Franco Battiato
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La mattinata era piena con tutte e tre le sue classi, e sia italiano
che latino. Pensava spesso con rammarico che la laurea in Let-
tere moderne gli aveva reso ardua la possibilità di insegnare al
Classico e di tornare nella scuola dove divenne ciò che era, co-
stretto a ripiegare, dunque, su un pur prestigioso Scientifico.
Soprattutto riteneva che l’insegnamento del latino divenisse ne-
cessariamente ancillare in quel curricolo, dominato da disci-
pline destoricizzate e trasmesse con pochissimo spazio per la
critica e l’interpretazione. Pativa la scissione tra due culture
viste come antitetiche, e di cui una sola aveva trionfato nell’im-
maginario diffuso, ritenuta dai più unica via di accesso ad una
(presunta?) verità, l’altra considerata, al contrario, una sorta
di orpello estetico, un “deodorante” per l’anima, un lusso da
ostentare al meglio, in ogni caso affatto decisiva per la vita reale
(qualunque cosa questa espressione significasse). Lo spirito del
mondo in cui viveva era levigato, metallico. Non lasciava spazio
a domande di senso ma solo ad una razionalità strumentale che
lui riteneva mortifera. In fondo, insegnare non era stata solo
conseguenza del modello materno e della poesia/preghiera in-
travista nei giorni di dolore della sua giovinezza, ma rispondeva
anche al segreto bisogno di sentirsi in qualche modo salvatore
del mondo. Se Dio non c’è, solo noi possiamo salvare questo
atomo opaco su cui fiorisce una vita multiforme. Non riusciva
però a dirsi, razionalmente, da cosa nascesse questa coazione
soteriologica. Salvarsi l’anima, non credendoci, salvare il
mondo, ritenendolo pezzo insignificante di un universo abban-
donato dagli dei... Ancora una volta in lui agiva altro dalla ra-
gione. Per questo forse detestava lo scientismo, e viveva il suo
insegnamento come una strenua resistenza all’egemonia di una
visione del mondo in cui l’esprit de finesse non aveva dimora.
Era stato fortunato: malgrado l’incidente d’auto in cui il pa-
dre aveva trovato la morte, avvenuto quando era al secondo
anno di università (senza che mai riuscisse a sapere se
quell’uscita da una strada che ben conosceva fosse un modo per
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chiudere con una vita insensata o una tragica fatalità), era riu-
scito, sacrificando la media, a laurearsi nei quattro anni e a
partecipare al concorso a cattedra. Neanche venticinquenne,
quando quasi tutti i suoi (rari!) amici di gioventù ancora non si
erano laureati, dunque, era entrato di ruolo, dimostrando così
una forza d’animo inusuale, capace di non lasciarsi travolgere
da eventi luttuosi e senso di irrimediabile abbandono. Aveva
girato per alcuni anni nelle scuole accoglienti e sonnacchiose
della provincia più sana, per poi, alle soglie dei trenta, stabiliz-
zarsi nell’unico Scientifico della città. Portava con sé più che
certezze una speranza: che la poesia e l’arte in genere potessero
aiutare le anime che il caso gli aveva affidato in quei luoghi al-
trimenti concentrazionari che sono le scuole. Se lui era riuscito
a dilazionare sine die il suicidio, che pure gli appariva unica
scelta letteralmente sensata, in un mondo inospitale che gli
aveva sottratto prematuramente le persone più care, forse sa-
rebbe riuscito nell’intento anche con giovani che avevano la sua
stessa età di quando la madre se n’era andata in una notte pio-
vosa e cattiva, lasciandolo solo con un padre smarrito in una
casa desolata e da allora per sempre irrimediabilmente fredda.
Insomma, si sentiva un medico egli stesso malato. Curando ogni
giorno stesso, e procrastinando l’unica scelta che gli appariva
razionalmente coerente in un mondo disertato dagli dèi, curava
anche generazioni ancor più della sua vocate, nella progressiva
corruzione del mondo, ad accogliere sin dall’infanzia
quell’«ospite ingrato» il cui passo le menti più lucide degli ul-
timi secoli aveva chiaramente distinto. La sua vita interiore, la
stessa relazione con Ester e il suo lavoro di “educatore”, come
preferiva pensarsi, erano stati ricostruiti su nuove certezze, so-
lide come quelle della sua prima giovinezza ma di segno oppo-
sto, come se antiche strutture portanti del cuore e dell’anima
sopravvivessero al terremoto prodottosi da domande cui la
fede, nelle sue umane, talvolta troppo umane incarnazioni, non
aveva saputo dare risposte soddisfacenti. Eppure aveva avver-
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tito delle crepe in questo muro eretto giorno dopo giorno e ce-
mentato con letture e riflessioni spesso scritte in pagine vergate
a mano senza alcuna ambizione sistematica. Era stato, durante
il Natale dell’anno precedente, quando aveva accompagnato ec-
cezionalmente sua moglie alla Messa di mezzanotte. In quella
chiesa fredda, dove aveva trascorso molte ore della sua giovi-
nezza tra canti e preghiere, aveva avvertito come un richiamo.
Accanto alla consueta, ieratica figura del Dio scolpita nella sua
infanzia, e campeggiante in alcuni degli affreschi barocchi della
chiesa, emergeva, come accompagnata da un lamento, quella di
un Dio debole, morto necessariamente in croce perché incapace
di reggere il peso della sua stessa creazione. Nei mesi successivi
a quel rito di una notte senza stelle, quelle crepe impercettibili,
che la sua parte disillusa aveva guardato quasi con fastidio, si
erano allargate, spingendolo a letture impensabili. Certo, av-
vertiva la fascinazione della “Legge” ma ne conosceva le insidie,
e sapeva, con Paolo, che essa può essere mortifera. Ad affasci-
narlo era altro, era la possibilità di un incontro diretto (solus
ad solum come aveva letto nel Plotino scoperto attraverso Leo-
pardi), senza la mediazione sacerdotale. Incontro con un Dio
non onnipotente. La divinità dai tratti paterni che verga con
volto severo su una rubrica ogni peccato, ogni segreto, era parte
del suo retaggio. Sapeva che mai l’avrebbe estirpato da sé, e che
anzi quanto più avesse voluto farlo tanto più essa avrebbe sca-
vato nel profondo. Ma, nel mentre la sua parte sapiens rigettava
come mito castrante tale eredità, sentiva faticosamente farsi
strada il volto dolente di un figlio abbandonato. Aveva sorriso
al pensiero che fosse la sua parte demens a dare albergo a tali
fantasie, ma, ciò nonostante, questa immagine – sorta improv-
visamente contemplando la Crocefissione di Grünewald un
giorno per caso su uno dei libri d’arte che amava comprare e
sfogliare – gli aveva consentito, per la prima volta dagli anni
tetri dei suoi lutti, di intuire (senza che tale intuizione potesse
avere una delucidazione concettuale soddisfacente) che ci può
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dei rarissimi fumetti che aveva letto dopo la morte del padre.
Piaceva ai ragazzi, anche perché spesso ne approfittava per
raccontare loro la storia di un vendicatore solitario in un’ucro-
nia maligna dominata da un nuovo fascismo.
Della scuola amava il rapporto con i ragazzi. Era sua cura
prima di tutto creare un canale comunicativo con loro. Talvolta
prendeva il sopravvento un’altra delle sue strutture psichiche
di lunga durata: quella di piacere. Utilizzava, dunque, inconsa-
pevolmente, strumenti di fascinazione, facendo leva sull’origi-
nalità delle sue lezioni e anche sulla sua età, relativamente gio-
vane in relazione ad un corpo docente mediamente ultracin-
quantenne. Amava ripetere che non si può esserci paideia
senza eros, come aveva insegnato Platone. Era consapevole del
sottile confine che separava l’eros pedagogico dal desiderio, e
cercava di fuggire le tentazioni che i giovani volti potevano in-
durre. Sapeva bene che un educatore vale prima di tutto per
quel che è, poi per quel che fa e solo alla fine per quello che
dice. Era considerato dai più un ottimo professore, amato dai
propri allievi, e capace anche, se sollecitato, di mettersi al ser-
vizio della scuola nel tumultuoso processo di trasformazione in
atto.
Quella mattina iniziò ad introdurre, per la classe che di lì a
pochi mesi avrebbe affrontato l’Esame di Stato, il tema che
forse più gli stava a cuore e conosceva meglio grazie agli studi
universitari e alle letture successive: la poesia italiana del No-
vecento. Raramente gli capitava di sedere dietro la cattedra, ma
per una lezione del genere aveva bisogno di un palco teatrale.
Per tutta l’ora percorse l’aula gesticolando appassionatamente.
Provava a comunicare ad adolescenti – la maggior parte (se non
la totalità) dei quali mai avrebbe comprato o letto un libro di
versi – quanta bellezza, forza e verità ci fosse nei grandi poeti
italiani del XX secolo, e non solo nei più celebrati e noti, come
Montale, Ungaretti e Saba, ma anche in autori come Campana,
Luzi, Betocchi, Caproni, Fortini, Pasolini, Sereni. E come an-
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sapeva, non l’avrebbe mai saputo. Nel corso degli anni avrebbe
dato le interpretazioni più varie alla profezia della “Voce”. Sa-
peva, però, che, in assenza di un comando, di una Terra pro-
messa, senza alcun Mar Rosso da attraversare né leggi scolpite
nella pietra, né arcangeli a sussurrargli quali guerre combat-
tere, egli doveva decidere, assumendo sulle sue fragili spalle an-
cora ventenni, l’onere dello sbaglio e senza alcuna mercede in
caso di riuscita (chi gli avrebbe mai certificato che quell’azione
per lui giusta non avrebbe portato in futuro esiti catastrofici?).
Urgeva, però, risolvere, nella convalescenza del padre (e di
Argo), il problema della sopravvivenza. Ma doveva trovare un
lavoro (forte solo di un inutile diploma liceale) che gli lasciasse
il tempo per i suoi esperimenti, il suo tirocinio solitario. Pensò
che lavorare in uno dei pub cittadini, fioriti negli ultimi anni
per dare stura al bisogno di socializzazione di una città povera
di luoghi di ritrovo e attività conviviali, poteva essere una
buona soluzione. Avrebbe avuto quasi l’intera giornata a dispo-
sizione. Certo, avrebbe dormito pochissimo, ma era una rinun-
zia che poteva fare. Fu assunto perché molti in città sapevano
delle vicende sventurate della sua famiglia. Per altro il proprie-
tario del locale era stato allievo di sua madre, cui serbava una
sincera riconoscenza. La paga non era elevata, ma l’avrebbe
fatta bastare, almeno nei mesi che gli sembravano i più duri
vista la montagna da scalare che percepiva di fronte a sé.
Quei mesi li avrebbe ricordati come un sogno, tra la cura del
padre, che solo lentamente riacquistava autonomia, il tempo
trascorso, con ogni condizione atmosferica, nel bosco e l’anno-
tazione degli effetti dei versi, l’accumulazione e la lettura di mi-
gliaia di versi in quattro lingue (all’inglese affiancò il francese
e il tedesco, aiutandosi con grammatiche fattesi prestare da
amici diplomati al linguistico). Purtroppo non aveva il tempo
di riflettere, se non sporadicamente, su quanto queste letture
nutrissero il suo spirito. Aveva lasciato l’Università, non sa-
rebbe mai diventato un insegnante, come aveva sempre deside-
rato, eppure rimaneva fedele alla vocazione poetica che l’avevo
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«e i secchi aurei si tendono».
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ELEMENTI
1. «S’i fossi foco arderei ’l mondo»
Incendio dell’oggetto che si sta fissando
2. «’Tis Said She First Was Changed Into a Vapour» (Si
racconta che prima fu mutata in nebbia)
L’oggetto viene avvolto da una fitta nebbia
3. «La bufera infernal che mai non resta»
Potente vento pieno di caligine capace di spostare oggetti
pesanti
4. «Al fondo della ghiaccia ir mi convegna»
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Questo “Quaderno” ha una funzione eminentemente pratica: mi serve a
ripetere quotidianamente e imparare a memoria i versi dotati di poteri,
dopo averli sperimentati. Ho iniziato a scriverlo la seconda settimana
dall’episodio della levitazione nella città universitaria. Non so se mai qual-
cuno leggerà queste pagine, ritenendole il parto di una mente malata o
infantile. In fin dei conti, tutta la mia vita, per necessità, è consistita nel
nascondermi, non per paura. Non so neanche se mai potranno essere utili
a qualcuno che dovesse avere lo stesso dono e decidere di rivelarsi al
mondo. In tal caso, spero che gli esperimenti condotti per tutta la mia vita
e gli errori commessi possano aiutarlo a svolgere meglio la missione che,
gli auguro, possa conoscere.
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VERSI DI GUERRA
5. «Cry “Havoc!,” and let slip the dogs of war» (Invoca la
strage! E lascia liberi i cani della Guerra)
Onda d’urto dagli effetti devastanti
6. «Frigidus in pratis cantando rumpitur anguis» (Il
freddo serpente si schianta nei prati al suono dei versi)
L’oggetto (l’essere vivente?) esplode
7. «Mit Regendiamanten bekled ich dich» (Con diamanti di
pioggia ti rivesto)
Pioggia di detriti cristallini
AZIONE SU DI SÉ
8. «Oh lift me from the grass!» (Oh, sollevami dall’erba!)
Levitazione (a circa due metri da terra)
9. «Where it will break at last» (Dove alla fine si inter-
rompe)
Fine (graduale) della levitazione
GUARIGIONE
11. «Do not go gentle into that good night» (Non andartene
docile in quella buona notte)
Guarigione (anche da ferite mortali)
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fosse mancata coscienza del proprio tempo, ma, dal suo punto
di vista, l’avevano vissuta quasi inerzialmente dentro il sentire
comune di una città del Sud, che dal dopoguerra, dopo essere
stata convintamente fascista, e aver dato il settanta per cento
dei voti alla monarchia nel referendum del 1946, si era scoperta
democristiana. In qualche modo, sentiva che rompere con la
fede materna e con le convinzioni politiche di entrambi i geni-
tori significava, malgrado loro non ci fossero più, diventare
adulto. Eppure, nello stesso tempo, si rendeva conto di come
confliggessero clamorosamente la certezza di un’umanità con-
dannata alla fascinazione della cenere e, di contro, l’urgenza di
battersi per la giustizia. Nelle sue frequenti divagazioni filoso-
fiche, che pure erano sorrette solo da letture rapsodiche e di-
sordinate, intuiva quanto fosse poco giustificabile l’impegno
per un mondo visto come irrimediabilmente dannato, roso dal
male e da una sofferenza scaturente dal profondo del suo essere
e non da contingenze storiche. Allora cercava rifugio nel suo
Leopardi, soprattutto nelle pagine di una meravigliosa edizione
dello Zibaldone, il dono più prezioso che aveva ricevuto dallo
zio per la sua laurea. Un pessimismo tragico ed agonistico gli
pareva unica sintesi possibile di quanto era in quel momento:
il pessimismo di una ragione disincantata e l’ottimismo, o co-
munque l’azione più che della volontà di una speranza che però
non spera alcuna salvezza. Aveva visto, proprio negli anni delle
sue tragedie familiari, sfaldarsi quel sogno grandioso e insan-
guinato che era stato il comunismo novecentesco. Era stato te-
stimone, tra il crollo del corpo di sua madre e lo schianto
dell’auto del padre, di altri crolli, di altri schianti. Aveva vis-
suto un passaggio epocale, acceso una candela di notte spe-
rando che donne e bambini fossero risparmiati da bombe “in-
telligenti”, sentendosi impotente di fronte ad un potere che sce-
glieva nomi magniloquenti per ergersi a paladino di una giusti-
zia divenuta planetaria. Il comunismo per lui era davvero ra-
gionevole e facile: si trattava di fondare nel mondo, ovunque,
la giustizia sociale. Gli sembrava iniquo che l’umanità avesse
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5Tu che il mio canto intendi sola: / in te si perde la mia parola / come
nella foresta.
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accoglierla nel suo nido per cercare nel corpo di lei lenimento
al male di vivere che lo rodeva dall’interno silenziosamente, ri-
trovandovi un’eco degli abbracci materni e la promessa di una
pace di là a venire. Dopo un paio di anni trascorsi così, pur con
delle crepe che ad occhio attento sarebbero apparse pericolose,
avevano deciso di sposarsi. Lo avevano fatto in Comune, invi-
tando solo i parenti più stretti quasi per rispetto di lui, che
aveva solo il fratello di suo padre. Avrebbe potuto essere un
matrimonio felice. In fondo, rispetto a tanti coetanei avevano
già superato alcuni problemi di ordine pratico che ad altri ap-
parivano montagne da scalare, dal lavoro alla casa. Eppure,
dopo i primi anni in cui entrambi si erano illusi di aver trovato
l’altra metà in cui gli dèi invidiosi avevano diviso l’umanità ori-
ginaria, con sgomento scoprirono che i bordi non collimavano,
che troppo di loro esondava dagli abbracci notturni in cui si
univano cercando affannosamente di placare il disagio e le sem-
pre più frequenti incomprensioni. Lui aveva imposto una di-
mensione di coppia sostanzialmente totalizzante, in cui ci fosse
pochissimo o nullo spazio per altro, mentre Ester avrebbe vo-
luto continuare a coltivare amicizie e relazioni. Capitava sem-
pre più spesso che lei uscisse con i vecchi amici di giovinezza,
mentre lui ostinatamente rimaneva a casa a vedere i suoi film o
immerso nelle sue letture che spesso si prolungavano fino a
notte fonda. Sempre più spesso a lui capitava di ricordare i luo-
ghi della sua adolescenza, il bosco dove aveva coltivato la gioia
della solitudine. E pensandosi immerso in quelle fronde amate,
gli succedeva talvolta di pentirsi: si era illuso che ci fosse sal-
vezza e guarigione dalla ferita mortale inflittagli, come se un
arto strappato potesse essere sostituito con un braccio mecca-
nico, come se l’amore di sua madre e la presenza del padre po-
tessero essere surrogati da un’altra persona. Ognuno è solo sul
cuore della terra. La solitudine non era una scelta individuale
bensì un destino. Che lui aveva voluto ingannare. E questo lo
spingeva ad un mutismo che feriva Ester. Non lo capiva più
dopo alcuni anni, eppure continuava ad amarlo dolorosamente,
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Dopo pochi mesi, poteva dirsi soddisfatto. Suo padre era ri-
nato. La casa era funzionale ai suoi bisogni. Rispettava con di-
sciplina il rigido programma giornaliero di studio delle lingue,
sperimentazione, cura del corpo, condivisione del dono della
guarigione. In alcuni momenti, si era persuaso che effettiva-
mente la “salvezza” di cui aveva cantato la “Voce” fosse quella
che ogni giorno, nel nascondimento, praticava, dispensando
nuova vita a poveri corpi in attesa della fine. Eppure, nei mo-
menti di maggior lucidità del giorno, percepiva che non poteva
bastare. Non aveva alcun senso che, tra i molti poteri che stava
scoprendo, solo uno avesse valore, quasi gli altri fossero l’or-
pello che una divinità barocca avesse voluto aggiungere.
Una notte, mentre stava sognando, come spesso capitava, al-
tre vite possibili (e il risveglio in quel caso lo richiamò, con ram-
marico, da un’aula dove stava recitando a memoria davanti ai
suoi alunni, che gli sembrava di conoscere da sempre, dei versi
della Gerusalemme liberata), sentì dei rumori provenire dalla
“Domus vocis”, che pure aveva una robusta porta a protezione.
Non poteva essere un animale perché era sua cura chiuderla
bene con cura. Non temeva per il suo tesoro, ben nascosto e
impossibile da trovare per chiunque. Non accese la luce. Prese
una torcia che aveva sempre accanto al comodino e, da una fes-
sura delle imposte, si mise ad osservare. Da una finestra della
“Domus” vedeva una luce agitarsi nel buio e sentiva rumore di
oggetti rovesciati. Si accorse che, davanti alla porta forzata,
c’era un uomo. Erano, dunque, almeno due se non di più i ladri
che stavano violando il suo tempio. In vita sua non aveva mai
combattuto. Neanche una zuffa tra amici. Il massimo di vio-
lenza l’aveva esercitato, in quei pochi mesi di soggiorno a Roma,
nelle ore di palestra, praticando arti marziali e boxe. Ma non si
sentiva pronto. E non lo era neanche nel controllo dei suoi po-
teri. Avrebbe ricordato i versi, lui che aveva avuto doni im-
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war».6 Senza capire cosa stesse accadendo, l’uomo dal volto co-
perto si trovo sbattuto violentemente contro la parete della
“Domus”, perdendo i sensi. Tutto tacque e la luce all’interno si
spense improvvisamente. Scattò in questa drôle de guerre, e
prese la pistola, senza sapere se il ladro all’interno fosse armato
e di cosa. Prima di allora non aveva mai impugnato un’arma. E
aggiunse mentalmente agli attrezzi da procurarsi almeno una
pistola ed un fucile, malgrado provasse una istintiva ripu-
gnanza per ogni forma di violenza, e sentendo – come per la
memoria – come la divinità sconosciuta rivelatasigli una volta
sola avesse un invidiabile senso dell’ironia. Quante persone
c’erano lì dentro? Presa la pistola, tornò dietro l’albero nascon-
dendosi. Vide uscire una sola persona a volto scoperto, che
provò a scuotere il collega svenuto. In mano aveva un poderoso
coltello militare. Aveva esaurito l’unico verso “di guerra” non
mortale che per ora aveva scoperto. Non fu tentato dall’usarne
quelli distruttivi. Ebbe una ispirazione (dettata dalla “Voce” o
dono del sogno da cui era stato richiamato controvoglia?).
Chiuse gli occhi e pronunziò: «La sua forma invisibil d’aria
cinse». Vide che i suoi arti sparivano ai suoi stessi occhi. Si av-
vicinò attento a non far rumore, colpendo con un pugno al volto
il ladro di sogni (e pensando in una frazione di secondo che an-
che i guanti andavano modificati e resi efficaci per situazioni
del genere). Dopo un attimo di smarrimento, quello reagì lan-
ciando fendenti nel vuoto e colpendolo ad un braccio. Fu un
attimo. Dal nulla si sentirono parole misteriose: «Più volte il
mondo in caòsso converso». Era la prima volta che sperimen-
tava il verso su un soggetto vivente, non conoscendone le con-
seguenze. Mentre si teneva la mano sulla ferita dolorosa al brac-
cio sinistro, vide il ladro barcollare e iniziare a vomitare. Dopo
una serie di piroette con le mani che mulinavano nell’aria, lo
vide cadere a terra dimenandosi. Prese, allora, utilizzando la
destra nella “Domus” una mazza di legno e lo colpì violente-
mente in testa, mentre era ancora invisibile. Non conosceva il
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grande crimine, vera lebbra del suo Paese? Ma aveva gli stru-
menti per farlo? Procedendo lungo una sorta di “scala crimi-
nis”, pensava che salvezza avrebbe potuto essere affrontare
(ma ancora una volta: in che modo?) le emergenze planetarie.
Il recente episodio della Exxon Valdez aveva aperto gli occhi a
molti, a lui stesso, sulla potenziale catastrofe ecologica. I poteri
non avrebbero conferito alla sua parola autorevolezza spin-
gendo i potenti della terra a scelte radicali in ambito energe-
tico? L’amato bosco e l’acqua sempre più torbida spingevano in
questa direzione. Quando si immaginava a parlare all’ONU,
dopo aver fato testimonianza di quanto poteva in mondovi-
sione, sentiva che le parole ascoltate in quel giorno fatale («Le
parole saranno strumento di salvezza») avevano un senso com-
piuto. È vero: era lui ad aggiungere “per chi” lo sarebbero
state, ma avvertiva che un tale misterioso potere, unico (o al-
meno così credeva) al mondo fosse degno di un fine universale,
che esulasse dalla contingenza di un quartiere, di una città, fi-
nanche di uno Stato. D’altronde, la poesia del “suo” Dio non
aveva avuto, nei suoi momenti più alti, l’ambizione altissima di
ricongiungere uomo e natura? «He prayeth best, who loveth
best / All things both great and small; / For the dear Good who
loveth us / He made and loveth all».7 Questi versi non avevano
poteri, ma sentiva che erano potenti nel dire in maniera defini-
tiva che il patto spezzato doveva essere ricomposto, pena la ma-
ledizione che avrebbe condannato a morte l’intera umanità. La
poesia era un sapere ecosofico ai suoi occhi. Nel massimo peri-
colo cresceva, attraverso di lui, ciò che salva.
In queste sue riflessioni solitarie, oltre a decine di versi in
cui cercava conferma delle sue congetture, facevano capolino
immagini e parole lette in quello che considerava uno “svago”
(l’unico, insieme al cinema) serio, che peraltro lo ricongiungeva
alla sua infanzia (e che riteneva concausa della scelta fatta dalla
“Voce”). Mentre sua madre con dolce ostinazione cercava di
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«Prega bene colui che meglio ama / tutte le creature, piccole e grandi; /
poiché il buon Dio che ci ama, / ha fatto e ama tutti».
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farne un lettore precoce, nella sua stanza i libri (che solo dopo
avrebbe scoperto come prezioso tesoro), lasciavano il posto ad
albi colorati, molti dei quali purtroppo perduti per incuria in-
fantile. Gli eroi che vi campeggiavano, tutti dotati di poteri che
ora lui stesso aveva, erano stati i modelli etici ed estetici della
sua infanzia. Senza soluzione di continuità, semmai ampliando
lo spettro del dicibile e del raccontabile alle zone più oscure
dell’umano, quel mondo che lo aveva incantato sia per la po-
tenza delle forme che per la capacità mitopoietica, lo accompa-
gnava fedelmente, dandogli parte degli strumenti di interpreta-
zione della realtà ed evolvendosi misteriosamente con lui. E se
al bambino avevano scandito parole scolpite nel bronzo, che
nessuno avrebbe potuto fraintendere, figlie di una visione
pura, luminosa del Bene e del Male, con la sua maturazione,
passata attraverso la fucina della morte e del miracolo inatteso,
al giovane solitario e dubbioso che era forzatamente diventato
parlavano eroi molto più ambigui, in cui si mescolavano ine-
stricabilmente tensione al bene e coazione al male. La dimesti-
chezza con le lingue acquisite (anche qui un aiuto della “Voce”
che aveva ribaltato quella che era sicuro fosse la sua natura?)
gli aveva reso possibile leggere anche ciò che in Italia ancora
non si trovava. In particolare, aveva scoperto un autore inglese
che assumeva posture sciamaniche e flirtava con la magia, uti-
lizzando il fumetto per porsi interrogativi radicali. Insieme ad
un americano che aveva ereditato il meglio dell’immaginario
supereroistico, rendendolo adulto, aveva rinnovato completa-
mente il linguaggio del fumetto, inaugurando un’era oscura,
che gli pareva assolutamente organica a quanto lui stesso, ma-
cerato dal dubbio e privo di quel nitore che aveva spinto uni-
vocamente gli eroi della sua infanzia sulla via del Bene, stava
vivendo. In particolare, era rimasto colpito da una vicenda in
cui, in un mondo ucronico, accanto a vigilantes psicopatici,
emerge la figura di un “salvatore” dell’umanità, il cui modello
soteriologico affondava nell’antico Egitto, che plasticamente in-
carnando un’etica della responsabilità, decideva di sacrificare
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Non ancora trovato il verso che ne annulla l’effetto (che dura tre ore).
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METAMORFOSI
ALTRE AZIONI
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Non ci sei più e la tua assenza è una cosa come tante altre: il
mare, gli uccelli. La morte è facile, dopo. Riusciamo a darle un
senso, comunque, Ci giustifichiamo in qualche modo il nostro
continuare a vivere. Ed è solo un ricordo il pensiero ossessivo
di voler morire prima di te.
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unico attore planetario sul campo. Non era amato in patria, ve-
niva considerato, ingiustamente, il responsabile della crisi eco-
nomica e della fine del prestigio internazionale russo.
Quando lesse la notizia del colpo di Stato in atto e della se-
gregazione forzata di Gorbačëv nella sua dacia in Crimea, non
ebbe esitazioni. Sentiva di dover agire. La decisione era senza
fondamento. Non avrebbe mai avuto né una voce a suggerirgli
il da farsi né un sentire condiviso da una comunità. Lui stesso
era il fondamento di un gesto che avrebbe potuto cambiare le
sorti del mondo.
Sentiva tutta la sua insufficienza per un’opera del genere.
Fino ad ora si era limitato ad uno scontro nel giardino di casa
con due ladruncoli.
Si vestì con la tuta che aveva meticolosamente predisposto
negli anni, la cotta in kevlar, il passamontagna, i guanti rinfor-
zati con nocche d’acciaio, gli occhiali da motociclista, mise armi
e il navigatore satellitare nello zaino, calzò gli anfibi. Scrisse un
biglietto per suo padre, nel caso in cui non fosse tornato con
l’impegno di lasciarlo per sempre ben in vista anche in futuro.
Parlava di un viaggio in terra lontana, indicava con precisione
il posto in cui era sepolta la cassa con le verghe d’oro che sa-
rebbero dovute bastare per la sua vecchiaia.
Si rese invisibile e iniziò il volo, esperienza ogni volta mera-
vigliosa. Aveva imparato a controllare negli esperimenti dei
mesi precedenti questa abilità, tra tutte quella che più lo emo-
zionava. Guardava il mondo sottostante, la vita delle persone
comuni che lavoravano, amavano, questionavano. Per la prima
volta provava invidia per loro. Tutti loro avevano dei precisi
obiettivi nella vita, intessevano relazioni d’amicizia e d’amore,
partecipavano ad una rete di relazioni che conferiva senso al
loro esistere. Lui era solo, non avrebbe mai saputo se il suo
agire fosse corretto, non poteva concedersi il lusso né di amici
né un amore, sebbene in certe sere di primavera provasse uno
struggente bisogno di carezze e baci.
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VERSI DI GUERRA
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7. «If I were a swift cloud to fly with thee» (S’io fossi una
nuvola rapida che volasse con te)
Volo veloce
ELEMENTI
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ALTRE AZIONI
10. «I will not cease from mental fight» (Io non smetterò di
lottare con il pensiero)
Controllo mentale
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Praga e a Lione, quanto del potere che lui deteneva fosse disse-
minato nel mondo. L’incontro con Kony gli aveva insegnato che
ce ne possono essere gradazioni diverse, anche minime. Non po-
teva essere il solo. E, ancora, la parola che dischiudeva mondi
lo avrebbe condotto anche a K’un-Lun e a Kamar-Taj o in altre
località sconosciute dove avrebbe finalmente scoperto l’origine
del suo potere e dialogato con maestri o pari, dimensioni chiuse
che imprigionano anni fuggiti via?
Sentì Argo abbaiare. Era tornato. Il sole appena tramontato
lasciava striature rosate sul profilo delle montagne lontane. Suo
padre lo stava chiamando. Risero insieme ricordando alcuni
episodi della sua infanzia. Prima di andare a letto il padre,
come faceva tanti anni prima, gli baciò la fronte, sussurrando-
gli: «Eliseo, non ti ho mai detto grazie per avermi salvato. Che
Dio ti benedica».
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Un miracolo accade.
Germoglia inaudito in un grembo, gravido
di cieli e terre mai visti, eventi
mirabili. È la voce cura al Nulla.
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Sommario
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