Roma.   Dodici   di   esse   formavano   una   federazione   i   cui   scopi   erano 
soprattutto   economici   e   religiosi;   politicamente   invece   la   federazione 
aveva scarsa importanza. In età arcaica le città etrusche erano governate 
da un re detto “lucumone”, assistito da un consiglio degli anziani. Agli 
inizi   del   secolo   VI   a.C.,   il   re   venne   sostituito   da   magistrati   eletti 
annualmente   e   la   monarchia   venne   sostituita   da   una   repubblica   di   tipo 
aristocratico.

La   penisola   italiana   era   in   continuo   contatto   con   le   popolazioni 


orientali, che tra l’altro frequentavano da lungo tempo le sue coste. Per 
capire   la   storia   di   Roma   bisogna   tener   conto   non   solo   delle   ricche   e 
composite   esperienze   delle   diverse   civiltà   regionali,   ma   anche   degli 
influssi esterni e in particolare orientali che Roma subì sin dalle sue 
origini.

B. Premessa teorica. Cos’è il diritto?

1. Diritto e prediritto
Secondo alcuni il diritto è un fenomeno che cambia e che abbia anche una 
vita prenatale; secondo uno studioso francese, Gernet, nelle comunità la 
cui organizzazione si basa su una serie di norme che non posseggono ancora 
i   caratteri   della   giuridicità,   la   vita   dei   consociati   sarebbe   regolata 
dalle   forze   del   prediritto.   Gernet   individuò   alcuni   ambiti   nei   quali 
queste forze si manifestavano: 

• Il   primo   di   questi   ambiti   era   il   mondo   delle   relazioni 


interfamiliari, regolato dallo scambio dei doni ospitali; nel mondo 
greco   precittadino   i   rapporti   tra   stranieri   erano   regolati   dalla 
legge   dell’ospitalità   in   forza   della   quale   chi   accoglieva   nel   suo 
gruppo familiare uno straniero gli offriva doni ospitali, e chi li 
riceveva era obbligato, in futuro, a restituire ospitalità e doni a 
tutti i membri del gruppo che lo aveva ospitato. 

• Un   altro   ambito   in   cui   si   manifestavano   le   forze   del   prediritto, 


erano il mondo del pensiero magico­religioso. Secondo Gernet sarebbe 
possibile   stabilire   una   relazione   tra   la   pratica   giuridica   e   la 
credenza   negli   effetti   magici   di   determinate   parole,   oggetti, 
comportamenti; i romani credevano nell’efficacia magica delle parole 
e dei gesti. Di questa credenza rimase traccia, nelle XII Tavole, là 
dove, ad esempio, queste prevedevano il ricorso a una pratica detta 
obvagulatio, consistente nel canto di formule magiche dinanzi alla 
porta del testimone che rifiutava di recarsi in giudizio; vi erano 
numerosi   esempi   di   queste   formule   e   riti   magici   nelle   XII   Tavole 
oltre all’esempio sopra descritto; a volte invece venivano previste 
sanzioni per pratiche magiche utilizzate ad esempio per danneggiare 
le messi del campo del vicino; il rapporto tra le tecniche magiche e 
le   pratiche   giuridiche,   a   volte   era   quindi   di   continuità,   mentre 
altre volte era in antitesi, cioè quando la pratica magica veniva 
criminalizzata.

• Un altro campo d’azione privilegiato di passaggio dal prediritto al 
diritto   era   rappresentato   dai   giochi.   Gernet   ha   individuato   nella 
vittoria atletica il fatto che determinava il sorgere di un potere 
individuale   sul   premio,   che   a   suo   giudizio   era   assolutamente 
equivalente al diritto di proprietà, individuando i due elementi che 
ne   determinavano   la   nascita,   ossia,   la   presa   di   possesso   e   la 
ratifica del gruppo dinanzi al quale la procedura doveva aver luogo 
così   come   doveva   aver   luogo   il   sorgere   di   un   potere   individuale 
sulla cosa, cioè la spartizione del bottino di guerra.

2. La vendetta privata
Nelle   società   preletterate,   vendicare   i   torti   subiti   non   significava 
solamente   soddisfare   un   bisogno   privato   di   reagire   a   un   torto,   ma   un 
dovere sociale, un atto non  solo lodevole ma inevitabile; alla vendetta 
privata veniva affidata la funzione di mantenere l’assetto sociale. In età 
omerica   il   peso   sociale   di   un   individuo   e   di   un   gruppo   erano   legati 
all’onore e chi subiva un torto senza reagire perdeva l’onore; questa era 
la ragione per cui la vendetta era un dovere. In considerazione del fatto 
che   alla   vendetta   partecipavano,   accanto   all’offeso   e   all’offensore,   i 
rispettivi   gruppi   familiari,   il   sistema   della   vendetta   rischiava   di 
portare con sé una lunga catena di guerre; per ovviare a ciò, la società 
omerica aveva già sviluppato alcune regole fondamentali, considerate tra 
le   prime   regole   giuridiche   greche.   Era   entrata   nell’uso   la   prassi   di 
offrire   all’offeso   una   compensazione   in   natura   o   in   denaro   detta  poiné 
(derivata nel latino poena e in italiano pena), che, se accettata, veniva 
solennemente   consegnata   dall’offensore   all’offeso   alla   presenza   del 
popolo,   e   che   consentiva   all’offeso   di   rinunziare   onorevolmente   alla 
vendetta. Si affermò quindi la regola che l’accettazione della poiné fosse 
alternativa alla vendetta, nel senso che chi aveva accettato una poiné non 
poteva   vendicarsi   per   lo   stesso   torto.   Se   chi   aveva   pagato   una  poiné 
veniva   minacciato   o   inseguito   dall’offeso,   che   pretendeva   ancora   di 
vendicarsi,   la   collettività   interveniva   attraverso   il   consiglio   degli 
anziani   per   accertare   i   fatti;   se   la  poiné  era   stata   effettivamente 
pagata, chi rischiava di subire una vendetta illegittima, poteva fare uso 
della   forza   fisica   per   respingere   l’ingiusto   attacco;   se   non   era   stata 
pagata   allora   il   gruppo   dell’offeso   poteva   portare   a   compimento   la 
vendetta. Grazie a questa sentenza degli anziani, chi usava la forza non 
agiva   come   vendicatore   privato,   ma   come   agente   socialmente   autorizzato. 
Questo   venne   traslato   anche   nel   diritto   romano,   dove   nelle   XII   Tavole 
esisteva  una  norma  che  prevedeva  la  legge  del taglione  come  risposta  a 
determinati torti.

C.Premessa istituzionale. I gruppi sociali precittadini

1. La divisione in classi di età: i riti di passaggio
Una   serie   di   indizi   consente   di   cogliere   le   tracce   di   una   società 
organizzata sulla base delle divisione della popolazione in classi di età, 
di una popolazione in cui la popolazione, a seconda che fosse maschile o 
femminile,   apparteneva   a   diversi   gruppi   di   età   e,   passava   dal   gruppo 
inferiore al gruppo superiore attraverso la celebrazione di solenni riti 
cittadini,   detti   riti   di   passaggio;   l’individuo   doveva   trascorrere   un 
periodo   di   segregazione   in   cui   apprendeva   da   una   o   più   persone   delle 
classe superiore le competenze e le virtù necessarie a far parte del nuovo 
gruppo.   In   caso   di   maschio,   nel   passaggio   del’età   impubere   a   quella 
pubere,   il   ragazzo   doveva   apprendere   a   cacciare   e   combattere;   per   la 
ragazza ad esempio doveva imparare i compiti domestici.

A.Il quadro storico

1. Leggenda e realtà sulle origini
Roma, come altre città del Lazio, nacque a seguito di una lunga e lenta 
evoluzione, che trasformò in città un insediamento, presente ai margini 
della pianura laziale già nell’età  del bronzo. Nel secolo X  a.C.  erano 
sorte le prime capanne sul Palatino e alla fine del secolo VII a.C. questo 
primo insediamento si era già trasformato in un borgo di agricoltori e di 
pastori con i caratteri di una primitiva città. Il luogo dove poi sorse 
Roma era da tempo il punto d’incontro tra due correnti di traffico, una 
che si svolgeva tra le regioni a Nord e a Sud del Tevere e un’altra che si 
svolgeva dalle montagne al mare.

Esposti   agli   attacchi   di   altre   popolazioni,   e   in   particolare   degli 


etruschi, durante i secoli VIII­VII i villaggi di pastori si unirono, a 
scopi   di   difesa,   in   una   lega   definita  settimonzio,   in   un   nuovo   spazio 
urbano   delimitato   da   mura,   il   cui   nome   deriva   da  saepti  montes,   ossia 
monti cintati. Il  septimontium  si diede quindi un capo unico, detto  rex. 
Da questo momento Roma può essere considerata una vera e propria città, 
alla   cui   originaria   popolazione   latina   si   aggiunsero   sin   dall’inizio 
gruppi di popoli diversi, da cui la nota leggenda del ratto delle sabine; 
per   aumentare   il   numero   di   cittadini   Romolo   aprì   un  asilum  dove   dare 
rifugio a tutti i fuoriusciti dalla regione, facendo aumentare il numero 
delle componenti etniche trasformandola in una città aperta.

2. La crisi della Repubblica: quadro generale
Sul finire del II a.C. Roma dominava il Mediterraneo, ma le guerre avevano 
creato molti squilibri economici, arricchendo alcuni ceti e riducendo alla 
miseria altri.

3. L’Impero bizantino
Costantinopoli,   circondata   di   mura   possenti   e   difesa   da   un   esercito 
organizzatissimo,   rimase   per   altri   mille   anni   la   capitale   dell’Impero 
d’Oriente,   detto   anche   bizantino,   e   fu   sede   di   una   ricca   e   raffinata 
civiltà; il commercio era fiorente, l’istruzione era diffusa e la cultura 
fondeva felicemente elementi della tradizione greca, di quella romana e di 
quella cristiana.

4. Giustiniano (527­565 d.C.)
Giustiniano era nato nel 482 a Tauresio, in Macedonia da una famiglia di 
umilissime origini. Il suo nome originario era Pietro Sabbazio. Il nome 
con cui è conosciuto deriva da quello dello zio materno Giustino, che lo 
aveva adottato.

a) La riorganizzazione dello Stato e della giustizia
La   prima   preoccupazione   di   Giustiniano   fu   quella   di   riorganizzare 
l’amministrazione   dello   Stato,   decidendo   di   mettere   ordine   al   sistema 
delle   norme   giuridiche.   Giustiniano   selezionò   i   più   esperti   giuristi 
dell’epoca, e li  incaricò di  raccogliere tutte le regole di  diritto in 
vigore in una compilazione poi chiamata Corpus Iuris Civilis.

B.Il quadro sociale e costituzionale
Nei primi secoli della sua vita Roma sperimentò due forme costituzionali, 
la monarchia (753­509 a.C.) e poi la repubblica.

1. L’età regia
La prima forma costituzionale assunta da Roma fu quella dello Stato­città 
governato da un re (rex); lo stato­città era una città libera e autonoma, 
che si governava da sola, nella quale la sovranità non spettava ad una 
sola persona, e nella quale non esistevano dei sudditi, ma dei cittadini 
(cives) che delegavano a dei magistrati l’esercizio del potere sovrano. 
Nella prima fase il potere era esercitato da un solo magistrato (il rex) e 
quindi in questa fase Roma era una città­Stato monarchica.
2. La crisi della Repubblica
Quando alla metà del III secolo a.C. le istituzioni repubblicane entrarono 
in crisi, questo portò alla nascita di un nuovo sistema, caratterizzato 
dalla   concentrazione   del   potere   nelle   mani   di   un   solo   personaggio, 
princeps,   a   cui   si   deve   il   nome   del   sistema   come  principato;   questo 
sistema si diffuse rapidamente dandosi l’organizzazione interna sempre più 
burocratica di un vero e proprio impero.

a) Le ragioni economiche e sociali della crisi delle istituzioni
Le   continue   conquiste  avevano   creato   molti   squilibri   economici,   facendo 
arricchire alcuni ceti di persone e riducendone altre nella miseria più 
disperata. I motivi più importanti sono:

 La scomparsa della piccola proprietà e la nascita del latifondo. 
Non essendo in grado di competere con i prodotti provenienti dai territori 
conquistati, i piccoli contadini erano andati in rovina, e le loro terre 
erano   state   acquistate   da   coloro   che   si   erano   arricchiti   durante   le 
guerre, i cavalieri; questo fece nascere il latifondo.

 L’aumento del numero degli schiavi, il mutamento nel rapporto servo­
padrone e lo sfruttamento della manodopera servile
Sempre   a   causa   delle   guerre   si   verificò   un   radicale   mutamento   nella 
condizione   servile,   che   fu   causa   di   problemi   e   tensioni   gravissime.   In 
principio gli schiavi, anche se erano oggetti di diritto (e non soggetti), 
erano   considerati   persone   di   famiglia   e   trattati   con   umanità;   ma   sul 
finire del II secolo a.C. cambiari i rapporti schiavo/padrone, anche in 
considerazione   dei   circa   2   milioni   di   schiavi   portati   da   Pompeo   e 
utilizzati   come   strumenti   di   produzioni   e   oggetti   di   sfruttamento 
disumano.

 La nascita delle clientele politiche
Legata   alla   guerra   vi   fu   l’inurbamento   di   enormi   masse   di   contadini 
ridotti   in   miseria;   questi   nelle   città   riuscivano   a   sopravvivere   solo 
grazie alla protezione delle grandi famiglie, di cui divenivano clientes; 
questi   ovviamente,   alle   assemblee   votavano   secondo   i   desideri   dei   loro 
protettori, facendo, tra l’altro, degenerare la vita politica.

 La corruzione delle magistrature
Altro   aspetto   delle   degenerazione   della   vita   politica   è   rappresentato 
dalla corruzione delle magistrature, che non venivano più considerate come 
un   onore,   ma   fatte   per   il   solo   scopo   di   trarne   indebiti   profitti 
economici, immediati o futuri di carriera.

b) I problemi istituzionali

 L’organizzazione dei territori conquistati: le province
Dopo   l’annessione   della   Sicilia   con   la   nuova   formula   giuridica   della 
provincia, anche la Sardegna e la Corsica  e un numero sempre maggiore di 
territori fu annesso con tale formula, il cui sfruttamento contribuì al 
benessere economico dei romani; lo sfruttamento era legato al loro statuto 
giuridico;   erano   infatti   governate   da   un   proconsole   o   propretore   che 
tramite   dei   privati,   i  publicani,   riscuotevano   i   tributi   per   Roma.   Le 
province   oltre   a   fornire   tributi,   risolsero   anche   il   problema   politico 
rappresentato dalla continua richiesta di terre da parte dei cittadini, 
assegnandole ai romani.

 Una nuova figura: il suddito di Roma
La   nascita   delle   province   portò,   come   conseguenza,   alla   nascita   di   una 
nuova figura, il suddito di Roma, il cui rapporto con il governatore era 
più simile alle popolazioni orientali con i loro sovrani; questo creò non 
pochi   problemi   in   quanto   nel   territorio   coesistevano   un   ordinamento 
repubblicano e ordinamenti di fatto monarchici.

c) Le fasi della crisi

 La ricerca di soluzione all’interno delle istituzioni
In un primo momento, e in qualche misura i tentativi di risolvere la crisi 
furono   compiuti   utilizzando   le   istituzioni,   in   modo   peraltro   assai 
spregiudicato; basti pensare l’iterazione del tribunato di Caio Gracco, la 
rielezione   per   ben   sette   volte   di   Mario   al   consolato,   gli  imperia 
proconsularia conferiti per anni e anni a Cesare oppure gli strumenti cui 
Silla ricorse per attuare le sue riforme istituzionali.

 Le riforme costituzionali di Silla
Caratteristica dell’azione politica di Silla fu il tentativo di collegare 
gli   ordinamenti   provinciali   con   quello   cittadino,   valorizzando   e 
rafforzando   il   potere   del   Senato;   egli   aveva   legalizzato   il   suo   potere 
facendosi nominare  dai  comizi  dictator  legibus  scribundis et  republicae 
costituendae.   Regolamentò   il  certus   ordo   magistratuum,   con   introduzione 
del   limite   minimo   di   età   per   ogni   carica;   diede   organizzazione   alle 
province con la  lex de provinciis ordinandis  e  attuò la riforma sillana 
del processo criminale

 Il nuovo processo criminale: le quaestiones perpetuae
Il processo criminale in uso all’inizio della Repubblica era il processo 
comiziale,   davanti   ai   comizi   centuriati;   questi   giudicavano   solo   i 
colpevoli   dei   crimini   più   gravi,   e   quindi   la   repressione   della   maggior 
parte dei crimini restava sottoposta all’esercizio del potere di polizia 
magistratuale   (coercitio);   l’enorme   numero   di   giudici   si   prestava   con 
grande facilità ad essere manipolato da chi tentava e spesso riusciva a 
orientare   secondo   le   sue   esigenze   lo   svolgimento   del   processo.   Inoltre 
l’enormità dei territori, a seguito delle vittorie militari, determinò una 
crisi di fondo del sistema che non era più in grado di svolgere le sue 
funzioni.   Dopo   la   fine   della   seconda   guerra   punica   (201   a.C.),   i 
governatori delle province iniziarono ad approfittare in maniera notevole 
delle popolazioni locali e queste inviarono dei rappresentanti presso il 
Senato, incaricati di denunciare i torti subiti e chiedere la nomina di 
una commissione d’inchiesta (quaestio), per ottenere il denaro sottratto 
(pecuniarum   repetitio).   Le  quaestiones  erano   commissioni   d’inchiesta 
nominate extra ordinem, ossia in occasioni specifiche. Nel 149 a.C., però, 
una  lex   Calpurnia   de   pecuniis   repetundis,   introdusse   la   prima   quaestio 
perpetua, che sedeva in permanenza e agiva come una vera e propria corte 
criminale. Silla introdusse man mano poi una serie di commissioni in modo 
da   coprire   la   maggior   parte   dei   crimini   più   gravi   e   organizzò   in   modo 
definitivo il sistema penale. I comizi centuriati rimasero, sulla carta, 
per i crimini con giudicati da quaestio, ma nella pratica la repressione 
si perpetrò attraverso l’esercizio della coercitio magistratuale, in forma 
pubblica dinanzi a contiones assembleari. Le quaestiones iniziavano i loro 
lavori   a   seguito   di   un’accusa   (quaestio)   che   poteva   essere   mossa   da 
qualunque cittadino, composte da 30 o più giudici senatoriali e presieduti 
da   un   pretore;   ogni   quaestio   risolveva   un   solo   crimine   o   un   gruppo   di 
crimini,   che   veniva   giudicato   in   prima   e   ultima   istanza.   I   giudici 
accertavano che il crimine fosse di loro competenza e se lo riscontravano 
applicavano   la   pena,   di   solito   la  aqua   et   igni   interdictio,   ossia 
l’esilio.   Le   questioni   gravissime   erano   il  de  repetundis  (estorsioni 
commesse   dai   governatori   delle   province),  de  maiestate  (tradimento),  de 
sicariis et veneficiis  (venivano puniti e sicari e gli avvelenatori),  de 
falsis (falsificare monete, pesi e documenti), de peculato (appropriazione 
di denaro pubblico) e  de ambitu. Col nuovo sistema, i cittadini da una 
parte non erano più esposti all’arbitrio dei magistrati, ma dall’altro fu 
cancellato il diritto di appello e quindi l’eventuale condanna non poteva 
essere modificata.

 La concentrazione dei poteri
Le regole costituzionali vennero svuotate poco alla volta e si concentrò 
il potere nelle mani di una sola persona; già evidente con Pompeo, questo 
fenomeno si manifestò in modo ancor più clamoroso con Cesare, sotto il cui 
governo, le istituzioni repubblicane esistevano solo formalmente. Cesare 
nel 63 a.C. era già pontefice massimo, aveva assunto i titoli di imperator 
e di  padre  della  patria, poi si fece nominare  dittatore a vita  e si era 
fatto   attribuire  l’inviolabilità   tribunizia,   divenendo   come   i   tribuni, 
sacrosanctus. Alla sua morte, Augusto si trovò una strada già tracciata 
verso il potere pressoché assoluto, ma sapendo che i cittadini romani non 
volevano   essere   sudditi,   lasciò   formalmente   intatta   la   costituzione 
repubblicana, ma accentrò in sé tutti i poteri che questa prevedeva.

3. Il principato di Augusto (PERIODO PRECLASSICO – 367 a.C. 
/ 27 a.C.)
Nel   23   Augusto   si   fece   attribuire   i   poteri   dei   tribuni   della   plebe 
(tribunicia  potestas)  e quello  dei governatori  delle  province (imperium 
proconsolare maius et infinitum). La potestà tribunizia gli consentiva di 
controllare la città, bloccando con un veto le deliberazioni del Senato e 
le iniziative dei magistrati; il comando proconsolare gli consentiva di 
controllare le province. Inoltre egli aveva il titolo di princeps senatus 
(primo   tra   i   senatori),   che   gli   dava   il   diritto   di   aprire   le   sedute, 
parlando per primo; egli si limitò a concentrare nelle sue mani tutti i 
poteri consentiti dalla costituzione repubblicana; in considerazione del 
fatto  che fu  chiamato  Princeps,  la  forma  di  governo  da  lui  organizzata 
viene definita principato.

a) La politica interna
Grazie   alla   politica   interna   di   Augusto   le   condizioni   di   vita   generali 
migliorarono   sensibilmente.   L’imponente   rete   stradale   facilitava   gli 
scambi, le rotte marittime erano finalmente sicure, i contadini lavoravano 
alacremente la terra.

b) La riorganizzazione dello Stato e la nascita della burocrazia
Augusto si preoccupò di ricostruire e riorganizzare la burocrazia; nominò 
nuovi   organi   di   governo   sottoposti   al   suo   personale   controllo,   i   più 
importanti   tra   questi   erano   i  praefecti  (prefetti),   tra   cui   vanno 
segnalati il praefectus urbi, cui veniva affidata la città, e i praefecti 
praetorio comandanti della guardia del corpo dell’Imperatore. Le province 
vennero   divise   in   due   categorie:   province   senatorie,   governate 
personalmente da Augusto, e le province imperiali, controllate da Augusto 
attraverso dei funzionari. I tributi delle province imperiali andava nella 
cassa personale del principe, il fisco.

 I funzionari imperiali
I vari organi della Repubblica (formalmente ancora esistenti) non potevano 
che agire secondo le direttive segnate dalla volontà del principe; sempre 
un   maggior   numero   di   funzionari   fu   previsto,   la   cui   posizione   era 
antitetica a quella della magistratura. I funzionari erano nominati dal 
principe e restavano in carico il tempo da egli stabilito, ricevevano uno 
stipendio e agivano per delega del princeps.

c) La politica culturale
Nella Roma di Augusto si concentrarono i migliori intellettuali e artisti 
dell’epoca, tra cui vanno ricordati Virgilio, Orazio, Ovidio, Tibullo e 
Properzio.   Sulle   diverse   opinioni   politiche,   Augusto   si   dimostrò 
abbastanza tollerante, ma non altrettanto lo fece con Ovidio che propose 
modelli   e   ideali   di   vita   diversi   da   quelli   esaltati   dalla   propaganda 
augustea (moralizzare la vita familiare) e che fu esiliato a Tomi, sul Mar 
Nero, dove vi morì senza ottenere il perdono.

4. Dal principato all’Impero. Il modello politico augusteo 
si consolida
Augusto   aveva   creato   un   modello   politico   basato   essenzialmente   sul   suo 
potere personale; dopo la sua morte questo modello divenne stabile e si 
consolidò e i suoi successori, che si facevano chiamare Cesari, riuscirono 
nel complesso a gestire una situazione molto difficile, nel conciliare lo 
stato   formalmente   di   Repubblica   con   i   poteri   supremi   che   di   fatto 
godevano.

1. Equilibri di forze: l’imperatore, il Senato, i pretoriani, le 
legioni, la plebe
Il principale nemico dell’Imperatore fu il Senato, da questi privato dei 
suoi poteri e del suo prestigio; per governare l’imperatore aveva bisogno 
della fedeltà assoluta delle sue guardie del corpo (i pretoriani) e delle 
legioni,   ed   aveva   inoltre   il   bisogno   del   sostegno   della   plebe,   ed 
l’imperatore dava al popolo panem et circenses.

2. Politiche in materia di cittadinanza
All’interno dell’Impero vivevano popoli che parlavano lingue diverse, con 
storie e culture diverse, però Roma era riuscita nell’intento che queste 
popolazioni   si   sentissero   parte   di   un   mondo   comune;   una   delle   mosse 
politiche   fu   quella   di   concedere   progressivamente   alle   popolazioni 
sottomesse la cittadinanza romana. Questa politica non si affermò senza 
tensioni e contrasti, ad esempio, quando nel 40 d.C. l’imperatore Claudio 
propose di dare ad alcuni galli la possibilità di diventare magistrati e 
senatori in Senato vi fu chi decisamente si oppose, sostenendo che Roma 
non aveva bisogno degli stranieri al governo. La politica romana era molto 
lungimirante e le consentiva di contare su un notevole numero di persone 
che dalla concessione della cittadinanza traevano vantaggi.

3. L’elogio di Roma di un barbaro
Nel 143 d.C. il greco Elio Aristide scrive un Elogio di Roma; se si pensa 
che   sono   pronunziate   da   un   greco,   e   che   sono   rivolte   alla   potenza   che 
aveva privato la sua terra della libertà, queste parole non possono non 
colpire profondamente. La politica di concessione della cittadinanza, fu, 
certamente, una dimostrazione di grande intelligenza politica.

4. La romanizzazione e le sue conseguenze
Divenuti cittadini, i provinciali avevano acquistato un notevole peso nel 
sistema   imperiale;   all’inizio   del   secolo   II   essi   ricoprivano   più   della 
metà dei posti in Senato. Da una parte questo segnò la fine del predominio 
di   Roma,   intesa   come   città;   con   il   tempo   alcuni   provinciali   divennero 
addirittura   imperatore,   come   Traiano,   Adriano,   Filippo   l’Arabo.   La 
romanizzazione   non   avvenne   in   maniera   sempre   pacifica,   infatti   chi   non 
voleva integrarsi veniva sterminato.

5. Vita da sudditi
La vita quotidiana dei sudditi imperiali era molto diversa a seconda che 
appartenessero alla plebe o alla classe dirigente

 La plebe
La plebe affollava le città alla ricerca di qualche lavoro; però non ve 
n’era   in   quanto   svolto   dagli   schiavi.   La   vita   della   massa   del   popolo 
dipendeva dalla liberalità degli imperatori. La plebe nelle città viveva 
in abitazioni buie e malsane, le insulae, il cui primo piano era abitato 
dai  più  ricchi.  I  servizi  igienici  esistevano solo  al  piano  nobile.  Il 
massimo   divertimento   della   plebe   era   assistere   ai   diversi   giochi 
organizzati dagli Imperatori.

 La classe dirigente: dall’”ozio” al “negozio”
Nei primi due secoli dell’Impero gli appartenenti alla classe dirigente 
romana divennero funzionari del principe e la loro vita cambiò, in quanto 
furono   costretti   ad   abbandonare   la   loro   abitudine   all’otium,   dedicando 
tempo   alla   cura   di   se,   ma   furono   costretti   a   impegnarsi   in   diverse 
attività (la parola “negozio” deriva da  nec  otium, non ozio), in qualità 
di funzionari.

 Cambia la forma politica, cambia la vita, cambia la mentalità
La   classe   dirigente   aveva   dovuto   modificare   i   rapporti   con   il   suo 
prossimo.   Per   secoli   il     prestigio   di   questa   classe   era   dipeso   dalla 
capacità dei diversi  patres  di affermare il proprio potere sugli altri. 
Ora erano costretti a trattare ogni giorno con altri funzionari, di pari 
grado se non superiore al loro e questo li obbligò ad adattarsi a forme di 
autocontrollo e moderazione.

6. Il cristianesimo e i suoi effetti sulla società e sul diritto
Lentamente   nuove   religioni   e   filosofie   si   sostituirono   a   quelle   più 
diffuse   tra   le   classi   colte,   ossia   la   filosofia   stoica   e   la   religione 
pagana. Tra le filosofie ebbe grande successo quella neoplatonica, mentre 
tra   le   religioni   il   cristianesimo.   La   diffusione   di   questo   verbo   fu 
tutt’altro   che   indolore;   all’inizio   vi   fu   diffidenza   e   sospetto, 
soprattutto in quanto la Chiesa dava vita ad una comunità separata dentro 
la comunità imperiale; inoltre i cristiani ritenevano che la loro fosse 
l’unica   e   vera   religione   e   di   conseguenza   non   accettavano   le   altre   e, 
unito al fatto che vivevano in comunità isolate e chiuse, fece credere che 
fossero ribelli e pericolose; questo fece si che loro fossero additati di 
essere  colpevoli,  in  caso  di  ribellioni  e  malcontenti,  e  di  fungere  da 
capri espiatori. I cristiani, come aveva fatto Cristo, accettavano questo 
ruolo e di morire tra atroci tormenti. Il cristianesimo inoltre diffondeva 
valori di uguaglianza; questo migliorò le condizioni di vita dei poveri e 
degli schiavi, visto che chi era cristiano doveva aiutare il suo prossimo 
e doveva trattarlo con umanità. Questa fu una vera e propria rivoluzione 
che col tempo si rifletté anche sulle regole giuridiche.

7. L’amministrazione della giustizia
Durante il Principato, pur senza negare agli abitanti delle città italiche 
i   privilegi   che   derivavano   dall’essere  cives  Romani,   il   governo   delle 
regioni   venne   progressivamente   separato   da   quello   della   città   di   Roma. 
Nell’ultimo   secolo   della   Repubblica,   nelle   colonie   e   nei   municipi   i 
processi privati più   importanti spettavano al  praetor  urbanus  e quelli 
criminali   venivano   deferiti   alle  quaestiones  perpetuae  della   capitale. 
Solo la giurisdizione per i processi minori era rimasta alle magistrature 
locali dei  duoviri  o dei  quattroviri  iure  dicundo. Durante il Principato 
la giurisdizione criminale venne affidata extra ordinem al praefectus urbi 
entro 100 miglia da Roma e al  praefectus  praetorio  oltre questo limite. 
Più avanti nel tempo, Adriano istituì 4 consulares incaricati di giudicare 
extra ordinem le cause civili.

5. La monarchia assoluta (PERIODO CLASSICO 27 a.C. / 284 
d.C.)
Con   il   passare   dei   secoli,   l’Imperatore   divenne   un   monarca   assoluto; 
questo   ebbe   luogo   per   gradi,   a   partire   dagli   Antonini   e   con   maggior 
frequenza sotto i Severi; l’imperatore veniva sempre più spesso definito 
dominus, non solo per i provinciali ma anche per gli italici; al Senato 
venne   sottratta   la   giurisdizione   criminale   che   passo   nelle   mani 
dell’Imperatore   e   dei   suoi   funzionari.   L’imperatore   divenne   la   fonte 
principale   di   produzione   del   diritto.   Questo   cambiamento   si   manifestò 
nella pienezza della sua portata e delle sue conseguenze sotto il governo 
e con le riforme di Diocleziano; con egli il titolo di  dominus, non era 
solo onorifico ma anche di fatto.

a) Organi e funzioni
Della   vecchia   costituzione   restavano   in   vita,   tra   le   magistrature,   il 
consolato, la pretura e l’edilità; il consolato era ricoperto in genere da 
personaggi   di   spicco   sociale,   nominati   dall’Imperatore.   Gli   edili   e   i 
pretori   (di   nomina   imperiale)   avevano   l’unica   funzione   di   organizzare 
giochi e spettacoli pubblici; i magistrati non avevano alcun potere e lo 
stesso   dicasi   del   Senato   (due,   uno   a   Roma   e   uno   a   Costantinopoli)   che 
godeva   di   prestigio   sociale   ma   sottomesso   alla   volontà   imperiale.   La 
carica   senatoriale   era   diventata   ereditaria   e   il   numero   era   deciso 
dall’Imperatore; il Senato svolgeva il ruolo di consiglio municipale, come 
le  curiae.   Il   potere   era   nelle   mani   dei   funzionari   imperiali,   a   cui 
spettavano vari titoli; ai più vicini all’imperatore spettava il titolo di 
comites  (compagni).   Particolare   rilievo   era   occupato   dal  quaestor  sacri 
palatii  (ministro   della   giustizia),   il  magister  officiorum  (capo   delle 
cancellerie),   il  comes   sacrarum   largitionum  (ministro   delle   finanze); 
molto   importanti   erano   anche   gli  agentes   in   rebus  (polizia   segreta   e 
servizio postale) e il praepositus sacri cubiculi. Altro ruolo importante 
fu svolto dalle scholae palatinae, che avevano sostituito i pretoriani.

b) L’organizzazione territoriale
Con   Diocleziano   cambiò   anche   l’organizzazione   territoriale   dell’Impero. 
Egli infatti istituì le diocesi, circoscrizioni che riunivano più province 
e che erano a loro volta riunite in quattro prefetture, a capo di ciascuna 
delle   quali   stava   un  praefectus   praetorio,   alle   dipendenze   dirette 
dell’Imperatore.

c) Stato e Chiesa
La   religione   cristiana,   dopo   l’Editto   di   Costantino   (313),   divenne 
rapidamente la religione dell’Impero; il diffondersi della nuova fede ebbe 
indiscutibilmente effetti benefici su alcune categorie di persone ed ebbe 
risonanza positiva anche nel campo del diritto privato. Nel 325 Costantino 
riunì   il   Concilio   di   Nicea,   e   gli   imperatori   che   vennero   dopo   di   lui 
continuarono (come Costantino) a intervenire nelle questioni che nascevano 
attorno   ai   diversi   dogmi,   facendo   pressioni   sul   clero   perché   venisse 
accolta l’una o l’altra soluzione. Gli affari religiosi divennero affari 
di   Stato.   Nel   364   furono   vietati,   da   Valentiniano   e   Valente,   i   riti 
pubblici pagani e nel 380, con l’Editto di Teodosio, il semplice fatto di 
professare   una   fede   diversa   da   quella   cristiana   divenne   un   illecito   e 
comportò limitazioni della capacità giuridica.
d) L’unicità dell’Impero
Fallito   l’esperimento   della   tetrarchia   diocleziana,   l’Impero   venne 
nuovamente diviso in due parti (la pars Orientis e la pars Occidentis). Ma 
questo non comportò la rinuncia all’idea che l’Impero fosse unico; tra i 
due imperatori sarebbe rivissuto, mutatis mutandis, il vecchio principio 
della collegialità delle magistrature. Il tardo Impero era quindi un vero 
e proprio Regno.

3. Il diritto e le sue fonti
1. Significato di ius
La parola latina che corrisponde alla nostra parola “diritto” è  ius; per 
capire cosa intendessero i romani per diritto si potrebbe far ricorso alla 
celebre definizione del diritto contenuta nel primo frammento del Digesto 
tratto   dalle  Institutiones  di   Ulpiano,   che   scrive:   “il   diritto   è   così 
chiamato   da   ‘giustizia’;   infatti,   come   dice   elegantemente   Celso,   il 
diritto è l’ars del buon e del giusto”. Alcuni pensano che per Ulpiano e 
Celso   il   termine  ars  indichi   e   che   anziché   diritto   definissero   la 
giurisprudenza, indicando come i giurisperiti come coloro che posseggono 
l’arte di individuare ciò che è bene ed è giusto; altri invece traducono 
ars  con   “sistema”   e   ritengono   che   il   passo   definisca   il   diritto   come 
sistema del bene e del giusto. Non tutto ciò che è buono ed equo è diritto 
e, non sempre il diritto è buono ed equo. I romani erano perfettamente 
consapevoli di questo.

2. Diritto in senso soggettivo e diritto in senso oggettivo
La parola ius, come insieme delle norme a carattere giuridico che regolano 
il comportamento dei romani e l’organizzazione della loro città, è intesa 
in   senso   oggettivo.   Ma   essa   ha   anche   un   altro   significato,   un   valore 
soggettivo, quando indica le conseguenze che l’applicazione delle regole 
del   diritto   oggettivo   ha   sui   singoli   individui,   ossia   le   situazioni 
giuridiche in cui questi vengono a trovarsi. Nelle XII Tavole si ritrova 
l’espressione   ricorrente   di  ita   ius   esto  (così   sia   il   diritto).   Ad 
esempio, la regola uti lingua nuncupassit, ita ius esto (come la lingua ha 
pronunziato,   così   sia   il   diritto)   significa   che   chi   ha   pronunziato 
determinate parole, o la persona nei cui confronti sono state pronunziate 
vengono a trovarsi nella situazione indicate dalle parole stesse.

B.Fonti di cognizione e fonti di produzione del diritto
Per fonte del diritto si allude al fatto o all’atto dal quale deriva la 
sua esistenza una regola giuridica, quindi si parla di fonte di produzione 
della regola, mentre l’espressione fonte di cognizione allude a qualunque 
documento   o   reperto   dal   quale   siamo   informati,   direttamente   o 
indirettamente, dell’esistenza di una regola.
Le fonti di cognizione
Le fonti di cognizione del diritto vengono abitualmente classificate in 
fonti giuridiche e fonti extragiuridiche. Per fonti giuridiche s’intendono 
le   opere   dei   giuristi   e   i   documenti   che   riportano   direttamente   regole 
giuridiche   o   atti   relativi   all’applicazione   di   queste;   per   fonti 
extragiuridiche s’intendono tutti gli altri documenti o reperti dai quali 
possiamo indirettamente desumere informazioni di vario genere sul diritto.

Le fonti di produzione
La   straordinaria   articolazione   ed   elasticità   delle   fonti   del   diritto 
romano,   fu   una   della   circostanze   che   consentirono   a   questo   diritto   di 
adattarsi   ai   profondi   mutamenti   delle   condizioni   politiche,   sociali   ed 
economiche verificatisi nei lunghi secoli della sua storia.

 Dalla nascita di Roma alla metà del secolo III a.C.

a) La consuetudine
La   fonte   più   antica   di   produzione   del   diritto   furono   le   usanze   che 
lentamente si affermarono nella pratica dei rapporti interfamiliari, e che 
con il tempo presero ad essere rispettate con la convinzione della loro 
obbligatorietà.   Queste   antiche   consuetudini,   chiamate   dai   romani  mores 
maiorum, nascessero da una decisione giudiziale, una sentenza emessa dal 
rex;   queste   decisioni   venivano   considerate   dei   precedenti   che   era 
opportuno seguire e, quindi, una serie di pronunzie costanti dava vita a 
un   principio   che   la   comunità   riteneva   una   norma   vincolante.   Il   ruolo 
giocato dalla consuetudine rende dunque il sistema romano assai diverso 
sia   dagli   altri   diritti   antichi   sia   da   quelli   dell’Europa   continentale 
dopo la Rivoluzione francese. Il peso attribuito alle consuetudini, rende 
il sistema romano, simile ai sistemi di Common Law.

b) Le leges regiae
Sotto   il   nome   di  leges  regiae  è   giunta   una   serie   di   disposizioni 
attribuite ai diversi re di Roma. Parte della dottrina ha pensato che si 
trattasse di norme consuetudinarie attribuite dalla tradizione ai re per 
conferire   loro   maggior   prestigio   e   autorità.   Oggi   si   ritiene   che   si 
trattasse  di   provvedimenti   autoritativi   di   provenienza   regale.   E’   stato 
ritrovato   sotto   il  lapis  Niger,   nel  Comitium,   un   cippo   marmoreo   con 
un’iscrizione databile al primo quarto del secolo VI a.C. dalla quale si 
leggono alcune parole che minacciano una sanzione a carico di chi avesse 
violato i luoghi sacri, insomma, segno di una lex regia. La sanzione che 
nella lingua arcaica dell’iscrizione suona  sakros  esed, corrisponde alla 
sanzione che in età successiva verrà espressa con la formula  sacer  esto 
(sia   sacro);   questa   sanzione   dimostra   in   modo   evidente   il   carattere 
sacrale del potere regale e quello religioso delle prime norme giuridiche. 
Le  leges  regiae  furono le prime norme autoritative della storia romana; 
anche se vengono indicate come leges, esse non sono tali nel senso tecnico 
che questo termine assumerà dal momento in cui verrà usato per indicare le 
deliberazioni dei comizi centuriati.
c) L’interpretazione pontificale e l’interpretatio prudentium
Nel   periodo   più   antico,   quando   le   regole   giuridiche   avevano   carattere 
sacro,   il   compito   di   custodire   e   interpretare   i  mores  era   affidato   ai 
pontefici, all’interno del cui collegio veniva designato colui al quale 
era deferito il compito di risolvere i problemi dei privati; i pontefici 
oltre   ad   interpretare,   creavano   il   diritto.   Essi   a   volte   operavano 
valutazioni   che   li   spingevano   ad   adeguare   i  mores  a   nuove   esigenze;   i 
primi   giuristi   romani,   furono   dunque   dei   sacerdoti,   che   in   un   primo 
momento   detenevano   il   monopolio   del   sapere   giuridico.   A   partire 
dall’inizio del secolo V a.C., questo sapere cominciò a diffondersi e a 
diventare patrimonio di un numero crescente di uomini di cultura laici.

d) Le XII Tavole e il ius legitimum vetus
La tradizione parla delle XII Tavole come di una lex emanata nel 451­450 
a.C. da una magistratura straordinaria, composta in parte da patrizi e in 
parte   da   plebei   e   nominata   a   seguito   di   una   lotta   della   plebe   per 
sottrarre   agli   aristocratici   l’esclusività   dell’amministrazione   della 
giustizia. Il compito di questi magistrati (10, detti  decemviri  legibus 
scribundis)   era   quello   di   mettere   per   iscritto   un   corpus   di   leggi   che 
stabilissero   criteri   di   decisione,   sottraendo   la   risoluzione   delle 
controversie al totale arbitrio dei giudici. Le norme raccolte nelle XII 
Tavole   erano   le   antiche   consuetudini   che   i  decemvriri  si   limitarono   a 
codificare, senza fare molte innovazioni e senza fare molte concessioni ai 
plebei. Le XII Tavole rappresentano, comunque, una vittoria della plebe, 
per il semplice fatto di essere state scritte, infatti i magistrati e i 
pontefici non furono più liberi di individuare e interpretare i  mores  a 
loro   arbitrio;   i   giudici   erano   vincolati   all’applicazione   di   alcuni 
criteri,   che   portavano   di   necessità   a   una   determinata   soluzione   della 
controversia. Le XII Tavole erano una fonte anomala di diritto, in quanto, 
i romani tendevano a non formulare per iscritto regole generali e astratte 
e   prima   della   compilazione   giustinianea,   le   XII   Tavole   furono   l’unico 
corpus   di   leggi   che   potesse   in   qualche   modo   far   pensare   a   un   codice 
moderno; esse costituirono il nucleo centro del ius legitimum.

e) La lex (legge comiziale) e il ius legitimum novum
La lex era una norma giuridica che esprimeva la volontà popolare; era una 
deliberazione vincolante, approvata dal popolo, a questo scopo riunito nei 
comizi centuriati da uno dei magistrati forniti del cosiddetto ius agendi 
cum  popolo  (diritto di convocare un’assemblea popolare), i consoli ed i 
pretori. Il diritto di avanzare proposte di legge (rogationes) spettava 
esclusivamente ai magistrati, solo dopo essere state approvate dal Senato. 
Di   regola   i   comizi   legiferavano   in   materia   di   diritto   pubblico,   su 
questioni   che   riguardavano   l’organizzazione   e   la   struttura   dello   Stato 
romano. Alcune  leges  pubblicae  regolarono alcuni aspetti del ius civile 
(ad esempio in caso di successione mortis causa, di matrimonio, di tutela 
e manomissione degli schiavi). Anche le  leges  pubblicae  furono attratte 
nella sfera del ius e vennero a formare il cosiddetto ius legitimum novum, 
in contrapposizione a quello basato sulle XII Tavole, che venne definito 
ius legitimum vetus.
Formazione della legge
L’iter  legis, ossia il cammino che portava all’approvazione della legge, 
si iniziava con l’esposizione della proposta al pubblico. Questo atto era 
detto  promulgatio;   il   periodo   che   intercorreva   tra   la  promulgatio  e   la 
riunione dell’assemblea era detta  trinundinum, in quanto era composto da 
tre   periodi   di   otto   giorni   ciascuno,   detti  nundinae.   Durante   questo 
periodo il progetto veniva discusso dal magistrato proponente e dal popolo 
in   riunioni   informali   dette   contiones,   ma   il   magistrato   non   poteva   più 
modificarlo,   al   limite   poteva   ritirarlo   e   sostituirlo   con   un   nuovo 
progetto, che doveva ripercorrere tutto l’iter legis. Nel giorno fissato 
per la votazione non era più ammessa alcuna discussione; il magistrato si 
limitava   a   interrogare   il   popolo,   che   poteva   approvare   o   respingere   la 
proposta.   La   formula   per   l’approvazione   era  uti   rogas  (come   chiedi), 
mentre   quella   per   respingere   era  antiqua   probo  (preferisco   le   regole 
antiche).

La composizione del corpo elettorale e il sistema di voto
La   composizione   del   corpo   elettorale   romano,   a   prima   vista,   era   molto 
democratica; tutti i cittadini avevano diritto di voto, ma il sistema per 
votare era tale che in realtà il voto di alcuni valeva meno di quello di 
altri.   I   comizi   centuriati   riunivano   la   popolazione   in   base   alla   sua 
appartenenza   a   una   delle   cinque   classi   di   censo,   e   ciascuna   di   queste 
classi   era   organizzata   in   centurie;   visto   che   ogni   centuria   poteva 
esprimere   un   solo   voto   e   il   numero   totale   di   esse   era   193,   98 
appartenevano   alla   prima   classe,   che   sistematicamente   aveva   la 
maggioranza.

f) I plebiscita
Nel 287 a.C. la Lex Hortensia stabilì che i plebisciti universum populum 
tenerent  (vincolassero   l’intera   popolazione).   Prima   di   questa   legge,   i 
plebisciti erano deliberazioni prese dalla plebe riunita in assemblea, che 
regolavano la condotta dei plebei e dei loro organi. Dopo la lex Hortensia 
questo   cambiò;   ai   concili   tributi   partecipavano   solamente   i   plebei   e 
giacché le loro deliberazioni vincolavano tutti, i patrizi si trovarono ad 
essere vincolati da deliberazioni alle quali non avevano partecipato.

 Dal secolo III a.C. al secolo III d.C.

1. La giurisprudenza
A partire della metà del secolo II a.C. cominciarono ad operare a Roma 
giuristi   significatici   come   Publio   Mucio   Scevola.   All’età   di   Augusto 
nacquero e si svilupparono due grandi scuole di giuristi, detti sabiniani 
e  proculiani  (dai rispettivi capi Masurio Sabino e Proculo). I sabiniani 
(favorevoli   alla   politica   di   Augusto)   erano   i   giuristi   graditi   agli 
ambienti   ufficiali,   ma   i   proculiani   (anche   se   politicamente   più 
conservatori)   erano   più   innovativi   dal   punto   di   vista   della   teoria 
giuridica.   Nella   prima   metà   del   secolo   II   d.C.   visse   e   operò   Salvio 
Giuliano, che ricevette dall’imperatore Adriano l’incarico di codificare 
l’editto del pretore urbano, fissarlo per iscritto, in modo che così (dal 
130 d.C.) nessuno pretore potesse apportarvi modifiche; questo determinò 
la fine della funzione innovativa del diritto onorario, nato dall’editto 
del pretore urbano. Tra i più importanti giuristi dell’epoca, che va da 
Adriano   agli   Antonini,   vanno   inoltre   ricordati   Africano,   Pomponio, 
Marcello   e   Scevola;   all’epoca   dei   Severi   vissero   Papiniano,   Paolo   e 
Ulpiano, ed infine Marciano e Modestino.

Il valore dei responsa prudentium
I pareri che i giuristi fornivano nell’esercizio della loro funzione di 
interpreti   del   diritto   venivano   detti  responsa  prudentium;   dalle 
Istituzioni   di   Gaio   sappiamo   che   quando   erano   concordi   questi   pareri 
avevano valore di legge; in realtà i pareri dei giuristi si limitavano ad 
individuare una norma già esistente, chiarendo che nella specie era quella 
la   norma   da   applicare.   Solo   in   età   postclassica   i   pareri   divennero 
vincolanti   e   questo   accadde   perché   alcuni   imperatori   davano   ad   alcuni 
giuristi   uno   speciale   diritto   di   dare   pareri  ex   auctoritate   principis, 
ossia   per   conto   e   in   nome   del   principe   e   poiché   la   sua   volontà   aveva 
valore di legge, ne consegue che tale valore fosse riconosciuto anche ai 
responsa prudentium; i giuristi forniti di questo diritto furono, tra i 
vari, Modestino, Paolo, Ulpiano e Papiniano.

2. Gli editti dei magistrati
Nel 367 a.C. le  leges Liciniae Sextiae  avevano attribuito al  praetor  la 
giurisdizione civile; a partire dal 242 a.C. venne istituito il  praetor 
peregrinus, incaricato della giurisdizione civile, in caso di controversie 
tra stranieri o tra romani e stranieri e grazie a ciò cominciarono a venir 
tutelate   situazioni   soggettive   che   sino   a   quel   momento   non   godevano   di 
tutela. Questo avvenne grazie a degli interventi del pretore urbano, detti 
interdicta  (interdetti),   che   tutelavano   interessi   relativi   al   godimento 
della terra o altri beni di proprietà del popolo romano; gli interventi 
più   significativi   dei   magistrati   furono   legati   all’introduzione   di   un 
nuovo di tipo di processo, fondato sul loro  imperium  (comando), che finì 
per   sostituire   il   vecchio   processo   per  legis   actiones.   Questo   processo 
venne   detto   per  formulas  (formulare),   perché   basato   su   un   documento 
scritto,   detto   appunto   formula.   Grazie   al   nuovo   processo,   i   magistrati 
giusdiscenti   superarono   la   rigidità   del   diritto   più   antico,   tutelando 
nuove situazioni, spesso ma non necessariamente nate nella pratica degli 
affari   tra   romani   e   stranieri,   creando   nuove   regole   giuridiche.   Il 
complesso delle regole  di introduzione  magistratuale  viene  chiamato  ius 
honorarium  o limitatamente a quello nato nel tribunale del pretore, ius 
praetorium;   come   scrive   il   giurista   Paolo,   il  ius   honorarium,   fu 
introdotto per aiutare, per integrare o per correggere il diritto civile. 
Le  regole del  ius  civile  non  vennero  modificate  dal  ius honorarium,  ma 
quest’ultimo affiancò il primo, che rimase sempre formalmente in vigore, 
anche   quando   il   diritto   applicato   era   ormai   regolarmente   quello   di 
creazione   pretoria.   Ben   presto   i   pretori,   avvalendosi   del  ius   edicendi 
(potere di fare comunicazioni ai cittadini) compreso nel loro imperium, 
all’inizio dell’anno di carica rendevano pubblico una specie di programma, 
contenente le linee della politica giurisdizionale alla quale si sarebbe 
attenuto.   Questo   programma   veniva   detto  edictum   perpetuum  (editto 
perpetuo) in quanto vincolava il magistrato per l’intero anno di carica. 
Questo   programma   veniva   esposto   nel   Foro   su   delle   tavole   dette  tabulae 
dealbatae.

3. I senatusconsulta
Il Senato, nonostante la sua importantissima funzione politica, non aveva, 
formalmente,   né   il   potere   di   emanare   norme   generali   vincolanti   per   la 
collettività, né quello di esprimere pareri che potessero vincolare gli 
organi costituzionali ai quali venivano dati pareri che quest’organo dava 
ai magistrati (da cui il termine  senatus consulta, pareri del Senato). I 
comizi   popolari   scomparvero,   come   organo   legislativo,   alla   fine   del   I 
secolo d.C., mentre il Senato acquistò potere tale da far pensare a volte 
ad una diarchia, in cui il comando spettava a due organi, il principe e il 
senato.   Quest’ultimo   cominciò   ad   intervenire   dando   pareri   non   solo   in 
materia di diritto pubblico, ma anche in quello privato, dando dapprima 
pareri   ai   magistrati   giusdicenti   e,   a   partire   dal   I   secolo   d.C., 
introducendo   nuove   regole.   I   senatoconsulti   divennero   una   fonte   di 
produzione del diritto e col tempo la più importante fonte autoritativa. A 
partire   dal   secolo   II   d.C.   le   proposte   di   senatoconsulti   vennero   fatte 
sempre più spesso (prima erano i consoli) dal princeps, che pronunziava in 
Senato   una  oratio,   la   cui   approvazione   era   divenuta   pura   e   semplice 
formalità.

4. Le costituzioni imperiali
Una volta conquistato il potere Augusto iniziò a pronunziare sentenze che 
come è evidente avevano un valore del tutto particolare come precedenti, 
ed   iniziò   anche   a   prendere   provvedimenti   ed   emanare   atti   di   contenuto 
normativo. Ulpiano scrive: “quel che il principe ha deciso, ha valore di 
legge”.   Quanto   al   fondamento   giuridico   del   potere   normativo   imperiale, 
essa   va   individuato   nella  lex   de   imperio,   con   cui   il   popolo   avrebbe 
attribuito al principe il suo imperium e la sua potestas. I provvedimenti 
imperiali, definiti constitutiones (costituzioni) si dividevano in edicta 
(atti   normativi   a   carattere   generale   e   astratto),  mandata  (ordini   e 
direttive   di   carattere   generale   indirizzati   ai   governatori   delle 
province),  rescripta  (pareri   vincolanti   del   principe   su   questioni 
giuridiche   sottoposte   al   suo   giudizio)   e  decreta  (sentenze   emesse   dal 
principe sia in materia di diritto privato che di diritto penale).

5. La consuetudine
Anche   senza   avere   l’importanza   assunta   nell’età   arcaica,   i  mores 
continuarono   a   contribuire   alla   formazione   del   diritto   anche   dopo   la 
pubblicazione   delle   XII   Tavole.   La   consuetudine   contribuì   sensibilmente 
anche alla creazione del ius gentium. A partire dalla metà del secolo II, 
i  giuristi  e  gli  imperatori  riconobbero  più  volte  il  suo  valore.  Salvo 
Giuliano scrisse che in mancanza di leggi scritte si doveva tener conto di 
ciò che era stato introdotto morbus ed consuetudine; l’imperatore Settimio 
Severo stabilì che qualora vi fossero dubbi sul significato di una legge 
si dovesse attribuire questo valore alla consuetudine.
 Dall’anarchia militare alla morte di Giustiniano

1. Gli iura
Il periodo della grande giurisprudenza era finito; in questa situazione 
non   erano   le   singole   opere   a   essere   fonte   del   diritto,   ma   la  communis 
opinio,   vale   a   dire   l’opinione   prevalente   e   generalmente   condivisa.   Ma 
anche   quando   questa  communis   opinio  si   era   formata,   non   era   facile 
determinare quale essa fosse. Gli imperatori per mettere ordine in questo 
delicato   settore   della   vita   del   diritto   intervennero   con   una   serie   di 
provvedimenti. Il più importante fu la costituzione emanata nel 426 d.C. 
da Valentiniano III (legge delle citazioni); essa attribuiva alle opere di 
Gaio lo stesso valore di fonte del diritto che già avevano le opere di 
Papiniano,   Paolo,   Ulpiano   e   Modestino.   Questa   costituzione   stabiliva 
inoltre che il giudice fosse tenuto ad attenersi al parere dei giuristi 
solo se sulla questione a lui sottoposta vi fosse communis opinio; quando 
vi era un numero pari di sostenitori di teorie opposte, era considerata 
communis opinio l’opinione a favore della quale si era espresso Papiniano.

2. Le leges
In quest’epoca ebbero enorme importanza le diverse costituzioni imperiali 
(edicta, mandata, rescripta e decreta), e in particolare, le c.d.  leges 
generales. Anche quando l’Impero venne diviso in due parti, la concezione 
unitaria   del   potere   imperiale   non   venne   meno.   In   un   primo   momento,   le 
costituzioni emanate da un imperatore, vincolavano automaticamente anche i 
sudditi   dell’altra   parte   dell’Impero.   Successivamente   queste   dovevano 
essere   trasmesse   all’altro   imperatore   attraverso   una   costituzione   detta 
pragmatica sanctio, e in una terza fase si ritenne necessario che fossero 
promulgate   dall’imperatore   che   le   aveva   ricevute.  La  pragmatica   sanctio 
era   considerata   una   forma   intermedia   tra   una   legge   generale   e   un 
rescritto.

3. Le collezioni ufficiali come fonte di produzione del diritto
Con il passare del tempo nel mondo romano vennero approntati dei “Codici” 
aventi valore di legge, e furono:

a.  
In età pregiustinianea, il  Codex Theodosianus
    (438).
      Teodosio II 
nel   429   progettò   di   procedere   ad   una   raccolta   di   leges   che 
comprendesse   non   solo   le   costituzioni   imperiali,   ma   anche   i 
pareri dei giuristi aventi valore di legge, ma stante la vastità 
delle opere, dovette ripiegare su un progetto minore di raccolta 
di sole leges, che venne pubblicata nel 438 con il nome di Codex 
Theodosianus;   rimase   in   vigore   fino   a   quando   non   fu   sostituito 
dal Codice di Giustiniano;

b.  
La   compilazione   giustinianea    Corpus
(    Iuris   Civilis ).
    E’   una 
raccolta di  leges  e  iura, definita compilazione di Giustiniano, 
considerata   come   l’opera   giuridica   più   importante   che   sia   mai 
stata   scritta,   e   alla   quale   lavorarono   i   migliori   giuristi 
dell’epoca sotto la direzione di Triboniano.
La   ragione   che   indusse   Giustiniano   a   procedere   a   quest’opera   fu   la 
necessità   sempre   più   forte   di   mettere   ordine   nel   sistema   delle   norme 
giuridiche; accanto alle decisioni imperiali (leges) bisognava tener conto 
del   parere   dei   giuristi,   e   anche   all’interno   di   questi   era   sempre   più 
difficile capire quali tra i diversi principi formulati fossero validi e 
quali   fossero   ormai   superati.   Giustiniano   decise   di   procedere   ad   una 
raccolta   di   tutte   le   costituzioni   imperiali   e   di   tutti   i   pareri   dei 
giuristi   che   dovevano  essere   considerati   vincolanti,   togliendo   valore  a 
tutte le costituzioni e le opere della giurisprudenza che non erano state 
ricomprese nella nuova opera. Da questo punto di vista, l’intero  Corpus 
Iuris civilis era un codice nel senso moderno del termine. Si compone di 
quattro   parti,   ciascuna   con   un   diverso   carattere   e   funzione   e   sono   il 
Codice   (Codex),   il   Digesto   (Digesta  seu  Pandectae),   le   Istituzioni 
(Institutiones)   e   le   Novelle   (Novellae).   Il  Codex  è   la   raccolta   delle 
costituzioni imperiali, che venne pubblicata nel 534; la più antica era di 
Adriano e la più recente era stata emanata dallo stesso Giustiniano, il 4 
novembre   534,   ed   il  Codex  entrò   in   vigore   il   29   novembre   dello   stesso 
anno. I Digesta sono l’opera nella quale vennero riuniti i frammenti delle 
opere dei giuristi che esprimevano regole e principi giuridici considerati 
tuttora   attuali;   fu   pubblicata   nel   533;   la   commissione   incaricata   di 
preparare   quest’opera   doveva   estrarre   dalle   diverse   opere   della 
giurisprudenza   le   parti   ancora   utilizzabili;   questi   frammenti   furono 
raccolti per materia e ciascuno di essi venne riportato con un’annotazione 
(inscriptio)   che   segnalava   il   nome   dell’autore   e   dell’opera   da   cui   era 
stata estratto; il testo svolgeva un discorso organico e coerente e aveva 
il valore di una legge emanata dall’imperatore. Le  Institutiones  furono 
pubblicate   nel   533,   libro   destinato   agli   studenti   di   giurisprudenza 
contenente   le   nozioni   fondamentali   del   diritto   privato.   Le  Novellae 
(Novellae  Constitutiones,   nuove   costituzioni)   sono   la   raccolta   delle 
costituzioni emanate da Giustiniano dopo il 534.

4. Le leggi romano­barbariche
Nel   corso   del   V   e   del   VI   secolo   d.C.   alcune   popolazioni   barbariche 
stanziate sul territorio occidentale dell’Impero costituirono dei veri e 
propri Stati, come il regno dei visigoti, dei burgundi, dei vandali, dei 
suebi,   degli   ostrogoti.   I   rapporti   di   queste   popolazioni   con   l’Impero 
furono diversi; in alcuni casi, i vandali, gli stati barbarici nacquero a 
seguito di una vera e propria occupazione bellica. In altri casi, come i 
visigoti   e   burgundi,   essi   stabilirono   originariamente   un   rapporto 
federativo con Roma; in altri casi infine, gli ostrogoti, si stabilì un 
rapporto di dipendenza dall’Impero. In tutti questi Stati vivevano romani 
e   barbari,   e   di   regola   si   era   venuto   a   creare   un   doppio   sistema   di 
diritto. I romani continuavano ad applicare il loro diritto e i barbari le 
regole del loro diritto nazionale, per lo più basate sulle loro antiche 
consuetudini.   Anche   presso   queste   popolazioni   si   venne   affermando   il 
principio che l’unica fonte del diritto era lo Stato e di conseguenza si 
procedette   a   delle   compilazioni   di   regole   giuridiche   (c.d.   leggi 
barbariche);   si   sentì   il   bisogno   di   raccogliere   le   norme   che   dovevano 
regolare   la   vita   dei   romani   che   vivevano   in   territorio   barbarico   e   in 
alcune situazioni ci si pose anche il problema di regolare i rapporti tra 
romani e barbari. Tra le diverse compilazioni vanno ricordate:

a. la  Lex   Romana   Wisigothorum  (o  Breviarum   Alaricianum);   è   una 


raccolta  di  regole  del  diritto  romano,  ordinata  nel  506  dal  re 
visigoto   Alarico   II   a   uso   dei   suoi   sudditi   romani.   Questa 
raccolta toglieva vigore a tutte le regole che non vi erano state 
inserite;

b. la  Lex Romana Burgundionum, raccolta di leggi romane ordinata da 
re dei burgundi, Gundobado, per uso dei romani che vivevano nel 
suo territorio;

c. l’Edictum   Theodorici,   compilazione   emanata   nei   primi   anni   del 


secolo   V   da   Teodorico,   re   degli   ostrogoti   in   Italia;   Teodorico 
non procedette a quest’opera come sovrano, ma come titolare di un 
potere   conferitogli   dall’Imperatore   d’Oriente;   egli   agì   come 
funzionario, ed emanò un editto anziché una legge e si applicava 
a tutti i suoi sudditi, ostrogoti e romani.

Le leggi barbariche
I   capi   dei   regni   barbarici   emanarono   anche   leggi   dirette   a   regolare 
esclusivamente   la   vita   dei   loro   sudditi.   La   prima   codificazione   di   un 
diritto nazionale barbarico fu la  lex Visigothorum; il nucleo originario 
di questa legge venne redatto verso la metà del secolo V per volontà del 
re Teodorico, aggiornato poi verso la fine del secolo dal re Eurico ed 
infine dal re Leovigildo verso la seconda metà del secolo VI. Verso la 
seconda   metà   del   secolo   VII,   re   Recesvindo,   stabilì   che   esso   avesse 
efficacia territoriale, applicabile quindi a tutti coloro che abitavano il 
territorio   visigoto,   senza   distinzioni.   La  lex   Visigothorum  divenne   la 
base   del   diritto   nazionale   spagnolo,   e   rappresenta   il   modello   più 
progredito e sistematico, e deve la sua raffinatezza alle molte influenze 
del diritto romano. La  lex Gundebada  regolava la vita e i rapporti dei 
burgundi e raccoglieva le regole del diritto nazionale burgundo.

5. La consuetudine
Le   fonti   postclassiche   e   giustinianee   dedicano   molta   attenzione   alla 
consuetudine; fino al 212 d.C. il diritto romano si applicava in misura 
limitata nei territori conquistati. I rapporti tra gli abitanti di questi 
territori, infatti, continuavano ad essere regolati dai diritti nazionali. 
Quando con il 212 la cittadinanza romana venne concessa a tutti i sudditi 
dell’Impero,   i   vari   diritti   nazionali   cessarono   di   avere   vigore, 
quantomeno   in   linea   di   principio,   mentre   nella   pratica   continuarono   ad 
essere applicati. Il sistema per conciliare le due esigenze venne trovato 
nella   concezione   secondo   la   quale   le   regole   localmente   applicate   erano 
semplicemente comportamenti concreti, che con il loro consolidarsi nella 
prassi   e   grazie   al   consenso   di   chi   le   applicava   creava   diritto 
consuetudinario.   Costantino   emanò   una   costituzione   secondo   la   quale   la 
consuetudine non poteva superare la legge o la ratio; non poteva valere 
contra   legem,   e   tantomeno   abrogare   una   regola   giuridica.   Un’altra 
costituzione   inserita   nel   Codice   giustinianeo   però,   equiparando   la 
consuetudine alle leggi, ammise anche la consuetudine  contra legem  e il 
principio venne confermato nelle Istituzioni di Giustiniano, là dove si 
definisce la consuetudine “costumi costanti, consolidati dal consenso dei 
consociati”,   e   si   dichiara   questi   costumi,  legem   imitantur  (imitano   la 
legge). Anche se ogni consuetudine aveva valore in una determinata zona, 
infatti,   il   principio   che   i   costumi   dei   consociati   avessero   valore   di 
fonte del diritto era un principio valido in tutto l’Impero.

4. Le persone
Definizione di vita e sua rilevanza giuridica nel mondo 
romano
Il presupposto di ogni discorso sulla capacità degli esseri umani era nel 
mondo   romano   la   loro   esistenza   in   vita.   Nel   sistema   romano   la   nascita 
induce   effetti   nel   mondo   del   diritto   (in   età   augustea,   ad   esempio,   la 
nascita era importante in quanto le donne che partorivano un certo numero 
di   figli   erano   esonerate   dalla   tutela).   Secondo   le   fonti   del   periodo 
classico, era il momento in cui il feto si staccava completamente dal seno 
materno (partus editus); in età augustea, i proculiani richiedevano che il 
nuovo   nato   avesse   emesso   un   vagito,   mentre   i   sabiniani,   la   cui   tesi 
prevalse, ritenevano che qualunque segno di vita fosse sufficiente. Per i 
romani  non  era  da  considerare  nato  il  monstrum  vel  prodigium,  ossia  il 
neonato così mostruosamente deforme da essere più simile ad un animale che 
a un essere umano. Secondo una legge attribuita a Romolo, il padre che 
abbandonava   il   figlio   mostruoso   non   incorreva   nelle   pene   previste   per 
l’abbandono dei neonati; l’importante era che cinque vicini accertassero 
la   mostruosità.   In   alcuni,   invece,   anche   il   nascituro   veniva   preso   in 
considerazione,   quando   ad   esempio   chi   nasceva   da  iustae  nuptiae  che 
seguiva   la   condizione   del   padre   al   momento   del   concepimento;   oppure   in 
caso di divorzio quando il marito temeva che la moglie incinta abortisse, 
ed in questo caso poteva chiedere che venisse nominato un curator ventris, 
persona   incaricata   ad   impedire   che   la   donna   privasse   l’ex   marito   della 
prole.

A. Percezione romana del problema della capacità giuridica e sue 
soluzioni

1. La capacità giuridica
Con   riferimento   alla   capacità   giuridica,   l’individuazione   delle   persone 
alle   quali   era   consentito   essere   punto   di   imputazione   di   situazioni 
giuridiche soggettive era un problema di grande rilevanza, anche perché, 
al   pari   delle   altre   popolazioni   antiche,   i   romani   non   riconoscevano   la 
capacità giuridica in base al semplice fatto della nascita.
a) Le divisiones personarum
Quella che oggi chiamiamo capacità giuridica, nel mondo romano spettava 
solo ad una minoranza di persone; dalle fonti del diritto si ritrovano le 
divisiones personarum, cioè una serie di classificazioni delle personae in 
diverse   categorie,   dall’appartenenza   alle   quali   i   romani   facevano 
discendere il riconoscimento della capacità.

Liberi e schiavi
La   prima   fondamentale   classificazione   degli   essere   umani   è   quella   che 
divide i liberi dagli schiavi (servi); le persone libere si distinguevano 
in ingenui (nati liberi) e liberti (liberati dalla schiavitù).

Romani e peregrini (stranieri)
Questa distinzione riguardava solo le persone libere, distinte a seconda 
che   avessero   la   cittadinanza   romana   oppure   no;   lo   status   di   cittadino 
romano era condicio sine qua non per l’esercizio dei diritti politici e 
per il godimento di una serie di privilegi. Tra gli stranieri, i latini 
godevano di una posizione particolarmente privilegiata.

Sui iuris e alieni iuris
Coloro che avevano la cittadinanza romana si dividevano a loro volta in 
sui iuris  (di diritto proprio) e  alieni iuris  (di diritto altrui).  Sui 
iuris  erano   coloro   che   non   avevano   ascendenti   maschi   superstiti,   o   che 
erano   stati   emancipati.  Alieni   iuris  coloro   che   avevano   un   ascendente 
maschio   in   vita   o   che   non   erano   stati   emancipati.   A   seconda   del   loro 
rapporto con il  paterfamilias, si distinguevano in persone  in potestate, 
in manu, in mancipio. Le persone che non rientravano nelle tre precedenti 
categorie   potevano   essere  in   tutela  o  in   curatione  ovvero   potevano   non 
essere sottoposte ad alcuno di questi poteri.

La   posizione   dell’individuo   veniva   indicato   dai   romani   con   il   termine 


status;   lo   status   di   un   persona   aveva   rilevanza   agli   effetti   del 
riconoscimento   di   capacità.   La   piena   capacità   giuridica   di   diritto 
privato, era riconosciuta solo a chi avesse lo status di persona libera, 
civis romanus e sui iuris. La capacità di diritto pubblico era legata allo 
status di cittadino e non di paterfamilias o filiusfamilias. 

b) Capacità di diritto privato e capacità di diritto pubblico
La  civitas  nel momento in cui nacque, ai fini della gestione della  res 
publica, stabilì dei rapporti con tutti gli individui che componevano le 
diverse familiae, che erano indipendenti dal fatto che questi fossero sui 
iuris o alieni iuris; quel che interessava la civitas era il sesso delle 
persone,   la   loro   età,   la   loro   appartenenza   all’una   o   all’altra   classe 
sociale;   erano   queste   le   caratteristiche   in   base   alle   quali   la  civitas 
stabiliva chi poteva partecipare alle assemblee e chi non poteva farlo, 
chi aveva il diritto di partecipare ad alcune di esse e chi ad altre, e 
così   via   dicendo.   Chi   non   aveva   i   requisiti   per   partecipare   alla   vita 
pubblica,   cioè   le   donne,   gli   impuberi   e   gli   schiavi,   veniva   preso   in 
considerazione   come   eventuale   oggetto   di   punizioni,   qualora   si   rendesse 
colpevole di quei comportamenti che agli inizi della storia di Roma erano 
considerati   lesivi   della   collettività,   e   cioè   la  perduellio  (alto 
tradimento)   e   il  parricidio  (uccisione   di   un  paterfamilias).   Quindi   un 
filiusfamilias poteva diventare console, con il prestigio e potere che ne 
derivava, ma come filius non aveva un suo patrimonio.

2. La capacità di agire
La capacità di agire era riconosciuta a chi fosse considerato capace di 
intendere e  di  volere.  Vi  erano  quindi  persone  che  avevano  la  capacità 
giuridica   ma   non   quella   di   agire   (gli   impuberi  sui  iuris  o   i   pazzi), 
mentre vi erano persone che non avevano la capacità giuridica ma avevano 
quella   di   agire   (ad   esempio   gli   schiavi   puberi   e   sani   di   mente).   Le 
persone   incapaci   o   limitatamente   capaci   erano   gli   impuberi,   le   donne 
(tutta la vita), i  furiosi  (pazzi) e a partire dalle XII Tavole anche i 
prodighi.   Queste   persone,   non   potendo   amministrare   autonomamente   i   loro 
beni erano sottoposti ad un tutore, nei casi di impuberi e di donne, ed ad 
un curatore, per quanto attiene ai  furiosi  e ai prodighi.  Ovviamente il 
 
problema della tutela si poneva solo nel caso di   sui iuris
   , in quanto gli
    
 
alieni iuris   non avevano patrimonio da amministrare
   . 

a) La tutela
La tutela romana era un istituto potestativo, e non protettivo come oggi. 
Qualora una persona ritenuta incapace di agire diventasse  sui  iuris, si 
suoi   familiari   si   preoccupavano   di   controllare   questa   persona   per 
salvaguardare   le   loro   aspettative   ereditarie.   La   trasformazione   della 
tutela in istituto protettivo  avvenne  con  la  lex  Atilia  (forse  nel  210 
a.C.) che stabilì che il pretore dovesse nominare un tutore a chi non lo 
avesse; il tutor Atilianus, pur essendo titolare di un potere (potestas o 
vis), esercitava anche un munus, una funzione che era suo dovere svolgere 
nell’interesse   del   pupillo.   Gli   incapaci   non   potevano   compiere   atti   di 
rilevanza   giuridica   e   perché   avessero   effetto,   essi   dovevano   essere 
rappresentati o assistiti dal tutore.

La tutela sugli impuberi
Erano   considerate   impuberi   le   persone   che   non   avevano   raggiunto   la 
maturità   sessuale,   che   nel   periodo   arcaico   veniva   accertata   con   una 
inspectio  corporis. La tutela sugli impuberi, i pupilli, viene definita 
come un potere attribuito dal  ius  civile  su una persona di stato libero 
che   a   causa   dell’età   non   è  in   grado   di   difendere   i  suoi   interessi.   Il 
tutore, era l’adgnatus  proximus, vale a  dire  il  parente  più  stretto  in 
linea maschile; se il pupillo era un liberto, la tutela spettava al suo 
patrono, mentre se il pupillo era stato emancipato la tutela spettava al 
parens manumissor; in mancanza di adgnati la tutela spettava ai gentiles. 
In età antica e preclassica il tutore testamentario poteva rinunciare alla 
tutela   con   una  abdicatio;   il   tutore   legittimo   poteva   trasferire   il   suo 
potere ad altra persona, chiamata tutor cessicius. Il tutore aveva poteri 
patrimoniali   e   poteri   di   tipo   personale,   relativi   all’educazione   del 
pupillo;   dopo   il   periodo   delle   XII   Tavole,   i   poteri   patrimoniali   erano 
diversi a seconda che il pupillo fosse ancora infans (infante, incapace di 
parlare) o che avesse raggiunto quel minimo di maturità che gli permetteva 
di   esprimersi.   Nel   caso   di  infans,   il   tutore   aveva   la   totale  gestio 
(gestione)   del   patrimonio   pupillare,   mentre   nel   caso   di  infans   maior 
(quando   il   pupillo   avesse   qualche   capacità   di   ragionare),   gli   atti 
compiuti dal pupillo non erano inesistenti, ma imperfetti e necessitavano 
la ratifica da parte del tutore, compiendo la  auctoritatis  interpositio. 
Senza l’intervento del tutore, gli atti compiuti da un infans o un infans 
maior erano considerati nulli.

La tutela sulle donne
Alcuni   ritengono   che   originariamente   le   donne   non   fossero   considerate 
capaci   di   avere   un   patrimonio;   di   conseguenza   il   patrimonio   ereditato 
sarebbe   stato   considerato   di   proprietà   del   loro   tutore   che   avrebbe   in 
origine provveduto personalmente alla gestio dei beni, sotto il vincolo di 
farlo nell’interesse della donna. All’età delle XII Tavole, le donne erano 
già ammesse alla successione ereditaria, succedendo come  heredes  suae  in 
qualità di figlie, nipoti in linea maschile (se il padre era premorto) e 
di mogli  in  manu, come  loco  filiae  (in condizione di figlia) presso il 
marito o il paterfamilias di questi. Come adgnatae le donne ereditavano in 
qualità di sorelle e di nipoti ex fratre, se il padre era premorto; infine 
come  gentiles  partecipavano alla successione insieme ai  gentiles  maschi. 
Comunque le donne non avevano la capacità di agire e potevano amministrare 
il   loro   patrimonio   solo   con   l’assistenza   del   tutore;   solo   le   vergini 
Vestali erano esonerate dalla tutela.

Tipi di tutela sulle donne e modifiche dell’istituto
Le   XII   Tavole   prevedevano   due   tipi   di   tutela   sulle   donne,   la   tutela 
legitima  (o  adgnatitia)   spettante   per   legge   ai   parenti   più   stretti   in 
linea   maschile,   e   la   tutela   testamentaria   stabilita   per   testamento 
dell’avente potestà sulla donna. La nomina spetta al parente più stretto 
in   linea   maschile   (adgnatus  proximus),   e   in   mancanza   di  adgnati  ai 
gentiles.  Gradualmente  il  potere  dei  tutori  si  attenuò  e  alle  donne  si 
affiancavano tutori di loro gradimento; questo fenomeno è legato anche al 
fatto che i poteri paterni, col tempo, subirono progressive limitazioni e 
fu   questa   la   circostanza   che   a   un   certo   punto   della   loro   storia,   rese 
difficile ai romani continuare a sostenere che le donne erano incapaci.

Le Vestali
Le sacerdotesse di Vesta servivano la dea per un periodo che in principio 
era   di   5   anni,   ma   che   in   epoca   storica   durava   30   anni;   il   Pontefice 
Massimo   acquisiva   sulle   Vestali   un   potere   simile   a   quello   del 
paterfamilias,   che   lo   perdeva   nel   momento   in   cui   queste   venivano 
consacrate   alla   dea.   Se   la   Vestale   veniva   meno   al   voto   trentennale   di 
castità,   il  pontifex  poteva   metterla   a   morte.   Le   Vestali   godevano   di 
grande   prestigio   e   privilegi,   tra   i   quali,   importante,   era   quello 
dell’esonero della tutela, grazie al quale erano capaci di fare testamento 
senza bisogno di un’autorizzazione maschile.

Responsabilità del tutore
Il tutore che profittava della sua posizione era colpevole di violazione 
della   fides,   sanzionato   dalle   XII   Tavole,   che   prevedevano   di   agire   in 
giudizio contro il tutore legittimo e di farlo condannare al doppio del 
denaro sottratto o illecitamente acquistato.

b) La cura
Erano sottoposti a cura i pazzi (furiosi) e i prodighi.

I furiosi
Erano considerati furiosi i pazzi che davano evidenti e clamorosi segni di 
follia. Costoro erano sottoposti al potere dell’adgnatus  proximus  o, in 
mancanza   di  adgnati,   dei  gentiles.   Il   curatore   si   chiamava  curator 
legitimus.   Il  furiosus  era   considerato   totalmente   incapace   non   solo   di 
compiere   atti   leciti   giuridici,   ma   anche   di   compiere   atti   illeciti   e 
quindi i primi erano nulli, mentre per i secondi non veniva imputato. Il 
curator  aveva   la  gestio  del   suo   patrimonio,   ma   non   poteva   compiere 
emancipazione,   testamento,   manomissione   o   atti   di   liberalità,   ma   poteva 
alienare i beni del furiosus.

I prodighi
Erano considerati prodighi coloro che dilapidavano il patrimonio familiare 
con il loro comportamento inconsulto; le XII Tavole prevedevano che essi 
potevano   essere   interdetti,   e   l’interdizione   veniva   pronunciata   dal 
magistrato   (dal   367   a.C.   il   praetor   urbanus)   il   quale   per   evitare   di 
mandare i fogli in povertà toglieva il potere al prodigo di disporre dei 
suoi beni; il prodigo era sottoposto alla cura dell’adgnatus  proximus, e 
in mancanza di adgnati, dei gentiles.

B.Le divisioni delle persone

1. Liberi e schiavi
a) La schiavitù
La schiavitù nel mondo antico era considerata un’istituzione naturale; il 
fatto   che   gli   essere   umani   non   fossero   tutti   uguali,   che   non   tutti 
godessero   degli   stessi   diritti   e   che   alcuni   di   essi   potessero   essere 
sfruttati da altri era cosa normalmente ammessa.

b) L’uguaglianza degli antichi e dei moderni
La   moderna  concezione  dell’uguaglianza  è   espressa  dall’articolo  3  della 
nostra   Costituzione,   là   dove   afferma   che   tutti   i   cittadini   sono   uguali 
senza distinzione di razza, di sesso o di religione. Nel mondo antico un 
simile   principio   non   esisteva;   in   quel   mondo   non   ci   poteva   essere 
uguaglianza   tra   diversi,   gli   uguali   erano   uguali   fra   loro   all’interno 
della cerchia ristretta di persone alla quale appartenevano e con i cui 
esponenti condividevano caratteristiche comuni. Tutti quelli che per una 
ragione   o   per   l’altra   erano   diversi   dagli   uguali   venivano   da   questi 
trattati diversamente.
C.Schiavitù, cittadinanza, capacità

Dalla nascita di Roma alla metà del secolo III a.C.

1. La schiavitù e le sue fonti

a) Le cause della schiavitù
Le prime cause di schiavitù furono la prigionia di guerra e la nascita da 
madre schiava, oltre ad altre.

La prigionia di guerra (captivitas)
La causa originaria della schiavitù è stata, probabilmente, la prigionia 
di   guerra;   nel   Digesto,   si   parla   dei   servi   che   venivano   così   chiamati 
perché   coloro   che   in   guerra   li   avevano   fatti   prigionieri,   anziché 
ucciderli, li vendevano ac per hoc servare (così salvandoli). Considerare 
propri schiavi i prigionieri di guerra era un principio fondamentale del 
mondo antico; a Roma l’applicazione di questo principio ebbe conseguenze 
rilevanti, in quanto l’aumento delle conquiste fece aumentare il numero 
degli schiavi. Quando un romano cadeva prigioniero dei nemici, i romani 
ritenevano che la sua posizione fosse transitoria e se egli fosse riuscito 
a rientrare in patria avrebbe riacquisito tutti i suoi poteri; l’istituto 
che lo garantiva era il postliminium. 

La nascita da madre schiava
I  nati  fuori  dal  matrimonio  seguivano  lo  status  della  madre  al  momento 
della   nascita   e   poiché   con   la   schiava   non   era   possibile   contrarre 
matrimonio, ne risultava che i nati da schiava erano schiavi.

La deditio
Era la consegna ad uno Stato straniero di un individuo che aveva violato 
le   regole   internazionali   tra   Roma   e   quello   Stato;   la  deditio  ricadeva 
nell’ipotesi di captivitas.

La vendita trans Tiberim
Nelle XII Tavole era prevista per una serie di persona la vendita  trans 
Tiberim,   al   di   là   del   Tevere,   in   territorio   etrusco   ove   diventavano 
schiavi e questo valeva per il debitore insolvente, chi si era sottratto 
al   servizio   militare   (infrequens),   il   disertore  (fugitivus  o  disertor), 
colui che si era sottratto al censimento (incensus).

La addictio del fur nocturnus al derubato
Secondo le XII Tavole il fur manifestus veniva addictus al derubato, a lui 
assegnato   in   condizione   di   schiavitù;   secondo   alcuni   invece   il  fur 
manifestus  veniva   venduto  trans  Tiberim  in   quanto   la   sua  addictio  al 
derubato avrebbe comportato la sua schiavitù in patria, cosa contraria ai 
principi romani.

La vendita del filius da parte del paterfamilias
Il filiusfamilias venduto dal pater o consegnato ad altro paterfamilias ai 
danni   del   quale   il  filius  aveva   commesso   un   illecito,   si   definiva  in 
mancipio; la condizione in cui veniva a trovarsi il filius in mancipio era 
quella di una schiavo, infatti alla morte del pater cui era stato venduto 
egli non acquistava la libertà, ma passava sotto il potere di un nuovo 
pater,   proprio   come   gli   schiavi.   Quando   si   ammise   che   potesse   essere 
liberato dal compratore, l’atto con cui veniva liberato era la manumissio, 
lo stesso che dava la libertà agli schiavi.

b) Condizione degli schiavi e rilevanza sociale ed economica della 
schiavitù nel periodo arcaico
Nel   primo   periodo   della   storia   di   Roma   il   numero   degli   schiavi   era 
limitato e il loro lavoro non aveva grande incidenza sull’economia; a Roma 
in   quel   periodo   erano   i  paterfamilias  con   i   loro   figli   a   coltivare   i 
piccoli appezzamenti di terra; anche se assai meno pesante di quella dei 
secoli successivi, la condizione servile era comunque iniqua; gli schiavi 
potevano essere venduti, puniti, messi a morte dal loro dominus. A questi 
poteri   erano   sottoposti   anche   i   membri   liberi   della  familia;   l’unica 
differenza tra la sottoposizione del  filius  alla patria potestas, della 
moglie e delle mogli dei figli alla manus e quella degli schiavi, con la 
dominica  potestas,   era   che   per   i   primi   due   soggetti   era   transitoria, 
mentre per gli schiavi era perenne e alla morte del  dominus, diventavano 
proprietà di  uno  degli  eredi,  in  quanto  parte del  patrimonio.  Gli  atti 
compiuti dallo schiavo producevano effetti giuridici a seconda del tipo; 
se   comportavano   l’acquisto   di   un   diritto,   questo   veniva   acquisito 
automaticamente   dal   dominus,   mentre   se   comportava   l’assunzione   di   un 
obbligo,   il  dominus  non   ne   rispondeva.   I   suoi   atti   producevano   effetti 
anche dal punto di vista penale, infatti se egli commetteva un delitto, la 
vittima   poteva   agire   giudizialmente   contro   il  dominus;   questi   poteva 
liberarsi   di   ogni   responsabilità   compiendo   la  noxae   deditio  (dazione   a 
nossa), ossia consegnando lo schiavo alla famiglia dell’offeso. Se invece 
lo schiavo commetteva un crimine la cui pena non era pecuniaria, allora 
poteva   regolarmente   essere   processato   e   condannato,   ma   le   pene   erano 
diverse dalle stesse a cui erano assoggettati gli uomini liberi.

c) Modi di liberazione dalla schiavitù
La schiavitù era una condizione perenne, che poteva cessare solo per un 
atto di volontà del padrone, detto manomissione (manumissio); vi era tre 
tipi di  manumissio  esistenti sin  da  un’epoca  molto  antica,  ed erano la 
manumissio testamento, la manumissio vindicta e la manumissio censu.

La manumissio testamento
Consisteva   in   una   dichiarazione   di   ultima   volontà   del   dominus,   che   nel 
regolare la sorte del suo patrimonio per il momento successivo alla sua 
morte donava solennemente la libertà allo schiavo.

La manumissio vindicta
Era   un’applicazione   del   processo   di   libertà   e   si   svolgeva   dinanzi   al 
magistrato; essa prevedeva un accordo tra il dominus dello schiavo e una 
persona di fiducia, detta  adsertor  libertatis, che compiva la  vindicatio 
in libertatem, vale a dire dichiarava dinanzi al magistrato che lo schiavo 
era   di   condizione   libera,   toccandolo   con   una   bacchetta   (vindicta);   il 
padrone   dello   schiavo   a   questo   punto   taceva   o   si   ritraeva   (anziché 
effettuare una  controvindicatio); il magistrato ratificava la  vindicatio 
compiuta  dall’adsertor  con   una  addictio,   dichiarando   lo   schiavo   libero; 
questa era un delle applicazioni della in iure cessio.

La manumissio censu
Consisteva nella richiesta, fatta dal padrone dello schiavo al censore, di 
iscrivere lo schiavo nelle liste del censo, ma questa manomissione poteva 
avvenire solo ogni 5 anni.

d) Libertà e cittadinanza
In origine, manomettere uno schiavo significava dargli oltre alla libertà, 
anche la cittadinanza romana, in quanto questi due istituti erano legati 
tra di loro a tal punto che non potevano non esistere simultaneamente; gli 
schiavi   manomessi   anche   se   erano   liberi   e   cittadini   romani   non   erano 
uguali   agli  ingenui  (i   nati   liberi);   essi   erano   definiti  liberti  e 
continuavano ad essere legati all’ex  dominus, detto ora  patronus, da uno 
speciale   rapporto   che   li   vincolava   a   determinate   prestazioni   e 
comportamenti nei suoi confronti.

2. Romani e stranieri

a) Modi di acquisto della cittadinanza romana
Cittadini   romani   si   poteva   essere   per   nascita,   per   concessione   della 
libertà da parte del dominus e per concessione da parte della civitas.

La nascita
Era romano per nascita chi era figlio di un cittadino, o figlio naturale 
di  una  cittadina;  i  figli  nati  da un  matrimonio  legittimo seguivano  la 
condizione   del   padre   al   momento   del   concepimento,   quelli   che   nascevano 
fuori   del   matrimonio   seguivano,   invece,   la   condizione   della   madre   al 
momento  della  nascita.  Lo  status  di  cittadino non  comportava  di  per  sé 
l’esercizio dei diritti politici, infatti le donne non avevano capacità di 
diritto pubblico; gli uomini l’acquistavano a 17 anni, età in cui venivano 
arruolati come soldati.

La manomissione
Diventava romano lo schiavo liberato dal dominus.

Concessioni individuali e collettive da parte della civitas
Già durante l’età regia, il rex poteva concedere la cittadinanza a persone 
di suo gradimento o a intere comunità di persone; in età repubblicana, la 
concessione sia individuale che collettiva veniva fatta dai comizi, con 
una legge comiziale.

Annessione di un territorio conquistato
Si poteva diventare cittadini romani anche in quanto appartenenti a una 
comunità politica conquistata dai romani, mediante l’annessione.

Esercizio del ius migrandi da parte dei latini
Diritto di acquistare la cittadinanza romana trasferendosi a Roma.
b) La cittadinanza romana come privilegio
Essere   cittadini   romani   portava   con   sé   molti   privilegi;   in   primis   non 
poter  essere  messi  a  morte  dal  magistrato  senza  un  giudizio  del  popolo 
riunito nei comizi centuriati, attraverso la  provacatio ad populum; egli 
non poteva inoltre essere sottoposto a tortura fisica e a fustigazione. 
Uno dei motivi che permise ai romani di governare per lungo tempo e su di 
un   vasto   territorio,   fu   proprio   quello   di   dare   la   cittadinanza   romana 
anche agli stranieri.

c) Perdita della cittadinanza
La cittadinanza poteva essere persa per vari motivi e precisamente:

1.  
perdita della libertà
 ; la sua perdita faceva perdere lo status di 
cittadino romano;

2.  
acquisto di un’altra cittadinanza ; chi si allontanava da Roma e 
si stabiliva in un altro Stato perdeva la cittadinanza romana;

3.  
condanna penale
 ; la perdita della cittadinanza veniva inflitta a 
chi veniva condannato per sacertà e per aqua et igni interdictio, 
cioè ai condannati a morte che erano riusciti a fuggire da Roma;

4.  
partecipazione a una colonia latina
 .

d) Gli stranieri
Nel   mondo   antico   lo   straniero   era   considerato   diverso   e   guardato   con 
sospetto,   ma   questa   diffidenza   non   era   originaria,   infatti   a   Roma,   nei 
suoi   inizi,   vi   era   una   certa   disposizione   a   integrare   al   suo   interno 
(grazie all’asylum) tutti coloro che erano stati costretti per qualunque 
motivo ad abbandonare la patria; Roma fu una città aperta in quel periodo 
la cui cultura si giovò di influenze etrusche e greche.

e) Gli stranieri privilegiati: i latini
I latini, tra gli stranieri, godevano di un trattamento particolare, che 
risale   al  foedus  Cassianum  del   493   a.C.;   i   cittadini   di   queste   città 
(quelle   della   lega   latina)   venivano   detti   latini  prisci,   mentre   quelli 
delle città fondate nei territori conquistati dalla lega latina, venivano 
detti latini colonia rii. In forza del  ius  Latii, i latini godevano di 
vari privilegi:

 il  ius  migrandi,   cioè   il   diritto   di   acquistare   la   cittadinanza 


romana trasferendosi a Roma;

 il ius suffragii, cioè il diritto di votare qualora si trovassero a 
Roma il giorno in cui si riunivano i comizi;

 il ius commercii (o commercium), cioè il diritto di compiere atti di 
trasferimento   con   il   negozio   chiamato  mancipatio,   e   di   concludere 
accordi nella forma del  nexum; questi negozio, come la  mancipatio, 
era  uno  dei  solenni  negozi  detti  per  aes et  libram,  in  quanto  il 
loro compimento richiedeva l’uso di una stadera (libra), sulla quale 
veniva   dapprima   realmente   e   poi   simbolicamente   pesato   un   pezzo   di 
bronzo (aes), in funzione di prezzo;

 il ius conubii (o conubium), cioè il diritto di sposare un cittadino 
o   una   cittadina   romana;   il   latino   che   sposava   la   romana   non 
acquisiva però su di lei il potere, detto manus.

f) Gli altri stranieri
I   privilegi   concessi   ai   latini   potevano   essere   concessi   anche   ad   altri 
stranieri   o   ad   altre   comunità   straniere,   e   quelli   concessi   erano   il 
commercium e il conubium.

g) Sui iuris e alini iuris
La   divisione   in  sui   iuris  e  alieni   iuris  atteneva   alla   posizione 
all’interno   della   famiglia;   erano  sui   iuris  coloro   che   non   avevano 
ascendenti maschi, mentre erano  alieni iuris  coloro che erano sottoposti 
al potere di un  paterfamilias; questo potere poteva essere sia la  patria 
potestas sia la manus.

h) Soggetti diversi dalle persone fisiche
Nel nostro ordinamento si parla di persone giuridiche; nel diritto romano 
s’iniziò a prendere in considerazione questo problema in età repubblicana, 
in   quanto   in   età   monarchica   le   formazioni   sociali   di   rilievo   (familia, 
gens,   Stato)   non   venivano   prese   in   considerazione   come   un   insieme   di 
persone e interessi. La familia ad esempio s’identificava nella figura del 
paterfamilias.   In   età   repubblicana   i   gruppi   di   cittadini   riuniti   in 
assemblee   acquistarono   per   la   prima   volta   una   rilevanza   anche   esterna; 
questo gruppo unitario, definito  populus  romanus, col tempo porterà alla 
nascita del soggetto astratto di persona giuridica.

Dalla metà del secolo III a.C. alla metà del secolo III d.C.
1. Definizione di vita: vecchi e nuovi problemi
Secondo   i   principi   del  ius   civile,   il   nascituro   non   aveva   esistenza 
autonoma; Ulpiano sosteneva che il pretore, nel suo editto, ritenne di dar 
tutela oltre che ai figli che sono già venuti al mondo, anche a quelli non 
ancora nati. Si pose poi il problema di considerare nato, l’essere che non 
aveva possibilità di sopravvivenza e il monstrum vel prodigium; secondo la 
giurisprudenza classica il figlio mostruoso doveva considerarsi come non 
nato,   in   quanto,   inoltre,   segno   dell’ira   divina   e   quindi   maledetto   e 
contaminante.   Con   riferimento   all’individuazione   del   momento   in   cui   la 
vita   cessava   i   giuristi   si   posero   il   problema   di   quando   due   persone 
morissero   nella   stessa   circostanza;   la   soluzione   fu   affidata   in   base 
all’età,   cioè   in   caso   di   commorienza   (di   genitore   e   figlio),   si 
considerava premorto il genitore se il figlio era pubere, e il figlio se 
era impubere.

2. Le divisiones personarum
Le differenze di status che determinavano le differenze delle situazioni 
personali, furono molto determinanti anche in quest’età.
a) Liberi e schiavi
In questo periodo il numero degli schiavi crebbe a dismisura e con esso 
crebbe lo sfruttamento servile; vi era una minoranza di schiavi, però, che 
godeva di condizioni migliori ed erano i famosi schiavi pedagoghi, quelli 
che   esercitavano   la   medicina   o   quelli   nominati   dal  dominus  per   gestire 
un’azienda.   La   condizione   degli   schiavi   non   cambiò   di   molto,   vennero 
inclusi nella categoria delle  res mancipi, le cose di maggior importanza 
sociale, il cui trasferimento richiedeva appositi negozi solenni del  ius 
civile. Si attenuò invece il potere del paterfamilias sui filiusfamilias.

I figli della schiava sono “frutti”?
In quest’epoca si sviluppò una questione in merito ai figli della schiava 
data in usufrutto, e cioè se considerare i figli della schiava come frutti 
e quindi spettanti all’usufruttuario, oppure se non erano da considerare 
frutti e quindi erano di proprietà del dominus della schiava. La questione 
si   risolse   nella   seconda   ipotesi   e   questo   anche   per   motivi   di   natura 
economica.   Con   riferimento   alla   prigionia   di   guerra,   va   ricordata 
l’elaborazione di regole in materia di postliminium e sull’intenzione del 
captivus  di tornare in patria, considerata condizione essenziale per il 
riacquisto   dei   diritti   iure  postliminii;   la   lex   Cornelia   de  captivis 
nell’80   a.C.   stabilì   che   se   un   cittadino   romano   moriva   in   stato   di 
prigionia,   si   fingesse   che   egli   fosse   morto   libero,   così   che   il   suo 
testamento potesse essere considerato valido. Non rientravano nel campo di 
applicazione del  postliminium  il matrimonio ed il possesso e quindi, al 
termine della prigionia, queste situazioni di fatto produttive di effetti 
giuridiche   andavano   ricostruite.   In   quest’epoca   nacque   il   problema   di 
stabilire se la deditio fosse un atto unilaterale o bilaterale, cioè se la 
schiavitù del deditus dipendesse semplicemente dalla consegna al nemico, o 
se   fosse   necessaria   l’accettazione   da   parte   di   questo.   Non   furono   più 
considerate causa di schiavitù la addictio del fur nocturnus al derubato o 
la   vendita   del  filiusfamilias  da   parte   del  pater,   mentre   vennero 
considerate fonte di schiavitù iuris civilis alcune circostanze nuove:

   un senatoconsulto  Claudianum  del 52 d.C. stabilì che la donna che 


intratteneva   rapporti   sessuali   con   uno   schiavo   diventasse   schiava 
del padrone di questo, se, dopo 3 diffide del dominus continuasse 
nella relazione; questa regola infrangeva il principio per cui non 
si   poteva   essere   schiavi   in   patria,   in   considerazione 
dell’importanza   dell’interesse   protetto,   ossia   un   interesse 
patrimoniale del dominus dello schiavo;

 alcune   condanne   criminali,   come   la   condanna  ad   metalla,   cioè   a 


lavorare nelle miniere, rendevano il condannato  servus  poenae; era 
considerata   fonte   di   schiavitù   la   condanna   a   morte,   in   quanto   il 
condannato perdeva lo status libertatis;

 diventava schiavo il cittadino di età superiore ai 20 anni che si 
fosse   accordato   per   farsi   vendere   come   schiavo,   allo   scopo   di 
dividere il prezzo del suo acquisto con il venditore.
Nuove forme di manomissione
Le sole manomissioni capaci di conferire al manomesso sia la libertà sia 
lo   stato   di   cittadino   furono   le   vecchie  manumissiones  del   ius   civile; 
l’unica   che   continuò   ad   essere   praticata   e   che   non   subì   modifiche   fu 
quella  testamento; la  manumissio  censu  scomparve durante il Principato e 
quella  vindicta  era stata sensibilmente semplificata; perché essa avesse 
valore, non era indispensabile compierla nel luogo in cui il magistrato 
esercitava   le   sue   funzioni   (in  iure),   ma   produceva   effetto   anche   se 
compiuta   nel   luogo   in   cui   il   magistrato   occasionalmente   si   trovava   ed 
inoltre la procedura era stata snellita. Entrarono in uso forme nuove e 
non   formali   di   manomissione,   all’interno   delle   quali   vennero 
consolidandosi   tre   tipo,   la   manumissio   inter   amicos,   la  manumissio   per 
epistulam e la manumissio per mensam:

 la  manumissio   inter   amicos  aveva   luogo   ogniqualvolta   il   dominus 


dichiarava   esplicitamente   dinanzi   ad   un   gruppo   di   amici   di   voler 
dare la libertà allo schiavo;

 la  manumissio   per   epistulam  aveva   luogo   quando   il   dominus   inviava 


allo schiavo una lettera nella quale dichiarava la sua intenzione di 
liberarlo;

 la  manumissio per mensam  consisteva nell’ammettere lo schiavo a un 
banchetto, in mezzo ai propri amici.

In un primo momento queste manomissioni non avevano effetti giuridici, ma 
a   difesa   degli   schiavi   intervenne   prima   il   pretore   e   poi   la  lex   Iunia 
Norbana, che riconobbe loro lo status di liberi e di latini coloniarii; la 
libertà comunque aveva dei limiti, in quanto non prevedeva la capacità di 
fare testamento, e di conseguenza alla loro morte i loro beni tornavano 
all’ex padrone.

Leggi limitative delle manomissioni
In questo periodo ci furono due leggi in materia di manomissioni:

 la Lex Fufia Caninia (2 a.C.), che stabilì un rapporto tra il numero 
degli schiavi appartenenti a una persona e quello degli schiavi che 
questa persona poteva manomette; le manomissioni compiute in fraudem 
legis erano nulle;

 la  Lex   Aelia   Sentia  (4.d.C.)   stabiliva   che   fossero   nulle   le 


manomissioni in frode ai creditori e stabiliva un limite minimo di 
età   sia   per   chi   manometteva   sia   per   chi   veniva   manomesso.   Le 
manomissioni   compiute   contro   le   disposizioni   di   questa   legge   non 
erano nulle, ma conferivano ai manomessi lo status di latini Iuniani 
o di peregrini dediticii.

Augusto, pur desiderando un aumento nel numero dei cittadini, voleva anche 
evitare che Roma e la penisola fossero popolate da una massa sempre più 
grande di ex schiavi.
Il trattamento degli schiavi: nuove regola giuridiche
In questo periodo vennero introdotte nuove regole sul trattamento degli 
schiavi;   alcune   di   esse   peggiorarono   la   condizione   servile,   altre   la 
migliorarono. Sicuramente la peggiorò il  senatusconsultum Silanianum  del 
10 d.C., laddove, qualora un dominus venisse ucciso, tutti gli schiavi di 
casa,   dopo   essere   stati   sottoposti   a   tortura,   dovevano   essere   messi   a 
morte; lo schiavo che rivelava il nome dell’assassino veniva risparmiato e 
reso libero con decreto del pretore. Inoltre se uno schiavo commetteva un 
crimine  la  pena  era  diversa  rispetto  ad  un  cittadino,  infatti  ai  primi 
toccavano sempre le morti più atroci. A favore degli schiavi ci furono poi 
una serie di disposizioni, tra cui la lex Petronia, che vietava ai padroni 
di   far   combattere   i   loro   schiavi   contro   le   belve   e   di   venderli   perché 
fossero   destinati   a   questa   attività.   Venne   considerato   come   crimine 
l’uccisione dello schiavo altrui (e non più solo come danneggiamento); si 
decise che il  dominus  fosse punito per l’uccisione del proprio schiavo o 
che   abbandonasse   lo   schiavo   malato.   In   quest’epoca   iniziò   ad   essere 
tutelata   la   condizione   delle   schiave   dall’essere   adibite   alla 
prostituzione, con l’inserimento di una clausola che vietava di vendere o 
acquistare   una   schiava   per   farla   prostituire.   Adriano   stabilì   che   la 
schiava acquistasse la libertà qualora il venditore, dopo aver apposto la 
clausola, tollerasse che il compratore la prostituisse.

La capacità di agire degli schiavi, la regolamentazione del peculium e la 
responsabilità patrimoniale del dominus
Gli   sotto   alcuni   profili   erano   considerati   oggetti,   mentre   sotto   altri 
erano persone; se erano puberi e sani di mente, gli veniva riconosciuta la 
piena capacità di intendere e di volere e i dominus si servivano di loro, 
incaricandoli di svolgere attività e affidando loro una somma di danaro o 
di beni detti peculium, della quale il servus poteva liberamente disporre, 
anche   se   la   proprietà   restava   del   dominus.   Tutti   gli   acquisti   compiuti 
gestendo il  peculium  si producevano in capo al padrone, ma questo creava 
problemi a terzi, in quanto il servus non aveva patrimonio e i creditori 
non potevano rivalersi su di lui. Il pretore, per far si che ci si potesse 
rivalere   nei   confronti   del  dominus,   introdusse   le  actiones   adiecticiae 
qualitatis; queste azioni erano l’actio quod iussu, l’actio de peculio et 
de in rem verso, l’actio institoria e l’actio exercitoria, nonché l’actio 
tributoria.  Con   un   espediente,   nella  intentio  della   formula   veniva 
indicato il nome del servus, mentre nella condemnatio quello del dominus, 
e così facendo era costretto a rispondere con il suo patrimonio dei debiti 
contratti   dal  servus,   entro   vari   limiti   in   base   all’actio  usata.   Nella 
actio de peculio, il dominus rispondeva solo entro il limite del peculium; 
la responsabilità poteva essere totale, quando aveva preposto il servus ad 
un’attività commerciale terrestre (il  servus  come  institor) o quando lo 
schiavo,   da   lui   incaricato   di   un’attività   marittima,   avesse   agito   come 
armatore (exercitor); in questi casi nei confronti del dominus si esperiva 
con la  actio  institoria  (attività terrestre) o con la  actio  exercitoria 
(marittima).   Inoltre   il  dominus  rispondeva   per   l’intero   quando   aveva 
autorizzato   lo   schiavo   a   concludere   un   determinato   atto   giuridico, 
attraverso la  actio  quod  iussu. Per quanto riguarda invece i delitti del 
ius  civile  commessi   dallo   schiavo,   il  dominus  poteva   continuare   a 
scegliere se difenderlo oppure farne la noxae deditio; quest’ultima poteva 
essere   fatta   anche   dopo   la   condanna,   mentre   prima   solo   all’inizio   del 
processo.

Tra liberi e schiavi: addicti e auctorati
Oltre agli schiavi, esistevano persone formalmente di stato libero, ma che 
in sostanza erano in schiavitù; questi erano gli addicti; la addictio non 
era   fonte   di   schiavitù,   ma   coloro   che   la   subivano   venivano   a   trovarsi 
fisicamente vincolati a colui al quale erano stati assegnati. Oltre al fur 
manifestus,   vi   era   il   caso   del   debitore   che   aveva   subito   la  manus 
iniectio,   fisicamente   vincolato   al   suo   creditore,   che   poteva   tenerla 
legato,   rinchiuderlo   nel   carcere   domestico,   costringerlo   a  lavorare   per 
lui e sottoporlo a punizioni anche fisiche; gli addicti potevano pagare il 
loro   debito   lavorando   per   il   debitore,   ma   non   esisteva   una   norma   che 
garantiva  il   rilascio  dell’addictus,   che   dipendeva  quindi   dalla   volontà 
del   creditore.   Nella   stessa   posizione   degli  addicti  si   trovavano   gli 
auctorati,   coloro   che   si   vincolavano   a   una   persona   che   si   occupava   di 
organizzare le loro esibizioni come gladiatori.

Il leasing di gladiatori
Dopo   essere   stati   addestrati   in   apposite   scuole,   i   gladiatori   venivano 
mandati   a   combattere   nelle   arene.   Il   contratto   che   li   costringeva   a 
combattere veniva concluso tra chi li aveva addestrati (o il dominus) e 
chi   organizzava   lo   spettacolo;   l’accordo   fu   oggetto   di   una   lunga 
discussione, infatti alcuni ritenevano che i gladiatori venissero dati in 
locazioni, altri che invece sostenevano la vendita. La conclusione fu la 
stipula   della  locatio­conductio,   per   quelli   che   uscivano   indenni   dal 
combattimento,   mentre   per   chi   era   stato   ucciso   o   sopravvissuto   in 
condizioni tali da compromettere la capacità di combattere era la vendita.

3. Cittadini e stranieri
In   quest’epoca,   grazie   al   ius   gentium   e   al   praetor   peregrinus,   agli 
stranieri   venne   concessa   protezione   giuridica   anche   individuale, 
indipendente   dall’esistenza   di   accordi   internazionali   (come   in   età 
arcaica); tra i vari espedienti vi era la fictio civitatis, ossia l’invito 
al giudice a giudicare come se la parte che chiedeva tutela  civis  esset 
(fosse cittadino); l’usucapione, però, era concessa solo ai romani e di 
conseguenza   i   peregrini   non   potevano   avere   la   proprietà   peregrina.   I 
peregrini   erano   tutelati,   inoltre,   dal   diritto   della   comunità   cui 
appartenevano;   se   questa   era   rimasta   autonoma   questo   diritto   veniva 
applicato dai giudici della comunità stessa, mentre se invece la comunità 
aveva   resistito   a   oltranza   alla   conquista   romana   ed   era   stata   infine 
costretta   ad   arrendersi,   a   discrezione   i   suoi   componenti   (peregrini 
dediticii) avevano capacità solo rispetto al ius gentium e agli istituti 
pretori   non   riservati   ai   romani.   I   latini   continuarono   ad   esistere,   ma 
mentre i prisci diminuivano man mano e scomparvero quando la cittadinanza 
fu estesa a tutti gli italici, i latini coloniarii erano numerosi, sia per 
l’alto numero di colonie dedotte, sia per l’equiparazione a questi latini 
degli schiavi manomessi in base alle leggi Iunia Norbana e Aelia Sentia.

a) Acquisto e perdita della cittadinanza romana
Secondo le regole del ius civile il figlio nato da iustae nuptiae seguiva 
la condizione del padre al momento del concepimento, mentre in mancanza di 
iustae nuptiae seguiva la condizione della madre al momento della nascita; 
quindi  la cittadinanza si acquistava con la nascita da padre cittadino e 
da   madre   a   questi   unita   da  iustae  nuptiae;   in   età   preclassica   una  lex 
Minicia  stabilì   che   il   figlio   nato   da   genitori   che   avevano   un   diverso 
status  civitatis  avesse   lo   status   del   genitore   in   condizione   più 
sfavorevole,   ma   dopo   la   guerra   sociale   (91­89   a.C.)   una   serie   di 
provvedimenti facilitò il conseguimento della cittadinanza agli stranieri; 
un   senatoconsulto   voluto   da   Adriano,   nel   II   secolo,   riconosceva   la 
cittadinanza al figlio di una cittadina romana e di un latino; un altro 
senatoconsulto   regolò   la   situazione   dei   romani   che   credendo   di   essere 
peregrini avessero spostato una peregrina e dei peregrini che credendosi 
romani avevano sposato una romana; in questi casi potevano dimostrare la 
causa del proprio errore (erroris causae probatio), e in caso di riuscita, 
ottenere la cittadinanza romana per il coniuge o per sé, e per il figlio. 
Diventava ovviamente romano, il latino che esercitava il ius migrandi. La 
perdita della cittadinanza romana, derivava dalla perdita della libertà, 
dalla partecipazione a una colonia latina, dall’acquisto di cittadinanza 
in un’altra comunità e di alcune condanne; tra quest’ultime vi era la aqua 
et   igni   interdictio,   la  deportatio  e   la   condanna   ai   lavori   forzati 
perpetui.

Concessioni collettive
A partire dalla guerra sociale, le concessioni collettive di cittadinanza 
si susseguirono rapidamente; alla fine di questa guerra la cittadinanza 
venne estesa a tutti gli italici, mentre dal 212 d.C. venne estesa, grazie 
alla Constitutio Antoniana, a tutti gli abitanti dell’Impero, ad eccezione 
dei dediticii.

4. Sui iuris e alieni iuris

a) La capacità di agire dei figli, il peculium e la responsabilità 
patrimoniale del paterfamilias
Fatta   salva   la   transitorietà   della   loro   condizione,   l’incapacità 
patrimoniale dei figli era identica a quella degli schiavi e poneva gli 
stessi problemi. Anche ai figli si usava concedere un peculium e anche per 
i   debiti   contratti   dai  filii  il   pretore   concedeva  actiones  adiecticiae 
qualitatis, per consentire ai terzi di recuperare il dovuto. Con Augusto, 
accanto al peculium concesso dal pater (profecticium) venne introdotto il 
peculium  castrense  (militare),   che   comprendeva   ciò   che   il   figlio 
acquistava durante il servizio militare, e quindi la paga, il bottino, e 
anche   eredità   e   legati   ricevuti   da   compagni   d’arme;   quel   che   è   più 
importante a proposito di questo  peculium, è il fatto che Augusto ammise 
che   il  filiusfamilias  potesse   disporne   in   testamento;   il  peculium 
castrense assunse la configurazione di un patrimonio autonomo, che tornava 
al pater solo se il figlio moriva senza averlo disperso e senza averne 
disposto mortis causa.

b) La capacità delle donne: la tutela muliebre
La  tutela  muliebre  si   indebolì   nel   tempo   sino   a   scomparire   in   età 
imperiale. L’alto numero di uomini morti in guerra, aveva reso molte donne 
sui   iuris   ed   economicamente   indipendenti;   e   anche   quelle   soggette   a 
potestà,   non   lo   erano   comunque   nei   fatti;   gli   uomini,   impegnati   nelle 
campagne e preoccupazioni belliche, avevano meno tempo per controllare le 
donne.

c) I minori di 25 anni
Sul   finire   del   secolo   III   a.C.   una  lex   Laetoria  o  Plaetoria   de 
circumscriptione adulescentium stabilì una pena pecuniaria a carico di chi 
avesse indotto una persona sui iuris minore di 25 anni a concludere un 
negozio   che   pregiudicava   i   suoi   interessi.   Il   pretore   intervenne 
concedendo una difesa (exceptio) al minore al quale veniva chiesto in via 
giudiziale l’adempimento dell’impegno assunto; successivamente il pretore 
intervenne   anche   qualora   il   minore   avesse   già   compiuto   l’atto 
pregiudizievole,   concedendogli   una  restitutio   in   integrum.   In 
considerazione che gli atti del minore di 25 anni rischiavano di essere 
impugnati secondo il ius honorarium, vennero nominati dei curatori, che 
divennero permanenti con Marco Aurelio.

5. Soggetti diversi dalla persona fisica
In questo periodo la “persona giuridica” non esisteva secondo l’accezione 
moderna; tuttavia, da un punto di vista giuridico, il populus romanus era 
la   personificazione   della   collettività   dei   cittadini.   Esso   possedeva 
l’ager publicus, e nello svolgimento delle diverse attività giuridiche era 
rappresentato dai suoi magistrati; con il Principato, accanto al populus, 
si   affianco   il  princeps,   che   se   pur   persona   fisica,   era   la 
personificazione   giuridica   della   comunità.   Accanto   al   suo   patrimonio 
personale, il princeps possedeva il  fiscus, patrimonio formato dai beni 
che facevano capo a lui in forza della sua carica, e che al momento in cui 
questa   cessava   non   passavano   ai   suoi   eredi   personali,   ma   al   nuovo 
princeps. I  municipia  e  le  coloniae  agivano  come  soggetti  non  solo  nel 
campo del diritto pubblico, ma anche in quello privato; vi erano inoltre 
una serie di associazioni (collegia), che nacquero in questo periodo, come 
i  collegia  fullonum  (associazioni   di   lavandai),   i  collegia  pistorum 
(panettieri); ovviamente per queste associazioni non era possibile parlare 
di persone giuridiche, nel senso moderno, ma il loro porsi nel diritto, 
prefigurò   con   il   tempo   l’evolversi   di   questo   concetto,   cioè   di   persona 
giuridica.

Dall’anarchia militare alla morte di Giustiniano

1. Liberi e schiavi: declino e fine del mondo di produzione 
schiavistico
In età postclassica il numero degli schiavi era fortemente diminuito e la 
causa di ciò erano state in primo luogo la fine delle grandi guerre di 
conquista e anche, in misura minore, la diffusione tra i cristiani della 
pratica   di   manomettere   i   propri   schiavi,   facendo   aumentare   il   prezzo 
d’acquisto   di   questi.   Era   quindi   diventato   interesse   del   padrone   non 
diminuire   il   suo   patrimonio   sottoponendo   i   suoi   schiavi   a   eccessive 
fatiche. Il lavoro servile era diventato costoso e spesso i proprietari 
terrieri   utilizzarono   frequentemente   il   lavoro   salariato   dei   liberi, 
economicamente più conveniente.

2. Mutamento della condizione servile: il cristianesimo e la 
legislazione imperiale
A   determinare   il   mutamento   della   condizione   servile   aveva  sensibilmente 
contribuito anche la dottrina cristiana, che oltre ad invitare a liberare 
gli   schiavi,   esortava   a   trattarli   con   umanità,   e   questo,   oltre   alla 
pratica sociale, influenzò anche la legislazione imperiale.

a) Tutela della vita, della famiglia e della dignità degli schiavi
Tra   i   provvedimenti   più   significativi   in   materia   si   può   ricordare,   in 
primis, la costituzione di Costantino (319) che stabilì che il dominus che 
uccideva   il   proprio   schiavo   fosse   condannato   come   omicida;   sempre 
Costantino, nel 334, stabilì che qualora si facesse luogo a una divisione 
ereditaria che comportava la divisione di appezzamenti di terra, questa 
dovesse essere fatta in modo da non separare le famiglie degli schiavi e 
dei   coloni.   Nelle   Istituzioni   di   Giustiniano   si   legge   inoltre   che,   “al 
nostro   tempo   a   nessun   uomo   che   vive   sotto   il   nostro   impero   è   lecito  
infierire sui suoi servi senza una causa stabilita dalla legge e oltre 
misura”. In questo periodo si giunse a stabilire che qualunque cittadino 
potesse rivendicare come libera la schiava costretta a prostituirsi, senza 
dover   affrontare   alcuna   spesa   processuale.   Anche   con   l’instaurarsi   del 
Cristianesimo come religione di Stato, non vi fu mai l’abolizione della 
schiavitù,   che   continuava   ad   essere   un   istituto   iuris   gentium,   ma   si 
riconobbe che essa era contraria al diritto naturale, in quanto all’inizio 
tutti gli uomini nascevano liberi.

3. La capacità patrimoniale dei servi e il processo di libertà
Si   affermò   il   principio   secondo   il   quale   la   titolarità   del  peculium 
spettava   allo   schiavo;   dal   422,   una   volta   assodato   che   lo   schiavo   non 
avesse debiti verso il dominus, poteva essere esperita direttamente nei 
suoi confronti un’actio utilis de peculio; questo principio venne recepito 
nel   diritto   giustinianeo.   A   partire   dal   IV   secolo   gli   schiavi   potevano 
difendersi   da   soli   senza   bisogno   dell’adsertor  libertatis.   Nel   393   si 
stabilì che chi venisse rivendicato come schiavo dopo aver vissuto come 
libero per 20 anni, ovvero dopo aver ricoperto una carica pubblica senza 
che il preteso dominus rivendicasse il suo diritto, potesse difendersi da 
solo, e che se era in buona fede acquistasse la libertà. Giustiniano nel 
528 abolì la  figura  dell’adsertor  e consentì,  a tutti coloro della cui 
condizione servile si discuteva, di difendersi personalmente in giudizio.

4. Le fonti della schiavitù
Diminuito   il   flusso   dei   prigionieri   di   guerra,   in   età   postclassica   la 
fonte della schiavitù più rilavante era la nascita da madre schiava. Si 
affermò il principio secondo il quale il figlio nasceva libero se la madre 
era   libera   al   momento   del   concepimento,   ovvero   se   era   stata   libera   in 
qualunque momento nel periodo decorso tra il concepimento e la nascita del 
figlio.   Nel   531­534   Giustiniano   abrogò   il   senatoconsulto  Claudianum,   in 
forza del quale la donna che contro il volere del padrone e contro i suoi 
inviti   a   interromperla   manteneva   una   relazione   con   uno   schiavo   altrui 
poteva  diventare  schiava  del  dominus  di  questi;  nel  535  stabilì  che  la 
condanna   ad   metalla   non   comportasse   più   la   perdita   dello  status 
libertatis.

5. L’acquisto dello status libertatis
Vennero riconosciute numerose ipotesi di acquisto della libertà da parte 
dello   schiavo;   ad   esempio   la   libertà   venne   concessa   agli   schiavi   come 
premio per aver denunciato crimini particolarmente gravi, oppure, nel 531, 
quando la schiava concubina del suo dominus in caso questi morisse senza 
lasciare testamento, diventasse libera insieme ai figli nati dall’unione. 
Diocleziano stabilì che lo schiavo che aveva vissuto 20 anni in buona fece 
come   libero,   acquistasse   la   libertà;   Costantino   diede   valore   alla 
manumissio  in   sacrosanctis   ecclesiis,   che   si   realizzava   attraverso   una 
dichiarazione   di   volontà   del  dominus  alla   presenza   del   vescovo   e   dei 
correligionari.   Giustiniano   inoltre   abrogò   una   serie   di   provvedimenti 
restrittivi,   quali   la  lex   Fufia   Caninia,   che   imponeva   limiti   alle 
manomissioni,   disposizioni   della  lex   Aelia   Sentia,   tranne   per   le 
manomissioni in frode ai creditori, e la categoria dei  latini Iuniani. A 
questo punto qualunque  manumissio  aveva l’effetto di conferire libertà e 
cittadinanza   romana.   Giustiniano,   nel   535,   stabilì   che   lo   schiavo 
abbandonato dal padrone, acquistasse automaticamente la libertà.

6. Le nuove  forme di assoggettamento personale: il colonato
Il ricorso al lavoro servile era diventato antieconomico e difficoltoso e 
per questo i proprietari terrieri  ricorsero alla manodopera salariata, ma 
questo si scontrava con lo spopolamento delle campagne; in considerazione 
di   ciò,   il   fisco   vide   le   sue   entrate   diminuire   e   questo   indusse   gli 
imperatori   a   prendere   provvedimenti   tesi   a   limitare   la   libertà   dei 
lavoratori agricoli e questi istituti fortemente limitativi della libertà 
personale   configurarono   il  colonato.   Nel   328   Costantino   vietò   a   chi 
alienava un fondo di separare da questo, spostandoli altrove, i coloni che 
lo coltivavano; nel 365 una costituzione di Valentiniano e Valente stabilì 
che i servi, i liberti e i coloni imperiali, nonché i figli e i nipoti di 
questi che avessero tentato di abbandonare i fondi venissero restituiti al 
patrimonio dell’imperatore. Il legame tra coloni e terra divenne tale che 
sul finire del IV secolo, i coloni, anche se formalmente liberi, erano nei 
fatti  servi   terrae  (schiavi   della   terra).   I   coloni   il   cui   nome   veniva 
iscritto   nel   registro   fiscale   accanto   alla   terra   che   coltivavano   erano 
detti adscripticii.

7. Fonti del colonato
Erano coloni coloro che nascevano da madre colona, anche se all’interno di 
un matrimonio con persona che non aveva questo status; nacque un problema 
in   merito   alla   condizione   dei   figli   di   genitori   coloni   legati   a   fondi 
diversi e questo fu risolto da Giustiniano nella Novella 162 del 539 che 
stabilì, che qualora il figlio fosse unico esso spettasse al dominus della 
madre; qualora i figli fossero due essi venivano assegnati  l’uno  ad un 
dominus e l’altro a quello del padre, mentre in casi di figli dispari, 
quello di più erano assegnato al dominus del fondo materno.   Si poteva 
diventare coloni anche per altri motivi, tra cui l’essere denunziati di 
mendicare,   nonostante   si   avesse   la   forza   e   la   capacità   di   lavorare, 
oppure, sul finire del secolo V, coloro che avevano vissuto 30 anni in 
condizione   di   coloni   non   potessero   più   lasciare   il   fondo   e   Giustiniano 
estese questa regola anche ai discendenti.

8. Liberazione dallo status di colono
Anche   se   di   fatto   era   molto   difficile,   teoricamente   era   possibile 
riacquistare la libertà e poteva avvenire nei seguenti modi:

1. l’atto con cui il dominus donava al colono la libertà, donandogli 
nel contempo il fondo al quale era legato;

2. l’assunzione di determinate cariche ecclesiastiche o dello stato 
monacale o aver esercitato per 30 anni la funzione di decurione o 
essere stato membro per 30 anni di corpora o collegia;

3. l’usucapione   dello   stato   di   libertà,   chi   aveva   vissuto   in 


condizione di libero per 30 anni (o 20 per la colonia).

9. Altre condizioni personali limitative della libertà
Gli interessi che avevano portato alla limitazione della libertà personale 
dei coloni determinarono la limitazione della libertà di altre categorie 
di persone e tra di esse:

1. gli   appartenenti   ai  collegia  (o  corpora),   ossia   coloro   che 


esercitavano   una   determinata   attività,   il   cui   esercizio   era 
considerato dallo Stato di pubblico interesse;

2. i  decurioni  (o  curiales), ossia i membri del senato dei municipi, 
delle   colonie   e   delle   diverse   città.   La   posizione   sociale   dei 
decurioni   in   principio   era   di   privilegio,   ma   col   tempo   divenne 
sempre più piena di doveri (munera), tra i quali la riscossione dei 
tributi   con   l’obbligo   di   risponderne   personalmente;   in 
considerazione   del   fatto   che   tanti   volevano   evitare   di   assumere 
questa   carica,   furono   introdotte   varie   regole   che   punivano   chi   si 
rifiutava   e   limitavano   la   capacità   dei   decurioni   di   disporre   dei 
loro beni;

3. coloro   che   non   erano   di   religione   cristiana   subirono   varie 


limitazioni, tra cui quella di fare e succedere ad un testamento; i 
manichei,   in   particolare,   erano   incapaci   di   qualsiasi   atto,   sia 
inter vivos sia mortis causa.
10.  Romani e peregrini
Con   Caracalla   dal   212   tutti   i   sudditi   dell’Impero   acquisirono   la 
cittadinanza romana, ad eccezione dei latini Iuniani, i latini Aeliani e i 
dediticii. Con Giustiniano vennero abolite queste categorie e tutti gli 
abitanti erano romani. Peregrini rimasero solo i barbari che vivevano al 
di là dei confini imperiali.

11. Acquisto e perdita della cittadinanza
Vi furono poche e limitate variazioni; ad esempio nel 320 si stabilì che 
il   figlio   di   una   donna  ingenua  e   di   un  servus  del   fisco   avesse   la 
cittadinanza   latina.   Ma   i   latini,   grazie   a   Giustiniano   ottennero   la 
cittadinanza romana. La perdita della cittadinanza nel IV secolo divenne 
una pena autonoma, a carico ad esempio delle persone di alto rango che 
avessero  fatto  legittimare  i  figli  nati  dalla loro  unione con  donna  di 
bassa condizione sociale e con una schiava.

12. Sui iuris e alieni iuris
In   questi   secoli   l’istituto   familiare   subì   forti   mutamenti   dovuti,   tra 
l’altro   al   venir   meno   del   valore   dei   vincoli  agnatizi  in   opposizione 
all’aumento di quelli basati sulla cognatio.

a) I rapporti tra patres e filiifamilias
Tra l’età postclassica e quella giustinianea il  ius vitae ac necis  venne 
abolito.   Con   Costantino   tale   diritto   esisteva   ancora,   ma   qualora   il 
rapporto   padre­figlio   venisse   in   considerazione   sotto   il   profilo 
criminale, gli imperatori cominciarono a punire extra ordinem i padri che 
abusavano del loro potere e si giunse a stabilire che il padre che avesse 
ucciso il figlio venisse punito con la poena cullei (quella prevista per i 
parricidi). Col tempo venne introdotto il principio secondo il quale la 
punizione   delle   infrazioni   più   gravi   commesse   dai   figli   doveva   essere 
affidata   ad   appositi   funzionari   imperiali.   Una   costituzione   del   365 
specificò   che   il   potere   di   correzione   sui   figli   minori   non   era 
riconosciuto ai padri senza limiti (in immensum), infatti, se l’atrocità 
del   comportamento   esorbitava   dai   limiti   del   diritto   di   correzione 
familiare   (ius   domesticae   emendationis)   il   potere   di   punire   il   figlio 
spettava agli organi dello Stato. Nel diritto giustinianeo scomparve la 
necis potestas.

b) Capacità patrimoniale del filiifamilias
In   questo   periodo   si   affermò   la   piena   capacità   patrimoniale   dei 
filiifamilias;   le   regole   in   merito   al  peculium  castrense,   nell’età 
giustinianea venne estesa anche al  peculium  quasi  castrense, durante il 
servizio   a   corte.   Con   Costantino   si   stabilì   che   il  paterfamilias  non 
potesse   disporre   né  inter   vivos  né  mortis   causa  dei   beni   che   il 
filiusfamilias  avesse   eredito   dalla   madre   (i  bona   materna);   rimaneva 
comunque in vigore il principio dell’incapacità patrimoniale dei figli, ma 
alla morte del  pater, questi potevano entrare in possesso anche dei  bona 
materna;   questo   regime   fu   poi   esteso   anche   ai   beni   lasciati   dagli 
ascendenti   materni   (bona  materna  generis)   e   la   regola   dell’incapacità 
patrimoniale dei filiufamilias fu superata.
c) Acquisto ed estinzione della patria potestas

L’adoptio
La  adoptio  avveniva con ogni probabilità davanti alla curia della città 
(ante curiam); sembra inoltre che nella parte orientale dell’impero fosse 
in uso e assai diffusa l’adozione per semplice scrittura privata, peraltro 
avversata   ed   esplicitamente   vietata   dalle   costituzioni   imperiali.   Con 
Giustiniano si stabilì che l’adoptio dovesse venire compiuta dinanzi a un 
funzionario   imperiale,   alla   presenza   dell’adottato,   oltre   che  del   padre 
originario e dell’adottante.

L’adrogatio
In questa epoca, l’adrogatio era consentita solo ex rescripto principali, 
cioè  per rescriptum principis. Diocleziano ammise che le donne  sui iuris 
potessero  adrogare, ribadendo però la regola principale che le donne non 
potevano essere titolari di patria potestas. Questa forma di adrogatio era 
consentita per consolare le donna dalla perdita dei suoi figli, attraverso 
la creazione di un legame di parentela.

L’emancipatio
Fino   a   Diocleziano,   l’emancipatio  era   utilizzata   nel   suo   antico   e 
complesso   rituale,   ma   con   Costantino   si   realizzava   con   una   semplice 
dichiarazione del paterfamilias alla presenza di un funzionario imperiale 
e del  filius; all’inizio del VI secolo venne introdotta l’emancipazione 
per rescritto imperiale e nel 531 Giustiniano abolì l’antico rituale e nel 
539 stabilì che il padre non potesse emancipare il figlio  infantia  maior 
senza il consenso di questi.

d) La tutela: donne i impuberi
La  tutela si  trasformò  da  potestas  in  munus  (dovere)  a  vantaggio  della 
persona   che   vi   era   sottoposta;   tra   la   fine   del   III   e   l’inizio   del   IV 
secolo scomparve la tutela muliebre, mentre perdurò la tutela legittima 
sugli   impuberi,   ma   prevalse   il   legame  cognatizio  rispetto   a   quello 
agnatizio. I tutori non potevano alienare alcun bene di valore del pupillo 
(le c.d. res mancipi) e Giustiniano stabilì che essi potessero riscuotere 
i   crediti   del   pupillo   solo   se   autorizzati   dal   magistrato.   In   questo 
periodo   tanti   atti   compiuti   dal   tutore   producevano   effetti   in   capo   al 
pupillo e quindi, quando usciva di tutela, l’ex pupillo poteva esperire 
delle actiones utiles nei confronti di terzi.

e) La curatela: i minori di 25 anni
La   posizione   dei   minori   di   25   anni   venne   equiparata   a   quella   degli 
impuberi,   infatti   alla   sua   incapacità   di   amministrare   i   suoi   beni   si 
accompagnava oramai la presenza fissa del curatore che in pratica svolgeva 
le stesse funzioni del tutore per gli impuberi. Giustiniano ribadì che il 
minore   di   25   anni   andava   sottoposto   alla  curatela,   ma   che   il   curatore 
doveva essere di gradimento del minore.
f) La curatela: i pazzi e i prodighi
Secondo   Giustiniano   i  furiosi  erano   sottoposti   a  curatela  per   tutta   la 
vita,   eccezion   fatta   per   i  lucida  intervalla,   ossia   i   periodi   in   cui 
riacquistavano le loro capacità mentali.

13. Esistenza delle persone fisiche
Le   regole   più   interessanti   in   materia   riguardano   l’individuazione   del 
momento della morte; nel diritto giustinianeo si stabilì quale fosse la 
regola da applicare in casi di commorienza (di padre e figlio), e si agiva 
in   presunzione   iuris   tantum,   considerando   premorto   il   genitore   se   il 
figlio era pubere, e premorto il figlio se questi era impubere.

14. Soggetti diversi dalla persona fisica
Con   il   concentramento   dei   poteri   nella   figura   del  princeps  e   con   la 
trasformazione del principato in dominato, la figura del  populus  romanus 
perse   praticamente   ogni   significato,   mentre   importanza   sempre   maggiore 
acquistava   il  fiscus,   nel   quale   erano   arrivate   a   confluire   anche   le 
entrate che una volta facevano capo all’aerarium populi romani. In questo 
periodo   venne   riconosciuta   la   capacità   dei  municipia,   delle  coloniae  e 
delle  civitates, alle quali, nel 469, si riconobbe la capacità di essere 
istituite eredi.

5. Famiglia e parentela

A.Questioni di termini e questioni di sostanza

1. La familia. Diverse accezioni del termine
Nei primi secoli della sua storia, la cellula fondamentale della società 
romana   era   la  familia,   un   gruppo   di   persone   la   cui   composizione   era 
diversa non solo da quella della  gens, ma anche dalla famiglia attuale; 
gli   appartenenti   alla  familia,   non   vantavano   ascendenti   comuni   come   i 
membri di una  gens, mentre dall’altro non erano necessariamente unite da 
vincoli di matrimonio o di sangue, come la famiglia attuale. Tutto ciò che 
accomunava tutti i membri della familia era la comune sottoposizione a un 
paterfamilias,   che   esercitava   il   suo   potere,   sia   su   quelli   di   stato 
libero, sia su quelli in condizione servile; avere un  paterfamilias  non 
era   condizione   necessaria   per   avere   una  familia;   infatti   chi   non   aveva 
ascendenti maschi era capo di una famiglia, qualunque fosse la sua età, ad 
eccezione delle donne. Riferendoci al ristretto gruppo familiare si parla 
di  familia  proprio  iure,   mentre   se   la   si   estende   ai   parenti   in   linea 
maschile   (adgnati)   si   parla   di  familia  communi  iure,   cioè   quando   alla 
morte del  pater, i figli formano varie  familiae, ma il fatto che siano 
stati sottoposti alla stessa potestas li considererà membri di una familia 
communi  iure.   La  familia  communi  iure  non   si   estendeva   all’infinito, 
infatti agli effetti giuridici i vincoli di parentela avevano rilevanza 
solo entro il sesto grado.

2. La parentela
La  adgnatio  era   la   sola   parentela   originariamente   rilevante   ai   fini 
giuridici;   essa   legava   coloro   che   discendevano   in   linea   maschile   da   un 
capostipite   maschio   comune,   vivo   o   morto,   o   che   erano   sottoposti   in 
condizione   di   discendenti,   indipendentemente   dai   vincoli   di   sangue,   e 
quindi   anche   i   figli   adottivi   o   le   mogli  in  manu.   Poteva   legare   due 
persone sia in linea retta che in linea collaterale; in linea retta univa 
gli   ascendenti   ai   discendenti   (padre   e   figlio   parenti   di   primo   grado, 
nonno   e   nipote   di   secondo   ecc.);   in   linea   collaterale   il   grado   della 
adgnatio  si   calcolava   risalendo   da   uno   dei   due  adgnati  al   capostipite 
comune, per poi scendere sino all’altro  adgnatus, contando un grado per 
ogni passaggio sia in salita che in discesa (fratelli erano adgnati di 2° 
grado, cugini di 4°, zio e nipote di 3°, figli dei cugini di 6°); il 6° 
grado   era   il   limite   agnatizio   di   rilevanza   giuridica.   La   parentela 
agnatizia, oltre che per nascita da  iustae  nuptiae, nasceva da tutti gli 
atti che facevano acquistare la patria potestas (adrogatio e adoptio) o la 
manus (conventio in manum). Il legame di sangue, che non era civilis, si 
definiva come cognatio e in età arcaica aveva poca rilevanza giuridica, 
mentre fino all’intervento del pretore non aveva rilievo successorio.

3. La familia proprio iure. Struttura
La  familia  proprio  iure  appare   come   un’organizzazione   patriarcale, 
patrilineare e patrilocale; a capo di ciascun gruppo familiare vi era un 
paterfamilias  di cui i romani andavano fieri. La  patria  potestas  romana 
aveva   un   elemento   unico   caratterizzante,   cioè   durava   finché   il 
paterfamilias era in vita; alla sua morte solo i discendenti immediati (i 
figli)   e   i   discendenti   di   questi   se   l’ascendente   era   premorto.   Solo 
costoro divenivano sui iuris, ossia soggetti di diritto, mentre tutti gli 
altri,   restando  alieni   iuris,   passavano   sotto   la   potestas   di   un   nuovo 
paterfamilias.

4. Capacità di diritto privato, capacità di diritto 
pubblico
Essere sottoposto a un paterfamilias significava non essere titolare di 
alcun diritto; il pater era il soggetto al quale facevano capo tutti gli 
interessi del gruppo; i beni familiari erano di sua proprietà, i rapporti 
giuridici   nascevano   in   capo   a   lui;   se   un   suo   sottoposto   acquistava   un 
bene,   questo   veniva   acquistato   per   conto   del   pater,   mentre   se   assumeva 
obblighi   verso   terzi,   questi   atti   non   vincolavano   il  paterfamilias; 
inoltre se un suo sottoposto commetteva un delitto, egli poteva liberarsi 
di ogni responsabilità con la noxae deditio, cedendo quindi il sottoposto 
in condizione di fatto di schiavitù alla parte lesa (ceduto in mancipio). 
Oggi   diremmo   che  solo
    il  paterfamilias
       aveva   la   capacità   giuridica  . 
L’unica differenza dei sottoposti era che quelli di stato libero avevano 
un’aspettativa normale di capacità (alla morte del pater), mentre per gli 
schiavi e le persone in causa mancipi, l’unico modo di essere liberi era 
data dalla  manumissio  compiuta dal  pater. Nel diritto pubblico, invece, 
alla maggiore età (17 anni), i maschi acquistavano la capacità politica.

a) Il nome familiare
  L’appartenenza   alla   familia   era   segnalata   da   un   nome   familiare   detto 
cognomen; per i maschi vi era un nome personale, praenomen (Marco, Caio), 
inoltre i patrizi aveva anche un terzo nome, quello della gens, il nomen 
(Tullio,   Giulio);   a   volte   vi   poteva   essere   un   quarto   appellativo   per 
caratteristiche fisiche (Nasone, Barbato) o per gesta militari (Africano). 
Questo  definiva  il  sistema  dei  tria  nomina  (tre  nomi),  dal  quale  erano 
escluse   le   donne.   Esse   venivano   indicate   con   il   nome   della   gens   al 
femminile (Tullia, Giulia) e se vi erano più donne nella stessa famiglia 
si   usava   o   Maior   e   Minor,   oppure   Prima,   Secunda,   Tertia,   ecc.   Secondo 
alcuni il praenomen femminile non sarebbe esistito, mentre per altri non 
poteva essere pronunciato per ragioni di pudicitia; ciò che è certo, era 
che nominare una donna era un atto socialmente irrispettoso.

5. Unità e molteplicità dei poteri paterni
In età storica, i poteri paterni sui diversi componenti della famiglia 
erano:

 patria potestas sui figli;

 manus sulla moglie e sulle mogli dei figli;

 dominica potestas sugli schiavi;

 dominium ex iure Quiritium sulle cose.

Si ritiene che questa differenziazione derivi dalla frantumazione di un 
potere unico, detto mancipium.

B.Dalla nascita di Roma alla metà del secolo III a.C.

1. La patria potestas

a) Contenuto
Il contenuto del potere paterno sui discendenti era ab origine illimitato, 
e cominciava dal momento in cui il filiusfamilias nasceva; il primo potere 
che   il   padre   poteva   esercitare   su   di   lui   era   quello   di   decidere 
autonomamente e insindacabilmente se accettarlo come figlio o rifiutarlo 
ed   esporlo,   ossia   abbandonarlo   al   suo   destino.   Questo   gesto   si   compiva 
dopo   che   i   neonati   venivano   deposti   ai   suoi   piedi   e   lui   poteva   o 
sollevarli prendendoli nelle braccia o lasciarli per terra abbandonandoli. 
Un   primo   limite   a   questo   potere   venne   da   una  lex   regia  di   Romolo   che 
stabilì una sanzione economica, per chi esponeva un figlio maschio o la 
figlia   primogenita,   che   equivaleva   a   metà   del   patrimonio.   Sui   figli 
accolti nella  familia  il padre esercitava un potere tale che arrivava a 
comprendere   il   famoso  ius   vitae   ac   necis  e   questo   ultimo   potere   si 
esercitava sui figli in relazione al sesso di questi. Sui maschi veniva 
esercitato di norma quando si erano macchiati di crimini contro lo Stato, 
tipo   la  perduellio  (alto   tradimento);   per   le   femmine   poteva   essere 
esercitato   in   caso   di   perdita   della  pudicitia  o   in   caso   di  stuprum 
(rapporto   sessuale   intrattenuto   da   una   donna   onesta   al   di   fuori   del 
matrimonio). Un altro potere del pater era quello di poter vendere i figli 
ad  un  altro  paterfamilias,  in  una  situazione  di  fatto  diversa  ma  nella 
sostanza simile alla schiavitù, e veniva definita col termine in mancipio. 
Se   dopo   la   vendita,   il   figlio   veniva   liberato   dall’acquirente,   questi 
ritornava sotto la potestas del pater originario;  per perdere la patria 
potestas,   bisognava   vendere   il   figlio   maschio   per   ben   3   volte;   per   le 
femmine non servivano le 3 vendite.

b) Modi di acquisto
Secondo Ulpiano, alla familia si apparteneva perché sottoposti alla patria 
potestas natura aut iure, cioè in base alla natura o al diritto.

La nascita
Il paterfamilias acquistava la patria potestas sui nati ex iustis nuptiis 
all’interno   del   gruppo   familiare;   questo   era   il   modo   naturale   di 
acquistare la patria potestas.

L’adozione
Il modo di acquistare iure la patria potestas consisteva nel compimento di 
un   atto   che   chiamiamo   adozione   e   che   consentiva   al   pater   di   crearsi 
artificialmente   un   figlio;   le   due   forme   previste   erano   l’adrogatio  e 
l’adoptio.   La   più   antica   era   l’adrogatio  e   consisteva   in   una   solenne 
interrogazione   con   cui   il  paterfamilias  adottante   chiedeva   a   colui   che 
doveva essere adottato se accettava di entrare nella sua familia; questo 
atto veniva compiuto innanzi ai comizi curiati; questa procedura solenne 
era   data   dal   fatto   che   chi   veniva   adottato   era   un  paterfamilias,   che 
perdeva la posizione di sui iuris ed entrava nella familia dell’adottante 
in   condizione   di  filius,   portando   con   sé   i   suoi   sottoposti   e   il   suo 
patrimonio.   Rinunciando   con   questo   atto,   al   proprio   culto   familiare, 
l’adottato   compiva   una   solenne   cerimonia   religiosa   detta  detestatio 
sacrorum, per placare i numi. L’adrogatio poteva essere compiuta solo dai 
maschi  sui   iuris;   per   la   mancanza   di   capacità   comiziale   non   potevano 
utilizzare questa forma né le donne né i maschi impuberi sui iuris. In età 
classica   si   affermò   il   principio   che   l’adottante   fosse   più   vecchio 
dell’adottato. L’adoptio consisteva nel passaggio di un filiusfamilias da 
una familia a un’altra; venne introdotta dopo le XII Tavole, grazie ad una 
interpretazione giurisprudenziale, secondo il quale il padre che vendeva 
il   figlio   per   3   volte   perdeva   la  patria   potestas.   L’adoptio  veniva 
realizzata compiendo dapprima la emancipatio e quindi recandosi dinanzi al 
pretore,   ove   l’adottante   rivendicava   l’adottando   (che   doveva   essere 
presente) come suo figlio, mentre l’ex padre taceva ritirandosi (in iure 
cedebat);   il   pretore,   quindi,   riconoscendo   come   legittima   la 
rivendicazione   dell’adottante,   pronunciava   l’addictio,   dichiarazione   che 
l’adottato era figlio dell’adottante. L’adoptio rompeva i vincoli agnatizi 
tra   l’adottato   e   la   famiglia   di   origine,   con   conseguenze   sul   piano 
ereditario; inoltre l’adoptio era accessibile, in veste di adottante, solo 
ai cittadini maschi.

c) Cause di estinzione della patria potestas

La morte
Quando   un  paterfamilias  moriva,   i   suoi   discendenti   immediati   (figli   e 
figlie, moglie in manu e discendenti di grado ulteriore, se gli intermedi 
erano   premorti)   diventano  sui   iuris;   i   discendenti   di   grado   ulteriore 
restavano sotto la potestà del discendente intermedio, che diventava il 
nuovo paterfamilias.

La caduta in prigionia
Estingueva  la  patria  potestas  e  valeva anche  se  in prigionia  cadeva  il 
filius.

Il mutamento della cittadinanza
Essendo   la  patria  potestas  legata   alla   stato   di   libertà   e   alla 
cittadinanza   romana,   se   un   pater   cambiava   cittadinanza   (o   il   figlio), 
questa si estingueva.

L’assunzione di carica sacerdotale
Altra   causa   di   estinzione   della  patria  potestas  era   l’assunzione   della 
carica di Flamen Dialis da parte del figlio o se la filia veniva accolta 
tra le virgines Vestales.

L’emancipatio
L’emancipatio era un modo volontario di estinzione della patria potestas; 
era   il   mezzo   con   cui   un   pater   poteva   rinunciare   alla  patria  potestas, 
rendendo   un   figlio/a  sui  iuris  ed   era   legato   al   fatto   che   se   un  pater 
vendeva   il   figlio   per   3   volte   perdeva   la   sua   potestas.   La   procedura, 
complessa,   consisteva   nel   vendere   il   figlio   (mancipatio)   presso   una 
persona di fiducia in causa mancipi, che a sua volta manometteva il figlio 
che   ritornava   al   padre.   Alla   terza  mancipatio,   l’acquirente   anziché 
liberarlo   lo   vendeva   al   padre  in   causa   mancipi,   che   a   sua   volta   lo 
manometteva, divenendo il suo  parens  manumissor  e acquistando sul figlio 
(ex ormai) il diritto di patronato. Per le figlie o i nipoti questa regola 
non valeva e si liberavano dopo una sola mancipatio.

2. La manus

a) Modi di acquisto
La  manus  sulle  mogli, propria  e  dei  figli,  veniva  acquistata  a  seguito 
della celebrazione del matrimonio, cerimonia nuziale, detta confarreatio.

La confarreatio
Solenne rito religioso riservato ai patrizi, che prendeva il nome da una 
focaccia di farro che gli sposi dividevano come simbolo della futura vita 
comune, rito effettuato davanti a dieci testimoni. Il rituale comprendeva 
inoltre altre solennità, tra cui l’unione della mano destra degli sposti, 
l’uso   della   pelle   di   pecora   appositamente   sacrificata   per   coprire   il 
sedile su cui gli sposi sedevano durante la cerimonia, i tre giri rituali 
che   dovevano   compiere   intorno   all’altare   andando   verso   destra,   il   velo 
rosso  (flammaeum)  che  copriva  il  capo della  sposa;  altri  riti erano  la 
pronunzia   da   parte   della   sposa   della   celebre   frase   “Ubi   tu   Gaius   ego 
Gaia”.   La  confarreatio  nel   momento   stesso   in   cui   costituiva   il   vincolo 
matrimoniale, operava un trasferimento di poteri personali, sottoponendo 
la   moglie   alla   manus   del   marito   o   del  paterfamilias  di   questi.   La 
confarreatio cadde in desuetudine, ma l’inizio del matrimonio continuò ad 
essere accompagnato da riti nuziali che non trasferivano la donna nella 
familia del marito, ma vennero creati degli istituti appositi, quali la 
coemptio e l’usus.

La coemptio
La  coemptio  era   un’applicazione   della   mancipatio   ed   era   una   forma   di 
celebrazione del matrimonio per compera. In età storica, la coemptio aveva 
perso questo carattere ed era diventata una compravendita fittizia, che 
non faceva acquistare la donna, ma la manus su di lei. Visto che erano 
esclusi dalla  confarreatio, alla  coemptio  sicuramente facevano ricorso i 
plebei e quando la prima cadde in disuso, la seconda venne utilizzata come 
atto costitutivo della manus anche dai patrizi per risolvere il problema 
sollevato   dalla   celebrazione   di   riti   nuziali   che   non   operavano   la 
conventio (trasferimento della moglie nella famiglia del marito).

L’usus
Era una forma speciale di usucapione, che era uno dei modi per acquistare 
la proprietà su un bene, il cui termine era un anno per i beni mobili e 
due  per  quelli  immobili.  Dopo  un  anno  di  convivenza,  qualora  non  fosse 
stata celebrata la coemptio, il marito usucapiva la manus sulla moglie.

b) Condizione della moglie in manu
Nella nuova famiglia la moglie si trovava in condizione di figlia presso 
il   marito,   se   questi   era  sui   iuris,   e   quindi   alla   morte   di   questi 
diventava sui iuris e concorreva alla sua eredità come erede legittima, 
insieme ai propri figli; se il marito era  alieni iuris  la donna era  in 
manu del suocero, e quindi loco filiae presso di questi e loco sororis (in 
condizione di sorella) nei confronti del marito.

c) I poteri del titolare della manus
Secondo una lex regia, al marito era concesso uccidere la moglie in caso 
di   adulterio   o   in   caso   ella   avesse   bevuto   del   vino.   Questa   norma   era 
dettata   anche   dal   fatto   che   la   famiglia   di   origine   della   donna   voleva 
evitare   che   il   marito   abusasse   dei   suoi   poteri   e   quindi   con   una   norma 
autoritativa   si   stabilivano   i   casi   in   cui   esercitare   il   ius   vitae   ac 
necis.

d) Modi di estinzione della manus
La manus era un potere che si estingueva anche in caso di divorzio, ma ve 
n’erano altri:
 nel   caso   di   matrimonio   confarreato,   la  manus  si   estingueva   a 
seguito di  diffareatio, un divorzio celebrato con una cerimonia 
solenne, uguale e contraria a quella che aveva stretto il vincolo 
nuziale;

 nel caso di coemptio, per estinguere la manus era necessario che 
il   divorzio   fosse   affiancato   da   una  remancipatio,   ossia   una 
mancipatio uguale e contraria alla coemptio, con cui il marito o 
il padre di lui trasferivano la manus al pater originario;

 se la donna fosse entrata in manus attraverso l’usus, il marito o 
il padre di lui utilizzavano una procedura analoga a quella usata 
per   dare   in   adozione   un   figlio,   cioè   il   titolare   della   manus 
emancipava la moglie e dinanzi al magistrato il  pater  originario 
ne rivendicava la patria potestas;

 la manus si estingueva per morte, caduta in schiavitù e mutamento 
di  cittadinanza  del  titolare;  se  il  titolare  era  il  marito,  la 
donna   diventava  sui   iuris,   mentre   se   era   un   ascendente   del 
marito, ella ricadeva sotto la potestà dell’ascendente superstite 
più anziano o del suo stesso marito, se non vi erano ascendenti 
intermedi.

3. I poteri del paterfamilias: la dominica potestas
Il   potere   del  paterfamilias  sui   sottoposti   di   stato   servile   era   detto 
dominica   potestas;   il   potere   sullo   schiavo   si   chiamava  potestas, 
esattamente come il potere che il  paterfamilias  vantava sui figli, e il 
potere   che   il  dominus  vantava   su   di   lui   era   avvicinato   a   un   potere 
personale; la potestas sullo schiavo non era  patria, ma  dominica, che si 
avvicinava al dominium e sotto questo profilo lo schiavo si avvicinava ad 
una cosa e il potere su di lui era patrimoniale e non personale.

C.Dalla metà del secolo III a.C. alla metà del secolo 
III d.C.

1. Le prospettive aperte dalla demografia sociale
I  cittadini  romani,  quali  che  fosse  la  loro  età,  erano  sottoposti  alla 
patria   potestas  sinché   avevano   un   ascendente   maschio   vivente,   e   questa 
sottoposizione comprendeva, tra l’altro, la totale dipendenza economica; 
un filiusfamilias romano, anche se cinquantenne, era costretto a chiedere 
al padre financo il danaro per comprarsi una gomma da masticare.

a) Effetti della patria potestas sui rapporti padre­figlio: la tesi 
della tensione
Secondo parte della dottrina le caratteristiche di questa patria potestas 
avrebbero influito, oltre che sul piano giuridico, anche su quello emotivo 
tra padri e figli; questi ultimi erano sottomessi ai primi e la morte del 
pater  rappresentava la libertà; i figli romani vivevano ossessionati dal 
parricidio, pratica che si realizzava alquanto spesso a Roma. I rapporti 
tra   i   membri   della   famiglia   romana   improntati   all’unione   creata   dalla 
subordinazione   al   potere   paterno,   con   le   incapacità   e   le   paure   che   ne 
derivavano.

2. Regole giuridiche e realtà sociale a confronto
a) In materia di ius vitae ac necis
L’affermazione   che   il  ius   vitae   ac   necis  venisse   esercitato   raramente 
sembra   essere   contraddetto   dalle   fonti   del   diritto.   Le   norme   della  lex 
Iulia  de  adulteriis  che  limitavano il  diritto  del  padre  di uccidere  la 
figlia adultera confermano che sino a quel momento, nella pratica, i padri 
esercitavano questo diritto, quantomeno sulle femmine. E con riferimento 
ai maschi, le attestazioni di casi in cui questo diritto venne esercitato 
non solo esistono, ma sono significative. Il timore del giudizio paterno 
era così forte da rendere insostenibile l’idea di affrontare a viso aperto 
il  momento  della  resa dei  conti  e della  vergogna  (suicidio  dei  figli). 
Pensare,   poi,   che   i   padri   esercitassero   il  ius   vitae   ac   necis,   non   è 
necessario immaginare che fossero crudeli e disumani con i figli; a Roma 
il  modello  del  potere pubblico  si ispirava  a  quello  del  capofamiglia  e 
questo comportava che per un padre uccidere un figlio fosse, oltre che un 
diritto, anche un obbligo. I padri romani, non erano per forza crudeli e 
forse soffrivano a mandare a morte un figlio, ma questo non impediva loro 
di fare quello che ritenevano giusto fare.

b) In materia di subordinazione economica dei figli
La prassi di dare ai figli un  peculium  e gli interventi pretori volti a 
rendere i padri responsabili dei debiti assunti dai filiifamilias nacquero 
per il problema dell’incapacità patrimoniale dei figli; la concessione del 
peculium e le norme che lo regolavano, se da un lato andarono a vantaggio 
dei figli, dall’altro svolgeva un ruolo tutt’altro che secondario a favore 
dei  patres,  che  grazie  a  queste regole  potevano  servirsi  dei  figli  per 
gestire il loro patrimonio.

c) In materia di matrimonio
Perché il matrimonio dei filiifamilias fosse valido era necessario anche 
il   consenso   paterno;   fino   all’età   degli   Antonini,   i  patresfamilias 
potevano   anche   interrompere   il   matrimonio   dei   figli   indipendentemente 
dalla   volontà   di   questi;   solo   attorno   al   secolo   II   d.C.   i   figli 
cominciarono a opporsi alla volontà dei padri. Contro i figli riluttanti 
era concesso ai padri di far ricorso a un interdictum de liberis ducendis; 
in un passo di Ulpiano si allude alla possibilità concessa al marito, di 
opporre una exceptio al suocero che aveva fatto ricorso all’interdictum. A 
Roma   il   matrimonio   era   una   questione   familiare   dalle   importanti 
conseguenze   economiche   e   sociali   e   l’ideale   di   amore   coniugale   era   un 
affetto ragionevole, non una passione (riservata alle amanti). Anche se la 
propaganda nazionale esaltava il matrimonio unico, non v’è alcun dubbio 
sul   fatto   che   i   divorzi   quantomeno   tra   le   classi   abbienti   fossero 
frequenti.   A   Roma,   quantomeno   tra   le   classi   alte,   esistevano   numerose 
famiglie   miste,   composte   dai   coniugi   e   dai   figli   nati   da   successivi 
matrimoni.

3. La famiglia “mista”: passato e presente a confronto
Oggi in molte società occidentali non esiste un solo modello di famiglia; 
anche dove resiste il modello della famiglia nucleare, accanto a queste 
famiglie, esistono quelle con un solo genitore, quelle composte da coniugi 
senza figli, quelle miste che uniscono figli di più matrimoni, e quelle di 
fatto. Qualcosa di simile esisteva anche nel mondo romano. L’incertezza e 
la mutevolezza dei contesti familiari in cui i figli crescevano, doveva 
inevitabilmente influire su questi rapporti in modo diverso da quello in 
cui influisce l’appartenenza a una famiglia nucleare.

4. Conclusioni
La   teoria   che   drammatizza   gli   effetti   della  patria  potestas  appare   più 
convincente   di   quella   che   li   minimizza.   Nella   realtà   romana   dell’età 
preclassica e classica esistevano diversi modelli di famiglia:

 la famiglia patriarcale, che continuava a sussistere;

 la   famiglia   nucleare,   che   tendeva   ad   emergere   sia   per   il 


cristianesimo che per ragioni interne alla società pagana;

 la famiglia mista, tra le elites aristocratiche.

D.Dall’anarchia militare alla morte di Giustiniano

1. I cambiamenti e le loro premesse sociali ed etiche
In   questi   secoli   l’etica   dei   romani   era   profondamente   cambiata,   in 
conseguenza   della   progressiva   cristianizzazione   della   società;   la 
concezione evangelica, dove non vi era differenza tra le persone, aveva 
modificato profondamente i rapporti interpersonali e anche la concezione 
del   matrimonio   e   della   famiglia,   addolcendo   anche   i   rapporti   tra   il 
paterfamilias e i suoi sottoposti.

2. Metamorfosi della morale pagana o influsso cristiano?
Nella   società   pagana,   all’incirca   tra   l’età   di   Cicerone   e   quella   degli 
Antonini, si era verificata una metamorfosi dei costumi sessuali del tutto 
autonoma dall’influsso cristiano, i cui fattori furono principalmente due: 
il passaggio da quella che viene definita un’aristocrazia concorrenziale a 
un’aristocrazia   di  servizio   e  l’autorepressione  reattiva  dei  plebei.  La 
vita   della   classe   dirigente   romana   era   cambiata.   Per   secoli   i 
patresfamilias  avevano   dominato   incontrastati   i   gruppi   familiari   in 
concorrenza   reciproca,   ma   ora   si   ritrovavano   ad   essere   sudditi   del 
principe  e uguali  fra loro  e  questo  potere  sovrastante  del  regnante  li 
portò   a   cambiare   sia   il   loro   stile   di   vita   che   la   loro   psicologia.   La 
tradizionale   autoritarietà   del   cittadino   romano   aveva   subito   un   duro 
colpo; le persone con cui si trovava a trattare nella società, erano pari 
a lui, ed egli era tenuto al rispetto e non poteva più dare ordini come 
prima   e   questo   portò   a   darsi   una   nuova   regola,   quella   della 
rispettabilità.   I  patres  avevano   preso,   da   un   canto,   a   trattare   con 
maggior umanità gli schiavi, dall’altro, a rispettare la personalità, i 
desideri e l’autonomia dei figli adulti. La mentalità e il costume erano 
cambiati di conseguenza.

3. I nuovi limiti alla patria potestas
Nel IV secolo d.C., gli imperatori stabilirono dei limiti all’esercizio 
dei poteri paterni; nel 323 Costantino affermò che il diritto di vita e di 
morte   sui figli era ancora consentito, ma nel 395 fu stabilito che al 
padre spettasse solo un potere correzionale, e che qualora le infrazioni 
dei figli fossero di  tal  gravità  da  richiedere l’irrogazione di vere e 
proprie   pene,   queste   venissero   irrogate   dallo   Stato;   nel   Codice 
giustinianeo il  ius vitae ac necis  sparì. Sullo stesso filone vi furono 
vari provvedimenti in merito all’esposizione dei neonati, stabilendo che 
chi   avesse   esposto   un   figlio   avrebbe   perduto   definitivamente   la   patria 
potestas su questi; si riconobbe la liceità della vendita di neonati, ma 
solo se conclusa  a causa dell’insostenibile miseria.

4. La capacità patrimoniale dei filiifamilias
In questo periodo ai filiifamilias venne progressivamente riconosciuta la 
piena   capacità   patrimoniale;   due   costituzioni   di   Costantino   stabilirono 
che le norme in materia di peculium castrense venissero applicate anche ai 
beni poi definiti  peculium quasi castrense  e cioè ai beni acquisiti dai 
filiifamilias   prestando   servizio   presso   la   corte   imperiale.   Una 
costituzione di Costantino, nel 319, stabilì che qualora un filiusfamilias 
avesse ereditato  ab intestato  dalla madre, il di lui  pater, pur essendo 
titolare dei beni ereditati dal figlio (detti  bona materna), non poteva 
disporne; 60 anni dopo questa regola venne estesa anche ai  bona materna 
generis,   cioè   i   beni   che   il   figlio   ereditava   dagli   ascendenti   materni. 
Verso la metà del V secolo si affermò il principio che il padre avesse su 
questi   beni   solo   l’usufrutto;   Giustiniano   stabilì   che   a   questo   regime 
fossero sottoposti tutti i beni che il filiufamilias avesse acquistato con 
il   proprio   lavoro   o   per   liberalità   di   persona   diversa   dal   padre.   Il 
principio   della   piena   e   totale   capacità   dei   figli   non   venne   affermato 
neppure nel diritto giustinianeo.

5. Agnatio e cognatio
Mentre diminuiva l’importanza dei rapporti familiari basati sull’agnatio, 
vennero acquistando sempre maggior peso i legami fondati sulla  cognatio, 
sul   sangue.   L’adrogatio  veniva   ormai   compiuta   in   forza   di   un   rescritto 
imperiale  (rescriptum   principis);   nel   291   Diocleziano   e   Massimiano,   pur 
ribadendo che le donne non potevano esercitare la potestà personale sui 
figli, consentirono a una donna, che aveva perso i suoi, di adrogarne uno, 
per confortarsi della perdita subita. In quest’epoca si ammise anche che 
una donna  sui iuris  potesse essere adrogata e si stabilì che l’adrogante 
avesse l’usufrutto sui beni dell’adrogato. L’adoptio a partire dall’età di 
Diocleziano   avveniva   nelle   regioni   occidentali   dell’Impero   davanti   alla 
curia   della   città   (ante   curiam)   e   in   quelle   orientali   per   semplice 
scrittura   privata.   Nel   530   Giustiniano   abolì   le   antiche   formalità,   ma 
queste   non   erano   in   uso   da   secoli;   nello   stabilire   che   l’atto   venisse 
compiuto   dinanzi   a   un   funzionario,   Giustiniano   richiese   che   a   esso 
partecipasse,   oltre   all’adottante   e   al  pater  originario,   anche 
l’adottando, del quale era necessario il consenso. L’emancipatio, fino a 
Diocleziano,   avveniva   formalmente   secondo   le   antiche   formalità,   ma   di 
fatto era ormai sufficiente una dichiarazione paterna, resa dinanzi a un 
funzionario imperiale, alla presenza del figlio; l’imperatore Anastasio, 
nel   502,   ammise   che   si   potessero  emancipare   per   rescriptum   principis  i 
figli assenti. Nel 531 Giustiniano abolì le antiche formalità, stabilendo 
che   fosse   sufficiente   una   dichiarazione   resa   dal   padre   al   competente 
funzionario, e alcuni anni dopo affermò il principio secondo il quale alla 
validità dell’atto era indispensabile il consenso del figlio.

6. Il matrimonio

A. Dalla nascita di Roma alla metà del secolo III a.C.

1. La capacità matrimoniale (conubium)
Per poter contrarre un matrimonio legittimo (iustum matrimonium) gli sposi 
dovevano avere la capacità matrimoniale, il conubium; questa capacità era 
legata in primis allo stato di persone libere, mentre in caso di unione 
con o tra schiavi si parlava di contubernium; salvo eccezioni (stranieri) 
il conubium era anche legato alla cittadinanza romana; inoltre fino al 445 
era vietato anche il matrimonio tra patrizi e plebei, quando un plebiscito 
concesse   il   reciproco  conubium.   Essere  sui   iuris  o  alieni   iuris  non 
inficiava il matrimonio, ma nel secondo caso era necessario il consenso 
dell’avente potestà. Infine il conubium era legato al raggiungimento della 
pubertà,   che   in   un   primo   momento   veniva   accertata   con   una  inspectio 
corporis, effettuata come rito collettivo nei santuari extra moenia (fuori 
dalle   mura);   successivamente   questa   certificazione   divenne   un   fatto 
privato.

a) Diritto e prassi
Si pensa che le ragazze contraevano matrimonio in età giovanissima; alla 
pratica   di   accertare   la   pubertà   si   sostituì   il   regime   di   presunzione 
legata al compimento di una determinata età, i dodici anni.

2. Il fidanzamento (sponsalia)
Il   matrimonio   era   di   norma   preceduto   da   un   periodo   di   fidanzamento, 
chiamato  sponsalia; consisteva in una promessa di matrimonio fatta nella 
forma   della  sponsio,   un   solenne   impegno   verbale   preso   dal   padre   della 
futura sposa, su richiesta del futuro sposo o del padre di questi. Sembra 
che a Roma il fidanzamento era vincolante e che avrebbe mantenuto i suoi 
effetti   obbligatori   per   alcuni   secoli;   anche   quando   perse   carattere 
vincolante, il fidanzamento rimase un atto di grande valore sociale; per 
quanto riguarda l’età del fidanzamento, non vi era una norma di diritto 
che ciò normasse, ma posto che i futuri sposi dovevano capire quel che 
fanno,   essi   non   dovevano   avere   meno   di   sette   anni;   in   caso   di   alieni 
iuris, ovviamente erano i pater a decidere per loro.

3. I riti nuziali
L’ipotesi   che   la  confarreatio  fosse   l’unico   rito   nuziale   che   aveva 
rilevanza   giuridica   agli   effetti   della   costituzione   del   vincolo 
matrimoniale era legata alla convinzione che essa fosse l’unica cerimonia 
religiosa   propria   della   religione   nazione   dei   romani;   sappiamo   che   nei 
secoli V­IV i riti nuziali che a Roma appaiono come riti privati erano 
originariamente dei riti pubblici e questo induce a pensare che la loro 
privatizzazione   si   sia   verificata   a   seguito   del   trasferimento   alle 
famiglie del potere­dovere di certificare la pubertà, dapprima spettante 
al santuario. Quel che è certo è che solo la  confarreatio  trasferiva la 
donna nella famiglia del marito.

4. Doveri della moglie, poteri del marito
I poteri del marito sulla moglie in manu erano analoghi a quelli paterni; 
se   ella   veniva   meno   ai   suoi   doveri,   il   marito   aveva   un   potere   che   si 
estendeva fino al ius vitae ac necis, con la sola differenza che il marito 
poteva uccidere la moglie solo in due casi, ossia l’adulterio ovvero se la 
moglie avesse bevuto; sul primo caso i motivi sono ovvi, l’adulterio era 
colpa imperdonabile e lesiva dell’onore; per quanto riguarda il secondo 
caso si può immaginare che la donna bevendo del vino poteva perdere il 
controllo   di   sé   e   commettere   più   facilmente   adulterio   e   comportarsi   in 
modo disdicevole.

a) Diritto e prassi
A prescindere dell’esistenza di regole ferree di controllo sulle donne, 
quello   che   ci   chiede   è   se   poi   queste   regole   venivano   applicate   alla 
lettera   o   vi   fosse   una   certa   tolleranza.   Tipico   è   il   caso   di   Ignazio 
Mecennio che uccise a bastonate la moglie che aveva bevuto, ma nonostante 
ciò   non   fu   ritenuto   colpevole   di   omicidio.   Egli   non   compì   un   atto 
socialmente   riprovato,   ma   sbagliò   esecuzione,   che   nel   caso   delle   donne 
sarebbe consistito nel farla morire di inedia nel carcere domestico. Egli 
però bastonò la moglie ed il caso fu sottoposto a Romolo che comunque lo 
assolse.

5. La nascita del matrimonio sine manu
Il progressivo diradarsi del ricorso all’usus  provocò il fenomeno della 
nascita del matrimonio sine manu, che ha origini molto antiche; una norma 
delle   XII   Tavole,   infatti,   stabilì   che   la   moglie   potesse   evitare   di 
passare in manu del marito allontanandosi ogni anno per tre notti dalla 
casa   coniugale,   prima   che   scadesse   il   termine   dell’usus,   e   quindi 
impedendo   che   il   termine   dell’usucapione   si   compisse.   Grazie   a   questo 
istituto, detto  trinoctium  o  trinoctis  usurpatio, la donna restava sotto 
la patria potestas paterna, ancorché regolarmente coniugata.
6. Lo scioglimento del matrimonio
Il matrimonio si scioglieva per morte di uno dei coniugi e per una serie 
di ragioni dipendenti o indipendenti dalla loro volontà. Queste ragioni 
erano la perdita della libertà o della cittadinanza di uno dei coniugi, il 
venir meno della volontà di questi e infine, se gli sposi erano  alieni 
iuris, il venir meno della volontà del loro paterfamilias.

a) Il divorzio per volontà del marito
Il   divorzio   era   una   causa   di   scioglimento   dovuto   al   venir   meno   della 
volontà, di uno dei coniugi ovvero del paterfamilias di uno di questi; va 
precisato   che   in   età   arcaica   la   possibilità   di   divorziare   era   concessa 
solo   al   marito,   che   poteva   chiederlo   liberamente   solo   in   alcuni   casi 
espressamente   previsti,   e   cioè,   l’avvelenamento   della   prole   (aborto 
volontario),   la   sottrazione   delle   chiavi   (della   cantina=vino)   e 
l’adulterio; in caso mancasse un valido motivo, metà del patrimonio andava 
alla moglie e l’altra metà consacrata a Cerere. Le XII indicavano che il 
marito pronunziasse una frase, tua res tibi abeto (prenditi le tue cose); 
questa frase invitava la moglie a prendersi i propri oggetti personali. 
Questa formula non aveva effetti sulla  manus, in quanto l’unico divorzio 
che   produceva   la   sua   estinzione   era   quello   che   scioglieva   le   nozze 
confarreate. 

b) Il divorzio per volontà del paterfamilias
Anche il venir meno del consenso dei genitori portava allo scioglimento 
del matrimonio.

7. Rapporti patrimoniali fra coniugi
In   entrambi   i   casi   di   matrimonio,  cum   manu  o  sine   manu,   di   norma   si 
accompagnava   lo   spostamento   di   una   certa   quantità   di   beni,   che   il 
paterfamilias  della   donna   trasferiva   al   marito,   o   al  paterfamilias  di 
questi;   questi   beni   erano   detti   dote   (dos),   e   contribuivano  ad   onera 
matrimonii   ferenda,   ossia   a   sostenere   i   pesi   economici   del   matrimonio; 
nell’ipotesi di un matrimonio  cum manu  di una donna  sui iuris, tutto il 
suo   patrimonio   passava   al   marito   a   titolo   di   dote.   Questa   dote   andava 
restituita al momento dello scioglimento del matrimonio e per tutelare le 
donne da abbandoni ingiustificati si richiese che il marito facesse una 
solenne promessa al momento del matrimonio, con la quale si impegnava a 
restituire   la   dote   in   caso   di   divorzio   ingiustificato;   la   dote   serviva 
anche   a   garantire   la   sopravvivenza   della   donna   divorziata,   e   venne 
chiamata res uxoria, le promessa cautio rei uxoriae.

8. Il concubinato
Là dove esiste il matrimonio esiste anche il concubinato, che altro non è 
che un’unione tra un uomo e una donna, che non può essere riconosciuta 
come matrimonio o per mancanza dei requisiti di capacità o perché non è 
stato formalizzato come matrimonio attraverso la celebrazione di un rito 
nuziale; a volte non solo è tollerato, ma anche considerato un matrimonio 
di seconda classe. A Roma il concubinaggio e la posizione della concubina 
variò sensibilmente nel tempo; nell’età arcaica, il concubinato non era 
colpito da una particolare riprovazione e l’unica sanzione a carico della 
concubina era legata a una regola di carattere religioso, che le faceva 
divieto di accostarsi all’altare di Giunone (protettrice del matrimonio).

B.Dalla metà del secolo III a.C. alla metà del secolo 
III d.C.

1. Il matrimonio

a) Struttura giuridica
A partire dal secolo II a.C. il matrimonio cum manu cadde in disuso; cadde 
in disuso oltre alla  confarreatio, anche la  coemptio  e il matrimonio si 
contraeva sempre più spesso senza alcuna formalità costitutiva; l’inizio 
della   convivenza   non   avveniva   informalmente,   ma   continuava   ad   essere 
accompagnata   da   cerimonie   solenni.  Il   costume   prevedeva   che,   dopo   che 
erano stati presi gli auspicii e che erano stati compiuti i sacrifici, 
nella   casa   della   sposa   venisse   offerto   un   banchetto;   la   sposa   veniva  
accompagnata   in   processione   nella   casa   del   marito   (in   domo   deductio); 
giunta nella futura casa, la sposa ne varcava la soglia sulle braccia del  
marito e offriva agli dèi acqua e fuoco. Nessuna di queste celebrazioni 
aveva valore costitutivo, ma solo solennità sociali che consentivano di 
distinguere   un   matrimonio   da   un   concubinato   o   in   caso   di   contestazione 
della   legittimità   dei   figli   nati   dall’unione;   avevano   dunque   valore 
probatorio ma non costitutivo dell’unione. Altre prove dell’esistenza del 
matrimonio   erano   il   fatto   che   la   donna   accompagnasse   il   marito   in 
determinate   occasioni   dove   solo   le   moglie   erano   ammesse.   Il   matrimonio 
esisteva quando due persone dotate di conubium, stabilivano una convivenza 
accompagnata dalla maritalis affectio, ossia l’intenzione di essere marito 
e moglie. 

b) Il problema del consenso
Il   matrimonio   era   ormai   libero,   nel   senso   che   non   richiedeva   forme 
costitutive,   ma   era   bastante   la   convivenza   di   due   persone   dotate   di 
conubium accompagnata dalla affectio maritalis. Se gli sposi erano alieni 
iuris, era necessario la volontà dei loro  paterfamilias, che iniziava a 
manifestarsi dalla  sponsalia  con la manifestazione della volontà. Se un 
filiusfamilias  è   obbligato   dal   padre   a   sposarsi   il   suo   matrimonio   è 
valido; il consenso filiale era previsto, ma era un consenso passivo, che 
non   necessariamente   comportava   il   desiderio   di   sposarsi   o   di   sposare 
quella   determinata   persona.   L’intenzione   di   considerare   matrimonio   la 
propria convivenza con persona di altro sesso nulla aveva a che fare con 
il rapporto affettivo con il coniuge; il matrimonio era liberamente scelto 
dai coniugi e basato esclusivamente sul solo consenso solo nel caso che 
questi fossero entrambi sui iuris.

Amore e matrimonio
A Roma amore e matrimonio erano due cose distinte; i romani infatti si 
sposavano per convenienza sociale o per dovere civico e il celibato era 
diffuso  e celebre  risulta  un  discorso  del  131 a.C.  del  censore  Metello 
Macedonico:  “Se noi, o Quiriti, potessimo vivere senza mogli, nessuno di  
noi, certamente, accetterebbe le noie del matrimonio. Ma poiché la natura 
ha voluto da un canto che non si possa vivere con le mogli senza avere  
delle   noie,   e   dall’altro   che   non   si   possa   vivere   senza   di   loro,   è 
necessario   preoccuparsi   della   tranquillità   perpetua,   invece   che   del 
piacere di breve durata”. L’unico argomento, quindi, che poteva convincere 
gli uomini a sposarsi era la necessità dello Stato.

2. La condizione femminile
a) La posizione successoria e il ius honorarium
La   posizione   successoria   delle   donne   con   il   passare   del   tempo   era 
migliorata grazie agli interventi dei pretori, che avevano modificato le 
regole   del  ius   civile,   dando   vita   ad   una   successione   ereditaria   detta 
bonorum possessio; avevano inoltre ammesso alla successione  ab intestato 
una serie di persone che non avevano diritto di parteciparvi iure civili; 
questo aveva fatto si che le donne in manu si trovassero a poter ereditare 
contemporaneamente da due famiglie; si era ammesso, inoltre, che la moglie 
anche   non  in   manu  potesse   succedere   al   marito.   Nel   nuovo   regime 
matrimoniale   la   moglie,   rimanendo   nella   famiglia   di   origine,   diventava 
indipendente   assai   prima   di   quanto   accadeva   nel   vecchio   regime,   in   cui 
diventava  sui  iuris  solo   al   momento   della   morte   del   marito.   Se 
appartenevano a una famiglia agiata, le donne entravano in possesso di un 
loro   patrimonio   personale   in   età   relativamente   giovane;   alle   ricchezze 
ereditate dal padre, inoltre, aggiungevano quelle che potevano ereditare 
da  altri  parenti,  oltre  che  dal  marito;  se  poi  aggiungiamo  le  continue 
guerre,   con   perdita   di   popolazione   maschile,   risulta   chiaro   che   molti 
patrimoni finissero in mani femminili. Alla donna inoltre in materia di 
tutela   era   stata   riconosciuta   una   capacità   maggiore   di   prima   e   questo 
aveva reso molte donne indipendenti.

b) La ricchezza femminile: la lex Oppia e la lex Voconia
Questa   ricchezza   femminile   iniziò  ad   essere   contrastata,   in   particolare 
con la  lex Oppia, del 215 a.C., che stabiliva che nessuna donna potesse 
avere più di mezza oncia d’ora; lo stile di vita di molte donne a Roma 
destava preoccupazioni e anche riprovazione negli uomini; quando nel 195 i 
tribuni della plebe Marco Fundanio e Lucio Valerio proposero l’abrogazione 
della lex Oppia, si oppose loro Catone sostenendo che la parità fosse una 
cosa inaudita. Comunque nel 169 a.C. si approvò la lex Voconia, anch’essa 
mirante   a   limitare   questa   situazione,   che   stabiliva   che   nessuna   donna 
appartenente   alla   prima   classe   del   censo   potesse   essere   istituita   come 
erede   (patrimonio   superiore   ai   200.000   assi);  la   giurisprudenza   stabilì 
che   le   sole  adgnatae  ammesse   alla   successione   fossero   quelle   entro   il 
secondo grado, cioè le sorelle.

3. La crisi del matrimonio
Sul finire della Repubblica gli uomini erano spesso lontani,in guerra, in 
esilio, per ragioni politiche, o nelle province per governare; le mogli di 
norma   restavano   a   Roma   per   gestire   il   patrimonio,   per   intrattenere   i 
rapporti   sociali   e   politici   necessari,   ma   questa   assenza   era   fonte   di 
libertà   per   loro.   Aggiungendo   anche   la   crisi   demografica,   si   cercò   di 
incolpare   di   questa   situazione   le   donne   che   desideravano   essere   più 
emancipate; ma al di là delle responsabilità, è certo che la famiglia era 
in crisi.

a) La legislazione augustea sul matrimonio
Augusto tentò di risolvere la crisi con interventi normativi, la lex Iulia 
de   maritandis   ordini   bus,   la   lex   Iulia   de   adulteriis   e   la   lex   Papia 
Poppea. La prima e la terza stabilirono che tutti gli uomini tra i 25 e i 
60 anni e le donne tra i 20 e i 50 anni dovessero contrarre matrimonio; 
chi   non   lo   faceva   era   considerato   caelebs   e   come   tale   punito   con   la 
perdita di alcune capacità patrimoniali, ossia quella di ricevere eredità 
e legati. La legge stabilì inoltre che coloro che erano sposati ma senza 
figli (orbi) potessero ricevere per testamento solo la metà di quanto era 
stato   loro   destinato.   Venne   poi   concessa   l’esenzione   della   tutela   iure 
libero rum (per diritto di figli) alle donne che avessero partorito tre 
figli, se nate libere, o quattro se liberte.

b) La legislazione augustea sull’adulterio
L’adulterio, con la  lex Iulia de adulteriis, venne inteso come  crimen  e 
comprendeva tutte le relazioni extramatrimoniali intrattenute da una donna 
(eccezion fatta per il concubinato o se la donna era prostituta); la lex 
mirava a moralizzare verso i reati sessuali. Questi reati da reati puniti 
in   forma   privata,   divenendo  crimen,   erano   passati   a   reato   pubblico, 
giudicato da un apposito tribunale (quaestio de adulteriis) e perseguibile 
su   iniziativa   non   solo   del   marito   o   dei   familiari   interessati,   ma   di 
qualunque   cittadino   prendesse   l’iniziativa   di   denunciare   l’adultera.   Il 
marito   e   il   padre   della   donna   avevano   60   giorni   per   denunciarla, 
intentando una accusatio adulterii; il marito che non lo facesse e che non 
ripudiasse la moglie poteva essere denunciato per lenocinio; scaduto il 
termine   dei   60   giorni   il   diritto   di   accusa   passava   agli   estranei,   che 
potevano   esercitarlo   nel   termine   di   4   mesi;   la   pena   era   la  relegatio 
insulam,  sia  per  la  donna  che  per  il  complice, accompagnata  da  pesanti 
sanzioni   patrimoniali.   In   caso   di   flagranza   all’interno   delle   mura 
domestiche  la  legge  aveva  stabilito  che  il  madre  e  il  marito  potessero 
continuare a esercitare il  ius occidendi  solo in alcune circostanze. Il 
padre poteva uccidere la figlia e il complice, solo se li sorprendeva in 
casa sua o del genero e solo se li uccideva contemporaneamente; se avesse 
ucciso   solo   il   complice,   sarebbe   stato   accusato   di   omicidio.   Il   marito 
invece non poteva più uccidere la moglie adultera, ma solo il complice, a 
patto di sorprenderli in flagranza nelle mura domestiche e solo se questi 
appartenesse ad alcune categorie sociali meno nobili, come gli schiavi e i 
liberti o un infamis.

4. Inefficacia delle leggi augustee
Le leggi augustee non produssero gli effetti desiderati; nel 42­43 d.C. la 
società viene descritta da Seneca come irrimediabilmente depravata e tra 
le prove di questa depravazione vi è l’abitudine delle donne di ricorrere 
a pratiche abortive. Giovenale sostiene che la lussuria è vizio di tutte, 
schiave e padrone. La  lex Iulia  sembra non venisse applicata, in quanto 
l’adulterio   era   una   faccenda   privata   troppo   radicata   perché   i   romani 
accettassero un’intrusione dello Stato nelle loro questioni familiari; non 
accettavano che lo Stato stabilisse le regole della loro vita privata.

5. La nascita della nuova morale di coppia: regime politico 
e vita privata
La   soluzione   della   crisi   della   famiglia   fu   la   conseguenza   dei   profondi 
mutamenti sociali e psicologici legati al cambiamento di regime politico; 
con il passaggio dalla repubblica al principato, il paterfamilias si trovò 
a   essere   nella   società   e   nei   confronti   dell’autorità   imperiale 
semplicemente uno dei tanti sudditi­funzionari; ora la sua immagine doveva 
essere quella del marito fedele, rispettoso, che non considerava la moglie 
una   cosa   di   sua   proprietà;   ella   doveva   essere,   ora,   una   compagna,   un 
sostegno, una persona da rispettare e con la quale presentarsi in società. 
Alla   fine   del   II   secolo   d.C.   si   era   affermata,   nel   mondo   pagano,   una 
morale   di   coppia,   simile   a   quella   cristiana,   grazie   a   due   fattori,   il 
primo è il passaggio da un’aristocrazia concorrenziale ad un’aristocrazia 
di servizio e il secondo è l’autorepressione reattiva dei plebei.

6. Etica matrimoniale e classi sociali
La morale di coppia, nata tra le classi alte, non rimase però un fatto 
limitato ai più ricchi e potente, ma si diffuse anche tra i plebei; le 
classi più basse avrebbero visto nell’autorepressione, capace di rendere 
il loro comportamento simile a quello dei potenti, lo strumento del loro 
riscatto morale e sociale. Dimostrandosi capaci di autodeterminarsi essi 
confermavano il loro status di cittadini e di essere liberi.

a) Regime politico, filosofia ed etica sessuale
A rafforzare la nuova etica sessuale contribuì un altro non trascurabile 
fattore; tra i secoli I­II d.C. il sesso era visto come un serio pericolo 
per la salute; i medici dell’epoca venivano interpellati dai pazienti che 
accusavano   sintomi   preoccupanti,   quali   un   affaticamento   continuo,   uno 
stato   generale   di   disagio,   un   imprecisato   malessere;   le     cause   erano 
legate al cambiamento dello stile di vita dovuto al nuovo corso politico, 
in   quanto   la   vita   del   funzionario   era   stressante,   malsana.   Inoltre   i 
nobili romani erano abituati a vivere all’aria aperta, a prendersi cura 
della propria persona, cosa che ora veniva limitata tantissimo. I medici 
tentavano di risolvere questo problema consigliando di ridurre gli eccessi 
sessuali, diciamo che era la nuova regola sanitaria. L’aspirazione alla 
continenza,   non   nacque   con   il   cristianesimo,   ma   era   già   presente   nella 
società  pagana.  Nel  secolo  I,  Musonio  Rufo,  insegnava  che il  sesso  era 
riprovevole anche nel matrimonio, se non finalizzato alla riproduzione. La 
contrapposizione   tra   corpo   e   spirito,   tra   impulsi   e   ragione,   non   fu 
un’idea cristiana, ma era già presente nella società pagana, ed era regola 
di vita.
7. Lo scioglimento del matrimonio
Il matrimonio poteva essere sciolto per volontà dei coniugi o per ragioni 
indipendenti dalla loro volontà.

a) Scioglimento per volontà dei coniugi
Data   la   nuova   struttura   del   matrimonio,   perché   esso   venisse   sciolto, 
bastava che, venuta meno l’intenzione di essere marito e moglie, i coniugi 
cessassero di convivere. La libertà di divorzio, era ormai totale. Per gli 
uomini,   sia   dal   punto   di   vista   formale   che   sostanziale,   mentre   per   le 
donne,   con   maggiori   difficoltà   concrete   e   con   molti   condizionamenti 
sociali ed economici.

b) Scioglimento per ragioni diverse dalla volontà dei coniugi
Le   ragioni   diverse   dalla   volontà   dei   coniugi   che   potevano   portare   allo 
scioglimento   del   matrimonio   erano   legate   da   un   canto   alla   volontà   del 
paterfamilias e dall’altro dal verificarsi di circostanze che portavano al 
venir meno del conubium.

Volontà del paterfamilias
Il venir meno di questa volontà continuava a portare allo scioglimento del 
matrimonio; con il passare del tempo lo sgretolarsi della patria potestas 
e la nuova concezione dei rapporti familiari fece sì che l’esercizio di 
questo diritto cominciasse a essere visto come un sopruso. L’idea che il 
matrimonio   potesse   essere   sciolto   dalla   volontà   di   un   terzo   veniva 
considerata sempre più inaccettabile. Nella prassi giudiziaria, però, la 
volontà dei coniugi se in contrasto con quella paterna aveva la prevalenza 
su questa. A partire dall’età degli Antonini la volontà paterna cessò di 
essere una delle possibili cause di scioglimento del matrimonio.

Venir meno del conubium
Posto che uno dei requisiti per la validità del matrimonio era l’esistenza 
del  conubium, se questa capacità veniva meno   il matrimonio era sciolto; 
ciò avveniva in varie circostanze:

 se uno dei coniugi perdeva lo  status libertatis  (capitis deminutio 


maxima);   questo   si   verificava   come   conseguenza   della   prigionia   di 
guerra, oppure la  servitus poenae, cioè la perdita della libertà a 
seguito di condanna penale;

 se uno dei coniugi perdeva la cittadinanza romana (capitis deminutio 
media),   a   meno   che   non   avesse   acquistato   la   cittadinanza   in   una 
comunità cui era stato concesso il conubium.

C.Dall’anarchia militare alla morte di Giustiniano
Valorizzando il consenso dei coniugi come essenziale alla costituzione del 
vincolo,   il   cristianesimo   si   era   incontrato   con   la   tendenza   interna   al 
mondo   pagano   a   limitare   l’invadenza   della  patria  potestas.   Anche   se   i 
romani   ritenevano   che   fosse   loro   dovere   impegnarsi   nel   matrimonio, 
indipendentemente   dalla   loro   religione,   se   erano   pagani   non   potevano 
accettare   l’idea   che   il   consenso   inizialmente   dato   fosse   irrevocabile, 
come voleva la dottrina cristiana; una simile concezione era profondamente 
in contrasto con un principio di libertà al quale erano da troppo tempo e 
troppo   profondamente   legati.   La   politica   legislativa   imperiale   tentò   di 
affermare i principi cristiani senza contrastare troppo clamorosamente la 
mentalità romana.

1. Scioglimento del matrimonio
In   questo   periodo   una   serie   di   disposizioni   stabilì   nuove   regole   in 
materia di scioglimento del matrimonio.

a) Il divorzio
Il   tentativo   di   limitare   il   numero   dei   divorzi   venne   fatto   in   due 
direzioni; da un canto gli imperatori fecero del divorzio un atto formale, 
dapprima statuendo la necessità che chi intendeva divorziare inviasse al 
coniuge   un   libellus   repudii   e   quindi,   con   Giustiniano,   richiedendo   la 
presenza   di   sette   testimoni;   dall’altro   stabilendo   una   serie   di 
circostanze   in   presenza   delle   quali   il   divorzio   era   sottoposto   a   delle 
penalità. I divorzi vennero così classificati:

  
Ex iusta causa    erano i divorzi che avevano luogo per iniziativa di 
uno solo dei coniugi, in casi tassativamente previsti dalla legge; i 
comportamenti considerati colpa erano diversi da maschio a femmina. 
Era colpa del marito l’aver tentato di prostituire la moglie, o il 
tenere   notoriamente   una   concubina;   colpa   della   moglie   erano 
comportamenti come l’essersi recata ai banchetti o ai bagni senza il 
consenso del marito. La sanzione per l’adulterio era la reclusione 
della   moglie   adultera   in   convento;   qualora   queste   circostanze 
mancassero, il ripudiante era sanzionato sia pecuniariamente con la 
perdita   della   dote   e   della  donatio   propter   nuptias,   sia   con   la 
statuizione   della   sua   incapacità   di   contrarre   un   nuovo   matrimonio 
prima di un certo lasso di tempo.

  
Sine ulla causa
  erano i divorzi per iniziativa di una sola parte, al 
di fuori dei casi previsti dalla legge, e come i precedenti erano 
variamente puniti.

  
Communi consensu
   erano i divorzi decisi concordemente dalle parti, 
senza giusto motivo; ma le sanzioni stabilite nel 542 a carico di 
divorziava communi consensu furono accolte con tale disfavore che di 
lì a pochi anni l’imperatore Giustino, successore di Giustiniano, si 
vide costretto a revocarle.

b) Lo scioglimento per ragioni diverse dalla volontà dei coniugi
A   partire   dal   secolo   III   gli   imperatori   intervennero   per   eliminare 
un’antica   causa   di   scioglimento   per   ragioni   diverse   dalla   volontà   dei 
coniugi, la perdita dello status libertatis e dello status civitatis. Con 
Giustiniano, pur confermando che la captivitas non consentiva il permanere 
del   vincolo,   Giustiniano   cercò   infatti   di   impedire   che   essa   producesse 
immediatamente i suoi effetti, stabilendo che i matrimoni rimanessero in 
vita,   e   che   il   coniuge   rimasto   libero   non   potesse   contrarre   un   nuovo 
matrimonio fino a che non si avesse avuto notizia certa della morte del 
captivus, ovvero per un periodo di cinque anni. Chi non rispettava questa 
regola   veniva   sottoposto   a   sanzioni   pecuniarie,   mentre   per   chi   avesse 
rispettato,   il   matrimonio   veniva   sciolto  bona   gratia.   Nel   diritto 
giustinianeo si stabilì che i condannati ai lavori forzati (ad metalla) 
mantenessero   lo  status   libertatis.   Per   quanto   riguarda   la   cittadinanza, 
invece,   la  deportatio  non   scioglieva   più   il   matrimonio.   Sempre   con 
riferimento   alla   perdita   del  conubium,   venne   regolato   anche   il   caso 
dell’incestum   superveniens,   che   si   verificava   se   tra   il   marito   e   la 
moglie, successivamente al matrimonio, veniva a instaurarsi un rapporto di 
parentela; l’espediente fu ad esempio quello del suocero che emancipava il 
figlio prima di adottare la nuora.

2. L’adulterio
Divenuto crimine con la  lex Iulia, l’adulterio in età classica era stato 
punito   con   la  relegatio   in   insulam  dei   colpevoli;   quando   la   concezione 
cristiana di peccato venne tradotta dagli imperatori, la sanzione penale 
divenne,   formalmente,   di   eccezionale   crudeltà.   Nel   339   si   sostituì   la 
relegatio in insulam con la pena di morte, eseguita bruciando al rogo gli 
adulteri   o   sottoponendoli   alla   poena   cullei.   Antonino   Pio,   pur   tenendo 
fermo il principio che l’uccisione della moglie non era legittima, stabilì 
che   il   marito   omicida   venisse   punito   con   una   pena   più   lieve   di   quella 
prevista   per   questo   reato.   Marco   Aurelio   e   Commodo   confermarono   questa 
disposizione   e   stabilirono   che   il   marito   che   avesse   ucciso   il   complice 
della  moglie  in  assenza  delle  condizioni  di  tempo,  luogo, e  di  persona 
previste dalla  lex  Iulia  come requisito della sua impunità venisse a sua 
volta sottoposto a una pena più lieve di quella prevista per l’omicidio. 
Alessandro   Severo   stabilì   che   questa   dovesse   essere   l’esilio.   La  lex 
Burgundionum,   concesse   al   marito   l’impunità   sia   per   l’uccisione   della 
moglie che del complice, mentre nella  lex  Wisogothorum  il marito poteva 
uccidere la moglie se la scopriva in flagrante nelle mura domestiche. La 
violazione della fedeltà coniugale continuava a essere punita solo qualora 
a  violarla  fosse  la  moglie;  il  complice  della moglie  veniva  punito  per 
aver leso il diritto di un altro cittadino all’esclusività sessuale sulla 
propria   moglie.   Qualora   un   uomo   sposato   avesse   rapporti   sessuali   con 
un’altra   donna   che   non   era   tenuta   alla   fedeltà   coniugale   (prostituta   o 
schiava),   nei   suoi   confronti   continuava   a   non   essere   prevista   alcuna 
sanzione. Nonostante la predicazione cristiana, gli imperatori cristiani, 
nell’aggravare le pene per l’adulterio, continuarono dunque ad adeguarsi 
ai   criteri   della   vecchia   morale.   Tutto   quello   che   rischiava   un   marito, 
tradendo la moglie, era la perdita delle dilazioni di restituzione della 
dote   e   alcuni   vantaggi   patrimoniali   legati   al   matrimonio.   Nel   556 
Giustiniano stabilì che all’adultera fosse evitata la morte, ma la pena 
consisteva nel chiuderla in un monastero, dal quale poteva uscire solo se 
il marito la perdonava entro due anni; se il perdono non arrivava o se il 
marito moriva prima della scadenza, ella era condannata alla reclusione 
per il resto della vita; l’adulterio fu il primo reato con una sanzione 
paragonabile   all’ergastolo.   Giustiniano   ristabilì   il   principio   che   al 
marito poteva essere concessa l’impunità solo per l’uccisione del complice 
della   moglie,   e   non   anche   per   l’uccisione   di   questa;   l’uccisione   del 
complice   richiedeva   il   rispetto   di   norme   precise:   il   marito,   venuto   a 
sapere   della   relazione,   doveva   inviare   all’amante   della   moglie   tre 
successive diffide scritte, firmate da testimoni fededegni; solo dopo aver 
adempiuto a questa formalità, poteva ucciderlo impunemente, a condizione 
che lo avesse sorpreso in flagrante in casa propria, in casa della moglie, 
in una taberna o in una casa dei sobborghi.

a) L’ironia dei dottori
Questa regola giustinianea, trovò scarso riscontro, e nel  De  meleficiis 
dell’Aretino, viene ampiamente ridicolizzata.

3. L’omicidio per causa d’onore: dalla lex Iulia al Codice 
Rocco
Al   di   là   del   ridicolo   suscitato   dalla   richiesta   delle   tre   diffide,   la 
critica dei dottori alle disposizioni giustinianee non era infondata; la 
formalità burocratica delle tre diffide, mal si conciliava con quella che, 
quantomeno nella lex Iulia, avrebbe dovuto essere la ragione per cui, del 
tutto eccezionalmente, un omicidio non veniva punito, cioè lo stato d’ira, 
il moto incontrollabile dell’animo nel momento in cui il marito scopriva 
l’infedeltà della moglie. Dopo le tre diffide, la sorpresa non era certo 
più tale; quello che ora giustificava il suo gesto era qualcosa d’altro, 
la   necessità   di   difendere   il   suo   onore.   Non   è   difficile   cogliere   la 
mentalità che porterà alla formulazione di un concetto giuridico nuovo e 
alla nascita di una figura di reato che è restata nei nostri codici fino 
al 1981, il c.d. delitto d’onore, normato all’art. 587 del Codice Rocco.

7. Atti e fatti giuridici. Il 
negozio giuridico
1. Gli atti e i fatti giuridici
Le situazioni di vantaggio e di svantaggio nascono quando si comincia a 
ritenere   che   alcuni   fatti   o   atti   producano   determinate   conseguenze;   i 
fatti e gli atti produttivi di queste conseguenze vengono chiamati fatti e 
atti giuridici. I fatti giuridici (factum) sono accadimenti naturali, che 
l’ordinamento   prende   in   considerazione   perché   ritenuti   produttivi   di 
determinati   effetti   giuridici.   Gli  atti   giuridici  (actum)   sono 
comportamenti   umani   consapevoli,   produttivi   di   effetti   giuridici;   sono 
atti sia le azioni che le omissioni. Esempi di fatti giuridici sono la 
nascita, la morte e il decorso del tempo. La nascita è il presupposto di 
tipo naturalistico che determina il sorgere in capo al padre del potere 
sul  figlio  (patria  potestas),  ma  per sorgere  il  diritto  occorre  che  il 
figlio sia nato da iustum matrimonium e questo non è un fatto, ma un atto. 
La morte è un fatto che attribuisce ai discendenti immediati del  pater 
defunto   la   condizione   di  sui   iuris  e   la   successione   nel   patrimonio 
paterno;   se   il   padre   avesse   fatto   testamento,   al   fatto   della   morte   si 
aggiunge l’atto del testamento. Il decorso del tempo può determinare il 
sorgere   o   l’estinguersi   di   diritti,   capacità   o   poteri   personali.   Ad 
esempio,   il   trascorrere   di   un   anno   era   il   tempo   necessario   perché   il 
marito o il  paterfamilias  di questi acquistasse la  manus  sulla  nupta  in 
forza   dell’usus;   al   compimento   del   12°   e   14°   anno   donne   e   uomini 
raggiungevano la pubertà, acquistando la capacità di agire.

2. Il negozio giuridico
Gli atti giuridici vengono chiamati “negozi giuridici”, che sono al tempo 
stesso manifestazione di volontà e atto di autonomia privata, con cui uno 
o più soggetti pongono in essere un’attività che l’ordinamento riconosce 
idonea   a   determinare   la   nascita,   la   modificazione   o   l’estinzione   di 
situazioni giuridiche; i negozi giuridici esistevano già nel mondo romano. 

3. La giurisprudenza romana e i negozi
I giuristi romani non elaborarono mai la categoria generale del negozio, 
in quanto esso ha un significato diverso e deriva da  nec  e  otium, ossia 
negazione dell’ozio; visto che l’ozio per i romani non era un vizio ma il 
tempo   da   dedicare   allo   spirito   e   a   se   stessi,   ne   deriva   che  negozio 
significa “attività” e dunque qualcosa cui una parte della popolazione era 
costretta a dedicarsi per poter sopravvivere. In età classica, i romani 
presero in considerazione gli atti che oggi definiamo con questo termine, 
individuandoli   come   una   specifica   categoria   all’interno   degli   atti 
giuridici.

4. Classificazione dei negozi giuridici
Una   prima   distinzione   viene   effettuata  in   relazione   alla   struttura 
soggettiva, cioè in base al numero delle parti coinvolte:

• negozio   unilaterale,   con   manifestazione   di   volontà   di   una   sola 


parte, ad esempio il testamento;

• negozio   bilaterale,   con   negozio   concluso   tra   due   parti,   il   cui 


esempio tipico è il contratto (1321 c.c.);

• negozio plurilaterale, quando si hanno più parti che manifestano la 
loro volontà, ad esempio il contratto di società.

Parte   non   va   confusa   con   persona,   e   deve   intendersi   come   centro   di 
interessi;   può   accadere   che   una   parte   sia   formata   di   più   persone 
portatrici di interessi identici. In relazione alla loro funzione tipica 
(o causa) i negozi si distinguono in:

• mortis   causa,   finalizzati   a   produrre   effetti   dopo   la   morte   del 


dichiarante, come il testamento;

• inter   vivos,   più   numerosi,   prevedono   un   risultato   da   realizzarsi 


durante la vita della parte o delle parti.

Sempre in relazione alla funzione si distinguono in:
• negozi a titolo oneroso, sempre almeno bilaterali, si hanno quanto 
una   parte,   per   acquisire   un   diritto,   un   vantaggio   o   un   beneficio 
accetta un correlativo sacrificio, come ad esempio la compravendita 
(emptio­venditio);

• negozi a titolo gratuito, dove una parte consegue un vantaggio senza 
alcun corrispettivo, esempio il comodato.

In relazione agli effetti avremo negozi:

• a effetti reali, idonei a trasferire la proprietà e a costituire o 
estinguere   diritti   reali   minori   (servitù   e   usufrutto);   per   questi 
negozi la tutela è un’
   actio
      
in rem
 ;

• a   effetti   obbligatori,   idonei   a   costituire   o   estinguere 


obbligazioni; la tutela per questi negozi è un’
   actio
    
  
in personam
 .

I   negozi   si   distinguono   anche   in  causali  o  astratti  in   relazione   al 


concetto   di   causa,   oppure   in  formali  e  non  formali  in   relazione   alla 
forma.

5. Presupposti del negozio
Perché   un   negozio   sia   valido   sono   necessari   alcuni   presupposti,   la 
capacità di agire e la legittimazione.

a) La capacità di agire
La capacità di agire spettava agli adulti maschi sani di mente; i minori, 
le donne, i pazzi e i prodighi dovevano essere assistiti.

b) La legittimazione
La   legittimazione   a   compiere   un   negozio   spettava   ai   titolari   degli 
interessi da esso regolati; nel diritto romano, di norma, non si poteva 
dare   ad   altri   il   potere   di   concludere   un   negozio   giuridico   al   proprio 
posto, mentre si poteva conferire ad altri il potere di concludere negozi 
per proprio conto.

La rappresentanza
Vi   è   la   distinzione   tra  rappresentanza  diretta  e  indiretta;  nel   primo 
caso   gli   effetti   di   quanto   compiuto   dal   rappresentante   si   producono 
direttamente nella sfera giuridica del rappresentato; in quella indiretta, 
il rappresentante diviene personalmente titolare di rapporti che, in forza 
di   un   rapporto   interno,   sarà   successivamente   tenuto   a   trasferire   al 
rappresentato. Il diritto romano, anche se contrario, l’ammise in alcuni 
casi. Accadeva quando, ad esempio, si preponeva un soggetto alla gestione 
di tutto il patrimonio   (procurator omnium bonorum) o si concludeva con 
lui un contratto di mandato (mandatum), che conferiva questo potere con 
riferimento   a   singoli   negozi.   Altre   figure   di   rappresentanti   erano   il 
tutor   impuberis,   il  curator   prodigi  o  furiosi,   il  curator   adulescentis 
(minori di 25 anni). Vi era inoltre il potere di concludere negozi per 
proprio conto da parte del paterfamilias che conferiva ad un servus o un 
filius la gestione di attività commerciali, terrestri o marittime; pur non 
avendo la capacità giuridica, queste persone avevano la capacità di agire 
e   dunque   l’ordinamento   riconosceva   la   validità   dei   negozi   da   loro 
compiuti.   Quanto   agli   effetti   dei   negozi   compiuti   la   situazione   era 
diversa a seconda che si trattasse di acquisto di diritto o assunzione di 
obblighi. Nel primo caso, la titolarità di questi spettava automaticamente 
al   loro   avente   potestà;   l’acquisto   si   produceva   indipendentemente   dal 
fatto che l’avente potestà volesse la conclusione del negozio, o ne fosse 
a   conoscenza;   l’autorizzazione   paterna   (iussum)   era   richiesta   solo   per 
l’acquisto di un’eredità o del possesso. Se dal negozio, invece, nascevano 
obbligazioni, il  paterfamilias  non veniva da esse vincolato; secondo il 
ius civile i sottoposti al pater non potevano peggiorare la sua situazione 
patrimoniale; il pretore, invece, fece si che il pater ne rispondesse, con 
la concessione delle adiecticiae qualitatis.

L’idoneità dell’oggetto
Perché il negozio sia valido, il bene o l’interesse oggetto del negozio 
deve   avere   taluni   requisiti,   ossia   esistere   in   natura,  essere 
suscettibile di ricevere il regolamento di interessi predisposto con il 
negozio.   Deve   trattarsi,   quindi,   di   un  bene   in   commercio,   essere   cioè 
suscettibile   di   rapporti   di   scambio   ed   economicamente   valutabile;  non 
 
sono   scambiabili   le  res
     divini   iuris  ,
    beni   destinati   al   culto,   le  res
     
 
comune omnium  , beni che per loro natura sono di tutti, e le 
   res publicae
    
che sono di proprietà dello stato e destinate all’uso pubblico. L’oggetto 
deve   essere   infine   determinato   o   determinabile  mediante criteri che le 
parti hanno convenzionalmente stabilito.

6. Elementi essenziali
Gli   elementi   essenziali,   o   costitutivi,   si   distinguono   in  generali  o 
speciali  a   seconda   che   si   riferiscano   ad   ogni   tipo   di   negozio   o   siano 
necessari   solo   per   alcuni   negozi;  sono   elementi   essenziali   la 
manifestazione di volontà, la causa e il contenuto.

a) La manifestazione o dichiarazione di volontà
Poiché il negozio giuridico viene definito come manifestazione di volontà 
diretta   a  raggiungere  determinati  fini   che   l’ordinamento   riconosce   come 
leciti   e   quindi   tutela,   ne   deriva   che   elemento   centrale   è   proprio   la 
volontà, che può essere espressa a parole ovvero in qualunque altro modo 
idoneo a comunicarla. Per buona parte del periodo classico si tendeva a 
ritenere che nei negozi formali la mancata corrispondenza tra volontà e 
manifestazione   non   dovesse   pregiudicare   che   aveva   fatto   affidamento 
sull’esteriorità della manifestazione. Il problema della coerenza tra la 
volontà e la manifestazione di questa cominciò a porsi con riferimento ai 
negozi informali e in quelli del ius gentium. Secondo Celso, anche se il 
pensiero   di   chi   parla   è   più   importante   e   più   forte   della   sua   voce, 
tuttavia   non   si   può   ritenere   che   uno   abbia   detto   qualcosa   senza   voce. 
Paolo sosteneva che, colui che dice una cosa diversa da quella che vuole,  
non dice né quel che la voce ha espresso, perché non lo vuole, né quel che  
vuole,  perché  non  lo  ha  detto.  Vi  era  differenza  tra  manifestazione  di 
volontà e dichiarazione di volontà, in quanto la dichiarazione era solo 
uno   degli   aspetti   esteriori   che   la   manifestazione   di   volontà   poteva 
assumere;  quest’ultima   poteva   infatti  consistere   in   un   comportamento   da 
cui si deduceva chiaramente la volontà del soggetto. La manifestazione di 
volontà   può   consistere   anche   in   una   dichiarazione   (manifestazione 
espressa).   Anche   il   silenzio   valeva   come   manifestazione   di   volontà,   ma 
solo   eccezionalmente,   come   nel   caso   dell’alienante   che   di   fronte   alla 
dichiarazione   dell’acquirente   di   essere   proprietario   taceva.   La 
dichiarazione   di   volontà   poteva   essere  recettizia  o   non  recettizia;   la 
prima   era   quando   la   sua   efficacia   era   subordinata   al   fatto   che   il 
destinatario ne venisse a conoscenza, non lo era in caso contrario.

Interpretazione della volontà negoziale
Il problema della coerenza tra la volontà e la sua manifestazione cominciò 
a porsi con riferimento ai negozi informali e a quelli del  ius gentium; 
una   volta   entrata   in   uso   per   questi   negozi,   l’indagine   sulla 
corrispondenza   tra   volontà   e   manifestazione   si   estese   anche   ad   altri 
negozi. Prima non vi era spazio per la ricerca di una volontà negoziale 
diversa da quella che la formula esprimeva; si aveva quindi esclusivamente 
riguardo   al   valore   tipico   della   dichiarazione   e   non   alla   volontà 
soggettiva   eventualmente   diversa.   Veniva   in   genere   preferito   un 
significato che salvasse l’asso rispetto a uno che ne avrebbe comportato 
la   nullità,   soprattutto   in   materia   testamentaria.   Altri   criteri   di 
interpretazione   della   volontà   negoziale   erano   quelli   che   facevano 
riferimento alla buona fede e all’equità. Vi erano poi criteri specifici 
di   alcuni   negozi,   così   in   materia   di   manomissioni   prevaleva 
l’interpretazione che comportava l’acquisto della libertà.

b) La causa
La causa di un negozio è la funziona sociale obiettiva, ovvero lo scopo 
pratico tipico di quel negozio, l’obiettivo ultimo e determinante di esso; 
essa   è   da   tenere   distinta   dai   motivi,   che   molto   spesso   non   vengono 
estrinsecati   dalle   parti   e   generalmente   sono   irrilevanti   per 
l’ordinamento.   L’unico   caso   in   cui   rilevano   è   l’ipotesi   in   cui   questi 
siano illeciti e comuni alle parti e in questo caso la causa è nulla e ciò 
comporta la nullità dell’intero negozio (se compro un oggetto la causa è 
lo scambiare bene con denaro). Nel diritto romano il sistema negoziale era 
tipico,   cioè   l’ordinamento   ricollegava   effetti   giuridici   solo   a 
determinati   negozi   specificamente   previsti;   l’individuazione   di   questi 
negozi avveniva attraverso la specificazione della forma o della causa. 
Con riferimento,  appunto,  alla  causa  i  negozi  sono  causali  o  astratti; 
nel primo caso la causa influisce sulla struttura stessa del negozio ed 
essi sono destinati ad avere effetti rispondenti a una funzione sociale ed 
economica  riconosciuta   dall’ordinamento;   nel   secondo   caso   la   causa,   pur 
presente, non emerge dalla struttura del negozio e può variare secondo le 
circostanze.   Tipico   caso   di  negozio
    astratto   era   la  mancipatio
    ,   che 
trasferiva la proprietà di un bene a prescindere dalla causa per cui ciò 
avveniva.
c) Il contenuto
La particolarità del negozio giuridico, rispetto agli altri atti leciti, 
sta   nel   fatto   che   esso  contiene   un   regolamento   di   interessi   che 
l’ordinamento riconosce come valido e a cui pertanto collega gli effetti 
voluti   dalle   parti;   questo   regolamento   di   interessi  è   il  contenuto  del 
negozio   giuridico   e  si   concretizza   nelle   prestazioni   cui   le   parti   si 
obbligano. Per oggetto si intende il bene materiale di cui attraverso il 
negozio   si   dispone   o   più   in   generale   gli   interessi   che   con   il   negozio 
giuridico vengono regolati.

7. Elementi essenziali speciali

a) La forma
In   alcuni   negozi   (quelli   formali)   la   manifestazione   di   volontà   deve 
rivestire una determinata forma; quando è prescritto l’uso di una forma 
determinata perché il negozio sia efficace, si parla di forma costitutiva 
o ad substantiam; nei casi in cui la forma è prescritta solo per svolgere 
una  funzione   probatoria,   si   parla   di   forma  ad   probationem.   Nel   diritto 
romani i negozi erano in gran parte formali; l’antico ius civile conosceva 
solo   forme   costitutive   tipiche,   costitutive   perché   necessarie   per 
l’esistenza e la validità dell’atto, tipiche perché a determinati tipi di 
negozi   corrispondeva   una   determinata   forma   a   quelli   soli   applicabile. 
Accanto alle forme tipiche si diffonde una forma generica, suscettibile di 
essere applicata a diversi negozi giuridici, la scrittura; questa forma, 
tranne nel caso del nomen transcripticium, non ha carattere costitutivo ma 
meramente probatorio.

8. Elementi accidentali
Con l’espressione elementi accidentali del negozio giuridico si indicano 
delle   clausole   che   non   sono   essenziali   alla   sua   esistenza   ma   che,   se 
vengono   inserite   per   decisione   delle   parti,   hanno   influenza   sulla   sua 
efficacia. Queste clausole sono condizione, temine e modo.

a) La condizione (condicio)
La condizione è una clausola negoziale con la quale le parti subordinano 
l’efficacia   del   negozio   giuridico   al   verificarsi   di   un   evento   futuro   e 
obiettivamente   incerto;   se   dipende   dal   verificarsi   di   un   evento   la 
condizione è detta positiva, se invece dipende dal suo non verificarsi è 
detta  negativa. Quando dall’evento futuro e incerto discende il sorgere 
degli effetti del negozio la condizione è detta sospensiva, mentre quando 
da esso discende il cessare di questi effetti la condizione è risolutiva. 
I   romani   conoscevano   bene   quelle   sospensive.   Nel   diritto   romano   la 
condizione   non   poteva   essere   imposta   a   tutti   i   negozi;   a   causa   del 
formalismo imposto alla dichiarazione o manifestazione della volontà, essa 
non poteva essere apposta ad alcuni negozi dello ius civile, detti actus 
legitimi.   Tra   questi   negozi   vi   è   la  mancipatio,   la  in   iure   cessio,   la 
confarreatio, la acceptilatio e la expensilatio. L’eventuale inserzione di 
una   condizione   in   questo   tipo   di   negozi   avrebbe   comportato   la   loro 
nullità. Il motivo per cui la condizione non poteva essere apposta agli 
actus legitimi  è duplice e dipende dal tipo di atto; alcuni di essi, ad 
esempio la  hereditatis  actio, avevano effetti immediati; altri, quali la 
mancipatio  e   la  in   iure   cessio,   richiedevano   la   dichiarazione 
dell’esistenza attuale di una certa circostanza.

Le condiciones iuris
A volte il verificarsi degli effetti di un negozio era subordinato a un 
evento futuro e incerto previsto dal diritto; ad esempio l’acquisto di un 
legato   era   subordinato   all’acquisto   dell’eredità   da   parte   degli   eredi 
testamentari, e la costituzione di dote era subordinata al matrimonio; in 
questi casi si parlava di condicio iuris.

Caratteristiche degli eventi previsti dalla condizione
Perché la  condizione  fosse validamente apposta essa doveva avere alcune 
caratteristiche; in primis doveva essere obiettivamente incerta, ossia non 
poteva   e   non   può   essere   definita   condizione   la   clausola   con   cui   gli 
effetti negoziali vengono subordinati a una circostanza di fatto presente 
o passata, ma ignorata da chi compie il negozio. Questo non significava 
però   che   la   condizione   dovesse   dipendere   solo   dal   caso;   accanto   alle 
condizioni che dipendevano solo da questo (dette  causali) erano ammesse 
anche   quelle   che   dipendevano   parzialmente   dalla   volontà   delle   parti 
(chiamate   dall’era   postclassica   ad   oggi,  potestative).   Non   era   ammessa 
però   la   condizione   meramente   potestativa,   dipendente   dalla   mera   volontà 
della parte obbligata, pena la nullità del negozio. Le condizioni potevano 
infine dipendere sia dal caso che dalla volontà delle parti (condizioni 
miste).   La   condizione,   poi,   doveva   essere  realizzabile,   l’evento   non 
doveva   essere   impossibile;   la   mancanza   di   una   seria   volontà   negoziale 
rendeva il negozio nullo; secondo i sabiniani, la condizione impossibile 
apposta a un testamento si considerava non apposta e questa regola venne 
poi  estesa  a  tutti  i  negozi  mortis  causa.  Infine,  la  condizione  doveva 
essere lecita e non doveva essere contraria al buon costume (contra bonos 
mores); l’apposizione di questo tipo di condizioni rendeva nulli i negozi 
inter vivos e veniva considerata non apposta nei negozi mortis causa.

Le condizioni sospensive
Quando un negozio è sottoposto a una condizione sospensiva esso produce i 
suoi   effetti   solo   se   e   nel   momento   in   cui   l’evento   previsto   come 
condizione si verifica (condizione positiva) o non si verifica (condizione 
negativa). Quando non si sapeva se l’evento si sarebbe verificato i romani 
dicevano   che  condicio   pendet  (la   condizione   pende),   quando   l’evento   si 
verificava allora condicio exstat (la condizione esiste) e quando, infine, 
vi   era   la   certezza   che   l’evento   non   si   sarebbe   verificato   si   diceva 
condicio deficit (la condizione manca). La parte non aveva un diritto, ma 
un’aspettativa di acquisto del diritto, una  spes  (speranza). Un problema 
particolare   sorse   con   riferimento   alle   condizioni   negative,   di   regola 
apposte ai negozi mortis causa, e in particolare ai legati. Tra i secoli 
II­I a.C., si ammise che il legato avesse subito effetti, se il legatario 
si   impegnava   con  stipulatio  a   restituire   la   cosa   ricevuta   in   legato 
qualora   si   fosse   verificato   l’evento   previsto   nella   condizione;   essendo 
stata   suggerita   dal   giurista   Mucio   Scevola,   questa  stipulatio  venne 
chiamata  cautio  Muciana. Quando la condizione si realizzava, il negozio 
produceva i suoi effetti, di regola a partire da quel momento; in altre 
parole l’efficacia del negozio non era retroattiva.

Gli espedienti per produrre gli effetti della condizione risolutiva
Il diritto romano non conosceva a pieno la condizione risolutiva, al cui 
verificarsi   cessavano   gli   effetti   del   negozio.   I   giuristi   classici 
elaborarono un sistema per raggiungere indirettamente gli stessi effetti; 
essi   configurarono   il   negozio   come   puro,   ma   accompagnato   da   un   patto 
risolutivo   sottoposto   a   condizione   sospensiva.   In   pendenza   della 
condizione   sospensiva   questo   negozio   produceva   i   suoi   effetti,   ma 
all’avverarsi di questa si producevano gli effetti del patto risolutivo. 
Caso tipico è la compravendita con lex commissoria, quando il venditore si 
riserva di recedere dal contratto se il compratore non gli paga il prezzo.

Dies cedens e dies veniens
Escogitare un rimedio che agiva di fatto come una condizione risolutiva, 
fu   quello   dei   legati   sottoposti   alla   condicio   iuris   dell’acquisto 
dell’eredità   da   parte   degli   eredi   testamentari.   Il   legato   veniva 
acquistato al momento dell’apertura della successione (dies legati cedit); 
i diritti che ne nascevano tuttavia non potevano essere esercitati sino al 
momento   dell’accettazione   (dies   legati   venit);   la   mancata   accettazione 
dell’eredità diventava una condizione risolutiva.

b) Il termine
Il   termine   è   un   evento   futuro   ma   certo,   dal   quale,   si   fa   decorrere 
l’inizio   o   la   fine   degli   effetti   del   negozio;   si   distingue   perciò   un 
termine  sospensivo  o   meglio  iniziale  dal   quale   si   fanno   decorrere   gli 
effetti del negozio da un termine risolutivo o meglio finale dal quale si 
fanno cessare gli effetti del negozio. Il termine può essere fissato in 
modo del tutto certo e si parlerà di  dies certuna an, certus quando  (è 
certo sia che l’evento si realizzerà sia il momento in cui si realizzerà); 
al   contrario   può   essere   fissato   con   riferimento   ad   un   evento   certo   e 
futuro   ma   non   cronologicamente   precisabile   e   si   parla   quindi   di  dies 
certus an, incertus quando (è certo che l’evento si verificherà, ma non si 
sa quando). Per quanto riguarda la disciplina del negozio in pendenza dei 
termini,   bisogna   tener   presente   che   nel   caso   del  dies,   è   certo   che 
l’evento   si   verifichi;   di   conseguenza   anche   prima   della   scadenza   del 
termine il rapporto è trasmissibile agli eredi sia dal lato attivo che da 
quello passivo.

c) Il modo (modus)
È una clausola, chiamata modus solo in età giustinianea, apponibile solo 
ai negozi di liberalità sia inter vivos che mortis causa; essa consiste in 
un peso o in un onere che il disponente pone a carico del beneficiario, 
quest’ultimo, tenuto  a destinare  tutto  o parte del lascito a  uno  scopo 
particolare,   quale   per   esempio   erigere   un   monumento,   o   festeggiare   una 
determinata   ricorrenza,   ma   per   il   diritto   classico   era   solo   un   obbligo 
morale e non giuridico. Si pose il problema di come costringere l’onerato 
ad adempiere; la giurisprudenza escogitò vari mezzi, di cui uno dei più 
diffusi consisteva nell’imporre al beneficiario del negozio di impegnarsi 
ad adempiere il modus con una cautio. Per rendere vincolante il modus, si 
imponeva al donatario di pagare una somma di denaro a titolo di pena se 
l’adempimento non fosse portato a compimento.

9. Invalidità, inesistenza e inefficacia del negozio 
giuridico. Principi generali
E’ inefficace il negozio giuridico che per qualsiasi motivo non produce i 
suoi effetti tipici; l’inefficacia può essere momentanea, come nel caso di 
negozio   sottoposto   a   termine   iniziale,   o   definitiva,   come   nel   caso   di 
negozio nullo. Inesistente  invece è l’atto negoziale che non può neppure 
essere   considerato   un   negozio   in   quanto   privo   dei   requisiti   minimi 
necessari  per   rientrare   in   questa  categoria.  Invalido  è   il   negozio   che 
presenta dei vizi; dall’invalidità discendono due categorie, la nullità e 
l’annullabilità; la prima è un’invalidità più grave dovuta alla mancanza 
di   un   elemento   costitutivo   del   negozio   ed   è   considerato   incapace   di 
produrre   i   suoi   effetti   tipici   e   può   produrre   solo   effetti   di   altro 
ordine. L’annullabilità è un’invalidità meno grave e si verifica quando 
uno degli elementi del negozio è viziato; resta comunque idoneo a produrre 
i suoi effetti, ma le parti possono intervenire o per impedire la loro 
realizzazione o al contrario per sanare i vizi e convalidare il negozio. 
Nel   diritto   romano   il  ius  civile  conosceva   solo   due   possibilità;   un 
negozio o era perfetto, in quanto dotato di tutti gli elementi essenziali, 
o era nullo perché privo di un elemento essenziale o perché contrario ad 
una norma dell’ordinamento. Gli eventuali vizi rilevavano nell’ambito del 
ius  honorarium,   infatti   il   pretore   poteva   paralizzare   gli   effetti   del 
negozio attraverso istituti quali l’exceptio o la restitutio in integrum. 
La   nullità   corrisponderebbe   all’invalidità  iure   civili,   mentre 
l’annullabilità all’invalidità iure praetorio.

10. Anomalie della volontà
Può accadere che manchi completamente una volontà negoziale giuridicamente 
apprezzabile, come nel caso di negozio posto in essere dall’impubere o dal 
furioso, ed in questi casi l’ordinamento romano riteneva nullo il negozio. 
Può accadere inoltre che la volontà negoziale sia viziata nel procedimento 
di   formazione;   è   il   caso   dei   vizi   della   volontà   che  iure   civili  non 
influivano   sulla   validità   del   negozio,   ma   rilevavano  iure   honorario. 
Infine, vi è il caso dell’accordo simulatorio nel quale vi è contrasto tra 
la dichiarazione e l’effettiva volontà dei dichiaranti; si ha un  negozio 
simulato quando due parti di comune accordo, dichiarano di porre in essere 
un negozio, ma in realtà vogliono che si realizzi un negozio diverso da 
quello   dichiarato.   Si   parla   di  negozio   dissimulato,   invece,   quando   è 
effettivamente voluto e risultante dall’accordo fra le parti. I giuristi 
romani non giunsero a formulare una teoria generale della simulazione, ma 
negarono valore al negozio simulato; tuttavia, si posero caso per caso il 
problema del negozio dissimulato, analizzando se in esso sussistessero gli 
elementi   essenziali   alla   sua   validità;   ad   esempio   un   negozio   che 
dissimulava una donazione fra coniugi era nullo per illiceità della causa.

11. Cause di invalidità
Le cause di invalidità possono riguardare sia i presupposti del negozio 
giuridico sia gli elementi costitutivi e possono comportare sia la nullità 
sia   l’annullabilità   del   negozio;   qualora   mancasse   uno   dei   presupposti 
(capacità di agire o legittimazione ad agire) il negozio era nullo  iure 
civili; la nullità si verifica per mancanza assoluta di volontà negoziale. 
Se   la   volontà   era   stata   viziata   da   inganno   o   violenza,   gli   effetti 
negoziali   si   realizzavano   per   il  ius   civile,   ma   si   poteva   chiedere   al 
pretore l’annullamento del negozio.

12. Vizi della volontà
I   vizi   della   volontà   sono  errore,  violenza  e  dolo  e   influiscono   sul 
processo di formazione della volontà o sulla dichiarazione.

a) L’errore
Si  tratta di  una  deviazione  dal  vero  inconsapevole  e  spontanea  che  può 
dipendere   da   svista,   incomprensione   o   ignoranza   su   una   circostanza 
inerente   il   negozio.   I   giuristi   romani   si   occuparono   dell’errore 
negoziale; il problema principale consisteva nello stabilire come tutelare 
da un canto la volontà individuale di colui che aveva posto in essere il 
negozio e dall’altro il valore tipico ed oggettivo della dichiarazione; 
l’errore   era   considerato   rilevante   e   conseguentemente   il   negozio 
inefficace   quando   l’errore   cadeva   sul   tipo   di   negozio   che   le   parti 
intendevano compiere nonché in caso di negozi in cui l’indicazione della 
persona   aveva   rilevanza   particolare.   Era   considerato   rilevante   l’errore 
che riguardava l’oggetto del negozio, sia l’identità fisica del ben (error 
in corpore) sia le sue qualità essenziali (error in substantia); non era 
considerato   rilevante   l’errore   che   cadeva   sull’esistenza   o 
sull’interpretazione   di   norme   giuridiche   (error   iuris),   tranne   che   si 
trattasse di persone gravemente ignoranti, donne, minori di 25 anni  e i 
militari.

b) La violenza (METUS)
Il timore generato dall’altrui violenza era definito  metus; nel diritto 
romano   la   violenza   fisica   (vis   absoluta)   probabilmente   comportava   la 
nullità del negozio mancando in questi casi non solo la volontà ma anche 
una sua vera manifestazione. Molto numerosi i casi di ipotesi in merito 
alla violenza morale (metus), cui si poteva porre rimedio ricorrendo ai 
mezzi di tutela introdotti dal pretore, quali l’actio metus, la  integrum 
restitutio  e   l’exceptio   metus.   Se   il   negozio   era   stato   eseguito,   il 
contraente vittima della violenza poteva agire intentando l’actio metus, 
che   comportava   una   pena   pari   al   quadruplo   del   pregiudizio   arrecato   se 
intentato entro l’anno oppure pari al  simplum  se intentata dopo l’anno; 
l’actio metus  era azione arbitraria e poteva essere esperita sia contro 
l’autore   della   violenza   sia   contro   terzi   che   avessero   tratto   vantaggio 
dalla   violenza.   Nel   caso   in   cui   il   negozio   non   fosse   stato   ancora 
eseguito,   colui   che   veniva   convenuto   per   il   suo   adempimento,   qualora 
avesse   concluso   un   negozio   per   effetto   di   violenza,   poteva   opporre   una 
exceptio metus all’azione che gli veniva intentata. Si poteva far ricorso 
solo   qualora   la   minaccia   fosse   grave,   seria   e   ingiusta;   se   il   male 
minacciato   era   carente   di   questi   requisisti,   la   violenza   non   veniva 
considerata rilevante.

c) Il dolo
Il   dolo   in   ambito   negoziale   indica   gli   artifici   e   i   raggiri   posti   in 
essere nel corso delle trattative per indurre una parte in errore così che 
questa compia un negozio per le svantaggioso; dal dolo negoziale,  dolus 
malus,   bisogna   distinguere   l’ipotesi   in   cui   siano   state   utilizzate   le 
usuali astuzie tollerate dal costume, considerate  dolus bonus. Dal punto 
di   vista   del  ius   civile,   in   caso   di   dolo,   il   negozio   era   valido   ed 
efficace,   e   la   repressione   era   affidata   al   pretore.   Per   tutelare   la 
vittima   del   raggiro   furono   introdotte   un’actio   de   dolo  e   un’exceptio 
dolis;  la  prima  poteva  essere  esperita  quando  il  negozio era  già  stato 
eseguito, la seconda era opponibile dalla vittima dei raggiri citata in 
giudizio per l’adempimento. L’actio de dolo era pena e prevedeva a carico 
dell’autore del dolo una condanna in  simplum  commisurata al danno dubito 
dall’attore;   essa   comportava   l’infamia  del   condannato,   quest’ultima, 
concessa solo in mancanza di altri mezzi di tutela. 

8. Difesa ed esercizio dei diritti

A. Dalla nascita di Roma alla metà del secolo III a.C.

1. Il processo, nozioni generali
  Perché un soggetto possa soddisfare gli interessi che l’ordinamento gli 
riconosce   è   necessaria   la   cooperazione   degli   altri   consociati.   È 
necessario cioè, che questi riconoscano la sua situazione di vantaggio, e 
che si comportino di conseguenza. La comunità politica, sin dal momento 
della   sua   nascita,   si   assume   il   compito   di   accertare   l’effettiva 
titolarità dei diritti e la possibilità che essi vengano esercitati dal 
loro titolare. L’insieme dei mezzi organizzati a questo scopo viene detto 
processo; se lo scopo del processo è quello di superare l’incertezza sulla 
esistenza o la titolarità di un diritto esso viene definito processo di 
cognizione;   se   l’obiettivo   è   quello   di   superare   la   resistenza   opposta 
all’attuazione di un diritto il processo è detto di esecuzione.

2. Processo privato e processo pubblico
Nel diritto romano, il tipo di processo privato volto a regolare interessi 
privati,   l’iniziativa   spettava   ai   titolari   degli   interessi;   colui   che 
prendeva questa iniziativa veniva chiamato  actor  (attore), colui nei cui 
confronti   essa   veniva   presa   era   chiamato  reus  (convenuto).   In 
contrapposizione   al   processo   privato,   il   processo   rivolto   a   difendere 
interessi di tutta la collettività veniva chiamato pubblico e a esso si 
faceva   ricorso   di   fronte   a   comportamenti,   detti  crimina,   che 
rappresentavano   un   pericolo   per   la   sopravvivenza   stessa   della   vita 
associata.   Lo   scopo   del   processo   pubblico   era   quello   di   infliggere   una 
poena   a   chi   aveva   violato   una   norma   giuridica   il   cui   rispetto   era 
considerato   necessario   per   il   bene   comune;   in   origine   la   pena   era   la 
morte.   L’impulso   alla   celebrazione   di   un   processo   pubblico   doveva 
provenire da un organo dello Stato. Nel nostro diritto odierno il processo 
privato corrisponde all’incirca al processo civile, e quello pubblico al 
processo penale; i romani ritenevano che alcuni illeciti penali (delicta, 
delitti),  in   quanto   lesivi   di   interessi   esclusivamente   privati,   fossero 
perseguibili a iniziativa di parte nelle forme del processo privato, la 
cui pena consisteva sempre in una somma di danaro per l’attore.

3. Le origini del processo: la regolamentazione 
precittadina dell’autodifesa
Prima della nascita della  civitas, la convivenza sociale era regolata da 
due sistemi di norme. Le prime riguardavano i rapporti interni ai diversi 
gruppi   di   tipo   familiare   e   prevedevano   la   soggezione   assoluta   dei 
componenti del gruppo all’autorità del suo capo, il paterfamilias; qualora 
uno   dei   componenti   del   gruppo   non   rispettasse   le   regole   interne,   il 
paterfamilias  esercitava   nei   suoi   confronti   un   potere   disciplinare   che 
comprendeva   anche   il  ius   vitae   ac   necis.   Il   secondo   sistema   di   regole 
riguardava i rapporti tra appartenenti a gruppi diversi e prevedeva che 
chi  riteneva  di  avere subito  un  torto  da  persona  appartenente  ad  altro 
gruppo ricorresse alla forza privata per farsi vendetta; chi si riteneva 
offeso   era   tenuto   socialmente   a   reagire   e   se   non   lo   avesse   fatto,   la 
considerazione di cui egli godeva sarebbe diminuita, così come quella del 
gruppo familiare cui apparteneva. Unica alternativa alla vendetta era una 
compensazione in beni o in danaro che consentiva all’offeso di rinunciare 
onorevolmente a usare la forza. L’uso della forza in funzione vendicativa 
venne   sottoposto   a   un   controllo   sociale,   teso   a   evitare   o   comunque   a 
minimizzarne gli effetti negativi; una di queste regole fu la c.d. legge 
del   taglione,   che   stabiliva   che   colui   che   ricorreva   alla   forza   doveva 
infliggere   all’offensore   lo   stesso   male   che   questi   gli   aveva   inflitto; 
nelle XII Tavole si legge “si membrum rupsit ni cum eo pacit talio esto” 
(se è stato rotto un membro, e le parti non siano addivenute a un accordo, 
si faccia luogo al taglione); da questa regola si evince che vietava la 
vendetta   quando   tra   le   parti   si   era   raggiunto   un   accordo,   con   una 
compensazione,   dapprima   in   beni   e   poi   in   denaro.   Altre   volte   la 
collettività   imponeva   limiti   di   tipo   diverso,   come   nel   caso   del  fur 
manifestus, dove viene precisato che il ladro poteva essere ucciso solo se 
era di notte o se si difendeva con le armi. Inoltre chi usava la forza 
doveva   farlo   seguendo   un   rituale   ben   preciso,   pronunziando   parole   e 
compiendo   gesti   prestabiliti,   che   non   potevano   in   alcun   modo   essere 
modificati.
4. L’intervento della civitas
La civitas intervenne sia sulle norme che regolavano i rapporti interni ai 
gruppi familiari sia su quelle interfamiliari e lo fece in modi diversi. I 
poteri   dei  patresfamilias  sui   sottoposti   rimasero   sostanzialmente 
immutati, ma vi furono alcune limitazioni, tra cui il divieto del padre di 
esporre   i   figli   maschi   e   le   primogenite   oppure   quello   che   limitò   le 
ipotesi in cui il marito poteva uccidere impunemente la moglie. Diversi e 
assai   più   significativi   furono   gli   interventi   in   materia   di   rapporti 
inferfamiliari;   la   civitas   individuò   i   comportamenti   che   autorizzavano 
l’uso della forza e non come prima che la valutazione dei comportamenti 
lesivi di un interesse dipendeva esclusivamente da chi li subiva; inoltre 
la civitas nel ribadire la necessitò delle formule verbali e dei gesti già 
in   uso   stabilì   che   queste   formalità   venissero   compiute   dinanzi   al 
magistrato cittadino (rex) e presero il nome di legis actiones. 

a) La teoria arbitrale
Secondo   una   teoria,   le   origini   del   processo   andrebbero   ricercate   nella 
pratica di ricorrere spontaneamente a un arbitro imparziale, accettando di 
sottomettersi   alla   sua   decisione;   con   il   passare   del   tempo   il   ricorso 
all’arbitrato   privato   sarebbe   stato   sempre   più   favorito   e   reso 
obbligatorio; contro questa teoria esistono numeri argomenti, tra i quali, 
la considerazione che proprio nell’epoca più antica, accanto al giudice 
unico,   il   magistrato   (cioè   il  rex)   esistevano   dei   collegi   giudicanti 
stabili (i centumviri e i decemviri), che difficilmente potevano trarre le 
loro origini e i loro poteri da un’investitura privata.

5. Prime forme processuali: LE LEGIS ACTIONES
 Il diritto romano conobbe tre formule di processo, il più antico in uso 
sino al II secolo a.C. era quello detto per  legis actiones, il secondo, 
nato   nel   tribunale   del   magistrato   giusdicente   era   quello  per  formulas; 
infine il terzo nato in età classica ma affermatosi in età imperiale sino 
a sostituire quello formulare fu la  cognitio extra ordinem.  Legis  actio 
significa   “modo   di   agire   secondo   la   legge”;   anche   se   le   origini   sono 
certamente   consuetudinarie   la   loro   evoluzione   fu   infatti   in   gran   parte 
risultato di interventi autoritativi, a partire dalle XII Tavole. Le     legis
    
 
actiones   erano esperibili solo dai patresfamilias e solo per la tutela di
    
rapporti previsti dal ius civile, ed erano cinque e tipiche; ciascuna di 
esse aveva una sua struttura formale e serviva a tutelare una determinata 
situazione. 

a) Legis actiones con funzione di cognizione
Le legis actiones con funzione di cognizione era tre, la legis actio 
sacramento nelle due forme in rem e in personam, la legis actio per 
iudicis arbitrive postulationem e la legis actio per condictionem.

La legis actio sacramento ACTIO GENERALIS
Fu la forma più antica di processo di cognizione e a seconda del diritto 
che con essa s’intendeva far valere, poteva essere esperita nella forma in 
rem o in quella in personam.
La legis actio sacramento in rem (REI VINDICATIO)
Poteva   essere   utilizzata   per   far   valere   il   diritto   di   proprietà   nonché 
potestà   o   signorie   relative   a   rapporti   di   tipo   familiare   o   ereditario; 
essa serviva anche ad accertare lo stato di una persona, quando qualcuno 
sosteneva che si trattava di persona libera e altri invece sosteneva che 
era di stato servile e di sua proprietà; venne poi usata anche a tutela 
delle servitù prediali e dell’usufrutto. La procedura aveva inizio dopo 
che l’attore aveva portato in ius, davanti al rex, la persona o la cosa su 
cui avanzava una pretesa; in un primo momento, se questa persona o questa 
cosa si trovavano in possesso di altri, l’attore se ne impossessava; se 
nessuno contestava la pretesa dell’attore, il magistrato lo autorizzava a 
portare con sé la persona o la cosa. In un momento successivo, si stabilì 
che ambedue i contendenti dovessero essere presenti; colui che prendeva 
l’iniziativa di  lege agere, doveva  vocare in ius  (chiamare in giudizio) 
colui   nei   cui   confronti   voleva   agire;   l’atto   era   chiamato  ius   vocatio 
(chiamata in giudizio) ed era regolato dalle XII Tavole, che imponevano al 
vocatus  l’obbligo   di   seguire  in   ius  l’attore   e   in   caso   di   rifiuto, 
l’attore,   dopo   aver   chiamato   dei   testimoni,   poteva   trascinarlo   con   la 
forza   dinanzi   al   magistrato.   Il  vocatus  poteva   evitare   di   seguire 
immediatamente l’attore presentando un  vindex, che garantiva che egli si 
sarebbe   presentato   in   un   giorno   stabilito,   e   in   mancanza   ne   subiva 
personalmente le conseguenze. Se ad esempio si contestava la proprietà di 
uno   schiavo,   l’attore   davanti   al   magistrato   (rex  e   poi   il   pretore), 
toccando con una bacchetta, vindicta, lo schiavo dichiarando di esserne il 
proprietario   e   pronunciando   una   frase   solenne;   se   nessuno   contestava 
questa dichiarazione il magistrato autorizzava l’attore a portarsi via lo 
schiavo,   altrimenti   il   convenuto   avrebbe   fatto   una  controvindicatio, 
affermando con analoghi gesti e parole che lo schiavo era suo; a questo 
punto le parti simulavano un inizio di lotta interrotta dall’ordine del 
magistrato   e   dopo   essersi   chieste   e   date   spiegazioni   rituali   dei   loro 
comportamenti, le parti si sfidavano a prestare un sacramentum, un solenne 
giuramento   in   nome   della   divinità;   in   principio   il  sacramentum  era   un 
giudizio  divino  e  per paura  di  questo  giudizio  chi  ammetteva  il  falso, 
desisteva; con il tempo però il carattere religioso si perse e le parti 
depositavano un certo numero di animali, sostituiti poi dalla lex Aternia 
Tarpeia  con una somma di denaro di 50 o 500 assi. Nel momento in cui il 
sacramentum  veniva   prestato,   il   magistrato   assegnava   il   possesso 
interinale della cosa a colui che sembrava avere ragioni più convincenti e 
imponeva   a   costui   di   presentare   dei   garanti   (praedes   litis   et 
vindiciarum); infine il magistrato decideva la lite stabilendo quale tra i 
due  sacramenta  fosse  iustum  e quale  iniustum; la decisione era indiretta 
in quanto non riguardava direttamente la situazione giuridica controversa, 
ma la verità del giuramento; colui che aveva giurato il vero riprendeva il 
suo denaro, l’altro lo perdeva e veniva usato per scopi religiosi; in età 
repubblicana   la   somma   del   perdente   veniva   versata   all’erario.   Se   il 
sacramentum  di   chi   aveva   il   possesso   interinale   della   cosa   risultava 
iniustum  e  se  la  cosa  non  veniva  consegnata  al  vincitore,  questi,  dopo 
aver agito contro i  praedes litis et vindiciarum  per la sua valutazione, 
procedeva   nei   loro   confronti   all’esecuzione   nella   forma   della  manus 
iniectio. In età repubblicana, il giudizio sul sacramentum venne affidato 
a persona diversa dal magistrato, uno  iudex; il processo si svolgeva in 
due fasi, la prima detta in iure davanti al magistrato, la seconda, apud 
iudicem  davanti al giudice privato. La fase  in iure, dopo l’indicazione 
della persona o delle persone incaricate di giudicare, terminava con un 
atto   chiamato  litis   contestatio;   nel   processo   per  legis   actiones  esso 
consisteva nell’invito fatto dalle parti ai presenti di essere testimoni 
di   quello   cui   avevano   assistito;   la   formula   rituale   era  testes   estote 
(siate testimoni). Il giudizio sulla lite aveva valore solo tra le parti e 
quindi una terza persona poteva esperire nei confronti del vincitore una 
nuova legis actio sacramento, nella stessa forma.

La legis actio sacramento in personam
In   questa  legis  actio,   a   differenza   che   in   quella  in   rem,   colui   che 
esperiva   l’azione   avanzava   una   pretesa   in   danaro   nei   confronti   della 
controparte;   l’actor  affermava   la   sua   ragione,   pronunziando  una   formula 
solenne   “affermo   che   tu   mi   devi   dare”,   seguita   dall’indicazione   di   una 
somma   di   danaro;   questa   dichiarazione   veniva   chiamata  intentio  ed   in 
principio la somma richiesta era la poena prevista per un delitto, mentre 
in   seguito   fu   il   debito   nato   da   un   accordo;   questa  legis   actio  veniva 
usata per tutti i debiti per cui non era prevista un’altra specifica legis 
actio.   Se   il   convenuto   riconosceva   il   debito,   la   sua   confessione 
(confessio   in   iure)   era   equiparata   a   un  iudicatum,   una   pronunzia   del 
giudice; se invece negava, l’attore lo sfidava al  sacramentum; se infine 
non   riconosceva,   ma   neppure   negava,   rimanendo   in   silenzio,   l’attore 
continuava   il   rito   pronunciando   un’intimazione   e   successivamente 
esercitava la manus iniectio. Se il sacramentum veniva dichiarato iustum, 
il   magistrato   autorizzava   la  ductio  del   convenuto,   che   veniva   portato 
nella prigione domestica dell’attore; se necessario, alla  ductio  seguiva 
un   nuovo   processo   per   stabilire   l’ammontare   del   debito,   e   quindi 
l’esecuzione nella forma della manus iniectio.

La legis actio per iudicis arbitrive postulationem
Questa  legis   actio  nacque   per   far   valere   alcune   ragioni   tassativamente 
previste; per le XII Tavole, veniva utilizzata per la tutela dei crediti 
nascenti   da  sponsio  e   per   celebrare   i   giudizi   relativi   alla   divisione 
d’eredità fra coeredi (actio familiae erciscundae); poi una  lex Licinia 
stabilì   che   l’applicabilità   della   legis   actio   per   iudicis   arbitrive 
postulationem ai giudizi divisori fra condomini (actio communi dividundo). 
Il   rito,   riferendoci   al   credito   da   sponsio,   iniziava   con   l’attore   che 
affermava che il convenuto doveva dargli una somma di danaro in base alla 
sponsio;   se   il   convenuto   negava,   l’attore,   sempre   con   formule   rituali, 
chiedeva al pretore di nominare un giudice; nei giudizi divisori, anziché 
un giudice, le parti chiedevano di nominare un arbitro (arbiter), cioè un 
tecnico   in   grado   di   operare   la   divisione;   infine   la   pronunzia   della 
sentenza   spettava   al   giudice   o   all’arbitro.   La  legis   actio   per  iudicis 
arbitrive  postulationem  si   distingueva   dalla  legis   actio   sacramento  per 
una maggior snellezza, per la sua totale laicità e per la mancanza del 
rischio economico connesso al sacramentum.

La legis actio per condictionem
Questa legis actio fu introdotta nella seconda metà del secolo III a.C. da 
una  lex   Silia;   essa   fu   istituita   per   tutelare   i   crediti   di   somme 
determinate di danaro (certa pecunia), e di lì a poco fu estesa da una lex 
Calpurnia ai crediti di cose determinate (certa res). Il vantaggio offerto 
dalla nuova  legis actio  era in primo luogo quello di non costringere a 
prestare il  sacramentum, ed inoltre la  legis actio per condictionem  non 
prevedeva che l’attore facesse riferimento al fatto giuridico da cui il 
suo  credito  era  sorto,  e  questo  eliminava  la  possibilità  di  errori.  La 
procedura   della  legis   actio   per   condictionem  iniziava   con   l’attore   che 
affermava   il   suo   credito   e   chiedeva   al   convenuto   se   lo   riconosceva   o 
negava;   se   il   convenuto   ammetteva   ,   la   sua  confessio   in   iure  aveva 
l’effetto   di   una   condanna,   mentre   in   caso   di   negazione,   l’attore   gli 
rivolgeva un solenne invito in questi termini: “poiché neghi ti invito a 
presentarti   dinanzi   al   magistrato   entro   trenta   giorni   per   ricevere   un 
giudice”; l’invito era detto  condictio  e successivamente la causa veniva 
decisa dal giudice o da un arbitro.

b) Le legis actiones esecutive
Le legis actiones esecutive erano due, la manus iniectio (sulla persona) e 
la pignoris capio (sui beni).

La legis actio per manus iniectionem
Descritta dalle XII Tavole e da Gaio, essa era consentita nei confronti di 
colui   che   era   stato   condannato   al   termine   di   una  legis   actiones  di 
cognizione (iudicatus) e nei confronti di colui che nel corso di una di 
queste  legis   actiones  non   aveva   contrastato   la   pretesa   avversaria 
(confessus); a costoro si aggiunsero poi coloro nei cui confronti la legis 
actio per manus iniectionem era esperita pro iudicato, ossia nei confronti 
di coloro che per legge erano equiparati a un iudicatus o a un confessus. 
Il  iudicatus  aveva   a   sua   disposizione   trenta   giorni   detti   giusti   per 
adempiere   l’obbligo   impostogli   dalla   sentenza;   scaduto   quel   termine, 
l’attore   poteva   trascinarlo  in   ius,   e   qui   imponeva   su   di   lui   le   mani 
pronunziando una frase solenne. Il convenuto non poteva allontanare da sé 
le mani e difendersi personalmente con la legis actio, ma poteva farlo in 
suo   favore   un  vindex,   che   però   prendeva   il   suo   posto;   in   mancanza   di 
questo intervento il magistrato autorizzava l’attore a condurre con sé il 
convenuto, che veniva rinchiuso nel carcere domestico, ove veniva tenuto 
in catene. Nel corso di 60 giorni, il debitore veniva condotto davanti al 
pretore nel comitium, dove per tre mercati successivi veniva esposto, con 
l’indicazione della somma da lui dovuta; se qualcuno pagava questa somma 
egli   diventava   suo   schiavo,   ma   parenti   e   amici   potevano   riscattarlo 
restituendogli la libertà; se dopo tre mercati nessuno lo aveva riscattato 
o comprato, il debitore poteva essere venduto trans Tiberim, oppure poteva 
essere ucciso; se esistevano più creditore, questi potevano smembrare il 
cadavere e spartirsene i pezzi.
La pignoris capio (o legis actio per pignoris capionem)
A differenza della manus iniectio, questa esecuzione aveva luogo sui beni 
del   debitore.   Essa   poteva   essere   compiuta   ovunque,   senza   bisogno   della 
presenza del magistrato; la pignoris capio era una legis actio, in quanto 
prevedeva la pronunzia di parole solenni, previste dalla legge; ad essa si 
faceva   ricorso   in   casi   stabiliti,   previsti   dalla   legge   o   dai  mores; 
secondo   questi   ultimi   potevano   farvi   ricorso   i   soldati   che   non   avevano 
ricevuto il pagamento dell’aes militare, vale a dire del loro stipendio, e 
i cavalieri che volevano ottenere il danaro necessario per acquistare il 
cavallo   (aes   equestre)   e   l’orzo   che   serviva   ad   alimentarlo   (aes 
hordiarum);   potevano   far   ricorso   alla  pignoris   capio  i  publicani  nei 
confronti   dei   debitori   d’imposta.   Le   situazioni   tutelate   avevano   un 
fondamento amministrativo e sacrale e non un vincolo di diritto privato. 
La pignoris capio consentiva di impossessarsi di beni di un’altra persona, 
per indurre quest’ultima a eseguire una prestazione il cui adempimento non 
poteva essere richiesto giudizialmente; se questa prestazione non veniva 
eseguita,   allo   scadere   del   termine   per   l’usucapione   chi   aveva   fatto   la 
pignoris capio acquistata la proprietà della cosa.

B.Dalla metà del secolo III a.C. alla metà del secolo 
III d.C.

1. Crisi delle legis actiones
Le   ragioni   che   determinarono   la   crisi   del   processo   per  legis   actiones 
furono più d’una; sicuramente l’eccessivo formalismo, in quanto sbagliare 
una   parola   corrispondeva   a   perdere   la   lite;   queste  actiones  potevano 
essere esperite solo a tutela dei rapporti nascenti dal  ius civile  e di 
conseguenza   i   nuovi   rapporti   basati   sulla  bona   fides,   sorti   in   seguito 
all’accrescersi   del   commercio   restavano   esclusi   dal   loro   campo   di 
applicazione;   inoltre,   essendo   le  legis   actiones  riservati   ai   soli 
cittadini romani, non erano applicabili ai rapporti sempre più frequenti 
con stranieri; il processo che superò questi problemi fu quello formulare.

2. Caratteri e linee del processo formulare
Emerge   chiaramente   che   il   processo   per  legis   actiones  e   quello  per 
formulas  si   differenziavano   in   primis   per   la   diversità   del   potere   sul 
quale   si   fondavano,   in   quanto   mentre   le  legis   actiones  trovavano 
fondamento   nei  mores  o   nella   legge,   il   processo   formulare   si   fondava 
sull’imperium magistratuale. Altra importante novità era la possibilità di 
litigare per  concepta verba; rispetto alle formule delle  legis actiones, 
qui   esse   erano   flessibili   e   venivano   composte   di   volta   in   volta, 
utilizzando una serie di schemi ampiamente modificabili e adattabili alle 
diverse situazioni, in modo da riflettere le posizioni delle parti; grazie 
a queste caratteristiche la formula consentì di tutelare nuove situazioni 
ed il pretore, insieme alle parti, componeva una formula adatta al caso, 
che veniva poi utilizzata in casi analoghi. Con il passare del tempo si 
venne dunque un repertorio di formule, che il pretore rendeva pubbliche 
all’inizio   del   suo   anno   di   carica,   inserendole   nell’editto;   egli 
prometteva che, se si fossero presentate determinate situazioni degne di 
tutele,   avrebbe   concesso   di   agire   in   giudizio   servendosi   di   una 
determinata formula, di cui pubblicava il testo; se nel corso dell’anno si 
presentavano   situazioni   nuove,   il   pretore   poteva   concedere   formule   non 
previste   dall’editto,   dette  actiones   ex   decreto  o  ex   edicto,   o   anche 
decretales.   Altra   caratteristica   fondamentale   del   processo   formula   è  la 
pecuniarietà della condanna, anche nel caso in cui li processo vertesse 
sull’esistenza di un diritto reale; in caso di  rei vindicatio  (rivendica 
della   proprietà),   il   convenuto   non   veniva   condannato   alla  restituzione, 
bensì   al   pagamento   del   valore   della   cosa;   questa   particolarità,   che 
impediva al proprietario di soddisfare il suo interesse a riavere la cosa, 
è legata a diverse circostanze; la prima è che il praetor peregrinus non 
aveva né il potere di ordinare la restituzione di un bene, né quello di 
attribuirne   la   proprietà,   ma   poteva   cercare   di   indurre   chi   la   deteneva 
illegittimamente a restituirla, imponendogli, se non lo avesse fatto, il 
pagamento di una forte somma di danaro, derivante da una litis aestimatio. 
I rapporti dedotti in giudizio a seguito di sponsio avevano un contenuto 
patrimoniale.

3. La formula e le sue parti
La formula determinava il compito e i poteri del giudice; si passò da una 
situazione   in   cui   le   formule   venivano   predisposte   caso   per   caso   a   una 
situazione in cui i magistrati avevano a loro disposizione un certo numero 
di formule, che si tramandavano di editto in editto. Le partes formularum 
(struttura   della   formula)   sono   la  demonstratio,   la  intentio,   la 
adiudicatio,   e   la  condemnatio.   Nella   sua   espressione   più   semplice,   la 
formula conteneva la intentio e la condemnatio.

• Intentio
La  intentio  era   la   parte   della   formula   in   cui   l’attore   esprime   la   sua 
pretesa;   viene   indicata   la   ragione   fatta   valere   dall’attore   e   viene 
formulata come un’ipotesi, la cui veridicità dovrà poi essere verificata 
dal giudice.

Classificazioni delle intentiones
Le  intentiones  venivano classificate in  certae,  incertae,  in factum  e  in 
ius.

Intentiones certae e incertae
Quelle  certae  si   riferivano   ad   una   determinata   somma   di   denaro   o 
determinata cosa, mentre le altre no; esempi di intentio certa sono quelli 
ove   l’oggetto   del   rapporto   è   individuato   in   una   determinata   somma   di 
denaro che l’attore sostiene essergli dovuta dal convenuto ovvero in un 
determinato schiavo che l’attore afferma essere suo; esempi di  intentio 
incerta  è   quello   ove   non   risulta   determinato   ciò   che   l’attore   pretende 
dalla controparte.
Intentiones in factum e in ius
Erano  in   factum  (factum   conceptae,   concepite   in   fatto)   le   formule   più 
antiche, concesse dal pretore a tutela dei rapporti non ancora tutelati 
dal ius civile e si faceva riferimento a situazioni di fatto. Erano in ius 
le intentiones in cui si faceva riferimento a un rapporto tutelato dal ius 
civile, cioè, quelle in cui si faceva riferimento a un diritto soggettivo 
dell’attore   ovvero   a   un   obbligo   giuridico   del   convenuto,   indicato   dal 
verbo tecnico  oportere; esse vennero concesse, oltre che per i rapporti 
tutelati ab antiquo dal ius civile (ad esempio il mutuo), anche per quelli 
che avevano trovato tutela di fatto nel tribunale del pretore, e ai quali 
poi il diritto civile aveva riconosciuto effetti giuridici.

• Demonstratio
È quella parte della formula che viene inserita perché venga indicata la 
questione per la quale si agisce (ad esempio “posto che Aulo Agerio ha 
venduto   uno   schiavo   a   Numerio   Negidio”);   questa  pars   formulae  serviva 
dunque a indicare i fatti da cui era nata la pretesa dedotta in giudizio, 
nei casi in cui l’intentio  non dava al giudice elementi sufficienti per 
giudicare   nella   fondatezza   della   pretesa,   ed   era   presente   solo   quanto 
l’intentio  era   incerta   o   quando   la   formula   era,   praticamente,   priva   di 
intentio, ossia nei giudizi divisori e nel caso dell’actio iniuriarum.

• Condemnatio
La  condemnatio  è   quella   parte   della   formula   in   cui   si   attribuisce   al 
giudice il potere di condannare o di assolvere; anche la  condemnatio  può 
essere  certa  o  incerta;  nel  primo caso  segue  una  intentio certa,  nella 
quale oggetto del rapporto dedotto in giudizio è una determinata somma di 
danaro,   mentre   è   incerta   quando   spetta   al   giudice   procedere   alla 
determinazione dell’ammontare della condanna; la condemnatio si limita in 
questo caso a fornire il criterio in base al quale si dovrà procedere alla 
stima   in   danaro   dell’oggetto   della   controversia   (litis   aestimatio).   La 
condemnatio  può   essere   inoltre  cum   taxatione  o  infinita  a   seconda   che 
preveda o meno un ammontare massimo, fissato in una somma determinata di 
danaro,   entro   il   quale   il   giudice   può   determinare   concretamente   la 
condanna;  taxatio  si ha, ad esempio, nell’actio iniuriarum,  de peculio  e 
de in rem verso. La condanna ovviamente era sempre pecuniaria e il potere 
di   fare   ciò   veniva   attribuito   al   giudice   dal   magistrato,   e   non   dalle 
parti, che si erano limitate a consentire alla sua nomina al momento della 
litis contestatio. Vi erano inoltre formule composte solo da  intentio, i 
c.d.  praeiudicia,   azioni   di   mero   accertamento   quali   ad   esempio   quelle 
volte   ad   accertare   lo  status  di   una   persona   ovvero   l’ammontare   di   una 
dote.

Esempi di formule composte di sola intentio e condemnatio:
• Formula  dell’actio  certae  creditae  pecuniae  (a tutela del mutuo): 
Tizio   sia   giudice.   Se   risulta   che   Numerio   Negidio   deve   dare 
diecimila   sesterzi   ad   Aulo   Augerio,   tu   giudice   condanna   Numerio  
Negidio a dare diecimila sesterzi ad Aulo Augerio. Se non risulta  
assolvilo;
• Formula della rei vindicatio  (a tutela della proprietà):  Tizio sia 
giudice.   Se   risulta   che   il   fondo   Capenate,   di   cui   si   tratta,  
appartiene ad Aulo Agerio in base al diritto dei Quiriti e questo  
fondo non sarà restituito a Aulo Agerio, a quanto sarà il valore di  
quella   cosa,   a   tanto   tu   giudice   condanna   Numerio   Negidio   nei 
confronti di Aulo Agerio. Se non risulta assolvilo. In questo caso 
le   parole   “quanto   sarà   il   valore   della   cosa”   alludono   alla   stima 
(aestimatio)   in   base   alla   quale   verrà   determinato   il   valore   della 
res litigiosa (il bene per cui si discute).

Le altri parti della formula sono la demonstratio e la adiudicatio che non 
sono presenti in tutte le formule.

• Adiudicatio
È   quella   parte   della   formula   con   la   quale   si   permette   al   giudice   di 
aggiudicare   la   cosa   a   uno   fra   i   litiganti;   essa   è   presente   solo   nei 
giudizi   divisori   (familiae   erciscundae,  communi   dividundo,  finium 
regundorum – per la regolazione dei confini ­); l’attività di aggiudicare 
consisteva dunque nel convertire in proprietà solitaria una quota di beni 
comuni.   Infine   l’actio   finium   regundorum  viene   elencata   insieme   alle 
azioni   divisorie   perché   per   i   romani   non   serviva   solo   a   tracciare   dei 
confini già esistenti, ma a determinare il luogo in cui questi passavano.

4. Altre parti della formula (PARTI ACCESSORIE)
La formula poteva contenere anche altre clausole, quali la exceptio 
(eventualmente seguita da replicatio, duplicatio, triplicatio), la 
praescriptio e l’artbitratus de restituendo.

a) Praescriptio
Questa clausola era premessa alla formula e conteneva una precisazione dei 
limiti della controversia, e serviva a evitare che venissero dedotte in 
giudizio pretese che non si voleva venissero dedotte (ad esempio, “questa 
azione riguardi ciò di cui il termine è scaduto”). Oltre a questo tipo di 
praescriptiones, che data la loro funzione venivano chiamate pro actore (a 
favore   dell’attore),   esistevano   anticamente   anche   delle  praescriptiones 
pro reo, che ponevano dei limiti a vantaggio del convenuto; con il tempo 
queste praescriptiones si sono trasformate in eccezioni.

b) Exceptio
Era una clausola che veniva inserita tra la intentio e la condemnatio su 
richiesta   del   convenuto,   quando   costui,   pur   non   negando   le   circostanze 
dalle quali nasceva la pretesa dell’attore, sosteneva l’esistenza di altre 
circostanze   in   conseguenza   delle   quali   una   sua   condanna   sarebbe   stata 
iniqua.   La  exceptio  si   presentava   come   una   condizione   negativa   alla 
condanna del convenuto, che si aggiungeva a quella positiva espressa nella 
intentio; la sua inserzione nella formula era resa necessaria dal fatto 
che,   essendo   i   poteri   del   giudice   delimitati   dalla   formula   stessa,   in 
mancanza di exceptio egli non avrebbe potuto tener conto delle circostanze 
in essa dedotte.
c) Arbitratus de restituendo (clausola arbitraria)
Questa   clausola   era   un   espediente   che   ovviava   alla   pecuniarietà   della 
condanna, consentendo di ottenere la restituzione della cosa controversa; 
essa veniva inserita soprattutto nelle azioni in rem, e dal punto di vista 
formale   si   poneva   come   una   condizione   negativa   della  condemnatio; 
l’arbitratus   de   restituendo,   infatti,   subordinava   la   condanna   del 
convenuto alla mancata restituzione della cosa. Le formule che contenevano 
un arbitratus de restituendo vengono definite arbitrariae, e alcune fonti 
definiscono   arbitraria   i  iudicia  (processi)   imperniati   sui   simili 
formulae,   accostandoli   ai   giudizi   di   buona   fede;   questo   demandava   al 
giudice il potere di stabilire quale comportamento del convenuto poteva 
essere considerato una restitutio.

5. Le azioni nel processo formulare e loro classificazione
Nell’espressione legis actiones la parola actio indicava uno dei cinque 
modelli processuali composti di atti e di parole, previsti a tutela di una 
serie di rapporti giuridici; nel processo formulare invece il numero delle 
actiones era assai più vasto, e coincideva con quello delle formule, vi 
era quindi un’azione per ogni situazione tutelata dal pretore.

6. Azioni civiles (civili) e azioni honorariae (onorarie)
Erano civiles le azioni basate su una norma del diritto civile, honorariae 
quelle basate su diritto pretorio; le azioni onorarie si distinguevano in 
azioni con formula in factum e actiones utiles, quest’ultime azioni civili 
adattate   dal   pretore   a   fini   diversi   da   quelli   per   cui   erano   previste. 
Queste azioni appartenevano a loro volta a due tipi diversi, le azioni con 
farmulae ficticiae e quelle con trasposizione di soggetti.

7. Azioni con formule ficticiae
La formula di queste azioni era caratterizzata da una finzione (fictio) 
con   la   quale   si   affermava   esistente   un   elemento   di   fatto   inesistente, 
ovvero   inesistente   uno   esistente;   grazie   a   queste   azioni   il   pretore 
tutelava   situazioni   analoghe   a   quelle   tutelate   dal  ius  civile,   salvo, 
appunto, la mancanza o la presenza dell’elemento di fatto che si fingeva a 
seconda   dei   casi   esistente   o   non   esistente.   Un   esempio   è   l’actio 
Publiciana;   se   una  res   mancipi,   dopo   essere   stata   venduta,   era   stata 
consegnata   con   una   semplice  traditio  e   non   con  mancipatio  o  in   iure 
cessio, il compratore non ne acquistava la proprietà ex iure Quiritium, se 
non   dopo   il   tempo   necessario   all’usucapione;   se   prima   che   si   compisse 
questo termine una terza persona si impossessava della cosa, il compratore 
non poteva esperire una rei vindicatio, poiché questa era l’azione tipica 
a difesa della proprietà quiritaria. Ritenendo che ciò fosse iniquo, il 
pretore   concesse   in   questi   casi   un’actio   ficticia,   appunto   l’actio 
Publiciana, che altro non era se non una rei vindicatio nella cui intentio 
si   invitava   il   giudice   a   giudicare   come   se   fosse   già   decorso   il   tempo 
dell’usucapione.
8. Azioni con formula con trasposizione di soggetti
In   queste   azioni   il   pretore,   d’accordo   con   le   parti,   inseriva   nella 
condemnatio  il   nome   di   una   persona   diversa   da   quella   nominata   nella 
intentio  e   di   conseguenza   se   accertava   che   il   rapporto   dedotto   nella 
intentio era esistente in relazione alla persona ivi indicata, condannava 
la persona indicata nella condemnatio. Questo espediente fu utilizzato ad 
esempio nella responsabilità adiettizia. Quando una persona era sostituita 
in giudizio da un cognitor o un procurator, così come quando un minore sui 
iuris  era rappresentato dal tutore, la formula portava nella intentio il 
nome   dell’interessato,   e   nella  condemnatio  quello   del   sostituto;   gli 
effetti che si producevano in capo al sostituto venivano poi trasferiti in 
capo all’interessato. Quando un filiusfamilias o uno schiavo contraeva un 
debito, il creditore non aveva alcuna tutela iure civili; poiché peraltro 
i  filiifamilias  e   gli   schiavi   svolgevano   spesso   attività   economica   per 
conto   dell’avente   potestà,   il   pretore   in   alcuni   casi   rese   costui 
responsabile dei loro debiti concedendo una formula in cui nella intentio 
si faceva riferimento al  filius  o al servo, e nella  condemnatio  al loro 
avente potestà.

9. Azioni stricti iuris (azioni di rigore) e azioni bonae 
fidei (di buona fede)
Questa distinzione riguarda l’entità dei poteri che la formula conferiva 
al   giudice;   quando   la   formula   faceva   riferimento   alla  bona  fides  il 
giudice   aveva   una   maggior   discrezionalità,   dovendo   egli   basare   la   sua 
decisione sulla valutazione complessiva della correttezza dei rapporti tra 
le   parti   relativamente   alla   questione   dedotta   in   giudizio;   egli   poteva 
tener conto del dolus e del metus senza bisogno di exceptio doli o metus; 
poteva tener conto dei patti intercorsi fra le parti dopo il sorgere del 
rapporto dedotto in giudizio, e delle eventuali compensazioni legate a un 
credito del convenuto verso l’attore  ex aedem re  (nascente dalla stessa 
causa). Le azioni di  buona  fede  erano  l’actio empii et  venditi,  locati 
conducti,  negotiorum  gestorum,  mandati,  depositi,  fiduciae,  pro   socio, 
tutelae,  rei   uxoriae,  commodati,  pigneraticia,  familiae  erciscundae  e 
communi  dividundo.   Nelle  actiones  stricti   iuris  invece   il   giudice   era 
strettamente vincolato dalla formula ed un tipico esempio è l’actio certae 
creditae pecuniae, nella cui formula era già determinato l’ammontare della 
condanna;   il   giudice   non   poteva   tener   conto   delle   circostanze 
eventualmente   fatte   valere   dal   convenuto,   se   queste   non   erano   state 
dedotte in una exceptio.

a) Azioni in personam e azioni in rem
Le   azioni  in   personam  tutelavano   un   diritto   di   credito,   quelle  in   rem 
invece i diritti reali; il carattere  in personam  o  in rem  di un’azione 
risulta   alla   lettura   della   sua  intentio.   Essendo   l’actio   in   personam  a 
tutela   di   un   diritto   di   credito,   il   vincolo   corrispondente   grava   sin 
dall’inizio su una o più persone predeterminate, il cui nome compare nella 
intentio,   insieme   all’indicazione   del   comportamento  cui   questa   o  queste 
persone   sono   tenute   nei   confronti   dell’attore;   questo   comportamento   è 
indicato da tre verbi,  dare,  facere,  praestare.  Dare  e  facere  indicavano 
dare e fare, mentre  praestare, significava in origine garantire, ma poi 
indicò qualunque azione diversa dal dare o dal fare. Nelle  actiones in 
rem, il nome della persona nei cui confronti il diritto viene fatto valere 
non compare nella intentio e dipende dal fatto che nei diritti reali, la 
controparte non è predeterminata sin dal momento in cui nasce il diritto, 
ma   viene   individuata   solo   nel   momento   in   cui  quivis   de   populo  (una 
qualunque persona) tiene un comportamento contrario al pacifico esercizio 
del   diritto   difeso   dall’actio;   il   nome   della   controparte   compare   solo 
nella condemnatio.

a) Azioni poenales (penali) e azioni reipersecutoriae (reipesecutorie)
Le azioni penali venivano intentate contro chi aveva commesso un illecito 
privato   (delictum)   civile   o   pretorio,   ed   erano   volte   a   infliggere   una 
poena,   che   spettava   all’attore   a   titolo   di   riparazione   del   torto.   Le 
azioni   reipersecutorie   erano   invece   rivolte   a   reintegrare   un   interesse 
leso. Le  actiones in rem, quelle  in personam  nascenti da atti leciti, e 
quelle   nascenti   da   delitti   o   da   illeciti   pretori,   erano   esperite   per 
ottenere   non   una  poena,   ma   la   reintegrazione   dell’interesse   leso.   Le 
azioni penali e reipersecutorie potevano anche essere cumulabili. Vi erano 
poi   le   azioni   con   cui  rem   et   poenam   persequimur  (si   reintegrava 
l’interesse leso e si infliggeva una pena); erano le azioni in cui la pena 
era in simplum, ma se il convenuto negava e veniva condannato, la condanna 
era   in  duplum  ed   in   questo   caso,   il  duplum  punisce   il   comportamento 
processuale scorretto. Vi erano poi le azioni penali che rei persecutionem 
continent  (contengono   la  rei  persecutio),   cioè   ottenevano   anche   il 
risultato   di   risarcire   il   danno;   era   il   caso   dell’actio   legis   Aquiliae 
(per   il  damnum   iniuria   datum)   con   cui   non   concorreva   alcuna   azione 
reipersecutoria.

10. Azioni con formula in bonum et aequum
Queste azioni erano caratterizzate nella  condemnatio  dalla clausola  quod 
aequius melius esse videbitur, in base al quale il giudice era invitato a 
stabilire   l’ammontare   della   condanna   tenendo   presente   i   criteri 
dell’equità;   non   conferiva   al   giudice   poteri   discrezionali   sull’intero 
rapporto   dedotto   in   giudizio,   ma   gli   lasciare   un   potere   illimitato   di 
valutare   equamente   l’ammontare   della   condanna,   che   poteva   essere   così 
irrilevante da essere sostanzialmente un’assoluzione.

11. Svolgimento del processo. La fase in iure
a) Adempimenti preliminari. Editio actionis (stragiudiziale), in ius 
vocatio e vadimonium
Chi   voleva   esperire   un’azione   giudiziaria,   doveva   in   primo   luogo 
comunicare all’avversario la sua intenzione; questo avveniva con un atto 
detto  editio   actionis,   consistente   nel   condurre   l’avversario   dinanzi 
all’albo ove era esposto l’editto del pretore, e indicargli la formula che 
si   intendeva   chiedere   al   magistrato.   Altro   modo   di   compiere   la  editio 
actionis era quello di scrivere la formula cui si intendeva far ricorso su 
un  libellus  (biglietto)   che   si   consegnava   all’avversario,   e   bisognava 
anche   consegnare   copia   dei   documenti   (instrumenta)   su   cui   si   basava   la 
pretesa. Dopodiché l’attore doveva vocare  in ius  il convenuto, quindi in 
pubblico,   invitarlo   a   seguirlo   davanti   al   magistrato;   se   l’attore   non 
riusciva   a   effettuare   la  in   ius   vocatio  il   pretore   autorizzava 
l’immissione   dell’attore   nel   possesso   del   patrimonio   della   controparte 
(missio in bona) cui poteva seguire la vendita dei beni. Il  vocatus  era 
tenuto   a   seguire   immediatamente   l’attore  in   ius;   questa   comparizione 
poteva   essere   evitata   da   un  vindex  che   garantisse   la   comparizione   del 
convenuto nel giorno successivamente fissato dal pretore; in caso di sua 
mancata   presentazione   poteva   essere   esperita   un’azione   pretoria,   con 
conseguente   condanna   a   pagare   una   cifra   equiparata.   Il  vocatus  che 
rifiutava   di   seguire   l’attore   e   non   presentava   un  vindex  poteva   essere 
trascinato  in   ius  con   la   forza.   Tra   le   persone   di   stato   sociale   più 
elevato   in   luogo   della  in   ius   vocatio  si   preferiva   far   ricorso   la 
vadimonium;   richiamava   l’antica   pratica   di   presentare   dei  vades  che 
garantivano   la   presenza   del   convenuto   a   una   seconda   udienza,   se   il 
processo   non   si   era   risolta   in   una   sola   seduta;   esso   consisteva   in   un 
invito a comparire all’ora prefissata di un certo giorno, accompagnato da 
stipulatio, con cui veniva invitato a presentarsi  in  ius  si impegnava a 
pagare una certa somma di danaro, detta  summa vadimonii, qualora non si 
fosse presentato.

b) La editio actionis giudiziale e la postulatio actionis
Giunto  in  iure,   l’attore   dopo   aver   ripetuto   la   editio,   chiedeva   al 
magistrato   di   concedergli   l’actio   desiderata   (postulatio  actionis);   il 
convenuto poteva quindi ammettere la fondatezza di questa pretesa con una 
confessio  in   iure,   che,   nel   caso   la   pretesa   riguardasse   una   somma   di 
danaro, equivaleva sin dal tempo delle XII Tavole a una condanna; nel caso 
invece di confessio riguardante un oggetto diverso da una somma di danaro, 
era   necessario   proseguire   l’azione   per   valutare   la   cosa.   Poteva   anche 
accadere   che   il   convenuto   si   limitasse   a   non   difendersi   (indefensio), 
senza assentire o negare; se si trattava di  actio in rem  il magistrato 
garantiva all’attore l’esercizio di fatto della pretesa vantata; se invece 
si trattava di  actio in personam, il magistrato autorizzava l’esecuzione 
concedendo   all’attore   l’immissione   nel   possesso   di   tutti   i   beni   del 
convenuto (missio in bona indefensi) cui poteva seguire la vendita degli 
stessi   (bonorum  venditio).   Infine   poteva   accadere   che   il   convenuto 
contestasse   in   fatto   le   affermazioni   dell’attore   o   in   diritto   la 
fondatezza   della   sua   pretesa,   chiedendo   al   magistrato   di   non   accordare 
l’azione (denegatio actionis), ovvero di apportare modifiche alla formula 
richiesta dall’attore. Alcune persone non potevano compiere la postulatio 
actionis, e più in generale non potevano postulare; essi erano i minori di 
17 anni e i sordi, le cui postulationes venivano avanzate da un advocatus, 
persone   capaci   di  postulare   pro   aliis,   ossia   fare   domande  in   iure  per 
conto degli altri.
c) Il divieto di postulare pro aliis
Il divieto di postulare per omosessuali e donne, ha una spiegazione; per 
gli   omosessuali   si   fa   presente   che   era   considerata   riprovevole   solo 
l’omosessualità passiva, mentre per quanto riguarda le donne è legato al 
fatto che presentarsi in tribunale era contrario al dovere femminile della 
pudicitia.

d) I rappresentanti processuali
Le persone fisiche dotate di capacità giuridica e di agire potevano farsi 
sostituire   da   un  cognitor  o   da   un  procurator   omnium  bonorum  ovvero 
procurator   ad   litem.   Il  cognitor,   che   era   un   rappresentante   diretto, 
doveva essere nominato con una dichiarazione formale diretta alla parte 
avversa.   Il  procurator  era   un   rappresentante   indiretto   e   poteva   essere 
nominato   senza   alcuna   formalità;   poteva   essere   costituito   con   semplice 
mandato   e   all’insaputa   dell’avversario;   all’inizio   della   lite   doveva 
fornire   le   garanzie   (cautiones)   in   merito   alla   non   riproposizione 
dell’azione e all’adempimento di quanto statuito nella sentenza.

e) La causae cognitio, la dazione della formula (datio iudicii) e la 
dazione del giudice (datio iudicis)
Dopo aver ricevuto la postulatio actionis il magistrato compiva una causae 
cognitio,   una   somma   valutazione   sulla   base   della   quale   il   magistrato 
decideva se concedere o negare l’azione. Se l’azione veniva concessa, le 
parti discutevano il testo della formula con il magistrato, che, valutava 
se  e quali eccezioni ed eventuali altre clausole inserire, e sceglieva la 
persona   o   le   persone   che   avrebbero   deciso   la   lite.   L’organo   giudicante 
poteva   essere   un   giudice   singolo   (iudex   unus)   o   un   collegio   di 
recuperatores, questi ultimi nominati nei processi di maggior importanza 
pubblica. Tanto il  iudex unus  che i  recuperatores  erano scelti da liste 
ufficiali   ed   erano   sempre   e   solo   senatori,   ovvero   anche   cavalieri;   gli 
arbitri,   invece,   venivano   scelti   su   indicazioni   delle   parti.   La 
concessione della formula nella configurazione assunta nel caso concreto e 
la nomina del giudice avvenivano con due decreti, rispettivamente chiamati 
dare iudicium e dare iudicem.

f) La litis contestatio e i suoi effetti
La fase  in iure  terminava con la  litis contestatio, che si compiva nel 
momento   in   cui   l’attore   leggeva   al   convenuto   la   formula   concessa   dal 
magistrato   (dictare  iudicium)   e   il   convenuto   l’accettava   (accipere  o 
suscipere iudicium). La litis contestatio era un negozio giuridico, la cui 
conclusione era necessaria perché la clausola venisse differita all’organo 
giudicante e produceva una serie di effetti:

 Rem   in   iudicium   deducere,   che   comportava   che   i   termini   della 


controversia su cui il giudice doveva esprimersi non potessero più 
essere   modificati   e   che   gli   eventi   successivi   non   potessero   più 
essere presi in considerazione;

 Impedire che sulla  res in iudicium deducta  si instaurasse un nuovo 


processo; agiva in modo diverso nei diversi tipi di azione; nelle 
actiones   in   personam  con   formula  in   ius  fatte   valere  in   iudicium 
legitimum essa agiva in forma del diritto civile; nella actiones in 
personam  con formula  in factum, nonché in tutti i  iudicia imperio 
contentia  la regola agiva  ope  exceptionis, agiva solo in forza di 
una exceptio.

12. La fase apud iudiciem
Questa   fase   aveva   inizio   quando   le   parti   erano   invitate   a   comparire 
dinanzi al giudice il dopodomani; se una delle parti non si presentava, il 
giudice,   nel   corso   della   prima   udienza,   decideva   la   causa   a   favore   di 
quella   presente;   il  iudicium  doveva   concludersi   entro   18   mesi   se   era 
ligitimum  ed   entro   il   periodo   di   carica   del   magistrato   se  imperio 
continens. L’attività più importante del giudice era, in questo periodo, 
l’assunzione delle prove; all’attore toccava provare i fatti costitutivi 
del rapporto e al convenuto toccare provare i fatto che lo avevano estinto 
ovvero che rendevano iniqua la pretesa di farlo valere.

a) Tipi di prove
Le prove erano distinte in due categorie, le probationes artificiales e le 
probationes inartificiales; le prime dipendevano dall’arte dell’oratore, 
le altre esistevano indipendentemente da questa e comprendevano le regole 
giuridiche.   Tra   le  probationes   inartificiales,   si   possono   ricordare   la 
testimonianza e i documenti scritti e le testimonianze erano orali o date 
per   iscritto   (per  tabulas);   quelle   scritte   avevano   meno   efficacia   di 
quelle orali.

b) La pluris petitio
Non   era   possibile   condannare   il   convenuto   nel   caso   in   cui   la   pretesa 
dell’attore, enunciata nell’intentio, fosse maggiore di quella cui aveva 
effettivamente diritto; l’attore perdeva la lite e non poteva riproporla 
una seconda volta. Esistevano quattro tipi di pluris petitio ed erano re, 
tempore,  loco,  causa,   a   seconda   che   si   chiedesse   materialmente   più   di 
quanto effettivamente spettasse, o prima del termine, o in luogo diverso 
da quello in cui era dovuta la prestazione, o privando il convenuto di una 
scelta   che   gli   sarebbe   spettata;   la  pluris   petitio  era   possibile   solo 
nelle formule con intentio certa. Se vi era una pretesa diversa si poteva 
riproporre la pretesa corretta.

13. La sentenza e i suoi effetti
Si   trattava   di   un   provvedimento   conciso,   modellato   sul   testo   della 
formula, seguito dalla valutazione sulla fondatezza o meno della pretesa e 
a volte da una breve motivazione. Le sentenze erano orali e l’effetto di 
esse erano quello di decidere la lite in modo definitivo, in quanto nel 
processo formulare non esisteva appello; se qualcuno riproponeva la lite, 
il   convenuto   poteva   opporre   la  exceptio   rei   iudicatae   vel   in   iudicium 
deductae. Ulteriore effetto della sentenza, se pronunziata in un iudicium 
legitimum, era quello di obbligare il condannato a eseguire il giudicato.
14. L’esecuzione
La sentenza di condanna non aveva efficacia esecutiva, ma nasceva solo un 
obbligo   a   eseguire   il   provvedimento   in   capo   al   condannato,   cui   il 
magistrato intimava solennemente di pagare entro trenta giorni. Scaduto il 
termine   l’attore   poteva   esperire   un’actio   iudicati  secondo   il   normale 
iter, cioè tramite edictio actionis stragiudiziale e in ius vocatio; colui 
contro   cui   veniva   esperita   quest’azione   poteva   confessare   il  iudicatum 
ovvero   resistere   ed   in   quest’ultima   ipotesi   in   caso   di   soccombenza   era 
condannato  in duplum. L’esecuzione a questo punto poteva avvenire in due 
forme, o sulla persona o sui beni.

a) L’esecuzione sulla persona (ductio)
L’esecuzione sulla persona esperibile al termine di un processo formulare 
era   la  ductio   iussu   praetoris,   che   aveva   luogo   a   seguito   di 
un’autorizzazione   del   magistrato,   al   quale   l’attore   chiedeva   di   potere 
condurre con sé il condannato; pur restando giuridicamente libero, questi 
veniva sottoposto al potere dell’attore, che era tenuto a provvedere al 
suo mantenimento. L’attore poteva trattarlo e servirsene come se fosse uno 
schiavo.

b) L’esecuzione sul patrimonio (bonorum venditio)
A partire dall’ultimo secolo della Repubblica il pretore introdusse una 
forma di esecuzione sul patrimonio, nata per risolvere il problema che si 
presentava   quando   un   debitore   moriva   senza   lasciare   eredi;   il   primo 
intervento   del   magistrato   era   un   provvedimento   che   autorizza   il 
richiedente a prendere possesso del patrimonio del condannato (missio in 
bona);   se   il   condannato   tentava   di   ostacolare   l’attore,   questi   poteva 
esperire nei suoi confronti un’actio in factum che portava a una condanna 
pecuniaria. Trascorsi trenta giorni, l’attore doveva comunicare l’avvenuto 
immissione nel possesso dei beni con un atto detto  proscriptio  bonorum. 
Questo   consentiva   agli   altri   creditori   di   chiedere   a   loro   volta   la 
immissione   nel   possesso   dei   beni   e   di   partecipare   alla   successiva 
procedura   di   vendita   del   patrimonio   (bonorum   venditio);   la  bonorum 
venditio  aveva dunque carattere concorsuale. In attesa della vendita il 
magistrato   nominava  curator  bonorum  uno   dei   creditori   e   alla   vendita 
provvedeva un magister scelto dai creditori e approvato dal magistrato, il 
cui primo atto consisteva nello stabilire le condizioni della vendita con 
una  lex  venditionis.   I   creditori   privilegiati   erano   detti  privilegium 
exigendi, mentre gli altri erano chiamati creditori chirographarii (in età 
postclassica).   La   vendita   avveniva   tramite   un’asta.   Sul   debitore   cadeva 
l’infamia,   ma   per   evitarla,   poteva   abbandonare   volontariamente   il   suo 
patrimonio ai creditori (cessio bonorum), prima dell’asta. Chi acquistava 
i beni era un successore pretorio, e quindi non poteva esperire le azioni 
spettanti contro eventuali creditori del debitore insolvente e viceversa, 
ma   per   ovviare   a   questo   problema,   il   pretore   predispose   due   formule, 
Serviana e Rutiliana; la prima cui si ricorreva se il debitore era morto, 
era una formula  ficticia  in cui si fingeva che il  bonorum emptor  fosse 
erede del debitore; nel secondo caso si ricorreva quando il debitore era 
vivo, e conteneva una trasposizione di soggetti, nella intentio vi era il 
nome del debitore, nella condemnatio quello del bonorum emptor.

c) Il pignus in causa iudicati captum
Accanto alla  bonorum venditio, che investiva l’intero patrimonio, vi era 
il pignus in causa iudicati captum, che consisteva nella presa di possesso 
a titolo di pegni di singoli beni del debitore, dietro autorizzazione del 
magistrato.   La   vendita   la   eseguiva   direttamente   l’attore   e   divenne 
applicazione generale nel processo della cognitio extra ordinem.

15. Altri provvedimenti dei magistrati
Tra   i   provvedimenti   che   il   magistrato   poteva   prendere   per   tutelare 
situazioni che egli riteneva meritevoli, vanno ricordate le restitutiones 
in integrum, le  missiones in possessionem, le  stipulationes praetoriae  e 
gli interdicta.

a) Gli interdicta
L’interdictum  era un ordine del magistrato che imponeva ad una parte di 
tenere un determinato comportamento; gli interdetti vennero introdotti nel 
periodo   in   cui   il   processo   ordinario   erano   le  legis   actiones,   e 
presumibilmente in un primo momento il pretore costringeva il destinatario 
a   rispettare   la   sua   ingiunzione,   erano   quindi   esecutivi,   ma   quando 
successivamente   divennero   astratti,   persero   la   loro   esecutività.   Il 
pretore che li emanava in forza della sua  iurisdictio, non ricorreva più 
al suo  imperium  per farli rispettare; se il destinatario non rispettava 
l’ordine,   l’attore   doveva   intentare   un’azione   (actio   ex   interdicto) 
destinata   ad   accertare   l’esistenza   dei   presupposti   di   fatto   che 
giustificavano l’interdetto stesso e l’inottemperanza all’ordine in esso 
contenuto.   Gli  interdictum  erano   distinti  in  proibitori,  restitutori  ed 
esibitori.   Gli   interdetti   a   tutela   del   possesso,   si   dividevano   in 
adipiscendae  (accertare),  retinendae  (conservare)   e  reciperandae 
(recuperare)  possessionis;   i   primi   erano   proibitori,   gli   altri 
restitutori.

a) IN INTEGRUM RESTITUTIO
Era   un   provvedimento   che   ripristinava   una   situazione   modificata   da   un 
fatto,   un   atto   o   un   negozio   giuridico   secondo   il  ius  civile,   ma   che 
secondo   il   pretore   aveva   creato   uno   stato   di   fatto   ingiusto.   La 
concessione avveniva dietro causa cognitio, cioè dopo che il pretore aveva 
valutato   tutte   le   circostanze   necessarie   per   giudicare   sull’opportunità 
del provvedimento. Tra i mezzi usati vi era l’actio rescissoria, in cui si 
fingeva che non si fosse verificato il fatto che aveva recato pregiudizio 
all’attore (ad esempio rescissione atti compiuti dai minori di 25 anni, 
che avessero recato loro pregiudizio).

b) CAUTIONES O STIPULATIONES PRETORIE
Era   una  stipulatio  imposta   con   decreto   dal   magistrato   e   con   essa   una 
persona   prometteva   di   dare   una   determinata   somma   o   di   tenere   un 
determinato   comportamento.   Gli   edili   curuli,   che   avevano   competenza   sui 
mercati, potevano imporre al venditore di prestare una  stipulatio habere 
licere, con cui questi si obbligava a risarcire il compratore qualora il 
pacifico godimento della cosa venisse turbato; funzione analoga aveva la 
stipulatio duplae, con cui il venditore, in caso di evizione, si obbligava 
a versare al compratore il doppio del prezzo da questi pagato. Se erano 
garantite   da   terzi  sponsores,   le   stipulazioni   pretorie   erano   chiamate 
satisdationes,   se   non   erano   garantite   erano   dette  repromissiones; 
cautiones invece quando venivano documentate.

b) Le missiones in possessionem
La  missio   in   possessionem  era   un  decretum  con   cui   il   magistrato 
autorizzava   chi   ne   aveva   fatto   richiesta   a   prendere   possesso   di   beni 
altrui; se riguardava l’intero patrimonio si parlava di missio in bona, di 
singoli   beni   invece  missio   in   rem;   questi   provvedimenti   potevano   avere 
funzione cautelare ovvero coercitiva.

16. LA COGNITIO EXTRA ORDINEM
Il   processo   formulare   fu   sostituito   dal   quello   definito   cognitio   extra 
ordinem.

a) Le cognitiones provinciali
La procedura formulare non veniva applicata in tutte le province e anche 
là dove veniva applicata subiva profonde trasformazioni; prima che questo 
accadesse   a   Roma   e   in   Italia,   nelle   province   entrò   in   uso   un   tipo   di 
processo   che   si   svolgeva   interamente   dinanzi   al   magistrato   o   al 
funzionario imperiale cui la questione veniva sottoposta. Questo processo 
consisteva   in   una   cognizione   (cognitio)   della   causa   da   parte   del 
magistrato   o   funzionario,   che   al   termine   di   questa  cognitio  poteva 
emettere personalmente la sentenza. Nel processo per cognitiones le parti 
non  si  accordavano  sui  termini  della  lite  e  non  partecipavano  in  alcun 
modo alla scelta del giudice e alla definizione dei suoi compiti.

b) Le cognitiones extra ordinem a Roma
Già all’inizio del principato, per tutelare gli istituti introdotti dal 
principe  o dal  Senato si  faceva  ricorso  alle  cognitiones  anche  a  Roma. 
L’origine di questo processo a Roma, viene fatto risalire ad Augusto che 
aveva iniziato ad attribuirsi nel 30 a.C. il potere, tramite una legge, 
che lo autorizzava a giudicare su richiesta di una parte e questi poteri 
si estero dal 23 a.C. in forza della  tribunicia potestas  e dell’imperium 
proconsolare maius et infinitum, esercitandoli personalmente o delegandoli 
al pretore o ai consoli. Alla fine del secolo I d.C. entrò in uso tra i 
giudici la prassi di chiedere al principe un parere, che veniva dato con 
un rescriptum che in quella specifica causa era vincolante.

C.Dall’anarchia militare alla morte di Giustiniano

1. La fine del processo formulare
Nonostante   il   progressivo   affermarsi   delle  cognitiones,   la   procedura 
formulare continuò ad essere applicata fino a verso la metà del secolo III 
d.C.; essa aveva tuttavia perduto molti dei suoi caratteri. L’abolizione 
di   questa   procedura   avvenne   nel   342,   quando   una   costituzione   di 
Costantino, Costanzo e Costante vietò il ricorso alle formule, definite 
mezzi insidiosi, che potevano indurre le parti in errore.

2. Generalizzazione delle cognitiones, i caratteri della 
cognitio postclassica
Agli inizi del secolo IV, tutti i processi privati sia in provincia si a 
Roma venivano celebrati nella forma della cognitio, che ormai si svolgeva 
secondo   un   modello   sostanzialmente   uniforme;  i   principali   aspetti 
 
innovativi   di   questa  cognitio
     
  erano   la   citazione   in   giudizio,   processo
  
contumaciale,   potere   discrezionale   del   giudice,   condanna   in   forma 
specifica, appello.

a) La procedura
Il   processo   veniva   promosso   da   chi,   affermando   di   esserne   il   titolare, 
chiedeva l’accertamento e la tutela di un diritto soggettivo.

b) La citazione in giudizio
A   partire   dalla   fine   del   secolo   III,   l’atto   introduttivo   del   processo, 
ossia la  litis denuntiatio, consisteva in un atto scritto detto  libellus 
notificato   dall’attore   al   convenuto   e   contenente   l’invito   a   comparire 
dinanzi   al   funzionario   o   al   giudice   da   questi   delegato.   Una   volta 
notificato il libellus, il convenuto poteva inviare un libello di replica 
(contradictionis) e le parti dovevano comparire dinanzi al giudice entro 
il  termine  di  quattro mesi.  Il  dibattimento  che  seguiva,  nel  corso  del 
quale aveva luogo l’assunzione delle prove, conduceva alla pronunzia di 
una sentenza che poteva essere anche contumaciale. La  litis denuntiatio 
cadde   in   disuso,   sostituita   da   un  libelllus   conventionis,   che   veniva 
inviato   non   dall’attore,   ma   dal   funzionario,   tramite   un  executor,   al 
convenuto. Il termine per la presentazioni delle parti venne ridotto a 10 
giorni,  elevati  a  20  da  Giustiniano,  entro  i  quali  il  convenuto  poteva 
presentare il  libellus contradictionis; al convenuto fu fatto obbligo di 
prestare una  cautio iudicio sisti, garantita da un  fideiussor  ed in caso 
di rifiuto, l’executor poteva arrestarlo e trattenerlo a disposizione del 
giudice fino a che il processo non era giunto a termine.

c) La nascita del processo contumaciale
Il magistrato invitata il convenuto a presentarsi, tramite l’evocatio  o 
denutiatio   ex   auctoritate;   se   questi   non   si   presentava,   il   magistrato 
emanava   tre   edicta   successivi,   cui   faceva   seguito,   se   necessario,   un 
quarto editto detto edictum perentorium, con cui rendeva noto al convenuto 
che avrebbe emesso la sentenza in sua assenza. Il convenuto che non si 
presentava   nonostante   questi   editti   veniva   detto  contumax;   in   questo 
processo, la  cognitio  si svolgeva anche in contumacia, e il giudice era 
tenuto a valutare pure gli eventuali elementi in favore del contumace.

d) Il dibattimento
Se   compariva   in   giudizio,   il   convenuto   poteva   ammettere   le   ragioni 
dell’attore   ovvero   contestarle,   ma   mentre   nei   processi   antecedenti,   una 
confessio  poneva   fine   al   processo,   nella  cognitio  era   prova,   in   forza 
della   quale   il   giudice   condannava   il   convenuto.   Se   invece   il   convenuto 
intendeva   contestare   la   pretesa   dell’attore,   dopo   aver   presentato   il 
libellus contradictionis, si impegnava nella fase del processo denominata 
initium; in questa fase il convenuto poteva opporre le sue exceptiones, in 
quest’epoca   dette  praescriptiones  (exceptio  era   l’affermazione   da   parte 
del convenuto di fatti o atti che potevano sostenere le sue ragioni).

e) La litis contestatio
Si riteneva in quest’epoca che la litis contestatio fosse avvenuto quando 
l’attore aveva fatto la sua  narratio  e il convenuto la sua  contradictio, 
fissando i termini della lite.

f) I poteri discrezionali del giudice e le nuove regole sul valore 
degli atti processuali
L’introduzione   di   nuove   regole,   limitarono   fortemente   i   poteri 
discrezionali   del   giudice,   soprattutto   in   materia   di   assunzione   e 
valutazione   delle   prove;   in   età   postclassica   il   regime   delle   prove 
attrasse   i  giuristi,   che   sottoposero   l’argomento   a  una   regolamentazione 
volta innanzitutto a stabilire all’interno di esse una precisa gerarchia 
di   valori;   la   prova   documentale   venne   considerata   superiore   a   quella 
testimoniale, invertendo così una tendenza che sino a quel momento aveva 
dato la prevalenza alla prova testimoniale; rimase in vigore l’onore della 
prova a carico di chi aveva interesse a dimostrarne l’esistenza.

g) La sentenza. La nascita della esecuzione in ipsam rem
Il   giudice,   emanando   la   sentenza   al   termine   della  cognitio,   poteva 
liberamente stabilire l’ammontare della condanna, e a partire dal secolo 
III poteva pronunziare anche condanne non pecuniarie, cioè, oltre che a un 
dare, poteva condannare a un  facere; le fonti cominciarono a parlare di 
un’esecuzione in ipsam rem.

h) La nascita del secondo grado di giudizio (appello)
Il   moltiplicarsi   delle  cognitiones  da   parte   di   giudici   diversi   dal 
principe portò alla nascita di un istituto importantissimo, sino a quel 
momento   sconosciuto   al   diritto   romano,   ove   tutti   i   processi   si   erano 
sempre svolti in un unico grado di giudizio; questo istituto fu l’appello 
al principe, cui spettava il secondo grado di giudizio; successivamente 
questo appello fu delegato dall’imperatore al  praefectus  urbi, a quello 
praetorio o ad altri funzionari.

9. I rapporti giuridici e le 
obbligazioni
Origini delle obbligazioni
Le   obbligazioni   venivano   da   atto   lecito   o   illecito;   vi   è   un   vincolo 
materiale da atto illecito (è il soggetto che compie un atto illecito) e 
la   soluzione   era   la   vendetta,   l’applicazione   della   c.d.   Legge   del 
Taglione, che non poteva non passare attraverso il momento della presa di 
possesso   della   persona   responsabile,   però   il   creditore   poteva   accettare 
una   compensazione   pecuniaria,   cioè   il   pagamento   di   una   sanzione 
pecuniaria.   Successivamente   l’ordinamento   intervenne   affermando   che   era 
possibile   solo   la   sanzione   pecuniaria   ,   in   questa   fase   l’obbligazione 
viene intesa come vincolo potenziale. 

A. CONSIDERAZIONI STORICHE

1. Prima del vincolo giuridico: il VINCOLO MATERIALE
Alle   origini   la   pena   è   ero   uno   strumento   che   serviva   per   evitare   il 
riscatto personale. Il vincolo materiale può derivare da atto illecito o 
da atto lecito. I vincoli materiali da atto lecito potevano derivare da 
accordi   spontaneamente   conclusi   per   regolare   interessi   privati   (es.   il 
paterfamilias   si   faceva   prestare   una   derrata   ­prodotto   della   terra   di 
largo   consumo,   come   cereali­   da   un   altro   paterfamilias);   a   chi   aveva 
interesse   che   l’impegno   preso   venisse   rispettato   si   attribuì   un   potere 
materiale   su   colui   che   lo   aveva   assunto   e   questi   si   trovò   ad   essere 
assoggettato   a   un   vincolo   materiale,   questo   vincolo   in   alcuni   casi   era 
attuale, in altri era eventuale. Originariamente non nasceva un vincolo 
giuridico,  ma  un  vincolo  materiale,  in  forza  del  quale,  colui  al  quale 
altri   si   aspettavano   un   determinato   risultato   veniva   fisicamente 
assoggettato al potere di altra persona. Si cominciò a formare una sorta 
di catalogo di comportamenti delittuosi, il cui vincolo materiale nasceva 
da un comportamento illecito. Si riconobbe alla vittima un potere su chi 
aveva   tenuto   il   comportamento   delittuoso,   autorizzandola   a   infliggere 
all’offensore il male che la civitas riteneva che costui avesse meritato e 
la   vittima   non   agiva   più   come   privato   vendicatore   ma   come   un   “agente 
socialmente autorizzato”; i poteri erano, infliggere all’offensore un male 
proporzionato al delitto commesso, tenerlo presso di sé, in condizione di 
fatto   di   schiavitù   e   ucciderlo.   Le   XII   Tavole   prevedevano   che   venisse 
messo a morte:

 ladro che agiva di notte;

 ladro che agiva di giorno se faceva uso di armi;

 ladro sorpreso in flagrante quando era uno schiavo;

 colui che di notte aveva tagliato l’altrui raccolto;

 chi   si   era   impossessato/danneggiato   l’altrui   raccolto   con   mezzi 


magici;

 chi aveva spaventato o gettato il malocchio le messi del vicino con 
canti magici;

 chi aveva trasportato nel proprio campo le messi già raccolte del 
vicino;
 chi aveva incendiato un edificio e il covone di frumento a questo 
appoggiato.

Alternativa alla morte: la pactio
Le XII Tavole stabilirono che l’uccisione del ladro fosse legittima ma non 
obbligatoria; chi sorprendeva un ladro poteva accettare la compensazione 
che questi eventualmente gli offrisse al fine si aver salva la vita. Tutto 
quello che interessava era controllare la vendetta privata, affermando il 
suo   diritto   esclusivo   di   stabilire   quali   fossero   i   comportamenti   che 
meritavano la morte; stabilito ciò la civitas non aveva ragione di vietare 
alle parti interessate di valutare se e a quali condizioni l’offesa poteva 
essere lavata evitando lo spargimento di sangue.

Il potere di infliggere un male fisico diverso dalla morte
Di   fronte     a   comportamenti   delittuosi   considerati   di   minor   gravità   la 
civitas autorizzava la vittima a reagire infliggendo all’offensore un male 
fisico, diverso dalla morte, di cui ella stessa stabiliva inderogabilmente 
la misura (previsto anche nelle XII Tavole là dove regolano un’ipotesi di 
lesioni personali denominata rottura di un membro).

Il potere di rendere proprio schiavo un delinquente
Altre volte il potere conferito alla vittima consisteva nella possibilità 
di  trattenere  il  delinquente  presso  di  sé,  in condizioni  di  schiavo  ed 
erano: 

 ladro di stato libero sorpreso in flagrante;

 colui a casa del quale era stata trovata la refurtiva, a seguito di 
perquisizione lance licioque.

La nascita della pena privata
Le   tappe   fondamentali   del   cammino   percorso   dalla   civitas,   che 
progressivamente sottopose a controllo l’uso della forza privata, furono 
quelle che stabilirono nell’ordine:

 Solo   a   lei   spettava   stabilire   quali   erano   i   comportamenti   che 


legittimavano una reazione fisica.

 Il potere di determinare la misura della reazione non spettava più 
alla parte lesa, la quale poteva reagire solo nella misura stabilita 
dalla civitas stessa.

 Coloro   che   accettavano   una   composizione   pecuniaria   –   a   seguito   di 


una pactio ­ non erano più sottoposti al potere della parte lesa di 
infliggere loro un male fisico o di privarli della libertà.

 La composizione pecuniaria era obbligatoria, di conseguenza le parti 
lese non potevano più usare la forza fisica.
Sacer esto
Di   fronte   ad   alcuni   comportamenti   considerati   un   illecito   religioso   la 
civitas   non   conferì   alla   vittima   un   potere   sul   delinquente,   bensì   la 
dichiarazione di sacertà di questi, la consacrazione agli dèi (sacratio). 
A   seguito   della   dichiarazione   di   sacertà   il   delinquente   (homo   sacer) 
poteva essere ucciso impunemente da chiunque decidesse di farlo.

1. PRESTAZIONE: REQUISITI
La   prestazione   è   il   comportamento   che   il   debitore   deve   tenere   nei 
confronti del creditore in forza del rapporto obbligatorio che esiste tra 
loro. Requisiti perché l’obbligazione sia valida:

 Prestazione   deve   essere   possibile:   deve   avere   a   oggetto   una   cosa 


esistente   in   natura   (possibilità   fisica   o   naturale)   e   rientrare 
nella categoria delle res in commercio (possibilità giuridica).

 Prestazione deve essere lecita: non contraria alle norme del diritto 
o del buon costume.

 Prestazione   deve   essere   determinata   (parti   precisano   il   contenuto 


della   prestazione)   o   determinabile   (per   stabilire   contenuto   della 
prestazione si fa riferimento a elementi esterni al negozio).

 Prestazione   deve   essere   valutabile   economicamente;   questo   dipende 


dalla   necessità   di   sostituire   la   prestazione   non   adempiuta   con   il 
suo equivalente in danaro, secondo il principio per cui la condanna 
deve essere sempre pecuniaria.

OBBLIGAZIONI E CONTRATTI

a) I contratti reali
Sono   il   mutuo   e   la  indebiti  solutio;   Gaio   riteneva   che   un   contratto 
venisse   concluso  re  solo   quando   la   dazione   della   cosa   comportava   il 
trasferimento della proprietà di questa.

Il mutuo
 Nel   momento   in   cui   il   danaro   o   le   cose   venivano   prestati   si 
confondevano con il patrimonio di chi li riceveva, diventando di sua 
proprietà.

 La   nascita   dell’obbligazione   discendeva   dall’accordo,   dal 


trasferimento della proprietà della cosa e dal riconoscimento della 
utilità della funzione economico sociale del negozio.

 Totale  autonomia  rispetto  alle  esigenze  sociali:  enorme  diffusione 


del prestito a interessi, anche se rimase sempre gratuito.

 Accanto   al   mutuo   le   parti   concludevano   un   secondo   contratto,   una 


stipulatio  (accessibile   anche   agli   stranieri)   con   la   quale   il 
debitore si impegnava a pagare gli interessi; se al momento della 
restituzione del capitale il mutuatario non pagava gli interessi il 
mutuante per ottenerli poteva agire nei suoi confronti con un’actio 
ex   stipulatu.   Rimase   in   uso   prevalentemente   nei   casi   in   cui   il 
prestito era veramente gratuito.

 Dal mutuo nascevano obbligazioni a carico solo di una parte, esso 
era infatti un contratto unilaterale. 

 Tutelato con l’actio certae creditae pecuniae.

Il foenus nauticum o pecunia traiecticia
È un contratto autonomo diverso dal mutuo, grazie al quale era consentito 
prevedere   il   pagamento   di   interessi   (considerato   spesso   un   tipo 
particolare   di   mutuo).   Grazie   ad   esso   chi   si   dedicava   al   commercio 
marittimo poteva ottenere del denaro a credito ed era tenuto a restituirlo 
solo nel caso che il viaggio fosse andato a buon fine. Il rischio della 
navigazione   era   a   carico   del   creditore,   il   quale,   in   cambio 
dell’assunzione di tale rischio aveva diritto al pagamento di interessi 
elevati. La nascita di questo istituto in Grecia e la sua ricezione a Roma 
sono legate ai problemi creati alla navigazione dalla presenza di bande di 
pirati che rendevano le intraprese marittime pericolosissime.

Il deposito (CONTRATTO REALE)
È un contratto gratuito che si realizzava quando una persona – deponente ­ 
consegnava una cosa mobile a un’altra persona – depositario ­ e questa si 
impegnava a restituirla allo scadere di un certo termine o a richiesta del 
deponente; non si trasferiva né la proprietà né il possesso della cosa, il 
depositario era solo un detentore, non poteva usare la cosa, e se la usava 
commetteva il delitto di furto d’uso, tutelata con l’actio furti oltre che 
con   l’actio   depositi.   È   un   contratto   “imperfettamente”   bilaterale:   le 
obbligazioni sorgevano solo in capo al depositario (conservare la cosa, 
non usarla, restituirla non deteriorata, con frutti e accessioni), mentre 
il deponente poteva essere obbligato solo in determinate circostanze, solo 
quando il depositario avesse dovuto sostenere delle spese necessarie alla 
conservazione della cosa o avesse ricevuto danni dalla cosa depositata e 
il depositario poteva esercitare un’actio depositi contraria. In capo al 
depositario non nasceva l’obbligo della custodia in quanto il contratto 
era concluso nell’interesse esclusivo del deponente; l’obbligo nasceva se 
il contratto veniva concluso nell’interesse esclusivo di chi riceveva la 
cosa, e doveva rispondere per furto, perimento, danneggiamento anche se 
non determinati da un suo comportamento negligente.

Il deposito “necessario” o “miserabile”
Si ricorreva in occasioni di gravi calamità naturali, politiche o private. 
Se depositario profittava della situazione miserevole in cui si trovava il 
deponente, l’azione nei suoi confronti portava a condanna pari al doppio 
del valore della cosa. Vi era responsabilità per mancata restituzione solo 
in caso di dolo.
Il sequestro 
È   il   caso   della   cosa   di   cui   era   incerto   chi   fosse   il   proprietario, 
consegnata a persona incaricata di conservarla in attesa che la questione 
della   proprietà   venisse   chiarita.   Il   depositario   non   era   tenuto   a 
restituire la cosa a richiesta, ma solo quando la lite fosse risolta o 
l’esito della scommessa verificato; egli non era un semplice detentore ma 
era possessore della cosa.

Il deposito irregolare
È un contratto con cui una parte depositava presso l’altra una quantità di 
cose   fungibili   (di   regola   danaro)   con   l’accordo   che   il   depositario   ne 
restituisse   a   richiesta   l’equivalente   (tantundem   eiusdem   generis).   Il 
depositario acquistava la proprietà delle cose consegnatigli; egli non era 
persona che ne aveva fatto richiesta per sua necessità, bensì persona che 
maneggiava grandi capitali, investendoli e facendoli fruttare, inserendo 
anche   gli   interessi   nell’accordo.   La   restituzione   aveva   luogo   quando 
deponente la richiedeva, non si stabiliva un termine.

Il comodato
È   il   contratto   di   prestito   d’uso   (diverso   da   mutuo   che   è   prestito   di 
consumo).   Si   realizzava   quando   una   parte   –   comodante   ­   trasferiva 
all’altra – comodatario ­ una cosa inconsumabile affinché questi la usasse 
e   la   restituisse   nelle   stesse   condizioni   in   cui   l’aveva   ricevuta.   Non 
comporta il passaggio né della proprietà né nel possesso della cosa. Il 
vincolo   nasceva   dalla   consegna   della   cosa.   Era   un   contratto   gratuito   e 
imperfettamente   bilaterale:   le   obbligazioni   sorgevano   solo   a   carico   del 
comodatario,   ma   qualora   egli   avesse   dovuto   sostenere   delle   spese   di 
straordinaria manutenzione o avesse subito dei danni dalla cosa comodata 
sorgeva   l’obbligo   del   comodante   di   risarcirlo.   Veniva   concluso 
nell’interesse del comodatario, che poteva così usare per un certo tempo 
una   cosa   non   sua.   La   tutela   concessa   era   un’azione  in   factum  e   quindi 
un’azione di buona fede in ius.

Il pegno
In   età   classica   era   un   diritto   reale   su   cosa   altrui,   in   funzione   di 
garanzia. Veniva costituito mediante il trasferimento del possesso di una 
cosa   corporale,   a   garanzia   di   un   debito   proprio   o   altrui;   da   questa 
consegna   nasceva   l’obbligo,   in   chi   riceveva   la   cosa   di   custodirla   e 
restituirla   nel   momento   in   cui   il   suo   credito   fosse   soddisfatto,   o   si 
fosse   comunque   estinto.   Qualora   il   credito   non   venisse   soddisfatto,   il 
creditore pignoratizio aveva il diritto di vender la cosa, di trattenere 
l’equivalente del suo credito e di restituire l’eccesso. Era un contratto 
reale   e   imperfettamente   bilaterale:   la   possibilità   che   sorgessero 
obbligazioni   a   carico   di   chi   aveva   dato   la   cosa   in   pegno   era   legata 
all’eventualità   che   il   creditore   pignoratizio   avesse   sostenuto   spese   o 
subito   danni.   La   tutela   per   il   creditore   pignoratizio   era   l’actio 
pigneraticia in personam.
La fiducia
In età classica le ragioni per le quali si ricorreva a questo istituto 
erano:

 fiducia cum amico: i beni venivano trasferiti a un amico in caso di 
guerra,   tumulti   sociali   o   altri   eventi   che   impedivano   di   vegliare 
sul proprio patrimonio;

 fiducia cum creditore: il trasferimento di beni fatto da un debitore 
al   suo   creditore   con   l’accordo   che   i   beni   sarebbero   stati 
ritrasferiti   al   debitore   nel   momento   in   cui   questi   avesse 
soddisfatto   il   debito;   garantiva   quindi   il   creditore   da   eventuali 
inadempienze.

La  fiducia  divenne un contratto che le parti concludevano compiendo una 
mancipatio  nel   cui   formulario   venivano   inserite   alcune   parole   solenni, 
legate alla natura fiduciaria dell’atto. 

CONTRATTI VERBALI
Secondo   Gaio   erano   contratte  verbis  le   obbligazioni   che   nascevano  ex 
interrogatione et responsione, e in effetti in un’interrogazione e in una 
congrua risposta consisteva ai suoi tempi la stipulatio. Esistevano anche 
obbligazioni   (la  dotis   dictio  e   la  promissio   iurata   liberti)   la   cui 
nascita dipendeva dalla pronunzia di parole solenni che non consistevano 
in una domanda e una risposta.

La stipulatio/SPONSIO
La struttura originaria rimase immutata, e perché nascesse un’obbligazione 
si continuò a chiedere che a una domanda del creditore il debitore desse 
una risposta congrua e immediata. Con il passare del tempo all’interno di 
questo   schema   si   ammise   che,   oltre   a   verbo  spondere  (riservato   ai 
cittadini romani), venissero utilmente usati anche altri verbi. Il fatto 
che l’obbligazione nascesse dalla pronunzia dei verba faceva sì che anche 
in epoca classica il negozio fosse astratto, che la causa del negozio non 
avesse rilevanza. In età repubblicana nacque l’abitudine di redigere un 
documento   scritto   nel   quale   venivano   indicati   i   termini   dell’accordo: 
semplificava la conclusione del contratto, consentendo a chi interrogava 
di   limitarsi   a   far   riferimento   a   quanto   in   esso   scritto.   Ci   si   poteva 
obbligare a qualunque tipo di prestazione e dare tutela a varie operazioni 
commerciali   ed   economiche.   A   tutela   delle  stipulationes   certi  veniva 
concessa   un’actio  certae   pecuniae;   per   quelle  incerti,   invece   vi   era 
l’actio incerti ex stipulatu. 

La dotis dictio
Era   il   modo   in   cui   poteva   essere   costituita   una   dote,   attraverso   una 
promessa   unilaterale   da   parte   della   donna   che   andava   a   nozze,   del   suo 
paterfamilias  o anche di un debitore della donna, da lei delegato a far 
questo. La promessa era rivolta al futuro marito e prevedeva la pronunzia 
delle parole: dotem tibi dico o dotem tibi erit e seguite dalla menzione 
delle  cose  che  andavano  a  far  parte  della  dote  stessa,  facendo  nascere 
così un credito del marito.

La promissio iurata o ius iurandum liberti
Era una solenne promessa, fatta dallo schiavo manomesso che si obbligava a 
compiere   al  dominus  che   lo   aveva   liberato   determinati   servigi.   Questa 
promessa veniva fatta precedere da un giuramento avente analogo contenuto 
che lo schiavo prestava prima della manomissione. Il giuramento aveva la 
funzione di impegnare lo schiavo evitando che dopo la manomissione egli 
deludesse   le   aspettative   del   padrone.   A   tutela   del   patrono   –   se   le 
promesse non avevano carattere vessatorio­   il pretore concesse un’actio 
operarum.

CONTRATTI CONSENSUALI
Erano   contratti   informali   che   si   basavano   solo   sul   consenso   dei   due 
soggetti che stipulano che il contratto. Non viene meno il carattere della 
tipicità contrattuale, ma la tipicità è insita nella causa del contratto.

La compravendita (emptio­venditio)
È il più importante accordo in forza del quale il venditore si obbliga a 
trasferire il pacifico godimento di una cosa e il compratore si obbliga a 
versargli   il   denaro.   Nel   nostro   ordinamento   all’art.   1470,   il   c.c. 
sancisce   che   “La   vendita   è   il   contratto   che   ha   per   oggetto   il 
trasferimento della proprietà di una cosa o il trasferimento di un altro  
diritto   verso   il   corrispettivo   di   un   prezzo”;   nel   diritto   romano   è 
diverso, in quanto c’è solo l’obbligo di trasferire il pacifico godimento 
di una cosa e non vi è trasferimento di proprietà. La compravendita nasce 
per regolare i rapporti tra romani e stranieri: gli stranieri non potevano 
acquistare la proprietà in quanto era un diritto solo dei romani, così le 
vendite   tra   romani   e   stranieri   avvenivano   tramite   contratti   consensuali 
perché   c’era   solo   il   trasferimento   del   pacifico   godimento   e   non   della 
proprietà.   Gli   oggetti   della   compravendita   erano   la   merce   (merx)   e   il 
prezzo   (pretium).   La   cosa   che   si   vende   deve   avere   un   prezzo   certo   e 
determinabile   in   denaro   e   deve   essere   in   commercio.   La   compravendita 
poteva avere ad oggetto qualunque cosa corporale o incorporale che avesse 
un   valore   economico   (anche   diritti   soggettivi   aventi   contenuto 
patrimoniale).   Il   compratore   deve   trasferire   la   proprietà   del   danaro 
individuato   come   prezzo   e   il   venditore   deve   trasferire   il   pacifico 
godimento, e ha l’obbligo di consegnare la cosa ed il suo possesso. La 
tutela era rappresentata dalla  actio empti  se intentata dal venditore, e 
dalla  actio venditi  se promossa dal compratore. Il trasferimento di  res 
mancipi,   avviene   ovviamente   tramite  mancipatio.   Il   compratore   che   aveva 
ricevuto una res mancipi con semplice traditio, poteva esercitare l’actio 
Publiciana, che altri non è che un adattamento della  rei vindicatio. Il 
venditore doveva fornire due garanzie:

 per evizione: è il caso in cui un compratore fosse stato citato in 
giudizio da un terzo che assumesse di essere lui il proprietario, 
prima che si compisse il termine per l'usucapione e di fronte alla 
rei vindicatio del terzo fosse rimasto soccombente o evitto (con la 
conseguenza   di   dovergli   restituire   la   cosa).     Il   venditore   doveva 
rispondere   di   questa   evizione   e   rimborsare   il   compratore   che   ha 
subito   l’evizione;   la   tutela   era   fornita   prima   dalla  satisdatio 
secundum  mancipium  (obbligo  del  venditore  tramite  stipulatio),  poi 
sostituita da una stipulatio habere licere (obbligo del venditore a 
pagare   il   valore   della   cosa),   per   finire   poi   con   la   stipulatio 
duplae, dove il venditore si obbligava a pagare in duplum.

 per vizi occulti: se un venditore vendeva una cosa con vizi senza 
dichiararlo   veniva   considerato   un   comportamento   non   corretto. 
All’inizio non si poteva far nulla, poi grazie agli edili curuli la 
garanzia era prevista come obbligatoria e implicita, essi emanarono 
due editti (relativi l’uno alla compravendita di schiavi e l’altro a 
quella   di   animali   da   sella   e   soma,   poi   esteso   a   buoi   e   altri 
quadrupedi domestici) i quali obbligavano il venditore a indicare a 
voce   o   su   cartelli   i   difetti   della   merce   offerta   in   vendita.   In 
mancanza,   il   compratore   poteva   esperire   entro   6   mesi   un’actio 
redhibitoria  (restituire)   con   la   quale,   restituendo   la   merce, 
otteneva   la   restituzione   del   prezzo;   ovvero,   in   alternativa, 
un’actio  aestimatoria  o  quanti   minoris  (fare   stima   della   cosa), 
esperibile   entro   1   anno,   con   la   quale   poteva   ottenere   la 
rivalutazione   del   prezzo   e   cioè   il   rimborso   di   quanto   pagato   in 
eccesso. 

Clausole che accompagnavano la compravendita:

 lex   commissoria:   prevedeva   che   la   cosa   tornasse   di   proprietà   del 


venditore   qualora   il   compratore   non   pagasse   il   prezzo   entro   un 
termine pattuito;

 in diem addictio: prevedeva che il contratto avesse efficacia solo 
se   il   venditore   non   avesse   ricevuto   un’offerta   migliore   entro   un 
termine stabilito;

 pactum displicentiae: dava al compratore la possibilità di rendere 
la merce che non fosse stata di suo gradimento, ricevendo in cambio 
la restituzione del prezzo.

La locazione (locatio­conductio)
Il locatore deve trasferire al conduttore una cosa per un certo periodo di 
tempo. Nella locatio­conductio a pagare la mercede non è sempre chi riceve 
la cosa. La tutela era l’actio locati e l’actio conducti. Le varie forme 
di locatio­conductio sono:

 locatio conductio rei: un soggetto dà una cosa ad un altro soggetto, 
e   questo   ultimo   è   colui   che   paga.   Il   locatore   deve   consegnare   la 
cosa e metterla a disposizione per un periodo temporaneo (diverso da 
compravendita per la quale è per un periodo eterno);

 locatio conductio operis: il locatore trasferisce al conduttore una 
cosa, affinché egli svolga un’attività lavorativa per raggiungere un 
risultato   (oggi   contratto   d’appalto,   art.   1675   e   seg.   c.c.),   la 
mercede è pagata al conduttore dal locatore, in quanto il conduttore 
deve consegnare la cosa ed eseguire il lavoro;

 locatio conductio operarum: il locatore (mercenarius) si obbliga a 
mettere a disposizione di altra persona (il conduttore) la propria 
attività lavorativa (opere) per un certo periodo di tempo in cambio 
di   una  mercede  (normalmente   somma   di   danaro).   Nelle  prestazioni 
intellettuali la mercede è detta honorarium.

 Lex   Rhodia:   è   un   caso   particolare   di  locatio­conductio  e   si 


applicava   ai   trasporti   marittimi;   in   questo   caso   il   rischio   si 
ripartiva   proporzionalmente   tra   tutti   i   locatori   che   avevano 
imbarcato le merci; i locatori delle merci perdute avrebbero agito 
con   l’actio   locali  contro   il   trasportatore,   e   costui   a   sua   volta 
avrebbe   agito   con   l’actio   conducti  in   via   di   rivalsa   contro   i 
locatori delle merci che si erano salvate.

La società (societas)
Il contratto consensuale di società nacque nel ius gentium, come strumento 
del commercio internazionale e fu tutelata verso la metà del II sec. a.C. 
nel tribunale del pretore peregrino. Consisteva nell’impegno, assunto da 
due   o   più   persone,   di   mettere   in   comune   dei   beni   per   raggiungere   un 
risultato vantaggioso. Il  consortium ercto non cito  (comproprietà di una 
cosa)   era   usato   nell’età   più   antica,   dove   due   persone   avevano   in 
comproprietà   (proprietà   comune)   dei   beni   e   se   ci   fossero   state   delle 
perdite venivano divise tra i soci e i guadagni venivano divisi a seconda 
di   quanto   fosse   stato   conferito   dal   singolo   socio.   La   società   leonina 
rappresenta   un   punto   limite   in   quanto   prevede   che   un   socio   abbia   solo 
vantaggi e mai svantaggi, è quindi nulla. E’ possibile una società per un 
solo negozio o affare, terminato il quale, la società cessa di esistere. 
La società romana è un accordo tra i soci; la società non ha rilevanza ma 
è   fonte   di   obbligazioni   a   carico   di   più   soggetti   –   i   soci   ­,   ed   il 
soggetto   agisce   come   persona   singola,   i   contratti   conclusi   devono   dare 
vantaggi da suddividere tra tutti i soci; la società moderna è diversa, in 
quanto   essa   è   soggetto   di   diritto,   ha   personalità   giuridica   e 
responsabilità patrimoniale. Le obbligazioni che nascevano dall’attività 
svolta   nel   comune   interesse   sorgevano   per   intero   in   capo   a   chi   aveva 
agito;  colui  che  aveva  agito  per  incarico  degli  altri  poteva  agire  con 
l’actio mandati, mentre se l’incarico non era stato esplicito, con l’actio 
negotiorum gestorum.

La società si estingueva per:
 recesso unilaterale di uno dei soci ed aveva effetto nel momento in 
cui altri gli soci ne venivano a conoscenza;

 morte   di   uno   dei   soci   e   gli   eredi   non   succedevano   in   questo 


rapporto;

 capitis deminutio di uno dei soci;

 bonorum venditio, con conseguente vendita all’asta del patrimonio di 
uno dei soci a causa della sua insolvenza.

Il mandato (mandatum)
Era   un   contratto   gratuito   nella   sua   essenza,   il   mandante   incaricava   il 
mandatario   di   eseguire   un’attività   ed   egli   si   impegnava   a   compierla 
gratuitamente. Il mandato è diverso dalla  locatio operis  in quanto deve 
essere   stipulato   nell’interesse   del   mandante   o   di   un   terzo,   ma   mai 
nell’interesse del mandatario. Se il mandatario voleva essere pagato il 
contratto era  di  locatio  operis.  Il  mandato  è  fonte  di  obbligazioni  in 
quanto il mandatario ha l’obbligo di trasferire gli effetti giuridici da 
lui compiuti al mandante; il contratto è imperfettamente bilaterale e la 
rappresentanza non è diretta. Il mandato si estingueva   naturalmente per 
espletamento   dell’incarico   e,   posto   che   si   fondava   sulla   fiducia,   si 
estingueva   per   rinunzia   o   revoca   del   mandatario   (se   l’esecuzione   del 
mandato non aveva avuto inizio) e per morte o per capitis deminutio di una 
delle parti (se il mandatario non aveva già dato inizio all’esecuzione). 

1. Estinzione delle obbligazioni
La   prestazione   è   il   contenuto   dell’obbligazione,   e   vi   sono   varie 
tipologie,   quelle   del   “dare”   e   quelle   del   “fare”;   la   prestazione   deve 
avere   un   valore   economico   in   danaro,   se   non   vi   è   questa   valutazione 
(interesse)   il   contratto   è   nullo;   deve   essere   possibile,   lecita, 
determinata   o   determinabile.   Lo   scioglimento   di   un   vincolo   giuridico 
potenziale si identifica con il termine solutio. E’ importante il luogo 
(domicilio   del   debitore)   e   il   tempo,   se   non   c’è   termine   si   presume 
immediatamente (prestazione immediata). 

a) Gli atti estintivi
Atti estintivi secondo il ius civile che agivano ipso iure.

• Adempimento:   ad   adempiere   poteva   essere   il   debitore   o   qualunque 


terzo;   in   caso   di  obligatio  da  stipulatio,   il   pagamento   poteva 
essere   fatto   a   due   personaggi,   l’adiectus   solutionis   causa  e 
l’adstipulator; il primo era quello il cui nome erano previsto nella 
formula   della  stipulatio,   mentre   il   secondo   era   una   persona   di 
fiducia del creditore principale. Si poteva adempiere anche con una 
datio in solutum, ossia una prestazione diversa da quella dovuta, ma 
in caso di contestazione si doveva opporre exceptio in quanto da la 
datio, da sola, non estingueva l’obbligazione.

• Acceptilatio:   :   atto   (estintivo)   composto   da   una   domanda   e   dalla 


rispettiva risposta attraverso cui il debitore chiedeva al creditore 
se   avesse   ricevuto   quello   che   aveva   promesso,   e   quest'ultimo 
rispondeva affermativamente. Si trattava di un istituto simmetrico e 
contrario alla sponsio e stipulatio in quanto veniva utilizzato per 
estinguere   le   obbligazioni   sorte   da   questi   contratti.   In   età 
classica   veniva   usato   come   modo   di   estinzione   delle   obbligazioni 
anche se debitore non aveva adempiuto.

• Stipulatio   Aquiliana:   si   fondevano   tutti   i   debiti   di   una   persona 


verso l’altra in una sola obbligazione da stipulatio.

• Solutio   per   aes   et   libram:   atto   formale   con   cui   il   debitore 


dichiarava   solennemente   di   liberarsi   dal   potere   del   creditore   in 
presenza di 5 testimoni, gettando sulla bilancia il bronzo; quando 
venne abolito il  nexum  divenne un modo per distinguere formalmente 
le obbligazioni. Utilizzata in questa epoca per estinguere il legato 
per damnationem.

• Novatio   (novazione):   trasferimento   e   trasfusione   di   un   precedente 


debito in un’altra obbligazione, con la necessità che vi fosse un 
qualcosa   di   nuovo,   ad   esempio   il   mutamento   dei   soggetti;   fenomeno 
analogo era il nomen transcripticium.

• Litis contestatio.

• Impossibilità   oggettiva   della   prestazione:  quando   la   prestazione 


diventava   impossibile   per   cause   non   imputabili   al   debitore, 
l’obbligazione era estinta; nulla però poteva rendere impossibile la 
prestazione quando si trattava di beni fungibili o denaro.

Atti estintivi secondo il ius praetorium agenti ope exceptionis.

• Acceptilatio   letterale:  serviva   a   sciogliere   il   vincolo   da 


expensilatio.

• Pactum de non petendo: patto nel quale il creditore si impegna a non 
richiedere   più   l’adempimento   del   debitore.   Nel   caso   in   cui   il 
creditore   avesse   richiesto   lo   stesso   l’adempimento,   il   debitore 
avrebbe opposto l’exceptio pacti conventi. Potevano essere  in rem, 
quando  il   creditore   o   il   concreditore   assumeva   l'impegno   che   la 
prestazione non sarebbe stata richiesta, oppure  in personam, quando 
il   concreditore   assumeva   l'impegno   che   la   prestazione   non   sarebbe 
stata   richiesta   al   singolo   condebitore   con   il   quale   stringeva   il 
patto.

• Morte : la morte del debitore estingueva le obbligazioni da delitto 
e anche quelle dello sponsor e del fidepromissor; la morte di uno 
dei contraenti estingueva società e mandati.

• Capitis   deminutio:   quella   maxima   estingueva   tutti   i   rapporti   e 


quindi anche le obbligazioni.

• Con cursus causarum:  quando un creditore che poteva pretendere una 
determinata cosa in forza di un rapporto giuridico, si ritrovava ad 
aver ricevuto quella cosa ad altro titolo.

• Compensazione:   compensazione   giudiziale   in   quanto   la   sanzione   era 


sempre   pecuniaria;   stabilita   da   Giustiniano,   era   l'imputazione   in 
pagamento di ciò che il creditore deve a sua volta al debitore; si 
poteva   opporre   solo   da   parte   dei   banchieri   (argentarii)   e   del 
bonorum   emptor  (colui   che   aveva   comprato   qualcosa   dal   debitore); 
comportava altresì la cessazione della mora, della decorrenza degli 
interessi   e   di   tutte   le   altre   obbligazioni   accessorie.   Requisito 
indispensabile   era   l'omogeneità   degli   oggetti:   le   due   prestazioni 
dovevano avere per oggetto cose fungibili della stessa specie. Non 
si   poteva   opporre   la   compensazione   contro   i   crediti   del   fisco,   i 
mutui   e   i   legati   a   favore   dei   municipia,   i   crediti   nascenti   da 
deposito, violenza, furto. Oggi la compensazione legale è automatica 
se debiti o crediti hanno come oggetto somme di denaro.

• Confusione:   concentrazione   nella   stessa   persona   della   qualità   di 


creditore e debitore, dovuta ad un evento giuridico; l'ipotesi più 
ricorrente era la  confusio  per successione nel credito, sia  mortis 
causa che inter vivos. Si legge infatti nelle fonti che «se l'erede 
continuasse   ad   essere   credito   verso   il   debitore   e   in   seguito   lo 
stesso creditore morisse, il legato sarebbe estinto: e ciò è vero, 
poiché l'obbligazione si estingue allo stesso modo per confusione e 
per   solutio»;   la   confusione   operava   quindi  ipso   iure  l'estinzione 
dell'obbligazione, senza ulteriori formalità.

• Contrarius consensus: mutuo dissenso, solo per contratti consensuali 
e solo se non ha avuto inizio la prestazione.

• Decorso del tempo: : se il debitore non richiede la prestazione per 
un determinato lasso di tempo subentra la prescrizione; nel diritto 
romano esisteva solo per le azioni penali e il periodo di tempo era 
di 1 anno, le azioni civili sono rimaste imprescrittibili fino al V 
sec.   quando   Teodosio   introdusse   la   prescrizione   per   30   anni   (nel 
nostro ordinamento: 5 o 10 anni). 

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