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Che il narrare stia al cuore della nostra fede non lo si deve inse-
gnare ai bambini, almeno a quelli esposti alla forza delle storie bibli-
che. Lo scrittore Paul Claudel ricorda quanto la storia di Assalonne
(cfr 2 Sam 14-18) e l'immagine della sua capigliatura si siano impres-
se nelk sua memoria di bambino, fin dalle prime lezioni di catechi-
smo 1. E una realtà che non sfugge neanche ai saggi, in particolare a
Pascal, che portava sempre cucita addosso una piccola scritta: «Dio
di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti, cer-
tezza, certezza, pace e consolazione [...]. Non lo si trova che per le
vie insegnate dal Vangelo». Dio e il suo Messia — il filosofo lo aveva
capito — ci vengono incontro attraverso una storia raccontata, quel-
la della Genesi come quella del Vangelo2. E oggi a noi è chiesto di ri-
scoprire la verità in questione, che non sfugge né ai bambini né ai
saggi; essa fornisce alla nostra esperienza di fede come un principio
di realtà, che non si deve mai perdere di vista. Possiamo prendere co-
me punto di partenza della nostra riflessione il Salmo 78:
1 Cfr P. CLAUDEL, «J'aime la Bible», in ID., Œuvres complètes, vol. XXI, Paris, Gal-
limard, 1963, 349.
2 Si veda il documento della Pontificia Commissione Biblica Linterpretazione della Bib-
bia nella Chiesa (1993) che, nella sezione sull'analisi narrativa, propone un metodo di com-
prensione e di comunicazione del messaggio biblico. Il metodo corrisponde alla natura nar-
rativa di un gran numero di testi biblici. «L'Antico Testamento, infatti, presenta una storia
della salvezza il cui racconto efficace diventa sostanza della professione di fede, della litur-
gia e della catechesi (cfr Sai78,3-4; Es 12,24-27; Dt 6,20-25; 26,5-10). Da parte sua, la pro-
clamazione del kervgma cristiano comprende la sequenza narrativa della vita, della morte e
della risurrezione di Gesù Cristo, eventi di cui i Vangeli ci offrono il racconto dettagliato. La
catechesi si presenta, anch'essa, sotto forma narrativa (cfr 1 Cor 11,23-25)».
La specie fabulatrice
Prima di approfondire la dimensione narrativa della fede bi-
blica, conviene esplorare brevemente l'aspetto antropologico e
culturale di questo narrare, che mette le Scritture ispirate in dia-
logo con il corpus narrativo dell'umanità. Il «narrare» attraversa
tutte le culture, fin dall'alba della storia umana. Si pensi ai rac-
conti più antichi dell'umanità, dalle grandi epopee di Gilgamesh,
di Enuma Elish e di Atrahasis nella Mesopotamia antica all'Iliade
e all'Odissea di Omero in Grecia, o alla Mahabharata, l'epopea sa-
cra dell'induismo. La nostra specie, quella dell 'homo sapiens, è,
come scrive la saggista Nancy Huston, una «specie fabulatrice»,
l'unica a «lavorare a maglia delle storie per sopravvivere». Siamo
abitati, in quanto umani, da un istinto che ci conduce a «intrec-
ciare» l'esperienza nostra, a tradurla in tante storie. Lo aveva det-
to per primo Aristotele nella sua Poetica: siamo esseri mimetici. E
per noi un riflesso costitutivo rappresentare drammaticamente la
nostra esperienza, anche nei suoi aspetti più terribili — Aristote-
le aveva in mente la tragedia greca —, per poter abitare in modo
«purificato» e più libero la nostra condizione umana.
Questo nostro istinto narrativo lo abbiamo esplorato tutti nel-
la nostra infanzia, ascoltando storie, leggendo storie e creando
storie originali. Il momento di grazia a questo riguardo è stato il
momento dell'andare a dormire. Nel film di Terrence Malick The
Tree of Life, uno dei tre figli chiede alla mamma, nella loro stan-
za comune: «Raccontaci storie di prima dei nostri ricordi». Que-
sta richiesta tradisce la domanda di ogni generazione di sentire
dalla bocca dei genitori una storia cominciata prima di loro. La
storia anteriore in questione è, certo, anzitutto quella della fami-
glia — rincontro dei genitori, la nascita dei figli —, ma è anche
quella che, progressivamente, risale il corso delle generazioni. Ri-
troviamo così il compito affidato ai padri nel Salmo 78.
Ma presto le storie sentite sono diventate per noi le storie lette.
Nella sua opera Una storia della lettura, lo scrittore Alberto Man-
guei, discepolo di quel maestro in narrazione che fu Jorge Luis
Borges, riporta un'esperienza che hanno fatto tutti i giovani letto-
ri: «Molte notti accendevo la lampada accanto al letto [...] e cer-
cavo di arrivare alla fine del libro che stavo leggendo, tentando
nello stesso tempo di rimandarla il più possibile»3. Ogni adole-
scente è stato alla ricerca di una neverending story, al modo della
unendliche Geschichte di Michael Ende. La relazione con i rac-
conti, tuttavia, non è soltanto «roba» da bambini o adolescenti: è
vitale a tutte le età. Sino alla fine della nostra vita ci capiremo me-
diante i racconti che riceveremo dalle culture umane4.
La psicologia cognitiva, che si interseca con le neuroscienze ma
anche con la teoria letteraria, si interessa oggi al tipo di intelligenza
che si sviluppa attraverso la composizione o la delucidazione di in-
trecci letterari. Tipico su questo fronte di ricerca è il libro di Mark
Turner The Literary Mind, che intende mostrare che l'intelligenza
narrativa non è periferica, ma centrale nella vita della mente5. Con
esempi tratti da Omero a Proust, Turner mostra come le storie rac-
contate prestino alla mente meccanismi cognitivi essenziali per ca-
pire la nostra collocazione nel tempo e nello spazio, per capirsi co-
me un «se stesso» {self), distinto da altri «se stessi» (.selves), e per
immaginare questi altri selves e il loro punto di vista. Chi ha letto
L'urlo e il furore di William Faulkner (1929), Il mio nome è rosso
di Orhan Pamuk (1998), o la storia di Giuseppe e dei fratelli nel-
7 H. W. FREI, The Eclipse of Biblical Narrative, New Haven, Yale University Press,
1978, 16.
8 Ma la stessa Bibbia accoglie nel suo canone anche libri in forma di parabola, co-
me quelli di Giobbe o di Giona.
9 K. BARTH, Die Kirchliche Dogmatik. Zweiter Band: Die Lehre von Goti. Zweiter
Halbband, Zurich, Theologischer Verlag, 1 9 7 4 5 , 2 0 6 ; cfr ID., Die Kirchliche Dogmatik.
Dritter Band: Die Lehre von der Schòpfung. Dritter Teil, Zurich, Theologischer Verlag,
19612, 332-334.
1 0 J.-B. METZ, «Kleine Apologie des Erzàhlens», in Concilium 9 (1973) 334-341.
Biblica! Narrative (1985), che hanno aperto un nuovo capitolo nel-
la storia dell'esegesi11. Questi due libri — è interessante notarlo —
non sono stati scritti da esegeti o teologi, ma da due esperti in teo-
ria letteraria e letteratura comparata, molto sensibili, è vero, alla di-
mensione teologica della Bibbia ebraica. Ancora una volta, si rive-
la l'affinità della Scrittura con le scritture, owerossia le lettere, la
letteratura dell'umanità. Scrive il biblista francese Paul Beauchamp
in questo senso: «Senza la nobiltà delle scritture, non ci sarebbero
sacre Scritture, né Libro ispirato se il libro, in sé, non avesse una
destinazione così alta. Questo accostamento intimo, "familiare",
non espone ad alcun rischio di confusione fra la Bibbia e gli altri
scritti: la Bibbia è fatta per essere decifrata e risuonare in mezzo al-
le altre lettere e alla loro esistenza; non c'è da temere che vi perda
la sua tonalità propria. Liberiamoci piuttosto dall'incoerenza che ci
induce — poiché bisogna spiegare la Bibbia con gli scritti antichi
del Vicino Oriente — a fare astrazione dall'ambiente e dalla riso-
nanza non meno appropriati che le arreca la nostra letteratura, evi-
dentemente in maniera del tutto diversa»12.
Lintelligenza narrativa
Citando Turner, abbiamo indicato il legame tra l'intelligenza e
l'intreccio narrativo. Esso ha una verifica nella nostra relazione al
racconto biblico. Dobbiamo alla narrativa biblica il merito di in-
trodurci nell'«identità narrativa» del personaggio di Dio, del suo
Cristo e di tanti personaggi umani nell'affresco della Bibbia, e di
farci scoprire di rimando la nostra propria «identità narrativa».
«Una delle funzioni del racconto — scrive Paul Ricoeur — [...] è
di rispondere all'interrogazione chi?, disegnando quella che può
essere chiamata l'identità narrativa del personaggio, vale a dire l'i-
dentità prodotta dal racconto stesso»13.
Nella sua frase «rispondere all'interrogazione chi?», Ricoeur
echeggia un altro filosofo, Hannah Arendt, che è all'origine del
concetto di «identità narrativa». Scrive la Arendt nel suo saggio
11 Cfr R. ALTER, Larte della narrativa biblica, Brescia, Queriniana, 1990; M. STERN-
BERG, The Poetics of Biblical Narrative. Ideological Literature and the Drama of Reading,
Bloomington, Indiana University Press, 1985.
12 P. BEAUCHAMP, L'uno e l'altro Testamento; vol. 2°: Compiere le Scritture, Milano,
Glossa, 2001, 86.
13 P. RLCŒUR, «Le récit interprétatif. Exégèse et Théologie dans les récits de la Pas-
sion», in Recherches de Science Religieuse 73 (1985) 21.
The Human Condition: «Nel momento in cui vogliamo dire chi uno
sia, il nostro vocabolario ci svia facendoci dire che cos'è; ci trovia-
mo impigliati nelle descrizioni delle qualità che egli condivide ne-
cessariamente con i suoi simili; cominciamo a descrivere un tipo o
"un carattere" nel vecchio senso della parola, col risultato che la
sua specifica unicità ci sfugge»14. Ora, una delle proprietà del rac-
conto è quella di poter preservare il chi del personaggio mentre lo
dispiega, al di là di ogni descrizione o definizione di ciò che è. Si
potrebbe illustrare questo fenomeno con quei personaggi comples-
si, paradossali ed evolutivi che sono Mosè o Davide nella Bibbia
ebraica, o Pietro nel Vangelo. Nel corso della sua ascesa (cfr 1 Sam
16-2 Sam 6, una sezione che potrebbe essere intitolata «Tutto ciò
che serve per essere re») Davide, ad esempio, ha dovuto nasconde-
re il segreto della sua unzione, imitato e assistito in questo dal nar-
ratore, che fa del figlio di lesse un personaggio sempre elusivo: die-
tro il più visibile in lui, i suoi tratti amabili e i suoi capelli fulvi, Da-
vide è quello che si sottrae a ogni «ferma immagine» - Dio soltan-
to ne conosce il cuore. Ma il paradigma di questo fenomeno è sen-
za dubbio il Dio biblico stesso, il cui nome rivelato — «Sarò quel-
lo che sarò», o anche «Sono solito essere quello che sono solito es-
sere» (Es 3,14) — protegge questa misteriosa identità, declinata
lungo il racconto 13. In modo eminente è anche il caso di Gesù, e
particolarmente nel racconto di Marco. Scrive Ricoeur:
«[...] è forse la funzione di alcuni racconti di addensare l'enigma del
personaggio mentre chiariscono il "montaggio" dell'intreccio. [... Mar-
co] dispiega la sua cristologia del Figlio dell'uomo sofferente compo-
nendo il suo racconto non con un'arte letteraria maldestra, come spes-
so è stato detto, ma con un'arte supremamente reticente e criptica» 16.
20 Ivi, 18.
della domanda rivolta dai figli: «Quando in avvenire tuo figlio ti
domanderà...» (Dt 6,20-25; cfr Es 12,26-27; 13,14-15; Gs 4,6-
7.21-24). Radicato negli eventi fondatori, questo compito rag-
giunge il lettore, di generazione in generazione, chiamato anche
lui a raccontare ai figli, «perché ascoltino, imparino a temere
Yhwh, vostro Dio, e abbiano cura di mettere in pratica tutte le
parole di questa legge. I loro figli, che ancora non la conoscono,
la udranno e impareranno a temere Yhwh, vostro Dio» (Di 31,12-
13). La rivelazione di Dio, espressa nel racconto della Bibbia lega
le generazioni fra loro, nella loro successione, mentre le lega tut-
te a Dio. All'orizzonte del racconto biblico sta sempre «la gene-
razione che viene», e non abbiamo ancora preso la misura teorica
e pratica di questa destinazione comunicativa.
Ma è anche l'esperienza stessa della paternità — e della mater-
nità — che si trova sottesa in questo narrare, che ne fornisce un
principio di realtà e di speranza. Nella Bibbia, generare è narra-
re, è iscriversi, assieme ai figli, in una genealogia che dispiega la
trama viva della storia:
«Così Booz prese in moglie Rut. Egli si unì a lei e Yhwh le accordò di
concepire: ella partorì un figlio [...]. E lo chiamarono Obed. Egli fu il pa-
dre di lesse, padre di Davide. Questa è la discendenza di Peres: Peres ge-
nerò Chesron, Chesron generò Ram, Ram generò Amminadàb, Ammina-
dàb generò Nacson, Nacson generò Salmon, Salmon generò Booz, Booz
generò Obed, Obed generò lesse e lesse generò Davide» (Rt 4,13-22).
Questa scansione della storia come trama di generazioni con-
trasta con la visione frantumata della famiglia e dei rapporti in-
tergenerazionali che viene veicolata oggi. La Bibbia in questo sen-
so contesta la nostra amnesia e immette il suo racconto di nascite
e di morti là dove noi siamo diventati muti. Ma va anche oltre: in-
semina di parole, di figure e di intrecci le nostre paternità, in par-
ticolare quando esse attraversano crisi drammatiche.
Nel suo studio King and Kin, Joel Rosenberg ha mostrato quanto
il dramma della paternità scandisca la Bibbia ebraica, dalla storia del-
l'uscita del Giardino al ciclo di Abramo e a quello di Davide: in ogni
caso, un figlio viene preferito, un figlio «muore», un figlio conosce
l'esilio21. La storia dei patriarchi è il santuario di questa teologia nar-
2 1 Cfr J. ROSENBERG, King and Kin. Political Allegory in the Hebrew Bible, Bloom -
ington, Indiana University Press, 1986.
rativa, che rivela come ciò che è più (apparentemente) naturale — la
concezione e la nascita del figlio — sia proprio ciò che più è sospeso
alla provvidenza divina. Ad Abramo viene inoltre richiesto di offrire
Isacco, il figlio insperato (cfr Gn 22), ma anche di lasciar andare il
primogenito, Ismaele (cfr Gn 21). Nel romanzo Gilead (2004) di Ma-
rilynne Robinson questa doppia richiesta viene letta dal vecchio pa-
store Ames come un rendez-vous cruciale di ogni paternità. Il reve-
rendo John Ames sta morendo e capisce che non potrà né educare il
figlio di soli sette anni, né offrirgli testimonianza di sé. Il pastore sce-
glie allora di affidarsi a una lettera-diario, che dica un giorno al bam-
bino ormai adulto ciò che di suo padre è importante sapere. Scrive il
padre a proposito della sua omelia del giorno:
«Ho cominciato le mie considerazioni mettendo in rilievo l'analogia
tra la storia di Agar e di Ismaele mandati nel deserto e quella di Abramo
che si allontana insieme a Isacco convinto di doverlo sacrificare. Volevo
dimostrare che in realtà Abramo è chiamato a sacrificare entrambi i figli,
e che in tutt'e due i casi il Signore manda un angelo che nel momento cru-
ciale interviene per salvare il figlio. L'estrema vecchiaia di Abramo è un
elemento importante in entrambe le storie, non solo perché non può pra-
ticamente più sperare di avere altri figli, non solo perché i figli avuti in
tarda età sono indicibilmente preziosi, ma anche, a mio avviso, perché
qualsiasi padre, soprattutto un padre vecchio, alla fine deve consegnare il
figlio al deserto e confidare nella provvidenza divina. Sembra quasi una
crudeltà che una generazione debba concepirne un'altra quando i geni-
tori possono garantire ben poco ai figli, ben poca sicurezza, perfino nei
casi migliori. Cedere il proprio figlio richiede una grande fede, la con-
vinzione che Dio rispetterà l'amore dei genitori nei suoi confronti, assi-
curando che ci saranno davvero gli angeli in quel deserto.
«Ho detto che lo stesso Abramo era stato mandato nel deserto, an-
che lui con l'ordine di lasciare la casa del padre, che questa era la storia
di tutte le generazioni, e che soltanto per mezzo della grazia di Dio di-
ventiamo strumenti della Sua provvidenza e partecipi di una paternità
che in ultima istanza è sempre Sua» 22 .