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APOLOGIA DELLA STORIA: UNO SGUARDO D’INSIEME

INTRODUZIONE
«Papà, spiegami allora a che serve la storia»; altrettanto celebre è la risposta: «La storia è lo
studio degli uomini nel tempo». Del resto «il bravo storico, proprio lui, somiglia all’orco della fiaba.
Là dov’egli fiuta la carne umana, là c’è egli sa che è la sua preda».
Queste parole ci proiettano nella ‘rivoluzione’ inaugurata da Bloch nel 1929, quando uscivano gli
Annales: prese le distanze da determinati estremi visti come antimodelli (Positivismo, mera
erudizione, Marxismo, Idealismo), si riconosce la Storia come intrinsecamente multiforme e tale
da necessitare di “Scienze ausiliarie”.
Del resto, come sottolinea Le Goff in “PREFAZIONE”, lo storico è autore (etimologicamente)
delle fonti e del passato: i documenti, in sè, non valgono.
Resta comunque un punto importante: lo scopo. La Storia da un lato è fine a se stessa, perché il
primo pungolo è la conoscenza; dall’altro, la materia ha come obiettivo ultimo…la vita. Infatti la
disciplina è trasversale, e la pluralità di accezioni associate a “storia” dimostra come essa sia
onnipresente anche senza rendersene conto. I lavori di Croce dimostra le nuove mete raggiunte
dagli studi storici: libri come «Storia della storiografia italiana», e concetti quali «Ogni storia è
contemporanea, perchè legata al contemporaneo modo di pensare» o «La Storia è il dramma
dell’anima». L’ ‘autoreferenzialità’ di cui abbiamo parlato poco sopra, invece, è simile a quella di
altre materie. Va però specificato che dovrebbe essere la conoscenza storica la più gratificante, in
quanto la Storia fa pensare agli uomini che a loro volta pensano; del resto, per ricollegarci alla sua
trasversalità, la disciplina trova ovunque le sue potenzialità.
Quanto introdotto sulla ‘onnipresenza’ della Storia non deve però far dimenticare un’importante
chiave di volta: la critica, di cui si parlerà in dettaglio nel CAPITOLO III.
CAPITOLO I: LA STORIA, GLI UOMINI E IL TEMPO
Come accennato poco sopra, la Storia è crocevia di più discipline, eppure c’è bisogno di una
specificità ‘storica’ di fronte all’immensità della realtà. Si assiste allora a un graduale restringimento
nel campo di indagine, per cui la Storia è la scienza “del Passato” e “degli uomini”. Essa, quindi, è
“lo studio degli uomini nel tempo”.
Un primo elemento rilevabile nella Storia è l’ossessione per le origini, come si intravede dalla
mitologia. Il concetto stesso di “origine” è delicato, perché il significato iniziale è “inizio” (come da
etimo: dal Latino oriri, “sorgere”, stessa radice di “Oriente”), e vi è connesso quello di “causa”.
Temporalità e causalità finiscono allora col confondersi, ma lo storico non deve cadere in tale
errore.
Infatti, al di là del puro desiderio di conoscenza, sempre l’uomo ha avvertito il bisogno di dare un
senso alla proprio vita anche inconsapevolmente; si spiega così il motivo della ridondanza di miti e
credenze. In sede storiografica è però sbagliato confondere filiazione e causalità: se l’importanza
di un fatto dipendesse sempre e solo dalle sue conseguenze decisive, la Storia non sarebbe che
una cronologia di eventi eccezionali. L’eccezionalità, a sua volta, contraddirebbe la complessità del
mondo.
Altra questione da tenere presente è: la Storia è scienza o arte? Non si tratta di una dicotomia,
poiché la scienza ha una componente artistica (un discorso ben formulato). Ci si accorge della
mancanza di dicotomia fra i due elementi precisando che la Storia non è una scienza ‘esatta’:
essa ha come oggetto il Passato, quindi la componente ‘artistica’ è importante (linguaggio preciso,
che in quanto tale denuncia una componente anche scientifica).
A proposito ancora di “origini”, importanza grande è assunta da un binomio: da un lato il tempo
come continuum, dall’altro il vocabolario. Infatti, in barba al «pànta rèi» e quindi al mutamento
linguistico, l’ “idolo delle origini” [un titolo di paragrafo] vuole che il lessico sia duro a cambiare.
CAPITOLO II: L’OSSERVAZIONE STORICA
Riprendendo quanto detto sulla multilateralità della Storia, va specificato che ne esistono più
‘dimensioni’ brodeliane [VD. “I TERRITORI DELLA STORIA”, 1 A, MANZONI-OCCHIPINTI (A C.
DI), P. XXVII-XXIX]. Va poi ricordato che la complessità della materia è intensificata dalla
mediatezza [etimo] del rapporto documento/storico: non si ‘vede’ il passato, ma i suoi resti su cui
appunto si indaga [CFR. PROF RODA, ULTIMA PAGINA APPUNTI]. Si torna così al concetto di
“traccia”, già considerato nell’INTRODUZIONE a proposito dello storico come «orco»:
Alla riduttiva nozione di fonte storica proposta alla fine del secolo scorso [l’Ottocento, perché la prima
edizione è del 1994] da autorevoli storici francesi, secondo cui «la storia si fa con i documenti…Niente
documenti, niente storia», lo storico contemporaneo Lucien Febvre oppone una ben più ampia accezione di
fonte storica: «La storia […] si può e si deve fare senza documenti scritti, se non ne esistono […]. In una
parola, con tutto quello che, essendo proprio dell’uomo, significa la presenza, l’attività, i gusti e i
modi d’essere dell’uomo». [“I TERRITORI DELLA STORIA”, P. XX].
La multilateralità cui abbiamo fatto più volte cenno, inoltre, è tale che la «varietà delle
testimonianze storiche è pressochè infinita» [p. 52], quindi a maggior ragione non ci si può
focalizzare su fatti politico-militari. Di qui, nuovamente, l’importanza delle “discipline ausiliarie”, fra
cui la Linguistica.
Queste considerazioni richiamano la conclusione del capitolo precedente: il trascorrere del tempo.
Infatti esso provoca mutamenti molteplici e vari, a seconda della ‘dimensione’. Le fonti stesse non
sono esenti da tale flusso: anch’esse cambiano, le une più e le altre meno, a seconda della
tipologia e del contesto.
Nonostante tutto, per tornare a componenti duri a mutare quali le parole, vi sono perfino casi di
‘incontaminazione’ di documenti ad opera del tempo, sempre a seconda del contesto (ambientale
per esempio, come nel caso della conservazione dei resti di Pompei).
CAPITOLO III: LA CRITICA
Ne abbiamo già parlato nell’INTRODUZIONE. L’idolo delle origini è un tipico esempio di tale
necessità: si deve prendere le distanze dalla megalomania, constante nella Storia. Ciò vale specie
nella forma più subdola di inganno, ossia la fuorviante associazione di elementi che invece, in sé,
sono veri. Si torna così a parlare dell’importanza del contesto, in cui fatti e conseguenti fonti sono
inseriti [p. 70-84]. Proprio grazie ad esso, infatti, possiamo risalire anche ai motivi per cui un
eventuale falso è stato prodotto.
Del resto, a dispetto del Positivismo, non contano i fatti ‘così come sono’, tanto più che le fonti non
dicono mai ‘tutto’ [VD. SALVATORE TRAMONTANA]. Viceversa, contano anche le parole. In
sostanza, la critica è vitale purchè sia moderata, come del resto l’atteggiamento opposto. Esempio
notevole è proprio la parola “critica”, che solo dal 1700 è riferita al “giudizio di verità” mentre prima
concerneva l’estetica.
La descritta flessibilità tra fiducia e diffidenza nei confronti delle fonti va applicata allo studio dei
rapporti causali e temporali. Non bisogna infatti pensare che svolte più o meno clamorose, quali la
Rivoluzione del 1789 o i moti del 1848, siano tutte o quasi esplosione di un nuovo improvviso. Non
si deve, altresì, procedere per comparti stagni. Precisamente l’evento definibile storico «offre
elementi utili a spiegare le trasformazioni della società del passato, quando permette di ricostruirne
un frammento» [VD. “I TERRITORI DELLA STORIA”, P. XIX].
CAPITOLO IV: L’ANALISI STORICA
“Spiegare o giudicare il Passato?”, tipica questione associata a Bloch [VD. “I TERRITORI
DELLA STORIA”, P. XXXI-XXXIV]. Il problema dell’imparzialità, del resto, è un tema ricorrente nel
lavoro storico, ad onta della pretesa soluzione rankiana secondo cui gli storici devono descrivere
le cose «tali e quali sono avvenute». Il Positivismo, in pratica, riprende il pensiero erodoteo, «ta
eonta legein» («raccontare ciò che fu»), e nella cultura si collega al coevo Realismo.
Ancora una volta ci si imbatte in ambiguità, a partire dalle parole stesse: cos’è l’imparzialità? Ed è
sempre ‘pura’ ?. Già si accennava al problema dell’ ‘incompletezza’ delle fonti, perché esse non
dicono mai ‘tutto’ ma solo una parte: l’ambito più o meno ristretto, e il punto di vista [VD. LEZ. VI-
VII].
Appunto l’imparzialità non è mai perfetta, perché nella Storia è pur sempre ricorrente riferirsi al
proprio punto di vista, a partire dalla proprio epoca [VD. INTRO; CAP. I; P. 40 BLOCH; P. XXXII,
N. 2]. L’imparzialità è rilevabile nell’intersezione dell’attività di giudice con quella di storico, perché
queste due attività
hanno una radice comune, che è l’onesta sottomissione alla verità. Lo studioso registra, anzi meglio
provoca l’esperienza che forse capovolgerà le sue più care teorie. Il buon giudice, qualunque sia il voto
segreto del suo cuore, interroga i testimoni senz’altra preoccupazione all’infuori di quella di conoscere i fatti,
quali essi avvennero. È, in entrambi i casi, un obbligo di coscienza che non si discute a nessuna
condizione [BLOCH, P. 104].
Il problema si presenta invece allorchè
le loro strade divergono. Quando lo studioso ha osservato e spiegato, il suo compito è concluso. Al
giudice tocca ancora emettere la sentenza. Facendo tacere ogni simpatia personale, egli la pronuncia
secondo la legge? Allora si reputerà imparziale […] dal punto di vista dei giudici. Ma non da quello degli
studiosi. Infatti non si può condannare o assolvere senza schierarsi per una tavola di valori che non deriva
più da alcuna scienza positiva. Che un uomo ne abbia ucciso un altro è un fatto, decisamente suscettibile di
prova. Ma pure l’omicida presuppone che lo si consideri colpevole: il che. Tutto sommato, non è che
un’opinione sulla quale non tutte le civilizzazioni si sono trovate d’accordo [BLOCH, P. 104-105].
A questo punto si riprende a parlare del problema del rapporto con la realtà, incluse le distorsioni
eventuali o potenziali. Non a caso
Montaigne ci aveva già ammonito: «Non appena il giudizio pencola da una parte, non ci si può trattenere dal
tratteggiare e distorcere la narrazione in quel senso». Dopotutto, per penetrare in una coscienza estranea
[…] occorre quasi spogliarsi del proprio io. Per dirle il fatto suo, basta restare se stessi. Lo sforzo è
certamente meno gravoso. Quanto più facile scrivere a favore o contro […] invece di dipanare la ragioni
profonde […]! […] Molto meglio cercare ciò che realmente [nell’esempio considerato qui da Bloch, al tempo
della Rivoluzione francese] volevano gli uomini [BLOCH, P. 106].
Lo stesso Bloch precisa, poco più avanti, che se si volesse trattare manicheisticamente la Storia,
proprio il fine della conoscenza-di cui abbiamo parlato nell’INTRO come primo inprinting-non
avrebbe ragion d’essere, minando così le fondamenta stesse della ricerca storica. Del resto si
tratta, più in generale, di evitare classificazioni troppo rigide, se no la Storia entrerebbe in crisi
come scienza. Infatti «se la chimica, ai suoi primordi, avesse adottato questa classificazione
[manicheistica], avrebbe rischiato fortemente di impantanarsi a tutto scapito della conoscenza dei
corpi» [BLOCH, P. 106]. Non mancano però controindizazioni, già accennate nel CAPITOLO I,
perché non si deve
spingere troppo in là l’analogia. La nomenclatura di una scienza degli uomini avrà sempre i suoi tratti
caratteristici. Quella delle scienze del mondo fisico esclude il finalismo. I termini ‘successo’ o ‘scacco’,
‘incapacità’ o abilità’, non potrebbero assumervi, nel migliore dei casi, che il ruolo di finzioni, sempre carichi
di rischi. Al contrario, essi appartengono al vocabolario normale della storia. Giacchè la storia riguarda esseri
capaci, per natura, di fini coscientemente perseguiti [BLOCH, P. ].
Alla luce di tutto ciò, si capisce che il compito dello storico sia la spiegazione del passato, e che ne
sia un presupposto la sua comprensione. Si ripresenta, a questo punto, una questione già
abbozzata: la ‘non immediatezza’ del rapporto fra lo studioso e la fonte. Similmente, non è
immediata la relazione tra “diversità dei fatti umani” e “unità di coscienza”, per citare parole di un
paragrafo [BLOCH, P. 108]. Così tornano utili, coi dovuti limiti, contestualizzazioni e classificazioni.
Infatti la comprensione
è un atteggiamento che non ha nulla di passivo. Per fare una scienza, occorreranno sempre due cose: una
realtà, ma anche un uomo. La realtà umana, come quella del mondo fisico, è vasta e variegata. Una
semplice fotografia […]. Si dirà che, fra ciò che fu e noi, i documenti interpongono già un primo filtro? Senza
dubbio essi eliminano, sovente, a vanvera. Quasi mai, invece, preparano il terreno conformemente ai bisogni
dell’intelletto che voglia conoscere. Come ogni studioso, come ogni cervello che, semplicemente,
percepisce, lo storico sceglie e distingue. In una parola, analizza […]. Un registro di esperimenti non va
confuso con il diario di ciò che avviene, minuto per minuto, in un laboratorio […]. Se si trascurasse di
ordinare razionalmente una materia che ci giunge allo stato grezzo, si finirebbe, in fin dei conti, col negare il
tempo, e dunque la storia stessa […]. Solo le classificazioni arbitrarie sono funeste. È compito dello storico
mettere continuamente alla prova le proprie, per rivederle, se sia il caso, e soprattutto per renderle più
flessibili. D’altronde, esse [specchio della complessità del reale]sono, necessariamente, di tipo assai diverso
[BLOCH, P. 108-110].
Approdiamo così a categorie storiche fondamentali da cui siamo partiti: l’uomo, il tempo, le fonti.
Queste ultime servono a mediare, ma da sole non sono utili. A mo’ di un loro ampliamento, ai
documenti vanno dunque aggiunte la comunicazione e la nomenclatura, insomma la Linguistica,
nonché la mentalità collettiva e il rapporto con altre discipline. Ci si riallaccia così al più volte
menzionato rapporto fra più e meno mutevole, come pure tra più e meno complesso, fino alla
costante dialettica realtà/immaginazione e alla critica come chiave di volta. Effettivamente
ogni analisi esige anzitutto, come strumento, un linguaggio appropriato, un linguaggio capace di tracciare
con precisione i contorni dei fatti, pur conservando la duttilità necessaria [la flessibilità, ancora] per adattarsi
progressivamente alle scoperte, un linguaggio soprattutto senza ondeggiamenti né equivoci. Ora, è proprio
qui che sta il punto debole di noialtri storici [BLOCH, P. 116-117].

Si conclude dunque da dove più volte siamo partiti, per cui


Il vocabolario dei documenti non è, a suo modo, null’altro che una testimonianza: preziosa come tutte, senza
dubbio; ma, come tutte le testimonianze, imperfetta; dunque, soggetta a critica. Ogni termine importante,
ogni modulo stilistico caratteristico diventa un efficace strumento di conoscenza solo se inserito nel suo
contesto [BLOCH, P. 124].

Di conseguenza, resta il fatto che


Il tempo umano, in conclusione, sarà sempre ribelle sia all’implacabile uniformità che alla rigida ripartizione
del tempo dell’orologio [CFR. PAOLO PRODI, INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA STORIA
MODERNA: L’OROLOGIO MISURA IL TEMPO, MA NON LO GOVERNA, PERCHÉ ESSO STESSO
‘APPARTIENE’ AL TEMPO; ANALOGAMENTE, LA TERMINOLOGIA ETICHETTA LA COMPLESSITÀ DEL
REALE, MA AL TEMPO STESSO È IMPERFETTA IN QUANTO NON ‘DOMINA’ LA REALTÀ]. Gli occorrono
misure che siano adeguate alla variabilità del suo ritmo e che accettino spesso di non riconoscere come
limiti, poiché la realtà vuole così, che zone marginali. Solo a prezzo di questa plasticità la storia può sperare
di adattare, secondo il detto di Bergson, le proprie classificazioni alle «linee stesse del reale»: il che è,
propriamente, il FINE ULTIMO DI OGNI SCIENZA [BLOCH, P. 137].

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