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LA FORZA DELLE STORIE BIBLICHE

JEAN-PIERRE SONNET S.I.

Che il narrare stia al cuore della nostra fede non lo si deve inse-
gnare ai bambini, almeno a quelli esposti alla forza delle storie bibli-
che. Lo scrittore Paul Claudel ricorda quanto la storia di Assalonne
(cfr 2 Sam 14-18) e l'immagine della sua capigliatura si siano impres-
se nelk sua memoria di bambino, fin dalle prime lezioni di catechi-
smo 1. E una realtà che non sfugge neanche ai saggi, in particolare a
Pascal, che portava sempre cucita addosso una piccola scritta: «Dio
di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti, cer-
tezza, certezza, pace e consolazione [...]. Non lo si trova che per le
vie insegnate dal Vangelo». Dio e il suo Messia — il filosofo lo aveva
capito — ci vengono incontro attraverso una storia raccontata, quel-
la della Genesi come quella del Vangelo2. E oggi a noi è chiesto di ri-
scoprire la verità in questione, che non sfugge né ai bambini né ai
saggi; essa fornisce alla nostra esperienza di fede come un principio
di realtà, che non si deve mai perdere di vista. Possiamo prendere co-
me punto di partenza della nostra riflessione il Salmo 78:

«Aprirò la mia bocca con una parabola,


rievocherò gli enigmi del passato.
Ciò che abbiamo udito e conosciuto,

1 Cfr P. CLAUDEL, «J'aime la Bible», in ID., Œuvres complètes, vol. XXI, Paris, Gal-
limard, 1963, 349.
2 Si veda il documento della Pontificia Commissione Biblica Linterpretazione della Bib-
bia nella Chiesa (1993) che, nella sezione sull'analisi narrativa, propone un metodo di com-
prensione e di comunicazione del messaggio biblico. Il metodo corrisponde alla natura nar-
rativa di un gran numero di testi biblici. «L'Antico Testamento, infatti, presenta una storia
della salvezza il cui racconto efficace diventa sostanza della professione di fede, della litur-
gia e della catechesi (cfr Sai78,3-4; Es 12,24-27; Dt 6,20-25; 26,5-10). Da parte sua, la pro-
clamazione del kervgma cristiano comprende la sequenza narrativa della vita, della morte e
della risurrezione di Gesù Cristo, eventi di cui i Vangeli ci offrono il racconto dettagliato. La
catechesi si presenta, anch'essa, sotto forma narrativa (cfr 1 Cor 11,23-25)».

© La Civiltà Cattolica 2012 1247-260 quaderno 3879 (4 febbraio 2012)


che i nostri padri ci hanno raccontato,
non lo terremo nascosto ai loro figli;
racconteremo alla generazione seguente
le lodi di Yhwh, la sua potenza,
le meraviglie che egli ha compiuto» (w. 3-4).

«I nostri padri ci hanno raccontato... racconteremo alla generazio-


ne seguente»: nei due casi è utilizzato il verbo sipper, emblematico del
narrare nella Bibbia ebraica, e i due usi mettono in prospettiva il perché
del narrare biblico, fra passato e futuro, dai padri aifiglie viceversa.
L'apertura del Salmo è seguita da una lunga enarratio (w. 9-
72), che riprende in sostanza il racconto fondatore, dall'Esodo al
libro di Samuele. Quello che viene raccontato dal narratore bibli-
co in questi libri è quindi ciò che è affidato alla narrazione dei pa-
dri ai figli, e viceversa. L'apertura del Salmo ci permette di capire
che la voce associata alla narrazione biblica fin dal principio —
«In principio, quando Dio creò i cieli e la terra» (Gn 1,1) — è in-
scindibile dalla voce dei padri e degli anziani. L'autorità e la li-
bertà artistica del narratore biblico non sono arbitrarie; esse si ca-
piscono a partire dall'autorità della narrazione dei padri e della
sua finalità: «Racconteremo alla generazione seguente le lodi di
Yhwh, la sua potenza, le meraviglie che egli ha compiuto [...],
perché le conosca la generazione che viene, e i figli che nasceran-
no. Essi poi si alzeranno a raccontarlo ai loro figli, affinché pon-
gano in Dio la loro fede, non dimentichino i prodigi di Dio e os-
servino i suoi comandi» (w. 4-7). Nell'impresa del narratore, co-
me nel compito dei padri, si tratta di trasmettere la fede e di nu-
trire la pratica del popolo, di generazione in generazione.
Passando al Nuovo Testamento, ritroviamo la stessa realtà (co-
me aveva mostrato la confessione di Pascal); ci si imbatte nel pas-
sato remoto, che, nelle nostre lingue, caratterizza la narrazione
fondatrice: «Ed ecco, in quei giorni, Gesù venne da Nazaret di
Galilea» (Me 1,9). Esattamente come nell'ebraico biblico, la spi-
na dorsale del racconto è fornita dalla sequenza stretta di verbi al
passato, connessi dalla particella «e»: «Ed ecco, in quei giorni,
Gesù venne da Nazaret... e fu battezzato nel Giordano da Gio-
vanni. .. e vide squarciarsi i cieli... e venne una voce dal cielo... e
subito lo Spirito lo sospinse nel deserto...» (Me 1,9-12).
L'articolazione narrativa è serrata. E anche qui il nucleo narrativo
viene affidato alla trasmissione di figure paterne e «generatrici». E il
caso di Giovanni che, nella sua prima Lettera, si rivolge ai «figlioli»;
è anche il caso di Pietro, che si presenta come anziano (cfr 1 Pt 5,1),
e che ri-enuncia pure lui il racconto fondatore: «Infatti, vi abbiamo
fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cri-
sto, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inven-
tate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli
infatti ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui que-
sta voce dalla maestosa gloria: "Questi è il Figlio mio, l'amato, nel
quale ho posto il mio compiacimento"» (2 Pt 1,16-17).
«Generare» alla fede è articolarne il racconto; trasmettere la fe-
de significa fare uso del passato remoto, alla maniera di Paolo nel
testo reputato come il più antico del Nuovo Testamento: «Io, in-
fatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmes-
so: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pa-
ne e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse...» (1 Cor 11,23-25).

La specie fabulatrice
Prima di approfondire la dimensione narrativa della fede bi-
blica, conviene esplorare brevemente l'aspetto antropologico e
culturale di questo narrare, che mette le Scritture ispirate in dia-
logo con il corpus narrativo dell'umanità. Il «narrare» attraversa
tutte le culture, fin dall'alba della storia umana. Si pensi ai rac-
conti più antichi dell'umanità, dalle grandi epopee di Gilgamesh,
di Enuma Elish e di Atrahasis nella Mesopotamia antica all'Iliade
e all'Odissea di Omero in Grecia, o alla Mahabharata, l'epopea sa-
cra dell'induismo. La nostra specie, quella dell 'homo sapiens, è,
come scrive la saggista Nancy Huston, una «specie fabulatrice»,
l'unica a «lavorare a maglia delle storie per sopravvivere». Siamo
abitati, in quanto umani, da un istinto che ci conduce a «intrec-
ciare» l'esperienza nostra, a tradurla in tante storie. Lo aveva det-
to per primo Aristotele nella sua Poetica: siamo esseri mimetici. E
per noi un riflesso costitutivo rappresentare drammaticamente la
nostra esperienza, anche nei suoi aspetti più terribili — Aristote-
le aveva in mente la tragedia greca —, per poter abitare in modo
«purificato» e più libero la nostra condizione umana.
Questo nostro istinto narrativo lo abbiamo esplorato tutti nel-
la nostra infanzia, ascoltando storie, leggendo storie e creando
storie originali. Il momento di grazia a questo riguardo è stato il
momento dell'andare a dormire. Nel film di Terrence Malick The
Tree of Life, uno dei tre figli chiede alla mamma, nella loro stan-
za comune: «Raccontaci storie di prima dei nostri ricordi». Que-
sta richiesta tradisce la domanda di ogni generazione di sentire
dalla bocca dei genitori una storia cominciata prima di loro. La
storia anteriore in questione è, certo, anzitutto quella della fami-
glia — rincontro dei genitori, la nascita dei figli —, ma è anche
quella che, progressivamente, risale il corso delle generazioni. Ri-
troviamo così il compito affidato ai padri nel Salmo 78.
Ma presto le storie sentite sono diventate per noi le storie lette.
Nella sua opera Una storia della lettura, lo scrittore Alberto Man-
guei, discepolo di quel maestro in narrazione che fu Jorge Luis
Borges, riporta un'esperienza che hanno fatto tutti i giovani letto-
ri: «Molte notti accendevo la lampada accanto al letto [...] e cer-
cavo di arrivare alla fine del libro che stavo leggendo, tentando
nello stesso tempo di rimandarla il più possibile»3. Ogni adole-
scente è stato alla ricerca di una neverending story, al modo della
unendliche Geschichte di Michael Ende. La relazione con i rac-
conti, tuttavia, non è soltanto «roba» da bambini o adolescenti: è
vitale a tutte le età. Sino alla fine della nostra vita ci capiremo me-
diante i racconti che riceveremo dalle culture umane4.
La psicologia cognitiva, che si interseca con le neuroscienze ma
anche con la teoria letteraria, si interessa oggi al tipo di intelligenza
che si sviluppa attraverso la composizione o la delucidazione di in-
trecci letterari. Tipico su questo fronte di ricerca è il libro di Mark
Turner The Literary Mind, che intende mostrare che l'intelligenza
narrativa non è periferica, ma centrale nella vita della mente5. Con
esempi tratti da Omero a Proust, Turner mostra come le storie rac-
contate prestino alla mente meccanismi cognitivi essenziali per ca-
pire la nostra collocazione nel tempo e nello spazio, per capirsi co-
me un «se stesso» {self), distinto da altri «se stessi» (.selves), e per
immaginare questi altri selves e il loro punto di vista. Chi ha letto
L'urlo e il furore di William Faulkner (1929), Il mio nome è rosso
di Orhan Pamuk (1998), o la storia di Giuseppe e dei fratelli nel-

3 A. MANGUEL, Una storia della lettura, Milano, Feltrinelli, 2009, 19.


4 II pensiero più radicale dell'intreccio delle vite nelle storie raccontate è certamen-
te quello del fenomenólogo tedesco W. Schapp (1884-1969), spiegato nel suo libro In
Geschichten verstrickt. Zum Sein von Ding una Mensch, Frankfurt, Klostermann, 1983.
3 Cfr M. TURNER, The Literary Mind, Oxford, University Press, 1 9 9 8 ; si veda anche
M. MATEAS - P. SENGERS (eds), Narrative Intelligence, Amsterdam, John Benjamins,
2 0 0 3 ; M. WOLF, Proust e il calamaro. Storia e scienza del cervello che Legge, Milano, Vi-
ta e Pensiero, 2 0 0 9 .
la Genesi, opere in cui l'alternanza dei punti di vista è decisiva, ha
esplorato la dimensione multi-focale della realtà umana, fonte di
tanti drammi, ma anche del rilievo stupendo, multidimensionale,
che ne fa il pregio.
Da parte sua, il filosofo scozzese Alasdair Maclntyre ha soste-
nuto nel suo libro After Virtue che gli esseri umani decidono di
ciò che è veramente importante e di quella che dovrebbe essere la
loro condotta riferendosi, in modo consapevole o inconsapevole,
a storie che essi sono venuti a conoscere. «Posso rispondere alla
domanda: "Che cosa devo fare?", soltanto se sono in grado di ri-
spondere alla domanda preliminare: "Di quale storia o di quali
storie mi trovo a far parte?"» 6 . E essenziale dunque identificare i
racconti in cui si muove la nostra libertà. Si sa quanto il romanzo
di Goethe I dolori del giovane Werther (1774) sia stato l'opera
simbolo del romanticismo tedesco, e quanto l'opera di Jack Ke-
rouac On the Road (1949) sia diventata la «bibbia» della Beat Ge-
neration. In entrambi i casi, una generazione si è riconosciuta in
personaggi narrativi e nella loro traiettoria; sono stati promossi
parametri di scelte etiche ed esistenziali.
Ma la prospettiva di Maclntyre interseca in modo interessante
l'intuizione di Ignazio di Loyola che negli Esercizi Spirituali abbina
il discernimento sulle scelte di vita alla contemplazione dei misteri
narrativi della vita del Signore. E di fronte al dramma della vita e
della pasqua di Gesù che le nostre libertà ricevono il loro spazio, il
loro orientamento e la loro finalità. Le storie delle nostre libertà si
configurano quando vengono abbinate alla storia evangelica.

L'eclissi della narrativa


Ci si può chiedere, tuttavia, se la narratività in questione sia an-
cora e sempre al cuore della coscienza cristiana. Fin dall'incontro
della fede biblica con la filosofia greca, la tradizione cristiana non
ha risparmiato le sue forze nella riformulazione razionale della
propria fede - per precisare, illustrare e difendere questa fede in
contesti culturali determinati. Non sfugge a nessuno l'importanza
di una tale traduzione; il pericolo, tuttavia, sarebbe di sostituire al
discorso narrativo della Bibbia un discorso speculativo o concet-

6 A. MACLNTYRE, After Virtue: A Study in Moral Theory, South Bend, University of


Notre Dame Press, 1981,216; cfr F. CATTANEO, Etica e narrazione. Il contributo del nar-
rativismo contemporaneo, Milano, Vita e Pensiero, 2011.
tuale. L'esegesi biblica stessa, dopo la sua svolta critica, ha perso di
vista la posta in gioco nella narrazione scritturistica. In un saggio
intitolato The Eclipse ofBiblical Narrative, Hans Frei ha mostrato
che nel corso del XVIII e del XIX secolo la «storia» considerata
dalla ricerca non era mai la storia narrata, ma quella dei testi (la
storia redazionale) o quella degli avvenimenti (la storicità dei fatti
riportati): «Il realismo di tipo storico dei racconti biblici, ricono-
sciuto da tutti, al posto di essere esaminato in se stesso e nelle sue
implicazioni quanto al senso e all'interpretazione, è stato trasposto
nell'interrogativo totalmente differente di sapere se il racconto
realista fosse o meno storico»7. Che il suo racconto sia storiogra-
fico è essenziale alla Bibbia 8 — ne parlerò più avanti —, ma que-
sta rivendicazione storiografica è solidale a un'arte narrativa speci-
fica, e questo è stato minacciato di amnesia.
Da una trentina di anni si osserva tuttavia una svolta, una conver-
sio al racconto, nell'ambito sia dell'esegesi sia della teologia. Questa
conversione ha avuto profeti o pionieri, come il teologo protestante
Karl Barth, per il quale non c'è dubbio: «Chi è Gesù Cristo e quello
che è può essere soltanto raccontato, e non afferrato e definito come
sistema»9. O come il cattolico Johann Baptist Metz, il quale, in un fa-
scicolo della rivista Concilium del 1973, ha firmato una «Piccola apo-
logia del racconto»10. Metz intende rispondere in particolare alla suf-
ficienza della teologia speculativa che, nella sua prospettiva sulla sal-
vezza, non dà alla sofferenza umana il dovuto rispetto. Il pensiero spe-
culativo è sempre tentato di fare di questa sofferenza un momento al-
l'interno di una dialettica negativa. Una teologia che prende atto del
peso della sofferenza umana è invece chiamata ad essere «comme-
morativa e narrativa», costruita narrativamente attorno alla memoria
della sofferenza e al modo in cui Dio l'accompagna e l'attraversa.
Opere decisive nella conversione del pensiero esegetico e teolo-
gico alla narrazione biblica sono state quelle di Robert Alter, The
Art ofBiblical Narrative (1981), e di Meir Sternberg, The Poetics of

7 H. W. FREI, The Eclipse of Biblical Narrative, New Haven, Yale University Press,
1978, 16.
8 Ma la stessa Bibbia accoglie nel suo canone anche libri in forma di parabola, co-
me quelli di Giobbe o di Giona.
9 K. BARTH, Die Kirchliche Dogmatik. Zweiter Band: Die Lehre von Goti. Zweiter
Halbband, Zurich, Theologischer Verlag, 1 9 7 4 5 , 2 0 6 ; cfr ID., Die Kirchliche Dogmatik.
Dritter Band: Die Lehre von der Schòpfung. Dritter Teil, Zurich, Theologischer Verlag,
19612, 332-334.
1 0 J.-B. METZ, «Kleine Apologie des Erzàhlens», in Concilium 9 (1973) 334-341.
Biblica! Narrative (1985), che hanno aperto un nuovo capitolo nel-
la storia dell'esegesi11. Questi due libri — è interessante notarlo —
non sono stati scritti da esegeti o teologi, ma da due esperti in teo-
ria letteraria e letteratura comparata, molto sensibili, è vero, alla di-
mensione teologica della Bibbia ebraica. Ancora una volta, si rive-
la l'affinità della Scrittura con le scritture, owerossia le lettere, la
letteratura dell'umanità. Scrive il biblista francese Paul Beauchamp
in questo senso: «Senza la nobiltà delle scritture, non ci sarebbero
sacre Scritture, né Libro ispirato se il libro, in sé, non avesse una
destinazione così alta. Questo accostamento intimo, "familiare",
non espone ad alcun rischio di confusione fra la Bibbia e gli altri
scritti: la Bibbia è fatta per essere decifrata e risuonare in mezzo al-
le altre lettere e alla loro esistenza; non c'è da temere che vi perda
la sua tonalità propria. Liberiamoci piuttosto dall'incoerenza che ci
induce — poiché bisogna spiegare la Bibbia con gli scritti antichi
del Vicino Oriente — a fare astrazione dall'ambiente e dalla riso-
nanza non meno appropriati che le arreca la nostra letteratura, evi-
dentemente in maniera del tutto diversa»12.

Lintelligenza narrativa
Citando Turner, abbiamo indicato il legame tra l'intelligenza e
l'intreccio narrativo. Esso ha una verifica nella nostra relazione al
racconto biblico. Dobbiamo alla narrativa biblica il merito di in-
trodurci nell'«identità narrativa» del personaggio di Dio, del suo
Cristo e di tanti personaggi umani nell'affresco della Bibbia, e di
farci scoprire di rimando la nostra propria «identità narrativa».
«Una delle funzioni del racconto — scrive Paul Ricoeur — [...] è
di rispondere all'interrogazione chi?, disegnando quella che può
essere chiamata l'identità narrativa del personaggio, vale a dire l'i-
dentità prodotta dal racconto stesso»13.
Nella sua frase «rispondere all'interrogazione chi?», Ricoeur
echeggia un altro filosofo, Hannah Arendt, che è all'origine del
concetto di «identità narrativa». Scrive la Arendt nel suo saggio

11 Cfr R. ALTER, Larte della narrativa biblica, Brescia, Queriniana, 1990; M. STERN-
BERG, The Poetics of Biblical Narrative. Ideological Literature and the Drama of Reading,
Bloomington, Indiana University Press, 1985.
12 P. BEAUCHAMP, L'uno e l'altro Testamento; vol. 2°: Compiere le Scritture, Milano,
Glossa, 2001, 86.
13 P. RLCŒUR, «Le récit interprétatif. Exégèse et Théologie dans les récits de la Pas-
sion», in Recherches de Science Religieuse 73 (1985) 21.
The Human Condition: «Nel momento in cui vogliamo dire chi uno
sia, il nostro vocabolario ci svia facendoci dire che cos'è; ci trovia-
mo impigliati nelle descrizioni delle qualità che egli condivide ne-
cessariamente con i suoi simili; cominciamo a descrivere un tipo o
"un carattere" nel vecchio senso della parola, col risultato che la
sua specifica unicità ci sfugge»14. Ora, una delle proprietà del rac-
conto è quella di poter preservare il chi del personaggio mentre lo
dispiega, al di là di ogni descrizione o definizione di ciò che è. Si
potrebbe illustrare questo fenomeno con quei personaggi comples-
si, paradossali ed evolutivi che sono Mosè o Davide nella Bibbia
ebraica, o Pietro nel Vangelo. Nel corso della sua ascesa (cfr 1 Sam
16-2 Sam 6, una sezione che potrebbe essere intitolata «Tutto ciò
che serve per essere re») Davide, ad esempio, ha dovuto nasconde-
re il segreto della sua unzione, imitato e assistito in questo dal nar-
ratore, che fa del figlio di lesse un personaggio sempre elusivo: die-
tro il più visibile in lui, i suoi tratti amabili e i suoi capelli fulvi, Da-
vide è quello che si sottrae a ogni «ferma immagine» - Dio soltan-
to ne conosce il cuore. Ma il paradigma di questo fenomeno è sen-
za dubbio il Dio biblico stesso, il cui nome rivelato — «Sarò quel-
lo che sarò», o anche «Sono solito essere quello che sono solito es-
sere» (Es 3,14) — protegge questa misteriosa identità, declinata
lungo il racconto 13. In modo eminente è anche il caso di Gesù, e
particolarmente nel racconto di Marco. Scrive Ricoeur:
«[...] è forse la funzione di alcuni racconti di addensare l'enigma del
personaggio mentre chiariscono il "montaggio" dell'intreccio. [... Mar-
co] dispiega la sua cristologia del Figlio dell'uomo sofferente compo-
nendo il suo racconto non con un'arte letteraria maldestra, come spes-
so è stato detto, ma con un'arte supremamente reticente e criptica» 16.

Gesù è Messia ed è Figlio di Dio, e questo il lettore lo sa fin dal


primo versetto del Vangelo: «Inizio del Vangelo di Gesù, Cristo,
Figlio di Dio» (Me 1,1). Ma il lettore ha bisogno di tutto il rac-
conto per capire come lo è: alla maniera del Figlio dell'uomo e del
Servo sofferente. I titoli, anche cristologici, possono essere equi-
vocati, se non vengono intesi nel loro dispiegamento narrativo.

14 H. ARENDT, Vita activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, 1989, 141.


15 Si veda J.-P. SONNET, «Ehyeh asher ehyeh (Es 3,14): 1'"identità narrativa" di Dio
fra suspense, curiosità, e sorpresa», in Teologia 36 (2011) 13-24.
1 6 P. RICŒUR, «Le récit interprétatif...», cit., 22.
Dietro questi titoli, il chi di Gesù, in quanto persona libera e irri-
ducibile, viene allo stesso tempo rivelato e preservato dall'artico-
lazione della narrativa. Entrare nel dinamismo della narrativa
evangelica, con l'articolazione sottile dell'intreccio e dei perso-
naggi e del loro punto di vista, è scoprire quanto siamo noi stessi
esseri la cui identità è narrativa. Chi coniuga la sua storia più per-
sonale con quella del racconto biblico capisce di essere ultima-
mente, al di là di ogni che cosa, un chi misterioso, un «sarò quel
che sarò», a immagine di Dio e del suo Messia.
Quando si tratta di narrativa, l'intelligenza si esercita in modo
particolare nel rapporto con l'intreccio. Le storie raccontate, scri-
ve Ricoeur, fungono da lente di ingrandimento, rivelano la «map-
pa» dei percorsi possibili della libertà umana, percorsi che non ci
sono chiari quando siamo immersi nelle preoccupazioni della vi-
ta 17. Nella Bibbia, questa mappa sottolinea i percorsi della liber-
tà umana quando incontra la libertà di Dio - o, piuttosto, viene
incontrata da essa. Sorgono allora i «possibili più impossibili»
dell'uomo — la nascita di Isacco, la traversata del mare, il perdo-
no al paralitico, la risurrezione di Gesù —, tutti sorpresi nell'«em-
piria» della storia, vale a dire, secondo l'espressione di Ricoeur,
nella sua contingenza e concretezza18.
La rivendicazione storiografica nella Bibbia dona qui tutta la sua
misura: questi «possibili più impossibili» non sorgono nel mondo
della fiction, ma nella narrazione della storia, una storia che si pre-
senta come omogenea alla nostra. Nascite e morti, sterilità delle
donne e bellicosità degli uomini, carestie e piogge insperate, censi-
menti e deportazioni rappresentati nella Bibbia non ci trasportano
in una realtà cosmica e antropologica diversa dalla nostra, ci con-
ducono invece al cuore della nostra condizione storica. Ma è tra-
mite un'arte narrativa particolare, capace appunto di rivelare que-
sti «possibili più impossibili» in quanto tali, che viene implementa-
to l'affresco biblico nella sua rivendicazione storiografica.
In questo ambito, l'intreccio degli intrecci si colloca nel modo in
cui Dio attraversa la riluttanza umana 19. In tal senso spicca l'arte
divina di riprendere il proposito umano come da sottobanco, per

17 ID., Dal testo all'azione. Saggi di ermeneutica, ivi, 1989, 215.


18 ID., Tempo e racconto, voi. I, ivi, 1987, 132. Scrive Ricoeur: «Solo la storiografia
può rivendicare una referenza che si iscrive nell'empiria, nella misura in cui l'intenzio-
nalità storica riguarda avvenimenti che hanno effettivamente avuto luogo».
19 Cfr ID., «Le récit interprétatif...», cit., 1 8 - 1 9 .
rilanciare la storia, completando, allargando o rovesciando il pro-
posito «umano, molto umano», che, regolarmente, conduce la sto-
ria su strade fuorvianti o in vicoli ciechi. Questa arte — sul modo
di «l'uomo propone, Dio dispone» — è indissociabile dalla rap-
presentazione narrativa, in particolare perché piace al Dio biblico
prendere l'uomo in parola. E il caso di 2 Sam 7, in cui Dio ripren-
de la proposta di Davide di costruire una «casa» per Lui, cioè, nel-
l'intenzione di Davide, un tempio. Tramite il suo profeta, Dio ri-
balta e riformula la proposta del re: «Sarò io a costruire questa ca-
sa», nel senso ora di casa reale, dinastia; «Yhwh ti annuncia che fa-
rà a te una casa. Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu dor-
mirai con i tuoi padri, io susciterò un tuo discendente dopo di te,
uscito dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno» (2 Sam 7,11-
12). Lo stesso si legge nel capitolo 8 del primo Libro di Samuele,
quando il popolo rivendica un re per essere come tutte le nazioni,
mettendo in pericolo la percezione della regalità di Dio su di lui.
Avrete un re, risponde Dio in sostanza, ma saprete tutto ciò che si-
gnifica un tale re. Ed io, da parte mia, metterò l'asta molto alta, mi
aspetterò il massimo da questo re, che sarà un banco di prova per
tutti voi. In tante maniere Dio porta più avanti il proposito umano,
10 smaglia e rimaglia nel suo disegno salvatore. Tale è la rivelazione
finale del libro della Genesi, formulata da Giuseppe di fronte ai fra-
telli: «Se voi avevate pensato del male contro di me, Dio lo ha pen-
sato in bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un
popolo numeroso» (Gn 50,20).
Questa arte la si avverte soltanto in un racconto, e genera tante sto-
rie: «Una teologia che affronta Y inevitabilità del disegno divino con il
recalcitrare delle azioni e delle passioni umane — scrive Ricoeur — è
una teologia che genera narrazione o, meglio, una teologia che chiama
11 modo narrativo come il proprio modo ermeneutico maggiore» 20.
Generare è narrare
Tornando al Salmo da cui siamo partiti in questa riflessione,
ora si può meditare sul rapporto che la Bibbia istituisce fra pa-
ternità e narrazione. In diversi modi la Bibbia attribuisce al padre
e agli anziani un compito narrativo (cfr Es 12,26-27; 13,14-15; Dt
4,9; 6,7.20-25; 11,19; 31,10-13; Gs 4,6-7.21-24; 44,2; 78,3-6).
Questo compito viene regolarmente associato al genere letterario

20 Ivi, 18.
della domanda rivolta dai figli: «Quando in avvenire tuo figlio ti
domanderà...» (Dt 6,20-25; cfr Es 12,26-27; 13,14-15; Gs 4,6-
7.21-24). Radicato negli eventi fondatori, questo compito rag-
giunge il lettore, di generazione in generazione, chiamato anche
lui a raccontare ai figli, «perché ascoltino, imparino a temere
Yhwh, vostro Dio, e abbiano cura di mettere in pratica tutte le
parole di questa legge. I loro figli, che ancora non la conoscono,
la udranno e impareranno a temere Yhwh, vostro Dio» (Di 31,12-
13). La rivelazione di Dio, espressa nel racconto della Bibbia lega
le generazioni fra loro, nella loro successione, mentre le lega tut-
te a Dio. All'orizzonte del racconto biblico sta sempre «la gene-
razione che viene», e non abbiamo ancora preso la misura teorica
e pratica di questa destinazione comunicativa.
Ma è anche l'esperienza stessa della paternità — e della mater-
nità — che si trova sottesa in questo narrare, che ne fornisce un
principio di realtà e di speranza. Nella Bibbia, generare è narra-
re, è iscriversi, assieme ai figli, in una genealogia che dispiega la
trama viva della storia:
«Così Booz prese in moglie Rut. Egli si unì a lei e Yhwh le accordò di
concepire: ella partorì un figlio [...]. E lo chiamarono Obed. Egli fu il pa-
dre di lesse, padre di Davide. Questa è la discendenza di Peres: Peres ge-
nerò Chesron, Chesron generò Ram, Ram generò Amminadàb, Ammina-
dàb generò Nacson, Nacson generò Salmon, Salmon generò Booz, Booz
generò Obed, Obed generò lesse e lesse generò Davide» (Rt 4,13-22).
Questa scansione della storia come trama di generazioni con-
trasta con la visione frantumata della famiglia e dei rapporti in-
tergenerazionali che viene veicolata oggi. La Bibbia in questo sen-
so contesta la nostra amnesia e immette il suo racconto di nascite
e di morti là dove noi siamo diventati muti. Ma va anche oltre: in-
semina di parole, di figure e di intrecci le nostre paternità, in par-
ticolare quando esse attraversano crisi drammatiche.
Nel suo studio King and Kin, Joel Rosenberg ha mostrato quanto
il dramma della paternità scandisca la Bibbia ebraica, dalla storia del-
l'uscita del Giardino al ciclo di Abramo e a quello di Davide: in ogni
caso, un figlio viene preferito, un figlio «muore», un figlio conosce
l'esilio21. La storia dei patriarchi è il santuario di questa teologia nar-

2 1 Cfr J. ROSENBERG, King and Kin. Political Allegory in the Hebrew Bible, Bloom -
ington, Indiana University Press, 1986.
rativa, che rivela come ciò che è più (apparentemente) naturale — la
concezione e la nascita del figlio — sia proprio ciò che più è sospeso
alla provvidenza divina. Ad Abramo viene inoltre richiesto di offrire
Isacco, il figlio insperato (cfr Gn 22), ma anche di lasciar andare il
primogenito, Ismaele (cfr Gn 21). Nel romanzo Gilead (2004) di Ma-
rilynne Robinson questa doppia richiesta viene letta dal vecchio pa-
store Ames come un rendez-vous cruciale di ogni paternità. Il reve-
rendo John Ames sta morendo e capisce che non potrà né educare il
figlio di soli sette anni, né offrirgli testimonianza di sé. Il pastore sce-
glie allora di affidarsi a una lettera-diario, che dica un giorno al bam-
bino ormai adulto ciò che di suo padre è importante sapere. Scrive il
padre a proposito della sua omelia del giorno:
«Ho cominciato le mie considerazioni mettendo in rilievo l'analogia
tra la storia di Agar e di Ismaele mandati nel deserto e quella di Abramo
che si allontana insieme a Isacco convinto di doverlo sacrificare. Volevo
dimostrare che in realtà Abramo è chiamato a sacrificare entrambi i figli,
e che in tutt'e due i casi il Signore manda un angelo che nel momento cru-
ciale interviene per salvare il figlio. L'estrema vecchiaia di Abramo è un
elemento importante in entrambe le storie, non solo perché non può pra-
ticamente più sperare di avere altri figli, non solo perché i figli avuti in
tarda età sono indicibilmente preziosi, ma anche, a mio avviso, perché
qualsiasi padre, soprattutto un padre vecchio, alla fine deve consegnare il
figlio al deserto e confidare nella provvidenza divina. Sembra quasi una
crudeltà che una generazione debba concepirne un'altra quando i geni-
tori possono garantire ben poco ai figli, ben poca sicurezza, perfino nei
casi migliori. Cedere il proprio figlio richiede una grande fede, la con-
vinzione che Dio rispetterà l'amore dei genitori nei suoi confronti, assi-
curando che ci saranno davvero gli angeli in quel deserto.
«Ho detto che lo stesso Abramo era stato mandato nel deserto, an-
che lui con l'ordine di lasciare la casa del padre, che questa era la storia
di tutte le generazioni, e che soltanto per mezzo della grazia di Dio di-
ventiamo strumenti della Sua provvidenza e partecipi di una paternità
che in ultima istanza è sempre Sua» 22 .

Il ciclo di Davide è un altro santuario di questa teologia23, in


particolare la sua seconda parte (cfr 2 Sam 7-1 Re 2), che potrebbe
essere intitolata «Tutto ciò che serve per essere padre». Davide, che

22 M. ROBINSON, Gilead, Torino, Einaudi, 2008, 134.


23 Si veda F. Ficco, «"Sii forte e mostrati uomo!": la paternità di Davide in 1 Re 1-2»,
in Rivista biblica 57 (2009) 257-272.
si è reso famoso su tutti i fronti, si rivela essere un «padre assente»
e accede alla paternità attraverso prove drammatiche. La prima sa-
rà quella della morte del primo figlio concepito con Betsabea (cfr
2 Sam 12). Dopo aver supplicato Dio durante la malattia del figlio
— «Quando il bambino era ancora vivo, digiunavo e piangevo,
perché dicevo: "Chissà? Yhwh forse avrà pietà di me e il bambino
resterà vivo"» —/Davide ha una frase stupenda: «Ma ora egli è
morto: perché digiunare? Potrei forse farlo ritornare? Sto andando
io da lui, ma lui non tornerà da me» (2 Sam 12,22-23).
«Per la prima volta — scrive Alter — Davide si esprime non
per necessità politica, ma nella sua nudità esistenziale [...]. Il ri-
conoscimento dell'irreversibilità della morte di suo figlio lo porta
a considerare la propria mortalità»24, un passo irrinunciabile nel-
l'accesso alla vera paternità.
Ma è il grido di Davide all'annuncio della morte di Assalonne
che rivela il padre finalmente sorto in lui: «Allora il re fu scosso
da un tremito, salì al piano di sopra della porta e pianse; diceva
andandosene: "Figlio mio Assalonne! Figlio mio, figlio mio Assa-
lonne! Fossi morto io al tuo posto, Assalonne, figlio mio, figlio
mio!"» (2 Sam 19,1). Davide accederà a questo desiderio, e alla
paternità compiuta, sul suo letto di morte, quando deciderà di far
salire Salomone sul trono, «al [suo] posto» (1 Re 1,30), morendo
per così dire prima della sua morte, per lasciare al figlio lo spazio
della sua missione25. Come scrive Rosenberg, «la storia di Davi-
de rappresenta il ciclo della vita che recupera la regalità»26; l'es-
sere re si compie nell'essere padre, e ogni uomo può meditare su
questo, sapendo che la figura del re è il compendio dell'Adam,
dell'uomo biblico.
Anche i quattro Vangeli — non lo si osserva abbastanza — sono
intessuti di storie che mettono alle prese Gesù, genitori e figli. Sono
episodi in cui Gesù pone in prospettive messianiche appropriate le re-
lazioni nella famiglia27, o interviene a favore di figli ammalati o mor-

2 4 R. ALTER, The David Story. A Translation with Commentary of 1 and 2 Samuel,


New York, Norton, 1999, 262.
25 Si veda J.-P. SONNET, «"Fossi morto al posto tuo!". La coerenza narrativa Bel ci-
clo di Davide (1 Sam 16 - 1 Re 2)», in ID., L'alleanza della lettura. Questioni di poetica
narrativa nella Bibbia ebraica, Roma - Cinisello Balsamo (Mi), Gregorian & Biblical
Press - San Paolo, 2011, 152-139.
2 6 J. ROSENBERG, King and Kin..., cit., 207.
27 Si veda Mt 10,37-39 e par.; 12,46-50 e par.; 20,20-28 e par.
ti,riconfigurandoanche il rapporto familiare28: «Il morto si mise se-
duto e cominciò a parlare. E Gesù lo restituì a sua madre» (Le 7,15).
Abitare questi racconti dell'uno e dell'altro Testamento è dare
alla paternità e alla maternità umane i loro veri orizzonti, in par-
ticolare in tempo di prova. Ricevere queste storie dal padre o dal-
la madre e tramandarle ai figli mette il generare umano nella sua
piena prospettiva di realtà, di salvezza e di speranza. Come allora
tenere nascosto ai figli ciò che i nostri padri ci hanno raccontato?
Come non trasmettere quello che abbiamo ricevuto? Come non
diventare narratori a nostra volta?
Generare è narrare. Lo è anche quando il Vangelo sposta la ge-
nerazione dai figli ai discepoli, come fa il Vangelo di Matteo29. Il
racconto matteano si apre con parole — «Libro della generazione
di Gesù Cristo» — che rimandano alla formula che scandisce il li-
bro della Genesi: «Generazioni di...». Nella Genesi, questa aper-
tura ritorna dieci volte e, salvo eccezione, introduce svolgimenti ge-
nealogici e narrativi sull'eroe in questione e sulla sua discendenza.
La formula «E queste sono le generazioni di Terach» in Gn 11,27
segna l'apertura del ciclo di Abramo, figlio di Terach {Gn 11,27-
25,11), mentre l'espressione «Queste sono le generazioni di Gia-
cobbe» in Gn 37,2 viene seguita dalla storia di Giacobbe e dei suoi
figli, Giuseppe e i fratelli (Gn 37,2-50,26).
Il lettore di Matteo si aspetta quindi racconti su Gesù e sui suoi di-
scendenti. Ora Gesù non ha discendenti. Il Vangelo però ha un altro
modo di prolungare la genealogia iniziale: parla di «discepoli» — ma-
thètai, in greco —, e questo «fare discepoli» deve prolungarsi lungo
la storia come un'«altra» genealogia, innestata su quella della filiazio-
ne. Ne sono la conferma le ultime parole di Gesù nel Vangelo di Mat-
teo: «Fate discepoli — mathèteusate — tutte le genti» (Mt 28,19).
Questa conclusione è come un da capo al termine di uno spartito, che
invita i lettori ariprendereil racconto dalle prime parole. Gli ultimi
arrivati fra i lettori sono invitati a identificarsi con i discepoli del rac-
conto, a mettersi nella loro situazione e a rifare con loro la strada del-
l'iniziazione, dalla prima chiamata all'incontro pasquale. Anche qui
l'identità è narrativa, e la forza del racconto è di intrecciare il lettore
nell'intreccio evangelico.

28 Si veda Mt 9,18-26 e par.; 15,21-28 e par.; 17,14-21 e par.; Le 7,11-17.


29 Si veda J.-P. SONNET, «De la généalogie au 'Faites disciples' (Mt 28,19). Le livre de la gé-
nération de Jésus», in C. FOCANT - A. WÉNIN (eds), Analyse narrative et Bible. Deuxième col-
loque international du Rrenab, Louvain-La-Neuve, avril 2004, Leuven, Peeters, 2005,199-209.

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