«A nessuno piacerebbe sentir raccontare solamente di case che crollano l’una dopo l’altra, del terrore
per l’incendio che si propaga o della paura per l’acqua, dell’oscurità, dei saccheggi, dei lamenti dei feriti e
di chi cerca i propri cari. E d’altro canto, sono proprio queste cose che ricompaiono – pressoché identiche
– in qualsiasi catastrofe naturale».
Così, il 31 ottobre del 1931, Walter Benjamin ai microfoni del Berliner Rundfunk.
Benjamin era stato chiamato a tenere un ciclo di trasmissioni radiofoniche di venti
minuti dedicate ad alcuni grandi disastri della storia: Ercolano e Pompei, l’incendio del
teatro di Canton e il terremoto di Lisbona. Le parole che ho citato si riferivano proprio a
quest’ultima catastrofe.
I disastri, era il punto di partenza del suo ragionamento, sembrano tutti uguali.
Tuttavia, Benjamin si soffermò in particolare sul terribile terremoto del novembre 1755
*Testo dell’intervento presentato al convegno privo di note e di riferimenti bibliografici. Da non citare senza il consenso dell’autore.
perché lo considerava – a ragione - uno spartiacque epocale. Lisbona infatti non fu una
catastrofe come tutte le altre. Fu, a detta di tutti, qualcosa di «unico e sorprendente».
Per Benjamin questa peculiarità non risiede dalla forza distruttiva sprigionata dalla
natura né dagli impressionanti racconti di coloro che sopravvissero miracolosamente al
sisma. Il terremoto di Lisbona fu uno spartiacque per via della sua vicinanza. Per usare le
sue parole, esso non era avvenuto infatti in qualche località sperduta dell’Asia o del Sud
America né «all’ombra dei grandi vulcani come il Vesuvio e l’Etna, che, complice l’ampia
tradizione classica sull’argomento, da Aristotele a Plinio, [lo] rendevano […] una
componente in una certa qual misura familiare per chi, da oltre le Alpi, intraprendeva il
viaggio in Italia, sperimentando nelle scosse e nel panorama diroccato delle rovine una
sorta di espressione, terrificante ma anche pittoresca, del genius loci mediterraneo». No.
«Lisbona […] era l’Europa oceanica della nascita del mercato e della grande espansione
verso il Nuovo Mondo, apparteneva al centro atlantico della civiltà e dei commerci».
Insomma: «Dire Lisbona distrutta», ricordò Benjamin ai radioascoltatori «era per
quell’epoca, un po’ come dire oggi, per noi, Chicago o Londra distrutte».
Fu l’avvento della stampa popolare a segnare l’inizio dell’epoca d’oro della cronaca dei
disastri. Al pari dei più efferati delitti di cronaca nera, le catastrofi furono al centro di una
crescente produzione che le ricostruiva nei minimi dettagli, spesso romanzando o
distorcendo la realtà, indugiando nella descrizione degli atti eroici, dei dettagli più
truculenti o sottolineando i risvolti più toccanti. Il loro successo derivò in massima parte
dal fatto che, a differenza dei romanzi a puntate o della letteratura fantastica o di
evasione, non si trattava di finzione ma di storie vere, sia pure, come detto,
opportunamente drammatizzate.
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La “mediatizzazione” della catastrofe naturale avveniva prevalentemente ricorrendo a
linguaggi che attingevano alla tradizione del passato più o meno recente (penso ai canard
francesi, precursori dei grandi fogli illustrati popolari) ma anche veicolata da alcune
figure relativamente nuove come quella dell’inviato speciale.
Un paio di esempi.
«Mercoledì mattina alle cinque e un quarto» – scrisse London – «c’è stato il terremoto. Un
minuto dopo si sono levate alte le fiamme. In una decina di quartieri a sud di Market Street, nei
bassifondi della classe operaia e nelle fabbriche sono divampati gli incendi. Non c’è stato niente che si
opponesse alle fiamme. Non c’è stata organizzazione, non c’è stata comunicazione. Tutti gli accorti
ingranaggi di una città del XX secolo erano stati annientati dal terremoto. Le strade si erano deformate,
inarcandosi e infossandosi, e si erano riempite di mucchi di detriti caduti dai muri. Le rotaie d’acciaio si
erano piegate ad angolo retto o torte su se stesse. Erano crollate le linee del telefono e del telegrafo. Ed era
esplosa la rete idrica. Tutte le ingegnose invenzioni e dispositivi di sicurezza creati dall’uomo erano stati
messi fuori uso da una contrazione della crosta terrestre durata trenta secondi».
Un altro esempio. Un altro terremoto. Quello di Yokohama del settembre 1923 (circa
100.000 morti).
«Fate frasi brevi. Fare paragrafi iniziali brevi. Usate un inglese energico. Fate
affermazioni non negazioni». Fu attenendosi a queste semplici ma efficaci regole
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giornalistiche che Ernest Hemingway raccolse per i lettori del Toronto Daily Star la
testimonianza di una sopravvissuta. In quell’articolo le domande del cronista (e che
cronista) sono semplici («che cosa faceva la gente?» «Come si comportava?») non banali
come quelle pronunciate da qualche inviato televisivo o radiofonico di oggi in cerca di
sensazionalismo (la più scontata e agghiacciante pronunciata in questi casi è: «che cosa
sta provando in questo momento?»). In questo pezzo l’inviato è come invisibile («non ci
sono giornalisti in questa storia», scrive Hemingway). Il reporter non cede al
protagonismo, è soltanto lo strumento che consente al testimone di dialogare con il
lettore. Di raccontargli la sua storia.
Tuttavia, le grandi firme del giornalismo o della letteratura più che a raccontare
l’evento catastrofico in sé sono chiamate a commentare l’accaduto, a presentarlo al
lettore mediato non solo dal mezzo espressivo utilizzato ma anche dalla loro particolare
sensibilità.
Per il semplice cronista, sia esso della carta stampata, della radio e poi della televisione,
chiamato invece prima di tutto ad informare, le cose sono più complicate. Il rischio di
cedere alla retorica del disastro è costantemente dietro l’angolo, dal momento che «il
caso eccezionale si presenta [sempre] come anomalia informativa, iperbole ed innovazione al
tempo stesso, assumendo il carattere di evento spiazzante, anche rispetto ai tradizionali
stereotipi sensazionali». In questi casi, «il problema principale diventa quello di
ricontestualizzare l’evento il più rapidamente possibile e di orientarne la valenza politica
e culturale».
«Gli eventi di grande portata che toccano il destino di tutti gli uomini» - scrisse Kant
un anno dopo il terremoto di Lisbona - «suscitano a buon diritto quel genere
apprezzabile di curiosità che è destata da tutto ciò che è straordinario e che si volge a
indagare le cause che lo hanno prodotto». Ogni volta che assistiamo al grandioso e nel
contempo terrificante spettacolo della forza della natura proviamo stupore, timore
reverenziale (se non terrore) e curiosità.
Ma quando l’emergenza è finita, nel momento poi in cui cioè la polvere delle macerie
si è posata, lo sbigottimento si attenua ed entrano in gioco altre variabili emozionali.
Emergono altri interrogativi. Uno su tutti: perché? Come può essere accaduto?
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Ecco allora che si rende necessaria la figura dell’esperto. Così come la sensibilità delle
civiltà antiche e preindustriali si rivolgeva allo sciamano, al mistico-guaritore, al
sacerdote, la sensibilità moderna, che per quanto tecnologizzata è in realtà alla ricerca
delle medesime risposte, si affida al filosofo, allo psicologo, all’intellettuale perché
interpretino (e quindi esorcizzino) l’arcano che si cela dietro certe manifestazioni naturali
estreme.
Questo perché una catastrofe scuote nel profondo le più elementari certezze, attiva
meccanismi fisiologici (l’amìgdala, il nostro “cervello di lucertola”) che riportano alla
luce le paure più nascoste e gli istinti più antichi rendendo spesso inutili le spiegazioni o i
comportamenti razionali.
Il più delle volte, durante e dopo le catastrofi, la gente prega o comunque cerca
conforto nella religione. L’irrazionale, il trascendente riemerge. Anche nelle società più
secolarizzate e razionalistiche. Anzi, in questi contesti il recupero di una dimensione
spirituale può essere persino letto come una sorta di reazione al “tradimento” della
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scienza e della tecnologia verso le quali si era fino a quel momento nutrito una fiducia
eccessiva.
C’è poi quello che potremmo definire il risvolto negativo della «cultura del controllo»
che caratterizza le nostre società. Una cultura che, sovrastimando la scienza e la tecnica,
molto spesso pretende «il rischio zero, anche se il rischio zero non esiste». Si tratta di un
approccio sbagliato, egualmente irrazionale, addirittura pericoloso, di porsi in rapporto ai
disastri. La cieca fiducia nella scienza può insomma crollare improvvisamente nel
momento in cui questa, caricata di eccessive aspettative, sembra non soddisfarle. Pensate
alle polemiche, anche giudiziarie, che sono seguite al terremoto in Abruzzo e che hanno
coinvolto esperti e protezione civile ma che sono le stesse ogni qual volta si ha a che fare
con un sisma. Le domande sono ricorrenti: gli “scienziati”, i tecnici hanno sottovalutato
lo sciame sismico che ha preceduto la scossa più devastante? Le autorità hanno adottato
fino in fondo il principio di precauzione? Ma soprattutto: il terremoto poteva essere previsto?
C’è però un rischio, dietro l’angolo. Quello dell’oblìo. Perché le paure sociali nascono,
raggiungono il loro culmine, magari alimentando a loro volta un «corteo» di altre paure, e
poi spariscono. Salvo poi riemergere a distanza di tempo, magari di qualche generazione.
Ecco che allora diventa importante, forse decisiva, proprio la questione del come le
società tramandano il ricordo di una catastrofe.
«La Natura non conosce catastrofi» ha detto Max Frisch, a significare che le catastrofi,
in quanto tali, non esistono se non in rapporto all’uomo e alla sua società. La percezione
di un disastro dipende dal grado di sviluppo di una società ma è anche e soprattutto un
fattore culturale.
Non è questa la sede, ma prima o poi sarebbe interessante parlarne, di discutere delle
competenze che dovrebbe possedere, dei modi attraverso i quali dovrebbe operare e
degli strumenti e delle fonti a cui dovrebbero attingere figure – tutte nuove e tutte da
inventare – come quelle del “disastrologo” o del “chindunologo”. Quello che vorrei
porre come possibile tema di discussione è che anche in questo come in altri ambiti,
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l’approccio comparativo e l’interdisciplinarietà risultano probabilmente due vere e
proprie pietre angolari.
Chi si cimenta in questo settore di studi deve inoltre tenere presente il fatto che eventi
particolarmente estremi possono rendere improvvisamente labile «il confine tra fantasia
e realtà» e risvegliare quei meccanismi psicologici infantili di autodifesa che di fronte al
riemergere di fantasie e di paure ancestrali inducono, in un estremo tentativo di
proteggersi dal loro stesso ricordo, alla rimozione individuale e collettiva.
C’è poi un altro fattore che, come dire, congiura contro la memoria delle catastrofi e
che è di nuovo una sorta di inconscia reazione di difesa alle paure che queste catastrofi
accendono.
In un bel libro di qualche anno fa dedicato ai temi del rischio e della sicurezza,
Wolfgang Sofsky parla della «voglia di normalità» che segue ogni evento catastrofico e di
come, a ben guardare, «l’affermazione secondo cui la gente impara molto dalle catastrofi»
non sia altro che «un pio desiderio»:
«La disgrazia dei padri è dimenticata dai figli. Ogni generazione deve fare la propria esperienza di
sventura».
Che dire, allora? L’ottimismo della volontà va sempre coltivato e promosso, specie in
riferimento ad eventi catastrofici. Se però questa predisposizione mentale viene esercitata
senza che segua una meditata riflessione sull’accaduto e senza un costante richiamo alla
memoria come primo strumento di prevenzione – insomma: senza che si ricorra anche al
proverbiale pessimismo della ragione – sono guai.
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