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di pensiero postmoderno, la nostra epoca potrebbe essere caratterizzata dal più completo
scetticismo nei confronti delle grandi narrazioni della modernità, se una nozione non continuasse a
dominare imperterrita la scena: la nozione di progresso. Non vi è discorso pubblico di uomini politici,
tecnocrati, economisti, imprenditori e finanzieri in cui la parola «progresso» non ricorra come una
speranza, un compito, un obbligo cui attenersi. Il dovere di servire il progresso è, insomma, la vera e
propria parola d’ordine del nostro tempo, la fede da fare propria per non incorrere nell’esclusione da
ogni agire pubblico.
Già nel 1909, nel suo articolo intitolato Der Fortschritt [Il progresso], Karl Kraus denunciava il
carattere vuoto e formale dell’idea di progresso: più che un reale movimento, essa indica l’«impressione
del movimento», una sorta di punto di vista fatale per il quale, qualsiasi cosa facciamo, agiamo sempre
sotto il riguardo del progresso e mai del regresso.
Da Kraus a Musil, a Orwell, a Wittgenstein e a Georg Henrik von Wright si è sviluppato un ampio
pensiero critico di tale idea che Jacques Bouveresse riprende e commenta in queste pagine per mostrare
la totale insensatezza di una nozione per la quale «tutto ciò che si fa oggi di nuovo nelle nostre società, e
anche tutto ciò che semplicemente si fa, è situato sotto il segno del progresso»
«Il progresso, la fede nel progresso, il fanatismo del progresso è il tratto che caratterizza la nostra epoca,
rendendola così magnifica e così povera, così grande e così miserabile, così meravigliosa e così noiosa.
Progresso e colera, colera e progresso, due flagelli ignoti agli antichi».
Jacques Bouveresse (1940) insegna Filosofia del linguaggio al Collège de
France. Grande conoscitore di Wittgenstein al quale ha dedicato sei libri e
innumerevoli articoli, ha pubblicato in Italia Wittgenstein: scienza etica
estetica (Laterza, Roma-Bari 1982) e Wittgenstein antropologo, postfazione a
Note sul «Ramo d’oro» di Frazer di Ludwig Wittgenstein (Adelphi, Milano
1975).
PICCOLA BIBLIOTECA NERI POZZA
Titolo originale:
Le Mythe moderne du progrès
© 2017, Éditions Agone
This edition published by arrangement with Anna Spadolini Agency,
Milano - All rights reserved
© 2018 NERI POZZA EDITORE, VICENZA
ISBN 978-88-545-1715-8
www.neripozza.it
JACQUES BOUVERESSE
Alberto Folin
Il progresso, la fede nel progresso, il fanatismo del progresso è il tratto che caratterizza la nostra
epoca, rendendola così magnifica e così povera, così grande e così miserabile, così meravigliosa e
così noiosa. Progresso e colera, colera e progresso, due flagelli ignoti agli antichi.
Il progresso è quel vento che, da tutti i punti contemporaneamente, soffia sulla pianura, agita i
grandi alberi, piega i giunchi, affatica l’erba, fa turbinare la sabbia, sibila nelle caverne e affligge il
viandante fin sul letto in cui pensava di trovare riposo.
Il progresso, più che figura ardente, è febbre inquieta, trasporto continuo che tormenta l’intera
società, senza lasciarle tregua, riposo, felicità.
Non conosciamo la cura per questo male.
D’altronde, i medici non si trovano tutti d’accordo: chi dice sia uno stato normale, e chi sostiene sia
uno stato morboso; chi afferma sia contagioso e chi no. In attesa del colera, il progresso tira dritto.
Per quanto mi riguarda, immagino che qui la cosa sia nata dall’abuso, fondandomi sul fatto che
l’abuso nasce di solito dalla cosa. Ora, chi potrebbe negare che la cosa sia? Il progresso sociale è
stato tanto immediato quanto immenso; esso si rivela in ogni momento, sotto mille forme, ovunque.
Niente si fa più come trent’anni fa, vent’anni fa, dieci anni fa; tutto si fa meglio, più velocemente, a
profitto di un maggior numero di persone. Ecco la cosa.
Ma di fronte a queste meraviglie Joseph Homo, che non ha una mente forte, resta abbagliato, divaga.
Vede progresso ovunque, nel sole e nella luna, nei sandwich e nei toupet, nell’America e nei lauti
profitti. Egli vede progresso ovunque e subito, nella religione e nelle capsule, nella morale e nei
solini, nella politica e negli occhiali. È questo l’abuso.
Dice: c’è progresso qui; dunque c’è progresso in tutto. Ogni progresso, dice, è un’innovazione;
dunque ogni innovazione è un progresso. Così egli ragiona, passando dal relativo all’assoluto, dal
vero al pregiudizio, e dal pregiudizio a mille idiozie, secondo il metodo che gli è proprio.
Ma l’idiozia fondamentale, l’idiozia madre, l’idiozia modello è il modo con cui Joseph considera il
progresso, non solo come un mezzo, ma come il fine, come l’unico fine della felicità.
In questo modo, egli procede senza raggiungere mai niente, perché dietro un progresso se ne trova
sempre un altro; in questo modo egli non gode, dal momento che il godimento è continuamente
rinviato; in questo modo, egli disprezza il passato che è qualche cosa, disdegna il presente che è
molto, attende l’avvenire che sta sempre davanti a lui; in questo modo, pur migliorando, egli si trova
peggio. È quel che vediamo attorno a noi. Ovunque malessere in mezzo al perfezionamento.
Ovunque la cosa di domani corrompe in anticipo la cosa di oggi; Il meglio che non arriva guasta il
bene che è a portata di mano. Nessun equilibrio, nessun punto di sicurezza, nessuna calma;
impossibile riposare, fermarsi da qualche parte. Il progresso è lì, con la sua grande frusta, che
colpisce il branco: Avanti!
– E che! Sempre in marcia! Mai una sosta! – Avanti!
– Questo luogo d’ombra mi piace, questo rifugio mi attira… – Ce n’è uno migliore; avanti. – Eccoci.
– Avanti ancora. Vi direbbe quel brutto vecchietto rompiscatole alle spalle di Sindbad il marinaio,
spingendolo di qua e di là, a sinistra e a destra.
RODOLPHE TÖPFFER
Du Progrès dans ses rapports avec le petit bourgeois et les maîtres d’école, 1835
Il progresso è la mia fede come un paese scoperto da poco; un sistema coloniale florido sulla costa,
l’interno anche di una giungla, di una steppa, di una prateria. In generale è tipico del progresso
apparire molto più grande di quanto non sia in realtà.
JOHANN NEPOMUK NESTROY
Der Schützling, 1847
Fino a che punto l’uomo sia perfettibile e fino a che punto l’apprendimento sia necessario lo si vede
già dal fatto che oggi egli riceve in sessant’anni una cultura sulla quale l’intera specie ha trascorso
cinquemila anni. Un giovane di diciott’anni può contenere in sé il sapere di epoche intere. Quando
vengo a conoscenza della tesi in base alla quale «la forza che attira l’ambra strofinata è la stessa che
fa tuonare le nuvole […]», allora ho imparato qualcosa la cui invenzione è costata agli uomini
qualche migliaio d’anni.
GEORG CHRISTOPH LICHTENBERG
Sudelbücher, Heft F, 1776-1779
Jean-Jacques Grandville, Le concert à la vapeur, in Un autre monde, 1844
Abbiamo appena ascoltato il primo concerto umano-meccanico del Dr Puff. Occorrerebbe, per
render conto adeguato di questa solennità, uno stile avvincente come quello di Mozart e maestoso
come quello di Gluck. Grazie a questa mirabile invenzione, i ritmi, gli abbassamenti di voce, le
bronchiti non esistono più. La voce dei tenori, dei bassi, dei baritoni, dei soprani, dei contralti resta
al riparo da ogni incidente; gli strumenti mossi dal vapore producono effetti di sorprendente
precisione; i grandi compositori dell’epoca hanno finalmente trovato interpreti all’altezza delle loro
melodie. In questo secolo di progressi, la macchina è un uomo perfezionato. Rinunciamo a
descrivere l’entusiasmo suscitato a ogni brano dai virtuosi del Dr Puff. La sua orchestra può sfidare
quelle di tutti i conservatori dell’universo.
Recensione del Dr Puff al suo proprio concerto in «Le Galoubet littéraire et musical, journal
mélodico-harmonico-symphonico-musicologique», 1° aprile 1850
Nota all’edizione francese
Il presente saggio nasce da una conferenza tenuta il 5 ottobre 2001 all’Istituto finlandese di Parigi,
nel corso di un convegno dedicato a Georg Henrik von Wright. Una sua versione, pubblicata in
«Mouvements» (2002, n. 19) con il titolo Il mito del progresso secondo Wittgenstein e von Wright, è
stata ulteriormente riveduta per una conferenza tenuta a Besançon il 30 settembre 2014 all’interno del
ciclo “Temps des sciences, trajectoires des sociétés” dell’Institut des hautes études pour la science et la
technologie (IHEST) e messa a punto infine per questa edizione.
Il mito moderno del progresso
1. «Sotto il segno del progresso»
ABBREVIAZIONI
AS: Ernest Renan, L’Avenir de la science. Pensées de 1848, Paris, Calmann-Lévy, 1890.
MP: Georg Henrik von Wright, Le Mythe du progrès, tradotto dallo svedese da Philippe Quesne, Paris,
L’Arche, 2000.
Edizione a cura di Benoit Gaultier, Marie Laigle e Jean-Jacques Rosat.
Nel 1909 Karl Kraus pubblicò un articolo intitolato Der Fortschritt [Il
progresso], che Wittgenstein probabilmente lesse e il cui senso potrebbe
essere riassunto così: per l’autore il progresso è al massimo una forma, e
anche probabilmente molto meno di questo, ossia un cliché o uno slogan, ma
certamente non un contenuto. Kraus comincia con lo spiegare ironicamente di
avere finalmente compreso, grazie ai giornali, cosa il progresso sia. Il
progresso non è un movimento, ma uno stato, e uno stato consistente nel
sentirsi spinti in avanti, qualunque cosa si faccia, senza per questo
necessariamente avanzare. Nella parola tedesca «Fortschritt», il prefisso
«Fort» significa che si è avanti, e la parola «Schritt» che si procede; ma non
c’è niente in ciò che si chiama progresso che permetta di percepirlo come un
procedere in avanti. Il progresso è in realtà, afferma Kraus, uno Standpunkt –
termine che, in tedesco, significa contemporaneamente «punto di vista» e
«punto fisso». Il progresso è una specie di punto di vista fatale: qualunque
cosa facciamo, siamo sicuri che debba corrispondere a un progresso; non
avviene mai, per così dire, che si ammetta di aver regredito su determinati
punti; noi utilizziamo il progresso come un punto di vista più che come un
movimento. Di conseguenza, questo punto di vista è anche un punto fisso. È
un punto fisso la cui realtà è proprio quella di dare l’impressione di essere un
movimento.
M’è tornata in mente una frase pubblicata su un giornale, che evoca un’immagine molto viva. Essa
recita: «Sotto il segno del progresso». Bene, solo ora riconosco il progresso per ciò che è – una
scenografia mobile. Noi restiamo proiettati in avanti eppure continuiamo a calpestare lo stesso punto. Il
progresso è un punto fermo, ma appare come qualcosa in movimento. Solo a volte si muove davvero
qualcosa, dinanzi ai miei occhi: è un drago a guardia di un tesoro. Oppure qualcosa marcia, nottetempo,
per la città: è il rullo del macchinario che pulisce le strade e fa turbinare la polvere del giorno, facendola
posare altrove. Ovunque andassi, m’imbattevo nella polvere. Se tornavo indietro, eccola arrivare
dall’altra parte, al che ero costretto ad ammettere che una politica contraria al progresso è inutile, perché
esso rappresenta l’inevitabile turbinio della polvere. Il destino si alza in una nuvola, e il progresso che
t’ingloba, se tu credi di evitarlo, appare come un deus ex machina. Il progresso, strisciando, abbranca il
piede fuggitivo e raccoglie, dal tuo sentiero, tutta la polvere necessaria a riempirti i polmoni, perché il
macchinario sparge la polvere ubbidendo alla grande idea del progresso. Ma il significato del progresso
l’ho capito fino in fondo solo sotto la pioggia. Pioveva a dirotto, l’umanità era assetata di polvere e non
ve n’era manco l’ombra ché il rullo non la poteva far turbinare. Dietro di esso marciava un altro
macchinario che lavava le strade e non si lasciava distogliere dalla pioggia: toglieva la polvere ancor
prima che si alzasse. Questo era il progresso1.
Come nel testo di Töpffer citato in esergo, anche in Kraus si ritrova l’idea
che il progresso sia una specie di fatalità alla quale non riescono a sfuggire
neppure quelli che più vorrebbero sfuggirgli. Kraus scrive queste righe nel
1909. Non bisogna credere che una vera sensibilizzazione agli effetti negativi
del progresso sia stata acquisita solo recentemente, e che solo ora ci si sia
posti seriamente la domanda su dove esso ci porti e quale preciso interesse
presenti per l’umanità. Si tratta veramente, come il termine suggerisce, di un
avanzamento, oppure al contrario di qualcos’altro di molto più indefinito e
meno esaltante?
Kraus descrive il progresso come il prototipo di un processo meccanico o
quasi meccanico, autoalimentato e automantenuto, capace di creare ogni volta
le condizioni della propria perpetuazione, in particolare producendo
inconvenienti, fastidi e danni che solo un nuovo progresso può consentire di
superare. Una illustrazione tipica di questa situazione è il fatto che, come
constata Georg Henrik von Wright2 in Il mito del progresso, «la condizione
per la risoluzione dei problemi creati dalla stessa produzione industriale
intensificata e razionalizzata è una crescita economica continua» [MP, 12].
Occorre, a quanto pare, una sempre maggiore crescita per risolvere i problemi
posti dalla crescita stessa, in particolare in materia di danni inflitti
all’ambiente e di recrudescenza della povertà in certe regioni del globo. Per
fare un esempio, coloro che oggi manifestano reticenze e resistenze nei
confronti dell’utilizzazione degli OGM possono benissimo essere accusati di
ostilità verso la scienza e il progresso, ma anche di voler in qualche modo
affamare le popolazioni del terzo mondo. La maggior parte dei dibattiti che si
svolgono attualmente su tali argomenti ruotano per lo più attorno a questioni
del genere. Ciò costringe gli avversari del dogma della crescita senza limiti a
una certa prudenza, ma rende anche parecchio fragile la posizione dei suoi
difensori: la crescita illimitata beneficia innanzitutto del fatto che i
miglioramenti reali e rilevanti conseguenti a un’utilizzazione meditata e
giudiziosa dei benefici della crescita possono, a quanto pare, sempre essere
rinviati a domani e anche rimandati all’infinito.
I partigiani dell’ultraliberismo in materia economica sostengono che i
paesi ricchi debbano diventare ancora più ricchi affinché i paesi poveri
abbiano (forse) una possibilità di diventare un po’ meno poveri. Ma, a parte il
fatto che si potrebbe esigere a buon diritto comunque qualcosa di più a
proposito di uguaglianza e di giustizia, bisogna veramente avere una gran
fede per credere alle loro promesse. Kraus suggerisce che una parte delle
energie intellettuali messe in gioco dal mondo contemporaneo per ciò che
viene chiamato «progresso» dovrebbero essere impiegate per riflettere su che
fare dei vantaggi che esso ci procura, orientando verso fini più seri e più
urgenti il suo uso. Ma, a suo avviso, quando la questione posta non è più
quella del progresso, ma quella di sapere cosa farne, basta la fede e le prove
possono aspettare. Ed è una fede alla quale i difensori incondizionati del
progresso – o forse, più esattamente, della crescita, perché in realtà di questo
per lo più si tratta – sembra possano attingere oggi più che mai.
Una mente scettica potrebbe essere tentata, per parte sua, di concludere, in
modo krausiano, che lo scopo del progresso, se uno ve n’è, è finalmente
diventato chiaro: tutto fa credere che esso, in realtà, sia solo ed
esclusivamente la perpetuazione di se stesso. Ma cos’è esattamente quella
cosa che chiamiamo «progresso»? La constatazione di Kraus è che il
progresso, sotto il segno del quale sembra scontato che noi procediamo, forse
un tempo è stato una cosa reale, ma oggi è soltanto una rappresentazione
fatale alla quale non corrisponde più alcun contenuto comprensibile.
Come si manifesta, il progresso, alla luce del giorno? Con quale aspetto si palesa ai nostri occhi se
lo immaginiamo come un servo ancor più veloce del tempo? Visto che siamo impegnati a raffigurarlo,
vorremmo anche prenderne conoscenza, ma ci manca una percezione concreta, convincente. Di ogni
cosa vediamo solo ciò che turbina, corre, parte al galoppo: piedi, ruote, ferri di cavallo. Le orme si
cancellano. Da una parte correva un galoppino della Borsa, dall’altra andava a caccia un cavaliere
dell’Apocalisse. Invano… Noi possiamo parlare al telefono da Schmockwitz a Schweifwedel3, ma non
sappiamo ancora che aspetto ha davvero il progresso. Sappiamo solo che esso non ha influito in alcun
modo sulla qualità della telefonata, e se camperemo abbastanza da riuscire a trasmettere il pensiero da
Vienna a Berlino, dipenderà solo dalla potenza del nostro pensiero se saremo o meno capaci di
ammirare questa innovazione in tutto il suo splendore. L’umanità briga senza sosta: ha bisogno del
proprio patrimonio spirituale per effettuare nuove scoperte, e non si cura del loro funzionamento. Da
questo punto di vista il progresso è una delle sue invenzioni più geniali, poiché per farlo funzionare
basta solo crederci, quindi tutti i rappresentanti del progresso dotati di «credito» illimitato hanno partita
vinta4.
Anche prima della fine della guerra, Vansittart era persuaso che la
Germania, dopo essere stata vinta, avrebbe dovuto essere non solo
smilitarizzata – il che andava da sé, poiché la minaccia che essa
rappresentava, ai suoi occhi, era il militarismo e non il nazismo –, ma anche
sottoposta a un processo di rieducazione severa, suscettibile di estendersi a
più generazioni: «Il vansittartismo afferma che la nazione tedesca deve essere
disarmata e rieducata; e ogni uomo onesto e ragionevolmente bene informato
sa perfettamente che i tedeschi non faranno nessuna di queste due cose di loro
spontanea volontà, o senza un controllo. Noi ci siamo fidati di loro una volta
– con un’assoluta mancanza di saggezza. Farlo di nuovo sarebbe un crimine
contro l’umanità. Invece, non c’è inumanità nella rieducazione»12.
Dopo la disfatta della Germania, Vansittart effettivamente sostenne che
l’Europa avrebbe potuto godere della pace solo a condizione di continuare a
mostrarsi spietata nei confronti di quel paese, e respinse categoricamente
l’idea che potesse esserci una possibilità di distinguere tra la Germania nazista
e un’«altra Germania», che secondo lui non era mai esistita se non come
minoranza irrilevante. Egli pensava che l’Inghilterra e i suoi alleati avessero
fatto la guerra non per liberare la Germania da Hitler o il continente dal
fascismo, ma per una causa più interessata e meno nobile, consistente
nell’impedire un’egemonia della Germania sull’Europa.
Non è difficile immaginare l’effetto che poteva produrre in un uomo come
Wittgenstein il «vansittartismo», una forma di propaganda che mirava a
radicare nella mente di gente poco illuminata l’idea che tutti i tedeschi fossero
gli stessi, senza distinzione di partito, di religione o di condizione sociale, e
avessero in qualche modo nel sangue l’aggressività, il culto della forza, il
militarismo e l’espansionismo, il che costringeva l’Europa a proteggersi
contro di loro con misure preventive del genere più radicale. Come abbiamo
visto, egli trovava quanto meno sospetto il presupposto che, se avesse dovuto
disgraziatamente esserci un’altra guerra, essa sarebbe stata voluta e scatenata
da loro.
Prima della guerra, Wittgenstein era stato scettico sulla reale volontà della
classe dirigente britannica di opporsi a Hitler, e in particolare di coloro che lui
chiamava i «vecchi nababbi». Dopo la guerra, come ci si può rendere conto
leggendo il frammento di lettera citato, egli non esitava a ricordare che le
atrocità del regime nazista erano cominciate ben prima dell’inizio del
conflitto e che, di conseguenza, anche l’indignazione avrebbero dovuto
dimostrarla allora, cosa che non si era assolutamente verificata. Con ogni
evidenza la fiducia che egli aveva nella classe dirigente e nelle élite
intellettuali britanniche circa un reale impegno da parte loro per un
miglioramento reale delle cose non era aumentata durante gli anni di guerra, e
lo stato d’animo diffuso tra i vincitori dopo il crollo della dittatura nazista non
annunciava ai suoi occhi niente di buono per l’Europa e per il mondo.
Significa che, su questo punto, egli riponeva speranze molto maggiori nel
proletariato e nel popolo in generale che nelle élite? La risposta
probabilmente è: sì e no; e questa forse, tutto sommato, non è diversa da
quella di Orwell, che scriveva, nel 1942-1943, in Sguardo retrospettivo sulla
guerra civile spagnola:
Chi può ancora credere in un proletariato internazionale, che possegga coscienza di classe, dopo gli
eventi degli ultimi dieci anni? Agli occhi di un operaio inglese il massacro dei loro compagni a Vienna,
Berlino, Madrid o in altre città, sembrava meno interessante e meno importante dell’ultima partita di
football. Eppure questo non altera il fatto che la classe operaia continuerà a lottare contro il fascismo,
dopo che tutte le altre classi ammetteranno di essere state sconfitte. Uno dei fenomeni più
impressionanti della conquista nazista della Francia fu l’incredibile numero di intellettuali che
disertarono, anche intellettuali di sinistra. Gli intellettuali sono quelli che sbraitano più forte contro il
fascismo, ma un notevole numero di essi cade nel disfattismo, non appena si giunge al dunque13.
L’oggetto della critica di von Wright non è, come gli è stato rimproverato,
il progresso in quanto tale, ma quello che egli chiama «il mito del progresso».
Si tratta di una convinzione relativamente recente, che costituisce una
componente fondamentale di ciò che possiamo chiamare la modernità
classica. Il tratto più tipico dell’immagine che quest’ultima si faceva
dell’umanità prossima ventura era proprio la fede nel progresso. «Non solo»
precisa von Wright «progressi aleatori o dipendenti dalla buona volontà degli
uomini, ma progressi illimitati ed eterni: il progresso come qualcosa di
naturale e necessario. È una nuova concezione all’interno della storia delle
idee, che chiamo “mito moderno del progresso”» [MP, 33]. Questa idea non
solo non è affatto antica, ma non è, sottolinea von Wright, neppure universale
(alcune società l’hanno ignorata e continuano a farlo).
Possiamo trovare un’illustrazione tipica di ciò che von Wright chiama «il
mito del progresso» ne L’Avenir de la science. Ernest Renan sviluppa qui,
infatti, un’idea di progresso alla quale non solo è diventato difficile credere,
ma che è anche impossibile condividere: egli concepisce il progresso come un
movimento cui non si può resistere capace di trascinare la specie umana verso
la perfezione, e al quale è del tutto impossibile opporsi.
Bisogna dire: lo scopo della società è che tutti raggiungano la massima perfezione, e il benessere
materiale ha valore solo in quanto è in una certa misura la condizione indispensabile per la perfezione
intellettuale. Lo Stato non è né un’istituzione di polizia, come voleva Smith, né un ufficio di
beneficenza o un ospedale, come vorrebbero i socialisti. È una macchina di progresso. Ogni sacrificio
dell’individuo, che non sia un’ingiustizia, ovvero la spoliazione di un diritto naturale, è ammesso per
raggiungere questo fine; perché in tal caso il sacrificio non è fatto a profitto di un altro, ma a vantaggio
dell’intera società. È l’idea del sacrificio che avevano gli antichi: l’uomo per la nazione: «Expedit unum
hominem mori pro populo»2 [AS, 378].
Tutti noi siamo dunque trascinati dalla forza del progresso. Si può essere
coscienti di questa idea e accettarla, ma tale consapevolezza è riservata agli
spiriti illuminati. Renan arriva al punto di dire a chiare lettere di non essere
probabilmente in grado di istruire su questo il volgo, perché forse la gente
comune potrebbe non accettare di doversi sacrificare per tale causa.
Bisognerebbe ottenere che ciò venga fatto spontaneamente, ma in un certo
modo inconsapevolmente. Quanto meno le cose dovranno andare
necessariamente così per un lungo periodo ancora:
Può darsi che un giorno il diritto internazionale si estenda al punto da rendere sensibile ogni nazione
a ciò che viene fatto in casa d’altri, come accade per il membro di un organismo. Con un sistema morale
più perfezionato, diritti che ora sono falsi e pericolosi saranno accettati indiscutibilmente, in quanto il
contesto di questi diritti sarà fondato quando oggi ancora non lo è. Ciò diventa concepibile quando si
attribuisce all’umanità un fine oggettivo (cioè indipendente dal benessere degli individui): la
realizzazione della perfezione, la grande deificazione [AS, 379].
Benché io stesso abbia letto solo molto più tardi, e cioè all’inizio degli
anni Sessanta, il libro di Carnap, devo dire che l’impressione che fece su di
me la sua prefazione fu simile a quella descritta da von Wright, il che si
spiega facilmente, forse, se si pensa al contesto filosofico dell’epoca,
dominato a oltranza dall’influenza di filosofi come Nietzsche e Heidegger e,
in modo più generale, da pensatori che, a dir poco, non si attendevano niente
di buono dalla scienza e ancor meno dalla filosofia scientifica. Ancor oggi
provo una certa emozione nel rileggere passi come quello che ho citato, forse
perché sono più sensibile di altri a quella specie di entusiasmo e slancio
romantico da cui quel testo è animato, e anche a causa di tutto ciò che il
messaggio di Carnap e dei suoi amici può rappresentare retrospettivamente
per chiunque abbia un’idea della situazione politica e intellettuale dell’Austria
alla fine degli anni Venti. Ed è davvero spiacevole che, contrariamente alla
speranza formulata da Carnap, il futuro, il futuro immediato in ogni caso, non
appartenne nei fatti alla corrente da lui rappresentata, ma ai suoi avversari più
diretti e più determinati. Il che spiega forse, almeno in parte, come mai io non
mi sia mai sentito costretto personalmente a scegliere, come per lo più si fa,
tra Wittgenstein e Carnap, ed è questo uno dei numerosi punti in cui posso
considerarmi, almeno così mi sembra, molto prossimo a von Wright.
Parlando di quello che chiama «il fiume possente della filosofia analitica»
quest’ultimo scrive:
Benché numerosi fiumi abbiano riversato le loro acque in quell’alveo, nel corso degli anni, penso sia
esatto e illuminante considerare la filosofia analitica come la principale corrente del pensiero filosofico
del nostro secolo. Pur nella sua eterogeneità, essa mantiene due dei tratti caratteristici già accennati, che
sono tipici della sua origine: l’accento sulla logica e il legame con la scienza. In breve, è la filosofia più
tipica di una cultura dominata dalla razionalità scientifica [MP, 119-120].
È esattamente quello che penso io, salvo che personalmente sono molto
più diffidente di Sternhell su ciò che a questo proposito ci si possa attendere
dallo Stato. L’aspetto di cui parliamo è precisamente uno di quelli che può
indurre una società a non considerarsi davvero rappresentata dal suo supposto
rappresentante. Rinunciare puramente e semplicemente all’idea di progresso
sarebbe in ogni caso credere, di fatto, all’idea che il mondo nel quale viviamo
sia il solo possibile. In realtà ci sono certamente molti progressi possibili,
necessari e urgenti.
Vorrei citare anche il seguente passo di un libro recente dove si parla di
due fondamentalismi che stanno compromettendo seriamente il futuro
dell’umanità: il fondamentalismo del mercato e il fondamentalismo
positivista:
L’illuminismo è stato preso nella morsa di una doppia ideologia: il positivismo e il fondamentalismo
di mercato. Il positivismo, alla fine del XX secolo, sosteneva che, con l’esperienza e con l’osservazione,
fosse possibile accumulare conoscenze affidabili sul mondo fisico, tali da costituire il massimo bene per
l’umanità. Questa promessa è stata in parte mantenuta, anche se, certo, restano discordi i pareri sull’uso
che abbiamo fatto dei nostri saperi. Il fondamentalismo di mercato darà un taglio a tutta la vicenda:
perché il potere di agire sul riscaldamento globale non è mai stato nelle mani dei fini conoscitori del
sistema climatico. Esso è saldamente in mano a istituzioni politiche, economiche e sociali che hanno
tutto l’interesse a mantenere una produzione elevata di energia fossile. Insomma, la paralisi è dovuta al
trionfo del libero mercato, nelle deregolamentazioni a 360 gradi che rendono difficilissima, a partire
dagli anni Ottanta, l’imposizione da parte degli Stati di nuove regole sull’inquinamento dell’ambiente. Il
semplice suggerimento di frenare il consumo di energia è una bestemmia per i neoliberisti, visti con
simpatia dai dirigenti politici. Risultato: nulla è stato pianificato, nessuna precauzione è stata presa, ci si
è limitati a gestire il disastro2.
Leibniz avrebbe giudicato certamente in modo molto severo ciò che noi
tutti stiamo facendo: ai suoi occhi, infatti, la diminuzione del numero delle
specie naturali appariva come un impoverimento certo rispetto alla
perfezione. Egli trovava scandaloso l’atteggiamento dei cartesiani ortodossi
che rifiutavano di consegnare un’anima agli animali. Secondo lui l’uomo non
era così importante da potersi considerare come il padrone assoluto della
natura e come il solo essere vivente con il diritto di attribuirsi il possesso di
un’anima. L’idea di Leibniz a proposito di perfezione è forse un po’ troppo
teologica per poter essere ancora utilizzata come argomento. Ma ciò su cui
vorrei attirare l’attenzione è semplicemente il fatto che, dal punto di vista di
Leibniz, gli animali possono contare quanto noi per la perfezione
dell’insieme, o forse anche di più. Forse egli era, per certi riguardi e a modo
suo, un precursore dell’ecologia, pur restando peraltro un rappresentante
dell’illuminismo. Una cosa non impedisce necessariamente l’altra.
Terminerò questo breve saggio con due osservazioni. La prima riguarda la
questione di sapere con quale termine designare la fase in cui ci troviamo in
questo momento. È meglio parlare di «postmodernità» oppure, come
suggerisce von Wright, di «tarda modernità»? Mi sono intrattenuto a lungo, in
altra sede, su ciò che si debba pensare, a mio avviso, del postmodernismo e su
ciò che ci si possa attendere da esso5; e, come von Wright, penso che non ci
sia un grande rapporto tra l’atteggiamento dei postmoderni più tipici e quello
di pensatori come Kraus o Wittgenstein. La ragione essenziale di ciò sta nel
fatto che il postmodernismo è una dottrina in ultima analisi fondamentalmente
ottimista, che non rimette affatto in discussione la necessità – se non di
progredire – quanto meno di avanzare. Ho anche avuto occasione di definirlo
come una concezione in base alla quale si sa meno che mai dove si stia
andando, evitando soprattutto di cercare di saperlo, pur nella consapevolezza
di doverci andare il più presto possibile – il che assomiglia puntualmente, o
comunque moltissimo, a ciò che alla fine è diventato l’imperativo della
modernità stessa.
Von Wright osserva: «Se è vero che la tarda modernità è in primo luogo
una tendenza oscura, è anche vero che la tendenza di quella sottocorrente
chiamata “postmoderno” è innanzitutto fiduciosa nell’avvenire. Il
“postmoderno” vede la modernità come qualcosa di sostanzialmente passato e
sorpassato, riconoscendo nella postmodernità un inizio e una promessa di
rinnovamento della cultura e degli schemi di vita» [MP, 67]. L’autore del Mito
del progresso aggiunge che «uno scettico vede forse i fenomeni postmoderni
come sintomi della malattia della modernità piuttosto che come suoi rimedi»,
essendo anche lui incline a vederli allo stesso modo. Anch’io propendo a
considerarli così, e credo che si potrebbe mostrare facilmente che Musil, ad
esempio – il quale descrisse magistralmente tutti i fenomeni oggi avvertiti
come tipici della modernità –, percepiva tali fenomeni, invece, non come
segni premonitori di una nuova epoca, ma come sintomi delle incertezze e
delle contraddizioni nelle quali è costretta da tempo la modernità stessa e
dalle quali non riesce a uscire.
La seconda osservazione che vorrei fare riguarda il tipo di servizio che la
critica del progresso può offrire oggi alla causa stessa del progresso. Von
Wright sottolinea che «non credere più nel progresso come necessità storica
non equivale a non credere nel progresso come compito» [MP, 68]; ma questo
compito è oggi essenzialmente critico. La fede nel progresso, quando assume
il carattere di mito, è appunto ciò che ci dispensa per lo più dall’esigere e dal
realizzare progressi veri. Come direbbe Kraus, chi crede una volta per tutte di
vivere nel segno del progresso non ha bisogno di sapere se si progredisca o
meno e di controllare che lo si faccia per davvero. È un compito da cui si può
benissimo essere esentati. Ma si può opportunamente ribattere che non c’è
alcun progresso in cui credere: c’è solo da tentare, nei limiti del possibile, di
progredire effettivamente, là dove è più importante e più urgente farlo. Invece
di agitarsi sulla scena, tentando di credere e di far credere che si sta
avanzando, bisogna per l’appunto scegliere di dimostrare che si è in
movimento, procedendo realmente. In altre parole, non è affatto paradossale
ritenere che la fede nel progresso, nella forma chiamata da von Wright il
«mito moderno del progresso», possa diventare, e stia in effetti diventando,
uno degli ostacoli più seri che si oppongono oggi al progresso. Le
affermazioni di von Wright non devono evidentemente essere recepite come
dichiarazioni di un nemico del progresso, ma piuttosto come affermazioni di
qualcuno che ha compreso meglio di altri che il progresso probabilmente ha
bisogno di essere difeso anche, e forse prioritariamente, da chi oggi si
dichiara suo amico.
A chi gli chiede se non sia un paradosso contrapporre quella che lui
considera «la forza più importante», cioè la gioia, a «ogni forma di attesa, a
ogni ideologia progressista, a ogni speranza di progresso», Clément Rosset
ricorda innanzitutto che neppure lui si considera un nemico del progresso:
Vorrei innanzitutto dire che non sono assolutamente nemico del progresso, e sono lontanissimo dal
condividere la benché minima angoscia di chi è convinto che noi siamo trascinati da un progresso che ci
stritolerà, distruggendo la nostra identità. Io applaudo al progresso. Solo che c’è una distinzione
fondamentale da fare. Ci sono due tipi di mali nel vaso di Pandora: quelli suscettibili di eliminazione
progressiva o di miglioramento, in particolare sul piano sociale, e quelli inerenti all’esistenza: voglio
alludere alla natura mortale, minuscola, irrisoria di tutte le cose che sono destinate alla morte e all’oblio
totale. Mi riferisco ai fatti che costituiscono il tragico dell’esistenza e sono senza rimedio. Tendo a
pensare che l’ossessione dell’idea di guarigione dai mali guaribili sia talvolta un fenomeno che
semplicemente vuole occultare la presenza di mali non guaribili…6.
È vero che l’esempio dei mali guaribili che alla fine sono stati, in un
numero di casi non trascurabile, effettivamente guariti può contribuire a far
dimenticare un po’ troppo facilmente l’esistenza di mali che guaribili non
sono. E questo può anche alimentare l’illusione che tutti i mali che
colpiscono, sventuratamente, la condizione umana siano alla fin fine guaribili
e, un domani, effettivamente guariti, il che dovrebbe valere non solo per il
dolore, ma anche per la morte stessa. Un’idea, questa, estranea tanto a
Wittgenstein quanto a Nietzsche. L’uno e l’altro hanno una consapevolezza
particolarmente acuta dei fatti – ignorabili, ma non eliminabili – che, come
afferma Rosset, «costituiscono il tragico dell’esistenza».
L’illusione da lui criticata ha evidentemente qualcosa in comune con il
mito moderno del progresso, poiché quest’ultimo implica appunto l’assenza
di limiti. Una delle difficoltà sollevate dalla distinzione essenziale formulata
da Rosset riguarda il punto esatto in cui si debba far passare la linea di
demarcazione tra mali guaribili e mali non guaribili. Una componente del
mito del progresso può essere precisamente la convinzione che il progresso
sia in grado di fare arretrare questa linea sempre di più, fino a farla, a un dato
momento, puramente e semplicemente sparire. Ma questo aspetto
dell’illusione solleva problemi specifici e meriterebbe evidentemente una
discussione approfondita, che preferisco riservare ad altra occasione.
1. ZEEV STERNHELL, Histoire et Lumières, Changer le monde par la raison, conversazioni con Nicolas
Weill, Paris, Albin Michel, 2014, p. 355.
2. NAOMI ORESKES, Qui a éteint les Lumières?, in «Télérama», 6 agosto 2014, p. 46 – conversazione
con Olivier Pascal Mousselard a proposito di L’Effondrement de la civilisation occidentale, Paris, Les
Liens qui libèrent, 2014, di cui Oreskes è coautrice assieme a Erik Conway.
3. Ibid., p. 47.
4. GOTTFRIED WILHELM LEIBNIZ, Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine
del male, testo francese a fronte, introduzione, traduzione, note e apparati di Salvatore Cariati, Milano,
Bompiani, «Il Pensiero Occidentale», 2005, p. 875, Appendice I, Obiezione 2, Risposta.
5. Cfr. in particolare JACQUES BOUVERESSE, Le Philosophe chez les auophages e Rationalité et cynisme,
Paris, Minuit, 1984.
6. CLÉMENT ROSSET, Entretien avec Maryline Desbiolles, in Id., Faits divers, testi raccolti e presentati
da Nicolas Delon e Santiago Espinosa, Paris, PUF, 2013, p. 36.
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Alain Deneault
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