Sei sulla pagina 1di 189

Maurizio Giuliani

Lezioni di
Chirurgia Plastica

Hanno collaborato:
G. Zoccali
G. Orsini
E. R. Angelone
Presentazione
Questo libro, preparato con l’obiettivo di presentare i concetti essenziali della
Chirurgia Plastica, in modo semplice e chiaro, potrà garantire agli studenti
un’adeguata preparazione nello specifico ambito chirurgico di riferimento,
riuscendo anche a mettere in evidenza, laddove necessario, i richiami a
discipline di base come la biologia, l’anatomia, la fisiologia. Alla luce della
costante evoluzione delle scienze biomediche che ha comportato una
rivisitazione completa e complessa della medicina, mantenere questo proposito
è stato realmente un formidabile impegno da parte dell’Autore.
La scienza non è statica e l’aggiornamento è un aspetto fondamentale che
deve essere condiviso dagli esperti di un settore particolarmente dinamico come
quello della Chirurgia Plastica e dagli studenti che devono comprendere la
necessità di raggiungere costantemente nuovi gradi di apprendimento.
Nel complimentarmi sinceramente con l’Autore, Maurizio Giuliani, Professore
di Chirurgia Plastica della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università
dell’Aquila, per la capacità di sintesi e, nel contempo, la completezza degli
argomenti trattati, sono certa che gli studenti e gli specializzandi che
utilizzeranno questo testo, sapranno apprezzare il senso armonico che emerge
dall’analisi degli argomenti affrontati e la particolare fluidità della loro
lettura, condizioni che rendono semplice e gradevole lo studio di una
specialistica complessa come la Chirurgia Plastica.

Maria Grazia Cifone


Preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia
Università degli Studi - L’Aquila
INDICE

1. Introduzione pag. 1
2. Anatomia e fisiologia della cute pag. 5
3. Biologia della cicatrizzazione pag. 11
4. Incisioni chirurgiche e suture pag. 18
5. Le ferite difficili pag. 24
6. Cicatrici patologiche pag. 36
7. Innesti e lembi pag. 39
8. Ustioni e congelamenti pag. 55
9. Tumori maligni della cute pag. 69
10. Anomalie vascolari pag. 76
11. Malformazioni congenite pag. 86
12. Patologie della mano pag. 99
13. Patologie della mammella pag. 106
14. Lesioni da radiazioni ionizzanti pag. 123
15. Laserchirurgia cutanea pag. 126
16. L’invecchiamento cutaneo pag. 135
17. Argomenti di Chirurgia Estetica pag. 145
18. Principi di Anestesia pag. 160
Introduzione

CENNI STORICI

Le origini della chirurgia in Italia trovano le loro radici in due


discendenze: il ramo greco con le scuole della Magna Grecia, di cui è
giusto ricordare la scuola di Agrigento (Empedocle), di Catania
(Filistone) e di Crotone (Alcmeone e Democede) ed il ramo etrusco
di cui si sa poco e niente ma che sicuramente doveva avere valenti
chirurghi a giudicare dagli strumenti estremamente raffinati
ritrovati dagli archeologi. Da queste due culture trae le sue origini la chirurgia
dell'antica Roma che per diversi secoli non conobbe gloria per la bassa considerazione
che i Romani avevano della medicina in generale a tal punto che l’esercizio era
lasciato agli schiavi greci ed ai plebei. Successivamente Giulio Cesare diede i diritti
politici ai medici e più tardi l'imperatore Augusto incrementò il loro stato sociale
esentandoli dal pagamento delle tasse. In questo periodo troviamo il primo lavoro
che parla di Chirurgia Plastica: il "De re medica" di Aulo Cornelio Celso (25 a.C. – 50
d.C.) nel quale sono descritti alcuni principi fondamentali della specialità ovvero
osservazioni sulla tensione dei margini della ferita (“…non vi cogendum est...”) e
sull'uso di lembi per riparare perdite di sostanza tegumentarie ("...neque enim
creatur ibi corpus, sed ex vicino adducitur..."). Durante il periodo imperiale la
chirurgia venne fortemente stimolata come testimoniano i ritrovamenti nella "Casa
del chirurgo" di Pompei e nel II secolo Galeno (131-199 d.C.) scrisse un trattato di
medicina in 20 volumi nei quali si ritrovano anche attente dissertazioni sul labbro
leporino e sulla ipospadia. Nel secolo successivo fu molto popolare Antillo e con le
testimonianze di Oribasio (medico dell'imperatore Giuliano l'Apostata), sappiamo che
erano praticati con successo interventi sulle palpebre, guance, fronte e naso secondo
i principi codificati da Celso. Dopo la caduta dell'Impero Romano d'Occidente, e l'
avvento della cultura bizantina, compaiono i primi ospedali e tra i medici spicca
Paolo di Aegina (625-690) che riprende i concetti di Celso per riparare l'ernia
inguinale. Ma in questo periodo l'influenza della Chiesa inasprisce la separazione ed il
conflitto fra medicina e chirurgia: da un lato il concetto di compassione per il malato
e la reverenza a Cristo come Taumaturgo fanno aumentare la cura per il paziente,
dall'altro la disapprovazione della Chiesa per le incisioni sanguinarie ("...ecclesia

1
Introduzione

abhorret a sanguine...") frenano il settore chirurgico. I secoli successivi,


caratterizzati dai conflitti fra le culture Cristiana, Bizantina ed Araba, sono segnati
da una forte riduzione del fervore scientifico ma la rinascita delle arti mediche
avviene intorno all'anno 1000 con la fondazione della Scuola Medica di Salerno.
Costantino d'Africa, un monaco arrivato a Salerno nel 1060, dà un nuovo impulso alla
chirurgia insieme a Ruggero di Parma e Rolando dei Capezzuti che scrivono la
"Rogerina" e la "Rolandina" dove trattano, fra l'altro, della riparazione delle soluzioni
di continuo dei tessuti molli del viso e della importanza delle suture nelle ferite della
faccia e del naso. Nascono le prime Università: Teodorico da Lucca opera a Bologna
(1205) e analizza nei suoi scritti la differenza fra “guarigione per prima e per
seconda intenzione” mentre Guglielmo da Saliceto (1301) si sofferma sul trattamento
delle fratture del naso. Un allievo di quest' ultimo, Lanfranco da Milano, scrive due
volumi, "Chirurgia parva" e "Chirurgia magna", riprendendo le tecniche riparative del
naso del maestro, e fonda la Scuola di Chirurgia dell'Università di Parigi. Si arriva così
al XV secolo quando una famiglia di chirurghi empirici, i Branca, lavora a Catania:
sembra che il padre, Gustavo, praticasse la ricostruzione della piramide nasale con la
tecnica di Celso, mentre suo figlio Antonio con un lembo prelevato dalla faccia
interna dell'avambraccio del paziente diventando il primo ad usare una tecnica
Italiana per la ricostruzione del naso, del labbro e delle orecchie. L'eco di questo
successo fu enorme, sia in Italia che all'estero: se ne trova riferimento, ad esempio,
in un trattato del 1460 di Heinrich von Pfholsprundt, un famoso chirurgo militare
tedesco. Un membro della famiglia Vianeo, di Tropea in Calabria, fu allievo dei
Branca e divenne così esperto nell'uso della metodica da far coniare il termine di
"magia tropoensium". Negli anni successivi, sulla chirurgia ricostruttiva, la Scuola
italiana continua a raccogliere successi e riconoscimenti con Gaspare Speranza
Manzoli (1410-1475), Alessandro Benedetti, Baldassarre Pavone di Catania, Leonardo
Fioravanti, Giulio Cesare Aranzio anatomista dell'Università di Bologna, Geronimo
Fabrizio d'Acquapendente (1537-1619), anatomista e chirurgo di Padova, Durante
Sacchi di Fabriano che nel lavoro "Subsidium medicinae" descrive molte tecniche per
il labbro leporino e per la rinoplastica. Tutto questo fermento culturale, in un'epoca
ricca di genio umano, spianano la strada all'opera del Tagliacozzi, che vide la luce
nel 1597, e che venne riassunta in una frase del grande Leonardo da Vinci: "La forma
è l'immagine plastica della funzione". Questo può ancora oggi essere considerato lo
scopo della Chirurgia Plastica. Gaspare Tagliacozzi nacque a Bologna nel febbraio del
1545. Suo padre, Giovanni Andrea, era un tessitore di raso finanziariamente
benestante. Nel 1565 inizia gli studi in Medicina all'Università di Bologna, già allora

2
Introduzione

venerata come la più antica d'Europa, e si forma con gli insegnamenti, fra gli altri, di
G.C. Aranzio e sul voluminoso trattato di Andreas Vesalius "Il tessuto del corpo
umano". Nel 1570 si laurea e viene immediatamente nominato professore di anatomia
e chirurgia e nel 1576 riceve la seconda laurea, in Filosofia, diventando membro del
Collegio di Medicina e Filosofia. Lo studio e la ricerca delle tecniche di ricostruzione
del naso erano già state fortemente stimolate in Italia da diversi fattori: le guerre, i
duelli all'arma bianca per le strade, la sifilide e la legge di Sisto V che infliggeva
l'amputazione del naso ai ladri ed alle donne adultere. Qualunque fosse l'influenza,
Tagliacozzi dal 1586 in poi approfondì questi studi con forte spirito critico,
evidenziando gli errori dei suoi predecessori sull'uso del muscolo dell'avambraccio e
respingendo le critiche di Ambroise Paré che lo definiva un intervento troppo
doloroso e difficile. Il lavoro di Tagliacozzi culmina nel 1597 con la pubblicazione del
suo "De curtorum chirurgia per insitionem" che può essere considerato una pietra
miliare nella storia della Chirurgia Plastica mondiale. Il libro divenne rapidamente un
best-seller chirurgico dell'epoca e Gaspare Tagliacozzi era al culmine della notorietà
nelle alte sfere accademiche ma nel 1599, all'età di soli 54 anni, morì
improvvisamente, lasciando alle sue spalle una pesantissima eredità. Di fatto il suo
brillante genio giacque sepolto per più di 2 secoli prima di essere riscoperto. Come
tutti gli uomini di grande intelletto, aveva avuto grandi intuizioni ed era proiettato
nel futuro. Nonostante fosse scoraggiato da tutti, perseguì le proprie idee aprendo la
strada a nuove frontiere chirurgiche fino ad allora impensabili e ponendo le
fondamenta della moderna chirurgia ricostruttiva. Dopo il grande fermento
scientifico culminato con le opere di Tagliacozzi, la Chirurgia Plastica Italiana
conobbe un lungo periodo di oscurantismo che durò più di 2 secoli a causa
soprattutto di osteggiamenti di stampo etico e religioso da parte della Chiesa
Cattolica che considerava questo tipo di chirurgia non necessaria, voluttuaria e
"peccaminosa". Verso la fine del XVIII secolo, e per tutto il XIX, si assiste ad una lenta
e graduale ripresa della specialità con Giuseppe Costantino Carpue, Canella,
Signoroni, Fabrizi, Baroni, Petrali, Clementi, Cappelleti, Vanzetti, Fuschini,
Veronese, Chiminelli e Porta. Si arriva così agli inizi del XX secolo quando compare
un'altra pietra miliare della storia della chirurgia plastica: Gustavo Sanvenero
Rosselli. Il Chirurgo nacque in Liguria nel settembre del 1897, nel 1926 lasciò la
Clinica Chirurgica diretta da Malan a Torino per trasferirsi a Parigi da Lemaitre dove
conobbe Ferris Smith. Ebbe frequenti contatti con Joseph a Berlino, Burian a Praga,
Gillies a Londra, Morestin, Limberg e molti altri. Alla fine raggiunse Milano dove
rilevò il Dipartimento di Stomatologia. Nel 1932 scrisse il libro "La chirurgia plastica

3
Introduzione

del naso", nel 1934 "La divisione congenita del labbro e del palato". Nel 1936, a
Berlino, propose una nuova tecnica di riparazione della palatoschisi e durante la
Seconda Guerra Mondiale operò al Baggio di Milano ed a Lecco con Bosio e Castoldi.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale trasformò il Dipartimento di Stomatologia e fondò
il "Padiglione Mutilati del Viso" ideato per le vittime della guerra. Grazie al suo
entusiasmo la specialità acquisì definitivamente la propria identità, sebbene
nell’immaginario collettivo vi fosse ancora diffidenza e si tentasse di gettare
discredito sulla disciplina chiamandola "la chirurgia della bellezza". Nel 1956 fondò in
Italia la prima Scuola di Specializzazione, prima a Torino e poi a Milano e grazie a
questo la chirurgia plastica ricevette il riconoscimento ufficiale, raggiunse dignità
scientifica e divenne materia di insegnamento. Gustavo Sanvenero Rosselli morì il 17
marzo del 1974, lasciando ai posteri la disciplina che aveva tanto amato,
profondamente trasformata dalle sue opere. Fu un chirurgo di eccezionale abilità
tecnica, dotato di creatività ed immaginazione, uomo di grande cultura e di grande
perseveranza nel raggiungimento dei propri scopi. Fu un grande pioniere della
moderna Chirurgia Plastica e gli specialisti italiani contemporanei si devono
considerare tutti suoi figli o nipoti.

4
Anatomia e fisiologia della cute

ANATOMIA E FISIOLOGIA DELLA CUTE

La cute è un organo del corpo


umano dotato di un’ampia
gamma di funzioni che esulano
dalla semplice funzione di
rivestimento e protezione
meccanica. La sua estensione
media varia da 1,3 a 2m², il suo
peso può arrivare anche ad una
decina di Kg, il suo spessore è
compreso tra 0,4mm nelle
regioni palpebrali e 3-6mm in quelle palmo-plantari. Il colore della cute è
dipendente da fattori individuali (razza, costituzione, età, regione corporea) ed è
determinato dalla presenza di pigmenti (melanina, carotenoidi) e dalla quantità di
sangue contenuta nei vasi. La superficie cutanea non appare levigata. Vi si osservano
pieghe permanenti (pieghe genitali) e transitorie (da contrazione muscolare o
articolare), orifizi dei follicoli piliferi e delle ghiandole eccrine (pori sudoripari),
creste e solchi riscontrabili a livello palmo-plantare. Le creste appaiono come
leggere rilevatezze a disposizione parallela separate da piccole depressioni dette
solchi. Peculiari caratteristiche meccaniche della cute sono la distensibilità e
l’elasticità. La cute è divisa in due strati separati da una membrana (membrana
basale o giunzione dermo-epidermica). Lo strato superficiale di natura epiteliale e di
derivazione ectodermica è detto epidermide, mentre lo strato profondo, di origine
mesodermica e struttura connettivale, è costituito dal derma e dal tessuto adiposo
sottocutaneo. La presenza nel derma di vasi, nervi ed annessi cutanei (follicoli
pilosebacei, ghiandole apocrine, ghiandole eccrine) completa il quadro microscopico
della cute.
L’epidermide è un epitelio pluristratificato in cui l’elemento cellulare predominante
è il cheratinocita, cellula di origine epiteliale in continuo rinnovamento e soggetta al
fenomeno della cheratinizzazione.
I cheratinociti si dispongono a formare quattro diversi strati: basale, spinoso,
granuloso e corneo; nelle regioni palmo-plantari tra gli strati granuloso e corneo è
presente un quinto strato denominato lucido. Ognuno di questi possiede delle

5
Anatomia e fisiologia della cute

caratteristiche morfologiche proprie e rappresenta la fase evolutiva del sottostante


strato. Il cheratinocita, infatti, si riproduce e migra progressivamente dalla sede
basale verso la superficie cutanea subendo il processo della cheratinizzazione. Il
tempo necessario affinché una cellula dello strato basale raggiunga lo strato corneo
dipende dall’età, dalla stagione, dal sesso, da influenze ormonali, ed è di circa 28
giorni. Interposte ai cheratinociti si osservano poi le “cellule ospiti” dell’epidermide,
tra cui vengono annoverate i melanociti, di derivazione neuroectodermica, le cellule
dendritiche di Langerhans, che sono di origine midollare, le cellule di Merkel, di
probabile derivazione epidermica ed i linfociti T epidermotropi. Nel complesso la
superficie epidermica presenta un aspetto orizzontale rettilineo, mentre il limite
inferiore confinante con la membrana basale ha un aspetto ondulato con
estroflessioni dermiche (papille dermiche) alternate a proiezioni epidermiche (creste
epidermiche). Lo strato basale è costituito da 1-2 file di cheratinociti colonnari a
maggior asse orientato perpendicolarmente rispetto alla linea di confine con il
derma. Queste cellule hanno un grande nucleo di forma ovalare e citoplasma basofilo
ricco di ribosomi e tonofilamenti (filamenti intermedi di cheratina distribuiti con
ordine nel citoplasma). La membrana plasmatica del polo basale fa parte della
giunzione dermo-epidermica e vi si osservano gli emidesmosomi, strutture di
ancoraggio per mezzo delle quali gli elementi cellulari aderiscono alle porzioni più
interne della membrana basale. Nella regione apicale questa cellula è invece dotata
di veri desmosomi tramite cui avviene l’unione e la comunicazione intercellulare. Nel
complesso lo strato basale svolge le funzioni proliferativa e di ancoraggio dermo-
epidermico. Lo strato spinoso o malpighiano è costituito da 4-8 filiere di cellule
poligonali, con nucleo rotondo e citoplasma ben rappresentato ricco di filamenti di
cheratina. La caratteristica principale è la presenza di numerosissimi desmosomi che
conferiscono un aspetto “spinoso” a questi elementi cellulari. Nel citoplasma delle
cellule localizzate nelle assisi superiori dello strato spinoso si osservano anche i
granuli lamellari o corpi di Odland. Lo strato granuloso è formato da 2-3 strati di
cellule appiattite in cui si osservano grossi granuli citoplasmatici di “cheratoialina”
contenenti proteine, enzimi e fosfolipidi. Questo strato cellulare è assente nelle
mucose e può apparire ridotto o più evidente a seconda che il processo della
cheratinizzazione sia molto attivo o rallentato. Lo stadio maturativo successivo
comporta la perdita del nucleo e l’appiattimento della cellula. Lo strato corneo è
infatti costituito da numerose assisi (15-20) di cellule piatte (corneociti), prive sia di
nucleo che di organuli citoplasmatici e in cui si evidenzia un citoplasma eosinofilo
costituito completamente da filamenti di cheratina aggregati in macrofibrille. Questi

6
Anatomia e fisiologia della cute

corneociti vengono continuamente rilasciati nell’ambiente esterno sotto forma di


squame. Nelle regioni palmo-plantari tra gli strati granuloso e corneo è poi presente
un quinto strato, denominato lucido, costituito da 2-3 assisi di cellule contenenti
“eleidina” una sostanza omogenea e rifrangente.
L’epidermide ospita anche diversi tipi di cellule: i melanociti, le cellule di Merkel, le
cellule dendritiche di Langerhans e i linfociti T epidermotropi.
I melanociti originano dalle creste neurali e raggiungono l’epidermide intorno alla
settima settimana di gestazione. Si localizzano a livello dello strato basale ma
possono essere presenti anche nel derma medio, nel bulbo del pelo e in regioni
extracutanee quali le mucose del cavo orale e del naso, l’uvea, la retina e le
leptomeningi. Il rapporto melanocita/cheratinocita varia considerevolmente in
relazione alla regione corporea: è di 1 a 4 al volto e di 1 a 10 agli arti superiori. I
melanociti presentano un aspetto dendritico con grandi prolungamenti
citoplasmatici, sono privi di desmosomi e la loro funzione principale è la
melanogenesi. Nel loro citoplasma sono presenti caratteristici organuli, i
melanosomi, all’interno dei quali è contenuto l’enzima tirosinasi capace di
convertire l’aminoacido tirosina in melanina. I melanosomi vengono trasportati lungo
i prolungamenti dendritici e quindi trasferiti nei cheratinociti determinando la
pigmentazione dell’epidermide. L’insieme del melanocita e delle cellule basali che
vengono raggiunte dai suoi prolungamenti (circa 36) costituisce l’unità melanica
epidermica. Le cellule di Langerhans sono cellule dendritiche di origine midollare con
un fenotipo simile alle cellule della serie monocito-macrofagica. Esprimono infatti gli
antigeni del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC) di classe II, i recettori
per il frammento Fc-Ig, la proteina S-100 e l’antigene Ia. Sono situate negli strati
soprabasali dell’epidermide ed i loro processi dendritici si estendono in alto fino allo
strato granuloso ed in basso fino alla giunzione dermo-epidermica. La loro funzione
principale è quella di processare gli antigeni e presentarli ai linfociti T in
associazione con le molecole MHC di classe II, consentendo, in tal modo, la risposta
immunitaria. Le cellule di Merkel, di probabile derivazione epidermica, si localizzano
preferenzialmente in distretti cutanei sprovvisti di peli e dotati di un’elevata
sensibilità tattile. Sono situate nello strato basale, intercalate tra i cheratinociti, ai
quali sono adese tramite una fitta rete di desmosomi. Presentano un nucleo lobulato,
un citoplasma chiaro contenente granuli specifici di forma sferica e si associano a
terminazioni nervose amieliniche tanto da essere considerati dei veri
meccanorecettori. Infine nell’epidermide è possibile trovare i linfociti T, che non
risiedono ma transitano attraverso la cute e che possono aumentare in maniera

7
Anatomia e fisiologia della cute

esponenziale in condizioni patologiche di natura infiammatoria. La giunzione dermo-


epidermica è la struttura che separa l’epidermide dal derma. E’ costituita dalla
sovrapposizione di due diversi strati che sono, dall’esterno verso l’interno, la
membrana plasmatica del polo basale dei cheratinociti e la lamina basale
propriamente detta, a sua volta costituita da tre strati sovrapposti: la lamina lucida,
la lamina densa e la lamina fibroreticolare. Nell’insieme la giunzione dermo-
epidermica appare come una linea omogenea, positiva alla colorazione PAS,
interposta tra l’epidermide ed il derma. Il derma è un tessuto di supporto per
l’epidermide costituito da sostanza fondamentale in cui sono immerse sia una
componente cellulare (fibroblasti, cellule di origine ematica) che una componente di
natura fibrosa (fibre collagene ed elastiche). Il derma contribuisce in maniera
rilevante a determinare alcune caratteristiche della cute quali lo spessore, la
distensibilità, l’elasticità, la forza di tensione. Nel derma sono contenuti vasi
sanguigni e linfatici, nervi e recettori sensoriali, che svolgono un ruolo nella
termoregolazione, nell’omeostasi dei liquidi, nella percezione sensoriale e nel
sostegno e nutrizione dell’epidermide. In base all’organizzazione strutturale si
distinguono due diversi compartimenti dermici: il derma papillare e il derma
reticolare. Il derma papillare è compreso tra la giunzione dermo-epidermica ed il
plesso vascolare superficiale. E’ costituito da piccoli fasci di fibre collagene e da
fibre elastiche immerse nella sostanza fondamentale e con una disposizione
perpendicolare alla superficie cutanea. Il derma reticolare è invece compreso tra il
plesso vascolare superficiale ed il tessuto sottocutaneo. I fasci di fibre collagene ed
elastiche presentano spessore maggiore e decorso parallelo rispetto al piano
cutaneo, mentre le componenti cellulare e vascolare sono modeste, come anche la
quantità di sostanza fondamentale che appare inferiore rispetto al derma papillare. Il
tessuto sottocutaneo è rappresentato quasi esclusivamente da adipe organizzato in
lobi e lobuli separati da setti di natura connettivale. Il grasso sottocutaneo svolge le
funzioni di riserva energetica e di isolamento dermico. La circolazione sanguigna
della cute è organizzata secondo uno schema che prevede lo sviluppo di due plessi
vascolari localizzati rispettivamente al confine tra il derma papillare e reticolare
(plesso superficiale) e tra il derma reticolare ed il tessuto sottocutaneo (plesso
profondo). Esistono vasi sanguigni che mettono in comunicazione i due plessi, mentre
dal plesso superficiale si distaccano vasi capillari che si dirigono nelle papille
dermiche. La circolazione prevede che il sangue arterioso raggiunga il plesso
superficiale tramite i vasi comunicanti e quindi si diriga verso l’epidermide
percorrendo i capillari all’interno delle papille. Il sangue refluo percorre invece vasi

8
Anatomia e fisiologia della cute

venosi che hanno un orientamento parallelo a quelli arteriosi. La componente


nervosa della cute è costituita da una ricca rete di fibre afferenti sensitive e fibre
simpatiche efferenti. I recettori della componente sensitiva possono essere
rappresentati da fibre nervose libere o associati in strutture quali i corpuscoli del
Pacini, di Golgi e di Meissner. Le fibre simpatiche regolano la pervietà ed il diametro
dei vasi e la secrezione ghiandolare. Gli annessi cutanei sono costituiti dalle
ghiandole sebacee, dalle ghiandole sudoripare apocrine ed eccrine, dalle unghie e
dai follicoli piliferi.
 Ghiandole Sebacee: hanno una struttura acinoso-ramificata, una secrezione
olocrina ed una distribuzione preferenziale al volto, cuoio capelluto, regione sternale
e perineo. I lobi della ghiandola sono connessi con il follicolo del pelo e la
secrezione, regolata dagli ormoni androgeni, drena in un comune dotto escretore
detto sebaceo. La sostanza secreta (sebo), costituita da una miscela di lipidi
frammisti a detriti cellulari, contribuisce alla formazione del “film idrolipidico”
cutaneo.
 Ghiandole Sudoripare: sono ghiandole tubulari semplici e si dividono in
apocrine ed eccrine. Le ghiandole apocrine fanno parte del complesso follicolo-
sebaceo localizzandosi soprattutto nelle regioni ascellari ed anogenitali. Prendono
origine dall’epitelio follicolare e sono formate da una componente secretoria, situata
nel derma profondo, e da un lungo dotto che le collega con il follicolo pilifero. Le
ghiandole eccrine sono più numerose, non associate ai follicoli piliferi e
maggiormente distribuite nelle regioni ascellari, palmo-plantari e al volto. Anch’esse
sono costituite da un dotto escretore e da una porzione glomerulare secernente una
sostanza a base di NaCl, urea, acidi grassi, aminoacidi e proteine. Le ghiandole
sudoripare svolgono importanti funzioni quali la termoregolazione e la formazione del
film idrolipidico.
 Follicoli piliferi: sono costituiti dal pelo e dalle guaine ad esso associate e si
trovano distribuiti su tutta la superficie corporea ad eccezione di alcune aree quali
palmo delle mani e pianta dei piedi, glande, prepuzio, piccole labbra e falangi
ungueali. Il follicolo pilifero può essere considerato un’introflessione dell’epidermide
la cui struttura, particolarmente complessa, è divisa in senso prossimo-distale in tre
differenti tratti: infundibolo, istmo e tratto inferiore. La porzione compresa tra il
punto in cui l’epidermide si invagina e lo sbocco del dotto sebaceo è denominata
infundibolo; l’istmo rappresenta la parte centrale che dallo sbocco sebaceo giunge
fino al punto di inserzione del muscolo erettore del pelo; la porzione più distale e
profonda, o tratto inferiore, è la regione del follicolo in cui è presente il bulbo

9
Anatomia e fisiologia della cute

pilifero dalle cui cellule (cellule della matrice pilifera) originano il fusto del pelo e la
guaina interna. Il fusto del pelo a sua volta è costituito da tre strati concentrici quali
cuticola e corticale, i più esterni e con funzione di sostegno, e una porzione centrale
chiamata midollare. Nel complesso il pelo è contornato da tre diverse guaine che
dall’esterno verso l’interno sono la guaina perifollicolare, la guaina esterna e la
guaina interna.
 Muscolo erettore del pelo: è un piccolo muscolo liscio annesso al follicolo
pilifero la cui contrazione favorisce lo svuotamento della ghiandola sebacea e
l’erezione del pelo.
 Unghie: sono costituite da una lamina dura di cheratina (lamina ungueale) e
da alcuni tessuti strutturalmente e funzionalmente ad essa connessi (matrice
ungueale, letto ungueale, perinichio, iponichio). La lamina ungueale è una
formazione cornea in continuo rinnovamento. Ha un aspetto ovoidale, una superficie
liscia o lievemente convessa e si localizza in regione dorsale delle falangi distali. E’
adagiata sul letto ungueale, strutturalmente costituito da epitelio squamoso
cheratinizzato ed è circondata prossimo-lateralmente da una piega cutanea
denominata perinichio. La lamina ungueale origina dalla matrice ungueale il cui
epitelio germinativo è localizzato al di sotto della porzione prossimale del perinichio,
mentre all’estremità delle dita è separata dalla cute del polpastrello tramite un
solco denominato iponichio.
La cute può essere considerata un vero e proprio organo che svolge numerose e
complesse funzioni:
- rivestimento e protezione. Ricoprendo completamente la superficie corporea e
grazie ad alcune caratteristiche quali l’elasticità e la resistenza, la cute svolge
funzione di protezione verso insulti di natura meccanica (traumi), chimica (acidi,
alcali) e fisica (raggi ultravioletti, corrente elettrica). Rappresenta anche la prima
barriera nei confronti degli agenti patogeni, svolgendo sia un ruolo di passiva
opposizione fisica che un’attiva sorveglianza immunitaria.
Termoregolazione: la cute agisce sia da regolatore termico che da isolante.
Un’importante quota di calore viene rimossa dall’organismo per mezzo
dell’evaporazione del sudore, mentre l’alternarsi di vasocostrizione e
vasodilatazione determina un rapido cambiamento della portata ematica capillare in
relazione alla temperatura dell’ambiente esterno. Grazie poi alla bassa capacità
termica del pannicolo adiposo la cute avvolge ed isola l’intero organismo
consentendo di mantenere costante la temperatura corporea interna.

10
Anatomia e fisiologia della cute

Funzione sensoriale: la cute è dotata di un’innervazione sensoriale per mezzo della


quale è in grado di percepire stimoli di natura meccanica, termica e dolorifica. E’ in
comunicazione con il sistema nervoso centrale e consente all’individuo di adattarsi
alle condizioni ambientali esterne.
Funzione secretiva: la cute è in grado di eliminare cataboliti prodotti dall’organismo.
Tramite le ghiandole sudoripare e sebacee vengono di fatto secreti acqua, anidride
carbonica, sebo e piccole quantità di ioni minerali (calcio, cloro, potassio, magnesio
e sodio). Tale processo aumenta con l’aumentare dell’attività metabolica.
Funzione di assorbimento: funzione selettiva, sempre più sfruttata per la
somministrazione transdermica dei farmaci.
Funzione semeiotica: importante organo spia di patologie interne in grado di
comunicare con le sue variazioni molti segnali quali pallore, cianosi, secchezza,
pastosità ed edema.

11
Biologia della cicatrizzazione

BIOLOGIA DELLA CICATRIZZAZIONE

La crescita, la rigenerazione e la riparazione sono i processi per la formazione di


nuovi tessuti. Durante l’embriogenesi la divisione degli strati cellulari forma organi
distinti ed i tessuti aumentano di volume ma mantengono un’architettura
estremamente organizzata. Lo studio della cute fetale durante il primo periodo di
gestazione ha fornito modelli di guarigione tissutale senza la formazione di cicatrici.
La normale guarigione di una ferita successiva alla nascita comprende una
combinazione di rigenerazione e riparazione. Tre sono i meccanismi necessari: a)
epitelizzazione, b) contrazione della ferita c) sintesi della matrice extracellulare.
Durante la riparazione si attiva una complessa catena di eventi per la formazione
della cicatrice. Il processo richiede il
coordinamento di una varietà di
attività cellulari, che comprendono:
la fagocitosi, la chemiotassi, la
mitogenesi, la sintesi del collagene
ed i componenti extracellulari della
matrice. In alcune circostanze il
processo cellulare porta ad una

riparazione irregolare in eccesso o in


difetto producendo cicatrici
patologiche (ipertrofica, cheloide,
cicatrice ipotrofica) o una lesione
cronica.
Guarigione della ferita
Sono possibili 4 tipi di guarigione
della ferita:
1. per prima intenzione,
2. per prima intenzione ritardata
3. per seconda intenzione
4. guarigione delle ferite a spessore parziale.
Guarigione per prima intenzione
La guarigione per prima intenzione si realizza quando una ferita viene chiusa subito
dopo la sua formazione. I bordi della ferita sono avvicinati direttamente usando la

12
Biologia della cicatrizzazione

sutura o altro mezzo meccanico. Il metabolismo del collagene provvede alla forza
tensile lungo i margini della ferita quando la sintesi è normale. Gli enzimi
metalloproteinasi della matrice regolano il collagene e la degradazione della matrice
extracellulare e permettono il rimodellamento della ferita lasciando una cicatrice
relativamente sottile. La riepitelizzazione provvede alla copertura della ferita ed
agisce come una barriera contro la colonizzazione batterica.
Guarigione per prima intenzione ritardata
La guarigione per prima intenzione ritardata si manifesta quando una ferita è lasciata
aperta perché inquinata o infetta. La cute ed i tessuti sottocutanei restano esposti e
vengono suturati quando la ferita è detersa. Dopo 3 o 4 giorni i fagociti, accorrendo
nella lesione, danno inizio all’angiogenesi e le cellule infiammatorie presenti
distruggono i batteri. I bordi della ferita sono avvicinati dopo diversi giorni. Il
metabolismo del collagene non è disturbato e si sviluppa una forza tensile che
favorisce la chiusura immediata.
Guarigione per seconda intenzione
Nella guarigione per seconda intenzione la ferita rimane aperta e si chiude per la
contrazione e la riepitelizzazione dei bordi, la lesione si riduce ed incominciano a
definirsi i meccanismi di questo processo. I miofibroblasti, comunque, si pensa
giochino un ruolo importante. Questa cellula è descritta come una cellula che
presenta caratteristiche e proprietà strutturali tra un fibroblasto ed una cellula
muscolare liscia. I miofibroblasti derivano dai fibroblasti e sono presenti nella fase di
contrazione della ferita, contengono un sistema di microfilamenti di actina ben
definiti: beta e gamma. Le cellule appaiono nella ferita approssimativamente il terzo
giorno dopo la sua formazione e aumentano di numero fino a raggiungere un livello
massimo tra il decimo ed il ventunesimo giorno per scomparire quando la contrazione
è completa. Esiste una correlazione diretta tra il numero dei miofibroblasti e
l’estensione della contrazione della ferita.
Guarigione della ferita a spessore parziale
La lesione a spessore parziale interessa la parte superficiale del derma e può guarire
con la riepitelizzazione. Le cellule epiteliali con gli annessi dermici, follicoli piliferi e
ghiandole sebacee si replicano fino a coprire il derma esposto. Si deposita una
minima quantità di collagene e manca la contrazione della ferita.
Il processo di guarigione delle ferite avviene con una cascata sequenziale ed ordinata
di cellule attive che hanno una funzione di fagocitosi, chemiotassi, mitogenesi,
sintesi di collagene e sintesi di altre componenti della matrice. Una soluzione di
continuo dei tessuti comporta il sanguinamento, la coagulazione, l’infiammazione, la

13
Biologia della cicatrizzazione

duplicazione cellulare, l’angiogenesi, l’epitelizzazione e la sintesi della matrice. La


lesione tissutale è caratterizzata da un danno microvascolare e di stravaso di sangue
nella ferita. I vasi lesi si contraggono e viene attivata la cascata dei fattori della
coagulazione che riducono la perdita ematica. Le cellule infiammatorie rilasciano
ammine vasoattive e altri mediatori che contribuiscono alla formazione del plasma e
delle proteine nella ferita e permettono alle cellule efficaci di entrare. La
coagulazione guida l’emostasi. Le piastrine intrappolate nel coagulo sono essenziali
per l’emostasi così come per una normale risposta infiammatoria. Gli α granuli delle
piastrine contengono fattori di crescita, come i fattori di crescita piastrine-derivati
(PDGF), fattori β di trasformazione della crescita (TGF-f3) e fattore IV piastrinico.
Queste proteine avviano la sequenza dei fattori di guarigione della ferita richiamando
ed attivando i fibroblasti, le cellule endoteliali ed i macrofagi. Le piastrine inoltre
contengono corpi densi che liberano amine vasoattive, come la serotonina in grado di
aumentare la permeabilità dei capillari. La fibrina è il prodotto finale della
coagulazione intrinseca ed estrinseca da cui deriva il fattore I conosciuto anche come
fibrinogeno. La fibrina è essenziale per l’inizio della guarigione delle ferite perché
provvede alla formazione della matrice nella quale le cellule possono migrare. Il
coagulo, formato da fibrina e fibrinogeno, intrappola le piastrine, le cellule del
sangue e le proteine del plasma. La rimozione della matrice temporanea di fibrina
impedisce la guarigione della ferita. Nella fase successiva della guarigione,
l’infiammazione inizia con l’attivazione del complemento e della cascata classica
molecolare, che guida l’ infiltrazione nella ferita da parte dei granulociti entro le 24-
48 ore dalla lesione. Queste cellule sono attratte nella sede della ferita da una
quantità di agenti, inclusi i componenti del complemento come il C5a, il
formilmetionilpeptide, prodotti dai batteri, e il TGF-13.
In breve tempo i granulociti cominciano ad aderire alle cellule endoteliali dei vasi
sanguigni vicini con un processo chiamato di marginazione ed incomincia una attività
attraverso la membrana cellulare nota come diapedesi. I granulociti sono attratti
nella sede della lesione attraverso la chemiotassi grazie a messaggeri chimici
rilasciati dai tessuti danneggiati, dalle piastrine, dai batteri e dai prodotti
dell’infiammazione. La funzione maggiore dei granulociti è quella di rimuovere i
batteri ed i frammenti della ferita, prevenendo in questo modo l’infezione. La
deplezione di queste cellule non modifica significativamente la guarigione. I
macrofagi sono le cellule più importanti presenti nella guarigione della ferita e
sembrano comportarsi come la chiave che regola la riparazione. Quando mancano i
monociti e i macrofagi tissutali si manifestano importanti alterazioni nei meccanismi

14
Biologia della cicatrizzazione

di riparazione tissutale con scarsa possibilità di guarigione, ritardata proliferazione


dei fibroblasti, inadeguata angiogenesi e cattiva fibrosi. Una volta che i monociti
circolanti sono passati attraverso la parete dei vasi sanguigni e dentro la ferita,
questi sono considerati: “wound macrophage”. Tra 48 e 72 ore dopo la lesione, il
macrofago rappresenta la cellula dominante all’interno della lesione sia per la
funzione di cellula fagocitaria, essendo produttore primario del fattore di crescita,
sia per la produzione e la proliferazione della matrice extracellulare (ECM) per i
fibroblasti, sia per la proliferazione di cellule muscolari lisce e di cellule endoteliali
che seguono all’angiogenesi. I macrofagi sono attratti da una varietà di elementi che
includono: il complemento, le componenti del coagulo, i frammenti delle
immunoglobuline G (IgG), i prodotti del disfacimento del collagene e dell’elastina
ovvero le citochine: leucotriene B4, fattore piastrinico IV, PDGF, e TGF-β linfociti
che sono le ultime cellule a raggiungere la ferita durante la fase infiammatoria
richiamate dalla interleuchina-1, dalle IgG e dai prodotti del complemento. Si ritiene
che la interleuchina-1 rivesta un ruolo chiave nella regolazione della collagenasi,
mostrando che i linfociti possono essere coinvolti nel rimodellamento del collagene e
dell’ ECM. Una buona guarigione richiede la migrazione di cellule mesenchimali:
stimolate dai fattori di crescita, la migrazione dei fibroblasti nella ferita avviene
attraverso l’EMC ed in 7 giorni sono le cellule dominanti nella ferita. Dopo 5-7 giorni
dal trauma i fibroblasti cominciano a sintetizzare il collagene, che aumenta in modo
lineare da 2 a 3 settimane. I collageni costituiscono la più grande famiglia di proteine
del corpo umano e la loro funzione è quella di provvedere alla robustezza ed alla
integrità di tutti i tessuti. Il collagene Tipo 1 è il maggior componente nella
ristrutturazione delle ossa, della cute e dei tendini. Il collagene Tipo II è contenuto
in modo predominante nella cartilagine. Il collagene di Tipo III, assieme al Tipo I, si
trova in diverse proporzioni dipendenti dal tipo di tessuto. Il collagene Tipo IV è
presente nella membrana basale mentre quello di Tipo V si trova nella cornea. Fino
ad oggi sono stati identificati almeno 13 distinti tipi di collagene con 25 uniche
catene polipeptidiche. Immediatamente dopo la lesione, il collagene esposto viene a
contatto con il sangue stimola l’aggregazione piastrinica e l’attivazione dei fattori
chemiotattici coinvolti nella risposta alla lesione. In seguito, il collagene diventa il
substrato della matrice extracellulare della lesione. L’invasione dei fibroblasti
incomincia a sintetizzare e a secernere collagene tipo I e II per formare la nuova
matrice. Si definisce angiogenesi il processo che interessa la neoformazione dei vasi
sanguigni. Le piastrine entrano nella ferita nella fase iniziale di riparazione e di
secrezione, il TGF-β indirettamente favorisce l’angiogenesi e attira i macrofagi. Le

15
Biologia della cicatrizzazione

piastrine inoltre secernono PDGF, che attrae i macrofagi ed i granulociti favorendo


l’angiogenesi. I macrofagi giocano un ruolo importante rilasciando una quantità di
sostante angiogeniche compreso il fattore α (TNF-a) di necrosi tumorale e il fattore
essenziale di crescita dei fibroblasti (FGF). La funzione maggiore dell’epitelio
differenziato è quella di formare una barriera tra l’ambiente interno ed esterno. Una
rottura dello strato epiteliale favorisce la penetrazione dei fluidi e dei batteri della
cute. Nella lesione a tutto spessore la migrazione epiteliale avviene soltanto dai
margini della ferita. L’epitelio cresce incrociando la lesione e occupando i margini
con i fagociti che per primi detergono dai detriti e dal plasma. La mitosi delle cellule
epiteliali comincia 72 ore dopo il danno. La velocità di copertura epiteliale è
incrementata se la lesione è detersa, se la lamina basale è intatta e se la ferita è
mantenuta umida. Molti fattori di crescita modulano la riepitelizzazione tra cui il
fattore di crescita epidermico (EGF) che è un potente stimolatore della mitogenesi
epiteliale e della chemiotassi ed il fattore di crescita dei cheratinociti. La sintesi del
collagene e la rottura si equilibrano in forma stabile all’incirca il 21° giorno dopo la
lesione. Si ha la sintesi e la rottura del collagene che continua, mentre l’ECM è
continuamente rimodellato. La degradazione del collagene si raggiunge da specifiche
matrici metalloproteinasi che sono prodotte da un gran numero di cellule nella sede
della lesione, compreso i fibroblasti, i granulociti e i macrofagi. L’attività della
matrice metalloproteinasi si riduce e gli inibitori della metalloproteinasi sono
incrementati dalla TGF-β che possono influenzare la capacità della TGF-3 di favorire
l’accumulo della matrice. Le fibronectine sono molecole della matrice coinvolte
nella contrazione delle ferite, nell’interazione cellula-cellula e cellula-matrice, nella
migrazione cellulare, nella deposizione della matrice del collagene e
nell’epitelizzazione; agiscono come una impalcatura per la deposizione del
collagene, sono prodotte dai fibroblasti, dalle cellule epiteliali e dai macrofagi e si
trovano nel tessuto stromale e nella lamina basale. Sono le prime proteine che
coprono la ferita fresca, perciò formano parte della matrice provvisoria della ferita.
La loro funzione più importante, nelle fasi della riparazione tissutale, è quella di
favorire l’interazione cellula-cellula e cellula-matrice e durante la guarigione della
ferita, la fibronectina diventa legame crociato al coagulo di fibrina facilitando
l’adesione del fibroblasto. La sua quantità diminuisce man mano che la ferita matura
e il collagene Tipo I rimpiazza il Tipo III. La sostanza di superficie o stroma è un’altra
componente importante della matrice della ferita, composta da proteoglicani e
glicosamminglicani (GAG). I proteinglicani costituiscono il nucleo proteico, hanno un
legame covalente con i GAC e fanno parte dei polisaccaridi. Ci sono quattro tipi

16
Biologia della cicatrizzazione

principali di GAG che fanno parte della struttura tissutale e della cicatrizzazione:
condroitinsolfato, eparan solfato, cheratan solfato e acido ialuronico. L’acido
ialuronico (HA) è una sequenza periodica di disaccaridi senza nucleo proteico e
solfurico,questo si forma nella ferita molto prima degli altri tre GAG, tutti questi
composti sono solfatati e hanno un nucleo proteico. Il ruolo dei proteinglicani nella
cicatrizzazione della ferita è poco conosciuto, sembra che inducano una
iperidratazione che facilita la mobilità cellulare, probabilmente forniscono le
proprietà viscoelastiche del tessuto connettivo normale. Solo recentemente
incomincia ad essere chiaro che molti fattori di crescita sono responsabili della
modulazione della risposta infiammatoria. L’ identificazione di questi fattori ha
ampliato la conoscenza del processo di cicatrizzazione e può inoltre permettere la
manipolazione della guarigione delle ferite. I fattori di crescita possono essere
mediati da funzioni cellulari coinvolti nella cicatrizzazione, questi sono costituiti da
proteine, di peso compreso tra 4.000 e 60.000 Daltons che interessano l’attività
cellulare quando sono presenti in piccole concentrazioni. Questi inviano un messaggio
biochimico particolare ad uno specifico bersaglio cellulare attraverso uno specifico
recettore di membrana. I fattori di crescita possono influenzare la funzione cellulare
attraverso molti differenti meccanismi endocrini, paracrini, autocrini ed olocrini. I
fattori di crescita endocrini sono prodotti da una cellula e quindi trasportati
attraverso il circolo in una sede distante dove agiscono. I fattori paracrini sono
prodotti da una cellula adiacente alla sede in cui il fattore agisce. I fattori di crescita
autocrini sono rilasciati dalla stessa cellula sulla quale agiscono. Infine i fattori di
crescita olocrini si comportano come la cellula che li ha prodotti. La maggior parte
dei fattori di crescita nella cicatrizzazione agiscono in maniera autocrina e paracrina.
I fattori di crescita coinvolti nella guarigione della ferita e meglio caratterizzati
comprendono l’ EGF, il PDGF, il FGFs acido e basico, il TGF-β, TGF-α, IL-1, e TNF-α.
Il fattore di crescita epiteliale è un polipeptide costituito da 53 amminoacidi ed è
stato isolato dalle ghiandole salivari del topo. Si trova in un gran numero di tessuti e
viene rilasciato durante la degranulazione delle piastrine. Le cellule epiteliali hanno
il più grande numero di recettori per l’EGF; inoltre recettori sono presenti anche
nell’endotelio, nei fibroblasti e nelle cellule della muscolatura liscia. L’EGF esercita
un’azione chemiotattica sulle cellule epiteliali, endoteliali e sui fibroblasti, e i
fibroblasti si comportano come uno stimolante mitogeno per questi tipi di cellule.
Oltre questo effetto sulle cellule epiteliali e sulla riepitelizzazione l’EGF stimola
l’attività angiogenetica e quella collagenasica. I fattori di crescita del fibroblasto
sono stati in origine descritti come mitogeni per le cellule mesenchimali, ma in

17
Biologia della cicatrizzazione

seguito si è osservato che stimolano l’angiogenesi e altre funzioni cicatrizzanti. La


famiglia delle FGF è formata da minimo 7 membri comprendenti forme acide e
basiche che contengono il 50% di sequenze amminoacidiche analoghe al KGF. L’FGF
basico è 10 volte più potente come stimolante angiogenico degli altri membri della
famiglia dell’FGF; orbene sia la forma acida che basica dell’FGF contribuiscono
all’angiogenesi della ferita stimolando la proliferazione delle cellule endoteliali. Le
cellule endoteliali producono e rispondono all’ FGF. L’ FGF basico inoltre stimola la
sintesi del collagene, la contrazione della ferita, l’ epitelizzazione e la sintesi della
matrice. Il fattore di crescita dei cheratinociti è increto dai fibroblasti e le sole
cellule che posseggono i recettori KGF sono le cellule epiteliali. Studi recenti hanno
mostrato che i derivati dermici dall’azione del KGF in forma paracrina stimolano la
proliferazione delle cellule epiteliali durante la cicatrizzazione. Studi sulla
cicatrizzazione fatti su animali transgenici, che sono stati segnalati come carenti del
recettore KGF, hanno manifestato un forte ritardo nella cicatrizzazione. Perciò, si
crede che il KGF giochi un ruolo importante nella cicatrizzazione attraverso la
regolazione della riepitelizzazione. Il fattore di crescita derivato dalle piastrine è
localizzato nei granuli α delle piastrine. E’ una glicoproteina da 30.000 a 32.000 D
con 2 subunità A e B la cui porzione omologa è il 56%. Il codice genetico è localizzato
sui cromosomi 7 e 22. L’eterodimero AB è il prodotto primario delle piastrine umane.
Altri tipi di cellule rilasciano fattori come il PDGF. Il PDGF attiva Il TGF-β, stimola i
neutrofili, i macrofagi, la chemiotassi e la mitogenesi sia dei fibroblasti che delle
cellule muscolari lisce; stimola inoltre la sintesi del collagene, l’attività della
collagenasi e l’angiogenesi. Sebbene nessun recettore di PDGF sia presente sulle
cellule epiteliali o endoteliali, il PDGF sembrerebbe iniziare l’angiogenesi. Questo
può essere secondario al potente effetto del PDGF sulle cellule infiammatorie. Ci
sono 5 isoforme diversi di TGF-β tre dei quali (β1, β2, β3) sono presenti nei
mammiferi. Il TGF-β è stato il primo fattοre di crescita che si è dimostrato efficace
nella guarigione della ferita in un modello animale. Infatti il TGF-β come la vitamina
A, modifica l’inibizione causata dai glucocorticoidi. Si trova come un omodimero con
un peso molecolare di 25.000 D ed è stato isolato da quasi tutti i tipi di tessuto. Si
trova in alte concentrazioni nei granuli α delle piastrine ed è rilasciato al momento
del danno. Il TGF-β funziona in maniera tale da regolare la sua stessa produzione;
stimola anche i monociti a nascondere altri fattori di crescita includendo l’FGF, il
PDGF, il TNF-α e l’IL-1, il TGF-β è chemiotassico per i macrofagi e stimola la
chemiotassi e la proliferazione del fibroblasto. Può essere anche il più potente
stimolatore della sintesi del collagene, attiva i fibroblasti a produrre fibronectina e

18
Biologia della cicatrizzazione

proteinglicani. In generale il TGF-β evoca l’accumulo dell’ECM e la fibrosi nella sede


della ferita. L’interleuchina-1 è stata descritta originariamente come uno stimolatore
di proliferazione linfocitaria. E’ prodotta dai macrofagi così come altri tipi di cellule.
E’ chemiotassico per le cellule epiteliali, i neutrofili, i monociti e i linfociti ma non
per i fibroblasti. Stimola la proliferazione dei fibroblasti, la sintesi del collagene e
l’attività collagenasica e ialuronidasica. Inibisce la proliferazione delle cellule degli
endoteli vascolari. L’interleuchina-1 gioca inoltre un ruolo nel rimodellamento della
ferita dovuto all’influenza sull’attività collagenasica. Il fattore-α di necrosi del
tumore ha costituito la prima scoperta come tumor killer-cell in vitro. E’ un peptide
amminoacidico prodotto dai macrofagi quando sono stimolati dal TGF-β. E’ mitogeno
per i fibroblasti e stimola la sintesi del collagene e della collagenasi. Il TNF-α può
inoltre stimolare l’angiogenesi.

19
Incisioni chirurgiche e suture

INCISIONI CHIRURGICHE E SUTURE

In chirurgia plastica la tecnica operatoria segue


principi generali che non si discostano da quelli di
altre specialità chirurgiche. E’ però doveroso
sottolineare l'assoluta necessità di trattare i
tessuti con estrema delicatezza, ricordando che,
se contusi o danneggiati da manipolazioni
grossolane, essi sono più facilmente soggetti ai
danni da sofferenza vascolare o da infezione. Ciò, se è importante anche per il
chirurgo generale, lo è a maggior ragione per il chirurgo plastico, cui si chiede
sempre una cicatrice poco visibile o comunque migliore di altra già esistente.
Incisioni chirurgiche
La prima regola per ottenere una buona sutura, e quindi una buona cicatrice, è di
praticare una buona incisione: un'incisione corretta deve essere esattamente
perpendicolare al piano cutaneo, così che i margini combacino perfettamente all'atto
della sutura.
Esistono diversi tipi di bisturi, che solo l'esperienza può insegnare come e quando
scegliere: è invece fondamentale sapere come impugnarli a seconda dell'effetto che
si vuole ottenere:
 incisione corretta, perfettamente perpendicolare al piano cutaneo;
 incisione obliqua rispetto al piano cutaneo.
Il bisturi impugnato con forza, come un coltello, serve a praticare un'incisione decisa,
a tutto spessore, di discreta lunghezza, su cute ricca di sottocutaneo: ad esempio per
un intervento di addominoplastica, sui glutei, sulle cosce.
Per incisioni più lunghe, che non richiedono una penetrazione tanto decisa ma
devono piuttosto costituire una
prima traccia di quanto s'intende
fare, il bisturi va impugnato
invece come un archetto di
violino e con altrettanta
disinvoltura deve essere
maneggiato: ad esempio nello

20
Incisioni chirurgiche e suture

scolpimento di un lembo cutaneo.

Quando infine si vuole ottenere precisione e delicatezza con brevi incisioni, come sul
viso, il bisturi verrà impugnato come una penna. Diversamente da quanto accade per
le ferite accidentali, nell'incisione programmata per un determinato intervento il
chirurgo ha di solito la possibilità di scegliere la direzione della ferita (e quindi della
successiva cicatrice). Ciò è molto importante, perché la cute presenta delle linee di
elasticità o di tensione lungo le quali conviene praticare l'incisione per ottenere una
miglior cicatrizzazione. Il primo a studiare e descrivere minuziosamente questa serie
di linee fu Langer, da cui prendono il nome. Le linee di Langer sono disposte
perpendicolarmente alla direzione della contrazione dei muscoli sottostanti alla
cute, perché, come hanno rilevato Kraissl e Conway a proposito delle rughe del
volto, le pieghe cutanee sono determinate dal fatto che la cute non segue il muscolo
nel suo accorciamento. La cicatrice situata in tali pieghe tenderà ad essere
dissimulata dalla loro presenza ed in ogni caso la sua evoluzione nel tempo non
porterà alla retrazione. Giova qui ricordare che le linee di Langer al viso coincidono
con le pieghe cutanee dovute alla mimica e con le eventuali rughe, mentre a livello
delle articolazioni coincidono con le pieghe articolari. Quest' ultimo fatto è
importante soprattutto nella faccia palmare della mano e delle dita, dove è d'obbligo
evitare di attraversare con l'incisione chirurgica le pieghe articolari per non creare
danni funzionali con la successiva cicatrice un evento traumatico o da un'incisione
chirurgica. In chirurgia plastica essa assume un'importanza particolare, perché la sua
qualità può condizionare pesantemente la riuscita di un intervento. Per eseguire una
sutura corretta bisogna margini della ferita chirurgica per tutta la sua lunghezza e
per tutto il suo spessore, evitando al massimo ogni tensione sul piano cutaneo ed
ogni infossamento con la ricostruzione accurata dei piani profondi. Si otterrà così che
i labbri della ferita giungano quasi a collabire ed i punti di sutura cutanei avranno il
solo compito di mantenerli delicatamente a contatto senza provocare ischemie

21
Incisioni chirurgiche e suture

marginali, responsabili di molte deiscenze. Eventuali tensioni residue possono essere


distribuite alla cute circostante con l'applicazione di cerotti posti trasversalmente
sulla ferita o medicazioni adesive elastiche; infine potrà essere utile immobilizzare la
regione interessata in una posizione che non solleciti l'elasticità della cute.
Materiali di sutura
Va innanzitutto ricordato che il filo di sutura, quali che siano le sue caratteristiche
fisiche e biologiche, costituisce in ogni caso un corpo estraneo: andrà quindi scelto
sempre fra quei materiali che, dotati di buona resistenza, abbiano però un'azione
irritante minima nei confronti dei tessuti. Per la sutura dei piani profondi sono
ancora ampiamente in uso il catgut semplice e cromico, quest'ultimo preferito
quando si ritiene di dover prolungare maggiormente nel tempo la funzione di
trazione esercitata dalla sutura profonda. Attualmente sono sempre più spesso usati i
fili riassorbibili sintetici (derivati poliglicolici quali Dexon e Vicryl), perché dotati di
miglior tollerabilità e più lento assorbimento, oltre che di maggior resistenza. Per la
sutura della cute sempre valida è la seta naturale, anche se molto spesso sostituita
da altri materiali, da quelli metallici (acciaio, tantalio) a quelli sintetici quali nylon,
mersilene, propilene. Il vantaggio di questi fili (siano essi intrecciati o sotto forma di
monofilamento) rispetto alla seta naturale sta nella loro maggior inerzia e nel fatto
che non si imbibiscono a contatto con i liquidi organici, e quindi lasciano una traccia
del loro passaggio meno evidente, una volta rimossi. Per contro la seta naturale tiene
meglio il nodo, rispetto al nylon e ai monofilamenti in genere, anche se ormai con
mersilene e propilene intrecciati questo problema sembra esso pure superato. Anche
l'ago è estremamente importante in chirurgia plastica: quasi esclusivo è ormai
l'impiego dei cosiddetti aghi atraumatici, cioè aghi di acciaio che montano il filo
direttamente pinzato alla loro parte terminale, evitando così l'ispessimento dato
dalla presenza della cruna, sia essa aperta o chiusa, e dal conseguente
raddoppiamento del filo. Per la cute esistono aghi atraumatici di varia curvatura e di
dimensioni diverse, proporzionate al calibro del filo, ma importante è soprattutto
che abbiano sezione triangolare e punta molto aguzza, che ne facilitano il passaggio
attraverso l'epidermide ed il derma. Per i piani profondi, possono essere usati aghi a
sezione rotonda come in chirurgia generale, sebbene alcuni chirurghi plastici
preferiscano anche per il sottocute aghi atraumatici a sezione triangolare.

22
Incisioni chirurgiche e suture

Tecniche di sutura
Classicamente si distinguono due grandi gruppi fra i vari tipi di sutura: la sutura a
punti staccati e la sutura continua.
Sutura a punti staccati
È il tipo più usato ed è costituita da una serie di punti che affrontano i margini della
ferita giacendo in direzione perpendicolare ad essa. L'ago deve penetrare nella cute
perpendicolarmente, a qualche millimetro dal margine cruento, approfondendosi nel
sottocute parallelamente al margine di
sezione; nel margine opposto della ferita
l'ago penetra nel sottocute prima e viene
fatto fuoriuscire poi dalla cute con le
stesse modalità, badando che la distanza
fra il foro dell'ago ed il margine sia
eguale sui due labbri della ferita, onde
evitarne slivellamenti. Quando però i due margini sono asimmetrici, non hanno
eguale spessore o sono sezionati a becco di flauto anziché perpendicolarmente, per
ottenere l'affrontamento senza slivellamenti sarà necessario comprendere nel punto
maggior quantità di tessuto sul labbro meno mobile della ferita ovvero su quello più
spesso o sezionato ad angolo ottuso. Il filo, una volta passato nei due margini, sarà
annodato lateralmente alla linea d'incisione cutanea, ad evitare che il nodo decubiti
direttamente sulla ferita. Esso dovrà avere giusta tensione e mai essere troppo
stretto per non provocare ischemie del tratto di cute compreso nel punto: è meglio
dare qualche piccolo punto in più, piuttosto che applicare pochi grossi punti annodati
strettamente, i quali nel migliore dei casi lasceranno un segno là dove il filo ha
decubitato sulla cute. Vi sono alcune varianti di questo tipo di sutura con
caratteristiche particolari.
Sutura punti staccati marginali di Dufourmentel
L'ago viene introdotto nel labbro
della ferita esattamente al
margine della superficie
cruenta, poi si approfonda
obliqua-mente nel sottocute per
passare simmetricamente sul
labbro opposto della ferita. Non
si causa ischemia per

23
Incisioni chirurgiche e suture

compressione da parte dei fili né restano segni del passaggio dell'ago sulla cute e la
cicatrice quindi resta quasi invisibile.
Sutura a punti staccati ad U
Particolarmente utile quando si debba
esercitare una certa trazione o si
debbano affrontare margini di spessore
molto diverso.
Il punto a U orizzontale si esegue dando
un primo punto semplice con le modalità
descritte; lateralmente ad esso, con la
stessa distanza dai margini, si esegue un secondo punto di ritorno in modo da
annodare i fili sullo stesso lato della ferita.
Nel punto a U verticale la seconda ansa del filo, anziché essere a lato della prima,
giace al davanti di essa, più vicina al margine della ferita. In entrambi i casi, se la
tensione esercitata sui labbri della ferita è notevole, può essere utile interporre fra
le anse del filo e la cute piccoli rotoli di garza o garza vasellinata per evitare che
decubitino sulla cute. Per un
affrontamento più preciso dei margini
cutanei è utile il punto a U di Blair-
Donati, che è un punto a U verticale la
cui seconda ansa attraversa solo
l'epidermide e il derma: con la prima
ansa si avvicinano i tessuti profondi, con
la seconda i margini cutanei giungono a combaciare perfettamente.
Sutura continua.
Nata per i tessuti profondi, si può applicare anche alla cute; è più rapida di quella a
punti staccati, ma a volte a scapito della precisione nell'affrontamento dei margini e
del risultato estetico.
Sutura continua semplice a sopraggitto
Si dà un primo punto, che viene annodato
subito, perpendicolarmente alla ferita; si
prosegue quindi senza tagliare il filo,
facendogli percorrere un tragitto a spirale
nel quale l'ago viene sempre infisso
perpendicolarmente alla ferita, mentre il

24
Incisioni chirurgiche e suture

filo giace obliquamente ad essa in superficie. L'ultimo punto viene annodato con il
primo perpendicolarmente alla linea di sutura con l'ultima ansa del filo.
Sutura continua con punti a materassaio
E’ in pratica costituita da una serie di punti a U orizzontali applicati l'uno accanto
all'altro senza mai interrompere il filo ed annodando solo il primo e l'ultimo di essi.
E’più precisa della precedente nell'affrontamento dei margini e dà di solito un
risultato estetico migliore.
Sutura continua intradermica
E’ forse la sutura di maggior interesse per il chirurgo
plastico. Con essa si possono ottenere risultati estetici
veramente soddisfacenti ed attualmente (anche per
l'ottima qualità del materiale di sutura oggi disponibile)
viene usata con sempre maggior frequenza. Si esegue con
monofilamento di nylon o di acciaio che non provocano
reazione nel derma, non si imbibiscono e si sfilano
facilmente a breve distanza di tempo. Il filo viene fatto passare alternativamente da
un margine all'altro della ferita infiggendo l'ago nel derma e quindi teso facendo
trazione sulle due estremità, che vengono fissate alla cute con cerotti o annodate.
Dopo una settimana, per taluni anche solo 3-4 giorni, il filo può essere rimosso e
sostituito con semplici cerottini embricati sulla linea cicatriziale. Questo tipo di
sutura non può essere applicato quando l'incisione non è rettilinea o i margini della
ferita sono in tensione.
Tecnica di sutura-non-sutura,
consiste nell'affrontare i margini cutanei di una ferita
senza far uso di ago e filo ma con l’utilizzo di specifici
cerotti di carta che vengono applicati secondo le linee di
trazione della cute. Naturalmente può essere utilizzata
solo in caso di ferite non molto profonde, poco estese,
lineari ed in sedi esposte.

25
Le ferite difficili

LE FERITE DIFFICILI

Le perdite di sostanza tegumentarie vengono classificate in: ferite, piaghe, ulcere.


Le ferite sono soluzioni di continuo tegumentarie di recente insorgenza; le piaghe
sono ferite estese con una lenta tendenza alla guarigione; le ulcere sono lesioni
secondarie, di vecchia data, con scarsa tendenza alla guarigione. Tra le ferite difficili
possono essere incluse le:
 Lesioni dà decubito
 Ulcere venose, arteriose e miste
 Ulcere diabetiche
 Ulcere post-traumatiche
 Ulcere post-ustione
 Ulcere post-chirurgiche
 Ulcere post-radioderrniti
 Cicatrici distrofiche e acromiche
 Ulcere da stravaso di chemioterapici
 Necrosi post-settiche
E’ stato già ampiamente descritto come il processo di riparazione cutanea sia
caratterizzato da una complessa cascata di eventi che coinvolge risposte cellulari e
umorali volte a restaurare la continuità del tessuto ed a ripristinare una condizione
morfologica e funzionale il più possibile vicina a quella originaria. Per quanto
riguarda le ferite acute, il processo di guarigione si articola in quattro fasi principali:
• coagulazione
• infiammazione
• proliferazione cellulare e riparazione della matrice
• epitelizzazione e rimodellamento del tessuto cicatriziale.
Questi stadi raggruppano una sequenza di processi che in parte si susseguono e in
parte si sovrappongono mostrando una stretta interdipendenza con una tempistica
variabile e poco prevedibile ma di tutte le fasi quella del rimodellamento è la più
lunga, potendo durare anche 2 anni. Punto chiave del meccanismo riparativo è la
tendenza dell’organismo a ricoprire la zona danneggiata attraverso la migrazione
dell’epitelio di superficie. In seguito queste cellule, a contatto con il tessuto
sottostante, vengono sottoposte a una serie di segnali biologici che, all’interno di un
processo di riparazione normale, portano alla ricostituzione di una superficie

26
Le ferite difficili

epiteliale ben differenziata ed alla corretta reazione del tessuto mesenchimale


sottostante. Solitamente, il destino successivo della riparazione cutanea è la
cicatrice, caratterizzata da un tipico addensamento del tessuto connettivo in cui le
fibre collagene si organizzano in spessi fasci paralleli ma quando per varie ragioni
l’organismo si discosta da questo processo, per difetto di riparazione, le ferite
evolvono in ulcere croniche. A differenza di guanto si osserva nelle ferite acute, in
quelle croniche la sequenza ordinata di eventi riparatori viene sovvertita o
“arrestata” in uno stadio intermedio. Ciò che accade nelle ulcere croniche è la
mancanza di un’adeguata riepitelizzazione che comporta in genere un
prolungamento dello stato infiammatorio. Quando le cellule dell’epidermide non
riescono a migrare attraverso il tessuto delta ferita, si assiste a una
iperproliferazione ai margini della stessa che interferisce ulteriormente con la
normale migrazione cellulare attraverso il letto della ferita. La comprensione dei
processi cellulari che sottintendono alla guarigione fornisce informazioni preziose
sulle ferite che non guariscono.
Coagulazione
Durante la prima fase, il danno lesivo a carico dei vasi determina la fuoriuscita del
sangue e quindi la formazione del coagulo. Lo spazio compreso tra i margini della
ferita viene così ad essere occupato da una ricca rete di fibrina, plasma, leucociti ed
altri elementi cellulari ematici. Le piastrine attivate durante il processo di emostasi
danno inizio alla guarigione della ferita rilasciando diversi mediatori solubili, tra i
quali fattori di crescita e di migrazione cellulare. Questi diffondono rapidamente
dalla ferita attirando nell’area della lesione diverse cellule infiammatorie.
All’interno della ferita i fattori di crescita stimolano la proliferazione di vari tipi di
cellule (cellule epiteliali, fibroblasti, cheratinociti e cellule dell’endotelio vascolare)
e ne regolano le funzioni, come la produzione delle proteine della matrice
extracellulare che forniscono il substrato per il nuovo tessuto di granulazione.
Infiammazione
La coagulazione del sangue e il processo di degranulazione delle piastrine danno il
via alla fase dell’infiammazione caratterizzata da una notevole vasodilatazione,
aumentata permeabilità capillare, attivazione del complemento e migrazione di
granulociti neutrofili e macrotagi verso la sede della ferita. I neutrofili e i macrofagi
svolgono un’azione di protezione dalla contaminazione batterica e di detersione del
sito di lesione mediante digestione dei detriti tessutali danneggiati. Essi infatti sono
in grado di fagocitare e distruggere i microrganismi patogeni e di rilasciare proteasi
che degradano i componenti danneggiati della matrice extracellulare.

27
Le ferite difficili

Tra le sostanze liberate dai macrofagi ci sono le citochine, importanti messaggeri


attraverso i quali le cellule infiammatorie comunicano tra loro esercitando segnali di
stimolo e di inibizione che consentono il controllo della risposta infiammatoria. Nel
passaggio alla fase di proliferazione, i macrofagi svolgono dunque un ruolo
fondamentale rilasciando fattori di crescita e fattori chemiotattici che richiamano
nella ferita fibroblasti, cellule epiteliali e cellule dell’endotelio vascolare per
formare, a circa 5 giorni dalla lesione, il tessuto di granulazione.
Proliferazione cellulare e riparazione della matrice
Con il progressivo decremento del numero di cellule infiammatorie nella ferita, i
fibroblasti, le cellule endoteliali ed i cheratinociti dell’epidermide assumono il
controllo della sintesi dei fattori di crescita che continuano a promuovere la
migrazione e la proliferazione cellulare. Per soddisfare le elevate esigenze
metaboliche della proliferazione cellulare e della sintesi di nuova matrice
extracellulare in questa fase si osserva un marcato aumento della vascolarizzazione
dell’area della lesione e grazie alle cellule endoteliali si realizza la neoformazione di
capillari mentre i fibroblasti, cellule fondamentali del tessuto connettivo,
sintetizzano i componenti della matrice extracellulare. Questo tessuto, formato da
una densa popolazione cellulare di macrofagi e fibroblasti immersi in una matrice di
tessuto fibroso lasso riccamente vascolarizzato, costituisce il tessuto di granulazione.
La perdita di tessuto dovuta alla lesione viene inizialmente riempita da una matrice
provvisoria costituita prevalentemente da fibrina e fibronectina. Via via che i
fibroblasti vengono attirati nella matrice sintetizzano nuovo collagene, elastina e
altre molecole che formano la cicatrice iniziale e secernono la lisilossidasi, la quale
crea un reticolo nel collagene della matrice extracellulare. Tuttavia, prima che i
componenti della matrice di nuova sintesi possano integrarsi adeguatamente con la
matrice dermica esistente, è necessario che vengano rimosse tutte le proteine
danneggiate. Tale compito viene svolto dalle proteasi liberate da fibroblasti e cellule
endoteliali, comprese le collagenasi e le gelatinasi, che fanno parte della
superfamiglia delle metalloproteasi di matrice (MPM). Per azione di queste sostanze
enzimatiche inizia il rimodellamento della matrice provvisoria e la modificazione del
tessuto di granulazione fino a ricostituire una matrice connettivale in cui il rapporto
tra collagene di tipo I e di tipo IV è riportato a valori più vicini alla norma. Da ultimo
si realizza l’epitelizzazione della lesione ovvero la proliferazione e lo scivolamento
delle cellule epiteliali dai margini lìberi della ferita verso il centro. Le cellule
epiteliali migrano sul tessuto di granulazione e vanno a ricostituire lo strato
epidermico, portando a termine la riorganizzazione tessutale relativamente al

28
Le ferite difficili

numero degli strati e loro differenziazione. Normalmente la proliferazione e la


riparazione durano diverse settimane finché il completamento della barriera
epiteliale induce un arresto dei fenomeni reattivi sia infiammatori che proliferativi
mentre l’angiogenesi ritorna a valori normali con rimozione dei vasi in eccesso.
Epitelizzazione e rimodellamento del tessuto cicatriziale
Lo stadio finale della riparazione di una ferita prevede la formazione della cicatrice
che inizia simultaneamente alla formazione del tessuto di granulazione e si completa
con il suo rimodellamento. Durante la fase di sintesi delle molecole della nuova
matrice extracellulare. che prosegue per diverse settimane dopo l’iniziale chiusura
della ferita, la cicatrice è spesso visibilmente rossa e rilevata. Nell’arco di diversi
mesi l’aspetto della ferita di solito migliora: passa dal rosso violaceo al rosa
biancastro, diviene più morbida ed elastica e si appiattisce. Scompaiono inoltre
sintomi quali il prurito e il bruciore che spesso accompagnano le fasi iniziali del
rimodellamento cicatriziale. A livello cellulare questo processo è caratterizzato
dall’azione delle collagenasi che intervengono nel delicato equilibrio tra la sintesi e
la degradazione di fibre collagene e matrice extracellulare. Una parte della
popolazione di fibroblasti si modifica in miofibroblasti, acquistando motilità e
capacità contrattile e determinando la contrazione e la conseguente riduzione
dell’estensione della ferita. Nella fase finale del rimodellamento la resistenza alla
trazione raggiunge il suo massimo con la formazione di tessuto cicatriziale
relativamente elastico costituito da tessuto connettivo fibroso denso. La frazione
solubile del collagene si riduce mentre aumenta quella insolubile nonché il numero e
lo spessore delle fibre collagene che passano da una distribuzione fibrillare
disordinata ad uno stato di aggregazione in grandi fasci sempre più compatti e
organizzati. Le ferite croniche sono caratterizzate da un difetto di rimodellamento
della matrice extracellulare e da un arresto della fase di riepitelizzazione che
comportano un prolungamento dello stadio infiammatorio. Nelle ferite acute le
citochine infiammatorie raggiungono la concentrazione massima nel giro di qualche
giorno e poi, se la ferita non è infetta, tornano a livelli molto bassi. Nelle ferite che
non guariscono i livelli permangono elevati, mantenendo così l’ambiente
infiammatorio impedendo il passaggio alla fase proliferativa della guarigione. Nelle
normali risposte di riparazione tessutale giocano un ruolo importante numerose
proteasi, tra cui le metalloproteasi che regolano la migrazione cellulare ed il
rimaneggiamento della matrice extracellulare. La loro azione è in parte modulata
dall’intervento degli inibitori tessutali delle metalloproteasi e l’equilibrio tra
l’azione di questi e quella delle metalloproteasi appare cruciale nel determinare il

29
Le ferite difficili

buon esito della guarigione. Nel letto delle ferite croniche, probabilmente a causa
dell’effetto proinfiammatorio del tessuto necrotico e di una pesante carica batterica,
si osservano profonde modificazioni a livello cellulare e biochimico tra cui un
aumento dei livelli delle proteasi che degradano la matrice extracellulare appena
formata. Ne risulta una compromissione della migrazione cellulare e della
deposizione di tessuto connettivo. Si ritiene che le ulcere venose si “arrestino” alla
fase infiammatoria e che quelle diabetiche non vadano oltre la fase proliferativa.
Nelle ferite acute la secrezione delle molecole della matrice extracellulare (come la
fibronecfina e la trombospondina) ha un andamento ben definito. Nelle ferite
croniche sembra esserci una iperproduzione di molecole della matrice come
conseguenza di una sottostante disfunzione e di un’alterata regolazione cellulare . Il
fibrinogeno e la fibrina sono ben presenti nelle ferite croniche e si ritiene che queste
e altre macromolecole si leghino ai fattori di crescita e ad altre molecole che hanno
un ruolo nel favorire la riparazione della ferita. Così i fattori di crescita, seppur
presenti nella ferita in grande quantità, possono venire intrappolati e quindi non
essere disponibili per il processo di riparazione. I fibroblasti del derma producono
importanti proteine della matrice quali la fibronectina, le integrine ed il collagene
con cui formano una lamina basale sulla quale migrano i cheratinociti. Una scarsa
responsività di queste cellule può dunque ritardare notevolmente la riepitelizzazione
della ferita. Vari studi hanno analizzato l’essudato delle ferite croniche al fine di
comprendere i meccanismi che provocano l’arresto della guarigione. Molti altri sono
in corso per valutare se alcuni componenti possano rappresentare marker di facile
misurazione in grado di guidare le decisioni cliniche e monitorare la risposta al
trattamento. Parecchi dati dimostrano che l’essudato, rispecchiando la produzione
da parte del tessuto per la maggior parte dei suoi componenti, è sufficientemente
attendibile nel fornire informazioni sulla composizione dell’ambiente della ferita.
L’esame dell’essudato ha rivelato che il letto delle ferite croniche è esposto a un
ambiente ipossico e proteolitico che degrada i componenti della matrice
extracellulare e in cui vi è un’espressione di mediatori chimici dell’infiammazione
maggiore che nelle ferite acute. Per esempio le ulcere venose delle gambe devono
essere considerate una condizione di infiammazione cronica, come dimostra il fatto
che l’essudato da queste prelevato contiene un’elevata concentrazione di
interleuchine, proteasi e radicali liberi dell’ossigeno se comparato con quello delle
ferite acute. Lo stress ossidativo, in particolare, potrebbe essere implicato nella
patogenesi delle ulcere croniche, rendendosi responsabile del danno di molti
costituenti biochimici che intervengono nel normale processo di guarigione.

30
Le ferite difficili

L’essudato delle ferite croniche inoltre è diverso, da un punto di vista biochimico, da


quello delle ferite acute: rallenta o addirittura blocca la proliferazione di cellule
come i cheratinociti, i fibroblasti e le cellule endoteliali che sono essenziali per il
processo di guarigione della ferita. Diversamente da quanto succede per le ferite
acute, l’essudato delle ferite croniche:
 inibisce la proliferazione dei fibroblasti
 impedisce l’adesione cellulare e la migrazione delle cellule e attraverso il letto
della ferita
 mantiene la risposta infiammatoria attraverso livelli elevatì di citochine
proinfiammatorìe
 contiene macromolecole che, inibendo i fattori dì crescita, bloccano la
proliferazione cellulare contiene livelli elevati di metalloproteasi di matrice o MPM
che distruggono o alterano la matrice neoformata.
Dal momento che l’essudato delle ulcere croniche può ridurre le possibilità di
guarigione, risulta chiara la necessità di intervenire sul letto della ferita per
ripristinare l’ambiente adatto affinché la guarigione possa realizzarsi. E’
fondamentale dunque trattare adeguatamente le “ferite difficili” poiché una lesione
cutanea che rimane aperta per troppo tempo:
 obbliga quotidianamente alle medicazioni (procedimento che richiede tempo e
denaro);
 provoca un dolore continuo
 espone al rischio di contrarre infezioni che richiedono ulteriori cure.
Le piaghe da decubito
Le piaghe da pressione originano da un complesso
processo di distruzione dei tessuti. I termini: piaghe da
pressione, ulcere da decubito e piaghe da decubito
sono stati usati come sinonimi per riferirsi alle
ulcerazioni dei tessuti comunemente osservate nei
pazienti debilitati. Il termine decubito deriva dalla
parola latina “decumbere” che significa “giacere disteso” e sebbene questo termine
possa essere appropriato per i pazienti che sono costretti a letto non descrive
correttamente le ulcere dei pazienti che sono mobili. Poiché il processo fisiologico
comune è la pressione continua, piaghe da “pressione” è il miglior termine
descrittivo. In aggiunta alla pressione continua, i fattori che contribuiscono alla
formazione delle piaghe da pressione includono: alterata percezione sensoriale,
incontinenza, esposizione all’umidità, alterata attività e mobilità, frizione e forze di

31
Le ferite difficili

taglio. Individualmente ciascuno di questi fattori non porta alla formazione di una
ulcera ma in combinazione con la pressione senza sollievo, può dare origine ad un
danno irrevetsibile dei tessuti. Il sistema di classificazione più comunemente
accettato è quello della Conferenza di Sviluppo del Comitato Consultivo Nazionale
per l’accordo sulle Piaghe da Pressione (1989).

Stadio Descrizione
Stadio I Cute intatta ma arrossata per più di 1 ora dopo rilascio della pressione
Stadio II Flittene o altra interruzione del derma + infezione
Stadio III Distruzione sottocutanea del muscolo + infezione
Stadio IV Coinvolgimento dell’osso o articolazione + infezione

Nel corso degli ultimi 25 anni sono stati effettuati molti studi per determinare
l’incidenza delle piaghe da pressione che coinvolge circa il 9% di tutti i pazienti
ospedalizzati. Comunemente citata in tutti gli studi è la loro associazione con altri
problemi clinici, includendo malattie cardiovascolari (41%), malattie neurologiche
acute (27%) e lesioni ortopediche (15%). In aggiunta a questi, l’età è un fattore
associato. Da un punto di vista eziopatogenetico la pressione è il fattore eziologico
più importante. La compressione sui tessuti molli dà origine ad un’ischemia che, se
non rilevata, evolve verso la necrosi e l’ulcerazione e nei pazienti a rischio, questa
sequenza di eventi può essere accelerata da altre fonti endogene come l’infezione, il
diabete, una condizione neurologica alterata. Di tutte le ulcere da pressione, il 96%
insorge al di sotto della linea dell’ombelico ed il 75% sono localizzate intorno alla
cintura pelvica. Landis nel 1930 determinò la pressione dei capillari sanguigni in un
singolo capillare che varia da 12 mm Hg, alla terminazione venosa, a 32 mm Hg alla
terminazione arteriosa: se la forza di compressione esterna supera la pressione del
letto capillare la perfusione è compromessa e si svilupperà un’ischemia. Tuttavia
questo effetto non è istantaneo ma esiste una relazione inversa tra il grado di
pressione ed il tempo richiesto per l’insorgenza. Altri elementi importanti nella
genesi della piaga da decubito sono l’infezione, l’edema e la denervazione locale: il
rapido indice di decadimento cutaneo che si osserva nelle piaghe da pressione è
segno di un processo batterico poichè la cute compressa ha una minore resistenza
all’invasione batterica. La cute compressa e denervata diventa edematosa a causa di
molti processi: una volta che la pressione esterna supera 12 mm Hg le vene diventano
turgide e la pressione totale del tessuto aumenta con uno stravaso di plasma ed
edema locale. La presenza di tessuto denervato aggrava ulteriormente questo
processo con la perdita del tono simpatico dei vasi sanguigni. Inoltre l’edema è anche
il risultato di mediatori infiammatori rilasciati in risposta al trauma della
compressione. La normale omeostasi tra la PGF e le PGE è modificata in favore della

32
Le ferite difficili

PGE con aumentata perdita attraverso le membrane cellulari ed accumulo di fluido


interstiziale. Man mano che la concentrazione del plasma interstiziale cresce, il sebo
cutaneo, importante nella difesa contro le infezioni sia da streptococco che da
stafilococco, viene diluito perdendo progressivamente la capacità di barriera
protettiva.
Il piede diabetico
L’ eziologia principale del piede diabetico è la neuropatia che è presente in circa
l’80% dei pazienti con ulcere al piede. La neuropatia ha componenti metaboliche,
ischemiche ed anatomiche. Alti zuccheri nel sangue alterano il pathway dei
mioinositali nei neuroni, portando così ad un aumento delle concentrazioni
intracellulari di sorbitolo ed una diminuzione dell’attività del Na+. Ciò porta
all’edema ed alla disfunzione del nervo. Il processo è parzialmente reversibile con
l’inibizione della conversione del glucosio in sorbitolo.
Alterazioni nella microcircolazione e nella distribuzione
di ossigeno nel nervo porta ad una perdita focale dei
nervi mielinici e non. Inoltre, questi nervi edematosi
viaggiano attraverso stretti tunnel anatomici che li
comprimono ed accelerano il loro deterioramento. La
sensibilità protettiva viene persa ed i pazienti sono incapaci di sentire danni
incipienti o esistenti al piede. La neuropatia autonoma ha 2 effetti: l’anidrosi e
l’apertura degli shunt AV. L’anidrosi comporta lesioni cutanee e fornisce un punto
potenziale di entrata ai batteri. L’apertura di shunt AV permette al sangue di
aggirare parzialmente i capillari cutanei con un ridotto nutrimento cutaneo.
Aggirando l’alta resistenza del letto capillare cutaneo, il grado di afflusso attraverso
la gamba aumenta e la temperatura risultante del piede è di 2-3 più alta del
normale. Si pensa che questo afflusso maggiore attraverso l’osso contribuisca al
collasso precoce delle ossa della parte centrale del piede (piede Charcot) che si
osserva in 1 diabetico su 800. Infine, la neuropatia motoria può portare alla graduale
denervazione dei muscoli intrinseci del piede con perdita progressiva della flessione
metatarso-falangea e l’insorgenza di un piede a tenaglia. Quando il paziente spinge,
durante la normale andatura, la mole del peso rimane sulle articolazioni metatarso-
falange e non è trasferita alle dita con il risultato finale che la maggior parte delle
ulcere si formano sopra le teste metatarsali.
Classificazione di Wagner :
 Callosità, ulcere guarite, deformità cutanee.
 Ulcera superficiale.

33
Le ferite difficili

 Dal sottocute all’osso, tendini, legamenti, capsula.


 Osteite, osteomielite, ascesso.
 Gangrena del dito.
 Gangrena del piede.
Fino al 60% dei diabetici con ulcere che non guariscono è presente una malattia
vascolare. Le arterie interessate sono principalmente quelle distali rispetto
all’arteria poplitea, specificatamente le arterie tibiali e peronee. I diabetici hanno
una ridotta risposta immunitaria e quindi hanno un’aumentata sensibilità alle
infezioni. Le infezioni superficiali del piede diabetico sono solitamente causate da
batteri gram-positivi, come lo Streptococco o lo Stafilococco aureo ma quelle più
profonde tendono ad essere polimicrobiche e sono sostenute da cocchi gram-positivi
e bacilli gram-negativi aerobi così come dagli anaerobi. La cancrena sinergica di
Meleney è causata da uno streptococco anaerobio in associazione con lo Stafilococco
aureo.
Le ulcere cutanee
Le ulcere cutanee (UC) rappresentano una patologia
di elevato significato sociale in termini di spesa
pubblica assistenziale e di perdita di giornate
lavorative. Studi epidemiologici su vasta scala
riguardanti le ulcere cutanee sono piuttosto rari:
nel 1800 nell’ospedale di Bristol (Gran Bretagna) il
19% dei pazienti chirurgici ricoverati ed il 42% di quelli afferenti all’ambulatorio
chirurgico erano affetti da UC. In tempi più recenti gli studi epidemiologici indicano
una prevalenza variabile dallo 0.15 all’1.02 %. Tale variabilità è giustificata da una
consistente differenza dei campioni di popolazione esaminati e dalla modalità di
raccolta dei dati. Tuttavia, è chiaro che si tratta di patologie a carico delle fasce
avanzate di età. La prevalenza varia dallo 0.3% a 60 anni all’1% a 65 anni fino a
raggiungere il 5% a 90 anni. Nel complesso è stato calcolato che il rischio di
sviluppare una UC nel corso della vita coinvolge il 2.7 % della popolazione. I dati
riportati derivano da studi condotti in paesi occidentali industrializzati laddove
fattori genetici e di stile di vita (sedentarietà, dieta) favoriscono le patologie
vascolari di base e l’insufficienza venosa cronica (IVC). La patogenesi è
genericamente secondaria ad un’alterata funzione delle strutture vascolari

34
Le ferite difficili

venose, arteriose e linfatiche ovvero ai danni


Le ulcere cutanee: classificazione
ischemici conseguenti ad una prolungata
Venose
pressione (decubito). La UC identifica una lesione
Arteriose
derivante dalla perdita di sostanza cutanea in
Miste
assenza della normale tendenza di una ferita alla
Microangiopatiche
guarigione spontanea: è la naturale conseguenza
Pressione e cause chimico-fisiche
di fenomeni di degenerazione tissutale e/o delle
Neuropatiche
strutture sottostanti (fascia muscolare, muscoli,
Infettive
tendini). Qualunque sia la causa primitiva il
Metaboliche
danno è sostenuto da un’alterazione del sistema
Ematologiche
vascolare che mantiene il bilancio omeostatico
Neoplastiche
delle strutture cutanee con la riduzione di:
Deficit pompa muscolare
1) diffusione per impedimento degli scambi di
nutrienti tra circolo ematico e tessuti (come per edema o formazione di cuffia
fibrinica perivascolare) 2) perfusione per inadeguatezza della quantità di sangue nel
tessuto. Nella eziopatogenesi dell’ulcera cutanea l’omeostasi tissutale può essere
alterata su 4 livelli diversi: 1) livello di organo (es. l’arto inferiore); 2) livello
tissutale specifico (microcircolo cutaneo); 3) livello cellulare (cellule endoteliali,
ematiche, fibroblasti e, attraverso questi ultimi, l’intera matrice extracellulare); 4)
livello subcellulare (processi metabolici, ph, temperatura, osmolarità, funzione
coagulativa, anticorpi ed immunocomplessi circolanti, funzione complementare,
etc.). E’ evidente che tali livelli di controllo dell’equilibrio nutritivo e funzionale
della cute sono intercomunicanti e l’anomalia di uno di essi crea delle modificazioni
a catena. Da questa impostazione fisiopatologica deriva uno schema classificativo
sulla base del distretto circolatorio danneggiato e del profilo anatomico/funzionale.
Nella tabella riassuntiva non sono riportate le ulcere linfatiche come entità
autonoma poichè la compromissione del sistema linfatico è essenzialmente
secondaria alla condizione di insufficienza venosa cronica e ne rappresenta una
frequente complicanza. E’ stato considerato invece fattore causale il deficit della
funzione di pompa muscolare, primitivo o secondario, che è responsabile di
un’alterata funzionalità del distretto circolatorio venoso in assenza di apparenti
patologie strutturali.
Da tutto quanto espresso in precedenza appare chiaro che la cura delle ferite difficili
è caratterizzata da un coacervo di presidi terapeutici finalizzati ad una gestione
globale e coordinata delle lesioni non soltanto per accelerare i processi endogeni di
guarigione ma anche per promuovere l’efficacia delle differenti misure terapeutiche.

35
Le ferite difficili

I protocolli di cura prevedono una fase iniziale comune caratterizzata dalla


preparazione del letto della ferita (wound bed).
Il “wound bed “prevede:
 deibridement della ferita con medicazioni avanzate in grado di eliminare i tessuti
necrotici (es. idrogel, fibrinolitici);
 gestione dell’essudato e della carica batterica con medicazioni assorbenti e
modicamente antisettiche (schiume poliuretaniche, alginati; idrocolloidi;
medicazioni a base di argento);
 correzione del microambiente, biologico, con medicazioni che stimolano la
riparazione tissutale (acido jaluronico in matrice o in granuli) o innesti ingegnerizzati
che sostituiscono i tessuti alterati.
Lo scopo di tutto questo iter terapeutico è quello di condurre una ferita difficile ad
una corretta guarigione o per Io meno verso un’adeguata preparazione del letto della
ferita al fine dì rendere possibile un successivo intervento ricostruttivo. Tra le
possibilità di trattamento delle “ferite difficili” possiamo inoltre schematicamente
includere:
 tecniche ancillari (elastocompressione, angioplastica, ossigenoterapia iperbarica
vacuum assisted closure therapy, perdurale continua);
 medicazioni avanzate;
 tessuti ingegnerizzati;
 chirurgia;
L’elastocompressione è la tecnica utilizzata per il trattamento e la prevenzione delle
ulcere da stasi venosa e linfatica. Il meccanismo di azione sì basa sull’aumento della
pressione interstiziale al fine di controbilanciare l’aumentata pressione veno-
linfatica e capillare. L’elastocompressione, inoltre, è fondamentale per migliorare il
ritorno venoso aumentando la compressione estrinseca sulla rete venosa.
L’angioplastica è tecnica che consente la rivascolarizzazione degli arti inferiori
colpiti da ischemia critica Viene utilizzata quando valori di pressione sistolica alla
caviglia inferiori ai 50 mmHg ed all’alluce inferiori ai 30 mmHg sono associati a
dolore incoercibile presente da più di 2 settimane o ad ulcera o gangrena delle dita
del piede. La perdurale continua è una tecnica che consente di ottenere una
analgesia continua e determina anche una vasodilatazione a livello periferico.
L’ ossigenoterapia iperbarica è una metodica non invasiva che è molto utilizzata nei
processi degenerativi in quanto favorisce la rigenerazione tissutale. Tale tecnica,
infatti, consente di avere un metabolismo aerobio, di ridurre le concentrazioni di
acido lattico mediante metabolizzazione ossidativa, permette di ridurre l’edema e di

36
Le ferite difficili

conseguenza l’ischemia tissutale; essa, infine, ha una importante azione antinfettiva


ed è determinante nel demarcare la cosiddetta “zona migliorando cioè la vitalità dei
tessuti scarsamente ossigertati La VAC è un sistema non invasivo il cui meccanismo di
azione è quello di applicare una pressione negativa controllata e localizzata, la quale
favorisce la guarigione di ferite acute e croniche Tale metodica consente l’ottimale
rimozione degli essudati ripristina la pressione ottimale e quella del flusso capillare e
stimola la granulazione. Le medicazioni avanzate sono rappresentate da materiali di
copertura che hanno caratteristiche di biocompatibilità: determinano, infatti,
un’interazione del materiale con i tessuti, evocando una specifica risposta.
Generalmente si tratta di medicazioni occlusive che realizzano un ambiente umido
nell’interfaccia tra la lesione e la medicazione stessa. Esistono molti tipi di
medicazioni avanzate (idrogel, schiume in poliuretano, medicazioni all’argento
microcristallino medicazioni composte, ecc.), e la scelta tra esse è determinata dal
particolare caso clinico. Generalmente le medicazioni avanzate vengono utilizzate
sempre, in associazione o meno ad altre metodiche proprio perché consentono di
preparare il letto della ferita in quanto favoriscono il debridement, consentono Ia
corretta gestione degli essudati e correggono il microambiente biologico delle ferite.
I tessuti ingegnerizzati sono tessuti viventi processati in laboratorio, costituiti da
cellule autologhe (prelevate mediante biopsia cutanea del paziente) seminate in un
biomateriale naturale (acido jaluronico). Oggi è possibile produrre in laboratorio il
derma, l’epidermide, la cartilagine sono ancora in fase di preparazione il tessuto
adiposo e la cute one-step (derma + epidermide). In chirurgia plastica gli innesti
di.cute ingegnerizzata vengono utilizzati come riparazione di perdite di sostanza
(derma e poi cheratinociti) o come preparazione del letto della ferita (solo derma),
infine come riempitivo. Campi di applicazione tipici sono: le ulcere diabetiche degli
arti inferiori, le ulcere venose, arteriose, miste; le ulcere da decubito post-
chirugiche. La chirurgia viene riservata ai casi in cui sono presenti lesioni distrofìche
su osteomielite, o quando. c’è esposizione ossea o articolare; è la tecnica di scelta
anche nelle lesioni da decubito di IV stadio, soprattutto a livello ischiatico, e quando
siamo di fronte ad ulcere da stravaso di chemioterapici. Essa si avvale di numerose
possibilità ricostruttive, che spaziano dai lembi fasciocutanei a quelli miocutanei fino
ai lembi liberi

37
Cicatrici patologiche

CICATRICI PATOLOGICHE

Cicatrice ipotrofica
La cicatrice atrofica o ipotrofica è determinata da una diminuita produzione di
tessuto di granulazione e da una ritardata epitelizzazione secondaria a fattori
esogeni (deficit alimentari, infezioni, corpi estranei, fenomeni compressivi) ed a
fattori endogeni (turbe circolatorie, malattie metaboliche, patologie cutanee,
malattie infettive croniche, deficit immunitari). Clinicamente si presenta come
un’area depressa traslucida, ipopigmentata, talvolta marezzata per la presenza di
teleangectasie periferiche, con occasionali ulcerazioni. La cicatrice atrofica è
particolarmente possibile nei pazienti affetti da diabete mellito: dati sperimentali
indicano che non è l’iperglicemia che inibisce la guarigione della ferita ma,
piuttosto, la mancanza di insulina. Altre anormalità manifestate nei diabetici
comprendono un deterioramento dei fibroblasti, della proliferazione delle cellule
endoteliali, della epitelizzazione, una riduzione del deposito di collagene ed una
ridotta forza della cicatrice. Fattori ambientali possono contribuire alla normale
guarigione della ferita. Tutti i fattori richiesti per una normale sintesi del collagene
(ossigeno, amminoacidi essenziali, adeguata energia calorica per permettere la
sintesi delle proteine) sono condizione indispensabile per un fisiologico iter
cicatriziale: l’ascorbato (vitamina C) è un cofattore richiesto per l’idrossilazione
della prolina e la lisina durante la formazione del collagene. La sua carenza
(scorbuto) può causare una inadeguata produzione di collagene idrossilato, che è
degradato rapidamente o non riesce a formare legami crociati adeguati. Basse
concentrazioni di elementi quali zinco, rame e ferro interferiscono con la guarigione
così come alcuni farmaci (steroidi e sostanze antineoplastiche) interagiscono
negativamente con la proliferazione cellulare o la
sintesi delle proteine. Una parte significativa nel
turnover tissutale nella cicatrizzazione normale è
mediata dagli elementi della matrice del gruppo delle
metalloproteinasi (MMP). Le MMPs costituiscono un
gruppo di endopeptidasi zinco-dipendenti che includono
le collagenasi, le gelatinasi e le stromelisine. Un aumento del turnover della matrice
extracellulare può ostacolare il normale sviluppo del tessuto cicatriziale.

38
Cicatrici patologiche

Cicatrice ipertrofica e cheloide


La cicatrice ipertrofica ed il cheloide sono proliferazioni di tessuto fibroso cutaneo
conseguenti ad un trauma o ad un evento infiammatorio locale. La prima insorge
circoscritta nella sede primaria della lesione mentre il cheloide interessa anche le
aree adiacenti. Materiale estraneo esogeno o endogeno nell’area traumatizzata o
sede di un evento infiammatorio, un trauma, infezioni batteriche locali e particolari
regioni anatomiche (padiglioni auricolari, collo, spalle, tronco superiore) possono
favorire lo sviluppo delle due anomalie cicatriziali. Esistono anche fattori generali
predisponenti di tipo familiare (autosomici dominanti e recessivi) e di tipo razziale.
Le neoformazioni insorgono dopo qualche mese dall’evento traumatico o
infiammatorio come papule o placche rilevate, di color rosa-rosso, dure, di forma
sovrapponibile alla lesione primitiva traumatica. In questa fase non è possibile
distinguere una cicatrice ipertrofica da un potenziale cheloide. La crescita può
cessare dopo qualche mese oppure continuare in maniera anche intermittente per
tempi più lunghi. La cicatrice rimane sempre ben circoscritta, mentre il cheloide
dopo qualche mese si estende oltre l’area originale. Entrambe le lesioni possono
essere pruriginose ed il cheloide viene spesso associato a dolore e parestesia locale.
Alcune volte soprattutto i cheloidi possono essere particolarmente sfiguranti e
inabilitanti. Grossi cheloidi sono stati descritti in pazienti affetti da sclerosi
sistemica, da progeria, da pachidermoperiostosi e da altre rare sindromi complesse.
La cicatrice anomala comincia generalmente a svilupparsi nelle settimane subito
dopo il danno, mentre il cheloide si può sviluppare fino ad un anno più tardi.
Istologicamente la differenza tra cicatrice ipertrofica e cheloide è minima, tutte e
due differiscono dalla cicatrice normotrofica per la ricca vascolarizzazione, per l’alta
densità del mesenchima e per l’ addensamento dello strato dermico. Le fibre di
collagene sono organizzate in un vortice, inoltre la sostanza mucinosa è presente in
grande quantità nei cheloidi ma la densità dei fibroblasti è minore che nelle cicatrici
ipertrofiche. La microscopia a scansione elettronica mostra la differenza morfologica
ultrastrutturale nelle cicatrici ipertrofiche che hanno fibre collagene meno marcate
che nella cute normale o cicatriziale. Si osserva altresì che nelle cicatrici
ipertrofiche le fibre collagene sono accorciate e sono disposte in modo ondulato.
I cheloidi sono sempre meno organizzati e presentano larghe e irregolari fibre
collagene e ridotta distanza interfibrillare. Il nodulo di collagene è assente nelle
cicatrici mature, ma è presente nelle cicatrici ipertrofiche e nei cheloidi, contiene
un’ alta densità di fibroblasti e le fibrille del collagene sono unidirezionali ed
estremamente orientate. Biochimicamente si osservano marcate differenze tra la

39
Cicatrici patologiche

cute normale, la cicatrice matura e la cicatrice anomala, infatti la sintesi del


collagene è 3 volte maggiore nei cheloidi che nelle cicatrici ipertrofiche e 20 volte
nei cheloidi rispetto alla cute normale. La quantità di collagene solubile è aumentata
anche nei cheloidi ed è indicativo l’aumento della sintesi di collagene e l’aumentata
degradazione o riduzione del legame crociato. Le cicatrici mature hanno un
contenuto più alto di collagene di quello che si trova nei cheloidi. L’attività della
collagenasi è 14 volte più grande nei cheloidi che nella cicatrice normale mentre
nella cicatrice ipertrofica è aumentata di 4 volte rispetto alla cute normale. C’è
inoltre nel siero della cicatrice anomala una diminuzione di inibitori della proteinasi
(α1 antitripsina e α2 macroglobulina) che contribuiscono ad un aumento della
deposizione di collagene sia nei cheloidi che nelle cicatrici ipertrofiche. La
valutazione biochimica della matrice extracellulare indica un aumento della
fibronectina e acido ialuronico nei pazienti con cicatrizzazione anomala rispetto a
quelli con cute normale. Il tipo di collagene presente è anch’esso diverso nei pazienti
con cicatrizzazione anomala. Il tessuto cheloideo contiene il 32% di collagene tipo III
rispetto al collagene di tipo normale. Il collagene di tipo II ha un legame crociato
immaturo, il che indica un processo patologico durante il quale la matrice
extracellulare non matura e perciò non raggiunge una stabilità normale. L’influenza
del fattore della crescita sulla cicatrice abnorme è fino ad ora poco chiara. Una
cicatrice ipertrofica con seguente a proliferazione fibroblastica riduce la risposta all’
EGF ma non al TNF-α o PDGF. Diversamente dai fibroblasti normali quelli delle
cicatrici ipertrofiche dimostrano di non aumentare la sintesi del collagene quando
sono influenzati dal TGF-β. La miglior terapia dei cheloidi e delle cicatrici
ipertrofiche resta poco chiara e di non facile scelta. L’escissione chirurgica da sola
comporta un’altissima percentuale di recidive e deve essere preceduta o seguita da
irradiazione e/o somministrazione intralesionale di
steroidi. Il trattamento non chirurgico dei cheloidi
può essere suddiviso in due gruppi maggiori: fisico e
farmacologico. Tra gli esempi di trattamento fisico si
annoverano la radioterapia, gli ultrasuoni la
crioterapia, la pressoterapia, la laserterapia e la
pressoterapia protratta per 4-6 mesi. I protocolli farmacologici sono diversi ma quelli
usati maggiormente sono gli steroidi per via intralesionale, la penicillamina, l’acido
retinoico, il destrano solfato, agenti antineoplastici, strisce adesive di zinco e gel di
silicone, l’interferone γ (nelle cicatrici ipertrofiche) l’interferone-α (nei cheloidi).

40
Innesti e lembi

INNESTI E LEMBI

Innesti o trapianti
Classificazione
Gli innesti di tessuti possono essere classificati in base:
1. al rapporto esistente tra donatore e ospite;
2. in rapporto alla sede di impianto rispetto alla sede di origine;
3. rispetto alle modalità tecniche adottate per l'esecuzione chirurgica del trapianto.
1) Dal rapporto esistente tra donatore e ospite risultano:
a) trapianto autologo, o autotrapianto. Il trapianto è un lembo di tessuto trasferito
da una se de all'altra dello stesso organismo, per cui donatore e ricevente sono la
stessa persona. Esempio di trapianto autologo può essere dato da un lembo di cute
prelevato dalle cosce o dall'addome e trapiantato sul viso o sul le mani dello stesso
paziente. Altro esempio è rappresentato da segmenti tendinei prelevati dal campo
degli estensori dei piedi e trapiantati in funzione di flessori delle mani; altro ancora,
un frammento osseo prelevato dalla tibia o dalla spina iliaca antero-superiore e
trapiantato nelle mani o sul volto.
b)trapianto omologo: lembo di tessuto trasferito da un individuo all'altro della stessa
specie (fra uomo e uomo, fra ratto e ratto, fra cane e cane). Esempio di trapianto
omologo: lembi cutanei donati dalla madre al figlio a copertura di aree di distruzione
cutanea o lembi di cute di cadavere utilizzati allo stesso scopo nei grandi ustionati.
Tipico esempio di trapianto omologo è rappresentato dai trapianti corneali.
Sempre nel campo degli omoinnesti, il diverso grado di vicinanza genetica esistente
tra donatore e ospite della stessa specie, trova una più precisa classificazione:
trapianto singinesico indica il tessuto trasferito tra diretti consanguinei (da padre o
madre a figlio, per esempio, e viceversa); isotrapianti corrispondono a tessuti
scambiati tra individui consanguinei che, in seguito a prolungate ibridazioni, hanno
raggiunto un alto grado di uniformità genetica; trapianti isoistogenici sono lembi di
tessuto scambiati tra individui consanguinei che hanno raggiunto attraverso
l'ibridazione una completa identità nella qualità, numero e distribuzione dei singoli
elementi genetici. Negli animali risultanti isoistogenici fra di loro l'unico elemento
differenziale è rappresentato dal cromosoma sessuale Y. Non vengono compresi fra
gli omologhi i trapianti scambiati tra gemelli monovulari, perchè risultano dalla
suddivisione di un unico ovocita, pur trattandosi di due distinti individui.

41
Innesti e lembi

c) Trapianto eterologo: tessuto trasferito da un individuo all'altro di specie diversa.


2) La classificazione risultante dalla posizione originaria del trapianto rispetto alla
sede in cui viene trasferito è la seguente:
a) Trapianto isotopico: tessuto trasferito da una sede ad un'altra topograficamente
coincidente. E' un trapianto autologo isotopico un frammento osseo prelevato dalla
tibia di una gamba e trasferito nella identica posizione dell'arto controlaterale.
b)Trapianto ortotopico: tessuto trasferito nella sede anatomica naturale senza che
l'area donatrice coincida necessariamente con quella ricevente.
Si definisce trapianto ortotopico un lembo cutaneo prelevato dall'addome e trasferito
sulle mani o sul volto, o un segmento del nervo surale posto nella soluzione di
continuo del nervo mediano.
c)Trapianti eterotopici vengono definiti quei tessuti trasferiti in una posizione
anomala rispetto alla loro originale sede anatomica. Trapianti autologhi eterotopici
sono, per esempio, lembi di cute trasferiti a riparare soluzioni di continuo di mucosa
o frammenti di osso o di cartilagine trasferiti a scopo di sostegno in una sede dove
normalmente cartilagine od osso non esistono.
3) L'utilizzazione clinica riconosce diverse modalità di esecuzione chirurgica dei
trapianti.
Si definiscono trapianti liberi quei tessuti cutanei (o tendinei, nervosi, cartilaginei,
ossei, fasciali, di grasso, ecc.) che vengono completamente staccati dal territorio di
origine e trapiantati liberamente in altra sede. Trapianti peduncolati sono quei
tessuti cutanei - includenti anche il grasso sottocutaneo - che vengono trasferiti da
una sede all'altra immediatamente adiacente dello stesso organismo mediante
l'ausilio di un peduncolo nutritivo che ne assicura una sufficiente irrorazione fino al
definitivo attecchimento nella nuova sede di impianto. Trapianti peduncolati
tubolizzati sono quei tessuti cutanei provvisti di grasso sottocutaneo che, grazie a
particolari accorgimenti chirurgici vengono fatti lentamente migrare da una sede ad
un'altra, anche molto lontana, dello stesso organismo, acquisendo negli intervalli fra
una dislocazione e l'altra nuovi, sufficienti peduncoli nutritivi. Fra i trapianti
peduncolati viene inoltre inserito il trapianto vascolare (artery flap degli
anglosassoni), rappresentato da un lembo cutaneo includente anche il tessuto
sottocutaneo ricavato dall'area di irrorazione di una determinata arteria, che viene
isolata col relativo vaso venoso al l'atto del prelievo del trapianto e spostata rispetto
al suo orientamento originale per seguire il lembo cutaneo nel la sua nuova sede di
impianto. Per innesto cutaneo si intende un tratto di epidermide e derma di
grandezza e spessore variabili, che, avulso dalle connessioni vascolari con la sua zona

42
Innesti e lembi

di origine (area donatrice), viene trasferito ad altra area (ricevente), sede della
perdita di sostanza cutanea.
Innesti di cute
Per innesto cutaneo si intende un tratto di epidermide e derma di grandezza e
spessore variabili, che, avulso dalle connessioni vascolari con la sua zona di origine
(area donatrice), viene trasferito ad altra area (ricevente), sede della perdita di
sostanza cutanea. (Fig.1)

Fig.1 Tecnica di prelievo cutaneo con il Fig.2: Spessore degli innesti di cute
dermotomo manuale

Gli innesti di cute si definiscono:


 autologhi (il donatore è il paziente stesso);
 omologhi (il donatore appartiene alla stessa specie);
 eterologhi (il donatore appartiene ad una specie diversa).
Nell’ambito degli innesti autologhi si distinguono innesti sottili, di medio spessore o
spessi e innesti di cute totale. (Fig.2)
I primi comprendono nel prelievo, oltre all’epidermide, il solo derma papillare
(trapianto dermo-epidermico a 1/3 di spessore) o il derma papillare e parte del
derma reticolare o addirittura gran parte di quest’ultimo (trapianto dermo-
epidermico a 2/3 di spessore). Gli innesti di cute totale, invece, prevedono nella loro
compagine lo strato epidermico ed il derma in toto fino all’ipoderma.
L’attecchimento di un innesto cutaneo si realizza in tre fasi:
a) fase di inbibizione plasmatica, che è tipica delle prime 24-36 ore, nella quale la
nutrizione del trapianto avviene a spese della trasudazione plasmatica dei capillari
dell’area ricevente. In questa fase il colorito dell’innesto appare pallido.
b) fase di rivascolarizzazione: a partire dalla terza giornata si creano anastomosi va
scolari tra il letto ricevente e il trapianto per la migrazione di gettoni di angioblasti

43
Innesti e lembi

che avanzano con sempre maggior facilità nei vasi dell’innesto. In questa fase il
colorito del trapianto è roseo.
c) fase di organizzazione: a partire dal 4°-5° giorno lo strato di fibrina e leucociti
che separa letto ricevente ed innesto viene invaso dai fibroblasti. Saranno questi
elementi del tessuto connettivo i responsabili della minore o maggiore retrazione
cicatriziale successiva. Il colorito dell’innesto in questa fase e nel periodo seguente
si presenta ancora roseo, tendente nel tempo ad assumere un aspetto simile alla cute
circostante. È evidente che gli innesti sottili attecchiscono più facilmente di quelli
spessi o di cute totale: ciò è dovuto al fatto che tali innesti sono in grado di
sopravvivere meglio alla prima fase di imbibizione plasmatica, e che quindi anche la
seconda fase, quella della rivascolarizzazione, può completarsi più rapidamente. Gli
innesti cutanei rappresentano il metodo più largamente in uso per la copertura di
aree cruente di una certa dimensione, esiti di traumi o di ustioni, o come immediata
correzione di deficit tegumentari susseguenti alla exeresi di neoplasie cutanee. Il
loro impiego è altresì utile ed, a volte, indispensabile, nella correzione di aree
cicatriziali o in caso di cicatrici retraenti, soprattutto a livello delle superfici
articolari. Si utilizzano generalmente innesti cutanei di spessore sottile o medio nei
casi in cui la copertura rappresenta una necessità immediata; esempio tipico è
rappresentato dalle perdite di sostanza cutanea post-traumatiche, laddove si è in
presenza di un letto ricevente non sufficientemente deterso, e quindi
l’attecchimento di un trapianto di spessore maggiore diverrebbe insicuro. Altri casi
sono rappresentati dalla copertura di piaghe o ulcere torpide, al solo scopo di
favorire o completare la sterilizzazione della lesione (uso temporaneo). Questo tipo
di innesti cutanei viene prelevato facendo uso di una metodica chirurgica
estremamente semplice, potendo disporre de gli strumenti idonei. Le aree donatrici
possono essere le più svariate, ma si preferisce per evidenti ragioni estetiche dare la
priorità alle zone del corpo meno visibili, o meglio più facilmente occultabili. Dette
aree sono le regioni glutee e le superfici anteriori e posteriori delle cosce.
L’innesto di cute totale comprende l’intero spessore della cute. A causa del suo
spessore, questo tipo di trapianto cutaneo, è più lentamente rivascolarizzato,
rispetto agli innesti sottili o medi, e richiede quindi condizioni ottimali, quali un
adeguato apporto ematico e una totale immobilizzazione. Rispetto agli innesti sottili,
la cute totale presenta peraltro diversi vantaggi:
a) ha minor tendenza alla retrazione, soprattutto quando è trapiantato in un’area
dove è notevole la presenza di tessuto mobile e morbido, quali il viso, il collo, le
ascelle;

44
Innesti e lembi

b) ha minore tendenza alla iperpigmentazione;


c) la copertura è, dal punto di vista funzionale, migliore.
L’innesto a tutto spessore viene generalmente impiegato per la definitiva copertura,
per esempio, di una perdita di sostanza del viso, laddove si ritiene di poter ottenere
un risultato estetico migliore rispetto all’uso di un lembo di vicinanza, oppure
quando ciò non è possibile o facilmente realizzabile. Questi tipi di trapianto offrono
la soluzione ideale per la ricostruzione, per esempio, delle palpebre, dove la
differenza di tessitura e colore è praticamente indistinguibile. Altra indicazione
estremamente importante è rappresentata dalla copertura di difetti residuati dalla
escissione di neoplasie cutanee, in particolare quelle situate nel distretto cefalico.
Le cause principali di fallimento di questa metodica sono rappresentate da:
a) Ematoma;
b)Fattori meccanici esterni (insufficiente immobilizzazione ed improprio bendaggio);
c) Necrosi del letto ricevente (è sconsigliabile apporre un innesto direttamente sul
tessuto adiposo, in quanto questo è assai povero di vasi);
d) Infezione.
L'area cruentata dal prelievo di un lembo epidermico ripara spontaneamente nello
spazio di 8-10 giorni, grazie ad una rapida proliferazione dell'epitelio partente dai
lumi delle ghiandole sudoripare e sebacee e dai margini della lesione. La stessa area
donatrice può essere utilizzata per un successivo prelievo a distanza di tre settimane
dal primo. Un tempo analogo è necessario per la guarigione di un'area sottoposta al
prelievo di un trapianto a 1/3 di spessore. Anche in questo caso è possibile
riutilizzare l'area donatrice a distanza di un mese circa per un successivo prelievo e
ciò si spiega con la diminuzione nel numero dei lumi ghiandolari che si incontrano
negli strati più profondi del derma. Non raramente la guarigione di queste aree
donatrici si verifica con la partecipazione di processi connettivali che tendono a
lasciare qualche esito cicatriziale. Le aree scelte per il prelievo di un trapianto
cutaneo a tutto spessore guariscono, in rapporto alla loro estensione, mediante
l'affrontamento e la sutura diretta dei margini; quando ciò non sia possibile mediante
il trasferimento di un trapianto libero a mezzo spessore prelevato in altra sede.

45
Innesti e lembi

Innesto o trapianto di cute: (Fig.3)


a: perdita di sostanza
b: prelievo da area donatrice
c: posizionamento e fissaggio
d: medicazione

Fig.3: Esecuzione tecnica di un innesto di cute

Innesti di cartilagine
Tra i materiali di sostegno, la cartilagine è un tessuto che ben si presta ad essere
utilizzato come innesto, qualora si voglia sfruttare le sue prerogative strutturali di
elasticità, flessibilità e resistenza.
Tuttavia, mentre alcuni decenni addietro era considerata il miglior materiale per
questo scopo, tanto che Gillies lo definiva come «impareggiabile» e Sanvenero
Rosselli «il materiale di gran lunga più adatto»; progressivamente ha perso terreno;
Sanvenero Rosselli, infatti, più tardi afferma che «divide con l’osso il numero delle
indicazioni in fatto del miglior materiale da innestare».
Attualmente, pur essendo ancora uno dei materiali più largamente usati dal chirurgo
plastico, il suo impiego si è andato delimitando a precise indicazioni cliniche nelle
quali pur tuttavia è in grado di fornire sicuri risultati, sia morfologici che funzionali,
restando in questi casi, insostituibile. Non tratteremo in questa sede della biologia
generale di questo innesto né dei suoi vari tipi (omoinnesto, isoinnesto, eteroinnesto
con cartilagine viva, con cartilagine morta) ma soltanto degli innesti autoplastici, gli
unici che abbiano sino ad oggi una valida applicazione clinica secondo il criterio della
«restaurazione biologica» in senso stretto; infatti se si vogliono realizzare condizioni
ottimali di successo, gli innesti cartilaginei dovranno essere autogeni e viventi ed il
materiale di restauro dovrà non solo provenire dall’individuo che ne ha bisogno, ma
anche avere la maggiore identità possibile con quello perduto o che si deve
sostituire. Gli innesti di cartilagine omoplastica, per la loro particolare costituzione
strutturale (cellule immerse nella sostanza fondamentale che le protegge dal
contatto diretto di eventuali cellule linfoidi), sopravvivono per molto tempo e più a
lungo di altri omoinnesti (cute, osso, ecc.), e pertanto vengono utilizzati con una

46
Innesti e lembi

certa frequenza, data la facilità del loro prelievo (ad es. settorinoplastica
correttiva), sia come omoinnesti freschi, sia come omoinnesti conservati e posti in
frigorifero a 4 °C.
La cartilagine è un particolare tessuto di origine mesenchimale costituito
fondamentalmente da:
a) sostanze intercellulari (matrice) che contengono fibre collagene ed eventualmente
elastiche, immerse nella sostanza fondamentale, la quale oltre a sostanze proteiche
non specifiche ed una proteina complessa specifica (il condroproteide) il cui gruppo
prostetico (l’acido condroitinsolforico) è un polisaccaride solforato;
b) elementi cellulari (condrociti), contenuti in numero di 1, 2, 3, 4, in particolari
lacune della sostanza intercellulare, che costituiscono la cellula parenchimale
cartilaginea, alla quale è legato il destino dell’innesto stesso.
Caratteristica del tessuto cartilagineo è la completa assenza di vasi nel suo contesto,
come si riscontra nella cornea e nell’epidermide; la sua nutrizione avviene
unicamente per imbibizione mediante scambi osmotici con l’ambiente che lo
circonda: il pericondrio in condizioni normali, l’area ricevente quando diventa
innesto. La facilità di prelievo di questo innesto, la sua relativa abbondanza come
materiale donatore, la possibilità di poter essere con facilità modellato nelle forme
più diverse, la capacità di mantenere costante il suo volume originario, sono
prerogative che lo rendono utile e talora insostituibile. L’innesto di cartilagine
tuttavia non prende mai solida connessione organica con la nuova sede di impianto;
altro svantaggio è che in breve tempo può subire fenomeni di torsione dal lato
pericondrale e ciò può alterare in modo notevole un risultato inizialmente brillante.
Il problema della torsione dell’innesto cartilagineo è stato recentemente studiato ed
almeno in parte ne è stata fornita spiegazione assai attendibile: nella cartilagine
esisterebbero «forze interreagenti» che solo un evento traumatico metterebbe in
evidenza; tali «forze intrinseche deformanti» determinerebbero la anomalia solo
dopo che una lesione o un intervento chirurgico abbiano rotto l’equilibrio delle due
superfici con formazione di zone di tensione e relativa compressione che tendono poi
a perpetuare nel tempo la deformazione. Ottima procedura è quella di modellare
l’innesto in maniera tale da contenere esattamente su ogni lato un eguale strato di
cartilagine sub-pericondrale. Mentre in tutte le varietà di cartilagine le cellule hanno
caratteri pressoché uniformi, sia pur con disposizione e densità diversa, la sostanza
intercellulare si presenta con caratteri fisici e strutturali diversi. Si distinguono così
tre tipi di cartilagine a seconda della natura delle fibrille della sostanza
fondamentale: cartilagine ialina, cartilagine elastica e cartilagine fibrosa.

47
Innesti e lembi

Innesti ossei
L’osso è un tessuto connettivo molto differenziato la cui caratteristica durezza è
dovuta ai sali di calcio precipitati nella sostanza fondamentale interposta ad una
densa matrice di fibre collagene. La parte esterna o corticale è formata da osso
compatto, mentre la parte interna è rappresentata da uno spazio virtuale, la cavità
midollare, riempita da midollo osseo e rivestita da una membrana vascolare,
l’endostio. Fra questi due strati è compreso l’osso spugnoso caratterizzato da
trabecole ossee intercalate a midollo. Esternamente l’osso è avvolto da una
membrana fibrosa detta periostio. L’unità strutturale di base del tessuto osseo è
l’osteone; è costituito da lamelle concentriche che circondano un canalicolo
centrale, canale di Havers, nel quale sono presenti vasi sanguigni e fibrille nervose.
Tra le lamelle esistono cavità ovali, le lacune, contenenti gli osteociti i cui
prolungamenti protoplasmatici, attraverso i canalicoli si mettono in contatto con
altri osteociti limitrofi. Gli osteociti prendono origine dagli osteoblasti situati nello
strato profondo del periostio e dell’endostio. Gli osteoblasti assumono proprietà
osteoformative durante lo sviluppo, l’accrescimento ed i processi di riparo del l’osso.
La ricostruzione di perdite di sostanza scheletriche mediante innesti ossei è una
pratica terapeutica frequente e di notevole importanza nella chirurgia ricostruttiva.
Il successo di questo tipo di intervento è legato a fattori di carattere generale, buone
condizioni del paziente, scrupolosa osservazione dell’asepsi, atraumaticità
nell’eseguire le varie manovre. Il processo di guarigione è legato soprattutto a fattori
di carattere biologico: l’osso attecchisce nella nuova sede soltanto se l’innesto è
autologo (autoinnesto), se cioè proviene dallo stesso individuo in cui viene innestato.
L’innesto omologo (omoinnesto), effettuato con osso prelevato da altro individuo
della stessa specie, è soggetto invece ad un processo di riassorbimento e viene
progressivamente ma completamente sostituito da osso neoformato proveniente
dall’ospite. L’innesto eterologo (eteroinnesto), è una pratica di rara applicazione in
chirurgia ricostruttiva. L’esperienza clinica ha dimostrato che l’osso spugnoso
presenta caratteristiche anatomoistologiche più favorevoli all’attecchimento rispetto
all’osso corticale. L’osso spugnoso in fatti stabilisce entro pochi giorni anastomosi
dirette con i vasi sanguigni dell’ospite; la sua particolare struttura e il suo
metabolismo gli permettono di sopravvivere durante le prime ore, sfruttando
l’imbibizione dei liquidi biologici dell’ospite stesso. In queste circostanze parte degli
osteociti sopravvive e mantiene integra la matrice calcificata dell’innesto; gli
osteoblasti riassumono le proprie capacità osteoformative e producono nuovo tessuto
osseo necessario alla riparazione. Nello stesso tempo anche gli osteoblasti

48
Innesti e lembi

dell’ospite, al punto di contatto con l’innesto, entrano in attività e contribuiscono


alla saldatura definitiva dell’osso trasferito nella nuova sede. Perché questi processi
si svolgano in condizioni ottimali è necessario che l’osso venga inserito nell’ospite a
diretto contatto con tessuto osseo sano e ben vascolarizzato.
L’osso corticale presenta caratteristiche anatomo-istologiche diverse e meno
favorevoli all’attecchimento. Il deficit nutritizioiniziale dovuto alle difficoltà di
stabilire comunicazioni con l’ospite provoca la morte di quasi tutte le cellule e
l’innesto va incontro a rapido riassorbimento. Pertanto nella maggior parte dei casi
viene utilizzato in blocco con l’osso spugnoso, cui conferisce la rigidità richiesta da
alcune esigenze cliniche. Le zone donatrici utilizzate con maggior frequenza per i
prelievi degli innesti sono la cresta iliaca e le coste.
Innesti di tendine
È necessario ricorrere all’innesto tendineo ogni qualvolta non sia possibile unire le
due estremità di un tendine precedentemente leso sia per un difetto della sutura
primaria sia per una mancata sutura primaria.
L’innesto può essere:
a) autologo;
b) omologo liofilizzato;
c) protesi tendinee.
a) L’innesto tendineo autologo è quello prelevato dallo stesso individuo. E’ l’innesto
più usato sia per le sue garanzie di attecchimento sia per le numerose fonti di
prelievo.
b) L’innesto tendineo omologo liofilizzato è un trapianto prelevato da soggetti della
stessa specie e conservato. Il suo uso è limitato poiché i risultati sono generalmente
scarsi ed il suo impiego non è giustificato se non in particolarissimi casi in cui non sia
disponibile altro materiale.
c) E’ una protesi sostitutiva del tendine, costituita da materiale in silastic rinforzato
nelle sue estremità distali da metallo ancora in fase sperimentale.
Le sedi di prelievo per un innesto tendineo sono:
1) il tendine palmare superficiale;
2) il tendine plantare gracile;
3) i tendini estensori comuni delle dita del piede;
4) la parte prossimale del flessore superficiale delle dita della mano.
Qualunque sia la zona di prelievo dell’innesto tendineo esso deve avere le seguenti
caratteristiche:
a) essere di lunghezza adeguata;

49
Innesti e lembi

b) avere un calibro ridotto;


c) essere privo di paratenon.
a) E essenziale prima di procedere al prelievo di un innesto rendersi conto della
lunghezza necessaria per colmare il gap tra i monconi del tendine leso. Se, ad
esempio, la perdita di sostanza andrà dalla regione volare del carpo alla estremità
delle dita lunghe, si renderà necessario un prelievo di pIantare gracile. Qualsiasi
altra zona di prelievo non potrà soddisfare le esigenze operatorie.
b) Un innesto di notevole calibro non sarà certamente l’innesto ideale. Sapendo che
la riabitazione e di conseguenza il rimaneggia mento biologico di un innesto tendineo
di pendono da fattori estrinseci ad esso, l’attecchimento sarà tanto più celere ed
efficace quanto più rapida sarà la rivascolarizzazione dell’innesto. Un tendine di
medie e di picco le dimensioni sarà di conseguenza l’innesto ideale.
c) La presenza o l’assenza del paratenon condizionano la sopravvivenza funzionale
del trapianto stesso.
Innesti dermo-adiposi
Gli innesti dermo-adiposi sono utilizzati come materiale biologico di imbottitura e di
sostegno nelle perdite di sostanza sottostanti al piano cutaneo (sottocutaneo,
muscolare, scheletrico) e nella riparazione di alcuni difetti congeniti, (atrofia
congenita della faccia), nel deficit volumetrico congenito o acquisito del seno, così
pure negli esiti di lesioni complesse traumatiche del viso nelle quali si siano
evidenziate depressioni isolate o diffuse che alterano la morfologia del viso. Gli
innesti dermo-adiposi, dopo il trasferimento, vanno incontro a modificazioni
determinate dal riassorbimento di circa la metà del volume e del peso iniziale:
mentre infatti una parte del tessuto sottocutaneo innestato si mantiene inalterata, la
rimanente, in misura percentualmente variabile, va incontro ad atrofia ed a processi
regressivi e viene sostituita da tessuto connettivale fibroso, la cui funzione di
sostegno risulta clinicamente parimenti apprezzabile. E stato anche osservato che il
riassorbimento è minore se l’innesto di grasso viene prelevato in blocco
comprendendo in superficie il derma e in profondità lo strato aponeurotico (innesto
composito). In base a questi dati, nel formulare un piano terapeutico bisogna tenere
presente di prevedere di ipercorreggere il difetto e prelevare quindi una quantità di
tessuto superiore al fabbisogno reale del 30%. Il tessuto adiposo, come è noto,
presenta diversità morfologiche regionali: le zone donatrici tipiche sono la regione
addominale e quella glutea, ma è preferibile quest’ultima in quanto offre maggior
superficie ed inoltre rimane sempre meno esposta. L’intervento deve essere
praticato con manovre atraumatiche e in assoluta asepsi: l’infezione provocherebbe,

50
Innesti e lembi

infatti, una liponecrosi nel periodo particolare della fase dell’attecchimento, con
grave pregiudizio del risultato.
Innesti di fascia.
La fascia aponeurotica rappresenta un prezioso materiale biologico per la sua
caratteristica resistenza e robustezza. E stato dimostrato che la fascia innestata
attecchisce per la sua maggior parte, ben si adatta alle sollecitazioni meccaniche
nella nuova sede ed è estremamente resistente alle infezioni. Numerose sono le
condizioni patologiche nelle quali è utilizzata con successo: laparoceli postoperatori,
fistole della trachea o dell’esofago, perdite di sostanza del diaframma o delle
meningi, ernie muscolari, paralisi del nervo faciale, ptosi palpebrale, lesioni
tendinee, artroplastiche.
I lembi
Definizione
Con il termine di lembo si intende un artifizio chirurgico che prevede l’allestimento
di porzioni di tessuto (singolo o composto) che viene trasferito da una sede ad
un'altra del corpo dello stesso individuo conservando un peduncolo nutritizio con la
sede del prelievo: il peduncolo sarà permanente (lembo allestito nella immediata
prossimità della zona in cui verrà trasferito) o temporaneo (lembo trasferito in più
tempi ad una zona lontana a quella di prelievo). Le condizioni per il buon esito nel
trasferimento di un lembo peduncolato sono le seguenti:
- un peduncolo vascolare tale da garantire un sufficiente afflusso di sangue
arterioso ed un agevole deflusso di quello venoso (è molto più frequente la necrosi di
un lembo per difetto di circolazione reflua -congestione- che non per insufficiente
apporto di sangue arterioso);
- la forma e le dimensioni proporzionate a quelle del suo peduncolo (la lunghezza
del lembo non deve essere superiore alla larghezza).
Lembi cutanei di vicinanza
Essi vengono scolpiti sulla cute contigua alla perdita di sostanza da ricoprire ed
hanno come caratteristica comune il fatto che il loro peduncolo non verrà reciso
dopo il trasferimento ma rimarrà definitivamente a far parte della nuova situazione.
Classicamente si distinguono:
 lembi di scorrimento (Fig.4);
 lembi di avanzamento (Fig.5);
 lembi di rotazione (Fig.6);
 lembi di trasposizione (Fig.7). Fig.4: Lembo di scorrimento

51
Innesti e lembi

Fig.5: Lembi di avanzamento

Fig. 6: Lembo di rotazione Fig. 7: Lembi di trasposizione

Lembi cutanei a distanza


Quando si rende necessario ricoprire una deficit cutaneo in una zona dove per ragioni
anatomiche sia interdetto l'uso di un lembo locale, è possibile ricorrere ad un lembo
allestito in una zona donatrice diversa. La selezione dell'area donatrice viene fatta
tenendo presente da una parte la qualità (colore, spessore, tessitura) della pelle di
cui si ha bisogno, dall'altra l'opportunità di scegliere un metodo di trasferimento che
comporti il minor numero possibile di tempi chirurgici ed il minor danno per il
paziente. I lembi di lontananza possono essere distinti in diretti ed indiretti, a
seconda che le condizioni anatomiche consentano o meno di avvicinare tra di loro la
zona ricevente e donatrice. Nel primo caso il lembo viene allestito e parzialmente
trasferito sulla zona ricevente, alla quale, in un secondo tempo, avvenuto
l'attecchimento delle parti connesse, sezionato il peduncolo verrà completamente
fissato e modellato secondo le necessità. I lembi indiretti sono costituiti per la
maggior parte dai lembi tubulati. L'allestimento di un lembo tubulato deve obbedire
a regole precise, venendo meno alle quali si andrebbe incontro più o meno
fatalmente a disturbi trofici. In primo luogo la regione sulla quale si intende
preparare un lembo tubulato dovrà possedere una cute priva di cicatrici o di altre
condizioni patologiche. La regione prescelta dovrà essere libera da pressioni fortuite
e non dovrà far parte delle superfici di decubito nelle posizioni naturali. Ancora la

52
Innesti e lembi

costruzione del lembo non dovrà attraversare confini naturali di aree di


vascolarizzazione, quali la linea alba addominale o la linea inguino-crurale.
Lembi biologici
Una menzione a parte meritano i cosiddetti «lembi biologici» che sono quelli in cui
nel peduncolo è presente un gruppo vascolare formato da una arteria diretta cutanea
ad andamento assiale accompagnata da una o più vene. Questo gruppo vascolare può
essere coperto dal peduncolo cutaneo, e in tal caso il lembo assume il nome di
peninsulare, oppure, mediante preparazione anatomica del gruppo vascolare può
trasformarsi in lembo ad isola. Nel primo caso il peduncolo cutaneo-vascolare può
restare così fatto o subire un trattamento di disepitelizzazione che ne consente il
trasferimento nella sede di utilizzazione passando sotto un ponte cutaneo. Viceversa
esso può essere tubulizztto temporaneamente costituendo un tramite aereo che
verrà successivamente eliminato ad attecchimento avvenuto della parte utile.
Ovviamente il principale vantaggio dei lembi biologici, noti anche come lembi
arterializzati, consiste nell'affrancamento, salvo casi particolari, dalla necessità della
autonomizzazione.
Lembi miocutanei
L'applicazione clinica dei lembi miocutanei ha fatto segnare un notevole passo avanti
a tutta la chirurgia ricostruttiva poiché ha permesso il superamento di vincoli
dimensionali e temporali legati ai lembi solo cutanei. I vantaggi di questi lembi sono
dovuti alla possibilità di utilizzare isole cutanee di grandi dimensioni, di spessore
notevole e di una mobilità pressoché assoluta (rotazioni sul peduncolo fino a 180° in
tutte le direzioni). Tuttavia, l'uso dei lembi miocutanei non deve essere
indiscriminato, poiché ai fattori positivi deve venir contrapposto il grave svantaggio
costituito dalla disinserzione di un muscolo scheletrico. La scelta del lembo deve
essere preceduta da una valutazione accurata dei motivi a favore e a sfavore,
essendo sempre pronti a rinunciare al suo trasferimento se si vede una soluzione
chirurgica meno lesiva. La notevole varietà dei sistemi vascolari della cute è formata
dalle arterie cutanee pure che giungono al sottocute e al plesso della fascia
superficiale contribuendo al rifornimento del plesso dermico (ad es. arteria
epigastrica superficiale) e dalle arterie miste che, originando dal peduncolo
vascolare di un muscolo, si portano ai plessi cutanei (ad es: arterie provenienti dalle
intercostali). Infine, vi sono le arterie miocutanee dirette ed indirette che, a
partenza dal peduncolo vascolare del muscolo, perforano la fascia e si dirigono verso
la cute anastomizzandosi con i plessi che incontrano. Per questo motivo, anche dopo
interruzione dei vasi cutanei propriamente detti, si può avere la completa

53
Innesti e lembi

sopravvivenza della cute in quanto più che sufficientemente nutrita dai vasi
perforanti miofasciali. In tal modo si sono potuti individuare sulla superficie corporea
tanti distretti autonomi quante sono le zone anatomiche in cui si possa reperire un
muscolo in sede immediatamente sottocutanea. Tali distretti, le isole miocutanee,
traggono quindi nutrimento dal peduncolo vascolo-nervoso del muscolo che offre un
sufficiente apporto sanguigno e neurotrofìco alla massa cutanea sovrastante.
Lembo miocutaneo di m. sternocleidomastoideo
Le regioni che possono essere raggiunte con il trasferimento di questo lembo
corrispondono alla metà omolaterale della regione cefalica (emifaccia, collo e nuca).
E’ inoltre, possibile ricostruire perdite di sostanza ossea della mandibola con il
trasferimento di un segmento di clavicola insieme al lembo. Le controindicazioni
all'uso di questo lembo sono legate all'eventuale presenza di metastasi dei linfonodi
laterocervicali e retrosternomastoidei, al sospetto che precedenti interventi
chirurgici sul collo abbiano compromesso le connessioni vascolari fra la componente
fasciomuscolare e la cute, alla presenza di patologie a carico della tiroide o di altri
organi con sede nel collo, al torcicollo congenito o a facilità a mialgie reumatiche del
muscolo.
Lembo miocutaneo di m. grande pettorale
Il muscolo gran pettorale può fornire un lembo cutaneo di vasta estensione (circa 15
x 25 nell'adulto normotipo) atto a coperture e ricostruzioni di buona parte della
parete toracica anteriore e posteriore, di tutta la regione cervico-facciale ed
endorale. Le controindicazioni di questo lembo sono rappresentate dal suo più
limitato uso in pazienti di sesso femminile (minor superficie cutanea utilizzabile a
causa della mammella e cicatrici deturpanti in tale sede). (Fig.8)

Fig. 8: Lembo miocutaneo

54
Innesti e lembi

Lembo miocutaneo di m. trapezio


La duplice disposizione anatomica sia dei fasci muscolari del trapezio sia dei suoi
peduncoli vascolari permette ricoperture di notevole estensione in tutte le perdite di
sostanza del capo, del collo ed endorali. Le controindicazioni sono dovute al fatto
che, vista l'importanza della muscolatura, esso non deve essere disinserito in pazienti
in giovane età per evitare compromissioni nello sviluppo della colonna vertebrale.
Lembo miocutaneo di m. gran dorsale
Il lembo miocutaneo di muscolo gran dorsale può essere considerato uno dei più
versatili e duttili che il corpo umano possa offrire: infatti, sia come lembo ad isola
sia in toto, può essere utilizzato nelle perdite di sostanza del volto, della regione
temporo-auricolare, nucale ed occipitale; della regione endorale, della regione
cervicale anteriore e mandibolare; della spalla e del braccio omolaterali. Inoltre,
assume una grande importanza nelle ricostruzioni mammarie immediate o a distanza
dopo mastectomia. Infine, può essere utilizzato nelle perdite di sostanza della
regione ascellare ed epigastrica omolaterali. L'ultima indicazione di tale lembo è
data dalla possibilità di correzione del linfedema postmastectomia del braccio per
mezzo di uno scarico mediato dalle fibre muscolari (Bocca, 1980).
Lembo miocutaneo di m. grande gluteo
Si tratta di un doppio lembo, che può essere trasferito su un peduncolo sia superiore
sia inferiore. Le sue indicazioni sono date da tutte le perdite di sostanza (decubiti,
traumi, radionecrosi, ecc.) della regione sacrale, ischiatica e trocanterica.
Lembo miocutaneo di m. tensore della fascia lata
Il lembo miocutaneo di tensore della fascia lata consente copertura delle regioni
dell'anca, ipogastrica, perineale e sovrapubica.
Lembo miocutaneo di m. gracile
Le regioni che possono essere raggiunte con il trasferimento di questo lembo
corrispondono al bacino ed a tutto l'arto inferiore.
Lembo miocutaneo di m. peronieri
Il lembo miocutaneo di muscoli peronieri permette la copertura del terzo medio e
distale della gamba. Il lembo scolpito sul peroniero lungo, a causa del più prossimale
esaurimento della compagine muscolare, è più corto e può essere ruotato soltanto
sulla regione del terzo superiore e medio della gamba. Per ottenere la massima
lunghezza del lembo, esso deve essere allestito in blocco su ambedue i muscoli.
Controindicazioni all'uso di questi lembi sono le alterazioni dell'apparato vascolare
arterioso che impediscono una sufficiente nutrizione.
Lembomiocutaneo di m. abduttore V dito del piede

55
Innesti e lembi

Il lembo miocutaneo di muscolo abduttore del V dito del piede, grazie alla sua
mobilità sul peduncolo prossimale, permette la copertura sia della regione
malleolare esterna sia della regione medio-plantare.
Lembi fasciocutanei
Possono essere considerati come lembi cutanei con supporto fasciale (vascolare e
strutturale). Hanno le stesse caratteristiche ma con un diverso rapporto
lunghezza/larghezza, che diviene di 1:3 o più, e non necessitano di autonomizzazione
preventiva. Sono soprattutto indicati per le coperture degli arti dove i muscoli
scheletrici (necessari per i lembi miocutanei) non possono essere disinseriti se non a
scapito di un grave deficit funzionale.
Lembi mio-fasciocutanei
Vengono utilizzati nei casi in cui si voglia ampliare la superficie di un lembo
miocutaneo. Infatti, a causa della disposizione anatomica dei vasi mio-fasciocutanei,
si può ottenere un trasferimento di cute maggiore se, insieme al muscolo, si solleva
parte della fascia adiacente da esso nutrita che a sua volta irrora la pelle ad esso
soprastante. Esempi di questo tipo di lembi sono quelli di muscolo trapezio
orizzontale, che può essere prolungato fino al terzo superiore del braccio se si
solleva in blocco con la fascia deltoidea-brachiale, oppure di grande pettorale che
può essere scolpito fino all'epigastrio.
Lembo fasciocutaneo di fascia surale
Questo lembo può essere considerato come il sostituto del lembo miocutaneo di
gastrocnemio. Di esso conserva i vantaggi e le indicazioni senza i rischi connessi alla
disinserzione dei muscolo vettore. Il lembo di fascia surale è indicato per le
coperture del terzo medio e superiore della gamba; la sua notevole estensione in
larghezza e in lunghezza consente ricostruzioni di deficit cutanei anche importanti. A
causa della sua larghezza, il lembo può essere scolpito anche mediale o laterale per
le più varie esigenze di trasferimento, divenendo, in tal modo notevolmente più
mobile.
Lembo fasciocutaneo di fascia trapezio-deltoideo-brachiale
Si tratta di un lembo indicato per qualsiasi copertura a livello del capo e del collo,
del torace e del dorso (regione del cingolo scapolo-omerale). Le sue possibilità di
trasferimento sono le medesime del lembo miocutaneo di trapezio orizzontale con
prolungamento deltoideo-brachiale ma a differenza di questo non richiede il
sacrificio dei rami orizzontali del muscolo. La notevole lunghezza del lembo (cm 40 x
12) e la sua mobilità consentono ricostruzioni anche del naso e del mento, del vertice
del capo e della regione ascellare.

56
Innesti e lembi

Lembo fasciocutaneo antibrachiale


Si tratta di un lembo di cospicue dimensioni (cm 8 x 15), scolpito sulla regione volare
dell'avambraccio, che può essere utilizzato sia come lembo locale (coperture della
regione del gomito) sia come lembo a distanza, data la mobilità dell'avambraccio
stesso, per ricostruzioni della regione cranio-facciale e soprattutto del palmo della
mano controlaterale.
Lembo radiale (lembo cinese)
Si tratta di un lembo cutaneo (o fasciocutaneo) nutrito assialmente dall'arteria
radiale, con il ritorno venoso assicurato, probabilmente, da un'inversione del flusso
delle vene radiali satelliti. Utilizzato per coperture sia locali sia a distanza, può
essere ruotato sul peduncolo prossimale (stesse indicazioni del lembo fasciocutaneo
antibrachiale) o sul peduncolo distale (mano omolaterale, volto, arto inferiore,
ecc.). La rotazione sul peduncolo distale è quella che offre le possibilità di copertura
con maggior apporto trofico, grazie alla ricca vascolarizzazione del lembo (flusso
sanguigno controcorrente dall'arteria ulnare), in ogni sede del corpo, data la sua
mobilità (180° sul peduncolo arterioso).
Tale lembo, sia a causa del sacrificio dell'arteria radiale, sia per le sequele estetiche
reliquate all'avambraccio, deve essere utilizzato solamente in caso di reale
necessita.

57
Ustioni e congelamenti

USTIONI E CONGELAMENTI

Ustioni
L’ustione è soluzione di continuo che riconosce diversi gradi di profondità,e agenti
etiologici diversi: liquidi bollenti, fuoco, metalli surriscaldati,energia elettrica, acidi
e alcali. L’azione di danno di tali agenti dipende dall’entità e dalla durata della loro
applicazione. Liquidi a temperature relativamente basse sui 60-70 °C richiedono un
tempo di applicazione relativamente maggiore, rispetto ad un liquido bollente, per
provocare lo stesso ordine di danni. Per produrre quindi lo stesso effetto ustionante
possono agire alte temperature per un tempo minimo, e temperature più basse per
un tempo maggiore. I diversi agenti ustionanti possiedono proprietà caratteristiche
(ossidazione, riduzione, causticazione, idrolisi, ecc.) capaci di condizionare
l’intensità dell’azione lesiva. Risulta ovvio che una grave ustione costituisca uno tra i
più traumatici eventi che si possa affrontare in termini di disagio e di pericolo per la
vita. Recenti statistiche indicano che la frequenza dell’ustione è sorprendentemente
alta. Su 100 ustionati 70 sono di origine domestica e i rimanenti 30 sono da attribuirsi
a cause industriali, di cui le più frequenti sono: getti di ghisa fusa, contatto con
lamine metalliche, esplosione di recipienti contenenti acidi o alcali, fuoco da
benzina o altri liquidi infiammabili. Nell’ambito domestico, predominano le ustioni
da acqua o da altri liquidi bollenti, da vapore acqueo, da fuoco, da esplosioni di gas,
da termofori e impianti di riscaldamento.
Criteri valutativi delle ustioni
 Estensione = percentuale della superficie corporea interessata;
 Profondità = grado;
 Localizzazione = gravità del danno in
testa e collo 9%
rapporto alla importanza funzionale ed
arto superiore destro 9%
estetica della localizzazione
arto superiore sinistro 18%
dell’ustione.
arto inferiore destro 18%
La valutazione estensiva di una ustione
arto inferiore sinistro 18%
può essere fatta in cm2 o calcolando la
regione anteriore del tronco 18%
percentuale di superficie corporea
regione posteriore del tronco 18%
colpita. Il metodo più semplice,anche se
genitali 1%
ne riesce una valutazione approssimativa,

58
Ustioni e congelamenti

è quello indicato dallo schema di Wallace, che divide la superficie corporea in aree
rispettivamente del 9% o di multipli del 9:
La profondità di una ustione prevede:
il I grado che può essere causato da un’esposizione prolungata al sole o da un breve
contatto con una fonte di calore più intensa. Caratteristica espressione di questa
lesione è il dolore urente, che si manifesta in coincidenza con la comparsa di altri
sintomi come l’eritema e un modesto edema degli strati più profondi della cute dopo
un periodo di latenza variabile in relazione alla natura dell’agente ustionante. Una
ustione di primo grado può guarire in pochi giorni senza lasciare esiti riconoscibili a
distanza, se si eccettua una pigmentazione più o meno intensa.
Nel II grado l’azione di danno è maggiore tanto da
provocarela morte e la sofferenza di molti elementi
cellulari dello strato malpighiano. Tipica
espressione del secondo grado è la bolla, creatasi
per lo scollamento degli strati dell’epidermide in
seguito alla pressione dei liquidi trasudati dai
capillari alterati. Anche la bolla può comparire dopo un periodo di latenza variabile e
le sue dimensioni pare dipendano dalle caratteristiche dell’agente ustionante. La
cupola della bolla è formata da epidermide più o meno spessa, a seconda della
regione colpita. Il liquido che la riempie appare dapprima sieroso e dopo qualche
giorno può assumere una consistenza gelatinosa;esso è lassamente aderente al
derma. Aperta la bolla, si scorge lo strato papillare del derma, di colorito rosso vivo,
estremamente dolente alla pressione, limitato da un alone eritematoso, caldo,
urente. Le ustioni di secondo grado sono in genere causate da una breve esposizione
ad intense vampate di calore, da liquidi bollenti o da getti di vapore riscaldato, o
possono costituire la zona periferica di una ustione più profonda. I sintomi soggettivi
sono molto più accentuati delle lesioni di primo grado. Il dolore, molto intenso,
perdura per 5-6 giorni. Il periodo della risoluzione è legato alla quantità del tessuto
distrutto e all’eventuale sopraggiungere di complicazioni infettive. La guarigione di
una ustione di secondo grado non si accompagna mai ad esiti cicatriziali di una
qualche importanza, e qualora vi siano, sono da attribuirsi a danni profondi (III
grado), passati inosservati.
Nel III grado si verifica la morte dei tessuti cutanei, a
tutto spessore fino ed oltre l’ipoderma o fasce
muscolari. Se l’agente ustionante è il fuoco o un corpo
caldo, l’area necrotica si presenta secca, dura, di

59
Ustioni e congelamenti

aspetto grigio rossastro o anche più scura. Se l’agente ustionante è rappresentato da


acqua bollente o da altri liquidi, l’aspetto dell’area lesa varia in rapporto alle
caratteristiche della cute del soggetto colpito. Nei bambini è di colorito biancastro,
negli adulti la naturale pigmentazione della cute conferisce ai tessuti necrotizzati un
colore grigiastro. Quando non si tratti di una vera e propria carbonizzazione,
esercitando una modesta pressione sull’area ustionata si avverte al di sotto e
marginalmente ad essa una consistenza pastosa, dovuta all’edema in rapida
formazione. Il dolore, meno accentuato che nei secondi gradi, si manifesta
particolarmente alla periferia delle aree di necrosi. L’evoluzione varia in rapporto
alla estensione e profondità e gli esiti della guarigione spontanea sono sempre
cicatriziali. All’aspetto didattico delle lesioni da ustione corrisponde una realtà
clinica quasi sempre diversa, che indica come prevalente il “carattere misto” delle
lesioni. Ogni lesione di secondo grado sfuma inevitabilmente in lesione di primo
grado e partecipa molto spesso a quelle di terzo, come lesioni di necrosi a tutto
spessore sfumano marginalmente nei gradi minori e possono contenere isole non
identificabili di secondo grado. Una valutazione del danno o una valutazione che si
avvicini verosimilmente alla realtà è necessaria per l’impostazione di una coerente
terapia medica e la prognosi della gravità di più tardivi interventi chirurgici. La
localizzazione delle ustioni di terzo grado può assumere particolare importanza
prognostica quando vengono interessate quelle zone del nostro corpo che, colpite
isolatamente o come parte di una ustione più estesa, presentano particolari difficoltà
di trattamento. Per questi motivi sono state definite come “aree di crisi” le seguenti
regioni: il volto e il collo; le ascelle, le pieghe del gomito e le mani;la regione sacro-
genito-perineale; gli arti inferiori dall’altezza dell’inguine ai piedi. Volto e collo se
colpiti da ustione di terzo grado richiedono particolari cure immediate e tardive.
Quasi sempre sono interessate le alte vie respiratorie ed è facile pertanto
l’insorgenza di forme bronco-polmonari. L’edema, specie nei bambini, può essere
molto intenso e tale da ostacolare la respirazione.
Ascelle e pieghe dell’inguinali: la spontanea guarigione di queste aree provoca una
notevole diminuzione nei movimenti degli arti superiori e pericolose posizioni viziate
degli arti inferiori, che per fatti retrattivi arrivano a formare, molto spesso, un
angolo retto con l’asse verticale del bacino.
Mani e piedi: la conformazione anatomica di queste regioni porta a concentrare in
uno spazio estremamente limitato e superficiale elementi di notevole importanza
funzionale come tendini, vasi, nervi, ossa. Risulta facile quindi un loro danno,
prodotto da una qualsiasi ustione di terzo grado, anche se non molto profonda.

60
Ustioni e congelamenti

L’edema, che non può espandersi per mancanza di spazio, la stasi venosa e linfatica
che ne deriva, possono portare ad una precoce sclerosi dei piani di scorrimento dei
tendini e dei piccoli muscoli della mano.
Arti inferiori: l’ustione delle cosce rappresenta un motivo indiretto di aggravamento
di tutte le altre lesioni, in quanto sottrae alla terapia chirurgica le aree donatrici di
elezione, da cui si eseguono i prelievi per riparare le zone di distruzione cutanea.
Fisiopatologia dell’ustione
La malattia ustione è
contrassegnata da una serie
di eventi patologici e
clinicamente la malattia
ustione evolve attraverso
tre fasi: un primo periodo
di deficit circolatorio, un
secondo tossi-infettivo ed un terzo ipoproteinemico-distrofico.
I fase o periodo di deficit circolatorio: è universalmente nota col termine di shock
secondario. Questa sindrome è caratterizzata da agitazione, sete, vomito, polso
piccolo e frequente, caduta dei valori pressori, dispnea,oliguria, dolore ed effetti
emotivi del trauma subito. Può essere controllata solo con una ben dosata terapia
sedativa generale e locale. La sete costituisce uno dei primi sintomi. Permettendo
all’ustionato di ingerire la quantità di liquidi che desidera, si corre il rischio di
vedere insorgere un quadro di intossicazione da acqua. Il meccanismo patogenetico
dello shock secondario sembra abbastanza chiaro quando si invochi la diretta azione
del calore sulla cute che provoca coagulazione massiva del sangue nei vasi, un’azione
di danno dell’endotelio dei capillari, con abbassamento della pressione
colloidosmotica e l’azione dei tossici comporta una aumentata capacità dell’albero
circolatorio con abbassamento della pressione idrostatica capillare. In condizioni
fisiologiche, lo scambio di liquidi tra il letto circolatorio e l’interstizio avviene quasi
interamente nei capillari e i fattori principali che regolano il passaggio dei sali e
dell’acqua attraverso le loro pareti sono:
1) pressione idrostatica del sangue nei capillari
2) permeabilità capillare
3) differenza tra la pressione osmotica del plasma e quella del liquido interstiziale.
4) drenaggio linfatico.
Dall’analisi di questi fattori risulta che da una parte la pressione idrostatica tende a
produrre una enorme filtrazione di liquido del plasma negli spazi interstiziali,

61
Ustioni e congelamenti

dall’altra che l’effetto delle proteine plasmatiche è quello di sottrarre acqua al


liquido interstiziale e di avviarla verso il liquido plasmatico più concentrato. Questi
fattori, nel caso di ustione, sono i primi, ad essere alterati. Si avrebbe perciò una
lesione massiva, dove la quantità di liquido interstiziale sarebbe limitata soltanto
dalla capacità di distendersi del tessuto. La quantità dell’edema viene influenzata
dalle condizioni idrosaline dell’organismo, come si può dimostrare dal suo aumento
introducendo in animali da esperimento, ustionati, soluzioni isotoniche di NaCl. Il
rapporto albumine-globuline è sempre aumentato rispetto al plasma. Tale fatto è
spiegato dalla maggiore grandezza delle molecole globuliniche e quindi dalla
maggiore difficoltà al passaggio attraverso la membrana capillare. Poichè l’acqua e
gli elettroliti vengono perduti dal plasma ancor più rapidamente, ciò porta ad un
aumento della concentrazione proteica del sangue, tendendo così a compensare la
oligoemia risultante dalle perdite di liquido, con l’assorbimento di liquido
interstiziale dai tessuti sani verso il sistema vasale. Questo fatto rappresenta
senz’altro uno dei più complessi meccanismi di compenso delle ustioni in pazienti
non tempestivamente trattati. L’acqua e gli elettroliti circolanti liberamente nei
capillari, a causa dell’insulto termico, vengono spostati per l’aumentata permeabilità
del capillare. La quantità di globuli rossi distrutta in una ustione varia molto da caso
a caso. Costituisce un problema di un certo interesse nelle ustioni di terzo grado,
mentre è di minore importanza nei casi di ustioni di secondo grado, anche se estese.
Il meccanismo dell’immediata distruzione dei globuli rossi può riassumersi come
segue:
a) i globuli rossi, presenti nella zona venuta direttamente a contatto con l’agente
ustionante, subiscono l’istantanea emolisi con la messa in circolazione di
emoglobina,da cui emoglobinuria.
La quantità di emoglobina libera circolante in un soggetto ustionato di recente può
dare una precisa valutazione della gravità della lesione.
b) Emolisi ritardata può osservarsi dopo 24 ore, come conseguenza di parziale danno
dei globuli rossi.
c) La coagulazione del sangue nei capillari lesi contribuisce a ridurre gli eritrociti
circolanti.
Da un punto di vista clinico si può presumere che in una ustione grave la distruzione
dei globuli rossi si aggiri approssimativamente intorno al 10-15% della massa totale,
nelle prime 48 ore.
La fase dello shock è compresa entro limiti di tempo variabili tra i 2-5 giorni.

62
Ustioni e congelamenti

II fase o periodo tossi-infettivo


Di regola si fa coincidere l’inizio del periodo tossi-infettivo con la comparsa della
febbre. I fattori chiamati in causa per spiegare i meccanismi patogenetici sono
essenzialmente due: l’intossicazione e l’infezione. Ad alimentare lo stato di
intossicazione di un ustionato possono contribuire vari elementi: l’assorbimento di
sostanze, prodotto di disfacimento delle cellule dei focolai di ustione. Marginalmente
alle aree di distruzione cutanea e propriamente all’interno dei focolai di distruzione
stessa, si liberano sostanze proteolitiche capaci di favorire la disintegrazione dei
tessuti e la demolizione dei grossi aggregati proteici. Sembra certo che l’istamina
partecipi al quadro della intossicazione generale e non sia estranea alla genesi di
alcuni fenomeni. L’iperpotassiemia è una concausa dello stato tossico e sarebbe da
ricercarsi nell’emolisi nonché nella necrosi e nell’alterato metabolismo degli
elementi cellulari La sepsi è considerata una componente patologica obbligata della
malattia; almeno negli ustionati di una certa gravità. Il focolaio di ustione può essere
inquinato o primitivamente, al momento dell’episodio ustionante, o in tempo
successivo. La presenza di terriccio, catrame, indumenti, ecc. all’atto dell’offesa
termica sono la causa più frequente dei l’infezione. Inoltre va tenuto presente che
con la disepitelizzazione viene eliminata la barriera di difesa dall’infezione. Nei
focolai di ustione sono stati reperiti cocchi piogeni (stafilococco aureo, streptococco
anemolitico e beta emolitico), bacilli gram-negativi (alcune specie di proteus,
piocianeo, coli), cocchi gram-positivi (stafilococco aureo emolitico e anemolitico),
bacilli anaerobi purulenti (clostridium tetani). La sintomatologia clinica dello stato
tossico inizia verso il 4°-5° giorno della malattia ustione e prosegue con febbre
continua, accompagnata da cefalea nausea, lingua patinosa. Si possono osservare
turbe di ritmo cardiaco e diminuzione della gittata sistolica, da cui modica
ipotensione. Fin dai primi giorni della fase tossica, compaiono i sintomi di
ulcerazione gastrointestinale, caratterizzati da nausea, vomito, improvvisa
ematemesi e melena. Progressivamente la malattia evolve verso il quadro ben
definito della sepsi. La febbre si mantiene elevata, continuo-remittente o
intermittente, con ampie oscillazioni da minime di 37° a massime di 40°. Le puntate
febbrili si accompagnano a brivido,cefalea,agitazione. Sono frequenti anche emboli a
carico dei polmoni, per messa in circolo di materiale trombotico delle aree lese,
nonché ascessi a varia localizzazione. La durata e la gravità della fase tossi-infettiva
sono direttamente proporzionali alla gravità dell’ ustione ed alle eventuali
complicazioni. Infatti, se la comparsa del movimento febbrile, il suo decorso e la sua

63
Ustioni e congelamenti

remissione sono da attribuirsi all’assorbimento di sostanze tossiche dai focolai di


ustione, il prolungarsi della febbre per periodi di alcuni mesi, nei grandi ustionati,
trova sua valida giustificazione nel sovrapporsi di uno stato settico, favorito dalle
condizioni locali e generali, che fin qui abbiamo esaminato.
III fase o periodo ipoproteinemico-distrofico
Dal periodo tossi-infettivo il grande ustionato passa insensibilmente in una fase che,
per le sue caratteristiche cliniche, è stata definita ipoproteinemica-distrofica,
sfociante, qualora non siano messe in atto adeguate terapie, in una condizione di
conclamata cachessia. Negli ustionati minori la risoluzione del quadro generale può
aversi in poche settimane. Nelle ustioni estese di terzo grado, superanti il 30% del la
superficie corporea, l’evoluzione della malattia è lenta e complessa. In questo
periodo l’organismo si trova impegnato, con tutte le sue forze, a lottare per la
sopravvivenza. Tutte le sue energie sono mobilitate nel tentativo di guarigione delle
vaste aree di distruzione cutanea mediante processi di rivascolarizzazione,
mobilitazione connettivale, di ricanalizzazione di vasi trombizzati, ecc. Da un punto
di vista patogenetico, le cause della distrofia possono essere individuate in
un’alterazione del metabolismo nella disvitaminosi, in stati carenziali, nell’anemia
ecc. Esistono numerosi dati sperimentali che confermano l’alterato bilancio e
ricambio delle vitamine. Sembra che, anche per effetto degli antibiotici, l’organismo
di un ustionato abbia perduto la peculiare capacità di produrre e accumulare queste
sostanze.
L’anemia sarebbe legata a vari fattori, che possono così riassumersi:
 alterata sintesi del nucleo dell’ematina;
 alterato ricambio del ferro per un’eccessiva fissazione o dispersione istogena
(specie nell’area lesa);
 alterata sintesi della globina forse conseguente alla carenza proteica generale;
 riscontro di emoglobina libera in alta percentuale, legata a fatti emolitici
 manifestazioni emorragiche a livello gastro-intestinale e del focolaio di ustione,
specie durante il periodo delle granulazioni
Visto alla luce delle alterate attività regolatrici dell’organismo, il quadro clinico di
un ustionato, nel terzo periodo, risulta caratterizzato da: febbricola, astenia,
adinamia muscolare, anemia marcata, anoressia, dimagrimento. La distrofia generale
si ripercuote sul focolaio di ustione, la cui riparazione procede con notevole
lentezza. La comparsa del tessuto di granulazione, quasi sempre appiattito, pallido e
anemico,rappresenta non già un punto di partenza per la definitiva guarigione, bensì
la fonte di nuove complicazioni. La prima di queste è il dolore,che richiede ad ogni

64
Ustioni e congelamenti

medicazione una particolare preparazione e somministrazione di analgesici, capaci di


peggiorare le condizioni generali. L’infezione del tessuto di granulazione è
facilissima: i coaguli e l’essudato rappresentano un pabulum ideale per la crescita e
lo sviluppo di qualsiasi tipo di germi. La leggera febbre del periodo distrofico subisce
allora improvvise e violente riaccensioni, che talvolta durano settimane. La
complicanza maggiore e più grave però è rappresentata dall’emorragia. Emorragie
violente, provocate dalle medicazioni, e le continue piccole emorragie di ogni giorno
che si manifestano ai più modesti traumi. Se a tutto questo aggiungiamo l’anoressia,
cui sovente il paziente è preda, l’interessamento delle “aree di crisi”, che complica
la introduzione di liquidi e ostacola le anestesie, le trombosi dei tronchi venosi più
facilmente reperibili, qualche embolo polmonare, si può comprendere l’importanza
clinica e la gravità di questo periodo terminale dell’ustione. Ai diversi gradi di
ustione fanno riscontro tipici quadri anatomo-patologici, cui corrispondono
caratteristici aspetti evolutivi.
L’ustione di I grado è istologicamente caratterizzata da uno slaminamento dello
strato corneo, edema dermico, dilatazione vasale. I vasi sono zaffati da emazie, fuse
in ammassi. La reazione leucocitaria è precoce. Si tratta dunque di lesioni reversibili.
Nella ustione di II grado l’elemento bolloso presenta un tetto o volta, formato
dall’epidermide, sollevato in toto e un pavimento costituito dalle papille del derma,
denudato dall’epitelio o con qualche residua cellula basale degenerata. Le cellule
dello strato malpighiano sono tumide ed edematose con evidenti alterazioni della
trama nucleare. Nel derma si nota accumulo di edema, tumefazione e dissociazione
dei fasci collageni, dilatazioni vasali e linfatiche. Col passar del tempo appare, ai
margini, una reazione istioleucocitaria, con carattere reattivo e demarcante. La
riparazione è piuttosto rapida, completandosi nel giro di 2-3 settimane. Essa avviene
a partenza dai margini o dagli annessi cutanei rimasti indenni anche al centro della
lesione. L’aspetto della cute,avvenuta la riparazione, è quasi sempre iperemico,
sottile e ipotrofico. L’evenienza di una cicatrice cheloidea è rara ma non esclusa.
Nella ustione di III grado l’epidermide e il derma sono interessati da fenomeni di
necrosi massiva. Lo strato epidermico appare uniformemente pallido e coagulato in
una massa unica col derma. I vasi superficiali e profondi del corion sono trombosati.
La reazione istio-leucocitaria è intensa e si approfonda al di sotto della zona
ricoperta dall’escara. Ogni tipo di fibra è distrutto. La rigenerazione avviene
attraverso i seguenti stadi:

65
Ustioni e congelamenti

a) eliminazione dei tessuti necrotici (l’escara, dopo una iniziale tenace aderenza con
la cute circostante e con il fondo, per il sopravvento di processi autolitici,viene
gradatamente distaccata ed eliminata;
b) comparsa del tessuto di granulazione, costituito da un connettivo cellulare a tipo
embrionale, raccolto attorno ad anse vascolari di neoformazione;
c) nuovi vasi si formano per gemmazione, dalla parete dei capillari preesistenti. Si
dispongono in una fitta rete a tralci paralleli, ortogonali alla superficie cutanea. La
loro fragilità è notevole e le emorragie facili;
d) le cellule, di tipo plasmocitario, linfocitario e fibroblastico, riempiono gli spazi
intervasali;
e) le fibre assumono i caratteri di fibre collagene, mentre scarse sono quelle
elastiche.
Le lesioni di I e II grado evolvono spontaneamente verso la guarigione; nelle lesioni di
III grado, invece, è in rapporto anche alla loro estensione. I meccanismi riparativi si
rivelano sempre insufficienti e imperfetti, per cui la guarigione può essere
notevolmente ritardata o non realizzarsi affatto. Da qui la necessità di intervenire
con adeguate e tempestive terapie mediche e poi chirurgiche come procedura
indispensabile per ottenere un riparo funzionalmente ed esteticamente valido e per
ridurre il periodo di malattia del paziente.
Lesioni da sostanze chimiche
Le sostanze chimiche potenzialmente dannose per la salute sono presenti ovunque
nella vita di oggi. Una esposizione a tali sostanze può verificarsi in casa, a lavoro,
mentre si gioca. La classificazione più semplice degli agenti nocivi li divide in
composti alcalini, acidi e organici. Le sostanze alcaline sono idrossidi, carbonati e la
soda caustica e le lesioni si manifestano più spesso negli addetti alla pulizia di forni,
delle industrie e delle fogne e in chi ha contatto con i fertilizzanti. Sono un
costituente importante del cemento e dei derivati cementizi. Le sostanze acide sono
presenti in molte aree. Sono contenute nelle sostanze per la pulizia dei bagni e nei
composti per la rimozione della ruggine e si possono trovare nelle aree residenziali e
commerciali a contatto o vicino a piscine. I composti organici causano sia lesioni da
contatto che effetti sistemici. Tra questi troviamo i fenoli, i solventi ed i derivati del
petrolio. Il grado di severità del danno è proporzionale al tipo, alla concentrazione
ed al volume della sostanza chimica che lo ha indotto e alla durata del contatto con
essa. Le conseguenze saranno direttamente proporzionali al fattore tempo. Un danno
continuo dei tessuti può verificarsi quando vi sia un ritardo nella rimozione del
composto chimico nocivo. Sono molto pochi gli antidoti specifici. Qualunque sia la

66
Ustioni e congelamenti

sostanza, il trattamento iniziale consiste nel rimuovere i vestiti impregnati (inclusa la


biancheria intima, le scarpe ed i guanti), spazzolare la cute se la sostanza è una
polvere e, lavare copiosamente con acqua. Nessuna sostanza si è dimostrata migliore
dell'acqua. Il lavaggio deve continuare per tutto il tempo, dal momento del
rinvenimento della lesione fino a che il paziente non sia giunto alla osservazione in
ospedale. Non bisogna perdere tempo cercando un antidoto specifico e disperdere
energie nel tentativo di neutralizzare l'acidità o la basicità; la generazione di calore
che si determina in tale operazione contribuirebbe infatti ad aggravare la lesione. In
linea di massima, il lavaggio dovrebbe essere continuato fino a che si possa
intraprendere un trattamento definitivo o il paziente riferisca una diminuzione del
dolore e del bruciore delle lesioni. Diversamente dagli acidi, le sostanze alcaline si
legano alle proteine dei tessuti e richiedono un lavaggio prolungato per ridurre gli
effetti nocivi. L'irrigazione con acqua o soluzione salina rappresenta in urgenza il
trattamento migliore. Il paziente con una lesione agli occhi da sostanze alcaline
presenta gonfiore ed immediato blefarospasmo. Nel tentativo di consentire un
lavaggio adeguato, le palpebre devono essere mantenute aperte per permettere
l'irrorazione dell'occhio. Si preferisce usare, se a disposizione, semplice acqua o una
soluzione salina bilanciata. Certamente il lavaggio non deve essere ritardato e deve
essere continuato mentre il paziente viene portato ad un centro specializzato dove
può essere visitato da un oculista. Contatti prolungati con gasolio, kerosene o
benzina diesel possono produrre una ustione chimica che nelle prime fasi può
apparire come lesione solo parzialmente profonda, ma successivamente a tutto
spessore. Se il tempo di esposizione è protratto e se il danno coinvolge ampie
superfici corporee, si può determinare un assorbimento sistemico responsabile di
insufficienza d'organo e di morte. Questa complicanza si manifesta entro 6-24 ore e
coinvolge i polmoni, il fegato ed i reni. La benzina che contiene piombo tetraetile
(ormai non più usata) è molto tossica. Il contatto con essa richiede che i pazienti
siano immediatamente trasferiti in un centro ustioni. Estrema cautela dovrà avere il
personale di soccorso a causa della possibile combustione degli idrocarburi volatili.
L'acido fluoridrico è l'acido inorganico che determina il danno maggiore. Le lesioni
sono dovute alla penetrazione dello ione fluoro e al suo legame con strutture
profonde. La sua attività cessa quando si combina con il calcio o il magnesio a
formare un sale insolubile. Questo acido viene ampiamente utilizzato dalle industrie
di semiconduttori ed è presente nei prodotti per la rimozione della ruggine sia ad uso
industriale che domestico. Il trattamento immediato consiste nella copiosa
irrigazione con acqua o, se prontamente a disposizione, con soluzioni di benzalconio

67
Ustioni e congelamenti

cloruro. Il dolore causato da tali lesioni è molto intenso e può essere un indicatore
dell'efficacia dell'intervento terapeutico. In accordo a questo, bisogna fornire solo un'
anestesia leggera in quanto grosse dosi di narcotici diminuendo il dolore privano il
medico del più importante indice di inattivazione del fluoro.
Lesioni da elettricità
Le lesioni da elettricità condividono molte caratteristiche con quelle termiche. Ci
sono, tuttavia, differenze nel modo in cui la corrente elettrica causa il danno dei
tessuti. Tale danno è per la maggior parte dovuto alla produzione di calore da parte
della corrente. Si pensa che i diversi tessuti dell'organismo abbiano diverse resistenze
elettriche, la resistenza elettrica più alta è a livello delle ossa. Di conseguenza, le
ossa si comportano come un elemento del campo elettrico che produce calore e
questo spiega la presenza di lesioni profonde vicino alle ossa in assenza di lesioni
superficiali. I dati recenti hanno messo in discussione questa teoria suggerendo che
un arto può comportarsi come un modello a compartimento singolo. Sebbene tale
questione sia irrisolta, è certo comunque che dopo un insulto elettrico (soprattutto
se con corrente ad alto voltaggio) le lesioni dei tessuti profondi siano maggiori di
quelle osservate in superficie. Un fenomeno comune è la progressiva perdita di
vitalità dei tessuti che si manifesta nei primissimi giorni dall'evento lesivo. I muscoli,
in particolare, possono apparire vitali e contrattili subito dopo, ma non più ad un
esame successivo. La spiegazione più classica di tale fenomeno consiste in una
trombosi ritardata del microcircolo causata da un "effetto singolare" della corrente
elettrica. È stato difficile tuttavia dimostrare sperimentalmente questa trombosi e
l'eziologia di tale lesione ritardata non è chiara, sebbene gli studi più recenti
focalizzino l'attenzione sulla progressiva distruzione dei tessuti ad opera di mediatori
rilasciati dalle cellule danneggiate. Un danno aggiuntivo viene causato dalle ustioni
ad arco che si manifestano a livello delle superfici flessorie del corpo e specialmente
al polso, a livello della fossa antecubitale e di quella poplitea. La contrazione
muscolare o il tetano indotti dalla corrente rende la vittima incapace di staccarsi
dalla sorgente elettrica e ciò aumenta enormemente il danno. Inoltre i vestiti della
vittima spesso possono prendere fuoco e perciò avremo anche ustioni superficiali
causate da tale evento. L'incidenza di lesioni associate è molto elevata. L'insulto
elettrico, soprattutto quando dovuto al contatto con i fili dell'alta tensione, si
verifica spesso ad una certa altezza dal suolo. Dovranno perciò essere ricercate
lesioni traumatiche conseguenti alla possibile caduta. L'estensione di un danno da
elettricità è strettamente correlata con l'intensità di corrente. Questa è sconosciuta
al clinico ma può essere ricavata dal voltaggio. Dato che il voltaggio e l'amperaggio

68
Ustioni e congelamenti

sono direttamente proporzionali, una lesione con corrente ad alto voltaggio implica
un danno potenziale dei tessuti profondi. Sebbene sia controversa la teoria delle
differenze di resistenza dei diversi tessuti del corpo, deve essere chiaro che,
maggiore è la resistenza di una struttura, maggiore sarà il calore generato dalla
corrente mentre l'attraversa. La corrente alternata, specialmente quella a basso
voltaggio, è più pericolosa: a 40-200 cicli per secondo è in grado di causare la
fibrillazione del miocardio. Fra le sorgenti di tale corrente, negli Stati Uniti, vengono
incluse le prese di casa, dove la corrente è fornita a 60 cicli per secondo.
L'estensione di un danno da elettricità è strettamente correlata anche con la durata
del contatto ed il cammino della corrente attraverso il corpo, sebbene alle volte non
si sia in grado di stabilire un punto di entrata ed un punto di uscita. Il punto di
contatto determina esso stesso una lesione, specialmente quando la corrente
attraversa il cuore, il collo e la testa. In tali circostanze aumenta il rischio di disturbi
rispettivamente cardiaci e neurologici. Il primo intervento nel danno da elettricità è
quello ovviamente di spostare il più velocemente possibile la vittima dalla sorgente
elettrica. Resta inteso comunque che il soccorritore dovrà stare attento a non
entrare egli stesso in contatto con tale sorgente. Se i vestiti stanno prendendo fuoco,
bisogna adoperarsi per spegnere tale incendio. A questo punto il trattamento è lo
stesso di quello che viene effettuato per qualsiasi traumatizzato. L'arresto cardiaco e
respiratorio sono abbastanza frequenti. Spesso i pazienti sono soggetti giovani ed in
buona salute e le chances di una rianimazione sono eccellenti. Gli sforzi prolungati
per la rianimazione cardiopolmonare sono quindi giustificati.
Chirurgia ricostruttiva
Gli esiti devastanti di gravi, ma anche moderate lesioni da
calore, sono evidenti per tutti coloro che hanno in cura questi
sfortunati individui. Se la terapia e le tecniche chirurgiche
migliorano costantemente, bisogna riconoscere dolorosamente
che un grande numero di pazienti non ritornerà al livello di
funzionalità professionale e personale precedente all'evento
traumatico. Uno dei più importanti obiettivi raggiunti in questi pazienti per quanto
riguarda la terapia ricostruttiva è stato il comprendere che in molti di essi, tanto più
è aggressivo il trattamento iniziale, tra cui una precoce escissione e l'apposizione di
innesti, tanto ridotta sarà in seguito la necessità di un intervento di ricostruzione. Ad
esempio, una precoce ed estesa escissione ed innesto a livello delle contratture delle
palpebre ha virtualmente eliminato la necessità di una tarsorrafia di protezione del
globo oculare sottostante le ferite da ustione e ciò, a sua volta, ha reso obsoleto

69
Ustioni e congelamenti

l'intervento di correzione delle deformità che conseguivano all'intervento di


tarsorrafia.
Nonostante però gli ottimi risultati raggiunti grazie agli interventi aggressivi e
precoci e grazie ad una terapia acuta ben pianificata, il problema e la necessità di
interventi di ricostruzione permangono. Molte delle tecniche di ricostruzione
sviluppate dalla chirurgia plastica sono applicabili anche nel paziente ustionato ma,
nonostante ciò, la ricostruzione è resa spesso difficile da numerosi fattori: 1) è
presente un'ampia area di tessuto distrutto, sfregiato o anormale rispetto al paziente
con altri tipi di problema; ciò rende difficile o insoddisfacente l'impiego di una
procedura di ripristino del tessuto locale; 2) le deformità indotte sono spesso
complesse, con perdita di tessuto, fenomeni cicatriziali, perdita della funzionalità,
dolore a diversi livelli che creano una ferita tridimensionale, non curabile in maniera
soddisfacente con le normali metodiche; 3) gli effetti devastanti di una ustione
spesso limitano il contributo che il paziente può fornire alla propria riabilitazione e
alla ricostruzione. Per tutte queste ragioni, come nel caso di ustioni acute, la terapia
ricostruttiva deve essere realizzata da una équipe multidisciplinare per indirizzare i
vari problemi al più competente, per risolverli e per assicurarsi il migliore risultato
possibile dalle procedure di ricostruzione. In
generale, la ricostruzione viene rimandata fino a
che non matura la cicatrice ipertrofica. Fa
eccezione il caso in cui la cicatrice possa
compromettere una funzione vitale, come ad
esempio la contrattura della palpebra, che
determina l'esposizione della cornea, e lo sviluppo di cheratiti. Nella maggior parte
dei casi però risultati migliori vengono ottenuti quando le cicatrici si sono
stabilizzate e la gamma di movimenti è normale o ha raggiunto un "plateau" con i
trattamenti non chirurgici.
Sebbene la discussione delle procedure specifiche di ricostruzione vada al di là dello
scopo di questo capitolo, deve essere fatta una breve menzione. L'uso degli espansori
cutanei, per fornire una maggiore quantità di tessuto locale per la ricostruzione, è
risultato particolarmente utile per le ustioni al cuoio capelluto e la ricostruzione
delle aree di alopecia. Nonostante rimanga comunque elevato il grado di
complicazioni con questa tecnica, tale procedura offre un metodo chiaro e ben
tollerato per risolvere un problema a lungo considerato praticamente intrattabile.
Essa trova applicazione anche nella ricostruzione di deturpanti cicatrici ipertrofiche
in altre aree del corpo, sebbene in tali casi le indicazioni siano meno chiare e le

70
Ustioni e congelamenti

complicazioni siano maggiori. Allo stesso modo, il trasferimento di lembi liberi trova
un'applicazione sia nei difetti primari che in quelli secondari, soprattutto quando non
c'è tessuto locale a sufficienza o quando l'immobilizzazione, necessaria per il
trasferimento del lembo peduncolato, può essere controindicata.
Congelamenti
I congelamenti sono provocati dall'esposizione dei tessuti a basse temperature.
L'effetto citolesivo del freddo aumenta con il diminuire della temperatura e
l'aumentare della durata dell'esposizione. Diversa è la resistenza dei tessuti viventi
alle basse temperature: nervi, muscoli e vasi sono particolarmente sensibili mentre
cute, connettivo, tendini ed osso sono più resistenti.
La patogenesi delle lesioni da freddo riconosce essenzialmente due meccanismi: la
formazione di cristalli di ghiaccio intra ed extracellulari e la vasocostrizione, con
conseguente vasoparalisi e costituzione di trombi. I classici congelamenti dei militari
e degli, alpinisti sono oggi resi meno frequenti dalla moderna sofisticata tecnologia
dell'abbigliamento: al contrario, è tuttora patologia frequente, durante i mesi
invernali, in soggetti particolari, in cui sono deficitarie le normali reazioni al freddo,
sia vegetative che comportamentali (etilisti, tossico-dipendenti, psicopatici,
vasculopatici, nomadi, ecc.). Non vanno dimenticati i congelamenti da contatto con
prodotti dell'industria del freddo (azoto liquidò, ossigeno liquido, anidride carbonica
solida, ecc.). Tali congelamenti possono essere:
– patologici, in genere di natura infortunistica, in lavoratori dell'industria del freddo;
– iatrogeni, in pazienti sottoposti a crioterapia e criochirurgia e in questo caso gli
effetti destruenti della basse temperature sono appositamente ricercati con fini
terapeutici. In analogia con le ustioni, anche i congelamenti possono essere
classificati in gradi. Si riconoscono così congelamenti di 1° grado, caratterizzati da
cianosi ed edema; congelamenti di 2° grado, caratterizzati dalla presenza di flittene;
congelamenti di 3° grado quando si verifica necrosi della cute, talora accompagnata
da necrosi dei tessuti sottostanti. In fase di Pronto Soccorso è indispensabile
riscaldare le parti congelate, possibilmente mediante immersione in acqua a 40-42
°C; in .genere sono sufficienti 15 30 minuti, temperature più elevate sono
estremamente dannose, in quanto possono determinare un'ustione.

71
Tumori maligni della cute

TUMORI MALIGNI DELLA CUTE

Definizione
I tumori epiteliali della cute più rappresentativi sono il carcinoma squamocellulare,
nelle forme invasive ed in situ quali cheratosi attiniche, morbo di Bowen ed
eritroplasia di Queyrat, ed il carcinoma basocellulare.
I tumori epiteliali non melanocitari della cute, con circa 80.000 nuovi casi all’anno,
rappresentano il secondo gruppo di neoplasie più frequenti nell’uomo. La loro
incidenza è pari a 55 nuovi casi su 100.000 individui all’anno nella donna ed 85 nuovi
casi su 100.000 individui all’anno nell’uomo, con una mortalità dello 0.3-0.8% da
ascrivere unicamente al carcinoma squamocellulare invasivo e metastatico.
Carcinoma squamocellulare
E’ il tumore epiteliale maligno invasivo della cute,
pseudomucose e mucose. Il carcinoma
squamocellulare, noto anche come carcinoma od
epitelioma spinocellulare o spinalioma, insorge
preferenzalmente su di una lesione precancerosa o
come forma invasiva di iniziali carcinomi in situ. La
sua incidenza è di 6/100.000 per le donne e di 12/100.000 per gli uomini in Europa
che sale a 30-60/100.000 negli Stati Uniti ed Australia. Esposizione solare, radiazioni
ionizzanti, fototerapia, fotochemioterapia, processi infiammatori e degenerativi
cronici della cute, esposizione a cancerogeni chimici, virus oncogeni,
immunodepressione sono i fattori di rischio considerati nella patogenesi di questa
neoplasia.
L’aspetto della lesione varia in relazione alla fase di crescita. Inizialmente si
presenta come un piccolo elemento papulo-nodulare cheratosico o verrucoso che,
successivamente, assume l’aspetto di un nodulo duro esofitico, ulcerato spesso anche
a carattere infiammatorio. Il rischio di metastasi varia ed è dipendente dalla sede,
dal grado di differenziazione, dalle dimensioni e dal tipo di lesione preesistente
(carcinomi in situ, dermatosi infiammatorie o degenerative croniche). L’incidenza di
metastasi è più elevata nei carcinomi di dimensioni maggiori ai 2cm di diametro e
4mm di spessore od in quelli che insorgono su radiodermiti croniche o su cicatrici da
ustioni, ovvero nelle sedi di transizione tra cute e mucose, come labbra, pene e

72
Tumori maligni della cute

vulva. Nei carcinomi che insorgono su cute fotodanneggiata, l’incidenza di metastasi


è bassa. L’incidenza di metastasi, prima ai linfonodi, poi agli organi interni
(polmone, pleura, fegato, scheletro, ecc.).varia a seconda della sede della neoplasia:
se insorge sulla cute , infatti raramente da metastasi mentre se si sviluppa sulle
mucose e nelle aree di passaggio cute-mucose metastatizza con alta frequenza con
una sopravvivenza media a 5 anni pari al 20-25%.
I carcinomi squamocellulari mostrano aspetti istologici non differenti da quelli insorti
in altri organi. Si osserva una proliferazione di cheratinociti atipici che invadono il
derma e mostrano indici di differenziazione e cheratinizzazione diversi a seconda del
grado di malignità. Diametro, spessore e livello di invasione costituiscono i fattori
prognostici importanti.
La terapia chirurgica costituisce l’atto terapeutico fondamentale che, nei tumori a
basso rischio, assicura una risposta completa nel 95% dei casi. Maggiori dimensioni o
sedi ad alto rischio quali labbra, lingua, genitali, richiedono escissioni più ampie ed
un attento controllo istologico. Radioterapia, infiltrazioni locoregionali con
interferone -2b, retinoidi sistemici, possono essere proposti nei pazienti con elevato
rischio operatorio.
Cheratosi attiniche
Il termine di cheratosi attinica o solare è giustificato
dall’effetto mutageno sulla cute delle radiazioni
solari UVB (290-320 nm) che generano dimeri di
timidina con conseguenti mutazioni sia di telomerasi
che di geni soppressivi tumorali quali il p53. Entrambi
questi eventi contribuiscono alla trasformazione
neoplastica dei cheratinociti. Le cheratosi attiniche, quali carcinomi in situ, sono
potenziali precursori del carcinoma squamocellulare invasivo. Il rischio di
trasformazione è di circa l’1%. I fattori di rischio sono gli stessi del carcinoma
squamocellulare: fototipo cutaneo basso (I-II secondo Fitzpatrick, dosi cumulative di
radiazioni solari alle quali ci si è esposti nel corso della vita, sesso maschile ed età
avanzata. Il rischio di progressione aumenta con l’aumentare del numero complessivo
delle lesioni nel singolo paziente. Le lesioni appaiono come piccole papule o placche
eritematose, spesso multiple e di forma irregolare, da 1 a 2.5cm di dimensione,
sovrastate da una piccola squama aderente, localizzate pressoché esclusivamente in
sedi fotoesposte quali il viso, il cuoio capelluto dei soggetti calvi, il collo, il dorso
delle mani, la superficie estensoria degli avambracci, meno frequentemente delle
gambe. Istologicamente, le cheratosi attiniche mostrano una proliferazione di

73
Tumori maligni della cute

cheratinociti atipici confinati nell’epidermide. Possono essere proposti sia


trattamenti fisico-chirurgici, quali crioterapia, laserterapia, diatermocoagulazione
superficiale, terapia fotodinamica, che medici per uso topico, quali 5-fluorouracile,
imiquimod al 5%, diclofenac ialuronato al 3%.
Morbo di Bowen
E’ un carcinoma squamocellulare in situ a tutto spessore dell’epidermide, più
comune nei soggetti anziani ed in relazione non al fotodanneggiamento bensì alla
presenza di ceppi virali oncogeni HPV. Ha l’aspetto di una chiazza o placca
psoriasiforme od eczematoide ben delimitata, a lento accrescimento. Lo sviluppo di
infiltrazione, nodosità od ulcerazione deve far sospettare l’avvenuta invasione del
derma da parte di cellule neoplastiche inizialmente distribuite nel contesto di tutta
l’epidermide. Asportazione chirurgica, crioterapia, elettrochirurgia, terapia
fotodinamica, applicazione topica di chemioterapici (5-fluorouracile) od
immunomodulatori (imiquimod, interferone) possono essere variamente utilizzati
per trattare la neoplasia.
Eritroplasia di Queyrat
E’ la forma di carcinoma squamocellulare in situ delle mucose o zone di transizione
genitali od orali. Sembra rilevante il ruolo oncogenetico dell’HPV 16 e 18. A
differenza del morbo di Bowen, ha l’aspetto di una chiazza o placca eritematosa
irregolare a limiti netti, a superficie vellutata, e, viste le sedi più a rischio, presenta
una prognosi più insidiosa del morbo di Bowen. Sono attuabili le stesse procedure
terapeutiche riferite per le altre forme di carcinomi in situ.
Carcinoma basocellulare
Il carcinoma basocellulare, noto anche come
epitelioma basocellulare o basalioma, si ritiene che
origini da cellule pluripotenti dell’epidermide, sia
dello strato basale che della guaina epiteliale
esterna del follicolo pilifero, e mostra un carattere
solo localmente infiltrativo e distruttivo. La
possibilità di metastasi è infatti un evento eccezionale (1:50.000). Un danno attinico
cronico della cute, mutazioni di geni quali il PTCH (omologo del gene “patched”
nella Drosophila) e p53, eventuale esposizione a sostanze cancerogene (arsenico,
radiazioni ionizzanti), danni cutanei cronici, sono i più significativi fattori
patogenetici correlati al carcinoma basocellulare. E’ la neoplasia in assoluto più
frequente nell’uomo e rappresenta il 75% dei tumori maligni della cute. La sua
incidenza in Europa è di 40-80/10.000 e sale a 1600/10.000 in Australia. Il carcinoma

74
Tumori maligni della cute

basocellulare si presenta come una lesione papulosa o nodulare, con peculiare tinta
cerea, spesso solcata da teleangectasie e delimitata da caratteristiche perle
epiteliomatose. In relazione alla variante clinica e alla fase di crescita, si possono
evidenziare aspetti nodulari, erosivo-ulcerativi a superficie crostosa, pigmentari,
sclerodermiformi, e/o simil eczematoidi. Le forme cliniche sono quindi la nodulare,
che è quella più frequente, la superficiale, la sclerodermiforme, la pigmentata, e
l’ulcerativa. Sono possibili forme multiple nel 30% dei soggetti. La testa ed il collo
sono le sedi dove insorge più di frequente (85%) seguite dal tronco e dagli arti (15%).
Eccezionalmente la neoplasia da metastasi, prima ai linfonodi, poi agli organi interni.
Dal punto di vista istopatologico l’aspetto più significativo è rappresentato dalla
proliferazione di lobuli e trabecole di cellule basalioidi, simili per morfologia alle
cellule basale dell’epidermide o delle guaine del follicolo pilifero, con caratteristica
disposizione a palizzata periferica, che dall’epidermide si affondano nel derma. Il
grado di cheratinizzazione, inteso come la capacità delle cellule neoplastiche di
produrre cheratina, è in genere basso o nullo. Da segnalare un’evidente reazione
dello stroma che circonda i lobuli neoplastici, evento che partecipa del basso grado
di invasività del tumore. Aspetti istologici peculiari aggiuntivi sono da ricondurre alle
diverse forme cliniche. La prognosi è buona e l’incidenza di recidive è pari al circa
5%. La scelta della terapia dipende da diversi fattori quali dimesione, sede, variante
anatomo-clinica, condizioni del paziente, preferenza del paziente, manualità
dell’operatore. L’asportazione chirurgica consente una guarigione del 98-99% con un
adeguato controllo dei margini di asportazione. Terapia fotodinamica, crioterapia,
curettage ed elettrochirurgia, radioterapia, vengono impiegati con successo. Tra le
terapie mediche proposte ricordiamo infiltrazioni locoregionali di interferone -2b,
applicazioni topiche di 5-fluorouracile. Recentemente, nuove esperienze ancora
sperimentali hanno proposto l’uso di imiquimod al 5%, tazarotene allo 0.1%,
diclofenac ialuronato al 3%.
IL MELANOMA
Il melanoma è una neoplasia maligna che deriva
dal melanocita e si localizza nella grande
maggioranza dei casi a livello della cute, pur
potendo originare in altre sedi quali esofago,
retto, meningi e uvea. L’incidenza del melanoma
cutaneo sta aumentando significativamente in tutti
i Paesi del mondo, pur avendo variazioni significative in relazione alla latitudine e
alla razza. La prevalenza è di 45 casi per anno per 100.000 abitanti in Australia e

75
Tumori maligni della cute

Nuova Zelanda, mentre in Italia è di circa 5-7 casi per 100.000 abitanti per anno. La
frequenza è estremamente bassa in Africa e in Asia. Il melanoma insorge più
frequentemente tra la 4a e la 5a decade nella donna e tra la 5a e la 6a nell’uomo. I
fattori di rischio individuali includono il fototipo I e II (soggetti con pelle chiara,
occhi azzurro/verdi e capelli rossi/biondi, che al sole si scottano sempre e si
abbronzano poco), presenza di un nevo congenito gigante, numero elevato di nevi,
nevi clinicamente atipici, numerose lentiggini/efelidi, ed una storia personale e/o
familiare di melanoma. L’esposizione alle radiazioni ultraviolette (UV) ed in
particolare le ustioni in età infantile rappresentano fattori ambientali predisponenti
il cui ruolo è ormai accertato, mentre è ancora controversa la partecipazione di
alcuni cancerogeni chimici e/o l’assunzione di estrogeni. Nella maggioranza dei casi
il melanoma insorge de novo su cute sana, mentre solo nel 10-30% dei soggetti
insorge su un nevo pre-esistente. Inoltre, il melanoma può essere di tipo sporadico o,
nel 10% circa dei casi, di tipo familiare. La classificazione più utilizzata nella pratica
clinica è quella proposta da W. Clark, che prevede la suddivisione in lentigo maligna
melanoma, melanoma a diffusione superficiale, melanoma nodulare, melanoma
acrale lentigginoso. Tutti i tipi di melanoma, con la sola eccezione del melanoma
nodulare, sono caratterizzati da una fase di crescita orizzontale che può durare mesi
o anni, seguita da una fase di crescita verticale. Durante la fase di crescita
orizzontale le cellule melanocitarie atipiche proliferano esclusivamente all’interno
dell’epidermide (melanoma in situ) e solo successivamente superano la membrana
basale e si localizzano anche a livello del derma (melanoma invasivo). La lentigo
maligna melanoma rappresenta circa il 10% di tutti i melanomi osservati, insorge più
frequentemente in soggetti di sesso femminile di età superiore ai 60 anni, ed è
associata all’esposizione cronica alle radiazioni UV. Le sedi preferenziali sono quelle
fotoesposte ed includono il volto, il collo e le estremità superiori. La lesione cutanea
si presenta come una macula o una placca di colore variegato, variabile dal marrone
chiaro al marrone scuro al nero, a margini irregolari, variamente rilevata sul piano
cutaneo, che tende a crescere lentamente di dimensioni. Nel tempo, nel contesto
della lesione possono insorgere papule e noduli, suggestivi della crescita verticale
della neoplasia associata ad una maggiore aggressività. Inoltre, la lesione può
contenere aree di colore rosso e/o aree bianco/bluastre indicative rispettivamente di
neovascolarizzazione e di regressione. Il melanoma a diffusione superficiale è la
forma più frequente nella popolazione caucasica costituendo il 50-70% di tutti i
melanomi, e sembra essere associato all’esposizione intermittente alle radiazioni UV.
L’incidenza è più elevata nella 5a decade di vita, in soggetti di sesso femminile. Le

76
Tumori maligni della cute

sedi più frequentemente coinvolte sono il dorso nei maschi e gli arti inferiori nelle
femmine. Dal punto di vista clinico si manifesta come una placca di colore
marrone/nero, forma e bordi irregolari, e dimensioni variabili da pochi millimetri a
numerosi centimetri. In alcuni casi, la lesione può presentare aree di colore rosso,
e/o bianco/bluastre, e ulcerazione spontanea. La fase di crescita orizzontale ha una
durata variabile da mesi ad anni, mentre la fase di crescita verticale è caratterizzata
dalla comparsa di papule e/o noduli. Il melanoma nodulare costituisce il 15-35% di
tutti i melanomi riscontrati in soggetti caucasici. Si tratta di una neoplasia che si
presenta come un nodulo d’emblée ed è caratterizzata da un’elevata aggressività
biologica e prognosi sfavorevole. Insorge più frequentemente in soggetti di sesso
maschile, tra i 30 e i 40 anni, a livello del dorso, regione testa/collo ed estremità.
Nella maggioranza dei casi la lesione è di colore variabile dal marrone chiaro al
marrone scuro/nero, talora ulcerata In alcune evenienze, la lesione può assumere un
colore rosa-rossastro o essere parzialmente o totalmente acromica. Il melanoma
acrale lentigginoso è una forma clinica più frequente in soggetti di razza asiatica,
mentre rappresenta il 5-10% dei melanomi negli individui caucasici. Le sedi di
localizzazione comprendono i palmi delle mani, le piante dei piedi e le regioni
subungueali. Anche in questo tipo di melanoma la lesione consiste, nelle fasi iniziali,
in una placca asimmetrica, di colore marrone/nero e bordi irregolari, mentre nelle
fasi tardive si ha la comparsa di papule e/o noduli. Altre forme di melanoma, di più
raro riscontro, comprendono: 1) il melanoma mucoso, che pur presentando aspetti
clinici tipici è, proprio in relazione alla sede d’insorgenza, generalmente
diagnosticato in fase tardiva e associato ad una prognosi sfavorevole; 2) il melanoma
dei tessuti molli, generalmente asintomatico, che si manifesta come una massa
sottocutanea localizzata in corrispondenza di tendini, aponeurosi e fasce muscolari;
3) il melanoma desmoplastico, che si presenta come un nodulo duro, spesso
amelanotico, localizzato al volto, e caratterizzato da una prognosi sfavorevole; 4) il
melanoma su nevo blu cellulare, che insorge su un nevo blu pre-esistente, localizzato
generalmente al cuoio capelluto. Le diagnosi differenziali cliniche del melanoma
includono più frequentemente il nevo melanocitico, ed in particolare il nevo di Clark,
il nevo di Spitz/Reed, il nevo blu e il nevo persistente, il carcinoma basocellulare
pigmentato e, raramente, il granuloma piogenico e la cheratosi seborroica. Alcune
caratteristiche cliniche quali asimmetria della lesione, bordi irregolari, colore
variegato e superficie irregolarmente rilevata sono altamente indicative di lesione
melanocitaria sospetta o maligna. L’analisi dermatoscopica della lesione cutanea
permette inoltre di evidenziare alcuni criteri non visibili ad occhio nudo (e.g. rete

77
Tumori maligni della cute

pigmentata atipica, punti/globuli irregolari e strutture di regressione) e di stabilire la


diagnosi definitiva di melanoma. Tale metodica, ormai diffusamente utilizzata nella
pratica clinica, ha permesso di aumentare ulteriormente l’accuratezza della diagnosi
clinica di melanoma consentendo di stabilire la diagnosi definitiva in una fase sempre
più precoce. L’esame istopatologico rappresenta tuttavia l’indagine fondamentale al
fine di stabilire o confermare la diagnosi di melanoma. Gli aspetti istopatologici
caratteristici includono la presenza di una lesione asimmetrica e mal circoscritta
costituita da melanociti atipici, singoli o raggruppati in teche, di forma e dimensioni
irregolari e non equidistanti tra loro, localizzati all’interno dell’epidermide e nel
derma. Un aspetto tipico importante ai fini diagnostici è la presenza di melanociti
atipici singoli in tutti gli strati dell’epidermide. Lo spessore di Breslow, calcolato con
apposito micrometro applicato al microscopio, ed il livello di invasione (livello di
Clark) sono gli aspetti istopatologici più importanti per stabilire la prognosi. Una
volta formulata la diagnosi di melanoma e misurato lo spessore di Breslow, il
paziente deve essere sottoposto a stadiazione completa al fine di individuare
eventuali metastasi a livello degli organi interni. La stadiazione della malattia
prevede l’esecuzione di indagini di laboratorio (e.g. emocromo e funzionalità
epatica) e strumentali (RX o TC, in relazione allo spessore e alla sede del melanoma).
Recentemente, la biopsia del linfonodo sentinella è stata introdotta quale metodica
di routine per la stadiazione del melanoma. I diversi stadi della malattia vengono
attualmente classificati secondo i criteri proposti dall’AJCC (American Joint
Committee of Cancer). Il melanoma metastatizza in prima istanza per via linfatica,
prevalentemente ai linfonodi loco-regionali di drenaggio della sede del melanoma
primitivo ed in seguito per via ematica coinvolgendo, in ordine decrescente di
frequenza, polmone, fegato, encefalo e apparato scheletrico. Il melanoma
diagnosticato in una fase molto precoce (melanoma in situ) è curabile con la sola
asportazione chirurgica. Al contrario, in una fase avanzata non esiste purtroppo
alcuna polichemioterapia né terapie chirurgiche in grado di curare il melanoma. E’
pertanto fondamentale ricordare che il melanoma è, tra tutti i tumori, quello più
facilmente individuabile in una fase precoce perché insorge in un organo che è
visibile a tutti, ed è, in virtù di questo, che oggigiorno nessuno dovrebbe morire più
di melanoma.

78
Anomalie vascolari

ANOMALIE VASCOLARI

Emangioma
Gli emangiomi si manifestano tipicamente nel periodo neonatale ovvero nelle prime
2 settimane di vita mentre quelli profondi sottocutanei o quelli viscerali più
tardivamente (2-3 mesi). Circa il 30-40% delle lesioni sono presenti alla nascita con
un segno cutaneo premonitore, che può essere una macchia pallida appena visibile
("nevo anemico"), una chiazza rossa telangiectasica o
maculare o una macchia ecchimotica. Circa 1'80%
delle neoformazioni crescono come lesione singola,
mentre il 20% prolifera in siti multipli: sono più
frequenti nel sesso femminile rispetto al sesso
maschile (3-5:1). Gli emangiomi crescono
rapidamente durante le prime 6-8 settimane di vita: quando la neoformazione
penetra nel derma superficiale la cute diventa sollevata, bozzoluta e di colore
cremisi. Sono spesso presenti vene drenanti locali, secondo una schema tipico
radiale. Esistono pochi elementi indicatori durante la fase di proliferazione precoce
che possono predire il volume massimo della lesione o pronosticare l'esito
dell'involuzione: in genere l'emangioma raggiunge il massimo di proliferazione entro
il primo anno con un incremento volumetrico proporzionato allo sviluppo corporeo
fino alla comparsa dei primi segni di involuzione. La fase involutiva generalmente si
prosegue fino ai 5-10 anni di vita e mediamente si completa entro 5-7. L’emangioma
proliferativo è costituito da cellule endoteliali chiare, in rapida divisione. Con la
regressione, l'attività endoteliale diminuisce gradualmente e le cellule si
appiattiscono e maturano. I mastociti compaiono nella fase di proliferazione tardiva
e nella fase di involuzione precoce e interagiscono con i macrofagi, i fibroblasti ed
altri tipi di cellule. Al microscopio ottico, l'involuzione e caratterizzata da una
progressiva deposizione di tessuto fibroso a livello perivascolare e
interlobulare/intralobulare. Nella fase involutiva è ancora presente la membrana
basale multilaminata, segno distintivo ultrastrutturale di una lesione nella fase
proliferativa. II concetto che la neoformazione sia "angiogenesi dipendente",
proposto per la prima volta da Folkman negli anni '70, permette di comprenderne a
fondo il ciclo di vita.

79
Anomalie vascolari

Le molecole angiogeniche agiscono sulle cellule endoteliali e sui periciti per iniziare
la formazione del network capillare. Normalmente questo processo è strettamente
regolato dai soppressori della crescita endoteliale cosi che la struttura
microvascolare viene mantenuta allo stato quiescente. Studi preliminari indicano che
il fattore di crescita basico dei fibroblasti (bFGF), un peptide angiogenico, è elevato
nelle urine dei neonati con emangiomi proliferativi. Successivamente i livelli urinari
di bFGF diminuiscono su valori normali durante il periodo di involuzione normale o di
regressione accelerata indotta dalla terapia antiangiogenica. Le fasi cliniche del ciclo
di vita di un emangioma possono essere confermate dai markers cellulari
immunoistochimici. Un'angiogenesi up-regolata viene documentata, da un punto di
vista biochimico, dall'espressione dell'antigene nucleare di proliferazione cellulare,
che risulta essere mediata in parte da due peptidi angiogenici: il fattore di crescita
endoteliale vascolare (VEGF) ed il bFGF. Anche la
collagenasi di tipo IV è presente negli emangiomi
proliferativi, suggerendo che la distruzione del
collagene è necessaria per assicurare lo spazio allo
sviluppo dei capillari. L'endotelio in crescita,
alternativamente, potrebbe essere un segnale per il
flusso dei mastociti e per l'induzione autocrina degli inibitori tissutali delle
metalloproteinasi (TIMP-1), soppressori della formazione di nuovi vasi sanguigni. I
mastociti possono secernere modulatori che riducono l'emangiogenesi. Con l'avvento
della fase involutiva, l'endotelio diventa senescente ed il parenchima, una volta con
molti elementi cellulari, viene sostituito dal tessuto fibroso e adiposo. La maggior
parte delle lesioni sono diagnosticabili con l’anamnesi e con l’esame fisico ma un
emangioma profondo, della regione del collo o del tronco, può essere confuso con
una malformazione linfatica (LM) e dunque necessita di mezzi diagnostici più
sofisticati come l'ultrasuonografia e la risonanza magnetica. L’emangioma congenito
si presenta rilevato e di colore rosso-violaceo con un alone periferico pallido ma può
essere confuso con altre patologie clinicamente simili come la malformazione
capillare (macchia di vino) ed arterovenosa, il granuloma piogenico, l' angioblastoma
di Nakagawa (angioma a glomerulo), le anomalie venose o linfatiche, il glioma ed il
sarcoma infantile. L’emangioma cervico-facciale può essere accompagnato da
disturbi oculari (microftalmia, cataratta congenita, ipoplasia del nervo ottico), non
unione sternale, rafe sopraombelicale, arterie embrionali persistenti intra ed extra
craniali, assenza di vasi ipsolaterali carotidei/vertebrali, costrizione del lato destro
dell'arco aortico, dilatazione del sifone carotideo e malformazione di Dandy-Walker o

80
Anomalie vascolari

altri difetti della cavità posteriore. L'emangioma lombosacrale è una delle differenti
lesioni ectodermiche come l’ ipertricosi ("macchia pelosa"), la malformazione
capillare (chiazza di vino), l’ acordoma ("coda fulva") e la fossetta sacrale (seno), che
segnalano un disrafismo spinale occulto sottostante (lipomeningocele, colonna legata
e diastematomielia). Circa il 20% degli emangiomi sono gravati da complicanze gravi
come l’ulcerazione, la necrosi, la distorsione dei tessuti coinvolti, l’ostruzione di una
struttura vitale come l'occhio o della regione sottoglottidea ma solo l'1% sono
pericolose per la vita come la diversione del flusso sanguigno attraverso un
emangioma esteso in grado di determinare un'insufficienza cardiaca ad alta energia o
il fenomeno di Kasabach-Merritt (variante a cellule affusolate tipo Kaposi con
intrappolamento delle piastrine). La necrosi, la distorsione e l'ostruzione sono
possibili nelle lesioni cervico-facciali così come la forma orbito-palpebrale può
bloccare l’asse visivo con ambliopia da deprivazione o anomalie di crescita della
cornea (ambliopia astigmatica). Dal punto di vista terapeutico un emangioma
cutaneo ben localizzato, può essere trattato con corticosteroidi per via intralesionale
(triamcinolone) o sistemica (prednisone, prednsolone). Con l'uso di corticosteroidi
per via orale, endovena o per via intralesionale, il 30% delle neoformazioni mostra
una regressione accelerata, il 40% risponde in maniera equivoca (risposta di
stabilizzazione) ed il 30% non risponde affatto. L'interferone alfa-2 (IFN)
ricombinante è un nuovo presidio terapeutico per il trattamento di emangiomi ad
alto rischio da utilizzare con prudenza e con precise indicazioni come: mancata
risposta ai corticosteroidi, controindicazioni ad un uso prolungato di corticosteroidi,
complicanze durante il trattamento corticosteroideo, rifiuto da parte dei genitori
alla somministrazione di corticosteroidi. Il dosaggio empirico dell'IFN è di 2-3 milioni
di unita/m2 con una iniezione giornaliera sottocutanea. La chirurgia, infine, è una
metodica di scelta non solo negli emangiomi localizzati o peduncolati ma talvolta
anche nelle forme estese mentre la fotocoagulazione con il laser riveste
esclusivamente un ruolo di terapia complementare.
Malformazioni vascolari
Le malformazioni vascolari sono errori di sviluppo embrionale. Possono essere
suddivise in base al tipo predominante di vasi ed alle caratteristiche del flusso:
1. malformazioni capillari (MC) flusso lento=capillare e telangiectasie;
2. malformazioni linfatiche (ML);
3. malformazioni venose (MV);
4. malformazioni arterovenose (MAV), flusso veloce=arterioso e arterovenoso.

81
Anomalie vascolari

La patogenesi delle malformazioni vascolari non è completamente chiarita ed è


ancora coperta da consunti eponimi e teorie non dimostrate circa il possibile ruolo
della pressione e del flusso sulla morfogenesi vascolare ("leggi" di Thoma) ma la
genetica molecolare sta progressivamente definendo il complesso iter evolutivo e la
terminologia molecolare sta rimpiazzando la designazione dei vecchi termini. Sono
conosciuti i geni per due patologie recessive da deficienze enzimatiche che si
presentano con papule cutanee vascolari: la fucosidosi autosomica e la sindrome di
Fabry legata al cromosoma sessuale. Uno dei geni responsabili della telangiectasia
emorragica ereditaria (morbo di Rendu-Osler-Weber) è localizzato sul cromosoma 9q
(Endoglin) e codifica per una glicoproteina endoteliale che lega, trasformandolo, il
fattore di crescita beta.
Diversi geni difettosi, che producono chinasi simili ai fosfoinositoli, provocano ataxia-
telangiectasica (sindrome di Louis-Bar). Un tipo familiare di malformazione multipla
venosa mucocutanea è riscontrabile sul cromosoma 9p mentre quella per le anomalie
venose intracraniche familiari si trova sul cromosoma 7q. Ognuna delle quattro
sottocategorie delle malformazioni vascolari ha un aspetto istopatologico specifico.
Un endotelio piatto, quiescente e allineato è una caratteristica comune a tutte le
anomalie vascolari dismorfiche. La malformazione capillare (MC) comprende vasi
uniformi, ectasici, con le pareti sottili e con dimensioni che variano da quelle dei
capillari a quelle delle venule, localizzati nel derma papillare al di sopra del reticolo.
Elementi neurali perivascolari insufficienti possono essere la causa di un'alterata
modulazione neurale del tono vascolare e dell'ectasia progressiva caratterizzante
queste anomalie. La malformazione linfatica (ML) ha pareti di spessore variabile, che
includono sia la muscolatura liscia che quella striata, con un accumulo nodulare di
linfociti nello stroma del tessuto connettivo mentre quella venosa (MV) presenta
pareti sottili con isole irregolari di muscolatura liscia. I network venosi displastici
drenano verso le vene adiacenti, molte delle quali sono varicose e carenti di valvole.
La malformazione linfaticovenosa (MLV) combinata compare in modo particolare
nella regione craniofacciale. Le arterie nella MAV istologicamente si dimostrano
displastiche e costituite da pareti fibromuscolari ispessite, lamina elastica
frammentata e stroma fibrotico. Le vene in una MAV immatura
appaiono "arterializzate" (iperplasia muscolare reattiva) a
differenza di una MAV matura nella quale i vasi evidenziano una
fibrosi degenerativa ed un'atrofia muscolare. Nessuna delle
malformazioni vascolari produce markers immunoistochimici
dell'angiogenesi (VEGF e bFGF) o collagenasi di tipo IV.

82
Anomalie vascolari

Malformazioni capillari ("Macchia di vino")


La malformazione capillare clinicamente è una macchia vascolare a chiazze, di
colore rosso presente alla nascita, persistente per tutta la vita e localizzata sulla
faccia, sul tronco o sugli arti. La MV deve essere differenziata dal nevus flammeus
neonatorum che compare nel 50% dei neonati a livello della glabella, delle palpebre,
del naso, del labbro superiore ("bacio d'angelo") e dell'area della nuca ("morso di
cicogna"). La maggior parte delle MC sono innocue ma alcune sono segnali di
pericolo ed espressioni di patologie di rilevante gravità. La sindrome di Sturge-Weber
comprende la MC facciale associata ad anomalie vascolari oculari e ipsolaterali della
pia madre. Le displasie vascolari della leptomeninge possono causare emiplegia
controlaterale e ritardo variabile nello sviluppo della capacità motoria e cognitiva..
Si possono osservare calcificazioni piriformi degli strati esterni della corteccia
cerebrale, tipicamente nel lobo temporale ed in quello occipitale; queste alterazioni
sono probabilmente secondarie ad una circolazione anomala. I bambini, che
mostrano un aumento ipsolaterale della vascolarità coroidale, sono a rischio di
distacco della retina, di glaucoma e di cecità, più probabile se la MC coinvolge anche
le aree neurosensoriali V1 e V2. La MC facciale è incline a scurirsi ed è probabile che
possa sviluppare alterazioni iperplastiche nella cute. Si possono manifestare noduli
ispessiti di color porpora nell'adolescenza; a qualsiasi età può comparire un
granuloma piogenico. Curiosamente, queste alterazioni cutanee si verificano molto
raramente a livello del tronco e degli arti. La MC facciale è talvolta associata
all'ipertrofia dei tessuti molli e dello scheletro sottostante mentre labbra gengive si
ingrossano a livello delle aree delle chiazze vascolari. Una MC estesa a livello di un
arto è associata ad una ipertrofia assiale e trasversale, spesso presente alla nascita.
Le varicosità venose non si sviluppano durante l'infanzia e l'ipertrofia dell'arto, se
presente, di solito non peggiora durante la crescita. Le malformazioni capillari
dell'arto possono far parte di anomalie vascolari complesso-combinate, come la
sindrome di Klippel-Trenaunay e quella di Parkes Weber. La MC cefalica sulla linea
mediale può indicare la presenza di un encefalocele occipitale sottostante così come
quella dorsale può segnalare la presenza di disrafismo spinale cervicale o
lombosacrale. La malformazione capillare associata con un nevo pigmentato (più
comune nei neonati giapponesi e di razza nera) viene definita “phacomatosis
pigmentovascularis” e suggerisce un difetto comune nella migrazione delle cellule
della cresta neurale. Per il trattamento della MC viene utilizzato con successo il laser
pulsato con risultati migliori nel periodo neonatale e nell'infanzia ed uno
schiarimento significativo nel 70-80% dei pazienti. L'ipertrofia dei tessuti molli e

83
Anomalie vascolari

dello scheletro necessita di strategie chirurgiche: la resezione del contorno per la


macrochilia risulta molto efficace mentre la correzione ortognatica è indicata per
l'eccesso mascellare verticale asimmetrico o per il prognatismo mandibolare. In casi
rari, è necessaria l'escissione di un'intera unità estetica facciale.
Telangiectasia congenita della cute marmorata (sindrome di Van Lohuizen)
La sindrome di Van Lohuizen è caratterizzata da un network vascolare cutaneo
reticolato, serpiginoso, depresso e di colore blu-violetto. Le lesioni si sviluppano
secondo una distribuzione segmentata o localizzata, raramente generalizzata. Le
regioni più comunemente coinvolte sono il tronco e le estremità. Possono essere
presenti ulcerazione congenita e atrofia della cute coinvolta. La biopsia rivela una
dilatazione dei capillari e delle vene del derma e talvolta laghi venosi con pareti
sottili negli strati sottocutanei. La condizione migliora soprattutto dopo il primo anno
di vita ma persistono l'atrofia cutanea, la colorazione vascolare e l'ectasia venosa. La
patologia dovrebbe essere differenziata da una situazione accentuata di vascolarità
cutanea normale chiamata "cutis marmorata o livedo reticularis".
Telangiectasia essenziale generalizzata
L’insorgenza di questa malformazione e molto variabile:
può comparire prima della pubertà ma più frequentemente
si manifesta nella IV-VI decade della vita con una
prevalenza per il sesso femminile (2:1). Le lesioni primarie
sono a forma di spillo e di macchie vascolari rosso-porpora
raccolte in gruppi sugli arti inferiori, con uno sviluppo
prossimale e, progressivamente, disposte a formare strati di telangiectasie
variamente intrecciate. Il trattamento con il laser a luce pulsata è relativamente
efficace. La telangiectasia emorragica ereditaria, o sindrome di Rendu-Osler-Weber,
compare in 1-2 casi ogni 100.000 nati vivi comprende un gruppo di patologie
autosomiche con lo stesso fenotipo causato da diversi geni e specificate da una
displasia vascolare multisistemica con emorragie ricorrenti. La forma omozigote è
letale. Clinicamente la malattia può manifestarsi nell'infanzia ma più comunemente
dopo la pubertà con maculopapule di colore rosso chiaro, del diametro di 1-4mm, a
livello della faccia, della lingua, delle labbra, della mucosa nasale ed orale, della
congiuntiva, del lato palmare delle dita e del letto ungueale, delle muscose interne e
dei visceri. L'epistassi è la sintomatologia più comune ma sono possibili anche
ematemesi, ematuria o melena ed emorragie del sistema nervoso centrale. In alcune
forme si sviluppano malformazioni arterovenose, soprattutto a livello del cervello,
della spina dorsale, del fegato e dei polmoni.

84
Anomalie vascolari

Atassia-telangiectasia
L'atassia-telangiectasica è un disordine neurovascolare autosomico recessivo
ereditario che compare dai 3 ai 6 anni di vita. Il quadro clinico presenta a
considerare telengectasie rosso-vivido che insorgono prima sull'area nasale e
temporale della congiuntiva bulbare e successivamente sul volto, sul collo, sul torace
e sulla superficie flessoria dell'avambraccio. Anche l'atassia cerebellare inizia nella
seconda infanzia con una progressiva degenerazione neuromotoria. Questi pazienti
hanno una disfunzione endocrina, instabilità cromosomica, deficienza immunologica
e ritardo di crescita. La morte di solito avviene nella seconda decade della vita a
causa di infezioni polmonari ricorrenti e bronchiectasia o per un tumore maligno
linforeticolare.
Malformazioni linfatiche
Le malformazioni linfatiche possono essere distinte in forme microcistiche,
macrocistiche o combinate mentre la vecchia terminologia li definiva "linfangioma"
(ML microcistica), "igroma cistico" (ML macrocistica) e si propongono con vescicole
displastiche o tasche riempite con fluido linfatico. Le ML si manifestano alla nascita,
o in epoche successive e non hanno tendenza alla regressione ma si espandono o si
contraggono a seconda del flusso/riflusso del liquido linfatico, di fenomeni
infiammatori, di sanguinamenti intralesionali. I vasi linfatici dilatati anomali nella
cute e nella mucosa si presentano come vescicole. Le ML del collo, della fronte e
dell'orbita sono spesso forme miste, micro e macrocistica, con asimmetria facciale,
distorsione dei lineamenti, ipertrofia dei tessuti ossei e dei tessuti molli. La ML è la
base più comune per la macrocelia, la macroglossia, la microtia e la macromelia. La
crescita eccessiva della mandibola si manifesta come malocclusione, con morso
aperto anteriore o occlusione di classe III. Una lingua ingrossata, coperta di
vescicole, rende difficoltoso il linguaggio ed è complicata da infezioni ricorrenti,
edema, sanguinamento, scarsa igiene dentale e carie. La LM micro-macrocistica della
regione cervico-facciale può causare ostruzione delle vie respiratorie mentre la
cervico-ascellare coinvolge comunemente il torace ed il mediastino con possibile
soffusione pleurica e polmonare ricorrente. Una malformazione linfatica estesa a
livello di un arto inferiore è associata a linfedema, distorsione scheletrica ed
ipertrofia, la forma pelvica manifesta linfangectasia perineale e quella viscerale
("linfangiomatosi") può indurre ipoalbuminemia secondaria ad una enteropatia.
Qualsiasi infezione virale o batterica può provocare una infiammazione/infezione
della ML: antibiotici anche a dosi massicce e farmaci antinfiammatori non steroidei
rappresentano la terapia di scelta poiché il rischio di una setticemia è presente per

85
Anomalie vascolari

tutta la vita. Cisti ampie possono essere trattate aspirando il liquido linfatico e
iniettando agenti sclerosanti mentre le ML cutanee, circoscritte e ben definite
("lymphangioma circumscriptum") possono giovarsi del trattamento chirurgico.
Malformazioni venose
Le malformazioni venose sono presenti alla nascita ma non sono sempre evidenti. Le
MV, spesso impropriamente denominate "emangioma cavernoso", sono patologie
ereditarie, a lento accrescimento, singole o multiple, cutanee e/o viscerali. Queste
anomalie a flusso lento si manifestano, come macchie bluastre o masse vascolari blu
chiaro, sulla faccia, sugli arti o sul tronco in forme
localizzate o estese, lievi o deformanti. La
glomangiomatosi familiare, ad esempio, è una
sindrome dominante autosomica che si manifesta con
lesioni venose dermiche nodulari blu che possono
comparire dovunque sulla cute: istologicamente, si
differenziano dalle tipiche MV per la presenza di numerose cellule del glomo che
fiancheggiano i vasi venosi ectasici. La MV cutaneo-mucosale familiare è anch’essa
ereditaria in modo autosomico dominante mentre la sindrome di Bean è una
combinazione rara di anomalie cutanee e viscerali. La malformazione venosa cranio-
facciale è di solito unilaterale e produce un effetto di massa responsabile di una
marcata asimmetria facciale, enoftalmia/esoftalmia (MV intraorbitaria) mentre
quella orale coinvolge, in modo caratteristico, la lingua, il palato e l'orofaringe, con
deformità nell’allineamento dentale. Le MV della faringe e della laringe
comunemente evolvono verso un'apnea ostruttiva durante il sonno. Le MV degli arti
inferiori possono interessare solo la cute o estendersi ai muscoli, alle articolazioni ed
alle ossa ma raramente producono una dismetria sebbene la malattia possa causare
un iposviluppo secondario al disuso. Una piccola malformazione cutanea può essere
trattata con la terapia sclerosante (sodio tetradecilsolfato all' 1%) ma la sclerosi di
una MV estesa è potenzialmente pericolosa e deve essere trattata da specialisti
esperti per le possibili complicanze sistemiche come la tossicità renale e l’arresto
cardiaco. Dopo un ciclo di scleroterapia può essere utile la chirurgia plastica per
eventuali correzioni funzionali ed estetiche.
Malformazioni arterovenose
La malformazione arterovenosa può essere presente alla nascita o manifestarsi più
tardivamente La patologia viene spesso sottovalutata nell'infanzia anche perchè il
rossore della MAV può essere facilmente scambiato per un emangioma o per una
"macchia di vino". L'epicentro viene chiamato "nido" e comprende arterie afferenti,

86
Anomalie vascolari

fistole micro e macro-arterovenose (FAV) e venedilatate. La forma intracranica è più


comune di quella extracranica, seguita, come frequenza, dalla quella degli arti, del
tronco, dei visceri. Qualunque sia la localizzazione, le eventuali conseguenze sono
alterazioni ischemiche della cute, ulcerazione, dolore non trattabile e
sanguinamento intermittente, aumento dell'output cardiaco (MAV di un arto intero o
della zona pelvica). La diagnosi clinica viene confermata dall'ultrasonografia,
dall'esame ecocolordoppler, dalla RMN e documentata dal sistema clinico a stadi di
Schobinger:
 stadio I: rossore/macchia, calore e derivazioni AV;
 stadio II: come lo stadio I, ma più estesa, vene tortuose in tensione, pulsazioni, e
anomalie all'ascoltazione;
 stadio III: come sopra ma con alterazioni distrofiche, ulcerazioni, sanguinamento,
dolore persistente;
 stadio IV: come lo stadio II con associato lo scompenso cardiaco.
Un trattamento precoce embolico/chirurgico di una malformazione silente è
discutibile ma dovrebbe essere preso in considerazione se è possibile ottenere
facilmente una escissione mentre il protocollo terapeutico convenzionale è
indifferibilealla comparsa di: dolore ischemico, ulcerazione cutanea recidivante,
emorragie, aumento dell'output cardiaco (stadio IV di Schobinger). L'angiografia
precede l'intervento radiologico o chirurgico e l'embolizzazione superselettiva può
essere palliativa per il dolore, il sanguinamento o lo scompenso cardiaco ovvero nei
pazienti per i quali la escissione chirurgica porterebbe a gravi mutilazioni.
Malformazioni vascolari complesso-combinate
Le malformazioni vascolari di tipo complesso-combinato includono MVC, MLC, MVLC e
MAVLC. Sono spesso associate ad ipertrofia dei tessuti molli e dello scheletro. Queste
forme composte sono difficili da individuare ma possono essere classificate
utilizzando acronimi, basati sulle caratteristiche di flusso e sull'architettura del vaso
dismorfico. Come le malformazioni vascolari “pure”, le anomalie complesso-
combinate possono essere classificate a flusso lento o a flusso veloce.
Malformazioni vascolari complesso-combinate a flusso lento
La sindrome di Klippel-Trenaunay (MVLC) e un eponimo adeguato per un tipo di
anomalia combinata a flusso lento associata con l'ipertrofia dell'arto. Le
malformazioni capillari sono multiple, costellate da vescicole emolinfatiche,
tipicamente localizzate secondo uno schema geografico sul lato anterolaterale della
coscia, della natica e del tronco. Le vene anomale laterali sono prominenti a causa di
valvole insufficienti o assenti e spesso si registrano anomalie a carico delle vene

87
Anomalie vascolari

profonde ed ipoplasia linfatica. L'ipertrofia dell'arto può variare da media a


grottesca. Alcuni pazienti con la sindrome di Klippel-Trenaunay classica presentano
un arto corto o ipotrofico. La sindrome di Proteus è una patologia sporadica che
riguarda i tessuti vascolari, scheletrici e molli, caratterizzata da una crescita
asimmetrica. Anomalie sottocutanee simili a tumori includono tessuto connettivo,
tessuto adiposo (lipoma e lipomatosi aggressiva), strutture delle cellule di Schwann e
tessuto vascolare. Si localizzano generalmente sul torace e sull'addome. Le anomalie
vascolari sono del tipicamente complesso-combinate. Possono essere presenti
macrocefalia (iperostosi del cranio), asimmetria degli arti, parziale gigantismo delle
mani e/o dei piedi ed ispessimento plantare cerebriforme (piede a "mocassino"). Può
essere presente anche un nevo verrucoso lineare rendendo la sindrome di Proteus
sovrapponibile a quella di Solomon (sindrome dei nevi dell'epidermide). La sindrome
di Maffucci è caratterizzata dalla coesistenza di anomalie vascolari esofitiche con
esostosi ossea ed encondromatosi. Le lesioni vascolari sono di tipo venoso complesso;
possono verificarsi nel tessuto sottocutaneo, nell'osso (particolarmente a livello degli
arti), a carico delle leptomeningi o del tratto gastrointestinale. La degenerazione
maligna (condrosarcoma), si verifica nel 20-30% dei pazienti.
Malformazioni vascolari complesso-combinate a flusso veloce
Queste anomalie vascolari a carico degli arti inferiori sono piuttosto rare.
L'arteriografia nei bambini mostra in genere una ipervascolarita diffusa dell'arto con
fistole artero-venose multiple che diventano evidenti tardivamente in prossimità
delle articolazioni. Entro i primi 2 anni, è opportuna una valutazione clinica e
misurata della lunghezza della gamba: se la discrepanza della lunghezza è >1,5 cm, è
necessaria una ortesi per prevenire lo zoppicamento ed una scoliosi secondaria. Per
le anomalie combinate a flusso veloce, quando il bambino ha raggiunto i 3-4 anni
d'età, sono indispensabili i controlli strumentali (ultrasuonografia, ecocolordoppler)
dei vasi (arteriosi e venosi) dell'arto. Il trattamento è fondamentalmente
conservativo e prevede calze elastiche di compressione per l'arto con insufficienza
venosa ed un sistema profondo funzionante. Le vene varicose superficiali possono
essere trattate chirurgicamente ma solo in presenza di un sistema venoso profondo
compromesso nei pazienti con un corteo sintomatologico significativo (affaticamento
degli arti, pesantezza o incapacità ad indossare le scarpe a causa di vene dorsali
ingrossate). Non è utile correggere la dismetria degli arti superiori ma, al contrario,
è necessaria l’epifisiodesi percutanea se la differenza di lunghezza della gamba è ≥
2cm. La resezione chirurgica a più stadi del profilo o l'amputazione selettiva è

88
Anomalie vascolari

necessaria nell'ipertrofia grottesca che impedisce l'adattamento delle scarpe o


interferisce con la deambulazione.

89
Malformazioni congenite

MALFORMAZIONI CONGENITE

Si intendono per malformazioni congenite le alterazioni della normale morfologia


corporea, presenti in epoca perinatale, determinate da un errore di sviluppo nel
corso della vita intrauterina. Non esistono dati statistici relativi all'incidenza assoluta
di tutte le malformazioni ma nel nostro territorio, come in tutti i paesi evoluti, si
apprezza una marcata diminuzione del numero dei nati malformati; questo dato è da
mettere in relazione al generico decremento della natalità ed al migliorato standard
economico-sociale-culturale medio. L'eziologia della malformazioni congenite è
imputabile a diversi fattori: endogeni o fetali ed esogeni o materni tra di loro
interagenti in diverse combinazioni ed a diversi livelli.
Fattori endogeni
Questo gruppo comprende le alterazioni del patrimonio genetico del neonato:
 Le malattie genetiche per cui è evidenziabile, in ambito familiare, una
trasmissione per via ereditaria (per es. alcune polidattilie);
 le malattie genetiche riferibili ad una mutazione spontanea (per es.
pseudoermafroditismo maschile);
 le malattie da alterato numero dei cromosomi, sia autosomici (per es. sindrome
di Down), sia sessuali (per es. sindrome di Turner, di Klinefelter, ecc.);
 gli effetti dell'esposizione dei genitori ad agenti teratogeni, di provenienza
ambientale (radiazioni e sostanze chimiche), che possono agire come mutageni,
della linea cellulare germinale.
Fattori esogeni
In questo gruppo riassume tutti i fattori "ambientali", capaci di interferire sullo
sviluppo di un normale zigote ovvero:
 traumi meccanici;
 costituzione nel sacco amniotico di briglie costrittive, esito di processi flogistici;
 deficit circolatori o comunque ridotta ossigenazione a livello placentare;
 gravi malattie sistemiche metaboliche e ormonali (diabete, morbo di Cushing,
distiroidismi, ecc.); deficit nutrizionali;
 assunzione di farmaci (è accertata la teratogenicità di ormoni, antiblastici,
cortisonici, antiepilettici, alcuni analgesici e psicofarmaci, alcuni antibiotici);
 alcoolismo, tabagismo, tossicodipendenza; esposizione a radiazioni ionizzanti;

90
Malformazioni congenite

 malattie infettive, da protozoi (per es. toxoplasmosi), da spirochete (per es.


sifilide), da batteri (per es. listeriosi), da virus (per es. rosolia);
 incompatibilità Rh.
Tali fattori estrinsecano il loro potenziale teratogeno con differente gravità a
seconda del periodo di gestazione in cui agiscono. In linea generale, quanto più
precoce è la noxa patogena, tanto più grave è la malformazione che ne consegue:
particolarmente a rischio è, dunque, il periodo organogenetico (1° trimestre di vita
intrauterina). I meccanismi patogenetici che portano alla costituzione di un errore di
sviluppo variano da una malformazione all'altra ma in linea generale possono essere
ricondotti a due fondamentali: displasico e disrafico. Con il meccanismo displasico
l'anomalo sviluppo di una struttura anatomica deriva da una precoce o tardiva
comparsa dei normali fenomeni di inibizione dello sviluppo stesso: nel primo caso si
verificherà una ipoplasia (focomelia), nel secondo una iperplasia (macrodattilia). Con
il meccanismo disrafico la malformazione deriva dalla mancata saldatura di fessure e
soluzioni di continuo normalmente presenti in particolari stadi della vita embrionaria
(fistole). E’ fondamentale sottolineare che l’iter patogenetico che porta alla
mancata saldatura dei diversi abbozzi embrionari è da riferire ad un difetto di
sviluppo e quindi di progressione del mesenchima; è per questo che nella sede di una
malformazione disrafica si osserva regolarmente non solo un'anomala fissurazione ma
anche un deficit dei tessuti di origine mesenchimale (ossa, cartilagini, muscoli, ecc.).
È importante ricordare che i quadri malformativi osservati nella pratica clinica
derivano non solo dall'errore di sviluppo di una struttura anatomica ma anche dal
conseguente abnorme riarrangiamento delle regioni circostanti (per es. all'inibizione
di sviluppo della porzione radiale dell'arto superiore può conseguire un tentativo di
riparazione da parte della porzione ulnare indenne, con costituzione di una mano ad
assetto speculare).
Malformazioni della testa e del collo
Lo studio delle malformazioni congenite non può prescindere dalla conoscenza dello
sviluppo dell'embrione e l'osservazione della testa embrionale è essenziale per la
comprensione della patogenesi del maggior numero di malformazioni ivi reperibili. La
faccia si costituisce per effetto della riunione di 5 processi, o bottoni mesodermici,
rivestiti di ectoderma, attorno allo stomodeo, che rappresenta la cavità buccale
primitiva. Tali processi si formano verso la III-IV settimana di gestazione e sono
separati da solchi che, successivamente, tra la V e l’VIII settimana sì obliterano, per
effetto della spinta "a tergo" esercitata dal mesoderma. In posizione centrale, a
costituire il tetto dello stomodeo, c'è il voluminoso processo frontale, impari e

91
Malformazioni congenite

mediano, destinato a dividersi dando origine ai 4 processi nasali (2 mediali e 2


laterali). Il pavimento dello stomodeo è invece formato dai 2 processi mandibolari,
che rappresentano l'estremità anteriore del l’arco branchiale. Sui lati dello
stomodeo, derivati dal margine superiore dei 2 processi mandibolari, si evidenziano i
2 processi mascellari (o zigomatici). Dalla fusione dei 4 processi nasali e dei processi
mascellari derivano il labbro superiore, il naso e le cavità nasali, la porzione
anteriore del palato osseo (palato primario, ossia la porzione di palato situata al
davanti del forarne incisivo). Le malformazioni della faccia più frequenti sono da
inquadrare nell'ambito delle disrafie (errori di fusione in corrispondenza dei solchi
tra un bottone e l'altro).
Labioschisi
Col termine di labioschisi (o cheiloschisi o labbro leporino) si intende la schisi del
labbro superiore che origina da un difetto di fusione tra il processo mascellare e i
processi nasali. Possono essere classificate in:
 cheiloschisi cicatriziale, nella quale non esiste una vera schisi ma è presente una
cicatrice verticale esito di un'azione malformativa arrestatasi e regredita
spontaneamente;
 cheilochisi incompleta, quando la schisi interessa il labbro in vario grado dal
bordo fino al pavimento della narice senza coinvolgerlo;
 cheiloschisi completa, quando la schisi interessa il labbro a tutto spessore, il
pavimento della narice ed il palato primario.
In tutte le cheiloschisi, ma in maggiore misura in quelle
complete, sono sempre presenti una ipoplasia dell'osso
mascellare ed una deformazione dell'ala nasale
omolaterale. La cheiloschisi può essere monolaterale o
bilaterale: in queste ultime è sempre presente la
protrusione, in alto ed in avanti, del prolabio spesso
ipoplasico. La riparazione chirurgica ha come obiettivo il ripristino della continuità
anatomica labiale ed allo scopo esistono varie tecniche chirurgiche, tutte finalizzate
alla realizzazione, sulla cute del labbro, di una cicatrice spezzata, di modo da
prevenire una deformità secondaria alla retrazione cicatriziale durante lo sviluppo
corporeo del soggetto. La scelta della tecnica dipende essenzialmente
dall’esperienza del chirurgo. Attualmente si tende a dare meno rilevanza, rispetto ad
un tempo, alla tecnica di incisione e sutura dei margini cutanei della schisi,
enfatizzando al contrario l'importanza di ricostituire il corretto assetto anatomico dei
muscoli del labbro e del naso, che vanno identificati, mobilizzati mediante un

92
Malformazioni congenite

adeguato scollamento sottoperiosteo così da non interromperne le inserzioni


periostali e suturati in modo da ripristinare una condizione di normalità. Il
meccanismo patogenetico del labbro leporino giustifica il costante reperto, sullo
stesso lato, di anomalie dentarie e nasali, in misura variabile in relazione alla gravità
della schisi. Ne consegue l'opportunità di affrontare la terapia di tali anomalie in
modo sincrono: è ormai nozione consolidata la necessità dello sbrigliamento e
riposizionamento dell'ala nasale e del setto nel corso del medesimo intervento di
correzione della schisi nonché di un precoce e continuato trattamento ortodontico.
L'epoca ritenuta ideale per il primo intervento è variabile ma il pensiero scientifico
attualmente più diffuso suggerisce di iniziare l'iter terapeutico non prima dei 5 mesi
di vita, sia per motivi di sicurezza anestesiologica e sia per poter agire su strutture di
dimensioni compatibili con la manualità chirurgica. Procrastinare la chirurgia oltre gli
8-9 mesi appare inaccettabile dal punto di vista psicologico e, nei casi più gravi, dal
punto di vista funzionale (difficoltà alla corretta alimentazione e fonazione). Nel
caso coesista la schisi dell'arcata alveolare (labbro leporino completo),
l'orientamento attuale è di attendere i 9 anni di età, epoca di eruzione del dente
canino. Su tutta la chirurgia delle malformazioni grava il dilemma se sia meglio
iniziare la chirurgia precocemente o tardivamente: a favore della prima soluzione
depone la scelta di ripristinare al più presto la normalità anatomica e funzionale
della struttura anomala, a favore della seconda le inevitabili sequele cicatriziali che
interferiscono negativamente sull'ulteriore corretto sviluppo delle strutture coinvolte
nel processo cicatriziale e che sono tanto più gravi quanto più l'intervento è precoce.
Palatoschisi
La schisi del palato origina da un meccanismo patogenetico differente da quello della
schisi del labbro, con la quale tuttavia è frequentemente associata. Il palato
secondario si costituisce verso la VII-VIII settimana di gestazione. Le due lamine
palatine, originate dai processi mascellari in precedenza verticali per la presenza
della lingua, ruotano di 90° disponendosi su un piano orizzontale e congiungendosi
sulla linea mediana: avviene così la separazione della cavità orale dalle fosse nasali.
Il palato molle si costituisce successivamente.
La schisi del palato secondario può essere completa, quando interessa sia il palato
duro sia il palato molle o incompleta quando è limitata al palato molle (veloschisi) e
determina complicanze cliniche di vario ordine:
• alimentari (la comunicazione tra cavità orale e nasale impedisce la suzione per
l'impossibilità di creare il vuoto nella cavità orale. A lungo andare l'ostacolo ad una
normale assunzione di cibo può causare un iposviluppo generalizzato).

93
Malformazioni congenite

 Infettive (la continua presenza di detriti alimentari nella cavità nasale e l'alterato
flusso d'aria sono fonte di uno stato flogistico cronico, con subentranti riniti,
faringiti, salpingiti e otiti e ipertrofia infiammatoria a carico delle adenoidi e delle
amigdale).
 Fonetiche (sono le complicanze più inabilitanti e di più difficile soluzione: la loro
gravita é legata al grado di compromissione del palato molle. La mancata chiusura
posteriore della cavità nasale, specie durante la pronuncia delle consonanti
esplosive, determina una rinolalia aperta assai sgradevole e spesso tale da rendere
incomprensibile il linguaggio). Il trattamento chirurgico delle palatoschisi ha come
obiettivi la separazione tra cavità orale e cavità nasale e la mobilità del palato
molle. Per quanto riguarda la ricostruzione del palato duro, le tecniche proposte
possono essere classificate in: tecniche impostate sulla scultura e sintesi sulla linea
mediana di due lembi mucoperiostei scolpiti sulla volta palatina, bipeduncolati, con
peduncolo anteriore e posteriore; tecniche impostate sulla scultura e sintesi sulla
linea mediana di due lembi mucoperiostei scolpiti sulla volta palatina,
monopeduncolati, a peduncolo posteriore; tecnica impostata sulla rotazione e sutura
sui due lati della schisi di un lembo di mucosa scolpito sul vomere e "doppiato" su se
stesso, allo scopo di ricostituire un rivestimento epiteliale sia al versante nasale che
al versante orale. È attualmente la tecnica ritenuta più idonea, in quanto pare dia i
minori danni alla crescita trasversale del massiccio facciale. Per quanto riguarda la
ricostruzione del palato molle (velopendulo), le metodiche proposte possono essere
distinte in: tecniche che avvicinano i due lati della schisi con una semplice sutura
lineare e tecniche che avvicinano i due lati della schisi avvalendosi di una doppia
plastica a Z, una sul versante orale ed una sul versante nasale. L'epoca più adatta per
l'intervento è generalmente compreso tra 9 e 12 mesi di vita con l'obiettivo di
bilanciare da un lato la necessità di fornire al bambino uno strumento anatomico atto
alla fonazione, prima che si siano completati i circuiti nervosi a ciò preposti,
dall'altro la necessità di evitare cicatrici che, quanto più precoci, tanto più possono
interferire sullo sviluppo dell'intero massiccio facciale. Nel periodo postoperatorio
può residuare una rinolalia conseguente ad incompetenza velofaringea. Qualora essa
sia dell'ordine di 0,5 cm2 (durante la fonazione) o comunque ribelle alla logopedia, è
indicata l'esecuzione di interventi detti ortofonici:
 "allungamento" del palato molle, ottenuto mediante separazione del palato molle
dal palato duro (push-back);
 realizzazione di una sinechia velofaringea, mediante scultura di un lembo
faringeo trasferito al palato molle allo scopo di restringere l'entità dell'insufficienza;

94
Malformazioni congenite

 creazione di una sporgenza nel contesto della parete posteriore della faringe,
mediante un innesto o un impianto per ridurre la distanza tra faringe e palato molle;
 ricostruzione di uno sfintere velofaringeo competente mediante rotazione di
lembi miomucosi scolpiti a carico dei muscoli faringei (faringoplastica).

95
Malformazioni congenite

Colobomi
Con questo termine generico si indica un gruppo di malformazioni del volto,
abbastanza rare, rappresentate da una o più schisi in corrispondenza dei solchi
embrionari. Possono essere classificati in: colobomi obliqui (naso-oculari e oro-
oculari), prodotti da un difetto di fusione tra il processo mascellare ed il processo
nasale laterale e colobomi trasversi (oro-aurali), risultanti da un difetto di saldatura
tra il processo mascellare ed il processo mandibolare. I colobomi mandibolari sono
meglio inquadrabili nell'ambito delle disrafie mediane per essere il risultato della
mancata saldatura sulla linea mediana dei primi archi branchiali; si possono
presentare semplicemente come una piccola incisura sul bordo rosa del labbro
inferiore o possono giungere a determinare la schisi totale della sinfisi mentoniera e
della lingua.
Come già esposto a proposito della cheiloschisi, anche i colobomi possono presentare
diversi livelli di gravità: dalla varietà cicatriziale alla schisi più accentrata. La
chirurgia ricostruttiva dei colobomi si basa sui medesimi principi informatori esposti a
proposito delle labio e palatoschisi: ricostruzione funzionale dei tessuti delle parti
molli, integrata dalla ricostruzione dell'impalcatura scheletrica con particolare
attenzione per l'articolato dentale e per eventuali problemi di fonazione.
Fistole
Il capitolo delle fistole congenite comprende: le fistole del padiglione auricolare
attribuibili ad un residuo del primo solco branchiale, collocate al davanti dell'elice o
del trago o sulla porzione ascendente dell'elice; le fistole laterali del collo; la disrafia
mentosternale, associata ad iposviluppo della mandibola, si presenta in genere come
un'area ovalare di cute atrofica, eritematosa, in corrispondenza della linea mediana
del collo, sottesa da un cordone fibroso sottocutaneo che impedisce la libera
estensione del capo. Le fistole congenite nel loro aspetto più caratteristico si
manifestano con la presenza di una modesta secrezione sieromucosa in
corrispondenza dell’ostio d'apertura ma possono essere anche del tutto
asintomatiche; lo sbocco cutaneo può però ostruirsi producendo una raccolta
simulante una cisti facilmente sede di processi infettivi. La chirurgia delle fistole
congenite è insidiosa, in quanto esse possono estendersi ben al di là dei loro sbocco
superficiale e addirittura essere in comunicazione con strutture profonde. E quindi
necessario effettuare di routine una fistolografia preoperatoria, con un mezzo di
contrasto o almeno con un colorante vitale ritenendo sempre possibile l’anomalia
delle strutture sottostanti di origine mesenchimale. Le malformazioni di origine
displasica sono di più difficile inquadramento nosografico, per il meccanismo

96
Malformazioni congenite

patogenetico molto più variabile rispetto alle disrafie. Diverse malformazioni di


origine displasica possono coesistere tra di loro e con malformazioni di origine
disrafica.
Craniosinostosi e craniofaciostenosi
Sono quadri malformativi indotti dalla precoce ossificazione di una o più suture
craniche. La sindrome di Crouzon è una patologia a trasmissione ereditaria con
carattere autosomico dominante ma può insorgere anche come mutazione spontanea.
Oltre a varie deformità della volta cranica, si osservano: accorciamento in senso
antero-posteriore dell'orbita e del terzo medio della faccia, iperteleorbitismo, con
conseguente esoftalmo e deformità nasale "a becco di pappagallo". La sindrome di
Apert si propone con una trasmissione autosomica recessiva ed è caratterizzata, oltre
che da anomalie craniche, da una marcata ipoplasia del terzo medio della faccia e da
una sindattilia grave a carico delle mani e dei piedi. La chirurgia di queste
malformazioni riconosce un'indicazione prevalentemente funzionale, in quanto alla
patologica stenosi ossea possono conseguire ipertensione endocranica, ritardo
psicomotorio, danno visivo, alterazioni respiratorie: il miglioramento estetico ne
rappresenta un inevitabile indotto. L'atto chirurgico consiste essenzialmente nella
liberazione craniotomica delle suture sinostotiche e nell'avanzamento del massiccio
facciale mediante frattura di Le Fort III.
Epicanto
Identifica una plica cutanea in corrispondenza del canto mediale dell'occhio che può
essere mono o bilaterale e presente in forma isolata o nell'ambito di una sindrome
più complessa (sindrome di Down). La correzione dell'epicanto si basa sull'esecuzione
di una plastica a lembi alternati multipli.
Schisi mediana del labbro
E’ una rara malformazione, totalmente distinta dalla cheiloschisi disrafica, che
riconosce due diversi meccanismi patogenetici: può essere correlata ad un processo
di duplicatura speculare della porzione centrale della faccia ovvero può derivare dal
mancato sviluppo e avanzamento dell'intero processo frontale; tale forma è
raramente isolata ma per lo più associata ad altri segni, quali l'assenza della
columella, ipotelorismo, ipoplasia dell'osso frontale, dei lobi prefrontali e assenza dei
bulbi e dei tratti olfattivi (oloprosencefalia, condizione pressoché incompatibile con
la vita).
Oloprosencefalia
Si può manifestare anche senza segni di schisi del labbro. Nella sua variante estrema
si configura la cosiddetta ciclopia, in cui il mancato sviluppo e avanzamento delle

97
Malformazioni congenite

strutture derivate dal processo frontale sono causa della fusione sulla linea mediana
dei due abbozzi oculari, al di sopra dei quali si può talora identificare un'appendice
proboscidiforme, derivata dagli abbozzi nasali. Nella sua varietà minima
l'oloprosencefalia si estrinseca come un tragitto fistoloso, spesso a fondo cieco, sul
dorso del naso, cui talora si associa un ipotelorismo di entità variabile.
Ipertelorismo e ipotelorismo
Non sono quadri patologici a sé stanti, ma alterazioni morfologiche presenti talora
isolatamente ma più spesso nell'ambito di una malformazione complessa. Essi
consistono nell'alterazione in eccesso o in difetto della distanza interpupillare.
Poliotia
Consiste nella presenza di piccole formazioni poste al davanti del trago o lungo la
linea oroaurale, a contenuto cartilagineo, derivanti dai residui dei primi due archi
branchiali.
Sindrome di Franceschetti
È caratterizzata da microtia, atresia del condotto uditivo, micrognatia mandibolare,
appiattimento delle ossa malari, palato ogivale, con conseguente viso "a profilo
d'uccello" (se la sindrome si presenta monolateralmente, prende il nome di sindrome
di Treacher Collins). Tale quadro clinico deriva da iposviluppo dei primi due archi e
della prima tasca branchiale.
Anomalie mediane dell'osso joide e della cartilagine tiroidea
Anomalie congenite spesso associate a colobomi mandibolari.
Pterigium colli
Sorta di plica cutanea, in corrispondenza del margine superiore del muscolo trapezio,
mono o bilaterale. Benché sia riscontrabile anche come forma isolata, è una stigmata
caratteristica della sindrome di Turner.
Microtia
È un'ipoplasia di vario grado del padiglione auricolare, talora associata ad iposviluppo
o totale assenza del condotto uditivo esterno ed anche a ipoplasia dell'orecchio
medio. Più rara è l'anotia (assenza totale dell'orecchio esterno). Nella varietà più
comune si osserva la presenza del lobulo, alquanto deformato e orientato
verticalmente, sormontato da una piccola bozza, contenente rudimenti cartilaginei
dello scheletro auricolare. Il problema della ricostruzione del padiglione è di ordine
esclusivamente estetico. E opportuno che gli interventi previsti vengano pianificati
così da essere conclusi attorno ai 6-7 anni, epoca in cui il bambino, entrato nel
mondo della scuola, rischia maggiormente con la sua deformità di suscitare il dileggio

98
Malformazioni congenite

dei compagni. In tempi successivi viene collocato in posizione idonea il lobulo e


ricostruito il solco retroauricolare.
L'ipoplasia del padiglione può estrinsecarsi anche parzialmente, a carico solo del
terzo medio o del terzo superiore, configurando il quadro clinico dell'orecchio a
coppa.
Malformazioni del tronco
Addome
Onfalocele
Identifica la mancata riduzione dell'intestino e, nei casi più gravi, anche del fegato e
della milza nella cavità addominale in corrispondenza della cicatrice ombelicale. Non
può essere considerato una vera ernia, essendo il sacco "erniario" privo di
rivestimento peritoneale. Tale condizione perpetua lo stato presente tra la VI e la XII
settimana di vita intrauterina in cui l'intestino medio migra dalla cavità addominale
nel sacco vitellino attraverso il canale onfalomesenterico.
Gastroschisi
E’ un deficit della parete addominale lateralmente all'inserzione del cordone
ombelicale. Sventramenti addominali congeniti, con conseguenti ernie viscerali, sia
lungo la linea alba (diastasi dei muscoli retti), sia in corrispondenza dei noti punti di
minore resistenza della parete addominale (triangolo di Petit, quadrilatero di
Grynfeltt). In tutte queste forme il trattamento consiste nella revisione e riduzione
dei visceri ectopici e nell'avvicinamento con punti in materiale non riassorbibile dei
mu-scoli diastasati, eventualmente previo rinforzo delle pareti mediante innesti o
lembi di fascia/derma ovvero mediante impianto di fogli/reti di materiale
alloplastico.
Torace
Pectus excavatum
Malformazione dello sterno e delle cartilagini costali, responsabile di una depressione
sulla parete toracica anteriore. Nella sua espressione più modesta tale
malformazione ha solo conseguenze inestetiche; nella variante più grave può essere
associata a disturbi cardiorespiratori, per dislocazione e compressione degli organi
mediastinici. La chirurgia della forma più modesta consiste semplicemente nel
colmare la depressione, in genere mediante impianto di protesi fabbricate su misura;
meno frequente è il ricorso al trasferimento di unità muscolari, a causa dei reliquati
cicatriziali nella regione donatrice. Nella forma più grave è necessario effettuare una
sternotomia e costotomia, rimuovere il piastrone osseo sternocostale e reinnestarlo
dopo adeguato modellamento, fissandolo con opportune placche; in tal caso è

99
Malformazioni congenite

opportuno che l'intervento venga effettuato in collaborazione con il chirurgo


toracico.
Asimmetria mammaria
Se di grado modesto, può essere considerata un reperto di scarso rilievo clinico. Se
molto marcata, può essere considerata una vera malformazione. Si riconoscono
asimmetrie:
 per ipertrofia unilaterale;
 per ipertrofia bilaterale di diversa entità;
 per ipoplasia unilaterale;
 per ipoplasia da un lato e ipertrofia dall'altro.
Polimastia e politelia
Nella polimastia (presenza di mammelle soprannu-
merarie) e politelia (presenza di capezzoli soprannu-
merari) le strutture anatomiche soprannumerarie sono
generalmente disposte lungo la linea della cresta lattea embrionaria ed originano da
un arresto del processo di involuzione degli abbozzi mammari primitivi. Sono stati
segnalati, sia nel maschio che nella femmina, anche casi di capezzoli soprannumerari
all'interno della medesima areola (politelia intrareolare) per un difetto di fusione
degli abbozzi galattofori di un medesimo capezzolo.
Atelia e amastia
L’atelia (assenza di uno o entrambi i
capezzoli) e l’amastia (assenza totale di una o
entrambe le mammelle), creano un evidente
ostacolo all'allattamento per la femmina ma
hanno un’importanza puramente estetica.
Vengono trattate con le medesime tecniche ricostruttive impiegate per la
ricostruzione mammaria post-mastectomia.
Sindrome di Poland
È una sindrome la cui patogenesi è da considerare un difetto di sviluppo dell'arto
superiore e prevede:
 assenza della porzione sternocostale del muscolo grande pettorale;
 ipoplasia della mano, dell'avambraccio e del braccio;
 sindattilia;
 brachidattilia.
E’ frequentemente associata ad agenesia o l'ipoplasia dei muscoli serrato, grande
dorsale e deltoide, ipoplasia delle coste, scoliosi, destrocardia ed ipoplasia

100
Malformazioni congenite

mammaria. I diversi difetti anatomici elencati possono ovviamente essere presenti


con vario grado di espressività e con varie combinazioni.
Malformazioni del capezzolo
Tutte queste malformazioni sono determinate da una congenita brevità dei dotti
galattofori: rivestono quindi una importanza sia estetica che funzionale poiché,
specie nei casi più gravi, ne risulta compromessa la lattazione
 papilla plana (capezzolo appiattito);
 papilla fissa (capezzolo bilobato);
 papilla circumvallata obtecta (capezzolo introflesso).
Le tecniche chirurgiche che consentono di incre-
mentare la sporgenza del capezzolo possono essere
sostanzialmente suddivise in due gruppi: interventi
con conservazione dei dotti galattofori ovvero con
sacrificio dei dotti galattofori: questi ultimi offrono il
migliore risultato estetico ma, impedendo la funzione
dell'allattamento, vanno impiegati solo in pazienti molto selezionate e
compiutamente informate dell'irreversibilità dell'intervento stesso.
Regione vertebrale
Spina bifida
Con questo termine si intende una serie di malformazioni di varia gravità,
determinate da un errore nella saldatura, lungo la linea mediana, degli archi
vertebrali e caratterizzate da una perdita di sostanza della colonna vertebrale
attraverso cui può erniare il contenuto del canale spinale. La varietà più lieve prende
il nome di spina bifida occulta nella quale il deficit osseo colpisce una sola vertebra,
in regione sacrale, e non è apprezzabile alcuna protrusione viscerale; spesso la cute
soprastante è portatrice di un nevo, un lipoma, un ciuffo di peli o appare atrofica. Le
varietà più gravi vanno complessivamente sotto il nome di spina bifida cistica; a
seconda dei visceri erniati si riconoscono:
 il meningocele (ernia delle guaine meningee);
 il meningomielocele (nel sacco erniario si ritrovano,oltre alle meningi, elementi
nervosi quali nervi, lacauda equina o il midollo);
 il mielocele (la mancata saldatura sulla linea mediana riguarda anche i tessuti
della doccia neurale, per cui sul piano cutaneo si apre il canale midollare. spesso
gemente liquor cerebrospinale).
La spina bifida cistica è in genere associata a paralisi degli arti inferiori e
incontinenza sfinteriale.

101
Malformazioni congenite

Malformazioni dei genitali esterni


Ipospadia
La più frequente malformazione dei genitali esterni maschili è l'ipospadia, condizione
in cui il meato uretrale si apre sulla superficie ventrale del pene, prossimalmente
alla punta del glande. E’ una tipica disrafia, perché secondaria alla mancata fusione
delle pieghe genitali, disposte lateralmente al seno urogenitale, verso la VII
settimana di vita intrauterina. A seconda della maggiore o minore precocità della
noxa teratogena, si ha una collocazione del meato in posizione più o meno
prossimale, dal perineo alla corona del glande.
E’ possibile distinguere:
 l'ipospadia perineale che è la forma più grave, spesso associata ad una marcata
femminilizzazione di tutto l'apparato genitale, con pene piccolo in parte inguainato
nella cute scrotale, atteggiata a guisa di grandi labbra e criptorchidismo;
 l'ipospadia peniena che identifica la forma più frequente;
 l'ipospadia balanica ovvero la forma più lieve, spesso compatibile con una
normale attività sessuale e riproduttiva.
In tutte le forme di ipospadia è pressoché costante un maggiore o minore
incurvamento del pene, determinato dalla presenza di un cordone fibroso, di tipo
cicatriziale, in corrispondenza del decorso dell'uretra. Per l'ipospadia sono state
proposte varie tecniche ricostruttive allo scopo di confezionare il segmento di uretra
mancante per un ripristino della anatomia e della fisiologia urinaria ed eiaculatoria.
Ipospadismo
Condizione determinata da un'abnorme brevità dell'uretra, in cui si osserva
l'incurvamento del pene in erezione, senza ipospadia: tale atteggiamento ostacola
grandemente e talora impedisce l'espletamento di un normale atto sessuale.
Epispadia
Malformazione rara, consistente nello sbocco del canale uretrale sulla superficie
dorsale del pene. Raramente l'epispadia è balanica o peniena: più frequente e grave
è la varietà penopubica, associata a estrofia vescicale ed incontinenza urinaria. Si
realizza tra la IV e la VI settimana di vita intrauterina quando gli abbozzi del
tubercolo genitale sono ancora due. Se in questa fase gestazionale tali abbozzi si
dislocano caudalmente e lì si fondono, cosicché il seno urogenitale rimane aperto in
senso cefalico invece che caudale, la doccia uretrale si sviluppa senza essere coperta
superiormente dal tubercolo genitale e ne consegue l'epispadia. In questa fase la
sottile membrana cloacale si rompe ed allora la deformità si estende in direzione
cefalica, creando la condizione di estrofia vescicale, con iposviluppo della

102
Malformazioni congenite

muscolatura ipogastrica e diastasi delle ossa pubiche. Il trattamento chirurgico delle


varietà minori dell'epispadia ricalca quello impiegato per l'ipospadia. Viceversa la
correzione dell'epispadia penopubica con estrofia vescicale richiede procedure più
complesse, in cui il chirurgo plastico interagisce con l'urologo o con il chirurgo
pediatrico.
Atresia vaginale
Rappresenta l'unica malformazione dei genitali esterni femminili che interessa la
chirurgia plastica. E’ una patologia malformativa estremamente rara.

103
Patologie della mano

PATOLOGIE DELLA MANO

Malformazioni congenite della mano


Tra le deformità della mano vengono distinte quelle non suscettibili di trattamento
chirurgico, perché caratterizzate da assenza completa o parziale delle strutture
scheletriche con grave compromissione funzionale della mano e quelle per le quali
viene riconosciuta una precisa indicazione chirurgica ovvero la sindattilia, la
polidattilia, la clinodattilia, la camptodattilia, la ectrosindattilia, i solchi congeniti,
la commissura del pollice ristretta, l'agenesia del pollice. La correzione chirurgica
delle deformità congenite può essere programmata a partire dai due anni di età
mentre nelle patologie malformative nelle quali, con lo sviluppo, si manifestano
deviazioni delle strutture capsulolegamentose o scheletriche (sindattilia con fusione
apicale, ectrosindattilia serrata), l'intervento chirurgico deve essere più precoce.
Sindattilia
Questa malformazione è caratterizzata dalla fusione di due o
più dita della mano, più frequentemente III e IV dito: in
rapporto all'estensione può essere parziale o totale, mentre
rispetto al carattere può essere distinta in sindattilia
membranosa (cutanea) e sindattilia serrata (fibrosa, ossea).
Gli aspetti clinici sono molteplici e prevedono la:
- sindattilia parziale: caratterizzata da una plica interdigitale posta in sede più
prossimale, all'altezza della filiera interfalangea (aspetto tipico dei palmipedi);
- sindattilia lassa totale: costituita dalla unione completa delle dita ma con elementi
ben conformati e la presenza di un tipico solco longitudinale interdigitale.
- sindattilia serrata: con la fusione variamente combinata delle strutture falangee.
Il protocollo chirurgico della sindattilia si articola sui seguenti tempi principali:
a) ricostruzione della commissura interdigitale;
b) separazione delle dita fuse;
c) riparazione delle superfici cruente residue alla separazione delle dita.
Polidattilia
Questa malformazione è caratterizzata dalla presenza di un intero raggio digitale
soprannumerario o di parte di esso. In rapporto alla sede sono possibili la polidattilia
radiale (più frequente), la polidattilia cubitale e la polidattilia intermedia (rara). Le

104
Patologie della mano

varietà cliniche possono prevedere la presenza di una


semplice appendice digitale collegata da un peduncolo
cutaneo, di un raggio digitale intero nella sua componente
metacarpo-falangea ovvero di parte di esso nella sola
componente falangea, con una o più falangi. Nella
polidattilia del primo raggio si possono realizzare vari
gradi del difetto: pollice bifido, falange duplicata con unica base, o con due falangi
normalmente sviluppate e talvolta con unico apparato ungueale ed unico
polpastrello, o con dito soprannumerario variamente formato ed articolato a livello
metacarpo-falangeo. Nella duplicazione le singole falangi si presentano più piccole
del normale. Nella polidattilia intermedia, l’elemento soprannumerario si articola
con una semplice superficie articolare di un metacarpo che può accennare a
sdoppiarsi alla sua estremità. Per la correzione chirurgica delle deformità localizzate
al pollice, ed in particolare nella duplicazione, sono
stati proposti metodi di resezione longitudinale od a
scalino delle parti interne delle due falangi e
successivo accostamento delle due metà restanti per
ricostituire una unica falange ungueale funzionale. Più
frequentemente è preferibile la disarticolazione di una
sola falange, generalmente quella esterna, che si presenta più piccola e meno attiva,
utilizzando però tutte le altre componenti capsulo-legamentose, per correggere la
deviazione in clinodattilia della falange restante, e tutto il rivestimento cutaneo,
opportunamente modellato per il modellamento del polpastrello.
Ectrosindattilia
Si possono osservare aspetti determinati da sindattilia tra due o più dita
(generalmente tra II-III e IV dito), che si presentano più corte per meccanismi
differenti, per fusione e per mancanza di una o più falangi: queste malformazioni
vengono definite ectrosindattilie. Le falangi mancanti possono essere quelle
intermedie o quelle distali con assenza dell'apparato ungueale. Le dita appaiono più
corte, fuse nella loro estremità e deviate nel loro asse principale. Sono pertanto
possibili i seguenti quadri clinici (nei quali è costante la sindattilia):
- mano con tutte le componenti scheletriche ma con iposviluppo totale;
- mano con dita più piccole, presenza dell'apparato ungueale, mancanza di una o
più falangi;
- mano con dita più corte da amputazione amniotica di una o più falangi ungueali
con estremità spesso fuse e convergenti tra loro.

105
Patologie della mano

Solchi congeniti
I solchi congeniti sono presenti sotto forma di depressioni circolari di profondità
variabile a carico delle dita. In corrispondenza dei solchi la cute si presenta sottile e
strettamente adesa al periostio ma i raggi della mano possono essere integri, per
lunghezza, forma e volume anche se talvolta si verificano strozzamenti apicali di uno
o più elementi con amputazioni subtotali. Quando sono coinvolti più elementi, la
cicatrice può riunire le loro estremità deformando l'asse digitale e talora il difetto si
estrinseca con l'aspetto di una ectrosindattilia. A causa della stasi determinata dallo
strozzamento, può essere presente linfedema distale.
Agenesia del I° raggio digitale
Tra le deformità per difetto numerico la più grave è l'agenesia del I raggio. Diversi
sono i gradi del difetto che possono osservarsi potendo mancare il 1° raggio per
intero oppure solo in parte (segmenti rudimentali) configurando la mano tetradattile.
Il 1° raggio talora può essere presente, ma ipotrofico in toto, con assenza della
muscolatura dell'eminenza tenar, cui possono associarsi considerevoli alterazioni
della funzione propria del pollice a carico dei tendini ed anche della muscolatura
estrinseca; talvolta può mancare il pollice propriamente detto, mentre è presente il
metacarpo e la muscolatura. E’ importante segnalare che una mano malformata non
può essere paragonata ad una mano mutilata perché il paziente ha assunto nel tempo
compensi ed abitudini funzionali. Sulla base di queste considerazioni è buona norma,
prima di porre l'indicazione all'intervento ricostruttivo, praticare un attento studio
clinico della lesione, delle conseguenti abitudini funzionali acquisite, della richiesta
e dell'aspettativa del paziente e del vantaggio reale che offre l'intervento. Per la
mano tetradattile sono state proposte due tecniche chirurgiche: la pedo-chirodattilo-
plastica e la tecnica di Nicoladoni: la prima prevede l'utilizzo del primo dito del
piede omolaterale a cui veniva ancorata la mano per l'autonomizzazione vascolare
mentre la seconda l'allestimento di un lembo tubulato, monopeduncolato, in sede
addominale, ancorato alla mano, che successivamente viene distaccato dal
peduncolo dell'addome. Successivamente il neopollice viene armato con innesto di
osso autologo, prelevato dalla cresta iliaca e solidarizzato al metacarpo mediante
osteosintesi. L'intervento viene completato con il modellamento del lembo e della
sua estremità. Più recente è l'intervento di pollicizzazione del secondo dito secondo
Buck Gramko o il trapianto del secondo dito del piede con la tecnica microchirurgica
proposto da Ohmori.

106
Patologie della mano

Retrazione del 1° spazio interdigitale


La prima commissura digitale può presentarsi ridotta isolatamente o più di frequente
in associazione con altri quadri malformativi della mano da cui ne deriva una
considerevole limitazione della funzione prensile. Il difetto è suscettibile di
correzione chirurgica mediante lembi alternati o innesti di cute a tutto spessore. Se
la commissura è molto ridotta, tanto da non rendere possibili queste tecniche, si
potrà praticare un'incisione trasversa della commissura più o meno profonda,
discontinuando il piano muscolare, fino ad ottenere un sufficiente divaricamento del
pollice. Un lembo di cute piano a base prossimale allestito dalla superficie dorsale
della prima falange del pollice o dell'indice potrà essere ruotato a chiudere la
soluzione di continuo mentre la zona donatrice verrà riparata con innesto libero.
Clinodattilia
Questa deformità è caratterizzata da deviazione in senso radiale o ulnare di una o
più falangi digitali. Possono essere colpite anche più dita, talvolta tutte le dita
lunghe come pure il pollice. La deviazione può essere sostenuta dalla presenza di
falangi soprannumerarie o di rudimenti di esse ma anche dalla retrazione laterale
della capsula articolare e dei tendini.
Camptodattilia
Il difetto può colpire uno o più raggi della mano ed essere espresso con vari gradi di
complessità. La camptodattilia è caratterizzata da una flessione patologica della
falange media che si presenta sublussata sulla falange basale per la congenita brevità
capsulo-legamentosa, tendinea e cutanea dal lato palmare: la malformazione
comporta la compromissione della funzione estensoria del dito. Sono state proposte
tecniche da attuare precocemente sin dai primi anni, consistenti nella riduzione
incruenta con apparecchio gessato modellante o con apparecchio munito di congegno
elastico che mira a estendere progressivamente il dito ma con risultati modesti. Sono
possibili correzioni chirurgiche che però, ad oggi, non offrono risultati incoraggianti.
Malattia di Dupuytren
Il morbo di Dupuytren prevede una alterazione cronica e
progressiva dell'aponeurosi palmare superficiale e di alcune
formazioni anatomiche da essa dipendenti. La lesione insorge
limitatamente in alcuni dei fasci fibrosi longitudinali
costituenti l'aponeurosi e si manifesta con un loro progressivo
ispessimento e retrazione. Successivamente il processo
degenerativo coinvolge un sempre maggior numero di fasci che si retraggono

107
Patologie della mano

singolarmente sempre più, trasmettendo la loro retrazione ad una o più dita della
mano. Ne consegue, come effetto più vistoso, l'ingravescente limitazione della loro
estensione. E’ una malattia tipica dei popoli di discendenza europea, essendo
praticamente assente nelle razze gialla e nera. Si presenta spesso con carattere
familiare, talvolta con ereditarietà dominante. È più frequente nel sesso maschile, in
un range di età compreso tra 50 e 70 anni e colpisce più spesso la mano destra ma
può essere bilaterale. Molte e discusse sono le teorie etiopatogenetiche che mettono
in causa alterazioni del trofismo per lesioni nervose, microtraumi cronici,
disvitaminosi (vitamina E), disendocrinie (tiroide e paratiroidi), diatesi (gottosa e
fibroblastica), tossicosi, flogosi croniche, stasi linfatica, alterazioni nell'embriogenesi
(sclerosi di residui embrionari del primitivo muscolo flexor brevis manus). La fascia o
aponeurosi palmare superficiale riveste il palmo della mano subito al di sotto della
cute e del sottocutaneo. È detta superficiale per distinguerla da un setto fibroso
profondo teso sotto ai tendini dei muscoli flessori delle dita, tra essi ed i muscoli
interossei. Piuttosto esile in corrispondenza dell'eminenza tenar e ipotenar, la fascia
superficiale acquista a livello della porzione centrale del palmo della mano una
precisa individualità anatomica. Essa delimita anteriormente la loggia muscolo-
tendinea media della mano; ha consistenza fibrosa a forma grossolanamente
triangolare con apice prossimale al legamento trasverso del carpo, dove si inserisce il
tendine del muscolo piccolo palmare, e con base distale che raggiunge la metà
inferiore del palmo, dove si espande su ciascuna delle quattro ultime dita
arrestandosi a 10-15 mm dagli spazi interdigitali. Si distinguono in essa due tipi
principali di fibre:
- fibre longitudinali raggiate superficiali: in continuità con il tendine del muscolo
piccolo palmare, più numerose;
- fibre longitudinali raggiate profonde: si dipartono dal legamento trasverso del
carpo, meno numerose.
Nell'insieme formano un ventaglio aperto dall'alto al basso diretto verso la radice
delle ultime quattro dita, e si raccolgono a livello dei solchi medio ed inferiore del
palmo in quattro nastri fibrosi, detti benderelle pretendinee, disposti davanti alle
guaine dei tendini flessori. Le poche fibre che non partecipano alla costituzione di
queste strutture si superficializzano per perdersi sulla faccia profonda del derma. A
livello delle teste metacarpali, dai margini laterali delle benderelle pretendinee, si
distaccano le fibre sedimentali, che si approfondano contribuendo alla formazione
dei condotti osteo-fibrosi dei tendini flessori delle dita, e le fibre perforanti, che
attraversano l'aponeurosi palmare profonda e terminano, a livello del dorso della

108
Patologie della mano

mano, sulla guaina fibrosa del tendine estensore del dito corrispondente. A livello
della radice delle ultime quattro dita le benderelle pretendinee assumono il seguente
comportamento:
- le fibre centrali superficiali terminano sulla pelle del cuscinetto e del solco digito-
palmare, le profonde sulla guaina dei tendini profondi;
- le fibre mediali e laterali, allontanandosi tra di loro alla base delle ultime quattro
dita e unendosi con quelle del dito vicino in un chiasma, formano le arcate digitali
che servono di passaggio ai tendini superficiali e profondi di ciascun dito. Dalle
estremità delle arcate digitali le fibre assumono un andamento elicoidale e,
contornando l'articolazione metacarpo-falangea, formano sulla faccia laterale e
mediale delle dita la lamina latero-digitale. Nella prima falange le fibre di questa
lamina si inseriscono sul tendine estensore comune e sulle espansioni tendinee degli
interossei ovvero sulle capsule della prima articolazione interfalangea mentre sulla
seconda falange la lamina latero-digitale continua ancora sulle facce laterali e
mediali delle dita per andarsi ad inserire dorsalmente sul tendine estensore con una
formazione anatomica indicata anche come legamento retinacolare di Landsmeer. La
sintomatologia inizia con l'occasionale reperto di un nodulo sottocutaneo palpabile, a
volte doloroso, a livello della testa del 4° o 5° osso metacarpale con la progressiva
insorgenza di pliche ed ombelicature cutanee (stigmate). Più avanti si palpa una vera
e propria corda che solleva longitudinalmente la cute palmare e che inizia a
determinare la progressiva retrazione in flessione del dito corrispondente.
Contemporaneamente compare la retrazione dei legamenti interdigitali con
conseguente limitazione dei movimenti di abduzione e adduzione delle dita; negli
stadi più avanzati il dito si presenta in flessione accentuata della I e della II falange
mentre la III può presentarsi in posizione indifferente di lieve flessione o nella più
caratteristica posizione di iperestensione. II morbo di Dupuytren può presentarsi in
associazione con la retrazione dell'aponeurosi plantare (morbo di Madelung) o con
l'indurimento e sclerosi dei corpi cavernosi (morbo di La Peyronie). Non molto
raramente si presentano forme ad evoluzione rapida e con precoci complicanze
articolari o forme diffuse interessanti anche le fasce di avvolgimento delle eminenze
tenar e ipotenar. Dal punto di vista anatomopatologico il nodulo primitivo, che
compare solitamente nella benderella pretendinea al davanti dell'articolazione
metacarpo-falangea, è costituito da connettivo fibroblastico giovane che invade
progressivamente il derma superando il pannicolo adiposo sottocutaneo ed
ancorandosi così alla cute. Il processo degenerativo si diffonde rapidamente al resto
dell'aponeurosi palmare superficiale e ad alcune formazioni fibrose contigue. Nel

109
Patologie della mano

periodo terminale, alla dissezione, si trovano grossi cordoni fibrosi che, partendo dal
legamento trasverso del carpo, si portano distalmente fino a livello delle
articolazioni metacarpo-falangee dove la sclerosi si continua nella fascia digitale e
nelle sue espansioni. Tali formazioni si presentano anch'esse grossolanamente
iperplastiche e retratte a formare grossi cordoni fibrosi a decorso irregolare che
mantengono in flessione la prima e seconda articolazione metacarpo-falangea ed
interfalangea. Quest'ultima però, a volte, può presentarsi estesa invece che flessa, a
causa dell'interessamento del legamento retinacolare, la cui retrazione, stirando le
terminazioni degli interossei, iperestende la falange. Istologicamente si repertano
pochi fibrociti avvolti in un groviglio di fibre collagene con rari isolotti di fibroblasti.
La cute presenta l’ispessimento dello strato corneo con scomparsa delle papille
dermiche. Le guaine tendinee, le capsule ed i legamenti articolari, pur non essendo
invasi, possono, in casi inveterati, presentare una retrazione dovuta alla posizione. In
casi molto avanzati si possono osservare vere sublussazioni, specie a carico della
prima articolazione interfalangea. I vasi ed i nervi non vengono invasi dal processo
patologico, tuttavia sono inglobati e strozzati dai cordoni fibrosi che ne determinano
imprevedibili dislocazioni. La terapia chirurgica è la sola che permette la completa
guarigione della malattia. Le tecniche chirurgiche prevedono l’interruzione semplice
dell’aponeurosi o aponeurotomia, l’asportazione dell’aponeurosi o aponeurectomia
radicale, l’aponeurectomia selettiva (rimozione esclusiva dei distretti anatomici
coinvolti dal processo patologico).

110
Lesioni da radiazioni ionizzanti

PATOLOGIE DELLA MAMMELLA

La mammella è un organo pari e simmetrico, situato nella regione anteriore del


torace, ai lati della linea mediana, localizzata tra il terzo e il sesto spazio
intercostale.
È costituita dalla cute e da un gruppo di ghiandole, che nell'insieme compongono la
ghiandola mammaria. Le mammelle sono presenti in entrambe i sessi, sono
sviluppate identicamente fino alla pubertà ma successivamente lo sviluppo
dell'organo nel maschio si ferma mentre ha il suo deciso sviluppo nella femmina. Il
volume e la forma della mammella nella donna è molto variabile in rapporto alla
quantità e alla disposizione del tessuto adiposo. Lo spazio compreso tra le mammelle
si chiama seno, ma questo termine viene spesso utilizzato per indicare entrambe le
mammelle. La mammella femminile si può suddividere in quattro quadranti, formati
dalla due linee perpendicolari che hanno come centro il capezzolo e la struttura
prevede: tessuto ghiandolare, con 15-20 lobi, ciascuno drenato da un dotto
galattoforo, tessuto fibroso di sostegno (legamento di Cooper e di Giraldès), che
circonda e suddivide il tessuto ghiandolare, tessuto adiposo, in cui è immersola
ghiandola propriamente detta. Esternamente all'apice della mammella si trova il
capezzolo, circondato dall'areola, un'area circolare pigmentata di 3-5cm. Sono
entrambi dotati di fibre muscolari lisce e la loro contrazione evoca l'erezione del
capezzolo ed il corrugamento dell'areola per facilitano il deflusso del latte durante
l'allattamento. L'areola presenta piccole sporgenze determinate dalle ghiandole
sebacee sottostanti e l'apice del capezzolo possiede 15-20 pori lattiferi collegati ai
dotti galattofori. La mammella maschile è invece rudimentale, costituita da un
leggero rilievo, al cui centro si trova l'areola, con un piccolo capezzolo. La ghiandola
è formata da piccoli alveoli, scarsi in numero e privi di lume. I dotti lattiferi sono
brevi e poco ramificati
Patologie della mammella femminile
Le anomalie estetiche della mammella femminile sono molteplici ma possono essere
riassunte in 3 gruppi principali:
 ipertrofia (ipertrofia, iperplasia),
 ptosi,
 ipoplasia ed ipotrofia.

111
Lesioni da radiazioni ionizzanti

L’ipertrofia mammaria (pura, mista, adiposa o falsa ipertrofia) è estremamente


variabile comprendendo quadri clinici che vanno dal semplice “seno prosperoso” alla
gigantomastia considerata una vera e propria patologia malformativa invalidante.
Un seno che si è sviluppato eccessivamente durante la
pubertà o che ha acquistato più volume a seguito di
un graduale aumento di peso, oltre ai problemi che la
sua estetica può determinare sul piano psicologico,
affettivo e sociale, può causare fastidiosi disturbi
fisici: le dimensioni ed il peso delle mammelle,
infatti, espone il soggetto a vizi della postura con
dolori alla schiena fino alla scoliosi ed a ricorrenti patologie cutanee come
intertrigini ed eczemi del solco sottomammario. La mastoplastica riduttiva è
l’intervento chirurgico finalizzato al ripristino di forme e volumi della mammella
ipertrofica con esiti cicatriziali generalmente ben nascosti anche dall’abbigliamento
intimo e con l’obiettivo di conservare la funzionalità della ghiandola, ottenere un
risultato estetico buono e duraturo nel tempo, provocare il minimo danno possibile ai
tessuti ed ai vasi. La tutela di tali principi è affidata ai requisiti basilari di una
corretta mastoplastica ovvero:
- rispetto della rete vascolare e linfatica per prevenire complicanze quali necrosi
cutanee e ghiandolari;
- la conservazione del sistema galattoforo per mantenere la capacità di allattare e
della sensibilità tattile del complesso areola-capezzolo;
- la riduzione della mammella in tutti i suoi diametri ed il raggiungimento di una
simmetria ottimale;
- risultato estetico ottimale con cicatrici di buona
fattura.
La ptosi può riguardare una mammella ipertrofica,
normale o addirittura atrofica poiché rappresenta un
fenomeno biologico di dislocazione in basso del seno
nella sua globalità ed è strettamente correlato con il
cedimento del sistema di sospensione della ghiandola mammaria
(legamento di Cooper e di Giraldès) per cause secondarie
all’invecchiamento dei tessuti, a cospicui dimagrimenti, a
gravidanze seguite da allattamento. Le tecniche chirurgiche di
correzione (mastopessi) poggiano sugli stessi principi che
regolano le mastoplastiche riduttive ma ovviamente in una

112
Lesioni da radiazioni ionizzanti

mammella di normali dimensioni il cono mammario viene rimodellato senza alcuna


riduzione del parenchima ghiandolare ma solo della cute .L’obiettivo è dunque quello
di riposizionare la ghiandola mammaria ed il complesso areola-capezzolo nelle sedi
originali e fisiologiche. Nelle mammelle molto piccole è possibile integrare il volume
complessivo con l’inserimento di una protesi di materiale alloplastico biocompatibile.
L’ipoplasia e l’ipotrofia mammaria identificano quadri clinici di inadeguato volume
mammario:il primo per cause congenite o acquisite (gravidanza, allattamento) è
relativo a soggetti giovani, il secondo è un danno estetico legato alla involuzione
senile del parenchima mammario. L’obiettivo del chirurgo plastico in una
mastoplastica additiva è la realizzazione di un seno attraente e simmetrico che, in
quanto al volume, coincida con i desideri della paziente e sia proporzionato al suo
aspetto. Come per ogni altro intervento di chirurgia plastica correttiva, l'aumento
volumetrico del seno richiede un accurato screening preoperatorio non solo clinico
ma anche psicologico allo scopo di valutare attentamente l'entità del difetto fisico e
le motivazioni che animano la richiesta della donna. Tutto ciò è di fondamentale
importanza perché condiziona non soltanto la strategia terapeutica da adottare ma
anche la scelta di sottoporre o meno il soggetto all'intervento. Per quanto concerne
le vie di accesso alle tradizionali ascellare, periareolare e sottomammaria, negli
ultimi anni se ne sono aggiunte altre quali la transareolare e la addominale, mentre
per il posizionamento della protesi le opzioni possibili sono retroghiandolare e
sottomuscolare. La scelta della tasca retroghiandolare è indicata nelle pazienti con
tessuto mammario ben rappresentato, lieve ptosi delle mammelle ed atleticamente
attive mentre la tasca sottomuscolare va utilizzata nei soggetti con un seno scarso ed
atleticamente inattive. L'impianto sottoghiandolare propone indiscutibili vantaggi
quali una proiezione ottimale delle mammelle ed una consistenza naturale alla
palpazione mentre i vantaggi della protesi in sede sottomuscolare si identificano con
un basso rischio di contaminazione batterica e con la conservazione dei rapporti
anatomici. Storicamente si ritiene che la prima mastoplastica additiva venne
realizzata in Germania nel 1895 utilizzando del grasso autologo di un lipoma del
dorso e che il primo grossolano impianto di silicone risale al 1947. Rapidamente nel
corso degli anni l'interesse della popolazione femminile per questo tipo di chirurgia
crebbe in forma esponenziale stimolando gli studiosi del settore ad individuare
materiali biocompatibili sempre più sofisticati in grado di soddisfare al meglio le
esigenze delle donne e dei Chirurghi Plastici. Dal 1979 al 1992 negli Stati Uniti
d'America sono state sottoposte a mastoplastica additiva circa 100-150.000 donne
ogni anno con un volume d'affari di circa 300- 450 milioni di dollari per attività

113
Lesioni da radiazioni ionizzanti

chirurgiche e 50 - 75 milioni di dollari in materiali di consumo. Nel 1994 tale


procedura chirurgica era negli USA il 3° intervento di chirurgia estetica (dopo la
lipoaspirazione e la blefaroplastica) sebbene per due anni (dal 16 Aprile 1992 al
gennaio 1994) il Governo americano su sollecitazione
della FDA ne avesse di fatto proibito l'esecuzione. Nel
1992 la eco di questo provvedimento legislativo fece
rapidamente il giro del mondo e coinvolse nello stesso
tempo, pazienti, operatori del settore e chirurghi in una
sorta di convulsa isteria collettiva anche se le motivazioni
clinico-scientifiche erano al più poco chiare se non proprio oscure. Quando e come
nasce dunque il problema sulle protesi mammarie al silicone? La controversia ha le
sue radici storiche in un articolo scritto nel 1982 da A. Van Nunen sulla rivista
Arthritis and Rheumatism nel quale l'Autore riportava il caso di 3 donne operate di
mastoplastica additiva ed affette da malattie del tessuto sottocutaneo. La
pubblicazione del fisico australiano ebbe una discreta risonanza nel mondo
scientifico e, anche se le pazienti in oggetto non erano realmente portatrici di
impianti ma erano state sottoposte ad iniezioni intramammarie di paraffina o silicone
liquido, la FDA americana richiese alle ditte produttrici più rigorosi controlli
premarketing che dovevano prevedere dati di sicurezza ed innocuità comprovati da
studi sperimentali su animali e volontari. Ma la vera esplosione del caso nella
opinione pubblica americana ed internazionale va attribuita alla giornalista Conie
Chung che nel 1990 in un suo show televisivo trasmise al pubblico un chiaro
messaggio ovvero che le protesi di silicone erano un "pericoloso capriccio delle donne
ingenue" ed invitava le pazienti operate ad informarsi adeguatamente ed a
denunciare eventuali malattie concomitanti. La stessa Chung si fece parte attiva nel
cercare ed intervistare donne che riferivano presunte malattie secondarie alla
mastoplastica additiva. Tutto ciò determinò nella popolazione femminile una ondata
di panico, grande preoccupazione nella classe medica e sconcerto negli operatori del
settore. Il 10 aprile 1991 David Kessler, commissario governativo per la FDA, stabilì e
notificò alle ditte produttrici che il termine ultimo per presentare la adeguata
documentazione era fissata in 90 giorni. I gruppi di ricerca coinvolti si affrettarono a
produrre quanto richiesto ma la FDA ritenne le conclusioni scientifiche incomplete e
sebbene l'American Society of Plastic and Reconstructive Surgeons si dichiarasse
favorevole a mantenere le protesi sul mercato, il numero delle "operate" che
lamentavano disturbi di vario genere cresceva notevolmente. Il 31 dicembre 1991una
giuria federale di San Francisco dispose un risarcimento pari a 7,34 milioni di dollari

114
Lesioni da radiazioni ionizzanti

a favore di una donna che si dichiarava affetta da una rara ma non ben precisata
malattia del tessuto connettivo complicanza dell'intervento chirurgico. Il 10 febbraio
1992 la FDA sosteneva che le protesi al silicone dovevano essere rimosse dal mercato
ed utilizzate unitamente nelle mastectomizzate e nelle volontarie da inserire in
protocolli di sperimentazione. Il 16 aprile 1992 il Commissario Governativo Kessler
pose di fatto le protesi in gel di silicone fuori legge (con le eccezioni descritte in
precedenza) ma consentiva l'uso degli impianti con soluzione salina. E’ facile
prevedere come nei mesi successivi a tali disposizioni si avviasse un fitto
contradditorio nella comunità scientifica americana ed internazionale: ricerche e
trials multicentrici affermavano o negavano la relazione tra una malattia locale e/o
sistematica secondaria alla presenza del silicone ma nessun autore ha mai ventilato
un nesso di causalità con il cancro della mammella. Già nel 1991 un gruppo di studio
della Dow Corning segnalava la possibilità di una risposta immunologica al silicone ma
allo stesso tempo affermava che un'ampia revisione clinico-sperimentale non
produceva risultati convincenti sul contatto cronico dell'organismo umano con
materiale siliconato e l'insorgenza di patologie del connettivo o tipo reumatico.
Anche la sperimentazione animale non ebbe miglior fortuna perché la
somministrazione sottocute di silicone liquido nei ratti produceva solo sarcomi,
tumori molto frequenti in questi animali se esposti ad una sostanza irritante e
l'inserimento di vere e proprie protesi in cani da esperimento dimostrava solo una
aspecifica, cronica reazione infiammatoria del tessuto circostante. Nel 1993 F. Vasey
reumatologo della University of South Florida College of Medicine, in un suo libro
affermava che la diffusione del silicone nell' organismo sarebbe stata in grado di
scatenare fenomeni autoimmunitari ma i controlli di laboratorio condotti su donne
operate non segnalavano valori apprezzabili di autoanticorpi. Dello stesso parere era
Nir Kossovsky patologo della Ucla MedicaI Center secondo il quale il silicone sarebbe
in grado di legarsi con "molecole native alterate" costituendo un complesso in grado
di evocare una reazione immunitaria prima ed una malattia autoimmunitaria
successivamente. In sintonia con gli Autori precedenti era anche Marc Lappè patologo
sperimentale della University of Illinois School of Farmacy che pubblicò la sua teoria
per la quale il silicone costituirebbe un "trigger" per una "overstimulation" del sistema
immunitario. Oggi, alla luce delle più recenti acquisizioni in materia, è possibile
ritenere che le molecole di silicone siano in grado di stimolare reazioni antigene-
anticorpo ma questo non significa che abbiano la potenzialità di indurre malattie del
tessuto connettivo e la stessa reazione infiammatoria non coincide con una reazione
immunitaria specifica ovvero autoimmunitaria. Comunque nel 1994 il British

115
Lesioni da radiazioni ionizzanti

Department of Health passò in rassegna in maniera analitica e minuziosa tutta la


produzione scientifica sui possibili effetti immunologici delle protesi di silicone e li
giudicò complessivamente "disappointingly poor". Nello stesso anno un gruppo di
ricerca della Mayo Clinic riportò sul New England Journal of Medicine i risultati di uno
screening statistico-epidemiologico (749 donne operate nel periodo 1964-1991 versus
1498 donne di controllo) che non palesava malattie del connettivo, sintomi ad esse
riferibili e/o alterazioni ematochimiche. Nel 1995 sulla stessa rivista furono editi a
stampa i dati emersi da un altro studio retrospettivo (Nurses Health Study) condotto
su 90.000 infermiere di cui 1183 portatrici di protesi mammarie e nel 1996 sul
Journal of The American MedicaI Association vennero riportate le conclusioni del più
grande studio di coorte mai realizzato sull'argomento (Women's health Cohort Study):
400.000 soggetti di cui 11.000 sottoposti ad intervento chirurgico. Considerando
l'entità della casistica rivista era ovvio che venissero individuati casi con malattie del
connettivo (sclerodermia, artrite reumatoride, lupus eritematoso, etc.) anche tra le
pazienti operate ma in nessun caso è stato possibili determinare il nesso di causalità
con le protesi. Sull'argomento ci sarebbe molto ancora da dire ma per brevità
abbiamo voluto riportare soltanto alcuni aspetti salienti con lo scopo di far chiarezza
su un problema scientifico che per troppo tempo è stato di difficile comprensione
anche per gli "addetti ai lavori". In conclusione, ai nostri giorni, è bene precisare che
le vigenti normative sanitarie consentono la libera circolazione e l'utilizzo illimitato
delle protesi mammarie in gel di silicone in tutti gli Stati europei così come, più
lentamente sta avvenendo in America dove ogni Stato, in materia, legifera
autonomamente.
Patologie della mammella maschile
Ginecomastia
Il termine ginecomastia fu introdotto da
Galeno nel II secolo a.c. che definì la
ginecomastia come “un abnorme accumulo
di grasso” nella mammella maschile mentre i
patologi moderni la inquadrano come un
aumento di tessuto mammario
esclusivamente dovuto ad ipertrofia del parenchima. La ginecomastia può essere:
“vera”, quando è determinata da un ipersviluppo ghiandolare, “falsa” o
“pseudoginecomastia”, quando è secondaria ad un eccessivo accumulo di adipe,
mista, quando coesistono entrambe le condizioni. La ginecomastia vera può essere
idiopatica e correlabile con uno squilibrio ormonale anche temporaneo che induce lo

116
Lesioni da radiazioni ionizzanti

sviluppo in senso femminile dell'abbozzo ghiandolare mentre la ginecomastia falsa è


del tutto idiomatica ma più frequente nei soggetti con tendenza all'obesità.
L’incidenza della patologia nell’adolescenza è pari al 48,5% (51% nei caucasici,46%
nella razza nera) mentre negli adulti è pari al 40%. tenendo però a mente che nella
adolescenza una condizione di “pseudoginecomastia” è fisiologica e tende a
regredire spontaneamente nel corso di 2–3 anni.
Da un punto di vista eziopatogenetico la patologia riconosce le seguenti cause:
• eccessiva produzione di estrogeni (ermafroditismo, neoplasia del testicolo),
• deficit di testosterone. (Sindrome di Klinefelter cariotipo XXY o mosaico XXY-
XY),
• alterazione della recettività locale agli stimoli ormonali.
• malattie epatiche.
• terapie farmacologiche prolungate (estrogeni,digitalici, cimetidina,
penicilline, antidepressivi,etc).
Nel soggetto adulto la ginecomastia è dovuta essenzialmente ad una eccessiva
deposizione di grasso o, contemporaneamente, alla associazione di deposizione di
grasso e di ipertrofia della ghiandola. L’esatto meccanismo eziopatogenetico è
sconosciuto anche se la maggior parte degli Autori ritiene l’aumento dei valori di
estrogeni plasmatici come risultato di una conversione extraghiandolare degli
androgeni in estrogeni. La malattia è sempre bilaterale e clinicamente, secondo
Simon, può essere classificata in 4 gradi:
1. I grado: aumento minimo del volume ghiandolare ►visibile il rilievo mammario.
2. IIa grado:aumento moderato del volume ghiandolare ►rilievo mammario
accentuato.
3. IIb grado: aumento consistente del volume ghiandolare con eccesso cutaneo.
4. III grado: cospicuo aumento del volume ghiandolare, marcato eccesso cutaneo
che configura una ptosi di vario grado.
Istologicamente la ginecomastia è caratterizzata dalla presenza di aree di ipertrofia
e iperplasia dei dotti ghiandolari e dello stroma con possibilità di alternata
prevalenza di una delle due componenti: Williams distingue una ginecomastia
“florida” dove prevale la componente duttale con formazione di pseudolobuli ed una
ginecomastia “quiescente” con il tipico aspetto delle forme di vecchia data,
caratterizzate da una abbondante componente stromale compatta, con pochi
fibroblasti e con scarso numero di dotti. Nella ginecomastia in età
adolescenziale,l’approccio terapeutico deve essere prudente e di attesa poiché il
quadro clinico può essere transitorio e regredire spontaneamente. E’ opportuno un

117
Lesioni da radiazioni ionizzanti

costante controllo specialistico (pediatra, endocrinologo) e la terapia chirurgica


trova indicazione soltanto su richiesta dei pazienti. Il trattamento chirurgico
persegue 2 obiettivi:
1. Modellamento della regione mammaria e ripristino morfologico della tipologia
maschile.
2. Esiti cicatriziali minimi
Terapia chirurgica
(classificazione di Cohen)
Gruppo 1: ginecomastia ghiandolare ►adenomammectomia.
Gruppo 2: ginecomastia ghiandolare e ptosi ►adenomammectomia+correzione della
ptosi
Gruppo 3: ginecomastia adiposa ►lipoaspirazione.
Gruppo 4: ginecomastia adiposa con modesta componente
ghiandolare ►lipoaspirazione + adenomammectomia.
La ricostruzione della mammella
La perdita di una o entrambe le mammelle costituisce
un'autentica mutilazione, in quanto viene distrutto ciò che
rappresenta nel comune immaginario conscio e inconscio
l'essenza stessa della donna: il seno. La donna
mastectomizzata subisce un attacco durissimo alla propria
identità femminile, con gravi ripercussioni psicologiche,
emozionali e relazionali.
I chirurghi del passato erano tendenzialmente contrari alla ricostruzione dopo
interventi oncologici. I risultati ottenibili d'altra parte erano limitati dalle difficoltà
tecniche riguardanti il trasferimento di abbondanti quantità di tessuto cutaneo e
sottocutaneo.
Tali Limiti sono da considerare oggi in gran parte superati, grazie alle nuove tecniche
disponibili, inoltre sempre più sesso si praticano di routine interventi meno demolitivi
che in passato, quasi sempre con conservazione del muscolo grande pettorale e
impostati in modo da lasciare come esito una cicatrice ad andamento trasversale,
cosicché si può affermare che i risultati attualmente ottenibili dalla chirurgia
ricostruttiva della mammella sono di qualità molto elevata.
Ogni donna mastectomizzata è da considerare candidata all'intervento di
ricostruzione, che va quindi interpretato non come un atto accessorio ma come
momento integrante dell'iter terapeutico del carcinoma mammario.

118
Lesioni da radiazioni ionizzanti

Il chirurgo generale e l'oncologo che seguono la paziente devono essere


responsabilmente coinvolti nella decisione di procedere alla ricostruzione oppure
evitarla.
L'indagine clinica preoperatoria deve accertare la qualità dei tessuti residui nella
regione da ricostruire:
la disposizione delle cicatrici, l'abbondanza e lo spessore del tessuto sottocutaneo,
l'elasticità della cute, la presenza del plano muscolare sottostante. E’ importante
sapere se la paziente è o è stata in trattamento chemioterapico e se è stata
sottoposta a terapia radiante.
Nel caso di resezioni mammarie parziali (quadrantectomie) è possibile effettuare
ricostruzioni basate sull'impiego di lembi scolpiti nel contesto del parenchima
mammario residuo; tali lembi consentono di confezionare una neo-mammella di
forma gradevole, benché più piccola di quella originale.
La procedura di ricostruzione totale della mammella è basata sulla soluzione di
quattro distinti problemi, che possono essere affrontati anche contemporaneamente
in senso cronologico, ma sempre rispettandone la sequenza:
ripristino dei tessuti cutanei e sottocutanei toracici;
creazione del rilievo mammario;
ricostruzione del complesso areola-capezzolo;
simmetrizzazione della mammella controlaterale con quella ricostruita
L'iter di ricostruzione della mammella può essere iniziato contestualmente
all'intervento di mastectomia.
Tale scelta, praticata con sempre maggiore frequenza, va effettuata sulla scorta di
diversi parametri clinici, in particolare:
- la prognosi a medio-lungo termine
- le condizioni generali di salute.
Qualora questi elementi siano sfavorevoli, è opportuno procrastinare l'intervento di
ricostruzione.
Ripristino dei tessuti toracici
Allorché i tessuti residuati alla demolizione si rivelino insufficienti e siano stati
asportati i muscoli pettorali, sarà necessario portare in quella sede un' adeguata
quantità di tessuto cutaneo e sottocutaneo. A questo fine si può ricorrere alla
rotazione di lembi piani peduncolati di prossimità Può trattarsi in tal caso o di un
lembo toracico laterale o di un lembo toraco-epigastrico.
Quando la demolizione abbia invece conservato cute elastica e sana, mantenendo il
muscolo pettorale e lasciando una cicatrice trasversale, il semplice scollamento

119
Lesioni da radiazioni ionizzanti

cutaneo può consentire l'avanzamento in alto di abbondante tessuto addominale. Più


frequentemente si ricorre in questi casi all'espansione cutanea, grazie alla quale si
può aumentare la superficie cutanea in misura tale da ottenere una mammella
ricostruita addirittura ptosica, rendendo così più naturale il risultato.
Quando invece la mastectomia ha residuato tessuti fortemente retratti per azione
della cicatrice residua o in condizioni qualitativamente scadente per terapie radianti
successive è necessario ricorrere al trasferimento di tessuti da sedi lontane,
ricorrendo ad un lembo miocutaneo.
La rotazione del muscolo gran dorsale consente una valida sostituzione del muscolo
gran pettorale, quando questo sia stato asportato nonché il trasferimento di isole
cutanee di varia misura, forma ed orientamento secondo le necessità ricostruttive.
Il lembo miocutaneo di retto addominale (Transverse Rectus Abdominis Myocutaneous
flap, TRAM) rappresenta oggi un caposaldo della ricostruzione mammaria in quanto,
grazie all'abbondanza del tessuto sottocutaneo comprendibile nel lembo consente di
ripristinare non solo la perdita di sostanza cutanea, ma anche il volume mammario,
senza impiego di protesi e in un solo tempo operatorio, anche contestuale all'atto
demolitivo. Sia il lembo di gran dorsale sia il TRAM possono essere trasferiti come
lembi peduncolati come lembi liberi microchirurgici.
La ricostruzione contemporanea della cute toracica e della salienza mammariaviene
proposta anche mediante trasferimento microchirurgico di lembo miocutaneo di
grande gluteo, in donne magre in cui non sia sufficiente il tessuto addominale.
Creazione della salienza mammaria
Come sopra detto, la salienza mammaria può essere validamente ripristinata con
tessuti autologhi mediante trasferimento di unità miocutanee.(In alternativa, ottimi
risultati sono ottenibili mediante impianto di una protesi purché, come ogni impianto
alloplastico, collocata al di sotto di un tessuto spesso ed eutrofico.
Le protesi attualmente disponibili sul mercato sono costituite da una sacca di
materiale impermeabile. ripiena di un materiale fluido, che dona alla protesi una
consistenza simile a quella del parenchima mammario. Ne esistono di svariate forme
e dimensioni e sono classificabili in base alle caratteristiche della sacca contenitrice
e del contenuto. La legislazione che regolamenta l'utilizzo delle protesi mammarie,
in ordine sia alle indicazioni sia al tipo di protesi, varia da paese a paese.
Attualmente (2003) in Italia è consentito l'impianto di qualsiasi tipo di protesi
regolarmente commercializzata, sia con indicazioni ricostruttive sia con indicazioni
estetiche.

120
Lesioni da radiazioni ionizzanti

Oltre a presentare le consuete problematiche connesse all'impiego degli impianti in


genere, il risultato dell'uso delle protesi mammarie, sia con finalità ricostruttive sia
con finalità estetiche, può essere inficiato dall'entità della reazione capsulare
periprotesica: qualora di grado elevato (Baker III e IV), la regione impiantata appare
innaturalmente tondeggiante, dura e anelastica al tatto. Sono state elaborate per
tale motivo protesi con diverse caratteristiche chimico-fisiche, con l'obiettivo di
ridurre la formazione della capsula. Per quanto riguarda le caratteristiche della sacca
contenente, capsule più morbide si ottengono mediamente quando la superficie non
è liscia ma testurizzata, cioè opportunamente irregolare. Il rivestimento in Carbofilm
sembra essere quello che induce la reazione più modesta, ma si tratta di una
sostanza costosa e di colore nero, alquanto visibile dall'esterno attraverso i tessuti. Il
rivestimento in poliuretano in forma spugnosa dilaziona la fase fibroblastica a spese
del prolungamento della fase di attività dei macrofagi, i quali sono in grado di
fagocitare il poliuretano: se ciò per un periodo di tempo limitato (qualche anno) può
impedire la formazione e l'organizzazione della capsula, determina però un
infarcimento del sistema reticoloendoteliale (SRE), non essendo il poliuretano
apprezzabilmente catabolizzato dall'organismo. Per tale motivo riteniamo molto
discutibile l'impiego di tale tipo di rivestimento. Per quanto riguarda il contenuto, è
ormai accertato che una quota microscopica ma costante di esso trasuda attraverso
le pareti della sacca contenente, che non può mai essere considerata totalmente
impermeabile (fenomeno di bleeding). Per tale motivo sono state proposte sacche a
doppia camera, che garantirebbero un migliore isolamento del fluido all'interno della
protesi: in realtà anche questo artificio non si è dimostrato risolutivo, provocando
anzi nuovi problemi legati alla possibilità che fluidi biologici endogeni (siero) migrino
all'interno della doppia camera. Il gel di silicone trasudato determina un ulteriore
ispessimento e indurimento della capsula periprotesica: ciò disturba molto il risultato
estetico, determinando talora anche disturbi soggettivi, quali dolore e senso di
tensione, tuttavia costituisce una barriera alla migrazione sistemica del gel, che
potrebbe avere conseguenze anche molto gravi (deformità da deposito ectopico,
infarcimento linfonodale e del SRE, embolia). L'uso di sostanze biodegradabili
(soluzione fisiologica, oli vegetali, polivinilpirrolidone, idrossimetilcellulosa, ecc.)
come materiale di riempimento avrebbe il significato di impedire reazioni
indesiderate in seguito a bleeding; anche tali protesi tuttavia non si sono dimostrate
totalmente sicure, in quanto frequentemente hanno indotto diversi effetti
indesiderati, quali svuotamenti "spontanei" in assenza di traumatismi apprezzabili e
calcificazioni periprotesiche.

121
Lesioni da radiazioni ionizzanti

Tra i materiali di riempimento attualmente oggetto di sperimentazione ricordiamo il


gel di poliacrilamide e l'acido jaluronico.
Da quanto sommariamente esposto appare evidente che a tutt'oggi le protesi
mammarie, benché ampiamente impiegate con altissima percentuale di risultati
ottimi, non sono da considerare un impianto per cui si sia giunti a mettere a punto
l'optimum e la ricerca al riguardo è tuttora aperta. In verità le caratteristiche della
reazione capsulare periprotesica sono solo parzialmente attribuibili alle
caratteristiche delle diverse protesi; contano molto anche la reattività della singola
paziente (per es. pazienti con tendenza alla cicatrizzazione ipertrofica), una cattiva
condotta chirurgica intraoperatoria (emostasi poco accurata, manualità grossolana),
un decorso postoperatorio complicato da sieromi, traumatismi anche modesti, ecc.
La frequenza di tale reazione varia nelle diverse casistiche dal 5% al 15% ed è
sicuramente minore per chirurghi esperti e con l'impiego di protesi prodotte da
aziende di indiscussa serietà.
Ricostruzione del complesso areola-capezzolo
Il tessuto più idoneo per ricostruire l'areola è quello dell'areola controlaterale. Essa
pigiò essére prelevata nella misura del 50% e trasferita come innesto; analogainente
il capezzolo residuo può esserearzialmente amputato e innestato in sede
controlaterale. Tale tecnica viene elettivamente impiegata quando si effettui
contestualmente un modellamento in senso riduttivo della mammella controlaterale.
Alcuni oncologi oppongono a tale metodica la considerazione che anche la mammella
"sana" è a rischio di malattia neoplastica e che quindi in tale modo si trasferirebbe in
sede di mastectomia un tessuto a rischio. È possibile ricorrere anche ad innesti di
mucosa delle piccole labbra o innesti di cute perineale, anche se il colorito non è mai
esattamente uguale a quello dell'areola. Tale metodica non è in genere molto gradita
alle pazienti, in quanto la considerano un'ulteriore mutilazione.
La metodica più innocua e attualmente più praticata consiste nel costruire un
rilievo simulante il capezzolo con l'ausilio di lembi scolpiti alla sommità della salienza
mammaria ricostruita, variamente conformati. Il particolare colorito del complesso
areola-capezzolo viene successivamente ottenuto mediante tatuaggio
Simmetria delle mammelle
Il più delle volte non è possibile ottenere una nuova mammella esattamente
conformata come la controlaterale. Per ovviare a tale inconveniente quest'ultima
deve essere allora sottoposta ad una mastoplastica riduttiva, se è di volume
eccessivo o ad una mastoplastica additiva, se è di volume insufficiente, o ad una
mastopessi, per modellarne la forma. Va ricordato che una buona percentuale di

122
Lesioni da radiazioni ionizzanti

pazienti si ritiene soddisfatta dalla semplice creazione della salienza mammaria,


rifiutando non solo il raggiungimento della simmetria ma spesso anche la
ricostruzione dell'areola e del capezzolo. In verità le caratteristiche della reazione
capsulare periprotesica sono solo parzialmente attribuibili alle caratteristiche delle
diverse protesi; contano molto anche la reattività della singola paziente (per es.
pazienti con tendenza alla cicatrizzazione ipertrofica), una cattiva condotta
chirurgica intraoperatoria (emostasi poco accurata, manualità grossolana), un
decorso postoperatorio complicato da sieromi, traumatismi anche modesti, ecc. La
frequenza di tale reazione varia nelle diverse casistiche dal 5% al 15% ed è
sicuramente minore per chirurghi esperti e con l'impiego di protesi prodotte da
aziende di indiscussa serietà.

123
Lesioni da radiazioni ionizzanti

Mastoplastiche
I più comuni inestetismi delle mammelle sono:
 l'ipertrofia (o iperplasia);
 la ptosi;
 l'ipoplasia (o ipotrofia).
Mastoplastica riduttiva
L'ipertrofia mammaria può essere di varia entità fino a
raggiungere, in taluni casi, dimensioni tali da essere
considerata una vera malformazione (gigantomastia).
La condizione di ipertrofia, specie se di grado elevato,
può determinare disturbi non solo di carattere estetico
ma anche funzionale: tensione dolorosa della cute,
solchi sulle spalle per la compressione delle spalline
del reggiseno, lordosi e scoliosi, intertrigini ed eczemi
nel solco sottomammario. Esistono ipertrofie
ghiandolari pure, o meglio iperplasie (più frequenti
nelle adolescenti), ipertrofie miste, in cui il pur voluminoso tessuto ghiandolare è
infiltrato abbondantemente da tessuto adiposo (in genere postgravidiche), ipertrofie
esclusivamente adipose (sempre associate ad adiposità generalizzata di tutto il
corpo). All'ipertrofia mammaria si associa regolarmente la condizione di ptosi,
provocata dal peso della mammella.
Numerose sono le tecniche chirurgiche per la correzione della condizione di
ipertrofia. Tutte riconoscono due momenti fondamentali:
- la resezione cutaneo-ghiandolare;
- il rifacimento del cono mammario con riposizionamento in sede adeguata del
complesso areola-capezzolo.
Le diverse tecniche possono essere distinte in base alle caratteristiche del
peduncolo destinato a mantenere l'irrorazione della porzione di mammella residua. Si
riconoscono tecniche con peduncolo superiore, inferiore, centrale o con due
peduncoli. Inevitabili sono le incisioni periareolare, verticale che attraversa
l'emisfero mammario inferiore ed orizzontale, nel solco sottomammario, disposta in
modo da costituire un disegno a T rovesciata o ad L. La stragrande maggioranza delle
tecniche attualmente in uso mantiene la continuità del complesso areola-capezzolo
con la porzione di mammella residua per non sopprimere la funzione
dell'allattamento ovvero di mantenere il tipico trofismo e la particolare sensibilità e

124
Lesioni da radiazioni ionizzanti

reattività. L'entità della resezione ghiandolare varia da poche centinaia di grammi


per mammella fino a raggiungere e superare i 1 kg.
I risultati sono in genere molto buoni e si mantengono nel tempo, anche se
inevitabilmente una gravidanza e/o l'allattamento possono indurre una modesta
recidiva, specie nella donna molto giovane.
Le complicanze più temibili sono la necrosi (da insufficienza vascolare) del complesso
areola-capezzolo e le raccolte ematiche e/o sierose.
Mastopessi
La ptosi mammaria è una condizione per cui, a causa del cedimento dei tessuti che
sostengono la ghiandola mammaria, il capezzolo si viene a trovare in una posizione
più bassa rispetto all'ideale piano perpendicolare al punto di mezzo dell'omero. Come
già esposto, tale situazione accompagna di regola l'ipertrofia mammaria ma può
essere presente anche in mammelle di dimensioni normali o anche ipoplasiche; può
essere conseguente ad un allattamento, ad un cospicuo dimagramento o
semplicemente all'invecchiamento. Ovviamente le implicazioni di una ptosi
mammaria sono esclusivamente di carattere estetico.
Le tecniche chirurgiche di correzione (mastopessi) sono impostate sugli stessi principi
della mastoplastica riduttiva. Ovviamente in una mammella di dimensioni normali il
cono mammario viene rimodellato senza subire alcuna riduzione a carico del
parenchima ghiandolare, ma solo della cute. La tecnica d'approccio è mirata ad
ottenere cicatrici il meno lunghe possibile, così da poter essere occultate anche da
un reggiseno minuscolo. Il mantenimento della funzionalità e della sensibilità del
complesso areola-capezzolo è mandatorio. mammelle molto piccole è possibile
associare alla pessi un'integrazione del volume, mediante contestuale impianto di
una protesi.
Le complicanze di una mastopessi sono paragonabili a quelle di una mastoplastica
riduttiva, anche se in misura molto ridotta.
Mastoplastica additiva
Il desiderio di incrementare il volume delle
mammelle corrisponde al desiderio di
accentuare la propria immagine di
femminilità.
Le indicazioni all'intervento sono pertanto
rappresentate da tutte le forme di scarsità
del volume mammario. Ovviamente tale
concetto di "scarsità" è estremamente

125
Lesioni da radiazioni ionizzanti

variabile e quanto mai condizionato da fattori anche molto "lievi", quali i modelli
d'abito proposti dalla moda, le immagini femminili utilizzate dalla pubblicità e così
via.
La condizione di inadeguato volume mammario si può osservare nella ragazza
giovane, per mancato o inadeguato sviluppo della ghiandola mammaria (ipoplasia) o
nella donna più avanti negli anni, spesso dopo gravidanza e allattamento, per
involuzione del parenchima mammario (ipotrofia): in quest'ultimo caso non è
infrequente la coesistenza di ptosi, come sopra descritto.
Per completezza espositiva si ricorda che le tecniche proposte per conseguire
l'aumento del volume mammario ricalcano quelle impiegate per il reintegro del
volume nella ricostruzione della mammella.
Tuttavia la tecnica assolutamente dominante e la sola ragionevolmente proponibile
nell'ambito della chirurgia estetica consiste nell'impianto di protesi.
La tasca, in cui viene collocata la protesi, può essere ricavata:
-tra il piano ghiandolare e il piano del muscolo grande pettorale;
-al di sotto del muscolo grande pettorale.
A favore della scelta sottopettorale stanno varie considerazioni:
è in genere desiderabile che un impianto sia posizionato il più possibile in profondità;
il muscolo pettorale svolge una sorta di massaggio continuo sulla protesi, favorendo
così la costituzione di una capsula meno spessa;
specie nel soggetto magro, sono meno visibili innaturali sporgenze dei margini delle
protesi; è più agevole l'esecuzione di esami quali la mammografia e l'ecografia.
A favore della scelta sottoghiandolare sono altre considerazioni:
l'atto chirurgico è meno aggressivo;
la tasca sottopettorale è controindicata in soggetti molto dediti ad attività sportive,
in cui il muscolo debba fornire prestazioni elevate;
in sede sottoghiandolare la protesi ha minore tendenza a "risalire" verso la regione
succlavia.
La via d'accesso cutanea può essere:
-nel solco inframammario;
- periareolare;
-transascellare, in corrispondenza dell'apice inferiore del cavo ascellare.
La scelta della via scaturisce dalla valutazione della conformazione del torace della
paziente, delle caratteristiche della cute, delle abitudini di vita, del tipo di protesi
scelta. In ogni caso ci si deve aspettare, in corrispondenza dell'incisione, una
cicatrice lineare lunga dai 4 ai 6cm.

126
Lesioni da radiazioni ionizzanti

Da qualche anno è stato proposto anche l'accesso per via transombelicale, con
l'ausilio dell'endoscopio. Al momento però i risultati non appaiono validi, in quanto
tale tecnica limita sia la possibilità di scelta del tipo di protesi (si impiegano
esclusivamente protesi riempibili con soluzione fisiologica' al termine della fase di
posizionamento) sia la possibilità di modellare adeguatamente la forma delle nuove
mammelle. Si sottolinea che spetta solo al chirurgo la scelta della protesi e della
tecnica più opportuna per la singola paziente. Si ribadisce altresì che a tutt'oggi non
è mai stata dimostrata alcuna potenzialità carcinogenetica né inducente patologia
autoimmune per nessuna delle protesi in uso. Alle comuni controindicazioni già
discusse in senso generale per ogni intervento di chirurgia estetica, per l'intervento
di mastoplastica additiva vanno aggiunte le sindromi su base autoimmune, in quanto
la presenza di un corpo estraneo può fungere da adiuvante per l'espressività clinica di
tali patologie. L'intervento si effettua di regola in anestesia generale. In casi ottimali
l'intervento può essere effettuato in regime di day-hospital. In ogni caso in genere la
degenza postoperatoria non supera le 24 ore. Non sono necessarie trasfusioni di
sangue né predepositi. È’ opportuno che la donna non effettui lavori pesanti né
pratichi sport per 3-4 settimane dopo l'intervento. È buona regola che per circa 2
mesi indossi regolarmente un reggiseno opportunamente sostenuto (in genere è il
chirurgo plastico a suggerire il modello più idoneo); è opportuno che un buon
reggiseno venga indossato anche successivamente in occasione di attività particolari
(sport, lavori pesanti). Il risultato estetico, già molto gratificante fin dai primi giorni,
è ottimale e stabile dopo qualche mese, quando, se l'intervento è stato eseguito a
regola d'arte e non sono sopravvenute complicazioni, le mammelle sottoposte ad
impianto assumono consistenza morbida e una forma naturalmente sostenuta. E
importante che la paziente non dimentichi di effettuare tutti i controlli che il
chirurgo plastico richiederà, allo scopo di identificare e trattare fin dall'inizio
eventuali complicanze. Tali complicanze, peraltro sempre meno frequenti (5-10% dei
casi), consistono per lo più nella costituzione di una contrattura capsulare di grado
elevato. Ben più gravi complicanze sono l'infezione o la rottura delle protesi: esse
però sono da considerare come eccezionali e da imputare ad un errore di tecnica
operatoria, ad un difetto di fabbricazione delle protesi o a un trauma di straordinaria
entità. Una complicanza psicologica da non sottovalutare può essere l'elaborazione di
una condizione psichica di "invasione del proprio corpo da parte di un oggetto
estraneo": se non risolta, tale condizione richiede la rimozione della protesi. La
donna portatrice di protesi mammarie può tranquillamente viaggiare in aereo,
compiere escursioni ad alta quota o praticare immersioni in profondità, senza rischi

127
Lesioni da radiazioni ionizzanti

di rottura di una protesi di buona qualità, purché il cambiamento di pressione cui si


sottopone avvenga gradualmente. Può ovviamente sottoporsi anche ai routinari
controlli senologici, compresa la mammografia: naturalmente dovrà preventivamente
informare lo specialista che si appresta a visitarla o ad effettuare un esame
strumentale di essere portatrice di impianto di protesi mammaria. Le protesi
attualmente in uso si ritiene abbiano una durata media di 10 anni, trascorsi i quali è
molto opportuno, anche se non indispensabile in tutti i casi, programmare la loro
sostituzione: infatti, benché costituite da materiale inerte, nel corso degli anni
tendono ad usurarsi e quindi ne diviene più facile la rottura accidentale.

128
Lesioni da radiazioni ionizzanti

LESIONI DA RADIAZIONI IONIZZANTI

Si intendono per radiazioni ionizzanti quelle che provocano nella materia la


formazione di particelle cariche elettricamente (ioni). Per quanto diverse possano
essere dal punto di vista fisico, le radiazioni ionizzanti con cui l'organismo può venire
a contatto (raggi alfa, beta, gamma, X, neutroni accelerati, protoni di rinculo, UV,
ecc.), i fenomeni biologici, scatenati nella materia vivente dall'assorbimento di
energia radiante, sono sostanzialmente analoghi e riconducibili a:
- danno diretto degli acidi nucleici, con conseguenti alterazioni strutturali dei
cromosomi;
- ionizzazione dell'acqua intra- ed extracellulare, con formazione di ioni e radicali
liberi;
A tale danno molecolare può conseguire un blocco, anche parziale, della sintesi
proteica, con degenerazione e necrosi cellulare, ovvero mutazioni del genoma con
sviluppo di cellule aberranti (neoplastiche). Per dosi molto piccole, è possibile la
spontanea riparazione del danno cellulare, con completa restituito ad integrum. Per
dosi più elevate invece il danno cellulare non è reversibile a parità di dose, sono
meno nocive le piccole somministrazioni articolate in un ampio lasso di tempo,
probabilmente perché in tale modo si permette la realizzazione di fenomeni
riparativi nelle popolazioni cellulari meno colpite. Non tutte le cellule sono
egualmente sensibili a tutte le radiazioni: tale sensibilità aumenta in proporzione al
loro contenuto in acidi nucleici ed è quindi maggiore nelle cellule di tipo cambiale,
in fase di moltiplicazione ovvero genericamente in intensa attività metabolica. Sono
quindi particolarmente sensibili tutti i tessuti del bambino e, nell'adulto, l'apparato
linfatico, le gonadi, i tessuti epiteliali e viceversa appaiono radioresistenti i muscoli
e i nervi. Le forme cliniche conseguenti all'esposizione a radiazioni ionizzanti possono
essere inquadrate nel modo seguente:
Sindromi da irradiazione generale acuta, osservate,oltre che nell'animale da
esperimento, nei soggetti coinvolti in esplosioni nucleari e fughe radioattive.
Sindromi da irradiazione localizzata, osservabili in:
- soggetti sottoposti a terapie radianti: in questo caso la dose di raggi è in genere
piuttosto elevata, in quanto destinata per lo più a distruggere una forma neoplastica.
L'impiego di apparecchiature e metodiche sempre più raffinate, in mani esperte,
dovrebbe oggi permettere di ridurre al minimo la patologia iatrogena da radiazioni

129
Lesioni da radiazioni ionizzanti

ionizzanti. La notevole latenza che intercorre tra irradiazione e patologia da raggi fa


sì che a tutt'oggi non ne sia obsoleto il reperto. Le sedi ove è più comune il reperto di
lesioni iatrogene da raggi corrispondono alle regioni più frequentemente colpite da
forme neoplastiche ed al loro stazioni linfonodali: la parete toracica e il pilastro
anteriore dell'ascella (carcinoma mammario), la regione sacrale e inguinale (cancro
uterino), il cavo orale e il collo;
- lavoratori di industrie nelle quali si manipolano materiali radioattivi e personale
addetto ai servizi di radiodiagnostica e radioterapia: in quest' ultimo caso in genere
la singola dose di raggi assorbita è modesta, ma può divenire rilevante con il passare
del tempo se l'esposizione alle radiazioni si ripete frequentemente. Nell'ambito della
patologia professionale viene più frequentemente colpito il dorso della mano. In ogni
caso, la sintomatologia è abbastanza uniforme e dipendente dalla dose di raggi
assorbita. Nei casi più gravi il risentimento sistemico è imponente, con esito anche
mortale per lesioni del sistema nervoso centrale, emorragie interne diffuse, leucemie
e altre forme neoplastiche. Nei casi più lievi si configura il quadro del cosiddetto
male da raggi caratterizzato da sintomi nervosi (anoressia, nausea vomito, cefalea,
insonnia) ed ematologici (leucopenia, anemi, trombocitopenia) A livello locale la
risposta cutanea (radiodermite) si articola fondamentalmente in due momenti:
risposta acuta e risposta cronica.
Radiodermite acuta
Si manifesta dopo pochi giorni dall'irradiazione con unta maggiore evidenza quanto
più elevata è la dose assorbita. La forma più lieve consiste solo in un blando eritema,
che regredisce in breve tempo senza reliquati: talora può verificarsi una transitoria
interruzione delle funzioni annessiali (caduta dei peli, arresto delle serezioni
sudoripara sebacea). Con l’aggravarsi della sintomatologia compaiono anche prurito,
desuamazione, edema, flittene e infine necrosi tissutale simulando così il quadro di
una ustione di 2° e 3° grado (radionecrosi).
Radiodermite cronica
Può rappresentare l'esito obbligato in cui sfociano senza soluzione di continuo le
radiodermiti acute medie e gravi, ovvero può insorgere come tale, quale unica
tardiva manifestazione di una pregressa irradiazione.
La radiodermite cronica si manifesta clinicamente come un'atrofia di tipo cicatriziale
del sottocutaneo e della cute, che appare acromica al centro della lesione e
fortemente ipercromica e costellata di teleangectasie alla periferia; frequente è
anche il reperto delle cosiddette macchie di carbone, costituite da lesioni iperpig-
mentate corrispondenti ad ammassi di emosiderina. Soggettivamente il paziente

130
Lesioni da radiazioni ionizzanti

lamenta sempre dolore acuto e intenso, che in genere è il sintomo che lo spinge a
consultare lo specialista.
A tale quadro clinico corrispondono sul piano istopatologico: nell'epidermide
ipercheratosi e acantosi, "swelling" dello strato spinoso, edema dello strato basale;
nel derma edema, vescicolazione, atrofia degli annessi e delle fibre elastiche, fibrosi
delle fibre collagene; a livello vascolare necrosi fibrinoide delle pareti e trombosi
disseminate. Le radiodermiti croniche gravi o inveterate evolvono inevitabilmente
nella radionecrosi. Essa generalmente si manifesta dapprima come una o più
ulcerazioni superficiali, piccole, tendenti alla confluenza; successivamente coinvolge
i piani sottostanti fino a giungere, nei casi più clamorosi, alla distruzione massiva dei
tessuti profondi. Il fondo dell'ulcera radiodermitica è tipicamente sanioso, pallido ed
emana un caratteristico fetore, dovuto all'abbondante popolazione microbica, il cui
sviluppo, essendo la vascolarizzazione molto carente, non può essere contrastato
stabilmente. Il dolore è in genere più modesto che nella forma non necrotica,
verosimilmente per distruzione delle fibre sensitive. Di particolare gravità sono le
radionecrosi in corrispondenza di strutture, la cui esposizione e conseguente
degenerazione si traduce in un danno funzionale (in particolare nervi e tendini)
ovvero addirittura in un rischio di vita (grossi vasi, sierose, dura madre, ecc.).
Radiodermiti e radionecrosi sono da molti Autori considerate vere e proprie
precancerosi: in effetti, in una percentuale variabile dal 15% al 35% dei casi, a
seconda delle statistiche, si osserva, specie nelle forme più inveterate, l'insorgenza
di un tumore maligno. In genere si tratta di un epitelioma spinocellulare, anche se
talora si sono osservati basaliomi, sarcomi e melanomi. Le radiodermiti acute si
trattano in genere con topici antinfiammatori. Invece la terapia delle radiodermiti
croniche e delle radionecrosi è esclusivamente chirurgica. Essa consiste nella
generosa escissione di tutta la regione irradiata: il segno discriminante tra il tessuto
sano e quello irradiato è. in genere la sua "povertà"
circolatoria. Questo tempo operatorio è in genere
complicato dallo stato di diffusa sclerosi cicatriziale,
particolarmente temibile in prossimità dei grossi vasi,
duri e fragili così da essere possibile fonte di gravi
emorragie. All'asportazione del tessuto radiodermitico
corrisponde puntualmente la risoluzione del sintomo dolore, fin dalle prime ore
postoperatorie. Per la ricostruzione, è necessario utilizzare un trapianto, dotato di
un robusto assetto vascolare: esso infatti deve essere in grado di fornire alla sede
ricevente una rete circolatoria tale da sopperire alla sua carenza. Non è infrequente

131
Lesioni da radiazioni ionizzanti

osservare, in seguito al trapianto di un robusto lembo, la spontanea risoluzione di


piccole lesioni distrofiche limitrofe, che per motivi vari non si siano potute rimuovere
insieme alla lesione principale.
Si utilizzano elettivamente lembi miocutanei o, in alternativa, fasciocutanei.

132
Laserchirurgia cutanea

LASERCHIRURGIA CUTANEA

La teoria quantistica sulla emissione di fotoni da parte di atomi bersagliati da altri


fotoni di pari lunghezza d'onda, elaborata da Einstein nel 1917, rappresenta la teoria
fisica su cui si fonda l'emissione di un raggio LASER ed i processi fondamentali che
regolano tutte le interazioni della luce con la materia sono: l'assorbimento e la
diffusione. Quando la luce colpisce la superficie cutanea circa i 15% viene riflesso a
causa del differente indice di rifrazione tra l'aria (n=1, 0) e lo strato corneo (n=1, 55)
mentre il restante 95% viene non solo assorbito ma anche diffuso dalle strutture
tissutali: nell'epidermide normale l'assorbimento è il processo dominante nella
maggior parte dello spettro ottico mentre nel derma si verifica una forte diffusione a
livello delle fibre collagene basata sulla lunghezza d'onda. Analogamente quando il
raggio laser raggiunge il tessuto bersaglio può essere riflesso o assorbito trasferendo
l'energia ai cromofori cutanei (emoglobina, melanina, acqua e pigmenti) sottoforma
di calore. E' noto che il calore prodotto dal laser nel momento dell'impatto con un
cromoforo si diffonde nel tessuto organico secondo un meccanismo di rilasciamento
termico ovvero il tempo necessario perché il punto irradiato perda il 50% del calore
incidente senza trasmetterlo per diffusione nelle zone adiacenti (trt) e che l'efficacia
terapeutica è regolata dalla teoria della fototermolisi selettiva elaborata da
Anderson e Parrish nel 1983 per descrivere un danno tissutale termico di target
microscopici e pigmentati attraverso impulsi assorbiti in modo selettivo. La
fototermolisi selettiva, dunque, prevede un complesso coacervo di interazioni
chimico-fisiche con 3 principi basilari:
a) una lunghezza d'onda che raggiunga e venga assorbita dall'obiettivo selezionato;
b) un tempo di esposizione uguale o inferiore al tempo di raffreddamento del target;
c) una fluenza sufficiente per una temperatura utile a produrre l'effetto terapeutico.
Quando è possibile raggiungere tali condizioni, unitamente al massimo confinamento
termico, è prevedibile la maggiore efficacia terapeutica e dunque il miglior risultato
clinico.
La laserchirurgia cutanea oggi dispone di numerose macchine che possono essere
genericamente suddivise in tre categorie principali:
1. laser non selettivi o chirurgici (azione d'organo, cromoforo principale l'acqua);
2. laser macroselettivi o di tessuto (azione di tessuto, cromoforo principale
l’ossiemoglobina);

133
Laserchirurgia cutanea

3. laser microselettivi o subcellulari (azione cellulare, cromoforo principale


pigmenti endogeni ed esogeni).
Le differenti possibili interazioni laser-tessuto dipendono dunque dalla densità
energetica erogata e dalla unità di tempo in cui viene rilasciata ma sono certamente
condizionate anche dal tipo di interazione fotoindotta ovvero l'effetto fototermica,
fotomeccanico e fotochimico. Le principali applicazioni dei laser chirurgici (ad
emissione continua o impulsata) sono fondate sulla conversione dell'energia
elettromagnetica radiante in energia termica (effetto fototermico) con risultati
clinici che vanno, in base al tempo di irraggiamento ed a parità di energia, dal
semplice surriscaldamento, alla coagulazione, alla vaporizzazione, fino alla
carbonizzazione del tessuto. L'effetto fotomeccanico si ottiene invece con i laser Q-
Switched ad impulso breve in grado di erogare spot con alte potenze di picco
nell'ordine di nanosecondi capaci di provocare una improvvisa espansione termica del
cromoforo e la formazione di onde d'urto pressorie così intense da frammentare il
target mediante una esplosione cellulare mirata. La reazione fotochimica selettiva,
infine, può essere ottenuta sia con cromofori endogeni come l'emoglobina o la
melanina e sia con cromofori esogeni (pigmenti): l'energia laser, infatti, ha la
possibilità di eccitare transizioni elettroniche o vibrazionali capaci di determinare
una frattura "fredda" dei ponti e dei legami intramolecolari con un danno delle
strutture biologiche indipendente dalla produzione di calore e legato a profonde
alterazioni strutturali delle molecole target che assorbono i fotoni. Le applicazioni
del laser nelle malattie e negli inestetismi della pelle rappresentano un settore
scientifico e di ricerca in continua espansione per la migliore interpretazione e
conoscenza delle interazioni laser-tessuto, per il progresso tecnologico nella
realizzazione dell’ hardware e dei sistemi di cessione finale della radiazione laser e
per il progressivo ampliamento delle indicazioni cliniche. E' bene ricordare che i
moderni sistemi sono in grado di emettere un fascio luminoso monocromatico,
coerente e collimato in modalità continua, pseudocontinua, pulsata (impulso breve o
lungo) e Q-Switched, che le emissioni di tipo continuo possono suddividersi in
intermittenti o abbinate a flashscanner e che le interazioni con le strutture
biologiche sono strettamente correlate alla lunghezza d'onda, al tempo di
esposizione del tessuto,
alla durata dell'impulso,
alla potenza erogata ed
alle dimensioni dello
spot. I laser possono

134
Laserchirurgia cutanea

dunque essere utilizzati con successo nel trattamento di moltissimi quadri clinici
ovvero neoformazioni benigne e maligne della cute (nevi dermici, nevi epidermici,
verruche, xantelasmi, macchie, cheratosi attiniche basaliomi superficiali, etc),
anomalie vascolari congenite e acquisite (angiomi, couperose, teleangectasie degli
arti inferiori, eritrosi, etc), cicatrici acneiche e chirurgiche, esiti di ustioni, psoriasi,
vitiligine, striae distensae, rughe, peli superflui, tatuaggi.
E' noto che il laser Nd:YAG con i suoi 1064 nm di lunghezza d'onda trova un peculiare
settore d'impiego nella patologia
vascolare ma offre buoni risultati
anche nella epilazione permanente e
nel trattamento dei tatuaggi
monocromatici neri o blu.
Quest'ultimo argomento merita alcune riflessioni poiché, sebbene siano stati condotti
numerosi studi e sperimentazioni, ancora non è completamente chiarito il percorso
biologico del pigmento intradermico rendendo a tutt'oggi molto difficile ottenerne la
rimozione senza esiti apprezzabili. Indagini istologiche sui tatuaggi hanno dimostrato
che le particelle d'inchiostro inizialmente sono contenute nel citoplasma di cellule
fagocitiche e, successivamente, soltanto nei fibroblasti dermici con una elevata
concentrazione nelle zone perivascolari sotto uno strato di fibrosi sostituto del
tessuto di granulazione. Nelle decorazioni professionali ed amatoriali la profondità e
la densità dell'inchiostro sono molto diverse anche se nelle applicazioni amatoriali è
riscontrabile una maggiore variabilità per dimensione, forma e sede anatomica:
spesso è possibile il riscontro visivo di una
progressiva attenuazione del colore perché
probabilmente le particelle migrano più in
profondità per l'azione di cellule fagocitiche
mobili. Pertanto la rimozione dei tatuaggi con
la fototermolisi selettiva è ancora
parzialmente sconosciuta ma è chiaro che gran parte dell'inchiostro, solo
apparentemente eliminato dalla pelle, non viene di fatto rimosso ma in buona parte
drenato nei linfonodi. E' dunque difficile prevedere il numero delle sedute necessarie
per riabilitare un'area tatuata: in molti pazienti la prima applicazione produce una
reazione più evidente con ampie zone di schiarimento a differenza di altri nei quali
l'effetto è decisamente meno apprezzabile anche se prelievi bioptici dimostrano
sempre la frammentazione del pigmento ed è intuitivo che più la decorazione è
recente, minore è il volume dell'inchiostro e l'area di cute tatuata e più basso è il

135
Laserchirurgia cutanea

numero delle sedute necessarie. Così, ad esempio, in alcune casistiche internazionali


quando lo spessore del tatuaggio è inferiore a 0,92 mm con una media di 7
trattamenti si può ottenere uno schiarimento pari all' 87,5% mentre con valori
superiori a 1,78 mm sono prevedibili una media di 9,3 applicazioni per un
miglioramento clinico dell'81,3%. La richiesta dell’epilazione laser è in continua
espansione con un interesse crescente anche nel sesso maschile che si rivolge sempre
di più allo specialista per il trattamento di aree cutanee considerate “inestetiche”
come ad esempio il dorso o per risolvere vere e proprie patologie ad andamento
cronico come le follicoliti recidivanti della barba o del dorso talora causa di notevole
disagio per il paziente. Come è noto, qualunque trattamento laser per l’epilazione
non è finalizzato alla risoluzione definitiva del problema ma sarebbe più opportuno
parlare di epilazione persistente il cui obiettivo è ridurre il numero dei peli almeno
del 70% con un significativo rallentamento dei tempi di ricrescita che possono
superare anche 1 anno. La crescita del pelo, qualunque sia il tipo di follicolo
associato (vello, terminale, sebaceo), è ciclica con una fase di crescita e di caduta. Il
comportamento di sviluppo del pelo è definito “ a mosaico” ovvero vi è assenza di
sincronismo di crescita con i peli dei follicoli vicini. Il ciclo del pelo ha inizio con la
fase telogen in cui il follicolo notevolmente accorciato al di sotto della ghiandola
sebacea con il pelo in espulsione con estremità a forma di clava, privo di zona
cheratogena che funge da guida per lo sviluppo del nuovo. Ancor prima
dell’espulsione inizia la complessa fase anagen nella quale in nuovo pelo inizia a
formarsi fino alla fase in cui (Anagen V) il follicolo contiene contemporaneamente
due peli, il vecchio che sta per essere espulso ed il nuovo che continua la sua
crescita che può durare mesi od anni.Nella fase catagen in follicolo completo arresta
la sua crescita, cessa la produzione di melanina ed inizia il riassorbimento delle
strutture della zona inferiore del follicolo con la papilla che si allontana da bulbo che
inizia ad assumere l’aspetto “a clava”. La durata della fase anagen e telogen varia a
seconda del distretto cutaneo con sensibili differenze. La crescita eccessiva ed
indesiderata dei peli può essere legata ad una patologia legata agli androgeni
(irsutismo) o non (ipertricosi). Il pattern androgeno dipendente dell’irsutismo è
caratterizzato dallo sviluppo di peli in aree quali guance, labbro superiore, mento,
braccia, cosce, regione addominale e l’eziopatogenesi è riconducibile a differenti
condizioni:

136
Laserchirurgia cutanea

Farmaci (steroidi, minoxidil, danazolo, difenilidantoina, interferone, streptomicina,


ciclosporina, acetazolamide, penicillina)
Porfirie
Mucopolisaccaridosi

S. di Cornelia De Lange
Epidermolisi bollosa distrofica
Neoplasie (gastrointestinali, bronchiali, mammella, utero)
Nevi (Becker, nevi pelosi)
Coda di fauno
Traumi (iniezioni, ingessature, pressione, agenti irritanti)
Ipertricosi lanuginosa congenita

L’ipertricosi è caratterizzata da una crescita eccessiva di peli diffusa o localizzata


senza pattern androgeno dipendente. Può interessare entrambi i sessi ed essere
familiare, acquisita o congenita. Nella tabella riassuntiva sono riportate le possibili
patologie associate.

idiopatica (aumentata attività della 5-alfa-redattasi, aumentata sensibilità recettoriale al


testosterone)
La sindrome dell’ovaio policistico
(S. di Stein Leventhal)
S. di Cushing
Iperplasia congenita surrenalica
Neoplasie ovariche o surrenaliche
Prolattinoma
Disgenesia delle gonadi
Cause iatrogene

I trattamenti medici proposti per la cura dell’eccessiva crescita dei peli sono riservati
alle forme androgeno dipendenti pertanto hanno ovvie limitazioni legate al sesso e
all’età dei pazienti (ciproterone acetato, spironolactone, cimetidina, finasteride,
dutasteride).
I trattamenti chirurgici sono finalizzati alla cura di eventuali neoplasie associate
mentre l’approccio“estetico” dell’ipertricosi varia da metodiche semplici quali la
rasatura, la decolorazione, le creme depilatorie, la ceretta, l’elettrolisi con la
quale si tenta di distruggere la papilla pilifera impedendo la ricrescita del pelo.
L’avvento dei laser chirurgici ha rivoluzionato il protocollo terapeutico non eziologico
dell’ipertricosi e dell’irsutismo infatti la distruzione del follicolo pilifero da parte di
un qualsiasi laser adatto allo scopo si basa sull’interazione tra la luce emessa dalla

137
Laserchirurgia cutanea

sorgente e la melanina, cromoforo bersaglio, localizzata a livello del pelo.


L’interazione è altamente selettiva in quanto le strutture limitrofe non vengono di
norma danneggiate dal raggio. L’efficacia del
trattamento è tanto maggiore quanto più le
strutture del follicolo pilifero si trovano in una
elevata attività mitotica. Pertanto solo i peli
che si trovano nella fase anagen risponderanno
al singolo trattamento e di ciò bisognerà tener conto nel programmare gli intervalli
tra le sedute. La Food and Drug Administration ha approvato diverse apparecchiature
per il trattamento dell’ipertricosi e/o dell’irsutismo ed in particolare il laser rubino,
il laser ad alessandrite, il Laser Nd:Yag, il laser a diodi, e l’IPL. Le lunghezze d’onda
necessarie per l’assorbimento del cromoforo (melanina) devono essere tali da
raggiungere la profondità del derma (600-1200 nm) e il tempo d’esposizione minore o
uguale al tempo di rilassamento termico per preservare i tessuti circostanti dai
possibili danni termici. (10-50 msec). La soglia di energia richiesta per danneggiare in
maniera efficace i follicoli è variabile tra i 30 ed i 70 J/cm². Il laser a Rubino (ruby
laser, 694 nm) è quello che è stato maggiormente studiato, anche perché è stato
praticamente il primo. Le fluenze adoperate variano tra 30 e 60 J/cm², con spot di
6-10mm e impulsi di 3-5 msec, fino a 100 msec ai delle apparecchiature più recenti
che avrebbero il pregio di ridurre quegli effetti collaterali. Questi consistono in
eritema, edema, ipo ed iperpigmentazioni, papule, vescicole, follicoliti, porpora,
sono più frequenti nei soggetti con fototipo alto e rappresentano a tutt’oggi il limite
maggiore di utilizzo. Il laser ad Alessandrite (755nm) pur essendo uno degli strumenti
più “datati” e pertanto meglio conosciuti, è ancora oggi tra i più diffusi per i
numerosi aggiornamenti tecnologici che lo hanno notevolmente perfezionato e reso
progressivamente sempre più sicuro. Utilizza manipoli con spot da 5 a 18mm anche
se il più usato è quello da 10mm. e può essere dotato di scanner. Le fluenze sono
variabili da 10 a 50 J/cm² e la durata dell’impulso può andare da 2 a 100 msec anche
se le più utilizzate sono comprese tra i 2 e i 40 msec, in funzione della fluenza. Gli
effetti collaterali, più frequenti nei soggetti di carnagione scura, sono gli stessi del
laser rubino ma oggi notevolmente ridotti sia dall’utilizzo dei sistemi di
refrigerazione e/o dispersione di calore che dai sistemi computerizzati dei moderni
apparecchi che permettono di gestire al meglio ed in automatico le combinazioni
fluenze/durata impulso più idonee a seconda del fototipo. Il laser ad Ittrio Alluminio
Granato drogato con Neodimio (Nd:Yag,1064 nm) è uno strumento che ha uno spot da
generalmente di 5-7 mm e può essere dotato di scanner che definisce aree di varie

138
Laserchirurgia cutanea

dimensioni e forme (trapezoidali, esagonali, romboidali, rettangolari e quadrate) che


permettono di velocizzare notevolmente il lavoro. Le energie utilizzate sono variabili
da 30 a 75J/cm² a seconda della sede anatomica e del fototipo. In realtà per la
maggioranza dei soggetti vengono impiegate energie comprese tra 30 e 60 J/cm²,
considerando che il ricorrere a fluenze maggiori comporta di solito eccessivo dolore
per il paziente: per l’analgesia è stato utilizzato il sistema refrigerante ad aria o da
contatto. Gli effetti collaterali possibili sono simili a quelli riportati per i laser rubino
ed Alessandrite, ma con una incidenza inferiore. Il laser a diodo (810nm) con spot
fino a 9mm (molto utilizzato è quello da 4mm), con o senza scanner, fluenze medie
di 10-40J/cm² e durata dell’impulso variabile da 40 a 250 msec, rappresenta una
delle innovazioni tecnologiche più recenti nel campo dell’epilazione con risultati
generalmente brillanti e scarsa incidenza di effetti collaterali. Un altro sistema
molto interessante attualmente è l’IPL (luce pulsata) che rappresenta una delle
ultime novità nel campo della fototerapia anche se tecnicamente non si dovrebbe
considerare un vero e proprio laser. Si tratta, infatti, di una luce pulsata intensa che
emette uno spettro di luce continua con fluenze che possono variare tra i 500 e 1200
nm, anche se i filtri usati più di frequente sono compresi tra i 510 e 695 nm per una
durata dell’impulso variabile tra i 2 e i 25 msec per spot. La luce pulsata offre una
vasta possibilità di utilizzo in varie lesioni cutanee ma l’indicazione più interessante
dell’IPL è, comunque, il fotoringiovanimento che si può realizzare grazie alle
modifiche del tessuto connettivo e alla stimolazione del collagene indotta dalla
penetrazione della luce. Buoni risultati si possono ottenere anche nel trattamento di
numerosi tipi di lesioni vascolari e pigmentarie. La luce pulsata, altresì, presenta
notevoli vantaggi applicativi nel campo dell’epilazione in quanto consente di
interagire con la melanina presente nei peli castani e neri con una specificità
leggermente inferiore rispetto a quella del laser Nd:Yag. Viceversa nelle strutture
che contengono poca melanina o feomelanina (biondi e rossi) l’IPL consente risultati
decisamente superiori rispetto agli altri laser. Uno dei limiti applicativi consiste nella
necessità della perfetta conoscenza, da parte dell’operatore, dei parametri di
impostazione dello strumento in quanto gli effetti collaterali di tipo pigmentario e
cicatriziali, in caso di erroneo impiego, potrebbero dar luogo ad esiti permanenti.
Esistono in commercio anche apparecchiature combinate che permettono di lavorare
contemporaneamente con lunghezze d’onda emesse dall’IPL e dal Nd:Yag laser. Per
tutti i pazienti è opportuno compilare una scheda che riporti in maniera dettagliata
dati anamnestici che riguardano eventuali patologie ed in particolare androgeno
correlate o comunque endocrine, le terapie recenti o in atto e le sedi anatomiche del

139
Laserchirurgia cutanea

loro inestetismo ovvero il consenso informato. Tutti i soggetti debbono possedere una
precisa documentazione fotografica prima del protocollo terapeutico e ai controlli
prima della seduta successiva. La cadenza delle applicazioni varia da 4 a 6 settimane
l’una dall’altra. I soggetti vanno fatti radere a domicilio tre giorni prima del
trattamento: in caso di depilazione con ceretta sarebbero opportuni tempi
leggermente più lunghi. Il numero delle sedute è generalmente compreso tra 6 e 9
sedute essendo di norma minore nei soggetti con fototipo più scuro. Anche le energie
impiegate variano in funzione del fototipo e del laser impiegato (ad esempio 30J/cm²
nei soggetti scuri e 45-60J/cm² nei soggetti chiari per il Nd:Yag laser). Il dolore che
si associa alle alte energie è generalmente ben tollerato sia per l’utilizzo del sistema
di refrigerazione che per la notevole motivazione dei soggetti in cura. Refrigerare il
campo operativo è fondamentale anche per ridurre l’incidenza degli effetti
collaterali. Il trattamento con il laser determina
certamente un miglioramento del quadro clinico sia in
termini di riduzione quantitativa dei peli che del loro
spessore. La percentuale di rarefazione dei peli
superflui (10-15% a seduta) è stata stimata tra il 30 ed
il 75% e dipende ovviamente dal tipo di sorgente
impiegata e dal fototipo. Il follow up medio a 18 mesi dimostra risultati stabili.
L'utilizzo della fototerapia nella psoriasi con radiazioni ultraviolette A (UVA)
impiegate da sole o in associazione con psoraleni (PUVA) e/o retinoidi (RePUVA) è
ampiamente conosciuta ed è ritenuta valida seppure con le limitazioni dovute alla
possibile insorgenza di effetti collaterali come la carcinogenesi cutanea. L'impiego
delle radiazioni UVB ha rivoluzionato il trattamento fototerapico nella malattia
psoriasica grazie anche alla messa a punto di apparecchi ad azione selettiva in grado
di ottenere bande di emissioni sempre più ristrette e dunque piùefficaci così come la
possibilità di combinare terapie fisiche e farmacologiche (psoraleni, ciclosporina,
etc.) ha consentito di ridurre la concentrazione cumulativa di UVB limitando la
tossicità dei farmaci stessi. Nell'ambito delle radiazioni ultraviolette di tipo B, il
trattamento con la luce monocromatica ad eccimeri a 308 nm (MEL) rappresenta una
delle novità terapeutiche più recenti in grado di offrire eccellenti risposte cliniche
sulla base di una drastica diminuzione dei livelli di citochine infiammatorie sulla cute
psoriasica. A conclusione di tutto quanto sopra riteniamo opportune alcune
considerazioni sulle complicanze e sui rischi correlati all'utilizzo dei sistemi laser.
Ipopigmentazioni, iperpigmentazioni, cicatrici patologiche o depresse, infezioni,
insuccessi, sono eventi indesiderati ma che sono purtroppo parte integrante della

140
Laserchirurgia cutanea

laserchirurgia cutanea e sono presenti in percentuale variabile in tutti i follow up ma


possono diventare rilevanti e gravi con un approccio empirico e grossolano al sistema
laser. Altrettanto importante è la conoscenza dei rischi legati al raggio laser ovvero
delle norme di sicurezza parte integrante di un centro di chirurgia laser e non
possono essere sottaciuti i pericoli derivanti dai fumi di origine chirurgica. Tra i rischi
possibili i più pericolosi sono le lesioni oculari: i sistemi laser infatti possono essere
altamente dannosi per gli occhi anche con brevi esposizioni ad un raggio diretto o
riflesso. Il laser ad anidride carbonica, ad esempio, è selettivo per l'acqua e
pertanto lo strato lacrimale che copre la cornea assorbe prontamente un raggio
vagante con una inevitabile, immediata ma transitoria ustione corneale mentre altri
apparecchi come il Nd:YAG, il KTP, il Dye, etc. per le loro specifiche caratteristiche
fisiche riescono a superare la barriera iniziale di acqua ed il cristallino umano
rifocalizza e rafforza l'energia in entrata dirigendola a densità di potenza elevata
verso il segmento posteriore dove la retina, la macula e la fovea possono subire danni
gravi ed irreversibili. Non possono, infine, essere sottaciuti i pericoli derivanti dai
fumi: la ricerca ha dimostrato che, a prescindere dalla fonte di energia, il fumo
chirurgico contiene sempre carbonio (mutageno), sangue e microrganismi patogeni in
esso contenuti ed una serie di gas tossici tra cui benzene, formaldeide ed acroleina:
studi specifici hanno anche segnalato che durante la vaporizzazione tissutale con il
CO2 nei fumi sono presenti particolari nocivi tra cui vi rioni intatti e DNA virale ov-
vero DNA provirale del virus HIV anche se incapaci di riprodursi forse per la stessa,
specifica azione del raggio laser.

141
L’invecchiamento cutaneo

L’INVECCHIAMENTO CUTANEO

I sistemi viventi sono il frutto di una rete integrata


di funzioni come sviluppo, differenziazione,
crescita, difesa, riproduzione, invecchiamento e
morte. L’invecchiamento è un processo graduale
che coinvolge ogni parte dell’organismo,
provocando una alterazione nella funzionalità di
tutti gli organi e una riduzione della loro capacità di conservazione. Tale processo si
verifica a livello cellulare e rispetta un programma geneticamente determinato, i
geni coinvolti, comunque, non sono stati del tutto identificati. La perdita di funzione
delle cellule e degli organi dipende non solo da un programma geneticamente
determinato ma anche dall’accumulo di danni provocati dall’ambiente. Molti studiosi
sostengono, infatti, che l’invecchiamento degli esseri viventi derivi più dalla loro
interazione con l’ambiente che dalla inevitabile conseguenza di una fatalità
preprogrammata. In un’altra definizione l’invecchiamento è infatti considerato come
il frutto dell’accumulo di danni molecolari nel corso della vita. Il patrimonio genetico
gioca comunque un ruolo fondamentale sulla velocità d’invecchiamento e sulla
durata di vita di un organismo, in quanto i fattori ambientali avranno effetti
differenti su due individui che presentano patrimoni genetici diversi. La ricerca
scientifica nella biologia molecolare e nella immunologia cellulare ha permesso di
migliorare le conoscenze nel processo d’invecchiamento. La cute è l’organo in cui
l’invecchiamento è maggiormente influenzato dai fattori genetici e ambientali e
soprattutto è la sede in cui l’interazione di tali fattori diventa molto stretta.
L’invecchiamento cutaneo è un processo complesso ed è associato a cambiamenti
morfologici e chimici. L’epidermide umana subisce durante l’invecchiamento
significative alterazioni strutturali. Si assiste ad un assottigliamento epidermico del
10-50% nelle zone non esposte a fattori ambientali nei soggetti tra i 30 e gli 80 anni
di età, tale atrofia epidermica influenza soprattutto lo strato cellulare spinoso. I
cambiamenti maggiori, comunque, si verificano entro lo strato basale che
rappresenta la sede delle cellule germinative ed in particolare vede coinvolte due
sottopopolazioni: le cellule staminali epidermiche e quelle in attiva proliferazione.
Le cellule basali mostrano una grande eterogeneità nella grandezza con un
complessivo aumento di volume. Si assiste inoltre ad una riduzione del 35% della

142
L’invecchiamento cutaneo

superficie di contatto tra il derma e l’epidermide a causa dell’indebolimento delle


giunzioni dermo-epidermide. Tutti questi cambiamenti determinano la cosiddetta
“discrasia epidermica” caratterizzata da una diminuita attività mitotica, aumento
della durata del ciclo cellulare e del tempo di migrazione dallo strato basale allo
strato corneo. L’invecchiamento dell’epidermide viene spesso messo in relazione con
la carcinogenesi, con l’immunosorveglianza, con l’infiammazione e con la funzione di
barriera. La ridotta capacità da parte delle cellule di dividersi e quindi di essere
insensibili a stimoli mitogenici ha indotto a considerare la senescenza replicativa
come un meccanismo di prevenzione al cancro. A tale proposito può apparire
paradossale una considerazione: l’invecchiamento epidermico predispone allo
sviluppo del cancro. La senescenza replicativa è mantenuta da tre molecole
fondamentali: la proteina inibitoria p16 che deattiva il complesso CdK4/ciclica D, la
proteina p53, coinvolta in molti processi cellulari tra cui il riparo del DNA e la morte
cellulare programmata e la telomerasi che attivamente rigenera i telomeri
cromosomiali, strutture nucleari che si accorciano ad ogni divisione cellulare. Le
cellule senescenti d’altronde sono caratterizzate da una aumentata resistenza
all’apoptosi, in tal modo sono in grado di sopravvivere per periodi anche lunghi senza
dividersi o morire, consentendo ai danni al DNA o alle proteine di accumularsi.
Nella cute invecchiata quindi si verificano:
 progressivo accumulo di proteine e lipidi danneggiati dal punto di vista ossidativo,
evento che scaturisce soprattutto da una riduzione dei meccanismi anti-ossidanti;
 riduzione dei meccanismi di riparo del DNA evento che genera instabilità genetica
e velocità di mutazione.
L’accumulo di mutazioni al DNA o di proteine danneggiate fa in modo che nelle
cellule senescenti si giunga, pur lentamente, al punto di trasformazione neoplastica
situazione in cui la cellula diviene immortale. I processi d’invecchiamento sono stati
rilevati anche in altri tipi cellulari dell’epidermide.
Melanociti - Il numero di melanociti diminuisce del 8-20% per ogni decade dopo i 30
anni e inoltre si verifica una eterogeneità delle loro caratteristiche morfologiche e
funzionali.
Cellule di Langerhans – Sono le cellule presentanti l’antigene più importanti nella
pelle. Nei soggetti anziani tali cellule si riducono significativamente di numero e
mostrano alterazioni morfologiche (minore formazione di dendriti e ridotta capacità
di captare l’antigene). La funzionalità danneggiata di queste cellule potrebbe
spiegare la diminuita funzione immunitaria della cute nei soggetti anziani. Le fibre
elastiche, il collagene, i fibroblasti e la matrice extracellulare sono i costituenti

143
L’invecchiamento cutaneo

principali del derma e quelli maggiormente esposti ai fattori dell’invecchiamento. Il


collagene è il maggior costituente del derma rappresentando il 75% del peso secco, le
sue fibre considerate come l’impalcatura strutturale della pelle, instaurano tra loro
dei legami che recano alla cute stabilità e resistenza alla rottura. L’invecchiamento
comporta una rigidezza cutanea e un aumento di legami tra le stesse fibre di
collagene. Due importanti meccanismi sono alla base di tali fenomeni: processi
controllati da enzimi, che sono coinvolti nello sviluppo e nella maturazione e processi
non enzimatici di glicosilazione che seguono la maturazione del tessuto. Il
meccanismo del primo tipo converte i legami immaturi tra le fibre di collagene
rendendo le strutture mature e stabili, mentre il secondo meccanismo porta alla
formazione di prodotti finali di glicosilazione. Tali prodotti possono recare danno
molecolare in quanto sono in grado di formare legami con proteine a lunga vita come
il collagene. L’invecchiamento cutaneo è comunemente associato ad un aumentato
raggrinzimento della pelle, alla formazione di pieghe cutanee e ad un generale
rilassamento tissutale. Nel considerare le ragioni che hanno indotto tali cambiamenti
è necessario distinguere l’invecchiamento biologico, geneticamente determinato, da
quello indotto da fattori ambientali (esposizione al sole). Nel primo caso si parla di
processo intrinseco, nel secondo di processo estrinseco. Benché l’eziologia tra tali
meccanismi è molto diversa, alcuni cambiamenti dannosi (distruttivi o deleteri)
osservati nella pelle invecchiata protetta dal sole, sono similari a quelli che
caratterizzano la pelle foto-esposta. Comunque, in quest’ultima condizione, i
processi comuni sono sovrimposti con cambiamenti specifici in risposta a radiazione
UV, includendo pesante elastosi e degenerazione di collagene.
Invecchiamento intrinseco
Il processo dell’invecchiamento intrinseco nella cute è simile a quello che si verifica
nella maggior parte degli organi interni e che coinvolge un lento deterioramento
della loro funzione. In generale nel tessuto cutaneo l’epidermide, diventa
strutturalmente più sottile e i corneociti sono meno aderenti l’uno all’altro, il
numero e la capacità biosintetica dei fibroblasti si riduce. L’avanzare dell’età
provoca inoltre alterazioni nelle fibre di collagene, nell’elastina e in altri costituenti
della matrice extracellulare, per esempio:
 le fasce di collagene si orientano in modo casuale e si riducono di numero;
 le fibre di elastina mostrano segni di elastolisi, l’espressione del gene
dell’elastina si riduce con progressiva scomparsa di tessuto elastico nel derma
papillare;

144
L’invecchiamento cutaneo

 i proteoglicani rappresentano un costituente della matrice extracellulare


importante per la fisiologia della pelle, benché presenti in quantità minore rispetto
al collagene. La decorina è un piccolo proteoglicano che forma legami con il
collagene di tipo I e la cui distruzione comporta fibrille di collagene anormali e
riduzione nella resistenza alla rottura. La pelle umana adulta contiene una forma
troncata di decorina considerata come un suo frammento catabolico. Tale forma ha
un’affinità con il collagene enormemente inferiore rispetto alla forma normale ciò
potrebbe contribuire alla instabilità della pelle.
L’invecchiamento cutaneo biologico deriva da una combinazione di tre eventi
fondamentali:
 ridotta capacità proliferativa delle cellule;
 diminuita sintesi di matrice nel derma;
 aumentata espressione di enzimi che degradano la matrice.
Teoria della senescenza cellulare
La senescenza cellulare cioè la ridotta capacità delle cellule (cheratinociti,
fibroblasti e melanociti) di duplicarsi coinvolge l’arresto della crescita cellulare nella
fase G1 del ciclo cellulare e la non possibilità di rientrare nella fase S in presenza di
stimoli mitogenici. Tali fenomeni sono dovuti ad una repressione di quei geni
regolatori della crescita importanti per la progressione del ciclo cellulare e per la
sintesi di DNA. I regolatori negativi della crescita sono sovraespressi, includendo p21
e p16, noti inibitori delle proteinchinasi dipendenti dalla ciclina. Nelle cellule
senescenti è possibile osservare oltre un arresto irreversibile della crescita anche
resistenza alla morte per apoptosi e alterate funzioni di differenziazione. Si verifica
quindi, l’accumulo di cellule senescenti con alterata espressione genica e alterato
fenotipo che potrebbero eventualmente giustificare la ridotta funzionalità e integrità
del tessuto, tipiche caratteristiche dell’invecchiamento.
L’alterata funzionalità tissutale spiegherebbe almeno in parte i cambiamenti
osservati nella matrice della cute invecchiata. Nei fibroblasti presenescenti, infatti,
l’attività degli enzimi degradanti la matrice extracellulare come la collagenasi
(MMP1) e la stromielisina (MMP3) è presente a livelli molto bassi, mentre gli inibitori
delle metalloproteasi della matrice (TIMP1 e TIMP3) sono espressi ad alti livelli.
Questi andamenti di espressione vengono completamente invertiti nei fibroblasti
senescenti. Nella pelle degli individui anziani si verifica una diminuzione nella
biosintesi di collagene e tale cambiamento inclinerebbe la cellula da un fenotipo che
produce matrice ad uno che la degrada contribuendo alla riduzione e
disorganizzazione del collagene. Accanto a tali fenomeni si rileva una ridotta

145
L’invecchiamento cutaneo

espressione del gene per l’elastina che determina la scomparsa del tessuto elastico
nel derma.
Teoria dello stress ossidativo
Lo stress ossidativo costituisce una teoria, relativa all’invecchiamento, alternativa a
quella della senescenza cellulare. Il programma genetico alla base
dell’invecchiamento cutaneo biologico è caratterizzato da geni sensibili allo stato
redox della cellula, ciò suggerisce che l’invecchiamento è fortemente influenzato da
stress ossidativi. E’ noto che l’epidermide possiede una attività antiossidante
estremamente efficiente e superiore a quella rilevata in molti tessuti. La riduzione di
tale efficienza è stata proposta come fattore importante per l’invecchiamento.
Comunque, il ruolo della ridotta capacità antiossidante nella pelle invecchiata è
ancora molto controverso. Da una parte, in tale condizione, molti studi scientifici
descrivono una riduzione di alcuni enzimi come Cu, Zn-superossidodismutasi (SOD),
catalasi e glutatione per ossidasi, dall’altra altri suggeriscono che l’invecchiamento
cutaneo non sia dovuto ad un generale declino nella capacità antiossidante.
Comunque tutti sono concordi nel sostenere che l’accumulo di radicali liberi durante
la vita molto probabilmente promuove l’invecchiamento cellulare poiché i
meccanismi cosiddetti “scavenging” (spazzini), non sono efficienti al 100% ad ogni
stadio della vita. Tale considerazione è sostenuta da un recente studio in cui è
dimostrata la maggiore vulnerabilità di fibroblasti provenienti da soggetti anziani alla
presenza di proteine ossidate generate da stress ossidativo e la loro incapacità nel
rimuoverle efficientemente quanto i fibroblasti di soggetti giovani.
Invecchiamento estrinseco
L’accumulo di danni provocati dall’interazione con fattori ambientali (per es.
esposizione all’umidità per l’inizio della osteoartrosi) o dallo stile di vita (per es.
mancanza di esercizio per l’invecchiamento del muscolo scheletrico) può essere
definito come invecchiamento accelerato o estrinseco. Negli organismi superiori, in
particolare nell’uomo, l’invecchiamento cutaneo è molto legato allo stile di vita.
Sono stati identificati molti fattori che intervengono a tale proposito: radiazione
solare, infezioni di microrganismi, forze gravitazionali, campi elettromagnetici,
alimentazione, stress psicologici, fumo di sigarette e altri inquinanti aerei, anossia,
ferite e traumi. L’invecchiamento estrinseco è un processo biologico complesso che
coinvolge i vari strati della pelle con danni maggiori a carico del tessuto connettivo
del derma. Tale forma (tipologia) d’invecchiamento risulta principalmente dovuto
all’esposizione alla luce ultravioletta e per tale motivo è chiamato anche
fotoinvecchiamento (photoageing).

146
L’invecchiamento cutaneo

Dal punto di vista clinico il fotoinvecchiamento è caratterizzato da perdita di


elasticità, aumento di rugosità e secchezza, pigmentazione irregolare, profondo
raggrinzimento (corrugamento), formazione di vesciche e ridotta guarigione di ferite.
I tre principali componenti del derma, collagene, elastina e glicosamminoglicani, già
coinvolti nell’invecchiamento intrinseco, sono protagonisti anche di quello
estrinseco.
 Il segnale istopatologico maggiore (più importante) del fotoinvecchiamento è il
pesante accumulo di materiale cosiddetto elastotico nel derma superiore e mediano.
In tale materiale si ritrovano i componenti della matrice extracellulare che pur
costituendo il network di fibre elastiche normale, presentano in queste circostanze
una organizzazione strutturale e una funzionalità notevolmente modificate. La
degradazione delle fibre elastiche presenti e la disregolata produzione di elastina e
fibrillina cooperano probabilmente nella formazione del materiale elastotico.
-La degradazione delle fibre elastiche è attribuibile all’aumentata attività
dell’elastasi dermica, proveniente dall’infiltrato infiammatorio di neutrofili e anche
dagli stessi fibroblasti dermici in risposta alla radiazione acuta UV. Dal punto di vista
istochimico, è chiaramente evidente una deplezione di microfibrille intatte e fibre
elastiche nella cute fotodanneggiata. La deposizione di nuovo materiale è un evento
che può verificarsi dal momento che è stata rilevata un’aumentata espressione dei
geni per l’elastina e per la fibrillina nella cute fotodanneggiata. Il materiale prodotto
è chiaramente non funzionale e contribuisce alla formazione della massa amorfa
tipica della pelle invecchiata.
 Il sistema di fibre collagene, includendo il collagene di tipo 1 e la decorina è
downregolato nella pelle fotodanneggiata. Infatti alla ridotta produzione di collagene
si unisce la degenerazione dell’ambiente circostante ad opera di particolari enzimi.
Numerosi dati di letteratura sostengono che la riduzione nel contenuto di collagene è
dovuta ad una aumentata degradazione. E’ stato inoltre dimostrato in vitro che
l’accumulo di collagene degradato ha la capacità di ridurre l’attività proliferativa dei
fibroblasti e la sintesi di collagene.
 Gli enzimi ritenuti importanti nella degradazione della matrice nella pelle
appartengono alla grande famiglia delle metalloproteasi (MMP).
L’espressione di tali enzimi è indotta da radiazioni UV. Le azioni combinate di 4
principali metalloproteasi:
 Collagenasi (MMP1);
 Gelatinasi di 92 kDa (MMP2);
 Gelatinasi di 72 kDa (MMP9);

147
L’invecchiamento cutaneo

 Stromielina 1 (MMP3);
sono in grado di degradare il collagene della pelle e il sistema elastico.
Nella pelle normale l’espressione basale di questi enzimi è relativamente bassa e può
essere marcatamente aumentata dall’irradiazione con raggi UV sia in vivo sia in
prove in vitro. La degradazione della matrice dermica non giustifica da sola i
numerosi cambiamenti che appaiono nella cute fotodanneggiata. Un’altra probabile
causa origina da difetti nei processi di riparo, tali difetti possono portare ad
alterazioni permanenti nella struttura e nell’organizzazione delle fibre di collagene e
di elastina e influenzare fortemente le proprietà biochimiche della pelle. Da tempo è
stata ben documentata l’influenza che l’età può esercitare sulla velocità di
guarigione di una ferita e molti dei meccanismi descritti potrebbero risultare
coinvolti anche nei processi di riparo della cute in seguito a danno da radiazione UV.
E’ importante sottolineare che i due processi di invecchiamento (intrinseco ed
estrinseco), hanno sia effetti quantitativi che qualitativi sulle fibre di collagene e di
elastina nella pelle. La deficienza di collagene che si verifica in tali processi è però
dovuta a meccanismi significativamente differenti. Nell’invecchiamento intrinseco si
assiste ad una ridotta sintesi di collagene e ad una aumentata espressione di
metalloproteasi. Nell’invecchiamento estrinseco la radiazione UV induce la sintesi di
collagene ma l’espressione delle MMP è così alta che la degradazione del collagene
risulta essere più evidente (oppure risulta avere il peso maggiore). Si può quindi
concludere che il bilancio tra sintesi di collagene e degradazione, che è alla base
della deficienza di collagene è differente nella pelle invecchiata naturalmente e in
quella fotoinvecchiata. Alcune anormalità come il collagene frammentato e
raggruppato, tipiche della pelle esposta a radiazione UV, sono osservate anche nella
pelle protetta dal sole nell’invecchiamento cronologico. Altre, invece, come
l’accumulo di materiale elastotico e altri detriti acellulari, non sono osservate in
modo rilevante nella pelle invecchiata ma protetta dal sole.
Teoria del modello micro-infiammatorio dell’invecchiamento
Nel 1996 fu proposto il modello micro-infiammatorio dell’invecchiamento della pelle.
Nel corso dello studio di tale modello fu osservato che tutti quei fattori tipici
dell’invecchiamento avevano la capacità di indurre la sintesi di ICAM-1
nell’endotelio. Ciò suggerisce che tutti quei fattori in grado di accelerare
l’invecchiamento, hanno la capacità di innescare una forma di risposta infiammatoria
che si auto-mantiene. Il modello permette di riconoscere nuovi fattori
dell’invecchiamento e di presagire se una particolare aggressione alla pelle potrà

148
L’invecchiamento cutaneo

innescare la sintesi di ICAM-1 nell’endotelio. In base a questo modello si potrebbero


anche considerare interventi per ridurre la velocità d’invecchiamento.
Invecchiamento e Ormoni
La cute è spesso considerata come una ghiandola endocrina in ragione della sua alta
attività ormonale (Labrie et al 2000). Gli ormoni trovati nella pella umana sono la
melatonina e l’ormone anti-stress DHEA. Quest’ultimo è convertito in metaboliti
simili ad estrogeni e androgeni ritrovabili solo nella pelle. L’effetto più importante
degli estrogeni consiste nello stimolare il collagene e l’acido ialuronico, noto fattore
d’idratazione (d’umidità). L’invecchiamento comporta una riduzione non solo di
estrogeni e collagene, ma anche di enzimi necessari per la conversione del DHEA. E’
importante sottolineare che le donne trattate con estrogeni sintetici mostrano una
pelle più soda. Altri effetti positivi del DHEA sono legati alla sua azione protettiva
sulla pelle. Uno studio recente ha dimostrato, a tale proposito, che il DHEA applicato
topicamente è in grado di proteggere i delicati vasi sanguigni della pelle,
preservando la salute della pelle stessa. Il meccanismo attraverso il quale il DEHA
salvaguarda la cute non è noto, ma senza dubbio la sua attività anti-infiammatoria
può rivestire un ruolo importante in tale direzione.
Invecchiamento e Stress Ossidativo
 I processi ossidativi e i radicali liberi (conducono all’accumulo) rappresentano le
principali cause sottostanti l’accumulo di danno cellulare (Wenk et al 2001; Kohen
1999). Molti studiosi sono concordi nel credere che la teoria dei radicali liberi, valida
per molte malattie, possa essere applicata anche all’invecchiamento cutaneo. I
radicali liberi sono piccole molecole instabili generate da un ambiente fortemente
ossigenato, in cui è richiesta l’azione stabilizzatrice di un sistema anti-ossidante.
La pelle di soggetti giovani al pari (di quella) dei soggetti anziani è esposta a
numerosi stimoli che inducono danno cellulare, ma nei primi c’è sufficiente energia
per riparare eventuali danni al DNA, per promuovere il rinnovo cellulare e inoltre in
tali soggetti sono prontamente disponibile gli enzimi con attività anti-ossidante come
SOD e catalasi. L’invecchiamento comporta una diminuzione di energia per il riparo e
il rinnovo cellulare e gli stessi enzimi anti-ossidanti sono meno disponibili.
L’esposizione alla radiazione solare genera radicali liberi nella pelle e le aree
cronicamente esposte al sole (mani, viso, collo e braccia) sono quelle in cui
l’invecchiamento è più evidente.
Il collagene, importante proteina della pelle, è suscettibile al danno provocato dai
radicali liberi, danno che comporta la rottura della molecola e la diversa formazione
di nuovi legami. La conferma del ruolo dei radicali liberi nell’invecchiamento

149
L’invecchiamento cutaneo

cutaneo deriva dall’evidenza che l’applicazione topica di anti-ossidanti conferisce


una significativa protezione e anche parziale inversione di alcuni aspetti
dell’invecchiamento.
Invecchiamento e Prevenzione
La salute della pelle, concomitantemente al passare del tempo, è mantenuta
applicando sostanze a livello topico, ma anche mediante interventi dall’interno con
una corretta alimentazione. Gli acidi grassi essenziali, anti-ossidanti e altre sostanze
contenute negli alimenti sono fondamentali nel mantenere la pelle sana. Cibi ricchi
di RNA (sardine, tonno e legumi) aiutano a migliorare l’energia cellulare, cibi ricchi
di anti-ossidanti (frutta, vegetali e tea verde) proteggono dal danno ossidativo e dai
radicali liberi. Una protezione migliore può essere ottenuta anche mediante
l’ingestione di supplementi alimentari come vitamina A, C, E, selenio, vitamine del
gruppo B, zinco, rame e manganese. Gli anti-ossidanti comunque risultano essere
maggiormente efficienti quando sono applicati topicamente, in particolare è stato
dimostrato che la loro applicazione prima dell’esposizione alla radiazione solare ha
effetti protettivi maggiori. La vitamina C, importante perché inibisce l’attività dei
radicali liberi, è anche richiesta per la sintesi di collagene, sintesi che declina nel
corso della vita. L’applicazione topica di vitamina C, con un mezzo che attraversa la
pelle, può aumentare la disponibilità di tale sostanza per la produzione di collagene.
La vitamina C, inoltre, è in grado di rigenerare la vitamina E rendendola capace di
svolgere una azione anti-ossidante protettiva nelle fibre di elastina della pelle.
Acido α-lipoico. E' un anti-ossidante in grado di potenziare gli effetti benefici di altri
anti-ossidanti.
α e β idrossi acidi -acido glicolico e acido salicilico. Sono sostanze, note da circa
vent’anni, in grado di migliorare la qualità della pelle grazie alla loro azione
esfoliante. L’esfoliazione rimuove le cellule morte dalla superficie in modo che le
cellule nuove e giovani si rendono visibili. Le sostanze idrossi sono ottime anche
come stimolatori della produzione di collagene e della crescita.
Dimetilaminoetanolo (DMAE). L’invecchiamento provoca un avvallamento del tessuto
cutaneo in seguito alla distruzione delle strutture di supporto della pelle come
collagene ed elastina. Dati recenti di letteratura dimostrano che il DMAE ha la
capacità di fermare l’avvallamento cutaneo in quanto funziona come stabilizzatore
delle membrane cellulari.
Tossina del Botulino. Il Botox è una soluzione diluita della tossina botulinica di tipo
A. Negli ultimi dieci anni tale preparato viene utilizzato nell’uomo per migliorare le
linee d’espressione e le rughe del viso.

150
L’invecchiamento cutaneo

Le rughe
La ruga può essere definita come un solco lineare permanente della pelle, di
profondita' variabile. In base ad una classificazione causale si distinguono:
- rughe di espressione
- rughe gravitazionali
- rughe attiniche
- pieghe da sonno
Le rughe di espressione o muscolo-mimiche
Sono quei solchi che si formano sulla cute del volto a causa della trazione ripetitiva
esercitata dai muscoli mimici. Sono piu' evidenti nei soggetti che fanno largo uso
della mimica facciale, sono piu' marcate in alcune sedi o dal lato piu' usato per
l'espressione. Gia' all'eta' di 30 anni sono ben visibili e diventano progressivamente
piu' profonde ed infine permanenti. Distinguiamo le seguenti rughe e i muscoli mimici
corrispondenti:
 frontali orizzontali: muscolo frontale (mimica dell'attenzione)
 glabellari verticali: muscoli corrugatori sopracciliari, orbicolari dell'occhio,
procero (mimica della concentrazione)
 glabellari orizzontali: procero
 perioculari sottorbitarie e del canto esterno, "a zampa di gallina": muscolo
orbicolare dell'occhio
 superiore e m. zigomatici (sorriso e mimica della gioia) operilabiali radiali:
muscolo orbicolare della bocca o labio-geniene: muscoli triangolari delle labbra e
muscoli mentonier (mimica della tristezza)
 trasversali del collo: muscolo platisma.
Le rughe gravitazionali o pieghe di lassita' cutaneo-muscolare
Compaiono quando le fibre elastiche e i fasci di collagene alterati del derma non
sono piu' in grado di controbilanciare la forza di gravita'. Diventano sempre piu'
evidenti con la progressiva ipotrofia delle strutture di sostegno
(cronoinvecchiamento). Comprendono:
 i solchi naso-genieni, secondari allo "scivolamento" del tessuto adiposo e della
cute
 le rughe labio-geniene accentuate dall'abbassamento degli angoli della bocca
 blefarocalasi e ptosi delle sopracciglia
 "borsette" latero-mentoniere e "doppio mento" per riduzione di volume del III
inferiore del volto.

151
L’invecchiamento cutaneo

Le rughe attiniche
Sono dovute al danno cumulativo esercitato dalla radiazione solare sulle fibre
elastiche (elastosi solare) e collagene. Sono presenti nelle regioni fotoesposte.
Nell'adulto sono poco evidenti, compaiono precocemente nei soggetti con fototipo 1
e 2 esposti ripetutamente e per periodi prolungati alle radiazioni UV naturali o
artificiali. Corrispondono a una piu' o meno marcata accentuazione della tramatura
cutanea che determina un quadro di sottili rughe diffuse, con cute "corrugata", "a
pergamena", o, in stadio avanzato, " a tessuto sgualcito" a causa dell'estrema perdita
di elasticita' della pelle.
Le pieghe da sonno
Sono unilaterali e determinate dalla postura notturna prevalente. Generalmente
intersecano altre rughe e sono localizzate a livello frontale o fronto-temporale
nell'uomo, e a livello delle guance nella donna. Inizialmente sono reversibili,
scompaiono variando la postura; successivamente, tendono a divenire
progressivamente permanenti. Al fine di individuare il trattamento correttivo piu'
adeguato per ogni singola ruga, e' fondamentale un'accurata valutazione dei fattori
causali determinanti la sua formazione.

152
Argomenti di chirurgia estetica

ARGOMENTI DI CHIRURGIA ESTETICA

La Chirurgia Plastica è quella branca della chirurgia interessata al riparo di


malformazioni o difetti di natura congenita o acquisita. La chirurgia riparativa,
ricostruttiva e correttiva o estetica si avvale del termine " plastico ", da plasmare,
che esprime una funzione chirurgica ma che lascia indeterminato il concetto
limitativo anatomico della specialità. Dalla sua denominazione infatti è impossibile
stabilire quali tipi di lesione, quali alterazioni anatomiche e funzionali sono
elettivamente di competenza di questa antica ed allo stesso tempo moderna
disciplina chirurgica. I limiti di competenza territoriale sono omessi nella definizione
della chirurgia plastica perché non esiste territorio di superficie del nostro organismo
in cui non possa svolgere la sua azione terapeutica. Non è dunque chirurgia d'organo
o di distretto ma di tutto il corpo, non è chirurgia che si caratterizzi per la specificità
delle tecniche ma per la peculiarità degli intenti ovvero ricondurre quanto appare
deviato entro i confini della normalità, con il ripristino anche della funzione che le
anomalie di forma possono determinare. È da tale convincimento, per cui normalità e
bellezza morfologica costituiscono concetti innati e universali, che trae il sostegno
una vecchia semplicistica convinzione secondo cui in Chirurgia Plastica il momento
della diagnosi sarebbe privo di difficoltà perché un’anomalia di forme e volumi
sarebbe chiaramente valutabile "al primo sguardo". In realtà è sufficiente ipotizzare
un programma chirurgico di correzione dell'aspetto per rendersi conto della
complessità dell'inquadramento del problema "difformità morfologica" che è
risolvibile solo cercando di ricondurre le singole strutture alterate il più vicino
possibile alla perfezione anatomica nel rispetto dei rapporti armonici reciproci previa
una minuziosa analisi delle deviazioni osservate. In Chirurgia Plastica il momento
centrale per cui è richiesta la massima competenza non è probabilmente quello della
esecuzione tecnica bensì quello della pianificazione operatoria vale a dire la scelta
del protocollo chirurgico e,quando sia necessaria una sequenza di interventi,la loro
collocazione temporale che può essere di settimane, mesi o anche anni. Un'altra
delle peculiarità della Chirurgia Plastica è il fattore tempo nel cui ambito e
relativamente al quale vanno considerati sia la chirurgia che il risultato. Col
trascorrere del tempo avvengono due fenomeni biologici obbligati:
a) il paziente evolve per il naturale processo di maturazione ed invecchiamento
modificando il composto fisiognomico e la struttura corporea;

153
Argomenti di chirurgia estetica

b) i tessuti traumatizzati dalla chirurgia subiscono mutamenti anatomici intrinseci


con conseguenti alterazioni morfologiche e del comportamento biologico senza
dimenticare la cicatrice che evolve anch'essa ipotecando il risultato finale. Per
questa sua particolare correlazione con il fattore tempo, la Chirurgia Plastica è stata
con saggezza definita da G.Sanvenero-Rosselli "chirurgia a quattro dimensioni". Sulla
base di tali considerazioni scaturisce un problema teoretico solo apparentemente
semplice: che cosa è la normalità morfologica o dell’aspetto?
Dai tempi più antichi, filosofi, artisti e biologi si sono impegnati per dare una
risposta a questo interrogativo: basti ripensare il concetto di canone estetico
dell'arte ellenica, romana, medievale, rinascimentale o gli studi di geometria
applicata alla forma umana di Leonardo o gli scritti di antropometria e fisiognomica
del XIX e del XX secolo nonché le problematiche connesse con l'esistenza delle
diverse etnie. Dalla “definizione della normalità" si passa automaticamente al
problema "definizione della bellezza" che della normalità dovrebbe rappresentare la
quintessenza, la massima espressione. La bellezza morfologica, pur nella sua attuale
indefinibilità, sembra essere un concetto connaturato alla mente umana e
rispondente, benché a livello inconscio, ai principi dell'armonia matematica che
improntano l'intera architettura dell'universo come noi lo conosciamo. Platone
definiva la bellezza come “quella cosa che tutti sanno cosa sia ma che nessuno riesce
a definire”: il vocabolo è ormai tra quelli più comuni ma viene usato come se si
trattasse di esprimere un valore misurabile e definibile mentre si riferisce solo ed
esclusivamente ad un significato ideale. Quella bellezza di cui parliamo tutti giorni è
nella realtà costretta dai vincoli di certi schemi che non troveremo mai neppure in
quelle persone “di riferimento“ che ci piacciono e che quotidianamente giudichiamo
belle. Le argomentazioni sulla bellezza contenute nelle innumerevoli pagine della
filosofia comune sono talmente tante da annullarsi: il più sofisticato dei computer
non sarebbe in grado di formulare una definizione che le coaguli tutte senza rischiare
di elaborare un compendio prolisso e maniacale. Paradossalmente soltanto la
Chirurgia Correttiva morfodinamica è in grado di proporre un metro di giudizio
capace di fornire un possibile “quanto” del bello abbandonando le congetture del
passato e semplicemente assumendo come unità di misura il "grado di soddisfazione
per il proprio aspetto modificato". E’ dunque necessario ammettere che la ricerca
insensibile della bellezza stia chiusa nel cervello umano come un contenitore capace
di indurre certi popoli ad adornarsi anche in modi dolorosi oppure di spingere le
persone comuni all'uso del tatuaggio, del piercing, del trucco o dei semplici oggetti
ornamentali. Ci sembra dunque chiaro che gli schemi della bellezza individuati fino

154
Argomenti di chirurgia estetica

dall'epoca egiziana ed ognuno dei canoni della letteratura, da Schack a Hogarth fino
a Romm, possono essere utilizzati più come richiamo per l'arte pittorica o scultorea
che per la pratica chirurgica nella quale resterebbero magari soltanto come guida
dimensionale. Coloro che sono soddisfatti delle loro fattezze restano indifferenti agli
stimoli dei confronti esterni e non avranno mai intenzione di modificare il loro "stato
morfologico". Certamente però esistono anche nuove ragioni che spiegano la attuale,
spasmodica ricerca del bello: mentre la tecnica pittorica o scultorea ha espunto per
secoli qualsiasi ipotesi di variabilità di un corpo umano da ritrarre, al contrario i volti
moderni anziché statici o diagrammatici, e quindi collettivi, appaiono fluidi e
mutanti, e dunque individuali, come i personaggi virtuali che sorgono innovati ogni
giorno sulle pagine dei giornali e dei media. Ci sembra dunque necessario ed utile
sostituire il concetto di bellezza con quello di armonia e sia conveniente riferirsi a
quelle “dimensioni proporzionate" di cui si parla nella Chirurgia Plastica considerando
che nessun mezzo elettronico potrebbe estrapolare i significati delle espressioni
"fisionomia attraente“, "atteggiamento elegante”, "distinzione" o "aspetto
piacevole”. Comunque affermare che “bello” è quanto, per aspetto esteriore o per
qualità intrinseche, provoca impressioni gradevoli è corretto ma elude ancora la
definizione del concetto di bellezza in sé e d’altronde persino Platone, nel suo Ippia
Maggiore, riuscì soltanto a rendersi conto della relatività del bello. Procedendo dalla
"non bellezza individuale“ ad una “condizione migliorata”, diversa per ogni soggetto
e delimitata dalla sua soddisfazione, si potrebbe anche credere che il criterio
chirurgico sia il solo a consentire la definizione di "bello" come massimo correttivo
della condizione di "non bello“ ricavata dalla somma dell'intensità della percezione
dell'immagine corporea con il grado di miglioramento estetico atteso ma il Chirurgo
Plastico,a detta di Jack Anderson,deve restare soltanto un buon artigiano anche se il
pubblico talvolta lo incensa come un "artista“: il suo impegno infatti non deve essere
di operare sempre in modo eccezionale bensì di "non operare mai male“. È possibile
altresì che il Chirurgo resti influenzato dalla sua cultura artistica e dal suo senso
della misura ma non potrà mai applicare regole fisse come se si trattasse di disegnare
le linee di prospettiva per una figura geometrica: la Chirurgia Estetica dovrebbe
pertanto essere fondata sui principi generali dell'armonia e della proporzione ma
considerando unico ed irripetibile ogni singolo paziente. La Chirurgia Estetica dunque
riconosce indicazioni esclusivamente soggettive ed ha competenze riconducibili non a
quadri clinici patologici ma a tratti morfologici non graditi al soggetto, compatibili
con la “normalità” ma subordinati a numerose variabili quali il gusto personale, il
profilo psicologico, l’età, la professione, l’ambiente socio-culturale, l’area

155
Argomenti di chirurgia estetica

geografica, etc. In conclusione, dove la natura è stata meno clemente oggi è


possibile rimediare, correggere, migliorare tenendo però bene a mente che le
motivazioni che spingono un individuo sano a sottoporsi ad un intervento sono
esclusivamente psicologiche e strettamente correlate con una conflittualità esistente
tra l’aspetto esteriore e l’immagine interiore del proprio sé: nei casi in cui la
condizione conflittuale è lieve e sostenuta da “motivazioni di realtà” la Chirurgia
Estetica è giustificata e darà, se condotta “lege artis”, ottimi risultati se al contrario
è palese una condizione psicotica con “motivazioni inconsce” sarà più adeguata una
consulenza psichiatrica e non certo una soluzione chirurgica.
Chirurgia estetica del volto
Il naturale processo di invecchiamento umano determina un generale cedimento dei
tessuti che sul viso e sul collo provocano la formazione di pieghe e rughe che
impietosamente dichiarano l'età del soggetto. Questo evento naturale ed inevitabile
è particolarmente mal sopportato dalla nostra società industrializzate in cui ad un
progressivo generalizzato allungamento della vita con un crescente numero di anziani
in buona salute, si contrappongono le leggi della
produttività che tendono ad eliminare dal panorama lavorativo e sociale chi non
possa offrire di sé un'immagine di giovinezza e quindi di dinamismo. Gli interventi
che hanno l'obiettivo di correggere l'invecchiamento del volto sono definiti
ritidoplastiche o ritidectomie o più semplicemente face-lifting e sono in generale
caratterizzati dallo scollamento e distensione dei tessuti molli del viso e del collo. I
costanti aggiornamenti nelle tecniche operatorie trovano opportuna ragione di essere
nelle migliorate conoscenze del distretto cervico-facciale, nell'impiego più idoneo di
parte di un organo o di una struttura e nell'utilizzo di strumenti e strategie
operatorie sempre più sofisticate nel tentativo di ottenere risultati migliori e
soprattutto duraturi nel tempo. Ancora oggi, dunque, il face-lift non trova univocità
di vedute da parte dei chirurghi plastici ed in virtù del gran numero di protocolli
proposti, con relative varianti, continua ad avere connotazioni tecniche differenti:
dalla sola mobilizzazione cutanea alla sospensione fasciale superficiale, dal
sollevamento muscolare allo scollamento sottoperiosteo (facial-mask) fino al più
recente lifting endoscopico.Come tutti gli interventi di chirurgia estetica anche la
ritidoplastica non sfugge alla necessità di un’accurata visita preoperatoria ed un
minuzioso esame obiettivo per una adeguata pianificazione dell'intervento.

156
Argomenti di chirurgia estetica

Classificazione delle alterazioni cervico-facciali (Dedo)

Classe I Minima deformità, angolo cervico-mentoniero ben definito, platisma


tonico, assenza di grasso cervico-mentale.
Classe II Lassità della cute cervicale, iniziale aspetto a tendina, platisma
tonico, assenza di grasso cervico-mentale.
Classe III Accumulo di grasso cervico-mentale.
Classe IV Accentuazione muscolare, (salienza presente a riposo o su
contrazione).
Classe V Retrognatia congenita o acquisita.
Classe VI Osso ioide basso.

Per una migliore chiarezza espositiva riteniamo opportuno ricordare i tre


procedimenti operatori fondamentali:
1) la ritidoplastica cervico-facciale con plicatura o imbricazione delle strutture
fasciali dell'area parotidea-masseterina (ritidoplastica superficiale);
2) la ritidectomia cervico-facciale con sospensione platismatica e facciale
(ritidoplastica profonda);
3) il face-lift sottoperiosteo nelle sue varianti fronto-temporo-zigomatico e trans-
temporale (mask lift).
Le diverse strategie operatorie dunque si differenziano sostanzialmente in base al
piano anatomico dello scollamento mentre la via di accesso è comune e, nella sua
variante allargata, coinvolge la porzione anteriore del cuoio capelluto (incisione
coronale) per prolungarsi successivamente nella regione temporale e retrotragale
(Rees-Woodsmith) fino a circoscrivere per intero il lobo dell’orecchio.
Posteriormente il taglio impegna la convessità del padiglione auricolare per 2-3 mm
dal solco retroauricolare fino alla proiezione del trago per poi procedere con
andamento curvilineo in basso, nella regione occipitale e nel capillizio. Il tempo
chirurgico successivo, rappresentato dallo scollamento, deve genericamente
attenersi all’obbligo di salvaguardare l’integrità dei rami del nervo facciale e del
nervo grande auricolare con il massimo rispetto delle fonti vascolari: la dissezione
sottocutanea (ritidectomia classica o superficiale), particolarmente utile per i
pazienti anziani, libera lembi di cute in eccesso che vengono escissi. Il risultato
finale è dunque legato alla rimozione più o meno generosa della cute ed alla
successiva aderenza cicatriziale tra pelle e sottocutaneo con la formazione di un’
unica unità compatta e liscia. Nella ritididectomia profonda, indicata nei soggetti di
età compresa tra 50 e 60 anni, il piano anatomico della dissezione coinvolge la cute
ed il sistema muscolo-aponeurotico-superficiale (SMAS) che viene isolato ed ancorato
alla fascia masseterina, parotidea, al periostio dell’arcata zigomatica ed alla fascia

157
Argomenti di chirurgia estetica

temporale cui fa seguito il rimodellamento della cute eccedente. Il coinvolgimento


dello SMAS è finalizzato a dare maggiore stabilità alle strutture anatomiche ed un
risultato più duraturo nel tempo. Nella variante allargata subiscono aggiustamenti
anche il muscolo orbicolare dell’occhio e la muscolatura mimica periorale. Il face-lift
sottoperiosteo prevede un piano di scollamento sotto il periostio e dunque un
sollevamento “en bloc” dei tessuti molli soprastanti che, separati dal piano osseo,
vengono ricollocati adeguatamente e nel modo desiderato con suture alle ossa della
regione cranio-facciale ed alla fascia temporale. E’ utile ricordare che il periostio è
un tessuto inestensibile e dunque l’obiettivo della tecnica non è quello di “tirare” i
tessuti ma di consentire un delicato “push up” di riposizionamento. Il protocollo
chirurgico prevede la rimozione solo di piccole quantità di cute ma è in grado di
migliorare considerevolmente i tratti fisionomici e di correggere in modo efficace
anche le principali rughe di espressione (rughe glabellari, solchi nasogenieni). E’
comunque una tecnica aggressiva indicata negli individui in fasce di età ancora
giovani che oltre ai primi segni dell’invecchiamento desiderano anche un sostanziale
cambiamento fisiognomico. La recente introduzione della videochirurgia nella pratica
clinica ha aperto nuovi orizzonti anche nella chirurgia plastica dove giorno dopo
giorno trova nuovi possibili settori di applicazione. Nella esecuzione del lifting
sottoperiosteo, in casi selezionati, l’endoscopio si è dimostrato uno strumento molto
utile permettendo al chirurgo di verificare, con la visione diretta, il piano di
dissezione, i punti anatomici di riferimento, i vasi ed i nervi da salvaguardare, la
realizzazione di manovre mirate e precise utilizzando piccole incisioni (1 cm) in
alternativa alle più tradizionali ed estese vie di accesso. Il problema “neck lift”,
tipico nei pazienti avanti negli anni, è parte integrante di una ritidoplastica ed è
migliorabile con un approccio diretto mediante una piccola incisione nel solco
sottomentoniero per consentire la sintesi dei bordi anteriori del muscolo platisma e
l’exeresi mirata dei cordoni ipertrofici. Nella pianificazione del ringiovanimento del
viso, la ritidectomia può essere associata ad altre differenti procedure “ancillari” tra
cui:
 la blefaroplastica;
 la cheiloplastica additiva;
 la liposuzione;
 il lipofilling;
 il resurfacing.
La blefaroplastica è un intervento correttivo che
può coinvolgere le palpebre superiori, inferiori o entrambe e prevede la rimozione

158
Argomenti di chirurgia estetica

“prudente” della cute in eccesso e dei depositi adiposi, erniati, responsabili delle
inestetiche “borse palpebrali”. Nella bleroplastica superiore l’incisione chirurgica
giace sul solco tarso-orbitale (8-10 mm dal bordo ciliare) ed è quindi ben dissimulata
mentre nella palpebra inferiore decorre a circa 1 mm dal bordo ciliare. Nei soggetti
giovani con borse adipose inferiori può essere utilizzata anche la via
transcongiuntivale che non consente la rimozione della cute eccedente ma non lascia
alcuna cicatrice esterna. La cheiloplastica additiva prevede un insieme di possibilità
tecniche finalizzate all’imbellimento delle labbra prevalentemente nella loro
componente mucosa: le labbra sottili sono infatti genericamente avvertite come
simbolo di vecchiaia e di malvagità. L’aumento del volume può essere ottenuto con
un lipofilling (impianto di tessuto adiposo autologo), con un innesto dermo-adiposo
autologo o con l’utilizzo di fillers di sintesi costituiti da materiali eterologhi
biocompatibili: sono assolutamente da evitare materiali alloplastici “permanenti”
poiché trattandosi di una regione anatomica in continuo movimento e soggetta a
microtraumi ripetuti, sono possibili reazioni infiammatorie con conseguente
innaturale indurimento del tessuto labiale. La liposuzione nel progetto di
ringiovanimento del volto trova una sua precisa collocazione da sola o in associazione
al fece-lift nei pazienti per i quali è necessaria una maggiore definizione delle
guance o la rimozione di tessuto adiposo eccedente nella regione cervicale (doppio
mento). Viene di routine eseguita con delicate manovre di lipoexeresi e cannule di
piccolo diametro (2 mm) per ridurre al minimo il rischio di rimozioni eccessive o
danni alle strutture vascolo-nervose. Il lipofilling è il procedimento chirurgico inverso
rispetto alla lipoaspirazione e prevede il prelievo di tessuto adiposo autologo da
reimpiantare per correggere eventuali perdite di sostanza del sottocutaneo. Nella
chirurgia estetica del volto la tecnica oltre che per la cheiloplastica additiva è utile
per attenuare la depressione dei solchi naso-genieni, delle rughe della regione
gabellare e per ricostituire la bolla del Bichat restituendo al viso la tipica rotondità
giovanile. Il resurfacing comprende un insieme di tecniche ancillari finalizzate al
miglioramento estetico della cute con l’attenuazione o la eliminazione degli
inestetismi superficiali quali photoaging, iperpigmentazioni, rughe sottili,
ipercheratosi. L’obiettivo comune è la distruzione guidata dell’unità epidermide-
derma superficiale e, con la successiva riepitelizzazione, il ripristino di un mantello
cutaneo levigato e giovanile. L’obbiettivo terapeutico può essere raggiunto mediante
peeling chimici profondi (acido tricloroacetico, fenolo), con la dermoabrasione e con
la fotovaporizzazione laser (C02 , Erbium:YAG).

159
Argomenti di chirurgia estetica

Rinoplastica
Nell’ambito della Chirurgia Estetica la rinoplastica è l’intervento maggiormente
richiesto ed al tempo stesso un banco di prova
tra i più impegnativi per il chirurgo plastico. La
perfetta conoscenza dell’anatomia, della
fisiologia, della patologia, delle tecniche
operatorie senza una adeguata e specifica
esperienza personale non rappresentano una
garanzia per pianificare un progetto di modifiche strutturali del naso: la percentuale
di insuccessi (5-7%) registrati nelle casistiche internazionali confermano quanto sia
difficile realizzare un intervento che soddisfi pienamente l’operatore ed il paziente.
Le cause vanno senz’altro ricercate nel panorama veramente complesso delle
deformità della piramide nasale, dalla necessità di avere la padronanza assoluta di
più tecniche chirurgiche e, non ultimo, nella difficoltà oggettiva di apprendere e/o
insegnare la rinoplastica stessa.
La moderna e corretta pianificazione della rinoplastica prevede:
1. il colloquio preoperatorio;
2. lo studio del caso clinico;
3. la scelta e l’ applicazione corretta della strategia terapeutica;
Il colloquio preoperatorio, attento ed analitico, medico-paziente è parte integrante
dell’intervento chirurgico. Definire al meglio la personalità della persona consente al
chirurgo plastico di apprezzare se la richiesta è motivata o dettata da tendenze
inconsce e di valutare l’entità del beneficio sia sul piano estetico che sul piano
psichico.
Studi specifici sull’argomento distinguono le motivazioni in due gruppi principali:
A) Motivazioni inconsce
Questo gruppo comprende soggetti con personalità gravemente disturbata,
psiconevrotici o individui con patologia da “falso sé”, pazienti nei quali la richiesta
parte da motivazioni inconsce, per cui l’insoddisfazione per il proprio aspetto fisico
è un sintomo di disadattamento o di falso riconoscimento al sé corporeo. In queste
circostanze l’intervento chirurgico è sconsigliabile e dannoso poiché i pazienti, nella
maggior parte dei casi, rimangono ancora più frustrati dal proprio aspetto
realizzando tutte le premesse per una grave forma di depressione narcisistica con
sentimenti di vera e propria “rabbia” nei confronti del chirurgo che non li ha
soddisfatti.

160
Argomenti di chirurgia estetica

B) Motivazioni di realtà
Al contrario il secondo gruppo è composto da soggetti con una sintomatologia
strettamente correlata alla deformità nei quali lo stress e l’ansia sono per lo più
legati ad essa, essendo lo stato psicologico disturbato, reattivo ad un difetto fisico
realmente presente e dunque eventuali sentimenti aggressivi nei confronti
dell’operatore si manifestano soltanto in caso di errore tecnico o di profonda
delusione per le loro aspettative reali.
Studio del caso clinico
Con lo studio del caso clinico si entra nella fase operativa del protocollo terapeutico.
Un attento esame obiettivo locale ed una indagine fotografica-morfometrica del viso
sono elementi indispensabili per la formulazione della diagnosi, per la pianificazione
della strategia chirurgica e per la previsione del risultato finale. La valutazione
fisionomica del volto, infatti, non è un’arte libera, frutto semplicemente del senso
artistico del chirurgo ma, al contrario, è fortemente legata a concetti matematici di
misura e di proporzione. Il volto è distinto in 3 terzi: superiore (dalla linea dei capelli
alla glabella), medio (dalla glabella al punto sub-nasale), inferiore (dal punto sub-
nasale al mento) ed in 5 unità estetiche principali (fronte, occhi, naso, labbra,
mento). L’armonia ideale tra le varie componenti è regolata dalla conoscenza di 4
angoli fondamentali: l’angolo naso-frontale (125°-135°), l’angolo naso-facciale (35°-
40°), l’angolo naso-labiale (90°-132°) e l’angolo naso-mentale (120°-132°). Inoltre il
dorso del naso, nella sua visione laterale, è contenuto tra il nasion ed il punto
pronasale, la sua inclinazione è data dall’angolo naso-facciale e la lunghezza ideale è
di 45 mm nelle donne e 49 mm negli uomini.
Scelta ed applicazione corretta della strategia terapeutica
Per la realizzazione della rinoplastica nel corso degli anni sono state messe a punto
numerose tecniche operatorie, ognuna con i suoi vantaggi e svantaggi ma, nel
ribadire la necessità di un bagaglio teorico-pratico il più ampio possibile, è giusto che
il chirurgo plastico si affidi al metodo per il quale “sente” maggiore esperienza,
sicurezza e facilità di esecuzione. La richiesta più comune è quella di ridurre, snellire
il naso e la tecnica chirurgica prevede il rimodellamento completo dell’architettura
osteo-cartilaginea dalla punta al dorso attraverso una incisione vestibolare (la parte
interna delle narici) e dunque non visibile all’esterno. In casi particolari
(reinterventi, soggetti politraumatizzati) può essere utile il metodo “open” che
utilizza una piccola incisione nella columella per realizzare uno scollamento ampio
del rivestimento cutaneo ed una visione diretta delle strutture anatomiche da
correggere. Meno frequente è la rinoplastica “additiva” necessaria nei casi clinici con

161
Argomenti di chirurgia estetica

deficit strutturali della piramide nasale (traumi, infezioni) realizzabile con l’uso di
autoinnesti di osso e/o cartilagine opportunamente modellati ed inseriti nell’area
anatomica carente. Non sempre, infine, la rinoplastica da sola può essere in grado di
restituire un giusto equilibrio armonico al viso ma possono rendersi necessari
aggiustamenti accessori del mento (profiloplastica, genioplastica) e degli zigomi
(malaroplastica).
Otoplastica
Il padiglione auricolare è una complessa struttura caratterizzata da una conchiglia
cartilaginea rivestita da cute sottile. Le malformazioni dell’orecchio esterno
compaiono prevalentemente dal 3° al 6° mese di sviluppo e possono essere
classificate secondo Tanzer in:
 Anotia.
 Ipoplasia completa (microtia) con o senza atresia delmeato acustico interno.
 Ipoplasia del terzo medio dell’orecchio.
 Ipoplasia del terzo superiore dell’orecchio con orecchio contratto (a coppa e
pendente), criptotia ed ipoplasia dell’intero
terzo superiore.
 orecchio prominente o “ad ansa”.
Le orecchie ad ansa possono rappresentare un
grave handicap psicologico nell’infanzia,
nell’adolescenza e nell’età adulta senza distinzione nei due sessi. L’atteggiamento
“a ventola” del padiglione auricolare è determinato da un coacervo di anomalie
prevalentemente caratterizzate da dismorfismi delle pieghe fisiologiche (elice,
antelice) e da un eccessivo sviluppo della conca che può raggiungere l’aspetto di
un’emisfera. Osservando un orecchio normale ci si accorge che la conca forma un
angolo di 90° con la testa ed altrettanto è l’angolo conca-scafa mentre l’angolo
auricolo-mastoideo (tra elice e cranio) è di circa 30°. Queste misurazioni consentono
di poter valutare correttamente l’armonia delle strutture anatomiche e definire
ciascuna singola malformazione:
 deformità dell’elice e dell’antelice,
 ipersviluppo della conca ed i rapporti con l’angolo conca-mastoide,
 dimensioni del lobulo dell’orecchio e relazioni planari con l’elice.
Tra i fattori da considerare nello studio preoperatorio è opportuno ricordare che
l’intervento chirurgico di otoplastica può essere eseguito precocemente anche all’età
di 6 anni (età prescolare), senza interferenze sullo sviluppo del padiglione auricolare,
per prevenire possibili gravi ripercussioni psicologiche (insicurezza, depressione) dei

162
Argomenti di chirurgia estetica

pazienti, spesso oggetto di scherno da parte dei coetanei. Le tecniche chirurgiche più
moderne sono finalizzate a correggere le cause delle anomalie di forma con il
risultato finale di una generale rotazione della struttura verso la mastoide. L’accesso
chirurgico è collocato sulla faccia posteriore del padiglione auricolare, in una delle
pieghe naturali per essere ben dissimulato, e l’intervento prevede la resezione delle
porzioni di cartilagine in eccesso ed il rimodellamento delle aree malformate previa
una accurata interruzione delle fibre elastiche per cancellare la morfologia
tridimensionale esistente e prevenire la recidiva della deformità. I limiti principali
della maggior parte delle metodiche oggi utilizzate sono:
a) scarsa precisione nella definizione dell’antelice,
b) eccessiva adesione del padiglione auricolare al piano cefalico con scomparsa
dell’angolo cefalo-auricolare ed un aspetto estetico innaturale;
c) risultati non sempre stabili nel tempo.
Lipoaspirazione
La lipoaspirazione o liposuzione identifica una consolidata tecnica chirurgica di
manipolazione del tessuto adiposo finalizzata al miglioramento della silouette
corporea mediante una armonica ed omogenea sottrazione dello stesso. L’intervento
è sostanzialmente riconducibile ad una lipoestrazione con delle cannule, diverse per
forma e dimensione che, soggette ad una pressione negativa mediante un aspiratore,
vengono introdotte nel sottocutaneo con piccole e proporzionali incisioni della cute.
La prima documentazione storica risale al 1921 quando Dujarrier utilizzò una curette
uterina per rimuovere il grasso dalle ginocchia di una nota ballerina dell’epoca: il
tentativo si rivelò disastroso e drammatico concludendosi con l’amputazione di un
arto per gravi lesioni alla rete vascolare. L’interesse per la metodica emerse
nuovamente negli anni ’60: Schrudde asportava depositi adiposi rompendoli prima
con uno strumento chirurgico tagliente per aspirarli successivamente con una cannula
a pressione negativa mentre Kesserling e Meyer nel 1978 introdussero una maggiore
potenza di aspirazione preceduta sempre da una frammentazione del tessuto. Il
successivo fondamentale passo avanti tecnico fu la cannula smussa collegata
direttamente ad una pompa da vuoto messa punto da Fournier, Otteni ed Illouz che
migliorò notevolmente la metodica ed i risultati clinici. Altri importanti
aggiustamenti sono da attribuire ad Hetter, Teimourian e Klein che individuarono
l’importanza della capacità aspirativa dello strumento, delle cannule di piccole
dimensioni con punte differenziate e del cocktail farmacologico per l’infiltrazione
preoperatoria. Oggi la lipoaspirazione è un intervento chirurgico molto diffuso ed è
indicato per il trattamento di adiposità localizzate “resistenti alla dieta ed

163
Argomenti di chirurgia estetica

all’esercizio fisico”: il paziente ideale è giovane o di “mezza età” con motivazioni


“di realtà”, in buona salute, con un peso corporeo vicino a quello fisiologico, con una
adeguata elasticità cutanea e con una minima lassità dell’unità anatomica
cute/grasso superficiale/sistema fasciale superficiale. L’esame obiettivo locale è un
momento importante nella valutazione del paziente ed utilizza 3 criteri semeiologici
principali:
- pinch test: con il “pinzamento” del tessuto adiposo, prima e dopo contrazione
muscolare, vengono comparati i profili anatomici e lo spessore del grasso.
Se è riscontrabile una sensibile riduzione volumetrica con la contrazione muscolare,
ed il pinzamento dimostra depositi adiposi minimi, la lipoaspirazione è
controindicata;
- lift test: è utile per oggettivare la morfologia dell’unità anatomica cute-grasso
superficiale-fascia superficiale. Nell’esame clinico se la quantità di cute e grasso
preso con le mani è adeguata e dimostra un buon ritorno dopo aver lasciato la presa,
il soggetto è candidabile all’intervento. In circostanze diverse si dovrà optare per
soluzioni terapeutiche alternative.
- driver test: il test è particolarmente indicato nello screening delle adiposità
addominali. Il paziente viene fatto inclinare in avanti nella posizione del “tuffatore”:
se il volume non si modifica sostanzialmente c’è
l’indicazione ad una lipoexeresi, in caso contrario
sarà più opportuno ricorrere ad una dermolipectomia
(addominoplastica) anche associata ad una
liposuzione. L’intervento chirurgico è sempre
preceduto da una accurata mappatura delle aree da
trattare che vengono individuate e circoscritte con una penna dermografica a
paziente in piedi. La scelta del tipo di anestesia viene concordato con l’anestesista in
relazione al caso clinico, al volume di tessuto adiposo da rimuovere, all’età ed al
profilo psicologico del paziente. Le incisioni per introdurre le cannule sono piccole
(3-5 mm), in genere posizionate nelle pieghe cutanee naturali e l’aspirazione vera e
propria, a tunnel incrociati, è preceduta dal “pretunnelling” per determinare un
livello di dissezione uniforme e ridurre il rischio delle irregolarità cutanee
postoperatorie. Nel corso degli anni si è prestata grande attenzione alle perdite
ematiche intraoperatorie: con il metodo iniziale (lipoaspirazione “secca”) il sangue
perso era mediamente compreso tra il 20% ed il 45% del volume aspirato mentre con
la successiva “wet technique” la percentuale oscillava tra il 15% ed il 30%. Con la
diffusione della lipoaspirazione “tumescente” (infiltrazione preoperatoria del

164
Argomenti di chirurgia estetica

sottocutaneo con un cocktail farmacologico in rapporto di 1:1 con la quantità di


grasso da rimuovere) messa a punto da Klein il problema dell’anemia si è fortemente
ridimensionato attestandosi il quantitativo di sangue perso su valori pari all’1%. Il
costante monitoraggio dell’aspirato ed il test del pinzamento intraoperatorio sono
elementi fondamentali per stabilire la fine dell’intervento. Prima delle suture può
tornare utile passare una cannula senza pressione negativa in senso radiale oltre i
margini topografici per sfumare i bordi della zona trattata e rifinire il risultato. Il
tempo operatorio si completa col far indossare al paziente una guaina elastica per
limitare l’edema , le ecchimosi e prevenire la formazione di ematomi o sieromi. La
ospedalizzazione del malato termina con la ripresa della deambulazione e della
alimentazione per via orale. I punti di sutura vengono rimossi dopo pochi giorni
mentre la guaina elastica deve essere indossata (giorno e notte) per almeno 3
settimane: l’attività fisica può essere ripresa dopo circa 6 settimane. Eventuali
revisioni dell’intervento o “ritocchi” non possono essere pianificate prima di 6 mesi,
tempo necessario perché il risultato clinico si stabilizzi.
Meloplastiche
Gli arti, superiori ed inferiori, non sfuggono ai fenomeni degenerativi legati
all’invecchiamento o alla ptosi secondaria a massicce perdite di peso corporeo.A
differenza di altri distretti anatomici gli interventi chirurgici correttivi e gli
ineludibili esiti cicatriziali postoperatori sono in queste sedi difficilmente occultabili
e dunque la loro realizzazione è decisamente subordinata a reali motivazioni di
ordine fisico e psichico.La meloplastica superiore consente di correggere
adeguatamente la flaccidità o l’eccedenza cutanea con la rimozione di opportune
quantità di tessuto lungo la faccia mediale dell’arto ma con una cicatrice finale non
dissimulabile a braccia nude. Le tecniche di meloplastica inferiore (lifting delle
cosce) prevedono due procedure con approccio chirurgico differente:
a) la tecnica con accesso verticale, localizzato sulla faccia mediale della coscia,
consente l’exeresi di cospicue porzioni di cute e sottocute con un notevole
miglioramento funzionale ed estetico della gamba ma è utile nei pazienti con quadri
clinici gravi o invalidanti residuando una cicatrice lunga, molto evidente e non
sempre di buona qualità;
b) il metodo con incisione orizzontale, collocata nella porzione centrale della piega
inguinale, nel solco genito-femorale e nel solco sottogluteo, prevede uno
scollamento ampio nel piano sottocutaneo dell’area anatomica da correggere ed il
lifting preceduto dalla resezione, in forma vagamente ogivale, del tessuto in eccesso.
Inizialmente la cicatrice è facilmente occultabile ma i quotidiani movimenti della

165
Argomenti di chirurgia estetica

deambulazione ed una possibile recidiva della ptosi determinano con il trascorrere


del tempo un inevitabile dislocamento in basso della cicatrice. Gli interventi di
meloplastica possono eventualmente essere integrati e perfezionati dalla
lipoaspirazione.
Addominoplastica
L'addome è un distretto che condiziona in maniera determinante il profilo e l'armonia
del nostro corpo. Alterazioni di questa regione possono modificare notevolmente la
silhouette corporea al punto da richiedere una correzione chirurgica che, in casi
estremi e particolari, riveste carattere non soltanto estetico ma anche funzionale.
L’ addome nel corso degli anni può subire alterazioni morfologiche anche di cospicua
entità per fattori costituzionali (debolezza connettivale) o acquisiti (aumento
ponderale, dimagrimento, gravidanze, etc.) che possono determinare la formazione
di pieghe pendule al di sopra del pube o di un vero e proprio grembiule, distorsioni
dell’ombelico e sfiancamento della parete muscolare addominale.
I pazienti con anomalie della silhouette addominale possono essere classificati in 6
gruppi differenti:
Classe I Tessuto adiposo in eccesso,cute tesa, parete Lipoaspirazione
muscolare tonica e trofica.
Classe II Tessuto adiposo nella norma,cute rilassata, Mini lift addominale.
parete muscolare tonica e trofica.
Classe III Tessuto adiposo nella norma, cute e Mini lift addominale e
muscolatura dei quadranti addominali inferiori plastica della parete
rilassati. muscolare.
Classe IV Tessuto adiposo nella norma o in eccesso,cute Addominoplastica.
rilassata, diastasi dei muscoli retti.
Classe V Tessuto adiposo nella norma o in eccesso, Addominoplastica.
grave rilassamento cutaneo e muscolare.
ClasseVI Grave rilassamento cutaneo e muscolare Plastica dell’addome e dei
dell’addome e dei fianchi con o senza eccesso fianchi (Body contouring).
di grasso.

Classicamente un intervento di addominoplastica può essere richiesto e indicato per


due motivi fondamentali: una eccessiva quantità
di grasso (addome pendulo) o una eccessiva
quantità di cute (addome grinzo). Un quadro
particolare ed intermedio tra i due è
rappresentato dall'addome globoso. L'addome
grinzo rappresenta il quadro più lieve di dismor-

166
Argomenti di chirurgia estetica

fismo addominale ed è molto più frequente nella donna dopo il parto. La paziente
presenta un variabile eccesso di cute nelle regioni sottombelicale mediana e
paramediane con grinze e strie cutanee che possono essere diversamente orientate
sia in senso orizzontale che verticale. L'ombelico può mostrare un dismorfismo più o
meno marcato. I restanti quadranti addominali non sono interessati da alterazioni
trofiche di rilievo, fatta eccezione per l'eventuale presenza di strie rubre e
smagliature. Si parla di addome globoso quando al quadro precedentemente descritto
si associa un eccesso di grasso dei quadranti inferiori e laterali. Le alterazioni
possono spingersi in varia misura verso, le aree sopraombelicali e spesso, nella
porzione media ed inferiore, può coesistere una diastasi dei muscoli retti. L'addome
pendulo rappresenta il quadro clinico estremo fra le alterazioni della parete
addominale. Tutti i quadranti sono interessati da un notevolissimo rilassamento della
cute con perdita dei normali rapporti fra i piani superficiali (cute e sottocute) e
quello fasciale sottostante: l'alterazione si rende estremamente evidente nella
regione sottombelicale sia medialmente che lateralmente anche oltre le spine.
iliache anteriori superiori. L'addome pendulo si associa quasi sempre ad una notevole
diastasi dei muscoli retti con sfiancamento di tutto il sistema muscolo-aponeurotico.
A queste condizioni di base si possono associare altre alterazioni quali: strie cutanee,
cicatrici da pregressi interventi chirurgici, diastasi dei muscoli retti, ernie della
parete addominale che devono essere tenute in considerazione nella
programmazione del protocollo terapeutico. In ogni caso una minuziosa valutazione
clinica preoperatoria ed una accurata selezione dei pazienti rappresentano i requisiti
fondamentali per il conseguimento di un risultato morfologico e funzionale ottimale.
L'addominoplastica rappresenta uno tra gli interventi più frequentemente richiesti al
chirurgo plastico. Il trattamento chirurgico di un dismorfismo addominale varia in
rapporto alla entità della condizione patologica di base. Per questo motivo, quando
oggi si parla di addominoplastica, si fa riferimento a tecniche chirurgiche diverse che
il chirurgo plastico deve selezionare per la risoluzione di ciascun caso. Il classico
intervento di addominoplastica, codificato negli anni 60 con il nome di
"addominoplastica standard" prevede alcuni tempi fondamentali:
 incisione cutanea,
 scollamento e stiramento in basso del lembo superiore,
 plastica dei muscoli retti quando presente,
 riposizionamento dell' ombelico,
 sutura della ferita chirurgica.
Nell'addominoplastica "standard" l'incisione cutanea descrive una forma irregolarmen-

167
Argomenti di chirurgia estetica

te a losanga, con una parte inferiore quasi onzzontale ed una superiore più arcuata
che supera in alto l'ombelico. Il disegno prima, e l'incisione poi, devono essere
pianificati preoperatoriamente in maniera perfetta in quanto anche piccole
imprecisioni possono causare risultati insoddisfacenti. Una volta eseguita la
escissione della losanga cutanea, si scolla il lembo di cute dell'addome superiore fino
all'altezza dell'arcata costale e lo si disloca in basso fino all'incisione inferiore. Dopo
aver individuato con misurazioni precise la nuova sede dell' ombelico, si procede a
far "emergere" la cicatrice ombelicale attraverso una incisione cutanea fino alla
superficie del lembo superiore dopo averIo stirato in basso.
L'intervento si conclude con la sutura cutanea e la medicazione modicamente
compressiva che viene rimossa dopo 3 - 4 giorni. Nel corso degli anni la tecnica
standard è stata utilizzata sempre meno frequentemente, riservandola ai soli casi
clinici di addomi molto voluminosi e/o penduli. Le variazioni della tecnica che si sono
susseguite in questi ultimi anni hanno essenzialmente interessato il disegno, la
lunghezza dell' incisione e l'utilizzo di tecniche complementari quali la liposuzione.
Alla base delle variazioni di forma dell'incisione vi è la necessità di ridurre al minimo
la sua estensione laterale lasciando la sutura finale all' interno degli indumenti
intimi. Per questo motivo l'evoluzione dei tracciati preoperatori ha seguito nel tempo
il divenire dei costumi e della moda.
Oggi nella addominoplastica estetica si cerca di utilizzare un “planning” persona-
lizzato che tenga conto oltre che della situazione locale anche delle abitudini e della
vita sociale della paziente. Per queste ragioni si tende ad eseguire disegni in cui la
linea di incisione inferiore appaia costituita da una porzione centrale leggermente
arcuata sulla regione pubica e due porzioni laterali oblique verso alto, che
decorrono parallelamente ai ligamenti inguinali 1-2 cm. medialmente ad essi. Nei
casi di addome grinzo, o comunque nei casi in cui non è necessaria un'asportazione
completa dei tessuti fino alla linea ombelicale, si esegue l'intervento di
"miniaddominoplastica".
Questa metodica prevede una exeresi limitata di tessuto senza riposizionamento
dell'ombelico. Un cenno a parte merita la liposuzione il cui utilizzo nella addo-
minoplastica ha recentemente subito un notevole incremento. La possibilità di
asportare quantità anche cospicue di sottocutaneo mediante l’aspirazione con
cannula, ha permesso il trattamento di addomi con accumuli localizzati nei quadranti
inferiori con la sola tecnica della liposuzione. Alla stessa maniera, l' aspirazione delle
porzioni laterali alla incisione nonché delle regioni dei fianchi ha permesso di
migliorare i risultati ottenuti con la addominoplastica. Le prospettive future di

168
Argomenti di chirurgia estetica

questo tipo di procedura chirurgica sono probabilmente proprio nella combinazione


di interventi più limitati quali la “mini addominoplastica” e la liposuzione al fine di
ottenere risultati soddisfacenti con una chirurgia indubbiamente meno invasiva.

169
Principi di anestesia

PRINCIPI DI ANESTESIA

Sarebbe impensabile oggi sottoporsi ad una qualsiasi procedura chirurgica senza


anestesia eppure fino al 1840 la possibilità di eseguire un intervento senza provare
dolore era semplicemente utopistico. Tanto è vero che la chirurgia veniva effettuata
solo per i casi in cui la morte era certa e nessun altro tipo di trattamento era stato
efficace. Il 30 marzo del 1842 il dottor Crawford Williamson Long utilizzò per primo
l’etere per asportare due cisti del collo del sig.Venable che era un grande sniffatore
di etere. Il dottor Long estese l’uso dell’etere anche in ostetricia sebbene i suoi
lavori non sono molto noti poiché morì a soli 63 anni e non ebbe molto tempo per
incrementarne la applicazione ed è emblematica la descrizione della sua morte
avvenuta per emorragia cerebrale proprio al capezzale di una donna di cui assisteva
al parto: dopo aver avuto un malore cadde al suolo ed i familiari della puerpera
corsero in suo aiuto ma lui rifiutò e le sue ultime parole furono: “la salute della
madre e del bambino prima di tutto”. Già nel 1772 era stato scoperto il protossido di
azoto insieme all’ossigeno da parte di Joseph Priestley ma bisogna attendere il 1844
per registrare la prima applicazione “fortuita” di questo gas come analgesico.
Avendone scoperte le sue proprietà esilaranti, il protossido veniva utilizzato
esclusivamente nei salotti di conversazione o nei locali pubblici per goderne dei
piacevoli effetti (“il gas che fa ridere”). In uno di questi salotti era presente anche
Horace Wells un giovane dentista che partecipò insieme al suo amico Cooley per
sperimentare personalmente le straordinarie proprietà di questo gas. In Cooley,
purtroppo, il gas fece tutt’altro che un buon effetto e scatenando in lui il suo animo
violento e litigioso; ne nacque una rissa placata la quale i due amici vennero rispediti
presto ai loro tavoli. Tornati al loro posto ben presto Wells si accorse di una grossa
macchia di sangue che si andava formando sotto la sedia del suo amico Cooley.
Infatti durante la rissa Cooley era stato ferito ad una gamba ma non si era accorto di
questa lesione né aveva provato alcun dolore. Wells allora ebbe l’illuminazione e
pensò che in qualche modo il gas aveva ridotto la sensibilità al dolore per cui si
convinse di utilizzarlo come analgesico nella sua pratica clinica di dentista. Non
trovando volontari disponibili si sottopose di persona all’esperimento. Chiamò un suo
collega dentista e dopo aver inalato il gas si sottopose all’estrazione di un molare
che da tempo lo infastidiva ma che non si era mai deciso a farsi togliere per timore
del dolore. L’estrazione fu un successo poichè il dott. Wells non avvertì alcun dolore.

170
Principi di anestesia

Entusiasta di questa scoperta si presentò al Massachusetts General Hospital di Boston


per eseguire una dimostrazione pubblica di ciò che aveva sperimentato
personalmente. Venne trovato un paziente disposto a farsi estrarre un dente con la
promessa di non provare alcun dolore. Forse la fretta e la smania di Wells di
dimostrare l’efficacia del suo metodo fecero fallire la dimostrazione ed il giovane
malcapitato gridò di dolore per tutta la durata dell’intervento poiché Wells iniziò e
finì l’estrazione dentaria prima che il gas facesse effetto. La maggior facilità di
reperire l’etere piuttosto che il cloroformio ne agevolò la diffusione e l’utilizzo.
Proprio per questo motivo che un apprendista di Wells, William Thomas Green
Morton è considerato il padre dell’anestesia moderna poiché fu il primo che
pubblicamente utilizzò con successo una “miscela anestetica” di etere solforico. Il 16
ottobre 1846, data storica per l’anestesia il dott. Morton si presentò al
Massachusetts General Hospital di Boston on una sfera munita di una via di ingresso
ed una di uscita e dentro una spugna imbevuta di etere. Fece respirare al Sig. Abbott
i vapori della sfera e il dott. Warren capo chirurgo in carica al General Hospital
asportò un grosso tumore del collo senza che il paziente provasse alcun dolore. Al
termine dell’intervento, il dottor Warren rivolgendosi alla platea che assisteva disse:
“Signori, non c’è nessun imbroglio”. La scoperta fu sensazionale e fu annunciata
ufficialmente il 18 novembre 1846 sul Boston Medical and Surgical Journal (antenato
dell’attuale New England Journal of Medicine). Wells da parte sua si sentì tradito da
Morton e tra il 1847 e il 1848 pubblicò numerosi articoli per rivendicare la validità
della sua prima intuizione ed iniziò a sperimentare il cloroformio (scoperto nel 1831
contemporaneamente da Samuel Guthrie in America, Justus von Liebig in Germania
e Eugène Soubeiran a Parigi) e diventandone presto dipendente. Il 23 gennaio 1848 si
suicidò recidendosi l’arteria femorale e tenendo un fazzoletto impregnato di
cloroformio in bocca. Morton ebbe i riconoscimenti della comunità scientifica e
conscio dei risvolti commerciali non rivelò mai la composizione della miscela inalata
dal Sig. Abbott che chiamò “Letheon”. Tuttavia presto si scopri che altro non era che
etere solforico e nonostante il brevetto non gli fu riconosciuto alcun compenso,
inoltre accusato di aver spinto Wells al suicidio fu ben presto dimenticato e finì di
vivere a Boston drogandosi con l’etere. La necessità di avere a disposizione molecole
da utilizzare in anestesiologia ha spinto numerosi studiosi ad una ricerca incessante
di nuovi farmaci. In particolare l’attenzione verso molecole con attività analgesica
inizia già nel 1859 quando Karl Scherzer di ritorno da una spedizione mineralogica in
Perù consegnò all’amico Albert Newmann una notevole quantità di foglie di coca da
cui venne estratta una sostanza incolore sottoforma di cristalli. Newmann chiamò

171
Principi di anestesia

questa sostanza “coca-in” ossia sostanza contenuta nelle foglie di coca. Schroff, un
medico viennese, nel 1862 osservò che i cristalli di coca-in posti sulla cute
procuravano una insensibilità agli stimoli dolorosi. La stessa esperienza venne
ripetuta da Von Aurep dopo la sua somministrazione sottocutanea. Nel 1884 lo stesso
Freud pubblicò un interessante articolo descrivendo l’utilizzo di questo alcaloide nel
trattamento di alcune patologie psichiatriche. Successivamente venne utilizzata in
chirurgia oftalmica cercando di migliorarne le caratteristiche di tollerabilità e
potenza. Nel 1904 infatti Fourneon introdusse la amilocaina e l’anno successivo,
Einhorn sintetizzò la lidocaina tutte sostanze con proprietà anestetiche che
trovarono il loro impiego solo nel 1948. Oggi la Anestesiologia moderna
fortunatamente dispone di una serie di molecole estremamente utili e maneggevoli
ma dobbiamo ringraziare la curiosità e la tenacia di molti studiosi se oggi è possibile
sottoporsi ad un intervento chirurgico senza provare alcun dolore e nella massima
sicurezza.
Valutazione preoperatoria
La scelta di un tipo di anestesia piuttosto che un altro è legato essenzialmente alla
procedura chirurgica da eseguire ed alle caratteristiche del paziente che si sottopone
all’intervento. Nel corso della visita anestesiologica preoperatoria il medico
anestesista valuterà accuratamente lo stato di salute del paziente pianificando la
gestione perioperatoria più adeguata. Un’accurata anamnesi ed un attento esame
obiettivo sono i determinanti per la selezione degli esami ematochimici e degli
accertamenti diagnostico-strumentalipreoperatori. Al termine della valutazione
clinico-anamnestica è possibile determinare la classe di rischio del malato secondo la
classificazione proposta dalla Società Americana di Anestesiologia (classificazione
ASA = American Society of Anesthesiologist). tab.1
Tab.1 - Classificazione dello stato fisico secondo
l’American Society of Anesthesiologist
Stadio Descrizione
1 Paziente normale
2 Paziente con malattia sistemica di media entità
3 Paziente con malattia sistemica severa, che limita l’attività ma che non provoca
totale incapacità
4 Paziente con malattia sistemica che causa incapacità totale con costante rischio di
vita
5 Paziente moribondo con aspettativa di vita non superiore alle 24 ore con o senza
intervento chirurgico
E L’annotazione dopo la numerazione dello stadio indica intervento chirurgico
d’urgenza e generalmente

172
Principi di anestesia

Durante la visita preoperatoria è altresì necessario richiedere il consenso informato


scritto discutendo con il paziente ogni terapia ed eventuali suggerimenti da adottare
per una adeguata preparazione all’intervento (farmaci da assumere, digiuno da
seguire, preparazione della persona, eliminazione dello smalto dalle unghie,
lasciare anelli e gioielli vari alla propria abitazione, protesi dentarie mobili da
rimuovere prima di entrare in sala operatoria, ecc). Una attenta pianificazione della
strategia terapeutica ed anestesiologica riduce l’incidenza di errori che possono
essere fatali per il malato. L’introduzione e la rapida diffusione nella pratica clinica
di nuove e alternative metodiche diagnostiche e terapeutiche che utilizzano le fibre
ottiche o il laser consentono l’esecuzione di tutta una serie di procedure che un
tempo richiedevano ampie ferite chirurgiche e che oggi invece si possono effettuare
con un ridotto coinvolgimento emodinamico del paziente per i minimi danni tissutali
provocati. Pertanto molti di questi interventi possono essere eseguiti in regime
ambulatoriale o di day-surgery con notevole riduzione del discomfort per il malato
evitando lunghi ed estenuanti ricoveri ospedalieri. Questi repentini cambiamenti ha
posto gli anestesisti di fronte a problematiche tecniche e cliniche di particolare
rilievo costringendo gli addetti ai lavori a ricercare una metodica anestesiologica
adatta a soddisfare ogni esigenza. E’ possibile identificare potenzialmente quattro
tipi di anestesia:
1. l’anestesia locale che produce una perdita della sensibilità di una piccola area
del corpo grazie all’azione degli anestetici locali con diverse tecniche di
somministrazione;
2. la MAC (Monitored Anestesia Care), termine coniato dalla società americana di
anestesia che individua una particolare pratica anestesiologica atta alla
somministrazione di farmaci analgesici e sedativi con un controllo delle funzioni vitali
del paziente;
3. l’anestesia regionale con perdita della sensibilità dolorosa di una parte ampia del
corpo attraverso la somministrazione di anestetici locali e identificati nel blocco
centrale spinale o peridurale, nel blocco periferico dei plessi nervosi;
4. l’anestesia generale che contempla la perdita della coscienza e di ogni tipo di
percezione da parte del paziente.
1) Anestesia locale
Gli AL sono farmaci che a contatto con le strutture nervose producono un blocco
reversibile e prevedibile della conduzione dello stimolo. Appartengono ad un gruppo
di composti chimici il cui capostipite è la cocaina: un alcaloide naturale la cui azione
anestetica fu dimostrata sulla congiuntiva umana nel 1884 dall’oculista viennese Karl

173
Principi di anestesia

Koller. Nel corso del tempo numerosi composti sono stati sintetizzati nelle più
disparate formulazioni per ottenere un AL con caratteristiche ideali. La struttura
chimica di un AL di uso clinico può essere suddivisa in 4 subunità: la subunità 1 è la
porzione aromatica della molecola costituita dal nucleo benzenico e responsabile
della liposolubilità. L’introduzione di un ulteriore gruppo lipofilico a questo nucleo
aumenta ulteriormente la solubilità lipidica della molecola ed influenza il grado di
dissociazione e la compatibilità del farmaco con il suo recettore; la subunità 2
contiene il legame estereo o amidico, condizionando un diverso metabolismo. Gli
aminoesteri sono degradati dalle pseudocolinesterasi plasmatiche mentre gli amino-
amidi sono metabolizzati per dealchilazione ossidativa epatica; la subunità 3 è
costituita da una catena di idrocarburi il cui allungamento o l’aggiunta di un radicale
alchilico contribuisce ad aumentare la liposolubilità; la subunità 4 è un’amina
terziaria responsabile della idrosolubilità della molecola. A pH fisiologico gli
anestetici sono presenti in parte in forma ionica, idrosolubile, ed in parte in forma
non ionica, liposolubile: il rapporto tra queste due forme dipende dal pKa della
sostanza. Solo la forma liposolubile, ovvero non ionica, è capace di passare
attraverso la membrana nervosa ed arrivare all'assoplasma: qui si raggiunge un nuovo
equilibrio tra parte ionizzata e non ionizzata. Nell'assoplasma, mezzo acquoso, solo
la forma ionica, è in grado di diffondere verso la parte interna del canale del sodio
ed ostruirlo, impedendo così la depolarizzazione. Sembra anche che l’attività
farmacocinetica si svolga prolungando il tempo in cui il canale del sodio si trova nello
stato di inattivazione. Esistono tuttavia altre modalità di azione ad esempio la
benzocaina si suppone che agisca facendo espandere la membrana con occlusione
fisica dei canali del sodio. Gli anestetici, una volta iniettati a livello perineurale,
vengono assorbiti dal sangue e successivamente ridistribuiti dapprima ai tessuti molto
vascolarizzati quali polmoni, sistema nervoso centrale e quindi ai muscoli. Nei grassi
si accumula una quota importante di farmaco solo in occasione di una
somministrazione prolungata. Gli aminoamidi vengono metabolizzati a livello epatico
escreti per via renale, mentre gli aminoesteri sono metabolizzati in gran parte nel
sangue grazie alle pseudocolinesterasi da alcuni di essi si forma acido
paraminobenzoico altamente allergizzante. La scelta di un anestetico locale deve
essere guidata principalmente da: onset time, potenza, durata di azione, capacità
di sviluppare blocco differenziale e potenziale tossico associato alla molecola.
 Onset time: è il tempo necessario per raggiungere una concentrazione minima
per il blocco nervoso. Varia in funzione del pKa della sostanza (quanto più è alcalino
il pKa tanto più lento sarà l'onset del blocco anestetico) e della diffusibilità della

174
Principi di anestesia

molecola (maggiore idrosolubilità agevolerà la diffusione della molecola in mezzo


acquoso). L'attraversamento delle membrane biologiche invece dipende dal peso
molecolare e dalla liposolubilità della molecola. La forma non ionizzata è liposolubile
e può attraversare le membrane ma diffonde nel citoplasma con maggior difficoltà.
Le soluzioni commerciali hanno un pH acido, variabile da 3 a 4.5, mentre il pKa dei
vari anestetici locali varia tra 7,9 e 8,1 con una grossa quota di forme ionizzate
quindi non liposolubili. L’onset può essere ridotto mediante aumento della dose, del
volume e della concentrazione di anestetico utilizzato. Esistono poi altri artifici che
consentono di modificare il pKa o il suo pH mediante riscaldamento della soluzione o
aggiunta di bicarbonato così da ottenere un aumento della proporzione di molecole
presenti in forma non-ionizzata. Aggiungendo bicarbonato di sodio alla soluzione,
innalzando cioè il pH della soluzione fino a 7, si ottiene una aumento della quota non
ionizzata (liposolubile), inoltre una parte della CO2 del tampone passa nella cellula
determinando una riduzione del pH intracellulare: la quota ionizzata intracellulare di
anestetico non potendo oltrepassare la membrana nervosa, rimane più a lungo dentro
la cellula (fenomeno della trappola ionica). L'aggiunta di bicarbonato alle soluzioni di
bupivacaina contenenti adrenalina riduce l'acidità della soluzione stessa e
contribuisce ad aumentare la quota di adrenalina attiva. Ovviamente riveste
importanza anche il pH dei tessuti nei quali il farmaco viene iniettato ad esempio
l'acidosi presente nei tessuti infiammati determina un aumento della quota ionizzata
non diffusibile di anestetico riducendone l'efficacia. Anche il riscaldamento a 37°C
delle soluzioni permette di ridurre il pKa e di avere maggiore quantità di forma non
ionizzata a pH fisiologico.
 Potenza: è la dose minima efficace che permette di ottenere le condizioni
desiderate per eseguire un intervento, più specificamente è la concentrazione
minima (Cm) di farmaco richiesta per determinare, entro 5 minuti, la riduzione del
50% del potenziale di azione di una fibra nervosa immersa in una soluzione a pH 7,2-
7,4 e stimolata con una frequenza di 30 cicli al secondo.
 Tossicità: è definita come la reazione dell’organismo ad una deteminata dose di
farmaco. In laboratorio si definisce con la mortalità espressa come quantità di
farmaco minimo necessario per sopprimere il 50% degli animali usati come test (Dose
Minima Letale 50); la tossicità è sistemica o locale (citotossica). La tossicità
sistemica coinvolge il sistema nervoso centrale che è più suscettibile rispetto a
quello cardiovascolare. I sintomi più frequenti sono rappresentati da sonnolenza,
disorientamento che progressivamente può evolvere verso il coma. Disturbi visivi,
uditivi, parestesie fino alle convulsioni completano il quadro clinico ingravescente.

175
Principi di anestesia

Per concentrazioni cardiotossiche si manifesta una grave ipotensione segno di


depressione cardiaca che può causare anche l’arresto cardiaco per allungamento del
tempo di conduzione atrioventricolare.
 Durata d'azione: è strettamente condizionata dall'entità del legame con le
proteine plasmatiche, dalla rimozione della stessa da parte del circolo, dalla dose
complessivamente somministrata oltre che dalle caratteristiche intrinseche. Quando
effettuiamo una infiltrazione l'anestetico viene posto ad una certa distanza dal nervo
ed ha bisogno di un determinato periodo di tempo per la diffusione con una
altrettanto lunga durata di azione per lo scarso assorbimento vascolare e le elevate
dosi usate.
 Scelta dell’AL: per scegliere l'anestetico migliore da usare nel singolo paziente
occorre tenere conto delle caratteristiche del paziente, del farmaco, della dose
sicura in relazione alla sede di somministrazione e del tipo di blocco da ottenere.
L'età del paziente è un fattore importante: al di sotto dei sei mesi, ad esempio, è
sconsigliabile la somministrazione di bupivacaina per mancanza di capacità
metabolica da parte del fegato e per la grossa quota libera da legame proteico
presente nel sangue. La richiesta di anestetico locale si riduce con l'aumentare
dell'età del 40%, tra giovane di 20 anni ed un anziano di 80 anni. Successivamente
bisogna ricordare che condizioni di bassa gittata cardiaca, ipossia, acidosi
(soprattutto se metabolica + respiratoria) e cirrosi sono fattori che riducono il
metabolismo degli anestetici e ne aumentano la quota attiva. Analogamente
l'ipoproteinemia, le cardiopatie cianogene e alcune interferenze medicamentose che
aumentano la tossicità cardiaca e neurologica. La sicurezza di un AL è dipendente è
proporzionale alla potenza e inversamente correlato alla tossicità. Se la potenza è
elevata e la tossicità è bassa ed il margine di sicurezza sarà ampio. Il rapporto tra
potenza e tossicità viene detto indice anestetico. Una parte degli interventi di
chirurgia plastica possono essere eseguiti in anestesia con blocco nervoso periferico,
per infiltrazione o per applicazione topica. Tuttavia la chirurgia della cute obbedisce
ad alcuni principi basilari. L’aspetto e la funzione di una cicatrice dopo la sintesi di
una breccia di escissione cutanea possono essere stimati preventivamente valutando
la tensione statica e dinamica della cute circostante. La tensione statica è
rappresentata dalle linee di forza che tengono la cute in tensione quando il corpo è
immobile mentre quella dinamica è causata dalla combinazione di forze associate al
movimento articolare e dei muscoli. Ai fini estetici soprattutto per il volto
l’anestesia per infiltrazione è preferibile al blocco nervoso regionale in quanto non
interferisce con il movimento muscolare che allunga la configurazione del difetto

176
Principi di anestesia

cutaneo. Le tecniche per via topica utilizzano metodi fisici e chimici. Tra i metodi
fisici la ionoforesi e la fonoforesi rivestono un ruolo fondamentale.
 Ionoforesi: il rilascio del farmaco utilizza una corrente galvanica. La differenza di
potenziale causa un movimento di ioni nella cute dove sono applicati l’anodo e il
catodo. Vari studi hanno valutato l’efficacia della tecnica utilizzando una soluzione
di lidocaina al 4% che tuttavia produce una analgesia di breve durata rispetto
all’infiltrazione del farmaco (14,5 ±9,5min vs 22,2 ±7,3min) ma superiore alla
semplice applicazione del gel di lidocaina (analgesia di 2,1±6,5min). Kassan ha
indicato, in una review del 1996, l’efficacia della tecnica nel 80-100% di tutti gli
interventi in cui è stata utilizzata (trattamenti laser delle discromie cutanee,
iniezione di farmaci, fillers, dermoabrasione, biopsie, elettrocoagulazione di
teleangectasie). Nonostante indubbi vantaggi rappresentati da un onset ridotto (~
10min) e dalla non invasività della tecnica, la necessità di utilizzare uno strumentario
particolarmente ingombrante e la difficoltà di trattamento di aree ampie (ridotte
dimensioni dell’elettrodo) o zone del viso e delle dita ne riducono il campo di
applicazione. L’effetto collaterale più rilevante è l’ustione dell’area del tessuto
esposto alla corrente tanto che per ridurre questi effetti si utilizza un’intensità
<1mA/cm.
 Ionoforesi: la penetrazione del farmaco avviene attraverso un carrier (acqua o
gel) ionizzato dall’energia degli ultrasuoni. In realtà quale sia il meccanismo d’azione
per il rilascio dell’anestetico non è ben chiaro, sembrerebbe che alterazioni
termiche, meccaniche e chimiche del tessuto trattato possano essere i responsabili
dell’effetto. I migliori risultati sono stati ottenuti con la lidocaina crema al 25%
anche se ci sono reports in letteratura che descrivono l’azione degli ultrasuoni
sull’efficacia di una soluzione acquosa di lidocaina al 2% e confrontata
all’immersione del tessuto in un bagno di farmaco che non mostra alcun effetto.
Sono necessari ulteriori studi per chiarire in via definitiva la vera utilità e il campo di
applicazione di questa tecnica.
Tra i metodi chimici prenderemo in considerazione l’utilizzo di:
 soluzione acquosa di anestetico
 soluzione di anestetico in solvente organico
 emulsione acqua/olio di anestetico
 miscela estetica
 patch di anestetico
 anestetico incapsulato nei liposomi.

177
Principi di anestesia

I fattori principali che regolano l’assorbimento per via topica sono rappresentati
dalle caratteristiche intrinseche della molecola (ad esempio la polarità, le
dimensioni, ecc) e dalla modalità di rilascio (tipo di veicolo). La maggior parte degli
anestetici (benzocaina, lidocaina, mepivacaina, prilocaina, tetracaina) sono stati
disciolti in acqua e i loro sali applicati per via topica hanno dimostrato un scarsa
efficacia analgesica. Infatti solo una piccola porzione di base indissociata esiste in
questa soluzione per cui la penetrazione di una quantità sufficiente di farmaco è
raggiunta solo con l’utilizzo di elevate concentrazioni incrementando allo stesso
modo il rischio di effetti collaterali soprattutto in considerazione dell’ampiezza delle
aree da trattare. Una maggiore concentrazione della base libera è ottenibile
solubilizzando il farmaco in solventi organici come il dimetil sulfossido (DMSO), il
dimetil-acetamide, il propilen-glicole. L’uso di tali preparazioni nonostante produca
una effetto duraturo (>3 ore) non è scevro da effetti collaterali come secchezza della
cute, lesioni dermiche con edema, eritema ed ipersensibilità che li rendono
inaccettabili nella pratica clinica. Per questo la tecnologia farmaceutica ha messo a
punto una miscela estetica in cui la base anestetica è disciolta in olio prima di
addizionare l’emulsionante. Fermo restando che tutti gli anestetici possono essere
utilizzati, nella formulazione della Eutetic Mixture of Local Anesthetics (EMLA®)
l’associazione lidocaina+prilocaina ha trovato una più ampia applicazione per i
margini di sicurezza sufficientemente elevati di entrambi i farmaci. Numerosi campi
di applicazione si giovano della analgesia efficace e adeguata prodotta dall’EMLA nel
65 – 93% di tutti i pazienti testati con ridotti effetti collaterali legati soprattutto ad
un uso improprio e in pazienti pediatrici. In particolare Engberg e Coll. hanno
eseguito un studio raccogliendo i casi di metaemoglobinemia da miscela ed
individuando i dosaggi di sicurezza da adottare soprattutto nei pazienti pediatrici che
notoriamente hanno un valore ematico più elevato di meta emoglobina. In realtà in
letteratura vengono casi descritti di metaemoglobinemia anche con altre
formulazioni a base di benzocaina (formulazione spray–Hurricane® , gel–Cepacol®) e
ipoteticamente con tutti i farmaci (nitrati e derivati anilinici) che sono in grado di
ossidare il ferro dell’HB riducendo la capacità di rilascio di ossigeno nei tessuti. Nel
1964 Lubens e Sanker hanno utilizzato con successo su un considerevole campione di
pazienti (>8.000 pz.) un “patch” contenente 9gr di lidocaina crema al 30% applicato
con metodo occlusivo su epidermide integra ottenendo dopo 30 minuti una anestesia
sufficiente per eseguire exeresi di cisti sebacee, di nevi, di piccole neoformazioni
muco-cutanee dei genitali esterni e di tutte quelle lesioni di diametro < 1,5cm.
Sebbene tali risultati siano confortanti, la tecnica non ha ricevuto una adeguata

178
Principi di anestesia

diffusione per varie ragioni e soprattutto perché è necessaria la preparazione


galenica personalizzata e per le elevate concentrazioni di anestetico impiegate che
incrementano il rischio di effetti collaterali. Al momento nel Regno Unito è
commercializzato un patch con ametocaina al 4% in soluzione acquosa dimostratosi
efficace nel 95% dei trattati con un onset di 40 minuti e per una durata d’azione di
circa 3 ore, con un profilo farmacologico promettente nel confronto con l’EMLA.
Tuttavia questa formulazione attende l’approvazione della FDA statunitense per la
commercializzazione mondiale. Una innovativa modalità di somministrazione dei
farmaci è rappresentata dall’impiego dei liposomi che rappresentano carrier per una
varietà di molecole non solo anestetiche incapsulate in queste membrane biologiche
costituite da strati di fosfatidil colina, colesterolo ed elettroliti. In relazione al
numero di strati e delle dimensioni delle vescicole si identificano diversi tipi di
liposomi (tabella sulla classificazione dei liposomi).se il diametro supera i 2060 nm
non penetrano nelle membrane cellulari poiché i canali lipidici hanno una dimensione
compresa tra 30 e 2060 nm. Le ragioni che spingono per l’impiego dei liposomi
vengono elencati di seguito:
 l’elevata capacità di penetrazione nello strato corneo per la struttura simile alle
membrane cellulari;
 capacità di inglobare farmaci sia idrosolubili che liposolubili;
 esercitano un effetto occlusivo;
 idratando la cheratina migliorano la permeabilità della membrana;
 non hanno mostrato reazioni locali di irritazione o ipersensibilità;
 essendo simile alle membrane biologiche sono biocompatibili e biodegradabili;
 determinano un rilascio controllato di farmaco (azione depot);
 la concentrazione ematica di anestetico è minima;
 prolungata durata d’azione;
 proteggono i farmaci dalla degradazione metabolica.
Alla luce di queste affermazioni risulta evidente che l’applicazione di anestetici con
la tecnologia liposomiale si dimostra molto efficace pertanto numerose molecole
sono state incapsulate (benzocaina, lidocaina, prilocaina, EMLA, tetracaina,
dibucaina). Quella più studiata è la tetracaina 0,5% che dopo 1 ora di applicazione
occlusiva ha mostrato un notevole effetto terapeutico (>4 ore). Il campo di
applicazione è davvero promettente ma sono necessari ulteriori studi per pianificare
la migliore strategia di utilizzo. Durante le ultime tre decadi numerosi metodi sono
stati utilizzati nell’anestesia topica, tutti mostrano vantaggi e svantaggi mettendo a
disposizione del medico diversi presidi tra cui effettuare le proprie scelte cercando

179
Principi di anestesia

ogni volta di individuare il farmaco giusto nella formulazione più appropriata alle
esigenze del momento. Tradizionalmente l’utilizzo dell’anestesia locale per
infiltrazione viene riservata alla piccola chirurgia o negli interventi di chirurgia
plastica circoscritti.
b) Anestesia regionale
Il blocco nervoso regionale è riservata a quei pazienti per i quali è necessario un
protocollo terapeutico che coinvolge più distretti anatomici come alternativa valida
ed efficace dell’anestesia generale.
L’innervazione sensitiva è molto complessa ed in alcune zone presenta delle
sovrapposizioni che rendono difficile ottenere un’analgesia adeguata. Se per una
analgesia completa e totale localizzata all’emisoma inferiore è necessario effettuare
molti blocchi periferici è più opportuno utilizzare il blocco nervoso centrale
(subaracnoideo o peridurale) o il blocco nervoso periferico coadiuvato da una
adeguata sedazione del paziente.
C) Sedazione e Anestesia
Molte procedure di chirurgia plastica, estetica e chirurgia laser sono dolorose e
nonostante l’anestesia locale provvede ad un’eccellente analgesia in molti casi
esistono diversi scenari clinici in cui l’impiego di farmaci adiuvanti per via
endovenosa sono indispensabili per ottenere una sedazione con il miglioramento del
confort del paziente. Le indicazioni vengono così schematizzate:
- durante l’esecuzione di un blocco nervoso periferico soprattutto se per ottenere
una adeguata anestesia è necessario un numero elevato di iniezioni;
- nel resurfacing, che rappresenta una procedura altamente algogena;
in pazienti eccessivamente ansiosi;
- in pazienti pediatrici che beneficiano dell’effetto sedativo, ansiolitico e amnesico
della sedazione cosciente.
Scamman ha descritto i tre elementi chiave della sedazione cosciente come:
- sedazione sicura che richiede la comunicazione con il paziente il monitoraggio e la
disponibilità dell’equipaggiamento di rianimazione;
- controllo dell’ansia presenza di amnesia e riduzione degli stimoli ambientali;
- controllo del dolore tramite la somministrazione di anestetici locali e di farmaci
sedativi e analgesici. Attualmente i farmaci più utilizzati sono le benzodiazepine
(midazolam), propofol, analgesici oppioidi (alfentanil, fentanil, remifentanil) e
anestetici volatili (alogenati). La valutazione del livello di sedazione può essere
eseguita utilizzando indifferentemente una delle numerose scale proposte dai vari
autori.

180
Principi di anestesia

In particolare nella nostra esperienza facciamo riferimento alla scala di Ramsay che
ci sembra la più facile da applicare con ottimi risultati nel controllo dei pazienti.
tab.2

Tab.2 – Scala di Ramsay per il grado di sedazione

1 Sveglio, agitato, irrequieto

2 Collaborante, orientato, tranquillo

3 Assopito o addormentato, risposta ai comandi

4 Addormentato, risposta vivace allo stimolo verbale

5 Addormentato, risposta lenta allo stimolo verbale

6 Addormentato, nessuna risposta allo stimolo verbale o doloroso

In considerazione della variabilità interindividuale di risposta a dosi standard di


farmaci è opportuno un monitoraggio scrupoloso onde evitare incidenti che possono
risultare a volte fatali. I protocolli prevedono l’utilizzo di farmaci diversi adattabili
alla tipologia della procedura chirurgica e del tipo di paziente accuratamente
studiato con una attenta valutazione preoperatoria. Qualora si rendesse necessario il
controllo delle vie aeree è utile la maschera laringea riservando l’anestesia generale
vera e propria con intubazione tracheale solo ai pazienti pediatrici o non collaboranti
(pazienti psichiatrici). Per questa tipologia di anestesia la Società Americana di
anestesia ha coniato il termine di Monitored Anestesia Care (MAC) individuando
quelle situazioni in cui l’anestesista è chiamato al monitoraggio delle funzioni vitali e
alla somministrazione di farmaci sedativi e analgesici anche in ambienti al di fuori
della sala operatoria (NORA = non operatine room anestesia = anestesia fuori dalla
sala operatoria). L’associazione di tecniche di analogo-sedazione rappresentano
almeno il 30% di tutte le procedure chirurgiche ed è una percentuale in continuo
aumento. È intuitivo che i pazienti nel corso di procedure chirurgiche interagiscono
con numerosi farmaci e presidi ed è evidente che alcuni di loro possono manifestare
una reazione anafilattica o anafilattoide spesso non riconosciuta come tale o
attribuita ad altre cause come gli episodi di ipotensione e le turbe del ritmo che
vengono interpretate come sintomi di insufficienza cardiaca o di eccessiva perdita
ematica oppure il broncospasmo sintomo manifesto scatenato dalla manovra di
intubazione. Per tale motivo risulta difficile quantizzare la vera incidenza del
problema “allergia in sala operatoria”. In genere la maggior parte delle reazioni

181
Principi di anestesia

allergiche si manifestano repentinamente, entro 3-4 minuti dalla somministrazione


del farmaco allergenico, e sembrerebbe che i miorilassanti utilizzati in anestesia
generale rivestono un ruolo di primo piano nell’innescare una reazione avversa. In
realtà non solo i farmaci ma anche alcuni presidi utilizzati durante procedure
chirurgiche a base di lattice sono identificati come agenti anafilattici che in questo
caso si manifesta più tardivamente ovvero 60-90 minuti dall’inizio dell’esposizione e
solo dopo che la quantità in circolo sia diventata sufficiente. Tuttavia a prescindere
dalla natura dell’antigene una reazione anafilattica è caratterizzata da un corredo
sintomatologico che coinvolge il sistema cardiocircolatorio, il sistema respiratorio e
l’apparato tegumentario. tab.3

Tab.3 - Sintomatologia della reazione anafilattica

Sistema cardiovascolare Tachicardia, vasodilatazione periferica con riduzione delle


resistenze vascolari, ipertensione polmonare, ipotensione
arteriosa sistemica.

Sistema respiratorio Edema laringeo con stridore, broncospasmo e aumento


delle resistenze nelle vie aeree, edema polmonare con
ipossiemia
Apparato tegumentario (cute e Orticaria e rush cutaneo, edema periorbitale e periorale,
mucose) edema della lingua e dell’orofaringe

A volte l’anafilassi viene confusa con altri quadri clinici altrettanto drammatici come
l’embolia polmonare, l’infarto miocardio, la reazione vaso-vagale, ecc. In definitiva
gli agenti che più frequentemente causano reazioni anafilattiche o anafilattoidi sono
i farmaci dell’anestesia generale, gli anestetici locali ed il lattice. La patogenesi di
queste reazioni è ancora incerta e controversa infatti mentre le reazioni
anafilattiche sono IgE mediate che sono in grado di legarsi a mastociti e basofili non
solo del sangue ma anche tissutali riproponendo il ruolo centrale di mediatori chimici
vasoattivi, nelle reazioni anafilattoidi si assiste alla attivazione di alcune proteine
plasmatiche del gruppo del complemento o al rilascio di mediatori chimici da parte
dei basofili e mastociti stimolati direttamente dall’allergene. tab.4

182
Principi di anestesia

Tab.4 - Allergie dei farmaci dell’anestesia generale


Incidenza
Anestesia generale 1:1.000 – 1:6.000
Barbiturici 1:30.000 (F/M=3:1)
Ketamina Rara
Propofol Rara
Benzodiazepine Eccezionale
Neurolettici Eccezionale
Morfinici Rara
Miorilassanti Elevata

Anche gli anestetici locali provocano reazioni allergiche o pseudoallergiche


classificati in 4 tipi diversi. tab 5

Tab.5 – Tipologia di reazione evocate dagli anestetici locali


1) Reazioni di tipo tossico  Effetti sul sistema nervoso centrale
 Effetti sul sistema cardiovascolari
 Effetti locali

2) Reazioni non correlate  Reazioni vaso-vagale


all’uso del farmaco  Reazione da stimolazione simpatica
 Reazione da trauma chirurgico

3) Reazioni  Metaemoglobinemia da prilocaina


idiosincrasiche  Metaemoglobinemia da EMLA

4) Reazioni allergiche e  Orticaria e angioedema


pseudoallergiche  Anafilassi vera
 Dermatite da contatto

Sembrerebbe che le reazioni tossiche sano le più frequenti e siano anche dose
dipendente. In realtà le manifestazioni cliniche sono in fase di riduzione progressiva
(o, 6-1% di tutte le procedure) da quando sono stati abbandonati gli anestetici locali
esteri dell’acido paraaminobenzoico e prediligere quei farmaci di derivazione
amidica di cui non si è mai dimostrata istologicamente una reazione IgE mediata. Per
i pazienti che riportano un’anamnesi positiva per reazioni atipiche verificatesi dopo
somministrazione di un anestetico locale è possibile eseguire un test di screening per

183
Principi di anestesia

identificare precisamente il farmaco responsabile secondo un percorso diagnostico


preciso. tab.6

Tab. 6 – Percorso diagnostico per singolo anestetico in caso di


anamnesi suggestiva per allergia

Anestetico Via di Ml Diluizione


locale somministrazione

1 Prick - Induiluita

2 Intradermo 0.05 1/100

3 Intradermo 0.05 1/10

4 Sottocute 0.10 1/10

5 Sottocute 0.10 Indiluita

6 Sottocute 0.10 Indiluita

Per i pazienti a rischio è possibile eseguire un trattamento desensibilizzante. tab. 7

Tab. 7 – schema di trattamento desensibilizzante preoperatorio


1. ketotifene – 2 cps da 2 mg nei 4 giorni che precedono l’intervento
2. betametasone – 2 cpr da 0.5 mg die per 3 giorni prima dell’intervento e 4 mg ev 1 ora prima
dell’anestesia locale
3. desclorfeniramina maleato – 1 cps da 2 mg 1 ora prima dell’anestesia locale

Anche il materiale a base di lattice può provocare reazioni anafilattiche ed in base ai


dati epidemiologici recenti è in fase di aumento crescente. Le manifestazioni
cliniche sono soprattutto a carico dell’apparato tegumentario dove si può sviluppare
una dermatite da contatto con eczema, orticaria fino all’edema della glottide con
una evoluzione in alcuni malati rapida e ingravescente (entro 2-3 minuti) o più
lentamente (60-90 minuti) dose dipendente. Sono stati identificati molti pazienti a
rischio esposti cronicamente al contatto con il lattice sia per ragioni professionali
(patologia occupazionale in addetti alla sala operatoria o nei lavoratori impiegati
nell’industria della gomma) che per malattie che richiedono l’uso di presidi in
gomma (catetere vescicale ad esempio). A questi si aggiungono tutti quei soggetti
con atopie alimentari verso cibi come l’avocado, banana, castagne, kiwi, noci e
arachidi. Purtroppo i RAST test presentano dei grossi limiti di specificità e di
sensibilità mentre i test cutanei sono comunque potenzialmente capaci di scatenare
una reazione anafilattica grave. Per questo motivo la FDA Americana non ha

184
Principi di anestesia

approvato nessun tipo di test cutaneo che può essere eseguito per individuare i
soggetti a rischio. In tal caso è sempre utile adottare una serie di precauzioni come
utilizzare siringhe di vetro, cateteri endovenosi privi di lattice, pallori per
ventilazione al neoprene, valvole respiratorie in silicone, eliminare i guanti in
lattice e tutto il materiale lattice-simile.

185

Potrebbero piacerti anche