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Lezione 03 di Gastroenterologia del 29/09/17

Sbobinatore: F.M.
Docente: G. Missale
Argomenti: Terapia reflusso gastroesofageo, esofago di Barret, ernia jatale, disfagia

1. TERAPIA PER IL REFLUSSO GASTRO-ESOFAGEO


In questa lezione verrà concluso l’argomento del reflusso gastro-esofageo (GERD: Gastro-Esophageal
Reflux Disease), dando alcuni accenni riguardanti la terapia.
Lo scopo della terapia consiste nel miglioramento della qualità di vita del paziente, ciò è possibile se ottengo
questi obiettivi:
• risoluzione completa della sintomatologia.
• guarigione delle lesioni erosive (se ovviamente era presente una esofagite erosiva): il paziente può
essere asintomatico, ma non ancora del tutto guarito. In caso la lesione permanga, anche in modo
asintomatico, si possono sviluppare complicanze come:
− emorragie da esofagite erosiva: questa evenienza è tuttavia piuttosto rara e tali emorragie
sono di modestissima entità.
− estensione della flogosi a livello trans-viscerale: ovvero l’infiammazione si estende anche
alla tonaca muscolare esofagea, con evoluzione in eventi recidivanti e stenosi esofagea.
Di fondamentale importanza risulta quindi essere anche la riduzione per quanto possibile della flogosi in
sede di lesione. Per prevenire lo sviluppo di recidive, l’efficacia della terapia può essere verificata tramite
endoscopie, che permettono di monitorare la regressione della patologia. La guarigione dalla malattia si
ottiene bloccando i reflussi gastroesofagei patologici, ovvero passando da reflussi patologici ai soli reflussi
fisiologici.
Esistono anche diversi trattamenti definiti palliativi, che permettono il controllo dei sintomi ma non la
guarigione dalla malattia. Il paziente quindi sta bene ed è asintomatico, ma i reflussi patologici continuano e
quindi la patologia permane.

1.1 Farmaci
I farmaci utilizzati per la terapia del reflusso gastro-esofageo agiscono innalzando il pH endogastrico e
quindi anche del pH del refluito. I principali sono:
• Ranitidina: antagonista del recettore H2 dell’istamina, inibitore della secrezione acida gastrica.
• Inibitori di pompa protonica (IPP): generalmente hanno nomi che finiscono con -olo (omeprazolo,
pantoprazolo, esomeprazolo, lansoprazolo). Agiscono riducendo la secrezione di ioni H+ nel lume
dello stomaco e portano alla scomparsa della sintomatologia in circa 2/3 giorni.
I diversi IPP hanno proprie posologie standard
Inibitori di Dose Dose Dose
ottimali, tra loro equivalenti (vedi tabella seguente). Pompa Protonica standard/Die ridotta doppia
Tali farmaci possono essere inoltre somministrati in (IPP)
alcuni casi in dose ridotta (ovvero dimezzata) o in Omeprazolo 20 mg 10 mg 40 mg
Esomeprazolo 40 mg 20 mg 80 mg
dose doppia.
Pantoprazolo 40 mg 20 mg 80 mg
Sebbene studi critici dicano che l’esomeprazolo sia
un poco più efficace rispetto agli altri IPP nel Rabeprazolo
20 mg 10 mg 40 mg

controllo del pH, dal punto di vista clinico i loro risultati sono sovrapponibili a dose ottimale
equivalente in quasi tutti i pazienti. Vi possono essere inoltre delle differenze inter-individuale
dovute al meccanismo di attivazione endoepatico del farmaco.

1.2 Terapia farmacologica


Il medico deve valutare caso per caso il tipo di terapia da intraprendere.

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Come prima anticipato, gli IPP possono essere somministrati in dose standard, dose ridotta o raddoppiata.
L’assunzione deve essere effettuata sempre a stomaco vuoto, per favorirne l’assorbimento.
Può essere necessaria una dose doppia, una prima di colazione e una prima di cena, per esempio in caso di
reflusso sia diurno che notturno. La ranitidina ha generalmente un’efficacia minore rispetto a quella degli
IPP, ma questa sembra controllare meglio i reflussi notturni. Quando quindi la somministrazione di doppia
dose di IPP non è sufficiente, si può aggiungere una dose di ranitidina 300 mg prima di andare a dormire.
La giusta dose per il paziente può essere determinata partendo da una posologia elevata per poi ridurla
progressivamente fino a raggiungere il dosaggio minimo efficace, oppure viceversa partendo da un dosaggio
basso (es: esomeprazolo 20 mg) per poi aumentarlo.
In soggetti con sintomatologia non continuativa può essere invece sufficiente assumere la terapia ad esigenza
per 2/3 giorni al presentarsi dei disturbi fino alla loro riscomparsa.
In caso di miglioramento si può anche pensare di sospendere o ridurre la somministrazione.
In ogni caso il medico deve interfacciarsi con quadri diversi tra di loro: di fronte ad un paziente con intensa
sintomaticità si può procedere con la somministrazione di dosi elevate da subito; in caso di disturbi lievi si
può partire da una posologia più leggera.

DOMANDA STUDENTE: Questi farmaci risultano efficaci anche sui reflussi non acidi?
Questi farmaci non funzionano sui reflussi non acidi, caratterizzati dall’azione di sostanze alcaline
duodenali (bile e succhi pancreatici). Su una persona con reflusso misto alcalino, il beneficio potrà dunque
essere solo parziale.
Generalmente il reflusso esofageo erosivo ha quadro clinico sintomatologico molto simile a quello di
reflusso non erosivo, ma questi devono essere trattati in modo diverso. Nel GERD erosivo bisogna ottenere
la guarigione delle lesioni, per cui si somministra da subito una dose elevata; nel GERD non erosivo invece
si può partire con una dose più bassa (sempre però tenendo conto dell'entità della sintomatologia).

Nell'esofago di Barrett i reflussi patologici della GERD causano la trasformazione metaplasica dell'epitelio
del tratto finale dell’esofago.
Questa è a tutti gli effetti una lesione pre-cancerosa, quindi bisogna intervenire con una terapia
farmacologica continuativa a posologia elevata fin da subito. Anche se i pazienti sono asintomatici, è
fondamentale continuare la terapia per evitare che una nuova necrosi cellulare determini un’estensione della
zona metaplasica.

1.3 Sintomatologia non esofagea della malattia da reflusso e terapia


La malattia da reflusso può avere una serie di conseguenze anche al di fuori dell’esofago:
• Asma bronchiale (può essere un riflesso nervoso)

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• Faringo-laringite
• Erosione dello smalto dentale
• Sindrome della cavità orale urente: in questo caso il refluito raggiunge l’ipofaringe e la cavità orale,
causando a livello della bocca bruciore che coinvolge anche la lingua.
• Tosse cronica
• Raucedine
• Carcinoma della laringe e delle corde vocali; la malattia da reflusso gastro-esofageo è infatti la seconda
causa di tumore faringo-laringeo nei soggetti non fumatori (o che hanno smesso di fumare da almeno 10
anni).

Questi effetti sono causati da micro-goccioline di refluito che giungono nelle vie respiratorie (dove entrano
in contatto con le corde vocali), nell’ipofaringe e possono risalire fino alla cavità orale.

I farmaci antisecretivi (volgarmente chiamati gastroprotettori), NON bloccano i reflussi gastroesofagei: si


riduce infatti l’acidità del refluito, ma la sua quantità non cambia. Spesso dunque le crisi di tosse restano,
perché le microgoccioline lievemente acide o alcaline (se si assume una doppia dose di inibitori di pompa
protonica) entrano comunque in contatto con le corde vocali e con le vie respiratorie. Tramite la terapia
antisecretiva è quindi possibile risolvere la sintomatologia esofagea, ma spesso permangono i sintomi
faringo-laringei. Per questo motivo, nei soggetti che presentano manifestazioni laringofaringee può essere
utile associare a questo trattamento anche dei farmaci procinetici (domperidone, clebopride, levosulpiride) i
quali, favorendo lo svuotamento gastrico, riducono il contenuto dello stomaco nella fase post-prandiale e
aumentano la pressione dello sfintere esofageo inferiore, diminuendo gli episodi di reflusso.
Tuttavia, in alcuni pazienti si ha un controllo completo dei sintomi faringo-laringei anche solo con gli
inibitori della pompa protonica; in questi casi, molto probabilmente, il pH del refluito ha un ruolo
fondamentale nell'indurre la sintomatologia.

1.4 Trattamento chirurgico


La causa più frequente di GERD è l’ernia iatale da scivolamento. Un altro possibile trattamento per la
GERD è quello chirurgico, mirato a risolvere l’ernia e di conseguenza gli episodi di reflusso.

La chirurgia della GERD è iniziata così, con il controllo dell’ernia iatale da scivolamento: dopo aver
riportato in sede sottodiaframmatica la porzione erniata, il fondo gastrico e la regione cardiale venivano
fissati con dei punti alle strutture legamentose sottodiaframmatiche. Tuttavia, col passare del tempo si è visto
che il solo trattamento chirurgico non è sufficiente, perché spesso subentra a distanza di anni un’ipotonia
dello sfintere esofageo inferiore.

Successivamente è stata quindi introdotta la procedura di FUNDOPLICATIO, utilizzata ancora oggi:


sezionando i vasi brevi (strutture venose che collegano fondo e grande curvatura dello stomaco alla milza), si
mobilizza il fondo dello stomaco e lo si utilizza per circondare l'esofago intra-addominale. Così facendo si
induce un aumento significativo della pressione dello sfintere esofageo inferiore e si risolvono i reflussi
patologici. Esistono fundoplicatio a 360°, a 270° e a 180° a seconda del grado di avvolgimento intorno
all’esofago, ma oggi si sa che per avere risultati che
persistano nel tempo è necessaria una fundoplicatio a
360° (“fundoplicatio di Nissen”, dal nome del chirurgo
che per primo la eseguì). Siccome la fundoplicatio viene
fatta un po’ ipertonica (per compensare la tendenza dei
punti di sutura ad allentarsi col passare del tempo), in
alcuni casi può dare una disfagia esofagea funzionale e

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transitoria, della durata di due o tre mesi.

Affinché l'ernia iatale non si riformi, si danno dei punti sui


pilastri diaframmatici destro e sinistro (si veda l’immagine a
fianco) per avvicinarli e ridurre le dimensioni dello iato (che
in questi pazienti è più ampio del normale). Così facendo si
porta il calibro dello iato alla misura ottimale, cioè 5-6 mm
più grande di quello esofageo per non indurre una stenosi. La
comparsa di recidive è ulteriormente ostacolata dalla stessa
fundoplicatio, che causa un aumento di spessore della
porzione cardiale.

Oggi questo intervento si effettua di prassi con la chirurgia laparoscopica, perché è molto meno invasiva dei
metodi tradizionali e si ottengono gli stessi risultati.
Alcuni chirurghi posizionano, in corrispondenza della sutura tra i due pilastri diaframmatici, una protesi di
polipropilene a forma di U (si fissa sui due pilastri girando intorno all’esofago). Infatti, senza questo
accorgimento, è possibile che colpi di tosse nel post-operatorio
(non inusuali dopo questo tipo di intervento) causino un
aumento di tensione dei punti tale da lacerare la muscolatura
diaframmatica in quella sede. In questo caso lo iato torna ad
avere dimensioni patologiche, vanificando l’operazione e
predisponendo a recidive di
ernia. Posizionando invece la
protesi di polipropilene, si
induce una reazione fibrosa
che conferisce maggiore
resistenza alla sutura, per cui
è molto meno probabile che
avvenga la rottura.

L’80% delle persone sottoposte a fundoplicatio di Nissen con tecnica laparoscopica a 5 anni dall’operazione
non presenta più la GERD e si può definire guarita. Spesso tuttavia, dopo l’intervento si manifestano
meteorismo e senso di distensione addominale probabilmente di origine di vagale. Il vago infatti è in stretto
contatto con le pareti e, sebbene durante questi interventi si identifichino le due strutture vagali anteriore e
posteriore per non lederli, è possibile che si abbiano comunque degli effetti.
I pazienti che subiscono l’intervento con successo, dunque, potranno NON assumere più la terapia
farmacologica continuativa per tutta la vita.
La fundoplicatio è consigliata generalmente in soggetti giovani per due motivi: da una parte possono evitare
di assumere per tutta la vita farmaci, dall’altra questi sono pazienti ad alto rischio di trasformazione
neoplasica, poiché più precocemente si instaura la GERD, più probabile sarà la formazione di lesioni pre-
cancerose.
In un paziente di età avanzata, invece, si tende ad evitare l’intervento e a somministrare la terapia
farmacologica, con ovviamente alcune eccezioni.
La fundoplicatio è consigliata inoltre in persone con ingente volume del refluito, associato a sintomatologia
o/e complicanze respiratorie che i farmaci non riescono a controllare. In questi casi, nonostante la terapia
farmacologica ad alto dosaggio, persistono i sintomi faringo-laringei, come tosse cronica e/o raucedine. Con
la terapia farmacologica, infatti, si va ad innalzare il pH del refluito, ma il reflusso stesso permane e quindi
permangono anche i disturbi prima descritti.

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Anche in caso di esofago di Barrett si consiglia l’intervento chirurgico soprattutto in pazienti con
insorgenza precoce della patologia. Questo poiché i farmaci risolvono la sintomatologia, ma come detto
prima vi è una permanenza di reflussi lievemente acidi, che possono comunque causare a lungo andare
flogosi a livello della mucosa. Bisogna sempre tenere conto della gravità delle lesioni pre-cancerose:
• Esofago di Barrett associato a displasia lieve: si consiglia solo la mucosectomia e non la
fundoplicatio (a meno che il paziente sia molto giovane).
• Esofago di Barrett associato a displasia severa: si consigliano sia l’intervento antireflusso che
l’asportazione della mucosa displasica. La mucosectomia viene effettuata in endoscopia con tecniche
di radiofrequenza o procedure termiche. Se viene asportata tutta la mucosa patologica, ci sarà una
riepitelizzazione con ritorno all’epitelio squamoso pluristratificato.

In questo modo si previene in modo definitivo l'insorgenza di carcinoma dell’esofago Barrett e si “libera” il
paziente dalla terapia farmacologica, con la sola premura di effettuare controlli endoscopici e istologici ogni
due o tre anni per il resto della vita.

DOMANDA: Se un paziente lamenta dolore a livello epigastrico, ci sono altre patologie oltre al GERD che
possono causarlo?

L’epigastralgia, ovvero il dolore a livello epigastrico, può avere moltissime cause: qualsiasi patologia che
determini infiammazione (tra cui la GERD stessa) può determinare pirosi retrosternale. Oltre alla GERD, in
cui la pirosi è associata a sensazione di reflusso/rigurgito, possono essere causa di flogosi esofagea:
• Infezioni esofagee da virus (es: citomegalovirus che causa estese ulcere) o da miceti (es: candida).
Sono tipiche di soggetti immunocompromessi.
• Disfagia infiammatoria indotta da farmaci o caustici.
• Esofagite causata da radioterapia
• Esofagite da scorrette abitudini alimentari: l’ingestione di alimenti molto freddi o caldi può indurre
uno spasmo a livello della muscolatura esofagea, con trattenimento del bolo. Quest’ultimo, essendo
ad elevate/minime temperature, induce flogosi transitoria, associata a pirosi e odinofagia.

2. DISFAGIA
La disfagia è la sensazione di arresto del bolo alimentare nel suo percorso dalla cavità orale fino alla cavità
gastrica. Può essere classificata a seconda della gravità in:
• Grado 0: alimentazione libera
• Grado 1: disfagia saltuaria
• Grado 2: dieta liquida
• Grado 3: disfagia assoluta
Vi sono alcune patologie che possono essere confuse con la disfagia, per cui è importante essere in grado di
fare diagnosi differenziale.

2.1 Diagnosi differenziale


Patologie con sintomatologia simile alla disfagia sono:
1) Bolo faringeo
2) Sindrome da ruminazione
3) Odinofagia
4) Ostruzione esofagea

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Anche in questi casi il paziente lamenta una difficoltà nell’ingestione del boccone, ma tali situazioni NON
sono disfagiche.

1) Bolo faringeo
Il bolo faringeo è una malattia funzionale dell'apparato digerente; si manifesta con una sensazione di nodo in
gola a livello della cartilagine cricoidea che persiste per almeno tre mesi.
Il disturbo è interprandiale e il paziente riesce ad alimentarsi facilmente, quindi non è presente disfagia. La
sintomatologia può risolversi autonomamente o presentarsi occasionalmente e spesso è associata a stress
psichico.
Infatti la causa non è di natura organica, ma motoria. In particolare si parla di:
• Patologie motorie dello sfintere esofageo superiore;
• Patologie del rilasciamento del muscolo cricofaringeo (acalasia del muscolo cricofaringeo);
• Malattia da reflusso gastroesofageo: può indurre alterazioni motorie anche a questo livello nel caso
in cui il refluito raggiunga il passaggio faringo-esofageo. In questo caso si genera flogosi locale, con
stimolazione di strutture nervose e possibile presenza di un’alterazione motoria.
Lo sfintere esofageo superiore si rilascia normalmente, quindi è permesso il transito del bolo, ma per
esempio si può presentare un ipertono del muscolo cricofaringeo in fase post prandiale e quindi la sensazione
di nodo in gola.

2) Sindrome da ruminazione
La sindrome da ruminazione consiste clinicamente in un reflusso di materiale alimentare cronico che ricorre
da almeno 3 mesi. Nella fase immediatamente post prandiale gli alimenti appena masticati e deglutiti
refluiscono nel cavo orale con un meccanismo inconsapevole e in assenza di vomito e nausea. Il paziente
rimastica e reingurgita il bolo e il disturbo scompare a distanza di un’ora dal pasto.
La sindrome da ruminazione può portare in alcuni casi a calo ponderale: se il reflusso alimentare è intenso e
se il soggetto non re-ingurgita il cibo ma lo sputa, a lungo andare si può andare incontro a carenze alimentari.
La causa di questa patologia viene attribuita all’ambito psichiatrico, in particolare a:
• Abitudine acquisita da mal adattamento
• Disturbo della personalità
• Associazione frequente con altri comportamenti auto stimolanti (sbattimento di testa, masturbazione,
ecc.).
• In alcuni casi non c’è associazione con un definito profilo psicologico-psichiatrico.
In questi soggetti si mette in atto un meccanismo automatico di rilascio dello sfintere, associato a contrazioni
anomale del muscolo diaframma e della muscolatura addominale anteriore; in modo automatico, quindi, lo
stomaco si svuota e il cibo risale.

3) Odinofagia
L’odinofagia consiste in dolore durante la deglutizione. Il bolo quindi transita lungo l'esofago senza alcun
ostacolo (assenza di disfagia) e il paziente avverte una sintomatologia dolorosa.
L’odinofagia e la disfagia sono due patologie distinte ma possono essere associate (es: in caso di disfagia
potrebbe esserci odinofagia)
Tale dolore durante la deglutizione è dovuto alla presenza sulla superficie mucosa di lesioni, che vengono
irritate durante il transito del bolo. L’intensità del dolore varia, oltre che a seconda della sensibilità viscerale
individuale, anche a seconda dalla consistenza del bolo; i pazienti con odinofagia, dunque, tendono ad
assumere preferenzialmente una dieta semiliquida.
Le cause di odinofagia possono essere:
• Esofagite da reflusso
• Esofagite infettiva

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• Esofagite da caustici
• Esofagite post-attinica
• Esofagite da farmaci (tetraciclina, ac. ascorbico, chinidina, ecc…)
• Esofagite associata a malattie sistemiche (m. di Bechet, m. di Chron, pemfigo volgare)

4) Ostruzione esofagea
L’ostruzione esofagea è una situazione acuta dovuta al blocco di un bolo asciutto o di grandi dimensioni a
livello soprattutto del terzo inferiore dell’esofago. Se il bolo permane per un certo lasso di tempo,
l’ostruzione viene aggravata dall’edema nella mucosa, che lo blocca ulteriormente.
L’ostruzione esofagea si manifesta dunque con disfagia assoluta, dolore toracico molto intenso e odinofagia.
Il paziente non riesce a deglutire nulla, nemmeno la saliva, e allo stesso tempo si ha una elevata secrezione
salivare e quindi scialorrea. Ci possono essere episodi di singhiozzo e di dispnea.
Si parla quindi di una situazione acuta, che deve essere risolta in breve tempo. Il paziente si presenta in
pronto soccorso con forti dolori e schiuma densa alla bocca (ipersecrezione salivare) e riferisce l’inizio del
disturbo solitamente dopo un pasto. Il medico deve subito sottoporlo ad endoscopia e disostruire l’esofago.

2.2 Classificazione della disfagia


Esistono due tipi di disfagia tra loro molto diversi, la disfagia orofaringea e quella esofagea.
Nel parlare di patologie della mobilità esofagea bisogna ricordare che l’esofago è funzionalmente e
strutturalmente diviso in due parti: una con muscolatura liscia (2/ inferiori) e una con muscolatura striata (1/3
superiore), innervate da componenti nervose con provenienza diversa. È importante distinguerle poiché
possono essere coinvolte in situazioni patologiche diverse.
Come prima detto, la disfagia può essere distinta in:
• Disfagia orofaringea: causata da alterazioni patologiche che riguardano il meccanismo della
deglutizione e il passaggio faringo-esofageo.
• Disfagia esofagea: data da patologie dell’esofago, quali ostruzioni meccaniche, patologie della
motilità e GERD).
Qualunque medico deve saper distinguere tra queste due diverse condizioni. A tal fine sono molto importanti
l'anamnesi e l'esame obiettivo, poiché consentono in più dell’80% dei pazienti di prevedere la causa o il
gruppo di condizioni patologiche all'origine del sintomo disfagico. Dall’anamnesi, il medico indirizza il
paziente verso una procedura diagnostica piuttosto che un’altra, perché le metodiche sono completamente
diverse nei due casi.
Solitamente il paziente localizza con una certa accuratezza (del 75-80%) il livello dell'ostruzione da lui
percepita, spesso usando espressioni come “Mi si ferma qui”; questa informazione si rivela dunque assai
utile per il medico. Si tenga presente che è più probabile che un paziente localizzi più prossimalmente
un'ostruzione distale, che non viceversa.

Di fronte a disfagia (orofaringea o esofagea) è indispensabile escludere sempre, in prima battuta, le cause
organiche strutturali (come possono essere le patologie tumorali). Infatti, se ipotizzo subito una patologia
funzionale senza aver escluso quelle strutturali, indirizzo il paziente verso un iter diagnostico molto lento,
che può durare anche mesi, alla fine del quale magari si scopre una patologia neoplastica (che sarebbe dovuta
essere diagnosticata tempo prima).
Le caratteristiche dei due tipi di disfagia sono riassunte nella tabella sottostante:

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DISFAGIA ESOFAGEA DISFAGIA OROFARINGEA
Sintomi associati
• Dolore toracico • Astenia
• Reflusso acido • Ptosi palpebrale
• Rigurgito • Voce nasale
• Polmonite
Alterazioni organo-specifiche Alterazioni sistemiche
• Esofago • SNC/SNP
• Muscolatura striata
• Giunzione faringo-esofagea

Trattabile (dilatazione) Raramente trattabile


Organo sacrificabile (unica funzione) Organo NON sacrificabile (varie funzioni:
linguaggio, deglutizione, respirazione)
Qualunque sia la causa, la disfagia esofagea è
risolvibile, tramite trattamento o tutt'al più Solo in casi particolari in cui non ci siano alternative
rimuovendo l’esofago e ricostituendo poi la (es: abnorme neoplasia) si procede all’asportazione
continuità digestiva. La qualità della vita rimane chirurgica in toto, facendo poi tracheotomia e
comunque buona. gastrostomia. La qualità della vita ne risulta
gravemente compromessa.

3. DISFAGIA ESOFAGEA
3.1 Cause
Le cause di disfagia esofagea possono essere classificate in:
• Stenosi intrinseche: sono stenosi riguardanti l’esofago stesso; possono essere di natura benigna o
maligna. Esempi sono:
− Complicanze di GERD o ingestione di caustici
− Sequele post-operatorie: dovute ad operazioni che interessano l’esofago, come anastomosi
esofago-gastrica, esofago-digiunale o esofago-colica.
− Anelli o diaframmi: possono essere congeniti o acquisiti; quelli congeniti possono dare
sintomi anche dopo anni dalla nascita.
− Patologie tumorali: benigne o maligne
• Stenosi estrinseche: il lume dell'esofago si riduce perché dall'esterno c'è qualcosa che comprime
l’esofago. Tali masse comprimenti possono essere dovute a:
− Neoplasie mediastiniche: per esempio masse che originano dalla trachea o dai vari linfonodi
(leucemie o metastasi linfonodali di vari tipi di tumori, come quello della mammella).
− Neoplasie polmonari: estendendosi possono arrivare a comprimere l’esofago.
− Compressione vascolare: esempio è un aneurisma dell’aorta toracica.
• Patologia motoria: può essere una patologia:
− Primaria: acalasia, spasmo esofageo diffuso.
− Secondaria: sclerodermia (la sclerosi dà acinesia esofagea associata a megaesofago
sclerodermico; tale disfagia è dunque ipocinetica, non ipercinetica come le precedenti),
connettivopatie, GERD.

Come prima ribadito, di fronte ad un soggetto disfasico è fondamentale poter escludere una eventuale causa
tumorale prima di procedere con ulteriori esami diagnostici.

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Nel tumore dell’esofago, la disfagia è accompagnata da sintomi specifici, come il dolore toracico persistente
dovuto a infiltrazione nelle strutture nervose peri-esofagee, e aspecifici, come astenia e anoressia. Molto
raramente si osserverà ematemesi, presente solo in lesioni neoplastiche estremamente avanzate soggette a
necrosi ed ischemia

3.2 Modalità di presentazione e sintomi


La disfagia esofagea può presentarsi in modalità:
• Ingravescente (meccanica): la disfagia va man mano peggiorando. Inizialmente si presenta solo per
i cibi solidi, poi col passare di settimane/mesi con i semi-liquidi e infine con i liquidi. Generalmente
tale disfagia è data da una causa strutturale organica, che man mano riduce il lume dell’esofago.
• Paradossa (motoria): la disfagia si manifesta in modo intermittente e paradossalmente può
manifestarsi con i liquidi e non con i cibi solidi. Un certo tipo di alimento, piuttosto che una
consistenza o una temperatura, possono indurre dismotilità con contrazione spatica della muscolatura
esofagea. Per esempio il soggetto riesce a mangiare tranquillamente un piatto di pasta (circa 60°C),
ma non riesce a ingerire l’acqua (circa 10°C).

La manifestazione di disfagia si associa a specifici sintomi, tra cui:


− Calo ponderale e anemia − Pirosi retrosternale
− Dolore toracico − Aspirazione polmonare
− Rigurgito, ruminazione, vomito − Sintomi patologia primaria
Il quadro sintomatologico può essere quindi molto vario; nel caso di disfagia esofagea il medico nell’80%
dei casi può avere un indirizzo diagnostico corretto solo con l’anamnesi.

3.3 Acalasia esofagea


La acalasia esofagea consiste nell’assenza di peristalsi primaria nel corpo dell’esofago, associata a un
rilasciamento patologico (assente, incompleto, ritardato) dello sfintere esofageo inferiore.
Per fare diagnosi differenziale è fondamentale la presenza di entrambe le condizioni, poiché la sola assenza
di peristalsi esofagea si manifesta anche nell’esofago sclerodermico, patologia prima descritta.
[Un tempo si individuava un sottogruppo di acalasia detta vigorosa, caratterizzata da onde motorie
peristaltiche discinetiche di intensità maggiore di 180 mmHg. Ora è stata soppiantata da una nuova
classificazione, quindi il professore consiglia di non tenerne conto]
Oggi l’utilizzo della manometria ad alta risoluzione, procedura diagnostica analizza la capacità motoria
dell’esofago, ha permesso di classificare le acalasie in 3 sottogruppi:
• Tipo 1: non c’è attività motoria
• Tipo 2: la pressione interna dell’esofago aumenta simultaneamente lungo tutto la lunghezza
dell’organo, quindi esiste ancora un certo tono muscolare esofageo.
• Tipo 3: l’esofago ha contrazioni discinetiche, spastiche e vigorose di p maggiore di 180 mmHg.
La manometria ad alta risoluzione consente di dare al paziente una diagnosi molto precisa e di conseguenza
gli permette di intraprendere il percorso terapeutico più adeguato. Tempo fa non esisteva tale suddivisione e
l’unica terapia era di tipo palliativo.

3.4 Esofagite da farmaci


L’ esofagite da farmaci, oggi ancora poco conosciuta, è dovuta all’assunzione per via orale di un qualsiasi
tipo di farmaco. Ciò che causa tale esofagite non è uno specifico principio attivo o una specifica molecola,
ma il discioglimento di una qualsiasi compressa a livello esofageo (si può manifestare con maggiore
frequenza con antibiotici, chemioterapici o KCl, ma in ogni caso può avvenire con tutti i farmaci). Il farmaco
che si discioglie in sede extra-gastrica, infatti rilascia una elevata concentrazione di sostanze chimiche, che

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vanno ad infiammare e ledere la mucosa. Tale flogosi può divenire trans-parietale e, se perdura nel tempo,
raggiungere lo strato muscolare inducendo una stenosi dell'esofago.
La principale causa di dissoluzione di una compressa a livello esofageo è la sua assunzione senza acqua.
Perché si generino lesioni, ovviamente, non basta un singolo episodio, ma deve esserci una abitudine
scorretta che dura nel tempo.
Vi sono condizioni patologiche che aumentano il rischio di sviluppo di
esofagite da farmaci, come una pregressa sub-stenosi dell’esofago
(causata per esempio da malattia del reflusso). Un’altra conformazione
anatomica che può intralciare la discesa del farmaco nello stomaco è il
diverticolo di Zenker, in cui la compressa può rimanere intrappolata.
Inoltre un paziente estremamente a rischio è quello che ha difficoltà
nell’assumere liquidi per via orale e deve intraprendere una terapia
con compresse.
Il trattamento (principalmente chirurgico) della stenosi dell’esofago è ad elevato rischio: può essere
responsabile di fessurazioni e perforazioni dell’esofago con alto tasso di mortalità.

3.5 Esofagite eosinofila


L’esofagite eosinofila è una esofagite su base allergica spesso associata ad alterazioni
di motilità dell'esofago. È piuttosto frequente in età pediatrica dove si manifesta con
sintomatologia non specifica; se persiste, in età adulta si presenta con episodi di
disfagia, blocco del bollo alimentare a livello del terzo inferiore dell’esofago e pirosi
retrosternale.
Alla diagnosi di esofagite eosinofila contribuisce la rilevazione di iper-eosinofilia
nell’esame istologico di biopsia esofagea (concentrazione di eosinofili>15
cell/campo).
Pur essendo ancora una patologia poco nota, è importante ricordarla poiché la sua
incidenza è in aumento sia negli adulti che nei bambini e poiché a distanza di anni
può causare complicanze gravi, come la stenosi dell’esofago e di conseguenza
disfagia. Le stenosi esofagee sono difficili da trattare, poiché la loro dilatazione è a
elevato rischio si rottura dell’esofago.
All’esame endoscopico, in un soggetto con esofagite eosinofila si osservano a livello
della mucosa:
• Pseudoanelli: sono di natura più funzionale che anatomica.
• Introflessioni longitudinali della mucosa: non sono ulcerazioni e non c’è
fibrina, sono semplici introflessioni.
• Placche biancastre: sono simili a quelle da candidosi esofagea; si possono
distinguere tali placche da quelle da candida grazie alla biopsia e all’esame istologico.

Se in endoscopia si rilevano questi segni, allora si può fare diagnosi certa di esofagite eosinofila. La iper-
eosinofilia esofagea si può riscontrare anche in altre patologie (come la GERD stessa), quindi solo con
questa non si può fare diagnosi differenziale.

3.6 Terapia della stenosi esofagea


In caso di stenosi esofagea si può intervenire endoscopicamente con metodiche diverse a seconda della
natura della stenosi, con risultati temporanei o permanenti.
1) Dilatazione endoscopica

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Esistono due tecniche per dilatare una stenosi esofagea.
Quella con minor rischio di perforazione dell’esofago è quella che prevede
l’utilizzo di dilatatori a cilindro conico inseriti manualmente. La
dilatazione viene effettuata in sala radiologica con l’utilizzo di un filo
guida metallico. Questo viene inserito nell’esofago tramite tecnica
endoscopica e si controlla con una radiografia che abbia raggiunto la
cavità gastrica senza perforare in qualche modo l’esofago. Rimosso
l’endoscopio si introduce sul filo guida il dilatatore; questo deve essere
inserito delicatamente cercando di non creare traumi a livello esofageo. È
il chirurgo stesso che lo inserisce manualmente, quindi può modulare la
forza di inserimento a seconda della resistenza che i tessuti oppongono; è
un intervento molto delicato che necessita di molta esperienza. Il filo
guida dà la sicurezza di non prendere vie anomale; se però il filo guida
non è stato inserito correttamente ed ha perforato la parete dell’esofago,
nel momento in cui inserisco il dilatatore si genera un varco di grosse
dimensioni nel mediastino (alto rischio di mediastinite).
Se i tessuti oppongono molta resistenza non bisogna insistere, ma
sospendere, controllare endoscopicamente di non aver creato lesioni e poi
procedere con una dilatazione più graduale. Esistono diversi diametri di
dilatatore (5, 6, 7, 8, 10, 12, 15, 18, 20 mm).
Si può utilizzare anche un dilatatore a palloncino, che viene inserito sempre endoscopicamente e poi
gonfiato fino ad una pressione di circa 10 mmHg e al raggiungimento del suo diametro massimo anelastico.
Psicologicamente ha un impatto minore rispetto all’utilizzo dilatatori a cilindro conico, poiché si utilizza
strumentazione di dimensione minore, ma il rischio di lesione dell’esofago è maggiore, poiché gonfiando il
palloncino il chirurgo non riesce a percepire la resistenza opposta dai tessuti. L’utilizzo dei dilatatori a
cilindro conico, dunque permette una maggiore sensibilità e un maggiore controllo durante l’operazione.
In caso di stenosi da esofagite eosinofila NON bisogna intervenire con una dilatazione a palloncino, ma
bisogna utilizzare dilatatori a cilindro conico passando gradualmente da quelli di piccolo diametro a quelli di
diametro maggiore.

2) Protesi esofagee
In caso di stenosi neoplastica dell'esofago non ha senso effettuare una dilatazione endoscopica, poiché se ne
trarrebbe un beneficio solo transitorio; il tumore è ancora presente, quindi nel giro di pochi giorni la stenosi
si ricostituirebbe.
In questi casi si può intervenire con una protesi esofagea, tecnica che permette di risolvere la stenosi e la
disfagia a lungo termine e che è associata a basso rischio di complicanze.
In passato si utilizzavano protesi in plastica di diametro di 10-12mm. Queste erano agganciate ad una
struttura metallica e venivano inserite nell’esofago, incastrate con forza a livello della stenosi e in seguito
sganciate dalla guida metallica. A questo punto rimaneva solo la protesi di plastica che dilatava la stenosi,
ma solo parzialmente (solo 10-12 mm), quindi il paziente doveva seguire una dieta liquida.
Oggi si utilizzano invece delle protesi metalliche di 20-25 mm di diametro, che permettono al paziente di
mantenere un’alimentazione normale. Queste protesi sono assemblate su un cateterino molto sottile che
viene inserito endoscopicamente nell’esofago. Raggiunto il punto della stenosi, la protesi viene rilasciata dal
catetere e nel giro di 48 ore raggiunge il suo diametro originale in modo automatico. È una procedura
semplice e molto meno traumatica di rispetto all’inserimento delle protesi di plastica.
Come si vede nell’immagine a lato, la porzione centrale della protesi solitamente è rivestita di plastica così il
tessuto tumorale non cresce attraverso la rete metallica. Gli estremi sono invece costituiti solo da rete

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metallica, che si aggancia alla mucosa e ne induce un po’ di iperplasia; in questo modo la protesi non scivola
e rimane in posizione a lungo termine.
Prima dell’utilizzo di queste protesi, pazienti con tumore dell’esofago inoperabile non erano in grado di
mangiare, quindi l’unica possibilità era la gastrostomia.
Si possono inserire anche protesi esofago-gastriche, ovvero protesi che vanno direttamente a pescare nella
cavità gastrica. Vengono utilizzate per esempio in caso di malattie neoplasiche del cardias.

Nelle seguenti immagini radiologiche possiamo osservare il risultato dell’inserimento di una protesi
esofagea.
Nella prima immagine si riesce a vedere una stenosi filiforme dell’esofago, con a monte una dilatazione. A
livello della dilatazione pre-stenotica si accumula il mezzo di contrasto (più denso) con al di sopra l’aria
(livello idro-aereo).
La seconda immagine è immediatamente post-operatoria e mostra una riduzione della stenosi: le estremità
della protesi sono già piuttosto dilatate, il corpo nell’arco di 48 ore raggiungerà il suo diametro ottimale.

Da circa 10 anni si utilizzano anche protesi rimuovibili, per il trattamento patologie benigne.
Se per esempio durante una dilatazione endoscopica di una stenosi benigna il chirurgo va accidentalmente a
bucare la parete dell’esofago, per bloccare il più velocemente possibile il rischio di mediastinite si può
inserire una protesi rimuovibile totalmente rivestita che chiuda la lesione. La mediastinite è estremamente
pericolosa per il paziente, è molto più grave di una
peritonite, quindi è importante intervenire tempestivamente.
Le protesi rimuovibili si possono utilizzare anche in stenosi
benigne ricorrenti. Un paziente che deve subire dilatazioni
endoscopiche periodiche si sottopone ad elevato stress e
rischio operatorio. Inserendo una protesi rimuovibile tutta
ricoperta di plastica, si induce un processo di cicatrizzazione
che produce una dilatazione dell’esofago pari al diametro
della protesi. Anche dopo la sua rimozione (dopo 3-4 mesi)
il diametro viene mantenuto e il paziente non dovrà più
sottoporsi a dilatazione endoscopica.

4. DISFAGIA OROFARINGEA
La disfagia orofaringea è completamente diversa da quella esofagea, anche se i pazienti lamentano più o
meno la stessa sintomatologia o addirittura possono non accorgersi di averla.
La troviamo prevalentemente (50-60%) nei soggetti ricoverati in reparti di riabilitazione, medicina e
geriatria.

4.1 Cause
Le lesioni strutturali sono causa di disfagia orofaringea solo nel 20% dei casi. In questo caso il soggetto non
riesce a deglutire a causa di una stenosi organica molto prossimale. Alcune cause possono essere:
• Neoplasie del cavo orale
• Neoplasie dell’ipofaringe
• Neoplasie della laringe che vanno a coinvolgere l’ipofaringe
• Neoplasie del tratto cervicale dell’esofago (primi centimetri): sono solo il 5% delle lesioni strutturali
che causano disfagia orofaringea, quindi la componente esofagea ha una minore influenza in questo
tipo di disfagia.

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• Diverticolo di Zenker: in realtà è più una conseguenza organica, che una causa. Questo si forma in
un punto di lassità muscolare (che tutti abbiamo) in soggetti con disfagia orofaringea avanzata.

Nel restante 80% dei casi tale patologia è causata da malattie di SNC, SNP e della componente muscolare.
Tra le patologie del SNC troviamo:
• Malattie di origine vascolare • Alzheimer
• Parkinson • Malattie post-traumatiche
Le patologie muscolari riguardano ovviamente la componente muscolare striata (quella liscia si trova nei
2/3 inferiori dell’esofago)

Le patologie del SNP possono essere:


• Polineuropatie
• Patologie post-chirurgiche
• Patologie post-radioterapia: in caso per esempio di neoplasie laringee di piccole dimensioni si può
intervenire con una radioterapia mirata, che può causare anche a distanza di tempo una
polineuropatia post-attinica.

4.2 Digressione sulla deglutizione


Bisogna ricordare la fisiologia del meccanismo della deglutizione. In particolare possiamo individuare delle
fasi, illustrate anche nelle immagini seguenti:
1) fase orale preparatoria 3) fase faringea
2) fase orale propriamente detta 4) fase esofagea

Si ricorda che il bolo passa dall’orofaringe all’ipofaringe grazie alla peristalsi faringea. Il suo passaggio da
faringe ad esofago, invece, è permesso dal rilasciamento dello sfintere faringo-esofageo e dalla
contemporanea chiusura dell’epiglottide. L’epiglottide si chiude (e quindi impedisce ingresso di cibo nelle
vie aeree) poiché la laringe si innalza trainata dai muscoli laterocervicali del collo.
Ciò implica il fatto che uno dei sintomi di disfagia orofaringea è l’inalazione di materiale alimentare e saliva.

4.3 Segni e sintomi della disfagia orofaringea


Tra i segni e i sintomi della disfagia orofaringea troviamo:
• Tosse eccessiva dopo la deglutizione • Tentativi multipli di deglutizione
• Senso di soffocamento • Affaticamento post-prandiale
• Stasi polmonare • Polipnea
• Cambio della qualità della voce • Febbre
• Difficoltà nella masticazione • Episodi di polmonite (ab ingestis)
Importantissima è l’anamnesi, poiché non tutti i pazienti riferiscono chiaramente una difficoltà nel deglutire.

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Tale patologia ha frequenza maggiore in soggetti di tarda età (80-90 anni), che spesso tendono a minimizzare
sintomi come la tosse subito dopo i pasti o una leggera difficoltà nel deglutire, dando la colpa alla vecchiaia.
I primi a dover riconoscere tale tipo di tosse devono essere gli infermieri o gli operatori sanitari che portano
il cibo ai pazienti.
Il medico, quindi deve essere in grado di porre le giuste domande e carpire informazioni che il paziente
potrebbe trascurare. Saper riconoscere una tosse dovuta a disfagia orofaringea è importantissimo, poiché le
micro-inalazione di materiale alimentare espongono a polmoniti ab ingestis che in età avanzata possono
essere mortali.

4.4 Indagini strumentali


Le principali tecniche utilizzate per indagare la fisiologia della deglutizione sono:
• Videonasolaringoscopia: viene effettuata dall’otorino, che inserisce un endoscopio dal naso fino alle
corde vocali. Si osserva il movimento delle corde durante la fonazione: se si muovono in modo
asimmetrico si può presuppore un’alterazione della motilità e quindi un’alterazione della
deglutizione.
• Videofluorocinematografia (bolo liquido-solido): consiste in un filmato radiologico della
deglutizione con l’utilizzo di mezzo di contrasto. Osservando il decorso del liquido si può
individuare l’esatta fase alterata del processo di deglutizione, quindi si fornisce un indirizzo preciso
per la terapia riabilitativa logopedica. Nell’immagine a lato si vede parte del mezzo di contrasto che
passa anteriormente nelle vie aeree.
• Manometria esofagea

4.5 Muscolo cricofaringeo


È importante sapere la differenza tra il rilasciamento e l’apertura dello sfintere esofageo superiore.
Il rilasciamento del muscolo cricofaringeo si ha con la riduzione del suo tono muscolare; la manometria
rileva un abbassamento della pressione nello sfintere da 80 mmHg fino a 0. Il muscolo così si è rilasciato, ma
non aperto.
L’apertura dello sfintere invece si ha con l’innalzamento della laringe durante la deglutizione: i muscoli
latero-cervicali alzano e antepongono la laringe, tale spostamento in avanti determina l’apertura dello
sfintere precedentemente rilasciato. Durante il percorso di riabilitazione logopedica
per la disfagia, al paziente può essere insegnato a “prendere” la propria cartilagine
tiroidea e a “tirarla in avanti” durante la deglutizione per favorire l’apertura dello
sfintere esofageo superiore.
Quando nello studio radiologico si nota un ristagno del mezzo di contrasto a livello
dei seni piriformi, la alterazione della progressione del bolo può essere dovuta a:
• Rilasciamento dello sfintere in assenza di apertura: in manometria si rileva
un azzeramento della pressione, quindi questo esame è nella norma. È un
disturbo tipico di patologie del SNC che alterano la motilità della laringe e non dello sfintere.
• Assenza di rilasciamento e assenza di apertura: in manometria NON si rileva la riduzione di
pressione a livello dello sfintere. Tale condizione si verifica in caso di miopatie o polipatologie.
Quindi è importante ricordare che in alcuni casi i risultati della manometria e della radiologia possono essere
discordanti, poiché rilasciamento e apertura dello sfintere esofageo superiore NON corrispondono tra loro e
quindi possono anche non coesistere.

4.6 Trattamento disfagia orofaringea


Generalmente in caso di disfagia orofaringea si interviene con:

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1) Terapia riabilitativa: rieducazione logopedica del paziente mirata alla re-istaurazione di una
deglutizione il più possibile funzionale, in modo tale da evitare le complicanze da inalazione.
2) Terapia endoscopica: se c’è patologia del rilasciamento del muscolo cricofaringeo si può eseguire
una dilatazione endoscopica.
3) Terapia chirurgica: in casi estremamente selezionati si può procedere con la miotomia extramucosa
faringoesofagea. Se la patologia riguarda il solo muscolo cricofaringeo ed il resto della deglutizione
funziona correttamente, si può isolare tale muscolo e tagliarlo con un accesso chirurgico latero-
cervicale.
In caso nessuno dei percorsi risulti efficace sarà necessario fornire una nutrizione artificiale.

5. NUTRIZIONE ARTIFICIALE
In pazienti con disfagia non risolvibile, l’apporto di sostanze nutritive deve essere mantenuto tramite
alimentazione parenterale o enterale.
La nutrizione parenterale consiste nella somministrazione di tutti i nutrienti per via venosa centrale. Se
viene mantenuta per un lungo periodo di tempo possono insorgere una serie di complicanze tra cui:
• Trombosi della vena
• Atrofia intestinale
• Ridotta impermeabilità intestinale (batteri, tossine).
• Riduzione della immunocompetenza.
Alcune di queste condizioni possono causare, in caso di ritorno ad un’alimentazione per via orale, sintomi
anche molto gravi.
La nutrizione enterale, oltre ad essere meno costosa, permette di evitare le complicanze prima descritte,
quindi è in genere preferibile quando possibile alla parenterale. Di seguito vengono descritte metodiche che
permettono la somministrazione direttamente a livello gastrico/intestinale dei nutrienti.

5.1 Sondino naso-enterale


Il sondino naso-enterale viene generalmente utilizzato per una nutrizione enterale di breve durata (meno di 4
settimane). Si possono inserire sondini naso-gastrici, che permettono la somministrazione di cibo
direttamente nella cavità gastrica, o sondini naso-digiunali, che bypassano lo stomaco e raggiungono l’ansa
digiunale. Gli ultimi sono utilizzati in pazienti con gastroparesi o polipatologia che interferisca con la
funzionalità gastrica; se si utilizzasse in questi casi un sondino naso-gastrico, lo stomaco non riuscirebbe a
svuotarsi e ci sarebbero episodi recidivanti di reflusso, inalazione e vomito.

I sondini naso-enterali possono essere posizionati con l’utilizzo di un pesetto che faciliti la discesa durante
l’inserimento e la permanenza nella cavità (la loro localizzazione può essere controllata tramite Rx).
In alternativa i sondini possono essere inseriti con tecnica endoscopica: si entra con l’endoscopio e si
raggiunge la zona di interesse, si introduce il sondino (più sottile) attraverso il canale dell’endoscopio e
infine si retrae l’endoscopio.
Ci possono essere degli inconvenienti riguardanti l’utilizzo dei sondini, come:
• Dislocazione
• Occlusione
• Angolazione all’interno dello stomaco: si deve controllare il posizionamento tramite Rx
• Auto-rimozione precoce: tipica soprattutto di soggetti psichiatrici, in cui il sondino è sconsigliato.
Oltre agli inconvenienti ci possono essere vere e proprie complicanze, tra cui citiamo:
• Lesioni da decubito
• Sinusiti

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• Aspirazione polmonare: il sondino passa attraverso il cardias, che quindi rimane sempre
parzialmente aperto. Ciò espone ad eventi di reflusso che possono raggiungere l’ipofaringe, con crisi
di tosse e polmoniti ab ingestis.

5.2 Gastrostomia e digiunostomia


La gastrostomia e la digiunostomia vengono effettuate quando la nutrizione enterale deve essere mantenuta
oltre le 4 settimane.
La digiunostomia viene per esempio eseguita in seguito ad operazione di rimozione dell’esofago per
patologia tumorale. Si offre in questo modo al paziente un immediato introito calorico e le condizioni
metaboliche ottimali per far sì che la anastomosi si ricostituisca con un minore rischio di complicanze. Dopo
un mese circa la sonda viene rimossa e la digiunostomia viene chiusa.
Molto più frequente è la gastrostomia, che può essere effettuata con diverse metodiche:
− Gastrostomia con ausilio di ecografia: tramite ecografia si individua la cavità gastrica individuando
l’aria in essa contenuta, si buca con un ago, si entra con un filo guida, si incide la cute e infine si
inserisce la sonda (tecnica poco sicura).
− Gastrostomia in laparoscopia, durante un’operazione.
− Gastrostomia per via endoscopica.
La gastrostomia per via endoscopica (PEG) è la più utilizzata in assoluto poiché ha un basso rischio
operatorio e non necessita di anestesia generale ma solo di una blanda sedazione.
Esistono principalmente due tecniche per eseguire tale gastrostomia: tecnica Pull e tecnica Introducer.

5.3 Approfondimento PEG con tecnica Pull


Per la PEG con tecnica Pull (95% dei casi) sono necessari due medici, un chirurgo e un endoscopista, e due
infermieri. Il campo operatorio deve essere sterile poiché la sonda deve attraversare, oltre a mucosa gastrica
e cute, la cavità peritoneale che è sterile. L’operazione si effettua con i seguenti passaggi:
• Raggiungo con l’endoscopio la cavità gastrica. Se c'è una stenosi tumorale dell’esofago (in tal caso
si dovrebbe mettere una protesi più che eseguire una gastrostomia) si utilizza un endoscopio
piccolissimo, di diametro 4-5 mm per superarla.
• Distendo la cavità gastrica, in modo tale che lo stomaco disteso entri in contatto con il peritoneo
parietale.
• Controllo che la parete dello stomaco sia direttamente in contatto con la parete addominale
utilizzando due trucchi:
− Spegnendo la luce si deve vedere attraverso la cute la luce
dell'endoscopio.
− Se con il mio dito introfletto leggermente la cute, l’introflessione
deve essere visibile nella cavità gastrica con l’endoscopio.
• Infiltro nel sottocute della zona un anestetico locale; con il piccolo ago
penetro appositamente fino alla cavità gastrica, in modo da capire la
direzione da prendere.
• Nello stesso punto inserisco un ago cannula, ovvero una cannula con
all’interno un ago dimensioni discrete.
• L’endoscopista circonda l’ago cannula, che ha bucato la parete anteriore
del corpo dello stomaco, con un’ansa metallica dell’endoscopio. Rimuovo
l’ago e rimamene solo la cannula (vedi immagine).
• Introduco attraverso la cannula un lungo filo semirigido di plastica con
anima metallica, che quindi entra nella cavità gastrica.

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• Retraggo l’ansa che prima circondava la cannula, in modo tale che si stringa attorno al filo che esce
dalla cannula.

• Rimuovo l’endoscopio e quindi con lui l’ansa e il filo da essa afferrato; il filo quindi da una parte
attraversa la cute dell’addome per arrivare nello stomaco e dall’altra risale dallo stomaco fino al cavo
orale.
• Aggancio la sonda gastrostomica con un nodo a scorsoio all’estremità del filo che fuoriesce dalla
bocca; inizio a tirare l’estremità del filo che fuoriesce a livello addominale, fino a che la sonda non
viene trainata nella cavità gastrica.
• Quando la sonda arriva alla parete gastrica, tiro con maggior forza il filo e incido la cute per
facilitare l’inserimento della sonda nella parete addominale.
• La sonda presenta un’estremità a tronco di cono (che esce dalla fistola creatasi) e una estremità con
un dischetto di plastica. Questo dischetto, sempre sotto l’effetto della trazione del filo, comprime
ulteriormente la parete dello stomaco contro la parete addominale e allo stesso tempo impedisce la
fuoriuscita totale della sonda.
• Aumento l’ancoraggio dello stomaco alla parete inserendo un dischetto lungo il tubicino della sonda.
La PEG con tecnica pull è estremamente sicura, ma in rarissimi casi si può generare una fistola gastro-
colico-cutanea. Pur controllando con le tecniche della trans-illuminazione e della digito-compressione, è
ancora successo che il colon trasverso si frapponesse tra la parete addominale e lo stomaco. La sonda quindi,
prima di raggiungere la cavità gastrica, perfora il colon e attraversa il lume intestinale. In un primo momento
tale situazione non dà disturbi, poiché il diametro della sonda è minimo, quindi non ostacola il passaggio
delle feci nel colon. La complicanza insorge nel momento in cui la sonda deve essere cambiata, dunque viene
rimossa per trazione. La frapposizione del colon trasverso impedisce l’inserimento della nuova sonda e solo
in questo momento si comprende di aver creato una fistola gastro-colico-cutanea, che deve essere risolta con
un intervento chirurgico.
Le sonde devono essere periodicamente sostituite, poiché con il tempo si
alterano e diventano sclerotiche; la vecchia sonda viene rimossa
semplicemente per trazione, mentre quella nuova viene immediatamente
inserita senza dover ripetere le procedure prima descritte. La nuova sonda
presenta un palloncino sgonfio che, una volta inserito nella cavità gastrica,
viene riempito di acqua per bloccare la sonda stessa.
Nel giro di qualche mese il palloncino si danneggia, la sonda gastrostomica
si distacca e il paziente si presenta in pronto soccorso per la sostituzione. È
molto importante che la sonda venga subito rimpiazzata, poiché nel giro di 48 ore la fistola si chiude e quindi
il paziente è costretto a sottoporsi nuovamente all’intervento prima descritto. Ci può essere anche una
parziale chiusura, che si risolve in endoscopia con l’uso di dilatatori estrinseci che ripristinano il diametro
della fistola.
La PEG con tecnica Pull è controindicata in:
• Ascite: in questo caso si effettua un drenaggio preliminare, altrimenti lo stomaco non entra in
contatto con la parete addominale anteriore.
• Varici gastriche
• Coagulopatie
• Obesità patologica: ciò rende difficile effettuare una gastrostomia,
perché lo spesso strato di tessuto adiposo ostacola la trans
illuminazione.

Tra le possibili complicanze invece troviamo:

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• Lesioni da decubito della sonda sulla parete gastrica
• Infezioni
• Ematomi della parete gastrica
• Episodi di reflusso gastroesofageo in seguito a nutrizione enterale per via gastrostomica*.

*È possibile utilizzare una sonda gastro-digiunostomica PEGJ (PEG gastro-digiunale) lunga 40 cm, che
mantiene comunque un ancoraggio gastrico ma termina oltre il piloro (viene guidata in sede tramite
endoscopia). La nutrizione dunque arriva direttamente nel duodeno/digiuno e ciò si rivela utile in caso di
gastroparesi, con reflusso alimentare (liquido) ed episodi ab-ingestis (discorso simile a quello del sondino
naso-digiunale).

5.4 Bottone gastrostomico


Il bottone gastrostomico, invece, viene utilizzato principalmente in pazienti giovani che hanno perso
irreversibilmente la capacità di deglutire correttamente in seguito a traumi cranici, ematomi cerebrali,
particolari interventi chirurgici, ecc…
Si effettua comunque una gastrostomia, ma in questi casi la sonda è lunga 15-20 mm (dipende dallo spessore
della parete addominale) e possiede uno sportellino rasente la cute, tramite il quale posso inserire il
nutrimento (grazie ad un sondino collegato ad una pompa). Il bottone gastrostomico permette di compiere
senza problemi le normali attività quotidiane, tra cui anche l’attività sportiva, assicurando una buona qualità
di vita. Il nutrimento consiste nell’assunzione di preparati preconfezionati, che dal punto di vista nutrizionale
risultano persino più completi ed equilibrati del cibo assunto per via orale.

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