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Tre momenti esemplari nella Collezione Bilotti

Leonardo Passarelli I gusti e quindi le scelte che guidano un collezionista alla costituzione di una
raccolta d’arte rispondono a diverse e complesse dinamiche il più delle volte
difficili da dipanare. È in primo luogo l’interesse per l’arte a spingere il colle-
zionista all’acquisizione di un’opera. Nel caso si tratti di arte contemporanea,
un ruolo importante va riconosciuto all’intima esigenza, da parte sua, di sen-
tirsi partecipe, anche se indirettamente, all’elaborazione del pensiero artisti-
co che si manifesta in parallelo alla sua vita. Inoltre, il desiderio di raccoglie-
re una galleria di opere in qualche modo ‘esemplari’ per la loro portata sto-
rica e artistica corrisponde sovente all’anelito di essere ricordato in futuro,
con una targa in una sala di un museo, con una didascalia in una monogra-
fia o in un catalogo d’arte, come donatore o primo proprietario di un’opera
che è entrata nella storia e di cui precocemente egli è stato in grado di co-
gliere proprio l’esemplarità. A questi fattori di prestigio culturale si affianca-
no anche, non ultimi per quanto riguarda l’arte contemporanea, quelli eco-
nomici che vedono nelle opere d’arte un investimento e arricchimento non
solo ed esclusivamente per la propria anima.
All’interno di una raccolta è sempre possibile cogliere una linea di contat-
to che sveli il rapporto che il collezionista ha voluto e saputo instaurare tra le
diverse opere, e tra la loro storia e quella sua personale.
Accade talvolta che in una collezione si trovino opere ‘esemplari’, e alta-
mente significative per i valori di cui sono portatrici. Ci si trova in questi casi di
fronte a dei capolavori, cioè a opere che eccellono nel loro genere e che come
ha scritto George Kubler possono “essere considerate come un avvenimento
storico e allo stesso tempo come la soluzione faticosamente raggiunta di un cer-
to problema”1.
Per questo motivo, in occasione della mostra sulle Opere della collezione
Carlo F. Bilotti si è preferito, invece che dare una sommaria lettura dei molti
lavori che costituiscono la raccolta, tutti comunque di grande qualità, isolarne
solo tre di altrettanti artisti diversi – Picasso, de Chirico e Fontana – al fine di
ricontestualizzarne il profilo. Secondo questa chiave di lettura è sembrato addi-
rittura ‘urgente’ indicarne l’esemplarità, cioè l’insieme di determinate qualità
che per motivi ‘storici’ e per rilievo ‘artistico’ ci portano a considerarle dei ver-
tici all’interno della storia dell’arte del XX secolo.

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1914, Picasso
Verre, il papier collé del 1914 di Picasso ha una provenienza eccezionale, essendo appartenuto a Daniel-
Henry Kahnweiler2, uno dei più geniali galleristi del XX secolo, colui che ha cioè segnato indelebilmente il
corso dell’arte contemporanea riuscendo a scoprire e valorizzare il talento di artisti quali Georges Braque, An-
dré Derain, Maurice de Vlaminck, Juan Gris, Paul Klee, Fernand Léger, André Masson e ovviamente Pablo
Picasso.
L’incontro con l’artista catalano avvenne nel 1907, lo stesso anno in cui, nel mese di marzo, Kahnwei-
ler, allora ventiduenne, apriva la sua prima galleria a Parigi. Picasso, di poco più grande, ha ventisei anni e
sta lavorando a Les Demoiselles d’Avignon, che saranno dipinte, nella versione definitiva, tra i mesi di giu-
gno e luglio3. Durante questo periodo il giovane gallerista potè vedere Picasso al lavoro sull’opera e iniziò a
conoscerlo meglio, notando che in quel momento “Nessuno degli amici artisti lo aveva seguito fin lì”4. Dopo
qualche anno, nel 1910, Picasso realizzerà il celebre ritratto del gallerista tedesco, ora custodito presso l’Art
Institute of Chicago5.
Questi anni, almeno fino al 1912, permisero dunque a Kahnweiler di penetrare a fondo il lavoro dell’ar-
tista, il quale aveva avviato insieme a Braque, il più influente indirizzo all’arte del secolo scorso.
Come è stato felicemente argomentato da Yve-Alain Bois6, Kahnweiler è stato il primo e per molto tem-
po l’unico tra gli esegeti dell’opera di Picasso a sottolineare che la vera e più sostanziale influenza dell’arte ne-
gra su Picasso cominciò non nel 19077, quando l’artista era al lavoro su Les Demoiselles d’Avignon, bensì
nel 1912, dopo la scoperta della maschera Grebo (Costa d’Avorio, Liberia)8. Solo a quella data, secondo
Kahnweiler, l’artista, abbandonata qualsivoglia ripresa ‘testuale’ dall’arte africana, apertamente percepibile –
Les Demoiselles d’Avignon – era giunto, proprio attraverso la maschera Grebo, allo svelamento di un ‘prin-
cipio’ piuttosto che alla scoperta di un valido serbatoio formale per le sue invenzioni9.
Se si deve prestare fede alla affermazione di Kahnweiler secondo la quale la prima introduzione di ogget-
ti ‘reali’ non deformati nelle opere sia da ascrivere a Georges Braque10, resta comunque il fatto che sarà so-
prattutto Picasso con le sue ‘costruzioni’, prima fra tutte Guitare del 1912, oggi al Museum of Modern Art
di New York, e i suoi papiers collés tra il 1912 e il 1914 a verificare le possibilità di sviluppo nella sua arte
degli stimoli che gli provenivano dagli esemplari conosciuti di maschere africane11. Secondo Kahnweiler le
maschere africane agirono su Picasso non solo – e soprattutto, non principalmente – in qualità di spunti
morfologici, come è indubbio che avvenne nella primissima fase del cubismo. La vera e più sostanziale in-
fluenza di queste opere sul suo linguaggio avvenne piuttosto nel momento cruciale di passaggio dalla fase ‘ana-
litica’ a quella ‘sintetica’ del cubismo.
Sempre secondo il mercante tedesco, il cubismo si era posto come scopo quello di superare la resa illu-
sionistica della realtà, aspirazione di tutta la cultura pittorica occidentale fino a quel momento, e per il rag-
giungimento di questa meta Picasso e Braque avevano duvuto trovare nuovi strumenti atti allo scopo. “Esso
[il cubismo] si creò nuovi mezzi attraverso i materiali più svariati, strisce di carta colorate, lacche, carte di gior-
nale, cui si aggiungono per i ‘dettagli reali’ tela cerata, vetro, segatura ecc.”12.
Le ripercussioni di queste scoperte sono evidenti anche nei quadri, ovvero in quelle opere che con l’in-
clusione nel loro corpo di elementi estranei alla pittura, come nel caso dei papiers collés, abbandonano ogni
tentativo di resa pittorica del modellato. In essi l’articolazione della composizione è condotta attraverso un
montaggio di elementi eterogenei e morfologicamente distanti dalla realtà, così come avviene nella masche-
ra Grebo nella quale gli occhi sono resi, per esempio, attraverso dei cilindri fortemente aggettanti, molto di-

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stanti dalla loro reale conformazione anatomica. L’immissione in ambito artistico del valore arbitrario del
‘segno’ costituirebbe, dunque, la nota caratterizzante dell’operare di Picasso e Braque a cominciare dal
191213. Nei papiers collés non è perciò in gioco una questione di semplice ‘ritorno alla realtà’, bensì l’uti-
lizzo di elementi reali, come la carta da parati nel caso di Verre, in seguito alla loro arbitraria trasformazio-
ne in ‘segno’.
In tale senso si può facilmente comprendere come l’importanza di opere quali Verre nella produzione di
Picasso sia da ricercare nel gioco illusionistico al quale lo spettatore è chiamato a partecipare e che è messo
in atto dall’artista tra ‘finzione’ e ‘realtà’, l’esperienza mondana e arte. Se l’intenzione di Picasso era quella di
voler negare alla superficie della tela, della tavola, del foglio, la prerogativa di finestra sulla realtà e riconosce-
re anche ad essa la qualifica di ‘segno’, per attivare tale messa in discussione del ruolo ‘mimetico’ dell’arte,
egli utilizza proprio le finzioni più scoperte. In tale direzione va letta la simulazione di una parete rivestita con
una banale tappezzeria a righe di un qualsiasi salotto ‘borghese’, sulla quale è appeso un dipinto. Per fare ciò
però Picasso non ricorre agli strumenti pittorici tradizionali utilizzati a fini illusionistici, ma opta per una vera
carta da parati a righe che incolla sul supporto. Allo stesso scopo la finta targhetta di ottone con inciso il no-
me dell’artista, dipinta con l’ombra verso il basso, serve non tanto per affermare la paternità dell’opera, quan-
to per ribadire l’inganno.
L’ironia del procedimento, cioè la finzione al limite del trompe-l’oeil ottenuta attraverso l’utilizzo di ma-
teriali che la pittura avrebbe dovuto riprodurre, è ulteriormente manifesta grazie alla ‘reale’ trasparenza del
bicchiere attraverso il quale riusciamo a vedere il motivo regolare a strisce della carta da parati. La qualità
di ‘segno’ arbitrario del linguaggio artistico, a cui siamo di fronte, trova una supplementare conferma nella
stesura a tocchi divisi del colore che costituisce una precisa citazione, questa volta, dal vocabolario pittorico
recente.
Vicinissimi a Verre, che tuttavia si segnala per la sua estrema semplicità, sono altri esempi della produ-
zione di Picasso della prima metà del 1914, quali Pipa e carta da musica, del Museum of Fine Arts di Hou-
ston, e Bicchiere e bottiglia di Bass con i quali sono evidenti alcune analogie. Innanzitutto in entrambe le
opere è presente il cartellino con il nome dell’artista e la cornice finta, questa volta ‘a rilievo’; quindi, nel pri-
mo ritornano brani di pittura a tocchi divisi, mentre nell’altro la tappezzeria, in questo caso di stoffa e con
motivo a righe e floreale insieme, funge da tovaglia per le stoviglie.

1929, Giorgio de Chirico


L’anno 1929, cui si riferisce il Cavaliere con due personaggi antichi in riva al mare, rappresentò per la sto-
ria occidentale la fine delle illusioni che trovò la sua più eclatante epifania il 25 ottobre, rubricato ormai ne-
gli annali della Storia, per il crollo della Borsa di New York, come il “venerdì nero”. Il pittore non mancherà
di annotare l’evento, anni dopo, nelle Memorie della mia vita pubblicate nel 1945.
“In quel tempo giunsero i primi avvertimenti ed i primi castighi che il Genio Universale mandava agli uo-
mini stolti, che avevano profanato il sacro mondo dell’arte. […] Il crollo della Borsa di Nuova York si ripercos-
se automaticamente a Parigi; i mercanti chiusero gli sportelli. […] Si udiva dire nelle gallerie di pittura: ‘C’est
la crise! Et ça ne fait que commencer! Il faudra se serrer la ceinture!’.
I pittori che non avevano pensato, o potuto risparmiare durante gli anni della cuccagna, udendo quei di-
scorsi, battevano i denti, come colti da un accesso di malaria, e avevano crisi di brividi gelati che scendevano
loro giù per le spalle fino alle calcagna”14.

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Per de Chirico, invece, il 1929 fu un anno felice e positivo. I mesi che precedettero la crisi dei mercati fi-
nanziari internazionali furono per lui ricchi di soddisfazioni tali che anche l’aspra polemica che si era accesa
con il gruppo dei surrealisti, poté essere facilmente assorbita15. A segnare l’infilata di successi artistici che si
susseguirono durante l’anno stanno, oltre ad alcune mostre con il gruppo di pittori “Italiens de Paris”, l’una-
nime riconoscimento ottenuto per la realizzazione del grande fondale, con il finestrone oltre il quale appare
un cavallo impennato, per lo spettacolo Le bal (Création) su libretto di Boris Kochno, musica di Vittorio Rie-
ti e coreografie di Georges Balanchine, messo in scena dai Ballets russes di Sergej Diaghilev il 7 maggio a
Montecarlo; il 15 giugno, inoltre, era avvenuta l’inaugurazione della casa – museo di Léonce Rosenberg, suo
gallerista a Parigi insieme a Paul Guillaume, per il quale de Chirico aveva dipinto il ciclo di grandi tele aventi
come soggetto i Gladiatori.
L’anno si chiuse, in un momento come accennato sopra “di marasma e di costernazione generale”16,
con la pubblicazione in dicembre del suo capolavoro letterario Hebdomeros, le peintre et son génie chez l’é-
crivain17, che venne accolto entusiasticamente anche dai surrealisti.
Il tema iconografico del cavallo o dei cavalli, insieme a quello dei cavalieri, dei personaggi antichi e dei gla-
diatori in riva al mare, sovente uniti in una medesima composizione, è ricorrente nella produzione di de Chi-
rico a partire dal suo secondo soggiorno a Parigi, tra il 1925 e il 1929, e pur con significative varianti lo si in-
contra lungo tutti gli anni Trenta. In questo senso il Cavaliere con due personaggi antichi in riva al mare, di-
pinto probabilmente negli ultimi mesi del 1929, ben testimonia, a quella altezza cronologica, la centralità di
questo soggetto, come dimostrano almeno altre due opere, Cavalieri e personaggi in riva al mare e Cava-
lieri in riva al mare, entrambe riferite al 1930 circa18, stilisticamente e iconograficamente molto prossime al
quadro in mostra. Il dipinto, reso da de Chirico con pennellata fluida, rappresenta tre figure e un cavallo ai
bordi del mare su una spiaggia sulla quale sono ben visibili tre rocchi di colonne; il personaggio sulla destra,
l’unico con il volto privo di connotati fisiognomici, come i precedenti manichini metafisici, si serve di uno dei
rocchi per poggiare con noncuranza il piede sinistro; sullo sfondo a sinistra della tela, a rafforzare la condizio-
ne mitologica espressa dalle figure e dai rocchi delle colonne in primo piano, appare l’Acropoli di Atene. Nel-
l’atmosfera pensosa che aleggia sulla scena, si ripropone l’enigma dei dipinti metafisici, rivisto attraverso una
lingua più piana e meno inquieta, in cui sono assenti le geometrie estranianti di quella stagione. La figura del
cavallo era già presente nell’opera del pittore durante gli anni della metafisica (1911-1917) e veniva spesso ci-
tata in qualità di monumento equestre, come si può facilmente osservare in opere fondamentali del periodo,
quali La torre rossa del 1913 della Fondazione Peggy Guggenheim di Venezia, l’omonimo dipinto dello stes-
so periodo, di dimensioni inferiori e dalla ripresa più ravvicinata, della Barnes Foundation di Merion (Phila-
delphia), la Natura morta Torino – Primaverile e La partenza del poeta del 1914. In questi dipinti la silhouet-
te del monumento equestre di Carlo Marocchetti (Torino, 1805-Passy 1867) a Carlo Alberto a Torino – ma
dal pittore riferita a Vittorio Emanuele II – fa ‘capolino’ tra gli edifici o si staglia sull’orizzonte, a testimonian-
za dell’amore del pittore per la città piemontese e del suo interesse per il Risorgimento italiano19.
Ma è soprattutto, come ricordato, nella seconda metà degli anni Venti che il tema del cavallo, non più ri-
preso dalla statuaria celebrativa, assume valenze nuove, anticipate dalla tempera su tela Piazza d’Italia del
1922, appartenuta al compositore Alfredo Casella20.
A segnalare una decisa attenzione alla figura dell’animale stanno proprio le opere realizzate tra la fine de-
gli anni Venti e buona parte dei Trenta, nelle cui trame è possibile leggere diverse implicazioni simboliche, in
cui la mitologia, la Storia e le vicende personali dell’artista si incontrano e coesistono21. Il cavallo è raffigura-

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to ai bordi del mare calmo o con i “cavalloni” che avanzano, solitario, in coppia, oppure in compagnia di ca-
valieri ed eroi.
Non è pretestuoso, inoltre, citare un brano del tratto da Vale Lutetia – un testo composto dall’artista al
momento del suo arrivo a Parigi – nel quale egli scrive che “Ogni muro tappezzato di réclames è una sorpre-
sa metafisica; e il putto gigante del sapone Cadum, e il rosso puledro del cioccolato Poulain sorgono con la
solennità inquietante di divinità dei miti antichi”22. Sicuramente insieme al puledro del cioccolato Poulain, di
un rosso non dissimile dal cavallo di Cavaliere con due personaggi antichi in riva al mare23, de Chirico in
questo periodo a Parigi notò con meraviglia anche l’affiche per Cinzano, opera anch’essa del livornese Leo-
netto Cappiello24, il quale aveva raffigurato una zebra rossa cavalcata da un personaggio abbigliato all’‘anti-
ca’ che solleva a guisa di trofeo la bottiglia del liquore.
Così come non è casuale che Jean Cocteau, in quegli anni vicinissimo a de Chirico, nel suo libro del 1928
dedicato al pittore, Le Mystère laïc: essaie de critique indirecte, avesse avvertito la centralità in quel giro di
anni del tema nell’opera dell’artista, scrivendo che “Chirico, né en Grece, n’as plus besoin de peindre Péga-
se. Un cheval devant la mer, par sa couleur, ses yeux, sa bouche, prend l’importance du mythe”25.
Un mito, quello del cavallo, che aveva suscitato l’interesse dell’artista fin da bambino, a prestare fede al
fratello Alberto Savinio, il quale afferma che de Chirico, all’età di nove anni, aveva disegnato un cavallo in
corsa che il padre donò al console di Austria e Ungheria a Volos, in Tessaglia26, da dove in seguito sarebbe
iniziata l’avventura dei due giovani fratelli. Non sembri neppure una semplice coincidenza il fatto che Casto-
re e Polluce, i due Dioscuri, cui spesso sono stati associati i due de Chirico, nella mitologia oltre a essere i
protettori della gente di mare, fossero l’uno domatore di cavalli, l’altro valoroso pugile27.
Il pictor classicus de Chirico28 conosceva bene la mitologia greca, così come sapeva certamente che
Apelle, il più importante pittore dell’antichità, aveva ritratto Alessandro Magno insieme al suo celebre destrie-
ro, Bucefalo, nella Battaglia di Isso contro il re persiano Dario (333 a.C).

1960, Lucio Fontana


“… la libertà di non fare sul serio”.
Con queste parole Edoardo Persico concludeva nell’agosto del 1934 il suo articolo su Lucio Fontana29,
dopo avere sottolineato, riferendosi all’artista, “che si può fare dell’arte senza mercanti, senza amici, senza
consensi”, ma con “la libertà di non fare sul serio”. La chiusura era stata ben congeniata nelle righe prece-
denti del pezzo con il quale Persico tentava di valorizzare, ribaltandone il senso, proprio l’accusa di una man-
canza di coerenza nei lavori, rivolta spesso all’artista: “A Milano, durante una mostra sindacale o in una di-
scussione notturna, troverete sempre qualcuno disposto a provarvi che Fontana non ‘fa sul serio’, che Fon-
tana non è più ‘quello di prima’, di quando subiva l’influenza di Wildt”30. Persico tornerà nuovamente su Fon-
tana scrivendo, nel mese di novembre del 1935, quello che è uno dei suoi ultimi interventi31, il testo per la
monografia pubblicata l’anno successivo dalle edizioni della rivista “Campo Grafico”32. In questo pur breve
saggio, il critico riusciva a delineare un profilo dell’artista che sarebbe rimasto valido anche negli anni a segui-
re. Fontana, avvertiva Persico, visto dall’esterno poteva “sembrare un artista complicatissimo e mutevole: la
[sua] facilità di assoggettarsi tutti gli stili, la capacità di convertirsi continuamente posson sorprendere come
se ci trovassimo di fronte a un giocoliere”33. Ciò che più sembrava sconcertare il pubblico a quella data, era
sicuramente la coesistenza nella sua produzione di opere molto diverse tra loro. Accanto all’Uomo nero del
1930, di cui resta solo la riproduzione fotografica, e ad opere quali la terracotta colorata Busto femminile

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del 1931, il bronzo policromo Signorina seduta del 1934, entrambe ora del Civico Museo d’Arte Contem-
poranea di Milano, e il bronzo Pescatore con fiocina, pure del 1934, della Civica Galleria d’Arte Moderna
di Milano, figuravano infatti nella produzione di Fontana le “tavolette graffite” e le “sculture astratte”. Que-
st’ultime, in ferro e gesso colorato erano state esposte, nel gennaio del 1935, alla Galleria del Milione insie-
me ai molti disegni anch’essi astratti. Infine sono di questo periodo anche le sue prime fruttuose collaborazio-
ni con architetti34.
È dunque a cominciare dagli anni Trenta che la personalità di Fontana si impone per la sua irriducibilità
a schemi di facile e lineare consultazione per la critica. Né la sua poliedricità verrà mai meno, anzi, si raffor-
zerà negli anni seguenti sempre più nella direzione di un superamento delle opposizioni disciplinari tra le di-
verse arti. Le radici di questa disposizione artistica, già riconoscibili negli anni Trenta, troveranno la loro pri-
ma definizione teorica nella stesura del Manifesto Blanco del 1946, nell’anno in cui terminava il soggiorno
argentino, iniziato nel 1940 a causa della guerra. Nel Manifesto, infatti, Fontana auspicava “un cambio en
la esencia y en la forma”, “la superación de la pintura, de la escultura, de la poesia, de la música”, avverten-
do la necessità di “un arte mayor acorde con las exigencias del espiritu nuevo”35.
Senza tentare di ripercorrere in questa sede le diverse tappe della carriera dell’artista, per la quale si ri-
manda almeno ai fondamentali studi di Enrico Crispolti36, va sottolineato che la libertà con cui egli si è espres-
so nel concreto della prassi artistica ha fatto sì che Fontana, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, venisse
considerato un valido punto di riferimento per i giovani. Ne dà testimonianza Guido Ballo nel testo di presen-
tazione in occasione della personale alla Biennale di Venezia del 195837, affermando la vicinanza dell’artista
ai giovani, di cui “ha già precorso con libertà certe poetiche”. A conferma di quanto affermato da Ballo, la
presentazione sarà ripubblicata nel 1959 da Enrico Castellani e Piero Manzoni nel primo numero della loro
rivista “Azimuth” con il titolo Oltre la pittura38. Erano trascorsi quasi dieci anni dall’Ambiente spaziale a lu-
ce nera realizzato per la mostra, inaugurata il 5 febbraio del 1949, alla Galleria del Naviglio di Milano, cui era
seguita nel 1951 la realizzazione del grande arabesco di neon sospeso sullo scalone d’onore del Palazzo del-
l’Arte, nell’ambito della IX Triennale di Milano, circostanza nella quale veniva esposto il suo modello per il
concorso per la quinta porta del Duomo39. Fontana sembra ancora una volta guidato dalla “libertà di non fa-
re sul serio”.
La stagione dei “tagli” inizia proprio in coincidenza con l’intervento di Ballo per la Biennale veneziana,
nella stagione creativa della piena maturità dell’artista, cioè quando egli compiva sessant’anni.
Fontana espose, infatti, per la prima volta i “tagli”, subito chiamati “attesa” o “attese”, nella personale
che si tenne nel mese di febbraio del 1959 sempre alla Galleria del Naviglio. A partire da questa data, le te-
le ‘tagliate’ faranno da sfondo all’operare dell’artista per quasi un decennio, fino alla sua scomparsa nel
196840, andando a costituire il momento creativo maggiormente noto delle sue ricerche e anche il ciclo più
corposo all’interno della sua ricchissima e multiforme produzione.
Già alla fine del 1958, va però ricordato, era possibile intuire in alcuni “inchiostri”, sui quali Fontana era
intervenuto realizzando i primi “tagli”, l’indirizzo che la ricerca avrebbe preso di lì a poco.
Successivi ai “buchi”, i “tagli” hanno sicuramente segnato per l’artista un superamento dell’esperienza
informale, cui pure egli aveva partecipato. Come ha scritto Enrico Crispolti, infatti, la fenomenologia del ta-
glio “si riconduce sempre al valore assoluto gestuale che il taglio assume: segno che rompe la superficie, a
sua volta assoluta, riproponendovi quell’alterità spaziale che già adduceva il ‘buco’ all’inizio degli anni Cin-
quanta”41, anche se rispetto ai “buchi” il taglio arriva all’essenza del gesto in “un’assolutezza quasi concettua-

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le”42. Tale oltrepassamento della stagione informale è reso evidente dalla nettezza e dall’assolutezza del ta-
glio, che riesce a mettere in sordina quel gusto per la materia che comunque persiste e mai verrà meno in
Fontana, a cominciare dalle coeve Nature, inizialmente realizzate in terracotta e quindi fuse in bronzo, nelle
quali il gesto dell’artista (lacerando, solcando, forando) s’impossessa della materia con impeto primario.
Concetto spaziale. Attese della Collezione Bilotti, del 1960, rappresenta, dunque, il momento successi-
vo alle prime prove di questa ricerca, quando ancora l’artista prediligeva la stesura sulla superficie della tela
di colori all’anilina. Nell’opera in mostra è bene testimoniata la scelta di Fontana per una stesura monocro-
ma e uniforme del colore, scegliendo a tale scopo l’idropittura, anche se non mancano esempi con colori a
olio o con la tela naturale. Comune con l’altro “taglio” in mostra, del 1962, è sia la tecnica, sia lo sviluppo
verticale della tela, sia la triplice ‘fenditura’ arcuata schermata sul retro da una garza nera, secondo una con-
suetudine.
È da sottolineare che, anche nell’essenzialità e assolutezza del gesto, cui faceva riferimento Crispolti l’ar-
tista è sempre comunque riuscito a trovare una varietà di segno, esemplificata dalle diverse tipologie di “ta-
glio”: singolo obliquo e arcuato o verticale, in coppia, in trio arcuato nella stessa direzione o in contrappun-
to, molteplice quasi danzante o composto seguendo una scansione ritmica iterata, su un unico piano orizzon-
tale o su due, tre, quattro livelli, in combinazioni non prestabilite.
Tale assolutizzazione e insieme varietà del gesto è bene evidenziata nelle due opere della collezione Bilot-
ti, in una delle quali, quella del 1960 in origine proveniente da Luciano Pistoi43, è possibile scorgere, nella
stesura del colore blu, un’analogia con i monocromi di Yves Klein44.
Anche nel caso dei tagli l’artista è riuscito a mettere in campo la sua libertà operativa assieme a una in-
ventiva mai circoscrivibile entro soluzioni di forma definitiva, anzi continuamente in divenire, in rapporto di-
retto con la realtà in cui si è trovato a vivere come uomo e traducendone la complessità come artista; riuscen-
do a convogliare, attraverso il suo vitalismo, i portati concettuali del suo pensiero nella materia: dall’ideazio-
ne al progetto alla realizzazione.
Né può essere trascurato, a riprova delle doti di “giocoliere” di Fontana, che anche nell’assolutezza del
gesto, sempre messa in evidenza in questi lavori, permane uno stretto rapporto con la realtà circostante e con
l’immagine che di essa gli potevano fornire i nuovi strumenti di indagine scientifica, come ha recentemente
proposto Giorgio Zanchetti in un illuminante intervento45. Proprio in tale direzione, lo studioso ha messo in
luce infatti una serie di confronti tra alcune opere dell’artista e le tavole che illustrano l’atlante astronomico Il
cielo e le sue meraviglie di Pio Emanuelli, pubblicato a Milano da Hoepli nel 193446. E se, per citare solo
uno dei numerosi confronti avanzati, le affinità “iconografiche” tra le illustrazioni fotografiche delle nebulose
a spirale e le Attese di Fontana appaiono evidenti, Zanchetti, in chiusura del saggio, pone decisamente l’ac-
cento sulla “celebrata propensione di Fontana a riprendere e trasformare in senso simbolico e espressivo la
materia e le manifestazioni della natura” e, citando da Arcadio o della scultura. Eliante o dell’architettura
di Brandi (1956), conclude che “‘costituiti a simbolo’ dall’intervento dell’artista […] i fenomeni astronomici
sono appunto casi esemplari di ‘conformazioni naturali’ trasfigurate in ‘forma’”47.

1 G. Kubler, La Forma del tempo. La storia dell’arte e la storia delle cose, (ed. or. The Shape of Time, Yale Uni-
versity Press, 1972), tr. it. di G. Casatello, con una Nota di G. Previtali, Einaudi, Torino 1976, p. 43.

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2 Sulla figura di Daniel - Henry Kahnweiler si veda P. Assouline, Il mercante di Picasso. Vita di D. H. Kahnweiler
(1884-1979), tr. it. di N. Torcellan, Garzanti, Milano 1990.
Inoltre, particolare rilievo riveste, per la comprensione del cubismo, Daniel Henry [D.-H. Kahnweiler], Der Kubi-
smus, in “Die Weissen Blätter”, vol. III, n. 9, Zürich / Leipzig 23 settembre 1916, pp. 209-222. Il testo fu riedito nel
1920 con il titolo Der Weg zum Kubismus (Delphin Verlag, München) che, oltre alcune varianti, presentava l’aggiunta
del capitolo su Fernand Léger; con il medesimo titolo e con l’inserimento del capitolo su Juan Gris è seguita un’edizio-
ne nel 1958 (Gerd Hatje, Stuttgart), sulla quale è stata condotta la traduzione italiana, D.-H. Kahnweiler, La via al cu-
bismo. La testimonianza del gallerista di Picasso, a cura di L. Fabiani, Mimesis, Milano 2001.
3 Per una puntuale cronologia sulla genesi e sull’esecuzione delle Demoiselles d’Avignon si veda W. Rubin, H.
Seckel, J. Cousins, Les Demoiselles d’Avignon, The Museum of Modern Art, New York 1994.
4 D.-H. Kahnweiler, Le mie gallerie e i miei artisti. Colloqui con Francis Crémieux, tr. it. di E. Grazioli, Giancar-
lo Politi, Milano, p. 48. L’affermazione della solitudine di Picasso durante l’esecuzione del suo capolavoro è contenuta
anche in D.-H. Kahnweiler, Der Gegenstand der Ästhetik (1915), a cura di W. Weber, Heinz Moss, München 1971,
p. 59. Non compare invece in D.-H. Kahnweiler, La via al cubismo cit., dalla cui Introduzione di L. Fabiani derivano
queste precisazioni (p. 15, n. 18).
5 Ricca di spunti interpretativi è la lettura del quadro proposta in M. Baxandall, Forme dell’intenzione. Sulla spie-
gazione storica delle opere d’arte, (ed or. Patterns of Intention, Yale University Press, 1985), tr. it. di A. Fabrizi, in-
troduzione di E. Castelnuovo, Einaudi, Torino 2000, pp. 65-110.
6 Yve - Alain Bois, La lezione di Kahnweiler, in Pablo Picasso a cura di Elio Grazioli, in “Riga”, Milano, n. 12,
1996 (ed. or. Kahnweiler’s Lesson, in “Representation”, n. 18, primavera 1987, pp. 33-68), pp. 245-283.
7 Un’interessante e utile argomentazione e interpretazione sull’influsso dell’arte negra e del “primitivismo” sul di-
pinto di Picasso è contenuta in M.G. Messina, Questioni di identità: Picasso, in eadem Le muse d’oltremare. Esoti-
smo e primitivismo dell’arte contemporanea, Einaudi, Torino 1993, pp. 157-192.
8 D.-H. Kahnweiler, La via al cubismo cit., p. 77.
9 Y.-A. Bois, La lezione di Kahnweiler cit., p. 256.
10 D.-H. Kahnweiler, La via al cubismo cit., p. 70.
11 In questa sede si accetta la cronologia argomentata da Bois nel suo saggio già citato secondo la quale Guitare,
realizzata nell’estate del 1912, costituirebbe il punto di partenza di nuove ricerche e non il naturale sviluppo dei collage
dei mesi precedenti, tra la fine del 1911 e i primi mesi del 1912, secondo la tesi ‘classica’ avanzata per la prima volta
da Clement Greenberg con un articolo su “Art News” del settembre del 1958, sostanzialmente rivisto l’anno successivo
e pubblicato con il titolo di Collage in, Art and culture. Critical essays, Beacon Press, Boston 1961, ora in C. Green-
berg, Arte e cultura. Saggi critici, Umberto Allemandi & C., Torino 1991, pp. 70-81.
12 D.-H. Kahnweiler, La via al cubismo cit., p. 77.
13 La ‘scoperta’ dei due artisti presenta molte affinità con le ricerche in ambito linguistico espresse da Ferdinand de
Saussure nel suo Cours de linguistique générale redatto tra il 1907 e il 1911 e pubblicato postumo nel 1916; cfr. Y.-
A. Bois, La lezione di Kahnweiler cit., p. 267-274.
14 G. de Chirico, Memorie della mia vita, Bompiani, Milano 2002 (I ed. Astrolabio, Roma 1945), pp. 150-151.
15 L’ostilità del gruppo surrealista verso de Chirico aveva raggiunto il suo culmine con la stroncatura ad opera di
Raymond Queneau dell’“Exposition Chirico” alla Galerie L’Epoque di Bruxelles; cfr. R. Queneau, À propos del l’expo-
sition Giorgio de chirico à la Galerie Surréaliste (15 février - 1er mars 1928), in “La Révolution Surréaliste”, n. 11,
15 marzo 1928, pp. 31-32.

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16 G. de Chirico, Memorie della mia vita cit., p. 151.
17 G. de Chirico, Hebdomeros, le peintre et son génie chez l’écrivain, Éditions du Carrefour, Paris 1929 (I ed. it.,
Ebdomero, Bompiani, Milano 1942).
18 Cfr. M. Fagiolo dell’Arco, Giorgio de Chirico. Gli anni Trenta, Skira, Milano 1995, p. 119, n. 26 e 29.
19 Nel luglio del 1911 Giorgio de Chirico e sua madre, la nobildonna Gemma Cervetto, sono in viaggio verso Pa-
rigi per raggiungere il fratello Alberto. Dalla sera dell’11 alla mattina del 13 luglio il pittore e la madre fanno tappa a To-
rino, dove – de Chirico ne era al corrente – tra il 1888 e il 1889 aveva soggiornato Friedrich Nietzsche, il quale il 3 gen-
naio 1889 era ‘impazzito’ abbracciando un cavallo. Anche in questo episodio il cavallo ha un ruolo di primo piano.
20 L’opera (tempera su tela, 56 x 76 cm) così denominata da Fagiolo dell’Arco nel 1995, cfr. M. Fagiolo del-
l’Arco, Giorgio de Chirico. Gli anni Trenta, Skira, Milano 1995 p. 179, n. 4, era stata dallo stesso studioso pre-
sentata nel 1986 col titolo Mercurio e i metafisici o Statua di Mercurio che rivela ai metafisici i misteri degli dei
e datata al 1920, cfr. De Chirico gli anni Venti, cat. mostra (Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea Palazzo
Forti, Galleria dello Scudo, Verona), Mazzotta, Milano 1986, pp. 60-61, e successivamente esposta, nel 1992, da
Elena Pontiggia come Paesaggio italiano con la data 1921, cfr. L’idea del classico 1916-1932. Temi classici nel-
l’arte italiana degli anni Venti, cat. mostra (Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano), Fabbri Editori, Milano
1992, p. 209.
21 De Chirico si servì per le diverse tipologie del cavallo impennato, a guisa di prontuario, del Rèpertoire de la sta-
tuaire grecque et romaine di S. Reinach (ed. or. 6 voll., Leroux, Paris 1897-1930).
22 G. de Chirico, cit. in De Chirico gli anni Venti cit., p. 125.
23 È utile ricordare che il cavallo con il manto di colore rosso compare nei dipinti a partire dal 1927.
24 Il cavallo in coppia con la zebra compare per la prima volta nel dipinto del 1927 pubblicato nella monografia di
Waldemar George, Giorgio de Chirico avec des fragments littèraires de l’artiste, Paris 1928. Cheval et zèbre del
1929 fu riprodotto sulla copertina del catalogo della personale all’Arts Club of Chicago.
25 J. Cocteau, Le mystère laïc. Essaie d’étude indirecte (Giorgio de Chirico) avec cinq dessins de Giorgio de
Chirico, Ed. de Quatre Chemins, Paris 1928, cit. in M. Fagiolo dell’Arco, I cavalli in riva al mare (cultura e memo-
ria), in De Chirico gli anni Venti cit., p. 124.
26 La notizia è riferita in M. Fagiolo dell’Arco, Giorgio de Chirico. Gli anni Trenta cit., p. 177.
27 Su questo tema e sulla consuetudine del pittore con il tema dei cavalli cfr. M. Fagiolo dell’Arco, La vita di Gior-
gio de Chirico, Umberto Allemandi & C., Torino 1988, p. 156.
28 “Per mio conto sono tranquillo, e mi fregio di tre parole che voglio siano il suggello d’ogni mia opera: Pictor
classicus sum.”, così si conclude l’articolo di de Chirico Ritorno al mestiere, pubblicato sulla rivista diretta da Mario
Broglio “Valori Plastici”, a. I, n. XI-XII, novembre-dicembre 1919, pp. 15-19.
29 E. Persico, Lucio Fontana, in “L’Italia Letteraria”, 4 agosto 1934, ora in E. Persico, Tutte le opere (1923-1935),
a cura di Giulia Veronesi, Edizioni di Comunità, Milano 1964, vol. I, p. 188-189.
30 E. Persico, ivi, p. 189.
31 Edoardo Persico, che era nato a Napoli l’8 febbraio del 1900, morirà l’11 gennaio del 1936.
32 E. Persico, Lucio Fontana, Edizioni di Campo grafico, Milano s.a. [1936], ora in E. Persico, Tutte le opere
(1923-1935), cit. vol. I, pp. 189-192.
33 E. Persico, ivi, p. 191.
34 Per la “Mostra dell’abitazione moderna” alla V Triennale di Milano del 1933, intitolata alla “Unità delle arti”, Fon-
tana realizzò in cemento colorato la scultura Gli amanti per la Casa del Sabato per gli sposi, progettata dallo Studio

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BBPR (Banfi, Barbiano di Belgioioso, Peressuti, Rogers) e, sempre con lo stesso materiale e tecnica, la Bagnante, per
la Villa-studio per un artista di L. Figini e G. Pollini.
In questa disposizione di unità delle arti, anche se con implicazioni simboliche di tutt’altra portata, va intesa anche
la sua collaborazione con Edoardo Persico, Marcello Nizzoli e Giancarlo Palanti per il Salone della Vittoria alla VI Trien-
nale di Milano del 1936, per il quale l’artista realizzò il gruppo scultoreo della Vittoria.
35 Manifesto blanco, Buenos Aires [ottobre-novembre] 1946; redatto da Bernardo Arias, Horacio Cazeneuve e
Marcos Friedman, sottoscritto da Pablo Arias, Rodolfo Burgos, Enrique Benito, César Bernal, Luis Coll, Alfredo Han-
sen, Jorge Rocamonte.
36 Delle diverse pubblicazioni dello storico sull’artista restano fondamentali le due edizioni del “catalogo generale”:
Lucio Fontana (vol. I, Essais par J. van der Marck et E. Crispolti, vol. II, Catalogue raisonné des peintures, sculptu-
res et environments spatiaux, rédigé par E. Crispolti), Editions La Connaissance, Bruxelles 1974; E. Crispolti, a cura
di, Fontana. Catalogo generale, Electa, Milano, 1986. Altrettanto importanti sono anche, E. Crispolti - R. Siligato, a
cura di, Lucio Fontana, cat. mostra (Palazzo delle Esposizioni, Roma), Electa, Milano 1998; E. Crispolti, a cura di, Cen-
tenario di Lucio Fontana, cat. mostre (Padiglione d’Arte Contemporanea – Triennale – Museo Diocesano – Accade-
mia di Belle Arti di Brera – Museo Teatrale alla Scala, Milano), Charta, Milano 1999.
37 G. Ballo, Lucio Fontana, in La Biennale di Venezia, Stamperia di Venezia 1958, p. 19.
38 G. Ballo, Oltre la pittura, “Azimuth”, n. 1, autunno 1959. Nella redazione di questo primo numero, Castellani
e Manzoni vennero affiancati da Vincenzo Agnetti e Agostino Bonalumi.
39 Il concorso fu poi vinto da Luciano Minguzzi.
40 L’artista che era nato a Rosario di Santa Fé, in Argentina, il 19 febbraio del 1899 si spegnerà nella clinica San-
ta Maria dell’Ospedale di Circolo a Varese il 7 settembre 1968.
41 E. Crispolti, Traccia per l’opera di Fontana, in E. Crispolti, a cura di, Fontana. Catalogo generale, Electa, Mi-
lano 1986, vol. I, p. 24.
42 E. Crispolti, ivi.
43 Cfr. E. Crispolti, a cura di, Fontana. Catalogo generale cit., vol. I, n. 60 T 24, p. 316.
44 L’attenzione per Klein è testimoniata dalla sua presenza, a fianco di altri giovani artisti, nella collezone privata di
Fontana che, con quella di Bruno Munari, fu esposta il 15 maggio del 1957 a Milano nella Galleria Blu di Peppino Pa-
lazzoli.
45 G. Zanchetti, “Un futuro c’è stato…” Anacronismo e suggestioni iconografiche in Fontana, in “L’Uomo ne-
ro. Materiali per una storia delle arti della modernità”, a. I, n. 1, giugno 2003, pp. 89-100.
46 P. Emanuelli, Il cielo e le sue meraviglie. Atlante di 150 tavole, riproduzioni di fotografie celesti ottenute
con i più grandi telescopi moderni, Ulrico Hoepli, Milano 1934. Emanuelli (Roma 1889-1946) ha affiancato all’atti-
vità specialistica come docente all’Università di Roma e all’Università per stranieri di Perugia, quella divulgativa sulle pa-
gine del “Corriere della Sera” e attraverso i microfoni dell’EIAR.
47 G. Zanchetti, “Un futuro c’è stato”, cit. p. 98.

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