Bullismo a scuola
Recentemente è stato diffuso uno studio della Federazione Italiana Società di
Psicologia (Fisp), in cui è stato affrontato il possibile ruolo dello psicologo per
quanto riguarda il bullismo a scuola. Secondo indagini Istat sui comportamenti
offensivi e violenti tra i giovanissimi, nel 2014, più del 50% degli 11/17enni è
stata vittima di un episodio offensivo, irrispettoso e/o violento da parte di
coetanei.
I comportamenti violenti che caratterizzano il bullismo sono i seguenti:
– Offese, parolacce e insulti;
– Derisione per l’aspetto fisico o per il modo di parlare;
– Diffamazione;
– Esclusione per le proprie opinioni;
– Aggressioni fisiche.
Per gli psicologi si tratta di una vera e propria emergenza, che può essere
contrastata a partire dall’intervento a scuola.
Cyberbullismo
Il cyberbullismo è definito come un atto aggressivo, intenzionale condotto da un
individuo o un gruppo usando varie forme di contatto elettronico, ripetuto nel
tempo contro una vittima che non può facilmente difendersi (Smith, P. K., del
Barrio, C., & Tokunaga, R. S., 2013). Esso ha però delle caratteristiche
identificative proprie: il bullo può mantenere nella rete l’anonimato, ha un
pubblico più vasto, ossia il Web, e può controllare le informazioni personali della
sua vittima.
La vittima al contrario, può avere delle difficoltà a scollegarsi dall’ambiente
informatico, non sempre ha la possibilità di vedere il volto del suo aggressore, e
può avere una scarsa conoscenza circa i rischi insiti nella condivisione delle
informazioni personali su Internet (Casas, Del Rey, Ortega-Ruiz, 2013; Smith, P.
K., del Barrio, C., & Tokunaga, R. S., 2013. Definitions of bullying and
cyberbullying: How useful are the terms. Principles of cyberbullying research:
Definitions, measures and methodology, 26-45; Casas, J. A., Del Rey, R., &
Ortega-Ruiz, R. (2013). Bullying and cyberbullying: Convergent and divergent
predictor variables. Computers in Human Behavior, 29(3), 580-587).
Proprio per queste maggiori difficoltà da parte della vittima, talvolta essa può
arrivare a compiere atti davvero tragici. Una recente ricerca ha cercato di
studiare meglio il fenomeno del suicidio adolescenziale e se effettivamente
l’associazione cyberbullismo – suicidio adolescenziale sia statisticamente
significativa quanto si crede. Gli autori dello studio hanno così concluso che
il cyberbullismo è un fattore presente in alcuni suicidi, ma quasi sempre ci
sono altri fattori come la malattia mentale o la presenza di altre forme
di bullismo, come quello faccia a faccia. Il cyberbullismo in genere rientra nel
contesto del normale bullismo.
I segnali che possono aiutare un genitore a capire se il proprio figlio è vittima
di cyberbullismo sono i seguenti:
– Utilizzo eccessivo di internet.
– Chiudere le finestre aperte del computer quando si entra nella camera.
– Rifiuto ad utilizzare Internet.
– Comportamenti diversi dal solito.
– Frequenti invii attraverso Internet dei compiti svolti.
– Lunghe chiamate telefoniche ed omissione dell’interlocutore.
– Immagini insolite trovate nel computer.
– Disturbi del sonno.
– Disturbi dell’alimentazione.
– Disturbi psicosomatici (mal di pancia, mal di testa, ecc).
– Mancanza di interesse in occasione di eventi sociali che includono altri
studenti.
– Chiamate frequenti da scuola per essere riportati a casa.
– Bassa autostima.
– Inspiegabili beni personali guasti, perdita di denaro, perdita di oggetti personali.
Il cyberbullismo non caratterizza solo gli adolescenti, purtroppo anche gli adulti
risentono di tale fenomeno, in particolare sul luogo di lavoro. Uno studio, che ha
coinvolto ricercatori della University of Sheffield e della Nottingham University, ha
evidenziato come su 320 persone che hanno risposto al sondaggio del loro
studio, circa otto su dieci aveva vissuto comportamenti di cyberbullismo almeno
una volta negli ultimi sei mesi. I risultati hanno anche mostrato che un 14-20 per
cento li ha vissuti almeno una volta alla settimana, con un’incidenza simile
al bullismo tradizionale.
Autostima e bullismo
Pare che anche il valore e la stima che attribuiamo a noi stessi possano in
qualche modo avere un suo peso nei fenomeni di bullismo. Ma relativamente
alla relazione tra autostima e bullismo, i dati forniti dalla letteratura appaiono in
parte contraddittori.
La maggior parte degli studi condotti nel settore si trova concorde nel sostenere
che i bambini vittime di bullismo soffrono di scarsa autostima, hanno
un’opinione negativa di sé e delle proprie competenze (Menesini, 2000).
Capita infatti molto spesso che i bambini tiranneggiati dai compagni mettano in
dubbio il proprio valore, precipitando in stati di ansia e frustrazione.
Essi talvolta diventano anche un obiettivo di attrazione per il bullo, in quanto non
sanno come affrontarlo. Tendono a vedere sconfitte temporanee come
permanenti e molto frequentemente accade che qualcun altro (psicologicamente
più forte) prenda su di loro il sopravvento.
A differenza delle vittime, i bulli appaiono spesso caratterizzati da
un’alta autostima. Sembrano molto ottimisti, e riescono quindi a gestire molto più
facilmente i conflitti e le pressioni negative, ed è per questo motivo che riescono
facilmente a coinvolgere dei seguaci nelle loro azioni di prepotenza (Menesini,
2000).
Una ricerca di Salmivalli del 1999 ha indagato l’autostima a 14 e 15 anni e i
risultati hanno evidenziato che i bulli hanno un’autostima più alta della media,
combinata a narcisismo e manie di grandezza.
Un ulteriore studio condotto da Caravita e Di Blasio ha evidenziato che
i bulli sono solitamente dei soggetti popolari, e ciò ha portato le autrici a
ipotizzare che la popolarità potrebbe condurre ad un innalzamento dell’autostima
e all’adozione di condotte aggressive, in quanto il soggetto non avrebbe alcun
timore di confrontarsi o di essere sanzionato dal gruppo di pari (Caravita, Di
Balsio, 2009).
Comunque questi dati sono stati più volte smentiti, in quanto il fatto che
i bulli percepiscano se stessi come ben visti non vuol dire che essi realmente lo
siano. Spesso accade che le persone che hanno un comportamento da bullo si
mostrano come superiori e potenti, ma in realtà essi non pensano questo di se
stessi. Potrebbe accadere che i bulli usino il comportamento aggressivo solo al
fine di spaventare gli altri bambini, e non perché vogliono essere rispettati
(Randall, 1995).
Uno studio condotto su ragazzi di 12 e 13 anni ha messo in luce che in realtà
i bulli non sono molto popolari, anche se sono sicuramente più popolari rispetto
alle vittime (Salmivalli, 1996).
Luthar e McMahon (1996) pensano che la popolarità tra i pari sia collegata sia
alla prosocialità che al comportamento aggressivo in adolescenza. I bambini
aggressivi (bulli inclusi) tendono a sovrastimare le proprie competenze, e i
bambini che sovrastimano la loro accettazione sociale sono spesso quelli più
nominati dai loro pari come aggressivi.
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I dati che supportano l’asserzione che i bulli hanno una positiva percezione di
sé, ritengono che essa è spesso inconsistente. Per esempio Salmivalli (1998) ha
trovato nei bulli un’alta autostima per quanto riguarda le relazioni interpersonali
e l’attrazione fisica, ed una bassa autostima per quanto riguarda l’ambito
scolastico, quello familiare, quello del comportamento e quello delle emozioni
(Salmivalli, 2001). È ciò che si verifica ad esempio quando il bullo è grande e
forte ma colleziona continui insuccessi scolastici (Oliverio Ferraris, 2006). Dal
medesimo studio è emerso anche che le vittime hanno bassi punteggi in quasi
tutti gli aspetti dell’autostima. Vi sono comunque soggetti vittimizzati che hanno
dimostrato di possedere una buona stima di sé, soprattutto in ambito familiare.
Un ulteriore studio ha investigato due ipotesi: un’alta autostima porta i bambini a
mettere in atto pensieri antisociali (ipotesi dell’attivazione); un’alta autostima
porta i bambini a razionalizzare le condotte antisociali nei loro confronti (ipotesi
della razionalizzazione). I risultati supportano pienamente la seconda ipotesi, e
solo in parte la prima. Ciò appare da un lato positivo, in quanto emerge che quei
bambini che presentano un’alta autostima, pur non essendo molto popolari,
riescono bene a razionalizzare le condotte antisociali. D’altro canto però, per
quei bambini che hanno una tendenza verso l’aggressività, l’avere un’alta
autostima potrebbe presentare un problema, in quanto contribuirebbe ad
aumentare le loro condotte antisociali (Corby, Hodges, Menon, Perry, Tobin,
2007).
Una ricerca condotta da Marsh nel 2001 ha messo in luce che i fattori di
aggressività scolastica e quelli di vittimizzazione sono associati a tre componenti
del sé: autostima generale, relazioni con lo stesso sesso e relazioni con l’altro
sesso. Più nel dettaglio, la vittimizzazione correla negativamente con il concetto
di sé ed ha effetti negativi sullo sviluppo dell’autostima. Per quanto riguarda
l’aggressività, essa correla ugualmente in modo negativo con il concetto di sé, e
ha pochi effetti positivi sullo sviluppo dell’autostima. Un basso concetto di sé può
quindi condurre a un comportamento aggressivo e alla vittimizzazione, e può
successivamente avere conseguenze sullo sviluppo dell’autostima. Tali esiti
sono indipendenti dagli effetti di genere (Marsh et al. 2001).
loro per varie ragioni: gelosia verso colleghi più capaci, necessità di alleviare lo
stress da lavoro oppure per trovare un capro espiatorio su cui far ricadere le
disorganizzazioni lavorative.
(Leymann Heinz. The content and development of mobbing at work. European
Journal of Work and Organizational Psychology. (1996). 5, 165184)
Una recente indagine sul lavoro in Europa risalente al 2012, segnala che il 14%
dei lavoratori europei è stato vittima di comportamenti vessatori sul luogo di
lavoro. Tuttavia, è difficile definire un comportamento vessatorio isolandolo dal
contesto lavorativo in cui viene messo in atto, ed è proprio per questo motivo che
è importante sottolineare che molti dei comportamenti definiti ‘vessatori‘, sono
tali perché fanno parte di un disegno più grande, che ha l’obiettivo di ledere
la vittima del mobbing sul lavoro.
Per definire la presenza di mobbing, sono infine molto importanti i due parametri
di durata e frequenza. Indicativamente, Leymann ha fissato 6 mesi minimi di
soglia per potersi riferire al fenomeno. Per quanto riguarda la frequenza
dei comportamenti vessatori è importante individuarne la sistematicità,
nonostante non sia possibile fissare un indice di occorrenza ben preciso.
Sitografie: https://www.stateofmind.it/tag/bullismo/