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NEOREALISMO

Composita e complessa dinamica culturale, che ha caratterizzato il cinema italiano dal dopoguerra
(1945-46) sino ai primi anni Cinquanta (1953-1956), il N. è stato, sotto molti aspetti, la prima delle
'nuove ondate' che, innovando gli aspetti formali e narrativi del cinema, hanno puntato alla sua
modernizzazione, sottraendolo alle formule realizzative, ai modi di produzione, ai canoni spettacolari,
alle consuetudini linguistiche tradizionali.

Il movimento si sviluppò intorno a un circolo di critici cinematografici che ruotavano attorno alla
rivista Cinema, fra cui Michelangelo Antonioni, Luchino Visconti, Gianni Puccini, Giuseppe De Santis,
e Pietro Ingrao. Lungi dal trattare temi politici (il direttore della rivista era Vittorio Mussolini, figlio di
Benito Mussolini), i critici attaccavano i film ascrivibili al genere dei telefoni bianchi, che al tempo
dominavano l'industria cinematografica italiana. In opposizione alla scarsa qualità dei film
commerciali, alcuni critici ritenevano che il cinema dovesse rivolgersi agli scrittori veristi di inizio
secolo.
I neorealisti furono molto influenzati dal realismo poetico francese. Di fatto, sia Luchino Visconti
sia Michelangelo Antonioni lavorarono come aiuto registi in Francia, il primo nel 1939 con Jean
Renoir e il secondo nel 1942 con Marcel Carné. Inoltre molti registi neorealisti erano maturati
lavorando su film calligrafisti, sebbene questo breve movimento fosse notevolmente diverso dal
neorealismo. Elementi di neorealismo sono rintracciabili anche in alcune opere di Alessandro Blasetti
e nei film - documentari di Francesco De Robertis. Secondo alcuni critici, i due più significativi
lungometraggi che negli anni trenta anticiparono alcuni aspetti del neorealismo, furono Toni (Renoir,
1935) e 1860 (Blasetti, 1934) cui seguirono, all'inizio del decennio successivo, Uomini sul fondo
(Francesco De Robertis, 1941), Quattro passi fra le nuvole (Blasetti, 1942), I bambini ci guardano
(Vittorio De Sica, 1943, primo di una serie di film realizzati in collaborazione con lo sceneggiatore
Cesare Zavattini). Il primo film che viene considerato dalla maggior parte dei critici pienamente
ascrivibile al genere è tuttavia Ossessione (1943),di Luchino Visconti[2]. Il Neorealismo acquistò però
risonanza mondiale nel 1945, con Roma, città aperta, primo importante film uscito in Italia
nell'immediato dopoguerra. Il lungometraggio narra, con accenti fortemente drammatici, la
resistenza della popolazione contro l'occupazione tedesca di Roma (anche i bambini, nel film,
prendono parte a tale lotta con azioni di sabotaggio).
Altro film importante dell'epoca fu Sciuscià (1946) di Vittorio De Sica, primo di una serie di film
neorealisti realizzati dal regista, fra cui spiccheranno, poi, Ladri di Biciclette (1948), Miracolo a Milano
(1951) e Umberto D (1952).
Al culmine del neorealismo, nel 1948, Luchino Visconti adattò I Malavoglia, il celeberrimo romanzo
di Giovanni Verga scritto nel pieno del verismo, il movimento del XIX secolo che fu per tanti aspetti
la base del neorealismo. Ne ammodernò il soggetto, apportando modifiche straordinariamente
piccole alla trama o allo stile originale. Il film che ne risultò, La terra trema, fu interpretato solo da
attori non professionisti e fu girato nel medesimo paese, Aci Trezza, frazione di Aci Castello (Catania),
dove il romanzo era ambientato. Poiché il film venne girato in Lingua siciliana, esso fu sottotitolato
anche nella versione originale italiana.

Quanto alla sostanza dell'estetica neorealista, essa fu caratterizzata da una feconda pluralità di
poetiche individuali, legate dal comune sentimento antifascista e rese solidali dall'esplicito impegno

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morale a fare un cinema utile all'uomo, dall'esigenza di conoscere, e descrivere, il reale per
modificarlo: in tal modo, il Neorealismo è riuscito a incarnare una volontà di ricostruzione di
un’identità comunitaria che tanto forte era in quegli anni. Ma esistono anche, e furono comunque
da molti adottati, alcuni topoi più specificamente cinematografici: il la scelta prevalente degli
ambienti naturali, esterni e interni; l'opzione della quotidianità come il terreno dove individuare
personaggi ed eventi; l'accantonamento della lingua 'radiofonica' e la scelta di un parlato naturale, a
volte dialettale; la preferenza per i volti anonimi, spesso per attori non professionali (con l'eccezione
dovuta a De Santis), sempre per una recitazione non teatrale; il relativo disinteresse per un cinema
'letterario' (anche se fonti di La terra trema e di Ladri di biciclette, entrambi del 1948, sono due
romanzi, rispettivamente di G. Verga e di L. Bartolini) e sceneggiato in maniera ferrea (benché le
sceneggiature zavattiniane fossero dettagliatissime); la particolare attenzione alle tematiche
contemporanee, alle problematiche dell'hic et nunc; una netta preferenza per i personaggi degli
umiliati e offesi, degli sfruttati ed emarginati, dei poveri e vilipesi, anche quando non si è al cospetto
di una visione classista del popolo: le trame sono costruite soprattutto su scene di gente normale
impegnata in normali attività quotidiane, completamente prive di consapevolezza come
normalmente accade con attori dilettanti; infine i bambini occupano ruoli di grande importanza ma
non solo di partecipazione, perché essi riflettono ciò che "dovrebbero fare i grandi".

Emarginato dallo scarso successo dei suoi pur maggiori film, colpito dalla fine dell'unità
antifascista (1947-48) che era stata il suo retroterra, deplorato dagli ambienti centristi e conservatori
dominanti, boicottato da banche e da distributori, interpretato dal mondo cattolico più aperto in
chiave meramente solidaristica verso umiliati e offesi, privo di un proprio autonomo progetto di
politica cinematografica, lontano dal disegno di ricostruzione di un'industria cinematografica
nazionale che stette dietro la legge del 1949, reso sospetto dalle non poche militanze a sinistra dei
suoi esponenti e dalla stessa tutela parlamentare e politica del Partito comunista e del Partito
socialista, il N. ‒ dopo le due prime stagioni 'libere' (1945-46) ‒ visse come in stato d'assedio sulle
'sortite' dei singoli, le eccezionali imprese individuali, le aggregazioni produttive di emergenza e nel
1948-49 finì già la sua forza propulsiva.
Gli ultimi 'sprazzi' di N. resero possibile, ciascuno e tutti, un'ulteriore aggettivazione, una
specificazione aggiuntiva alla generica etichetta di N., proprio perché la forza propulsiva del
movimento, dopo le primissime stagioni neorealiste, si andò espandendo su molto, se non su tutto
il cinema italiano, mutandone modalità di immaginario, opzioni tematiche, prassi d'ambientazione,
tipologia della lingua parlata, scelte dei personaggi e degli eventi, ragioni drammatiche,
comportamento attoriale e così via.
Il N., è stato detto, 'vince perché perde e perde perché vince'. Ovvero, come accadrà a tutte le
vagues successive, l'ondata neorealista non riuscì ad affermarsi nel proprio radicalismo, che rimase
eccezionale e isolato anche negli episodi meno frontalmente radicali, perché, da subito essa si
scontrò con il cinema dominante, americano e italiano, con i gusti 'evasivi' del pubblico, con le leggi
che dominavano il mercato e perse, dunque, a opera della rinascente industria cinematografica
italiana che, d'altronde, dal 1945 al 1956 vide aumentare annualmente l'offerta (i film prodotti) e la
domanda (i biglietti del pubblico in sala). Ma riuscì, involontariamente, a dare un contributo al
risorgere di un'industria e di un mercato cinematografici italiani e, volutamente, a far tramontare
irreversibilmente l'immaginario del precedente cinema nazionale, connotando tutto il cinema coevo
e successivo (anche il film comico seriale, anche il cinema larmoyant, anche i prodotti di genere,

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anche i filoni 'di profondità') di topoi caratterizzati dallo sguardo neorealista, magari di segno
rovesciato ma inimmaginabili nel prebellico cinema incentrato sulle vicende di timide e
intraprendenti educande principi consorti e milionari affetti dal tedium vitae. È il caso del cosiddetto
N. rosa di Due soldi di speranza di Castellani che aprì la strada, ideologicamente, al Comencini di
Pane, amore e fantasia (1953) e di Pane, amore e gelosia (1954) dove lo sguardo neorealista esiste,
ma è come rovesciato. Influssi neorealisti si colgono anche nella nascita della Commedia all’italiana
(es. Antonio Pietrangeli) che prende le mosse dallo sguardo alla realtà italiana tipicamente
neorealista caratterizzandosi però per assenza di lieto fine e per la tensione verso il grottesco che
consentono di offrire uno spaccato della realtà italiana evidenziando talvolta vizi e difetti. Dunque, il
Neorealismo vinse riuscendo a codeterminare il nuovo cinema nazionale che pure lo emarginò e lo
schiacciò, ponendo fine in poche stagioni all''etica dell'estetica' neorealista.

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ROSSELLINI (Roma, 1906 - 1977)
L’esperienza del neorealismo si dà a vedere non come un movimento coerente e omogeneo ma
come un insieme di opere e esperienze cinematografiche molteplici, tra le quali emerge la figura di
Roberto Rossellini (Roma 1906 - 1977) quale una delle più stimolanti. Il suo contributo al linguaggio
cinematografico è risultato fondamentale per l'elaborazione del cinema moderno, segnando in
modo esemplare la stagione neorealista, ma evitando sempre gli equivoci di un realismo
banalizzante. Con l'opera di R. prese forma l'idea di un cinema inteso come insostituibile mezzo
didattico "anche nel senso brechtiano", come osservato dallo stesso regista che fu sempre mosso
dall'intento di rintracciare la consequenzialità in maniera dialettica, mostrando gli eventi: "io mostro
le cose e non le dimostro. Faccio un lavoro di ricostruzione, punto e basta". La didattica rosselliniana
rivela così il suo carattere storico, in grado di far emergere dalla realtà contraddizioni e conflittualità.
Tra i suoi più importanti lavori si distingue innanzitutto la cosiddetta trilogia della guerra, costituita
da Roma città aperta (1945), Paisà (1946), Germania anno zero (1948): tre film assimilabili a una spinta
comune, appartenente più in generale al clima culturale del periodo, che vede nel racconto
dell’urgenza della Storia la caratteristica matrice. Da ciò deriva l’antispettacolarità del cinema di
Rossellini che si evidenzia sia sul versante narrativo, attraverso l’orchestrazione di fatti e azioni dei
personaggi che acquistano una nuova dimensione di credibilità che annulla in un sol colpo lo
spettacolo, sia sul versante dello stile, attraverso un linguaggio essenziale che apre a significati
ulteriori senza indugiare sulla drammaticità dei fatti mostrati. Difatti, lo sguardo rosselliniano si
sofferma su temi bellici o resistenziali e si addensa intorno a una poetica del tragico e del quotidiano
dando vita a un cinema che mette termine alla riproduzione della realtà come dato immobile e
anticipa le trasformazioni del diegetico filmico mediante l'elaborazione di un linguaggio in cui il
fluire dei piani-sequenza e la lucidità dello scavo nelle pieghe concrete della verità e degli
accadimenti filmati, lasciano emergere un processo dialettico di pensiero.
Nella trilogia si distingue in tal mondo un realismo improntato sull’ «immagine-fatto» (Bazin, ‘58)
nel quale lo sguardo morale verso ciò che accade di fronte alla cinepresa permette la scoperta del
mondo nel momento stesso in cui i fatti vengono raccontati. L’insistenza sull’uomo, sui piccoli fatti o
gli eventi minimi e spesso insignificanti del quotidiano, talvolta slegato uno dall’altro, offre anche il
disegno della grande pagina storica di cui sono il risultato; il cinema rosselliano si dà come strumento
di registrazione e riproduzione di una realtà autentica e non mediata in una prospettiva al tempo
stesso etica ed estetica.

Roma città aperta (1945)

A inaugurare la cosiddetta trilogia della guerra è Roma città aperta (1945), considerato l'iniziatore
del Neorealismo, che venne subito acclamato in tutto il mondo e premiato al Festival di Cannes nel
1946, e che rappresentò la messa in crisi del realismo tradizionale e la nascita di un nuovo cinema.
Difatti, Rossellini qui propone un modello cinematografico attento a esigenze espressive differenti,
che accosta agli aspetti più documentaristici anche elementi simbolici, gags, nonché aspetti di
contiguità con lo spettacolo e il cinema precedenti, e forme di negoziazione con le pretese del
pubblico (ad esempio l’uso di attori professionisti o la scrittura preparatoria più che dettagliata)
affinché gli italiani potessero riconoscersi. Tutto ciò passa attraverso una rappresentazione quasi in
'presa diretta' con gli eventi che si traducono senza mediazioni nella forma della finzione,

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consentendo una nuova 'epifania' del vero nella scansione tragica dell'incalzare della lotta di
Resistenza contro il nazifascismo
Il film, su soggetto di Sergio Amidei e Alberto Consiglio, è ambientato nella Roma non ancora
liberata dagli alleati dove l'ingegner Giorgio Manfredi, un dirigente comunista della Resistenza
ricercato dalla Gestapo, trova rifugio in casa di Francesco, un tipografo antifascista. Lo accoglie la
fidanzata di Francesco, Pina, una popolana ragazza madre, reduce dall'assalto a un forno insieme ad
altre donne. Manfredi le chiede di chiamare il parroco, don Pietro, e Pina manda il figlio Marcello,
distogliendolo dalle attività cospirative con Romoletto, un ragazzo monco di una gamba. Don Pietro
compie la missione affidatagli da Manfredi: ritirare nella tipografia clandestina de "l'Unità" una
somma destinata a un gruppo partigiano e recapitarla a un altro intermediario. Don Pietro trova
anche modo di dare ospitalità a un soldato austriaco disertore e di confessare Pina. Durante la notte
i ragazzini della zona, comandati da Romoletto, eseguono un attentato allo scalo ferroviario
all'insaputa dei genitori. La mattina dopo la Gestapo attua, con l'aiuto della polizia italiana, un
rastrellamento; il condominio di Francesco è circondato e i suoi abitanti vengono radunati nel cortile
e per la strada. Manfredi riesce a fuggire, ma Francesco viene catturato. Pina corre dietro al camion
che sta portando via il suo uomo (si sarebbero sposati quel giorno) e viene uccisa a colpi di mitra.
Appena fuori Roma, i partigiani guidati da Manfredi attaccano la colonna con i prigionieri e tutti
vengono liberati. Manfredi e Francesco rientrano in città e accettano l'ospitalità di Marina, un'attrice
di varietà con cui Manfredi ha una relazione, ignaro che la ragazza è una confidente della Gestapo.
Ma quella sera Marina e Manfredi hanno un diverbio: lui, dopo aver trovato cocaina
nell'appartamento, le rimprovera una vita priva di ideali e di moralità e tronca il rapporto. Il giorno
seguente, dopo essere andati a ritirare i documenti falsi che don Pietro ha preparato, Manfredi, il
disertore austriaco e il prete vengono arrestati dalla Gestapo e portati in via Tasso, in seguito alla
denuncia di Marina. Manfredi è sottoposto a tortura sotto gli occhi di don Pietro, per far sì che
almeno il sacerdote ceda; ma don Pietro si rifiuta di parlare e Manfredi muore. Anche don Pietro è
condannato; il giorno della sua fucilazione, i ragazzi della parrocchia riusciranno a essere presenti
per l'ultimo saluto.
Per gli storici, Roma fu 'città aperta' nei nove mesi in cui fu occupata dai nazisti e dichiarata 'zona
non di guerra'; ma poiché i nazisti non la considerarono mai tale, quel periodo è stato uno dei più
tragici e oscuri della sua storia. Proprio durante quei mesi, un eterogeneo gruppo di intellettuali,
politici e cineasti antifascisti (comunisti, cattolici, liberali) ebbe l'idea di documentare su pellicola
quanto la città stava vivendo. All'inizio si pensò a un film a episodi, dal titolo Storie di ieri (un episodio
era tratto da un soggetto di Alberto Consiglio su di un sacerdote, don Pietro Pappagallo, che aveva
dato asilo a disertori e antifascisti munendoli di documenti falsi); in seguito la storia del prete fu
intessuta a quelle di donne e ragazzini, resistenti e carnefici nazisti, borsari neri e disertori austriaci
(si cominciò a pensare allora al titolo Città aperta).
Il film ebbe una vita difficile sin dall'ideazione, e ancor più travagliata durante la fase produttiva.
D'altronde, non poteva accadere diversamente per un film realizzato mentre in Italia infuriava ancora
la guerra (fu iniziato la notte tra il 17 e il 18 gennaio 1945): anche quando c'erano i soldi non si
trovavano la pellicola e i mezzi tecnici, gli arredi e i costumi; mancavano la luce e i mezzi di trasporto;
giornalmente ci si doveva confrontare con una realtà politica e sociale in continua evoluzione e con
le pressioni degli Alleati e del governo Bonomi. Tutte queste vicissitudini favorirono la nascita della
leggenda che si sviluppò attorno al film prima ancora che fosse finito, e la sua storia e la sua fortuna
ne avrebbero risentito per molto tempo. Per tali motivi "Roma città aperta riesce a trasmettere il

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senso, il significato, l'atmosfera, i sentimenti, i modi di essere degli uomini in maniera più diretta e
più efficace di quanto abbia fatto finora la ricostruzione storica" (N. Tranfaglia). Difatti, nonostante
le riserve di natura politica, dovute al fatto che nessuna delle molte anime che avevano contribuito
alla nascita del film vi si vedeva rappresentata: i comunisti vi colsero la glorificazione della linea
attesista, ai cattolici sembrò ambiguo e violento, il pubblico invece capì che nel film si dava la giusta
importanza alle contraddizioni che si erano create con l'occupazione nazista, tra il bisogno di salvarsi,
l'orrore per la guerra e il tentativo di capire da quale parte stessero le ragioni migliori; e capì che
quello che vedeva gli apparteneva molto più dei ragionamenti netti e delle discriminazioni
ideologiche.

PAISÀ (1946)

(Italia 1946, bianco e nero, 124m); regia: Roberto Rossellini; produzione: Roberto Rossellini, Rod
E. Geiger per OFI; soggetto: Sergio Amidei, Federico Fellini, Victor Hayes, Marcello Pagliero, Roberto
Rossellini, Vasco Pratolini; sceneggiatura: Sergio Amidei, Federico Fellini, Roberto Rossellini, Klaus
Mann; fotografia: Otello Martelli; montaggio: Eraldo da Roma; musica: Renzo Rossellini.

Paisà è una pellicola cinematografica a episodi del 1946 diretta da Roberto Rossellini. Seconda
pellicola della Trilogia della guerra antifascista, è considerata una delle vette del cinema neorealista
italiano: presentato a Venezia lo stesso anno, ottenne nel 1950 una nomination all'Oscar per il
soggetto e la sceneggiatura costituì l'anticipazione di una visione diretta, quasi 'televisiva', della
storia, dove finzione e realtà interagiscono continuamente.
Girato tra gennaio e giugno del 1946, ideato in collaborazione con le forze alleate (grazie ai
rapporti stabiliti da Roberto Rossellini durante la lavorazione di Roma città aperta) con il fine di
illustrare la campagna della Quinta Armata e la vita degli americani in Italia, ma finì per allontanarsi
notevolmente dal progetto originario. Dunque, la costruzione a episodi dà conto ancora della coralità
del dramma della lotta di liberazione, percorrendo il Paese dalla Sicilia al Po e mostrando il farsi della
Storia che in modo diretto, senza soluzione di continuità, investe la messinscena. Difatti, ad emergere
è un’Italia nuova percorsa da tensioni ma anche da profondi cambiamenti, un’Italia colpita ma anche
animata da una profonda voglia di miglioramento, da un senso di ricostruzione identitaria.
Il film racconta in sei episodi l'avanzata delle truppe alleate in Italia, dallo sbarco della flotta anglo-
americana in Sicilia la notte del 10 luglio 1943 all'inverno 1944, sul delta del Po, pochi mesi prima
della fine della guerra. Nei pressi di un villaggio di pescatori siciliani, Carmela rimane a guardia di un
fortino assieme al soldato americano Joe e, nonostante le difficoltà della lingua, riesce a comunicare
con lui. Ma il soldato viene ucciso da un cecchino e la ragazza rimane vittima dei tedeschi. Gli
americani la incolperanno della morte del compagno. A Napoli, uno scugnizzo raggira un soldato
nero americano che, ubriaco, lo segue attraverso le rovine della città raccontandogli di un'America
favolosa e della sua povera vita. Il ragazzo gli ruba gli scarponi. Quando i due si ritroveranno, l'uomo
scoprirà che l'esistenza di Pasquale, rimasto orfano nel corso di un bombardamento, è ben più
miserabile della sua. A Roma, Francesca, una delle tante 'prostitute di guerra', adesca un soldato
americano. Ma le parole del giovane in stato di ebbrezza la riportano a sei mesi prima, a quella
ragazza pulita che nel giugno del 1944 era corsa a salutare l'ingresso in città degli americani e che il
soldato aveva poi cercato invano di incontrare. A Firenze, un'infermiera inglese è innamorata del
capo partigiano Lupo. Con un amico la donna attraversa la città divisa e, mentre infuriano gli scontri,

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apprende che Lupo è caduto. In un convento dell'Appennino tosco-emiliano tre cappellani militari
(un cattolico, un protestante e un ebreo) scoprono la pura fede dei fraticelli che digiunano perché la
Provvidenza illumini gli ospiti facendoli retrocedere dalle loro 'eresie'. A Porto Tolle, alle foci del Po,
dopo il Proclama Alexander, partigiani e alleati resistono insieme fino al sacrificio finale.
Innanzitutto, Rossellini fece in Paisà largo uso di attori non protagonisti in accordo con la “legge
dell’amalgama”: lasciando interazione attori con nessuna esperienza e attori protagonisti, coi loro
codici e con le loro lingue diverse emergeva il tratto di realtà recente con un effetto di
“comunicazione reale” allo spettatore. Inoltre, le diverse lingue e dialetti che, contribuendo a marcare
le differenze, si adoperano a costruire incontri inevitabilmente destinati al fallimento e che tuttavia
conferiscono al film, è questo il paradosso di Paisà, un carattere eroico ed epico. Gli stereotipi
vengono rovesciati: la natura della Sicilia nella femminilità di Carmela; Napoli oriente favoloso, opera
dei pupi, commedia, ventre materno nell'infanzia negata, filo spinato, sciuscià, neri 'venduti' come
schiavi; il Colosseo della Roma liberata nelle tante Francesca che hanno dovuto prostituirsi per
sopravvivere; l'oasi del convento nel condurre la Storia a fare i conti con lo Spirito; una Firenze tesoro
di bellezze, divisa dall'Arno e dagli opposti che la abitano, fascisti e partigiani, partecipanti e
osservatori (gli inglesi che si limitano a contemplare la battaglia col cannocchiale); il paesaggio del
delta padano che coincide con la vita dei suoi pescatori e le cui acque (elemento femminile e
materno) saranno per i partigiani uccisi le acque del ritorno. La natura e il caos, gli elementi e le
rovine delle città sventrate dalla guerra, un paese attraversato e ricomposto dalla Storia che unisce
intenti e obiettivi, dopo aver esplorato tutte le differenze. È l'autopsia di Rossellini, è lo "scandalo
dell'occhio tagliato" le cui visioni intollerabili sono indagini antropologiche sulla condizione umana
lungo la linea flessuosa del continuo cambiamento, la curva di Matisse, come scriveranno i critici dei
"Cahiers du cinéma", "l'abito senza cuciture del reale" che si dispiega in un solo gesto, ampio e
avvolgente.
Film storico, nonostante la breve distanza dagli eventi narrati, Paisà modificò lo statuto
dell'immagine del mondo e la scrittura stessa della Storia, per il modo in cui esprime un nuovo
rapporto tra universo e individuo, tra grandi svolte e vicende del quotidiano (l'istanza documentaria
rimanda qui alla struttura del cinegiornale). È il metodo di Rossellini, è la "poetica dell'attesa" (G.
Rondolino), la sospensione del dramma nell'incombere di una tragedia imminente: gli incontri con il
paesaggio, gli interpreti, gli eventi conducono a un'espansione del visibile che assume il peso di una
rivelazione e in cui i protagonisti stessi sono consegnati a immagini impreviste e insostenibili. La
'stanchezza' dei loro corpi è la loro immobilità di fronte a una fraternità impossibile, ma per la prima
volta personaggi confinati ai margini della Storia acquistano la parola. Queste "qualità molto
intenzionali" della ripresa danno vita all'immagine-fatto rosselliniana (A. Bazin): il permanere delle
proporzioni dell'acqua e del cielo, la "partecipazione drammatica della palude" fanno emergere,
nell'ultimo episodio, l'impressione soggettiva degli uomini che vi vivono come uno dei caratteri
essenziali del paesaggio.
Paisà si propone dunque come film simbolo del neorealismo che supera uno spurio descrittivismo
per accostarsi su più alti livelli allo stile moderno, soprattutto per la pluralità di opzioni stilistiche che
mette in campo, dall’estetica spettacolare al formalismo, dalla documentazione documentaristica alla
rappresentazione simbolica dei luoghi. Un film che, grazie all’unione di documentario e finzione, di
filmati di repertorio e episodi decisamente stilizzati, dà vita a un pastiche linguistico che ridiscute in
modo esemplare la compattezza stilistica supposta dal Neorealismo.

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Germania anno zero (1948)

In Germania anno zero, premiato al Festival di Locarno nel 1948, è lo sguardo di un ragazzo,
sconvolto dall'atrocità della guerra, che si 'realizza' nell'atto del suicidio, sullo sfondo delle macerie
di Berlino, mentre affiora costante un muto sentimento di pietà nel rigoroso procedere per stazioni,
scandito nelle deambulazioni lucide e scarne della macchina da presa.
Berlino, 1947: il tredicenne Edmund mantiene una famiglia composta dal padre afflitto da una
malattia cardiaca, da un fratello che vive nascosto a causa dei suoi trascorsi nazisti e da una sorella
che talvolta si prostituisce. Licenziato dal lavoro, Edmund compie qualche furtarello sotto la guida di
un suo anziano insegnante pederasta. L'uomo, intriso di ideologia nazista, sostiene la necessità di
eliminare i più deboli. Edmund gli dà ascolto e uccide il padre avvelenandogli il tè. Dopo essere stato
scacciato dal vecchio maestro, vaga in solitudine tra le macerie cittadine, entra in una casa devastata
e si getta nel vuoto, sotto lo sguardo della sorella.
Lo scheletro in disfacimento di una città ridotta in macerie e polvere dalla guerra non serve a
Roberto Rossellini soltanto per disegnare la cornice apocalittica destinata a imprigionare un paese
sconfitto. Né per fare da sfondo alle vicende quotidiane di milioni di esseri umani condannati chissà
per quanto tempo a fame e disperazione (siamo infatti all'anno zero!). Forse era questo il proposito
iniziale di Rossellini. Lo scheletro della città distrutta diventò quello che poi la macchina da presa
avrebbe trascritto: la proiezione sullo schermo delle lacerazioni e delle ferite profonde lasciate,
nell'animo di una creatura innocente, dalla guerra e dall'ideologia che l'aveva scatenata.
Germania anno zero, dunque, come approdo estremo del cinema neorealista, è già sulla linea di
confine col grande cinema degli anni Cinquanta e Sessanta. Presa di distanza, addirittura, dal
movimento innovatore che era esploso in Italia nel decennio che si stava chiudendo? No, se si sottrae
il neorealismo al vincolo delle prime formule che ne fecero la fortuna: liberazione dello schermo dagli
artifici dei teatri di posa, irruzione di temi e volti nuovi. Il neorealismo fu, infatti ‒ oltre che proposta
di nuovi contenuti e di nuove figure sociali ‒ una radicale rivoluzione di forme. Non atlante di città,
strade, campagne ferite o distrutte, non solo repertorio di personaggi insoliti per il cinema, ma
lezione di strutture narrative e visive, coordinate nelle cadenze di una sintassi del tutto nuova. Il
fotogramma sempre dilatato verso orizzonti infiniti e inquietanti (da quelli della pianura padana a
quelli disgregati delle arterie periferiche delle grandi città, da Roma a Berlino). Disarticolazione e
mescolamento dei generi in un crogiolo dai confini sempre incerti (a che 'genere' appartengono
Ossessio-ne, Sciuscià, Germania anno zero?). Operazione stilistica di una generazione che ha
conosciuto Kafka, il surrealismo, la pittura metafisica. In Germania anno zero l'andamento del
racconto, la recitazione, il background naturale convergono nella creazione di una atmosfera onirica,
da incubo. Ogni residuo di naturalismo (quel naturalismo che può aver appesantito l'opera degli
epigoni del neorealismo e di cui c'è qualche traccia anche in alcuni film rimasti memorabili) è, in
Germania anno zero, completamente riassorbito e sublimato. È in questo la sua grandezza.

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IL GENERALE DELLA ROVERE (1959)

(Italia Francia 1959, bianco e nero, 127m)

Dopo la trilogia sulla guerra conclusasi nel 1947 con Germania anno zero, Roberto Rossellini con
Il generale Della Rovere nel 1959 a temi bellici e al periodo della resistenza su soggetto e esperienza
diretta di Indro Montanelli, dalla rielaborazione del quale prese forma l'omonimo romanzo. La
pellicola fu prodotta dal produttore francese Moris Ergas il quale propose al regista di fare il film in
coproduzione italo-francese ponendo come condizione quella di presentare il film alla Mostra del
Cinema di Venezia. Questo obbliga Rossellini, per accelerare le riprese, a concentrare i lavori nel
teatro di posa per cui il film enfatizza la riproduzione artificiale dello spazio (come si vede bene nelle
scene degli esterni e dall'uso dei "trasparenti"). Dunque, presentato alla 20ª Mostra internazionale
d'arte cinematografica di Venezia il film venne premiato con il Leone d'oro, a ex aequo con La grande
guerra di Mario Monicelli.
La vicenda è ambientata Genova, 1944. Emanuele Bardone è un truffatore che si fa chiamare
Colonnello Grimaldi, ed è amante del gioco e delle donne. Con la complicità di un sottufficiale
tedesco, estorce denaro ai familiari dei detenuti politici, millantando conoscenze influenti presso le
autorità tedesche e promettendo, in cambio dei soldi, l'interessamento delle autorità per una
favorevole soluzione dei loro casi. Con tale attività illecita si procura il denaro per il gioco d'azzardo,
che lo divora. Quando le cose vanno male ricorre a Valeria, una ballerina con la quale vive, per avere
prestiti o oggetti da impegnare. Mangia male, coi pacchi destinati ai detenuti - arriva ad odiare il
salame, allora, considerato una leccornia. Lascia conti da pagare nei ristoranti. Viene invitato a
pranzare con le donne dipendenti di una casa di tolleranza.
Un giorno però il suo gioco viene scoperto. Una donna, a cui Bardone aveva chiesto denaro per
intercedere a favore del marito, viene a conoscenza che il marito è già stato fucilato dietro il
Camposanto Monumentale di Staglieno e lo denuncia alle autorità. Bardone, una volta arrestato, per
alleggerire la sua grave posizione accetta di collaborare con il colonnello Müller, da lui conosciuto
casualmente qualche giorno prima, il quale, riscontrata la sua abilità nell'ingannare le persone, gli
propone di assumere l'identità del generale Giovanni Braccioforte della Rovere, un importante
ufficiale badogliano, ucciso per errore dai soldati tedeschi che, non avendolo riconosciuto, non
hanno rispettato la consegna di catturarlo vivo. Egli sarà internato a Milano, nel braccio politico del
carcere di San Vittore, con l'incarico di assumere informazioni e di scoprire la vera identità di
"Fabrizio", il capo della Resistenza a cui la Gestapo non è ancora riuscita a dare un nome.
La realtà carceraria, e della stessa Resistenza, con cui il truffatore viene a contatto, lo porta
lentamente a riconsiderare i valori della dignità, del coraggio e del patriottismo. Egli rimane
profondamente colpito dalla morte di Aristide Banchelli, un partigiano che, piuttosto che rivelare il
poco di cui è a conoscenza, preferisce subire la tortura che il suo fisico anziano non è in grado di
sopportare, arrivando poi a suicidarsi per il timore di parlare. Anche il falso generale viene torturato,
in modo da farlo passare nel braccio da eroe. Una notte infine, dopo la cattura di alcuni partigiani, il
falso generale viene mandato a passare la notte nella stanza dove si trovano una ventina di uomini
in attesa di esser fucilati per rappresaglia, a seguito dell'uccisione del federale di Milano, e i nazisti
sanno con certezza che tra loro c'è anche "Fabrizio".
"Fabrizio" si presenta infatti a colui che crede il generale Della Rovere: ora Bardone dispone
dell'informazione che gli garantirebbe, secondo le promesse del colonnello Müller, la libertà, oltre a

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un premio in denaro (1 milione di lire) e a un salvacondotto per la Svizzera. Ma, quando Müller gli
chiede di rivelargli il suo nome, egli rinuncia a ciò per cui ha sempre lavorato, preferendo condividere
la sorte degli uomini che stanno andando a morire piuttosto che tradire colui che, a rischio della vita,
combatte nobilmente per la libertà di tutti.
Riscattando in questo modo una vita fatta di umana miseria, Bardone si presenta con dignità al
plotone d'esecuzione e muore insieme con altri dieci uomini, tra cui alcuni ebrei, dopo aver pregato
Müller di far pervenire alla moglie del vero generale un biglietto di commiato, e, dopo aver rivolto ai
suoi compagni un'esortazione a rivolgere i loro estremi pensieri alle loro famiglie, al Re e alla Patria,
cade dopo avere gridato "Viva l'Italia!", e solo in quel momento il colonnello Müller riconosce di
avere sbagliato nel giudicarlo.
De Sica rispetto agli anni ’30 ha uno stile recitativo differente, è qui più da “mattatore” con una
recitazione più caricata, ciò smentisce ciò che ha fatto a livello di regia: egli si distacca dal
Neorealismo proprio attraverso la recitazione. Ciò è in netto contrasto col tentativo di conferire alle
immagini una “patina” del passato attraverso il riutilizzo di immagini di repertorio, immagini della
realtà com’è stata che ci riportano a un’idea di veridizione. Nel cinema di Rossellini è difatti possibile
osservare una contaminazione di codici diversi, cosicché i filmati di repertorio creano un sapiente
gioco tra verità e finzione.
Nel ritorno di Rossellini a temi resistenziali, la Resistenza e l'Italia del periodo restano sullo sfondo.
Innanzitutto, in questo film è dominante il tema del muro. Girato in gran parte in carcere, esso si apre
con una carrellata sui muri di Genova, ricoperti di manifesti della Repubblica sociale, e si conclude
con la fucilazione, davanti a un muro su cui, però, un anonimo "graffitaro" ha affrescato l'immagine
di una città (allusione al riscatto morale del protagonista). Inoltre, anche la struttura del racconto è
incentrata sul confronto tra Bardone e Müller, sul reciproco tentativo di cogliere le motivazioni alla
base del loro agire e di superare le incomprensioni. Infine, tema fondamentale è quello della
responsabilità: «perché questo solo conta: fare il proprio dovere, qualunque cosa accada» (Fabrizio).
È curioso come nello stesso anno escano e siamo premiati ex aequo a Venezie due film come Il
generale Della Rovere e La Grande Guerra di Mario Monicelli, film diversi ma accomunati dal tema
della responsabilità che conduce i protagonisti alla morte per adempiere al senso del dovere.

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Ladri di biciclette (1948), Vittorio De Sica e Cesare Zavattini
(Italia 1947, 1948, bianco e nero, 92m); regia: Vittorio De Sica; produzione: Vittorio De Sica per
PDS; soggetto: Cesare Zavattini, dall'omonimo romanzo di Luigi Bartolini; sceneggiatura: Oreste
Biancoli, Suso Cecchi d'Amico, Vittorio De Sica, Adolfo Franci, Gherardo Gherardi, Gerardo Guerrieri,
Cesare Zavattini; fotografia: Carlo Montuori; montaggio: Eraldo da Roma; scenografia: Antonio
Traverso; musica: Alessandro Cicognini.

Ladri di biciclette è un film del 1948 diretto, prodotto e in parte sceneggiato da Vittorio De Sica
(Sora 1901 - 1974). Girato con un'ampia partecipazione di attori non professionisti, prende lo spunto
dal titolo dell'omonimo romanzo Ladri di biciclette (1946) di Luigi Bartolini, sebbene si tratti di un
soggetto originale di Cesare Zavattini. È tuttora considerato un classico del cinema ed è ritenuto uno
dei massimi capolavori del neorealismo cinematografico italiano.
Roma, pochi anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Antonio Ricci, disoccupato, vive in
un quartiere periferico della città con la moglie Maria, il figlioletto Bruno e una figlia neonata.
Finalmente trova lavoro come attacchino municipale, impiego per il quale è necessaria la bicicletta,
che Antonio e Maria riescono a riscattare dal monte di pietà. Ma già il primo giorno di lavoro la
bicicletta di Antonio viene rubata. Avvilito, l'uomo chiede consiglio a Baiocco, un netturbino che gli
promette di aiutarlo. Il giorno seguente Antonio, insieme a Bruno, Baiocco e altri spazzini, inizia a
battere i mercati romani dove i ladri vendono la refurtiva. La ricerca è infruttuosa; Antonio e il
bambino rimangono soli a Porta Portese, sotto un violento nubifragio. Antonio intravvede il ladro in
sella alla sua bicicletta e si lancia all'inseguimento, ma il ragazzo si dilegua. Ormai disperato, Antonio
decide di rivolgersi a una veggente cui la moglie è devota: l'incontro è inutile, ma uscendo dalla casa
della santona di nuovo Antonio e Bruno si imbattono nel ladro e lo inseguono sino a casa sua, dove
vengono accerchiati dalla folla ostile dei vicini. Bruno chiama un carabiniere, che però, senza prove,
dichiara di non poter far nulla. Antonio e Bruno se ne vanno umiliati e, dopo un lungo pellegrinare
casuale, finiscono di fronte allo stadio, dove si sta disputando una partita. Antonio afferra una delle
tante biciclette dei tifosi e scappa, ma viene subito acciuffato dal proprietario e da alcuni passanti:
questi vorrebbero denunciarlo, ma, di fronte al pianto del piccolo Bruno, il proprietario decide di
lasciar perdere. Padre e figlio si incamminano verso casa, mischiandosi alla folla.
Ladri di biciclette rappresenta, per molti versi, il centro ideale del neorealismo cinematografico
italiano. Il film di Vittorio De Sica e Cesare Zavattini (per quanto alla voce 'sceneggiatura' si affollino
molti nomi, il lavoro fu svolto essenzialmente da quest'ultimo, con il quale De Sica formò uno dei
sodalizi più duraturi e produttivi nella storia del cinema italiano) possiede tutte le caratteristiche di
fondo del movimento: ambienti reali, attori non professionisti, una vicenda drammatica sulla durezza
della vita quotidiana delle classi popolari. Non che Ladri di biciclette sia esteticamente più compiuto
di altri capolavori neorealisti, da Roma città aperta di Rossellini a La terra trema (1948) di Visconti:
ma certo il film di De Sica incarna nell'immaginario collettivo internazionale (vinse l'Oscar come
miglior film straniero) la quintessenza del neorealismo. Tale 'centralità' dipende anche dal fatto che
il film appare una sorta di radiografia dell'Italia nel cruciale 1948, anno che vide il paese
violentemente spaccato in due, tra Fronte popolare e Democrazia cristiana, alle elezioni del 18 aprile.
Antonio si imbatte in una serie di situazioni e personaggi rappresentativi del clima sociopolitico
dell'epoca: la stazione di polizia, con il reparto Celere che parte alla volta di un comizio; la riunione
della cellula sindacale; le dame di carità che offrono un pasto ai poveri, ma solo dopo che questi

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hanno ascoltato la messa; i ricchi del tavolo accanto nella trattoria, il cui lauto banchetto, innaffiato
dallo spumante, lascia esterrefatti Antonio e Bruno. Attraverso la lunga 'passeggiata' romana alla
ricerca della bicicletta emerge uno spaccato ricchissimo della vita italiana del dopoguerra, con i suoi
drammi e suoi piccoli eroismi, tra i segni del conflitto da poco terminato e i segnali di una rinascita
che sta per arrivare. E la vicenda di Antonio è tanto più tragica, quanto più il personaggio sembra
essere incapace di far parte di quel 'miracolo italiano' che sta per avere luogo.
Il film fu salutato con particolare entusiasmo da André Bazin: agli occhi del padre spirituale della
Nouvelle Vague Ladri di biciclette rappresenta un modello di cinema 'senza cinema', capace di far
passare la realtà sullo schermo senza mediazioni: "Ladri di biciclette è uno dei primi esempi di cinema
puro. Niente più attori, niente più storia, niente più messa in scena, cioè finalmente, nell'illusione
estetica perfetta della realtà: niente più cinema". Certo Ladri di biciclette, nel contesto del cinema
iperstilizzato degli anni Trenta-Quaranta, presenta inediti elementi di realismo: inoltre, sul piano della
costruzione drammaturgica il film obbedisce alla teoria zavattiniana del 'pedinamento', per cui la
macchina da presa segue i personaggi come in tempo reale (l'ultima mezz'ora del film è quasi
completamente priva di salti temporali). Lo stesso soggetto è di una banalità disarmante,
apparentemente materia insufficiente a un film; la grandezza di De Sica e Zavattini è proprio qui,
nella loro capacità di conquistare lo spettatore con una vicenda minimale. Ma a ben guardare, Ladri
di biciclette non è affatto 'film senza film': se lo spettatore ne viene conquistato è perché dietro c'è
un lavoro sapiente di scrittura, una scrittura che ‒ come sempre in ogni forma di arte realista ‒ punta
a negare la propria presenza, a travestire l'artificio stilistico da 'realtà'. Dunque l'opera di De Sica,
momento nodale dell'esperienza neorealista, è anche un film che preannuncia una svolta. Alcuni
personaggi secondari del film (la santona, gli amici di Baiocco) anticipano quell'ibrido tra farsa e
tragedia, tra riso e denuncia sociale, che rappresenterà il tratto distintivo della futura commedia
all'italiana.

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GIOVANNA (1956), Gillo Pontecorvo
Giovanna è un film girato nel 1956, il primo diretto da Gillo Pontecorvo (Pisa 1919 - 2006),
partigiano (nel 1941 aderisce al Partito Comunista Italiano e coordina in Piemonte e Lombardia
alcune azioni partigiane con il nome di battaglia di Barnaba) e regista attivo con Rossellini e come
documentarista, impegnatosi soprattutto nella documentazione d’inchiesta girando una serie di
documentari a sfondo sociale.
A tale filone rimanda Giovanna (1956), episodio di Die Windrose (Rosa dei Venti), film a episodi
internazionale e collettivo curato da Joris Ivens sul ruolo della donna nella lotta sociale, vicino al
Neorealismo per il linguaggio e per la scelta dei temi, per il ricorso ad attori non professionisti e
l’ambientazione tra le operaie tessili di Prato.
I quaranta minuti diretti da Pontecorvo raccontano di un gruppo di operaie in lotta per difendere
il posto di lavoro dai licenziamenti voluti dalla proprietà. Elementi di grande novità si colgono sin
dall’inizio, dove le musiche di Renzo Rossellini di grande impatto tendono a stabilire un rapporto
emotivo con lo spettatore. Inoltre, il film non si apre con una folla operaia come molti film neorealisti
ma con Giovanna, la protagonista, che guarda dalla finestra, immagine emblematica di apertura e di
chiusura. Siamo di fronte a un racconto in flashback in prima persona di Giovanna, la cui voce
narrante fa collante (a differenza di quello che avviene ad esempio in Paisà dove a raccontare la storia
è uno speaker esterno): si tratta di Armida Gianassi, reclutata da Pontecorvo nella sala da ballo di
una Casa del Popolo della città dove il trovò soddisfacente esito la ricerca del regista di volti parlanti
(es. operaia agguerrita o la stessa Giovanna).
Dunque, le donne occupano la fabbrica. Giovanna, per solidarietà con le colleghe licenziate,
disubbidisce al marito e sciopera rischiando il posto. Il marito infatti, pur essendo un sindacalista, ha
una visione patriarcale: è fermamente convinto le donne non possano protestare, che Giovanna
debba prendersi cura del bambino. A tal proposito, di fondamentale importanza è l’inizio nello spazio
domestico e soprattutto la scissione tra donna moglie e donna operaia che rimandano al dibattito,
molto sentito in quegli anni, sulla donna nella nuova società della ricostruzione, la donna comunista.
Giovanna quindi guida le sue compagne nella protesta contro i padroni e anche contro i loro stessi
mariti che disapprovano l'occupazione della fabbrica e che chiedono la fine dell'occupazione e il
ritorno a casa delle lavoratrici.
Pontecorvo si pone qui come erede dell'approccio diretto alla realtà del Neorealismo e
dell'intensità poetica e corale del cinema sovietico, ricorrendo a uno stile essenziale, sostenuto da un
montaggio non narrativo basato su un'asciuttezza cronachistica e da un commento musicale (al
quale in più di un'occasione ha collaborato) in grado di intensificare il ritmo del film. In tal modo egli
si è mantenuto fedele all'idea di un cinema caratterizzato da un saldo impegno ideologico e da una
forte carica di denuncia, il cui comune denominatore è la 'dittatura della verità', l'indagine di
situazioni 'limite' nelle quali si verifica, come inevitabile, una rottura, un rovesciamento, mentre le
figure individuali risultano in lotta sullo sfondo di situazioni collettive.

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TIRO AL PICCIONE (1961), Giuliano Montaldo
Tiro al piccione è un film del 1961 (Italia, bianco e nero, 114 min) diretto da Giuliano Montaldo, al
suo esordio alla regia. Questi, dopo aver collaborato come assistente alla regia di autori quali Elio
Petri, lo stesso Lizzani e Gillo Pontecorvo, e dopo essersi quindi formato sui modulo del Neorealismo
a cui rimase sostanzialmente sempre fedele, passò alla regia scegliendo un film il cui tema è la fine
della Seconda guerra mondiale vista con gli occhi di un soldato della Repubblica di Salò in crisi di
valori, tratto da un romanzo di Rimanelli: Tiro al piccione (1953), fra i pochi esempi della cosiddetta
"letteratura dei vinti" (i reduci della Repubblica Sociale Italiana).
Il giovane Marco, dopo l'8 settembre 1943, si arruola nell'esercito della Repubblica Sociale Italiana.
Dopo aver compiuto un gesto eroico, rimane ferito ed in ospedale conosce Anna, un'infermiera che
lo cura amorevolmente e che si innamora di lui. Tuttavia, Marco scopre che Anna è legata anche ad
un vecchio industriale da cui è mantenuta in una lussuosa villa. Scopre anche che per evitare di farlo
tornare in combattimento, Anna si è concessa al capitano Mattei, con il quale fugge insieme
all'industriale in uno squallido triangolo di opportunismo prima della sconfitta di Mussolini, lui li
sorprende nell’atto della fuga e, sdegnato, l’abbandona. Nonostante abbia sentito alla radio della
cattura e fucilazione di Mussolini, il tenente Nardi tenta ugualmente di raggiungere attraverso le
montagne la Valtellina. Sorpresi dai partigiani, i repubblichini fuggono e si arrendono. Anche Marco,
ormai frastornato dagli avvenimenti e chiamato a gran voce dai commilitoni, decide di consegnarsi
al nemico dopo il suicidio del tenente Nardi il quale, immediatamente prima, gli aveva ordinato di
raggiungerli. Dunque, il film si chiude col giovane che sta andando dai partigiani mentre la voce
narrante sottolinea che sta andando dalla parte giusta.
Presentato alla 22ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia il 25 agosto 1961, il
film ebbe un’accoglienza pessima dalla critica poiché mette in scena una giovinezza che in cerca di
identità sceglie la soluzione più facile, mostrando come nel vuoto e nella noia giovani si dirigano
verso una struttura forte: per la critica ciò significa deresponsabilizzare una scelta sbagliata.
Tali temi sono colti grazie allo sguardo del Neorealismo di grande apertura verso la realtà, per cui
lo stesso mezzo cinematografico viene concepito come uno strumento per catturare e riguardare la
realtà che può essere catturata e registrata con i suoi imprevisti. Difatti, l’epifania della realtà si palesa
quando non tutto è previsto nell’inquadratura e si rappresenta nella forma della continuità, del piano
sequenza, lunghi carrelli, lunghe panoramiche che rimandano alla volontà di accogliere la
fenomenologia del reale (sia quello che succede, sia attore). Inoltre, l’apertura verso la realtà si coglie
anche nell’attenzione con la quale il regista osserva il paesaggio: il film è stato girato a Vercelli, sul
lago Maggiore e sulle montagne della zona di Balmuccia ed è costituito da scene prevalentemente
girate all’aperto, particolarmente faticose e difficili: parte essenziale della poetica del neorealismo
verte sulla relazione tra attori – ambiente – troupe.

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LO SCEICCO BIANCO (1952), Federico Fellini
Il film Lo sceicco bianco (Italia 1952, bianco e nero, 85 minuti) segna l’esordio assoluto come
regista di Federico Fellini. Questi alla metà degli anni Quaranta, grazie a Rossellini, collabora alle
sceneggiature di Roma città aperta e Paisà: film che aprono, assieme alle opere di altri autori,
soprattutto Vittorio De Sica, la stagione che verrà definita del Neorealismo. Tale formazione emerge
nel film che si colloca nel solco di quella che viene definita la fase neorealista del regista, nella quale
spiccano film che si attengono strettamente alla realtà, dove la forma registica è valida ma non
estraniante e le storie raccontate sono scene di vita popolare della Roma del dopoguerra: affreschi
straordinari della società dell’epoca.
Fellini mette in scena un'insolita commedia che presenta una visione grottesca e parodistica,
profondamente intrisa d'amarezza, dei fotoromanzi allora molto diffusi: in apparenza un film iscritto
nel canone neorealista, alla sostanza in rottura con esso per il lampo di fantasia che pare dissolverne
i contorni. Per tale motivo il film ebbe un risultato commercialmente e critico disastroso, stroncato
troppo frettolosamente da una critica che all’epoca non era ancora pronta a raccontare un
neorealismo sognante, lontano da quello di Rossellini o della coppia Zavattini – De Sica, venne
recuperato anni dopo come opera anticipatrice del Fellini più maturo.
Fellini rappresenta due sposini, Ivan e Wanda, vengono a Roma dalla loro Altovilla Marittima a
trascorrere il viaggio di nozze. Lui conta soprattutto di fare una buona impressione allo zio residente
in città, grazie alla cui influenza spera di fare carriera; a questo scopo ha organizzato una serie di
visite, fra cui un'udienza papale, insieme alla famiglia dello zio. Wanda invece, all'insaputa del marito,
spera che a Roma potrà finalmente realizzare il suo sogno: fare la conoscenza con l'eroe del suo
fotoromanzo preferito, lo "Sceicco bianco".
Arrivati in mattinata dal paese e sistemati in albergo, Wanda, col pretesto di fare il bagno, si
allontana di nascosto verso la casa di produzione del fotoromanzo. Lì viene ricevuta dalla soggettista,
che le dà indicazioni su come seguire la compagnia per le imminenti riprese, effettuate sul litorale
romano: senza pensarci troppo e rimuovendo completamente l'idea delle visite programmate dal
marito, Wanda accetta e segue il gruppo. Sul posto incontra finalmente l'attore Fernando Rivoli,
interprete dello "Sceicco", che accetta di buon grado di conoscerla e le propone addirittura una
piccola parte: in realtà l'uomo è abituato a trattare con le sue numerose ammiratrici, e sfrutta
occasioni simili per avere delle brevi avventure con loro. In breve Fernando propone a Wanda una
gita in barca e si allontana con lei dalla riva, ma la donna, pur infatuatissima, è troppo ligia ai suoi
principi per concedersi. Anche il mito dello "Sceicco" del resto crolla bruscamente quando Wanda
scopre che Fernando è sposato, e al ritorno sul luogo delle riprese assiste a una scenata di gelosia
fra lui e la moglie, giunta nel frattempo. È quasi il tramonto, e la compagnia abbandona il litorale
lasciando sola Wanda.
Nel frattempo, Ivan, all'oscuro di tutto, si preoccupa soprattutto di evitare uno scandalo con la
famiglia dello zio: i parenti si mostrano affettuosi, ma decisamente invadenti e inclini al pettegolezzo.
Lo sposo riesce a convincerli che Wanda è ammalata e non può lasciare la camera d'albergo, e si
allontana con loro. La sera, avendo trovato una delle lettere che lo "Sceicco" aveva inviato a Wanda,
Ivan capisce che la moglie si è allontanata per lui e teme una fuga definitiva, che lo screditerebbe
senza rimedio di fronte allo zio e a tutto l'ambiente della provincia. Si reca al commissariato e dopo
infinite esitazioni, terrorizzato da un possibile scandalo, accetta di fornire le generalità della
scomparsa; poi, girovagando disperato a notte alta, incontra in una piazza romana due simpatiche

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prostitute, la romana Cabiria e la veneta Assunta, che lo consolano e con cui lui si intrattiene
innocentemente.
L'indomani in albergo per Ivan si ripresenta il problema di giustificare l'assenza della moglie di
fronte ai parenti, anzi è reso più grave dal fatto che lo zio è riuscito a rinviare l'udienza papale, ma si
aspetta finalmente di conoscere la nipote acquisita; in precedenza questa, in preda a sensi di colpa,
aveva ingenuamente tentato il suicidio gettandosi nel Tevere, con il solo effetto di cadere su un
punto più basso dell'argine, e, notata da un "fiumarolo", aveva passato la notte in ospedale. Ivan,
grazie a una segnalazione della polizia, riesce in extremis a raggiungere l'ospedale e a ritrovare la
moglie: le spiegazioni sono rimandate a dopo, in quanto la prima cosa da fare è raggiungere al più
presto Piazza San Pietro per l'incontro con gli zii e l'udienza papale.
Wanda è disperata e non sa se è ancora degna del perdono di Ivan: ma i due sembrano ormai
riconciliati, nonostante tutto.
L'esordio assoluto come regista segna il momento nel quale l'attività di regista di Fellini prende il
sopravvento su quella di sceneggiatore. La gestione delle riprese da parte di Fellini si realizza in una
continua rivisitazione della sceneggiatura con l'arricchimento di situazioni e la dilatazione dei tempi.
Con questo film, Fellini inaugura - grazie anche alla collaborazione con Ennio Flaiano - uno stile
nuovo, estroso, umoristico, una sorta di realismo magico, onirico, che però non viene subito
apprezzato.
Egli non fa altro che mettere davanti ai nostri occhi l’importanza biunivoca del vivere la realtà
quotidiana come fosse un sogno e con la consapevolezza che non lo sia. Da tutto ciò emerge un
carattere disilluso, ironico e ottimista, ma soltanto nei limiti posti dalla realtà nella quale viviamo. È
più importante il sogno o la realtà? A questo dubbio amletico sollevato, Fellini preferisce non dar
risposta, schivando la responsabilità d’una presa di posizione, saltando direttamente a una
conclusione pratica del poter vivere. Sia nel mondo reale sia in quello del sogno, per potersi
rapportare al prossimo è indispensabile mascherarsi, fingere, crearsi un personaggio di facciata per
far sì che gli altri possano riconoscerci e al contempo ritrovare in noi sé stessi, possano quindi
soddisfare la loro aspettativa.

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LA DONNA SCIMMIA (1964), Marco Ferreri
La donna scimmia (Italia Francia 1964, bianco e nero, 92 min) è un film del 1964 diretto da Marco
Ferreri (Milano 1928 - 1997).
Il regista, un caso raro nel panorama del cinema italiano, agli inizi della sua carriera volle anzi
sottolineare la sua appartenenza al Neorealismo, sia pure a un 'neorealismo comico', senza eroi (ben
distinto, in ogni caso, dal cosiddetto neorealismo rosa). In seguito, però, anche la definizione di
neorealista si rivelò progressivamente meno pertinente: il suo cinema divenne sempre più rarefatto,
'freddo', quasi un referto di patologie comportamentali. È il cinema del paradossale e del grottesco,
caratterizzato da trame molto semplici, lontane dalla drammaturgia classica, e dunque dal
predominio dell’immagine: come per un pittore si prendono immagini frequenti e significative, che
rimandano al tema della messa in scena dello sguardo. Un cinema esemplificato magnificamente da
La donna scimmia.
Il film è ambientato a Napoli, simbolo di giungla metropolitana in accordo con la tendenza del
regista a caricare i luoghi di una forte valenza metaforica-simbolica. Qui Antonio Focaccia è un
imbroglione da quattro soldi che vive di espedienti nella zona della Duchesca. Capitato per caso in
un ospizio per vecchi, per vendere la sua merce, si accorge di una giovane completamente ricoperta
di peli, Maria. La ragazza vive lì nascosta da sempre e Semola la persuade ad abbandonare l'ospizio
in cui è rinchiusa e a partire per una tournée con uno spettacolo rudimentale, in cui lei sarà presentata
al pubblico come unico esemplare vivente di donna-scimmia, ritrovata in una sperduta foresta
africana. Maria accetta la proposta dell'uomo da cui però viene ingannata: Antonio, infatti la sfrutta
e le fa credere di essere sua socia (l'uomo arriverà addirittura a perpetuare una truffa ai danni di uno
zoologo). Maria, scoperti gli inganni di Semola (di cui si innamora), torna sdegnata all'ospizio in cui
era stata rinchiusa per tutta la sua vita e, dopo alcuni mesi e numerose trattative con le monache
dell'ospizio, Antonio, un po' per pietà ma tanto per interesse, la sposa. I due partiranno
consapevolmente per una tournée organizzata da un impresario francese e si recheranno a Parigi
dove Maria s'accorgerà di attendere un figlio.
Il produttore Carlo Ponti impose inizialmente un finale con la morte del bambino e di Maria. Il
finale girato dal regista proseguiva dopo questo tragico avvenimento mostrando il protagonista che,
imbalsamati madre e bambino, continuerà a portare, da morti, i suoi fenomeni da baraccone in giro
per l'Europa. Esiste anche un terzo finale, proposto nella versione francese, in cui Maria e il bambino
sopravvivono e il parto fa cadere tutti i peli a Maria. Antonio, non avendo più i suoi fenomeni, si
redime e accetta un onesto lavoro al porto, assolvendo il suo ruolo di padre di famiglia: questo finale
zuccheroso e familistico è del tutto lontano dal cinismo di Ferreri.
Dal punto di vista tecnico, il film esemplifica la prassi di Ferreri che lavora per scene. Così, non ci
sono né sequenze, che coincidono con le scene giustapposte l’una all’altra, né le dissolvenze, con
passaggi immotivati: i legami nel cinema, in accordo con il regista, devono infatti essere dalla forza
stessa dell’immagine e non dalla classica story teatrale. Il film è dunque costruito a stazioni,
rimandando al modello del calvario di Cristo, arricchito dalla parodia dell’adorazione del sepolcro
con la spettacolarizzazione della donna scimmia. Per tali motivi, presentato in concorso al 17º Festival
di Cannes, il film fu duramente condannato dalla critica per la presunta “sciatteria” espressiva.
Tuttavia, grazie a tale poetica, Ferreri potenzia il tema del film: innanzitutto il tema del selvaggio
e del mondo animale, molto presente in Ferreri e di grande fortuna negli anni ’60, quando il filone
pornografico africano sessista e razzista era di grande successo. Il regista a più riprese sottolinea

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come l’elemento animale venga messo in gabbia dalla società umana: emerge così una concezione
della storia come snaturamento, del corpo come unico luogo autentico del vivere e dell’animale
quale origine della vera natura umana.
Soprattutto, dalle prime prove con il megafono, fino all’allestimento nel garage di un vero e
proprio teatro di posa, ci presenta la messa in scena dello sguardo, la sua scesa in campo come punto
di vista in equilibrio su un’epidermide che, nel suo essere più che umana, lo tiene ancorata a sé. Il
film ci mostra così ciò che lo spettatore vuole vedere: la spettacolarizzazione di un corpo la cui
umanità emerge quanto più viene messa a confronto con la pelle visibilmente perfetta di Antonio,
simbolo della vera brutalità.
Si parta, allora, dalla cucina, luogo del loro primo incontro, in cui la trasformazione e l’alterazione
regnano incontrastate. Qui si assiste alla prima definizione dei due protagonisti, non solo fisica ma
anche linguistica. Infatti, nonostante la pelle ricoperta di peli, Maria non ha nulla a che fare con
l’animale in cui Antonio progressivamente si trasforma, partendo dalla postura ricurva, dalla mascella
pronunciata, dalle labbra scimmiesche e dalla disinvoltura nell’aggrapparsi ai rami dell’albero fatto
piantare nel suo teatro posticcio. Dialogando, i due personaggi portano sulla scena la compresenza
di due linguaggi diversi, dalla semantica dissestata e discordante. Infatti, le domande che la donna
rivolge all’uomo si traducono in risposte volte alla comprensione di un pubblico onnipresente, in
perenne contemplazione di questa donna feticcio da toccare con gli occhi e non solo con le mani.
Tutti gli spazi che Maria attraversa fungono da gabbie trasformative dove è messa in scena la
retrocessione della donna al suo essere scimmia, in ci il tentativo dell’uomo-demiurgo di
addomesticarla si traduce nel suo desiderio di abbruttirla. Dunque, quest’ultima sviscera il processo
di mostrazione, portando alla luce l’attrattiva visiva esercitata dal mostro, esternazione, in realtà, di
chi si affolla prima attorno alla sua gabbia e poi nelle platee dei teatri dove si esibisce. Questo corpo
esposto nella gabbia del palcoscenico è ricoperto da un pelo che non tutela ma scopre, da una coltre
visiva che non occlude ma attrae, portando Maria ad affermare: «Io non sono un fenomeno, sono
una donna».
Così, quel missionario mostrato nelle diapositive iniziali, nella donna ha trovato la sua icona del
dolore, immortalata dalla mentre è circondata da ritagli di giornale e tele numerate, quell’iconografia
itinerante che si truffa a strapiombo sulla narrazione principale. L’uomo cerca così di colmare quei
vuoti della vera storia di Maria che non ci è dato conoscere, mettendo ancora di più in evidenza la
fragilità della gabbia da lui costruita, specchio del limite umano.
L’unione dei letti, sormontata da un piccolo intarsio a forma di tendone sulla testiera, mostra
quanto le nozze di Maria e Antonio fungano da ulteriore tentativo di messa in scena, costellata da
tende perennemente tirate e corpi informi che macchiano con i loro sguardi il candore della donna.
Quelle rive che siglano il senso più profondo dei film di Ferreri, nel caso de La donna scimmia si
riversano negli occhi pieni di lacrime di Maria, ormai in punto di morte. Questo punto di affaccio
sulla vera condizione dell’uomo ci trasporta alla scena finale della versione italiana, in cui i corpi
amorosamente imbalsamati di made e figlio sono custoditi nel tendone dove solo l’uomo-
esploratore si può addentrare. Infatti, non appena lo spettacolo va ad incominciare, la macchia da
presa di allontana eludendo per la prima volta il nostro sguardo che, proprio come la folla, si disperde
diventando un punto impercettibile.

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VINCERE (2009), Marco Bellocchio
Vincere è un film storico del 2009 (Italia 2009, 128 min), diretto e sceneggiato da Marco Bellocchio
(Piacenza, 1939) che lo definì «un film politico con una continua contaminazione della finzione con
il repertorio» (Bellocchio al Corriere della Sera) sottolineando la sua predilezione per le immagini
d’archivio.
La rappresentazione ha inizio a Milano, primi anni del 1910. Benito Mussolini, giovane direttore
del quotidiano socialista 'Avanti!', è fermamente deciso a guidare le masse verso un futuro
anticlericale, antimonarchico e socialmente emancipato. Accanto al lui c'è Ida Dalser, una donna
conosciuta a Trento che lo ama e lo sostiene in tutto. Arriverà persino a vendere quello che ha per
aiutarlo a finanziare i suoi progetti: la fondazione di un nuovo quotidiano, il 'Popolo d' Italia', e la
nascita del movimento fascista. Gli darà anche un figlio: Benito Albino. Tuttavia, quando allo scoppio
della I Guerra Mondiale Mussolini si arruola nell'Esercito, Ida perde le sue tracce. Lo ritroverà già
sposato con Rachele e a nulla varrà la lotta disperata che condurrà per affermare i suoi diritti come
moglie e madre di suo figlio. Difatti ella viene respinta da Mussolini, a causa del quale viene
allontanata dal suo bambino e internata in istituto psichiatrico perché troppo invadente e
imbarazzante: le torture e violenze piscologiche che subirà, però, non basteranno a fermare la sua
lotta ostinata.
Come nelle precedenti pellicole, anche questo nuovo lavoro di Marco Bellocchio sembra
confermare la sua predilezione per l’uso di immagini d’archivio, non solo per contestualizzare
storicamente le vicende, ma più fortemente per arricchire la configurazione stessa del film, mettendo
costantemente in relazione critica due flussi visivi: le scene nuove e il materiale preesistente. Si assiste,
così, a una costruzione connotativa, che, se pur non costituisce un elemento di novità in Bellocchio,
certo assume in Vincere un carattere di originalità. Infatti, le immagini extradiegetiche, nel loro
processo di attrazione con quelle propriamente narrative, slittano spesso da un accostamento di tipo
diacronico, ovvero in successione, a uno di tipo sincronico, annidando un quadro nel quadro. Di certo
un piccolo tributo al montaggio intellettuale, esplicitato, peraltro, con la citazione diretta a Ottobre
di Ejzejstein.
Uno dei passaggi più interessanti, a tal riguardo, è la scena in cui Mussolini viene ferito e giace
nel letto di un ospedale improvvisato. Sia per il fatto che, in realtà, ci si trova in una chiesa, sia perché
viene proiettato un film sulla crocifissione e il clima pietoso è enfatizzato e presto condotto verso un
tono sarcastico, soprattutto quando alle lacrime di Rachele vengono associate quelle delle pie donne,
oppure quando al futuro duce dolorante viene accostata l’agonia di Cristo sulla croce (con immagini
tratte da Christus di Giulio Antamoro). Un’altra interessante caratteristica del raffronto tra materiale
originale e immagini d’archivio avviene mediante una sovrapposizione, che, congiunta ad una precisa
scelta fotografica di esposizione, conduce all’espressiva realizzazione di figure in silhouette. In più
occasioni i personaggi sono infatti inquadrati contro uno schermo o uno sfondo illuminati,
configurando, per analogia, la campagna di occultamento perpetrata dal governo fascista, capace di
gettare lati oscuri su quelle vicende scomode, colpevoli semplicemente di opporsi alla loro
“luminosa” verità. Nel caso specifico, è la storia di una donna, vicinissima al giovane Mussolini, a
venire inabissata nelle tenebre, una donna dal coraggio coriaceo che reclama la propria identità e
fisionomia all’interno di pagine/immagini già scritte, e tristemente note (Ida, in diverse scene
compare nella sua sola figura, fortemente sottoesposta. Quella in cui procede sicura, in controluce e
in direzione opposta agli altri, nella galleria è un ottimo abbrivio per inaugurare la sua battaglia

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personale). Inoltre, il ripetuto movimento di sagome nere contro l’animato vibrare
dell’immagine/rifrazione o dello sfondo reale realizza un atto di oscura connessione con tali scenari,
visivamente attivi. Sia che si tratti di quello contestuale della guerra appena scoppiata, sia che si tratti
di immagini di propaganda partitica, la reazione è sempre vivace e netta. L’oscurità delle sagome in
controluce si animano o si dimenano, anche se per scopi differenti (la Dalser per rivendicare una sua
parte nella vita del duce, i fautori della guerra per dimostrare il proprio spirito patriottico, gli scolari
indisciplinati per sfogare la propria giovinezza), ma tutte paiono anelare a quella scena illuminata,
come ad esprimere la smodata passione di farne parte. Eppure, rispetto a quello sfondo, essi
rimangono semplici ombre, ad esso annesse, pedine di un gioco politico troppo schiacciante per
concedere loro pur pallidi bagliori di riconoscimento.
In quanto alla struttura del film, emerge chiara una forma bipartita, segnata da una netta cesura:
il giovane Benito, interpretato da Filippo Timi, scompare nella seconda parte, quando il Mussolini
fascista conquista il potere, e la sua figura compare soltanto nelle immagini d’epoca, quasi a segnare
una separazione ancora più profonda tra le sorti di Ida e quelle dell’ormai inarrivabile duce.
Quest’ultimo, che nella prima parte trovava un ampio spazio di interazione con la protagonista,
successivamente sembra pertanto scivolare oltre lo schermo cinematografico, in una meta-realtà che
il pubblico riesce a percepire solo mediante una proiezione nella proiezione (emblematica, a tal
proposito, la scena in cui Ida rivede Mussolini, al cinema: la sua mezza figura, ancora in silhouette, si
inserisce contro lo schermo che mostra il gigantesco busto del duce). Il quadro filmico crea allora
una doppia profondità, una per separare, l’altra per avvicinare. Infatti, se da un lato il rapporto di
solidarietà empatica dello spettatore verso Ida cresce, dall’altro, quello di lei con Mussolini, si
infrange fermandosi proprio su quello schermo, assurto ormai a parete divisoria (si pensi alla scena
in cui la Dalser rivela al cognato di aver “visto” Mussolini; lui trasale per un attimo, ma lei chiarisce
che, in realtà, l’ha visto al cinema, ovvero oltre lo schermo/parete).
Ed è lungo questa duplice profondità prospettica che sembra palesarsi la nuova invettiva di
Bellocchio contro i poteri costituiti di Stato e Chiesa. Il primo, con la brutalità della dittatura, atto a
fabbricare reclusione per i ribelli, la seconda, che gestisce i manicomi, pronta a perpetrare
un’inaccettabile connivenza. Inoltre, a marcare ancora più il gap tra le due fasi narrative, c’è il ruolo
di Benito Albino, che passa bruscamente dall’infanzia all’età adulta, ove è interpretato dallo stesso
Timi. Una coincidenza non banale, dato che il figlio illegittimo si mostra abilissimo a imitare l’enfasi
oratoria del padre. Una imitazione/identificazione che porta il giovane a cedere alle lusinghe
disinibite della pazzia per resistere allo iato insostenibile tra la verità raccontata dalla madre e quella
fittizia, ma solidissima, imposta dal potere coercitivo dell’altro genitore. Forse è solo l’ennesimo atto
di occultamento di una verità, forse anche questa follia è fittizia, eppure tutto appare credibile. Infatti,
se una simile violazione cognitiva, in un adulto, provoca una rabbia tale che non può smettere di
essere gridata (nonostante il prudente e strategico discorso dello psichiatra, che cerca di convincere
Ida a moderare i toni, a recitare una parte remissiva), in un bambino questa drammatica, dissonante
ridondanza non può che trasformarsi in una seria minaccia, lasciando trapelare l’ipotesi, non
sorprendente, di un vero cedimento psichico. Ed è calcando così i risvolti psicologici del sistema
fascista che il regista finisce per accennare al potere ambiguo della stessa immagine filmica, quel suo
uso propagandistico che de-potenzia e annichilisce ogni voce contraria. Un’operazione troppo
vistosamente simile a quella contemporanea dei politici/showman per non essere notata, in cui la
manipolazione dell’immagine e la sua invasività permettono di raggiungere e controllare il potere

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anche senza coercizione esplicita. Forse si tratta di un riferimento involontario, come ammette lo
stesso Bellocchio, ma la creazione, si sa, attinge a infinite e spesso inconsapevoli fonti.
Tornando alla portata meta-cinematografica di Vincere si nota, poi, un ultimo stadio, perché
Bellocchio, oltre alle immagini di repertorio, ci fa assistere ripetutamente a quello “spettacolo” che
era il cinema nei primi decenni del secolo. La messa in scena della proiezione, con accompagnamento
musicale dal vivo, si delinea così quale oggetto tematico vivo, smarcandosi, dopo avervi accennato,
da ogni approccio nostalgico o didascalico. Il suo interesse sembra piuttosto declinare verso un
rinnovato e sapiente uso della colonna sonora, possibile anche grazie alla riconfermata e proficua
collaborazione con Carlo Crivelli. Il compositore romano esibisce uno stile minimalista, alla Arvo Pärt,
che sembra interagire con quel travaglio che il personaggio principale esprime nel gridare la propria
verità. In particolare, nella scena in cui la Dalser corre verso il cancello dell’ospedale psichiatrico,
mentre all’esterno nevica, la musica si gonfia con ostinate iterazione di sottofondo, a cui si
aggiungono rintocchi di campane e cori levati in un trionfalismo inquieto. L’amplificazione dello stato
d’animo di Ida è efficacissimo, ne emerge tutta la terribile angoscia. Con questo suo ultimo lavoro
Bellocchio sembra quasi voler rievocare lo stesso sentimento di ribellione contro la storia, i suoi
soprusi, le sue ingiustizie, visto in Buongiorno, notte, e in entrambi i casi ad ingaggiare la lotta è una
donna. Scagliarsi verso quell’immutabile e pesante tessuto, però, non produce lo stesso effetto nei
due film. Se Chiara, nei suoi sogni, aveva lasciato libero Moro per le strade di Roma, in un’atmosfera
serena, in sordina, con una musica discreta, dai toni dilatati e vagamente magici, Ida non sogna
apertamente. Semmai, si fa oggetto di un sogno, di una “proiezione”, inscritta com’è in quella
superficie/schermo iper-illuminata della grata metallica. E il tono è tutt’altro che sommesso, la sua
determinazione è netta e amplificata sia visivamente che sonoramente, attraendo, da un lato tutta
l’irruenza tragica del melodramma, in quel gesto disperato di gettare tra le sbarre briciole della
propria verità, dall’altro la doppia evocazione mistica, della luce diffusa e dell’intonazione corale, che
stride con amara ironia con la drammatica clausura ambientale e psicologica.
Che dire poi della rappresentazione del corpo? Il corpo di Mussolini, punto chiave della sua
comunicazione, meticolosamente e saldamente costruito nello slancio dell’apparire, perde nella
seconda parte la sua carnalità. Quello di Ida, invece, procede verso l’annichilimento. Le atmosfere
livide, dalle tonalità fredde, che caratterizzano soprattutto la prima parte e dipingono con
un’impressione marmorea gli accesi chiaroscuri delle scene d’amore, si oppongono infatti alle nudità
pietose e tetre delle scene del manicomio. Il corpo sensuale, attraversato da estasi passionale, sia
nella sua posizione rilassata (immobile nella scena in cui Ida ha venduto tutti i suoi averi), sia nella
tesa vibrazione del corteggiamento e del sesso (nelle scene amorose e quando Ida mostra le sue
intimità come offerta amorosa), perde ogni suo potere, nella seconda parte, a causa
dell’occultamento che subirà. E questo primo, terribile allarme che avverte di un tragico mutamento
diventa evidente nella scena in cui una delle donne, nel manicomio, invita Ida a coprirsi per evitare
la camicia di forza. Un avvertimento, in realtà, già lanciato da quelle istantanee delle ricoverate, che
avevano spezzato il racconto precedente, ma che solo successivamente acquista l’inesorabile e
scioccante semantizzazione. La nudità, tuttavia, non è lo stadio finale dell’umiliazione ai danni del
corpo, esso viene anche annullato visivamente in quelle vesti amorfe, cromaticamente spente, che
equiparano tutte le pazienti del manicomio e poi, definitivamente schernito e privato di ogni dignità
e volontà, quando diventa primo piano, ovvero quando, ridotto a volto, è finalmente illuminato e
rischiarato, ma solo per l’ultima e atroce sentenza di interdizione. La maschera stravolta di Ida, rigata

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dalle lacrime, stanca ed emaciata, segna proprio l’ultimo capitolo della lotta, marca il passaggio verso
l’accecante rassegnazione.
In conclusione, non si può negare quanto quel giovane Mussolini ritratto nella prima parte, quel
suo coraggio, il suo spirito razionalistico (si veda la dimostrazione dell’inesistenza di Dio con la prova
dell’orologio), sia apparso persino suadente al regista, ma si tratta di un fascino destinato presto a
esaurirsi, degradando verso il piglio autoritario del dittatore. Un inesorabile declino di un carisma
che si disperde in quelle immagini di repertorio trasformate ormai in merce caricaturale.
Infine, Bellocchio non poteva non essere attratto da una vicenda che coniugava il tema del potere
con le dinamiche della psiche. Ne emerge un film come al solito molto personale che denuncia però
una costrizione in cui il regista non si trova a suo agio. La camicia di forza della Storia, con le sue
date e i suoi avvenimenti, vincola la narrazione che tenta di liberarsene non riuscendovi sempre.
Certo Bellocchio aveva già affrontato di recente la Storia con Buongiorno, notte ma lì aveva potuto
lavorare da Maestro ri-costruendo. Qui non può farlo liberamente e se ne avverte la consapevolezza
nella scelta stilistica di ricorrere a una modalità narrativa che gli sta particolarmente a cuore: l'opera
lirica. L'intero film è costruito come un melodramma sia sul piano musicale che su quello della
struttura, con la passione dominante all'inizio a cui seguono la disillusione e la morte.
Su tutto questo prevale però una lettura decisamente interessante e che mette in gioco la
psichiatria e, ancor più, la psicoanalisi che studia il rapporto tra il potere e le masse. Mentre la follia
diviene sempre più collettiva e partecipata nel Paese, ci suggerisce Bellocchio, diviene quasi
indispensabile che la normalità (Ida) venga trattata come devianza. Mentre l'Italia corre verso il
baratro della Seconda Guerra Mondiale la Dalser e suo figlio vengono fatti precipitare nella clausura
degli Istituti. Dove non basterà l'ammonimento dello psichiatra: «Questo non è il tempo di gridare la
verità. È il tempo di tacere, di recitare una parte». Chi non è disposto a piegarsi non può che essere
stroncato oppure, come accade nell'immagine più intensa del film, non può che arrampicarsi su
sbarre senza via d'uscita per gettare nella neve lettere che mai nessuno leggerà.

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