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Dalla motivazione del Premio Pulitzer 2019 per la Narrativa: “Un romanzo
dalla costruzione geniale, rigoglioso e ramificato come gli alberi di cui
racconta: la meraviglia della loro interazione Immagine in copertina: evoca
quella degli uomini che vi vivono accanto.”
Richard Powers è autore di dodici romanzi, ha ricevuto numerosi premi tra
cui il MacArthur Fellowship e il National Book Award; vive ai piedi delle
Great Smoky Mountains.
Il sussurro del mondo (in originale The Overstory) è in via di pubblicazione
in 19 paesi. Per La nave di Teseo è in corso la nuova edizione delle sue
opere.
La nave di Teseo
Titolo originale: The Overstory
Copyright © 2018 by Richard Powers
ISBN 978-88-9344-503-0
Radici
Nicholas Hoel
Mimi Ma
Adam Appich
Ray Brinkman e Dorothy Cazaly
Douglas Pavlicek
Neelay Mehta
Patricia Westerford
Olivia Vandergriff
Tronco
Chioma
Semi
La più grande beatitudine offerta dai campi e dai boschi
è la suggestione di un’occulta relazione tra l’uomo
e la vegetazione. Non sono solo e sconosciuto. Essi mi
mandano segnali e altrettanto faccio io. L’ondeggiare
dei rami nella tempesta è nuovo e al tempo stesso antico
per me. Mi sorprende e pure non è sconosciuto.
L’effetto che produce è quello di un più nobile pensiero
o di una più elevata emozione che mi raggiunse nel
momento in cui ero convinto di pensare esattamente o
di operare rettamente.
Ralph Waldo Emerson
***
Gli anni si susseguono, sia magri che floridi. Sebbene la loro media tenda
verso il basso, Jørgen rileva una tendenza al rialzo. Ogni anno che ara,
dissoda più terra. E la futura forza lavoro degli Hoel continua ad aumentare.
Di questo se ne occupa Vi.
Gli alberi si infoltiscono come per incanto. Il castagno è veloce: Nello
stesso tempo in cui un frassino impiega a fare una mazza da baseball, un
castagno ha fatto un cassettone. Se ti chini per vedere un arboscello, ti
infilzerà un occhio. Le crepe nella loro corteccia si avvolgono come le strisce
dei pali del barbiere mentre i tronchi si attorcigliano verso l’alto. I rami al
vento oscillano tra il verde scuro e una sfumatura più chiara. Le foglie che
formano un cerchio si allargano, in cerca di sempre più sole. Ondeggiano
nell’umido agosto, allo stesso modo in cui a volte i capelli della moglie di
Hoel un tempo color ambra si agiteranno ancora, liberi. Quando si riaffaccia
la guerra nel giovane paese, i cinque tronchi hanno superato la persona che li
aveva piantati.
L’implacabile inverno del ’62 cerca di prendersi un altro bambino. Si
accontenta di uno degli alberi. Il figlio più grande, John, ne distrugge un
altro, l’estate successiva. Il bambino non si rende mai conto che strappare
metà delle foglie dell’albero per usarle come soldi finti può ucciderlo.
Hoel tira i capelli del figlio con violenza. “Che ne dici? Eh?” Picchia il
bambino col palmo aperto. Deve intervenire Vi per porre fine alla legnata.
La leva militare arriva nel ’63. I giovani e i celibi vanno per primi. Jørgen
Hoel, trentatré anni, una moglie, due bambini piccoli e quattrocento acri di
terreno, ottiene il rinvio. Non collabora mai alla difesa dell’America. Ha un
paese più piccolo da salvare.
A Brooklyn, un infermiere-poeta scrive per l’Unione moribonda: Una
foglia d’erba non vale meno della quotidiana fatica delle stelle. Jørgen non
legge mai quelle parole. Le parole gli sembrano una sorta di sotterfugio. Il
suo granturco e i fagioli e la zucca – soltanto le cose che crescono rivelano la
mente silenziosa di Dio.
Un’altra primavera e i tre alberi rimanenti fioriscono tingendosi di tonalità
crema. I fiori emanano un odore acre, selvatico, acido, come quello di
vecchie scarpe o indumenti intimi maleodoranti. E poi ecco arrivare un
mucchietto di dolci noci. Persino quel magro raccolto fa tornare in mente
all’uomo e alla moglie esausta la manna caduta dal cielo che una notte li
aveva fatti unire, nei boschi a est di Brooklyn.
“Ce ne saranno a staia,” disse Jørgen. La sua mente è già tutta presa a fare
pane, caffè, zuppe, torte, intingoli – tutte le squisitezze che le persone del
luogo sapevano che si potevano ricavare da quell’albero. “Possiamo vendere
quello che ci rimane in città.”
“Regali di Natale per i vicini di casa,” decide Vi. Però sono i vicini che
devono dare sostentamento agli Hoel, durante la brutale siccità di quell’anno.
Un altro castagno muore di sete in una stagione in cui nemmeno al futuro si
può risparmiare una goccia d’acqua.
Passano gli anni. I tronchi marroni cominciano a ingrigire. Qualche
fulmine in un autunno asciutto, con pochissimi bersagli nella prateria
abbastanza alti di cui preoccuparsi, colpisce uno dei due castagni superstiti. Il
legno che avrebbe potuto essere utilizzato per costruire qualunque cosa, dalle
culle alle bare, va a fuoco. Non ne rimane abbastanza da poter costruire
neppure uno sgabello con tre gambe.
L’unico castagno sopravvissuto continua a fiorire. Ma i suoi fiori non
hanno più altri fiori in grado di soddisfarli. Nessun compagno per
innumerevoli chilometri, e un castagno, benché sia maschile che femminile,
non basterà a se stesso. Eppure, l’albero ha un segreto riposto nel sottile
cilindro vivente sotto la sua corteccia. Le sue cellule obbediscono a una
formula antica: Sta’ fermo. Aspetta. Qualcosa nel solitario sopravvissuto sa
che persino l’inflessibile legge dell’Ora può essere superata. Ci sarà da
faticare. Fatica delle stelle, ma ugualmente terrena. Oppure, come scrive
l’infermiere dell’Unione ormai morta: Rimani fiera e composta di fronte a un
milione di universi. Fiera e composta come legno.
John Hoel seppellisce il padre sotto il castagno che aveva piantato l’uomo.
Ora un recinto di ghisa alto un metro delimita quell’esigua manciata di
tombe. L’albero in alto proietta la sua ombra con uguale generosità sui vivi e
sui morti. Il tronco è diventato troppo spesso perché John riesca ad
abbracciarlo completamente. L’estremità più bassa dei rami sopravvissuti si
solleva, fuori portata.
Il Castagno degli Hoel diventa un punto di riferimento, ciò che gli
agricoltori chiamano albero sentinella. Durante le gite della domenica, le
famiglie si avvicinano nella sua direzione. Gli abitanti del luogo lo utilizzano
per guidare i turisti, faro solitario in un mare pieno di grano. La fattoria
attraversa un periodo di grande prosperità. Ora ci sono abbastanza fondi per
produrre ed espandersi. Con la morte di suo padre e la lontananza dei fratelli,
John Hoel è libero di tenersi aggiornato sui macchinari più moderni. Il suo
capannone per le attrezzature si riempie di mietitrici, spulatrici e
mietilegatrici. Raggiunge Charles City per vedere il primo trattore a due
cilindri alimentato a benzina. Quando fanno la loro comparsa le prime linee
telefoniche, lui si abbona, sebbene costi una fortuna e nessuno in famiglia
riesca a immaginare a cosa possa servire.
Il figlio dell’immigrato cede alla malattia del progresso anni prima che ci
sia una cura efficace per combatterla. Si compra una Kodak No. 2 Brownie.
Premi il pulsante, al resto ci pensiamo noi. Deve spedire i rullini a Des
Moines per lo sviluppo e la stampa, un processo che presto si rivela più
costoso della macchina fotografia da due dollari. Fotografa la moglie in
calicò, ferma in posizione, con un sorriso stropicciato, sulla nuova stiratrice
meccanica. Fotografa i figli mentre guidano la mietitrebbia e cavalcano
cavalli da tiro dalla schiena troppo insellata lungo i confini dei campi.
Fotografa la sua famiglia nei loro abiti di Pasqua più raffinati, con i cappellini
allacciati stretti e i farfallini ben annodati. Quando non rimane nient’altro da
fotografare del suo piccolo francobollo dell’Iowa, John punta il suo
dispositivo verso il Castagno degli Hoel, il suo esatto coetaneo.
Qualche anno prima, in occasione del compleanno della figlia più piccola,
aveva comprato uno zoopraxiscopio, per quanto fosse lui a divertirsi ad
armeggiare con quell’aggeggio, una volta che la ragazzina si era stancata. Ora
quell’esercito di oche starnazzanti e quelle processioni di cavalli selvaggi
sgroppanti che si animano quando gira il cilindro di vetro gli stimolano la
mente. Gli sovviene un piano grandioso, come se fosse stato lui a inventarlo.
Decide, per quelli che saranno gli anni che gli sono rimasti, di catturare
l’albero e vedere che aspetto ha, portato alla velocità del desiderio umano.
Costruisce un cavalletto nell’officina. Poi sistema una macina rotta su
un’altura accanto alla casa. E il primo giorno di primavera del 1903, John
Hoel posiziona la macchina No. 2 Brownie e fa un ritratto a grandezza
naturale del castagno sentinella mentre mette le foglie. Un mese esatto da
quel giorno, dallo stesso punto e nella stessa ora, ne fa un altro. Il ventuno di
ogni mese lo si vede sulla sua altura. Diventa una devozione rituale, persino
con la pioggia e la neve e il caldo estenuante, la sua privata liturgia della
Chiesa del Dilagante Dio Vegetale. La moglie lo prende in giro senza pietà, e
così i suoi figli. “Sta aspettando che faccia qualcosa di interessante.”
Quando raccoglie le foto in bianco e nero del primo anno e le scorre con
un dito, mostrano ben poco della sua impresa. In un istante, l’albero mette le
foglie dal nulla. In quello successivo, offre tutto alla luce che si fa densa. Per
il resto, i rami tengono semplicemente duro.
Gli agricoltori però sono uomini pazienti provati da stagioni brutali, e se
non fossero tormentati dal sogno della produzione, pochi continuerebbero ad
arare, primavera dopo primavera. John Hoel è di nuovo là sulla sua altura il
21 marzo del 1904, come se anche lui potesse avere a disposizione altri cento
o duecento anni per documentare ciò che il tempo nasconde da sempre in
piena luce.
Duemila chilometri a est, nella città dove la madre di John Hoel cuciva
vestiti e suo padre costruiva navi, la calamità colpisce prima che qualcuno se
ne accorga. L’assassino s’introduce nel paese dall’Asia, nel bosco di castagni
cinesi destinati a giardini stravaganti. Un albero nello zoo del Bronx assume
tonalità ottobrine a luglio. Le foglie si arricciano e si seccano nelle sfumature
cannella. Aloni di macchie arancioni cospargono la corteccia gonfia. Alla
minima pressione, il legno cede.
Nel giro di un anno, macchie arancioni screziano i castagni in tutto il
Bronx – i carpofori di un parassita che ha già ucciso il suo ospite. Ogni
infezione rilascia un’orda di spore nella pioggia e nel vento. I giardinieri della
città mobilitano un contrattacco. Potano rami infetti e li bruciano. Spruzzano
sugli alberi un solfato di calcio e di rame dai carri trainati dai cavalli. Tutto
quello che fanno è spargere le spore sulle accette che usano per abbattere le
vittime. Un ricercatore del New York Botanical Garden identifica il killer in
un fungo sconosciuto all’uomo. Pubblica i risultati e lascia la città per
sfuggire al caldo estivo. Al suo ritorno, qualche settimana dopo, non c’è
nemmeno un castagno in città che valga la pena salvare.
La morte penetra il Connecticut e il Massachusetts in lungo e in largo,
macinando dozzine di miglia all’anno. Gli alberi soccombono a centinaia di
migliaia. Un paese ammutolito per l’incredulità osserva i preziosissimi
castagni del New England scomparire a poco a poco. L’albero dell’industria
della conciatura, delle traversine della ferrovia, dei vagoni, dei pali del
telegrafo, del combustibile, dei recinti, delle case, dei fienili, delle scrivanie
pregiate, dei tavoli, dei pianoforti, delle cassette, della polpa di cellulosa e di
un’infinità di ombra e cibo gratuiti – l’albero del paese di cui si raccoglie la
maggior quantità di frutti – sta scomparendo.
La Pennsylvania cerca di ritagliare un’area cuscinetto larga centinaia di
chilometri da una parte all’altra del paese. In Virginia, sul confine
settentrionale delle foreste di castagno più folte del paese, la gente invoca una
rinascita religiosa per liberarsi del peccato responsabile della piaga. L’albero
perfetto dell’America, spina dorsale di intere economie rurali, la sequoia
duttile e resistente dell’est con tre dozzine di utilizzi industriali – ogni quarto
albero di una foresta che si distende per duecento milioni di acri dal Maine
agli Stati del Golfo – è spacciato.
***
Frank Hoel Jr. mantiene la promessa del padre, molto dopo che il genitore
sfumi in confusi ricordi sovraesposti in bianco e nero. Ogni mese, il bambino
sistema una fotografia nella scatola del balsamo. Compie quel gesto nello
stesso modo meccanico con cui ogni anno la famiglia allargata degli Hoel
continua a festeggiare il Giorno di Sant’Olaf, senza ricordarsi cosa sia.
Frank Jr. non può certo dirsi vittima della propria immaginazione. Non
riesce nemmeno a sentirsi mentre pensa: È molto probabile che odi
quest’albero. È molto probabile che lo ami più di quanto abbia amato mio
padre. I pensieri possono non significare nulla per un uomo che non ha alcun
vero desiderio indipendente, nato sotto la cosa a cui è indissolubilmente
legato e sotto cui è destinato anche a morire. Pensa: Questa cosa non sarà
redditizia qui. Non serve a nessuno, a meno che non la abbattiamo. Poi ci
sono mesi in cui, guardando nel mirino, la chioma in espansione sembra al
suo occhio sorpreso l’architrave del significato stesso.
In estate, l’acqua sale lungo lo xilema e si riversa fuori dal milione di
minuscole cavità sul retro delle foglie, un centinaio di galloni al giorno che
evaporano dalla chioma ariosa dell’albero nell’aria umida dell’Iowa. In
autunno, le foglie che ingialliscono riempiono Frank Jr. di nostalgia. In
inverno, rami spogli schioccano e frusciano sotto i cumuli, i loro arrotondati
germogli a riposo, quasi minacciosi per l’attesa. Ma per un attimo, ogni
primavera gli amenti verde chiaro e i fiori color crema mettono dei pensieri
nella testa di Frank Jr., pensieri che lui non sa perché gli vengano.
Il terzo fotografo Hoel continua a scattare fotografie, proprio come
continua ad andare in chiesa molto tempo dopo aver deciso che tutto il
mondo dei fedeli è stato ingannato dalle favole. Il suo inutile rituale
fotografico dà alla sua vita uno scopo irrazionale che neppure l’agricoltura
riesce a dargli. È un esercizio mensile consistente nel notare una cosa che non
vale assolutamente la pena di essere notata, una creatura così tenace e
reticente come la vita.
La pila di foto raggiunge i cinquecento scatti durante la seconda guerra
mondiale. Un pomeriggio, Frank Jr. smette di sfogliarle. Si sente come lo
stesso bambino che a nove anni aveva fatto al padre una promessa avventata.
Ma l’albero in time-lapse è cambiato fino a diventare irriconoscibile.
Quando tutti gli alberi maturi della varietà indigena del castagno sono
morti, quello degli Hoel diventa una specie di rarità. Un dendrologo di Iowa
City fa una dichiarazione a conferma delle voci: un castagno scampato
all’Olocausto. Un giornalista del Register scrive un pezzo importante su uno
degli ultimi alberi perfetti d’America. Più di milleduecento luoghi a est del
Mississippi hanno la parola “Castagno” nel loro nome. Ma bisogna andare
in una contea rurale nell’Iowa occidentale per buttare lo sguardo su uno di
essi. La gente comune, in viaggio tra New York e San Francisco sulla nuova
interstatale che taglia un canale lungo la fattoria degli Hoel, scorge soltanto
una cascata d’ombra nelle distese solitarie e piatte di mais e soia.
Nell’inverno implacabile del febbraio del 1965, la Brownie No. 2 si
rompe. Frank Jr. la sostituisce con una Instamatic. La pila diventa più folta di
qualsiasi libro abbia mai provato a leggere. Ma ogni foto nel fascio di scatti
mostra solamente quell’albero solitario intento a scuotersi di dosso il vuoto
soverchiante che anche l’uomo conosce così bene. La fattoria è alle spalle di
Frank Jr. ogni volta che apre il diaframma dell’obiettivo. Le foto nascondono
tutto: gli anni venti che non ruggiscono per gli Hoel. La Depressione che
costa loro duecento acri e spedisce metà della famiglia a Chicago. I
programmi radiofonici che allontanano due dei figli di Frank Jr.
dall’agricoltura. La morte di Hoel nel Pacifico del Sud e i due Hoel
sopravvissuti e colpevoli. Gli escavatori e i trattori cingolati che sfilano
accanto alla rimessa. Il fienile ridotto in cenere una notte tra le urla di animali
inermi. Le dozzine di gioiosi matrimoni, battesimi e lauree. La mezza dozzina
di adulteri. I due divorzi abbastanza tristi da zittire gli uccelli canori. La
campagna fallimentare di un figlio per l’assemblea legislativa dello stato.
L’azione legale tra cugini. Le tre gravidanze a sorpresa. La prolungata
guerriglia degli Hoel contro il pastore locale e mezza parrocchia luterana. Il
frutto dell’eroina e dell’Agente Arancio che torna a casa coi nipoti dal
Vietnam. L’incesto taciuto, l’alcolismo persistente, una fuga della figlia con
l’insegnante d’inglese del liceo. I tumori (seno, colon, polmoni), il disturbo
cardiaco, la rimozione della pelle della mano di un operaio in una trivella per
granaglia, l’incidente automobilistico mortale del figlio di un cugino dopo il
ballo di fine anno. Le innumerevoli tonnellate di sostanze chimiche con nomi
tipo Rage, Roundup e Firestorm, i semi sperimentati elaborati per produrre
piante sterili. Il cinquantesimo anniversario di matrimonio alle Hawaii e le
disastrose conseguenze. La dispersione di pensionati verso l’Arizona e il
Texas. Le generazioni di rancore, coraggio, sopportazione e generosità
inattesa: tutto ciò che un essere umano può chiamare storia succede al di fuori
della cornice delle sue fotografie. All’interno, durante centinaia di cicli
stagionali, c’è soltanto quell’albero solitario, la sua corteccia crepata che sale
a spirale ed entra prematuramente nella mezz’età, crescendo alla velocità del
legno.
L’estinzione arriva di soppiatto alle spalle della fattoria degli Hoel – tra
tutte le fattorie a conduzione famigliare nell’Iowa occidentale. I trattori
diventano oltremodo enormi, i vagoni ferroviari pieni di fertilizzante azotato
troppo costosi, la competizione troppo vasta ed efficiente, i margini troppo
marginali, e il suolo agrario troppo straziato da ripetute semine a file per
riuscire a ricavarne qualche profitto. Ogni anno, un altro vicino viene
risucchiato dagli enormi stabilimenti aziendali che praticano la monocoltura
secondo una produzione a ciclo continuo. Come fanno ovunque gli esseri
umani di fronte alla catastrofe, Frank Hoel Jr. va incontro al suo destino con
gli occhi sbarrati. Si accolla dei debiti. Svende diversi acri di terreno e diritti.
Firma accordi con aziende sementiere che non dovrebbe sottoscrivere.
L’anno successivo, non ha dubbi – l’anno successivo succederà qualcosa che
li salverà, come è sempre accaduto.
Nel complesso, Frank Jr. aggiunge settecentocinquantacinque fotografie
del gigante solitario alle centosessanta già scattate da suo padre e suo nonno.
Il ventunesimo giorno dell’ultimo aprile della sua vita, con Frank Jr.
obbligato a letto, suo figlio Eric si reca alla fattoria dalla sua abitazione a
quaranta minuti di distanza e sale sull’altura per fare un altro scatto in bianco
e nero, ora occupato fino alla cornice da rigogliosi rami. Eric mostra la foto al
suo vecchio. È più facile che cercare di dire al padre che gli vuole bene.
Frank Jr. storce le labbra, avvertendo un sapore in bocca come di
mandorle amare. “Ascolta. Ho fatto una promessa, e l’ho mantenuta. Non
devi niente a nessuno. Lascia in pace quella dannata cosa.” Poteva benissimo
ordinare al gigantesco castagno di smettere di crescere.
Il suo gruppo rideva dei suoi piccoli schizzi a matita e dipinti trompe-l’œil
iperrealistici. Eppure, lui continuò a farli, stagione dopo stagione. E nel giro
di tre anni diventò famoso. Persino apprezzato con una punta di cattiveria.
Una notte d’inverno, durante il suo ultimo anno di scuola, nel bugigattolo
preso in affitto a Rogers Park, fece un sogno. Una studentessa di cui era
innamorato gli domandò: Cos’è che vuoi fare, veramente? Lui scoprì le mani
alzandole al cielo e fece spallucce. Minuscole pozze di sangue si formarono
al centro dei suoi palmi. Sopra di esse si biforcarono due rami. Si agitò in
preda al panico, riprendendo i sensi. Passò mezz’ora prima che il cuore
rallentasse abbastanza da permettergli di rendersi conto da dove provenissero
quei rami: le immagini in time-lapse del castagno che il suo zingaro
bisarcavolo norvegese aveva piantato, centovent’anni prima, quando si era
iscritto a quella scuola di arte primitiva per corrispondenza, nelle pianure
dell’Iowa occidentale.
Nick è seduto allo scrittoio con l’alzata a scomparsa, sfogliando ancora
una volta il libro. L’anno prima ha vinto lo Stern Prize per la Scultura
dell’istituto d’arte. Quest’anno lavora come magazziniere presso un famoso
emporio di Chicago che sta morendo di una morte lenta da un quarto di
secolo. D’accordo, ha ottenuto un diploma che lo autorizza a creare strani
manufatti capaci di imbarazzare i suoi amici e far infuriare gli sconosciuti. A
Oak Park c’è un magazzino con il servizio di deposito autogestito stipato di
costumi di cartapesta per rappresentazioni itineranti e set surreali di uno
spettacolo che ha debuttato nel piccolo teatro vicino ad Andersonville e
chiuso tre sere dopo. Ma a venticinque anni, il rampollo di una lunga
generazione di agricoltori vuole credere che la sua opera migliore sia ancora
davanti a sé.
È il giorno dell’antivigilia di Natale. Gli Hoel piomberanno in massa nel
giro di ventiquattr’ore, ma sua nonna è già in brodo di giuggiole. Lei vive per
quelle giornate, quando la vecchia casa piena di spifferi si riempie di eredi.
Non esiste più nessuna fattoria, c’è soltanto la casa sulla sua collinetta isolata.
Tutta la terra degli Hoel è affittata a lungo termine a piccole imprese gestite
da uffici a centinaia di chilometri di distanza. Il suolo dell’Iowa è stato fatto
convergere verso le proprie finalità funzionali. Ma per un po’, nel periodo
delle vacanze, il posto sarà tutto nascite miracolose e salvatori nella
mangiatoia, così com’era stato durante i Natali dagli Hoel per centovent’anni
di fila.
Nick si avvia verso il piano di sotto. È metà mattina, e sua nonna, suo
padre e sua madre sono tutt’intorno al tavolo della cucina dove le girelle con
la noce moscata vengono sfornate a iosa e le tessere del domino si stanno già
consumando fino a diventare piccole gomme da masticare. Fuori, il freddo
scende ben oltre le temperature pungenti. Per reagire ai venti polari che
soffiano da nord ed entrano dalle pareti rivestite in cedro, Eric Hoel ha acceso
il vecchio termoconvettore a propano. C’è un fuoco che brucia nel camino,
cibo a sufficienza per sfamare la folla di invitati, e una nuova televisione
grande quanto il Wyoming sintonizzata su una partita di calcio che non
interessa a nessuno.
Nicholas dice: “Chi ha voglia di andare a Omaha?” Al Joslyn Museum,
soltanto a un’ora di distanza da lì, c’è una mostra sui paesaggi americani.
Quando la sera prima aveva lanciato l’idea, i vecchi sembravano interessati.
Ora invece guardano da un’altra parte. La madre sorride, sentendosi in
imbarazzo per lui. “Mi sento un po’ influenzata, tesoro.” Il padre aggiunge:
“Preferiamo starcene tutti a casa, comodi e rilassati, Nick.” La nonna abbozza
un cenno d’assenso, un po’ rintronata.
“Vabbè,” dice Nicholas. “Andatevene tutti al diavolo! Torno per cena.”
La neve soffia sull’interstatale, sospinta dal vento, mentre ne sta cadendo
dell’altra. Lui però è un abitante del Midwest, e suo padre non sarebbe suo
padre se non avesse montato le gomme da neve vergine. La mostra sui
paesaggi americani è spettacolare. Solo gli Sheeler lo riempiono di un senso
di gelosa gratitudine. Si trattiene finché il museo non lo butta fuori. Quando
sta per andarsene, fuori è calata l’oscurità e cumuli di neve turbinano sopra i
suoi stivali.
Imbocca nuovamente l’interstatale e si avvia adagio verso est. La strada è
ricoperta completamente di bianco. Tutti gli automobilisti sono abbastanza
stupidi da provare a procedere incollati l’uno alle luci posteriori dell’altro in
una lenta processione lungo il manto bianco. Il solco arato da Nick richiama
la corsia sottostante solo nel modo più astratto. Le bande sonore a margine
della strada sono così attutite dalla neve che non riesce a sentirle.
Sotto un viadotto, passa sopra una lastra di ghiaccio priva d’attrito. L’auto
sbanda lateralmente. Alla fine, si arrende alla scivolata stile libero, blandendo
il mezzo come un aquilone finché non si raddrizza. Accende e spegne gli
abbaglianti, cercando di capire quali delle due opzioni gli permetta di vedere
meglio nella cortina di neve. Dopo un’ora, ha percorso all’incirca una trentina
di chilometri.
Una scena si dipana nel buio tunnel punteggiato di neve come una clip per
visione notturna di un documentario sugli sbirri. Un mezzo a diciotto ruote
nella direzione opposta si piega in due urtando l’aiuola spartitraffico e gira in
tondo come un animale ferito, spuntando all’improvviso sul lato di Nick a
una novantina di metri di fronte a lui. Il ragazzo sbanda oltre il rottame e
scivola via sul margine destro. La parte posteriore destra della vettura
rimbalza contro il guardrail. La parte laterale sinistra del paraurti anteriore
sfiora la gomma posteriore del camion. Nick slitta finché non si ferma e
comincia a tremare, talmente forte da non riuscire a guidare. L’auto entra
autonomamente in una piazzuola di sosta brulicante di automobilisti
appiedati.
C’è un telefono a gettoni davanti ai bagni. Compone il numero di casa, ma
la chiamata non vuole saperne di andare a buon fine. È la notte
dell’antivigilia, e le linee telefoniche sono inattive in tutto lo stato. I suoi
genitori saranno terribilmente in pensiero, di questo ne è certo. Ma l’unica
cosa sensata da fare è rannicchiarsi sul sedile dell’auto e dormire per un paio
d’ore finché tutto non si sarà placato e gli spazzaneve non avranno raggiunto
il livello di incazzatura di Dio.
Si rimette in marcia un po’ prima dell’alba. Ormai ha smesso di nevicare,
e le auto avanzano adagio in entrambe le direzioni. Si avvia lentamente verso
casa. La parte più difficile del tragitto è inerpicarsi sulla lieve altura alla fine
dell’uscita dell’interstatale. Nick slitta di coda sulla rampa e svolta nella via
in direzione della fattoria. La strada è piena di cumuli di neve. Il Castagno
degli Hoel appare da molto lontano, rivestito completamente di bianco,
l’unico pinnacolo fino all’orizzonte. Due lucine brillano dalle finestre del
piano di sopra della casa. Non riesce a immaginarsi cosa stia facendo
chiunque è in piedi così di buon’ora. Qualcuno è rimasto sveglio tutta la notte
aspettando sue notizie.
Il vialetto di casa è bloccato dalla neve. Il vecchio trattore dotato di
spazzaneve è ancora nella rimessa. Suo padre dovrebbe averlo già usato su e
giù almeno un paio di volte. Nick affronta i cumuli, ma sono troppi. Smonta
dall’auto a metà del vialetto e percorre a piedi l’ultimo tratto verso
l’abitazione. Spingendo la porta d’ingresso, intona all’improvviso: “Oh, il
tempo fuori è proprio orribile!” Ma non c’è nessuno al piano di sotto che
possa apprezzare la sua spiritosaggine.
Più tardi, si domanderà se non lo avesse già capito, là sulla porta
d’ingresso. E invece no: deve girare intorno alla base della scala dove suo
padre, a faccia ingiù e con le braccia piegate a formare angoli assurdi, è
prostrato a terra. Nick grida e si china ad aiutarlo, ma ormai è inutile. Si alza
in piedi e si avvia sulle scale, due gradini alla volta. Ma a quel punto tutto gli
diventa chiaro come il sole, tutto quello che bisogna sapere. Di sopra, le due
donne sono rannicchiate nelle loro camere e non possono essere svegliate –
una dormita fino a tarda mattinata – la vigilia di Natale.
Una visione sfocata si leva dalle gambe e dal busto. Nick sta
sprofondando nella completa oscurità. Si precipita ancora di sotto, dove il
vecchio convettore a propano continua a girare, diffondendo gas che si alza e
si accumula invisibilmente sotto il soffitto che il padre ha da poco ricoperto
di materiale isolante per una migliore coibentazione. Oltrepassa ciondolante
la porta d’ingresso, scende i gradini della veranda e si lascia cadere nella
neve. Si rotola nel gelido bianco, riprendendo fiato e rinvenendo. Quando
solleva lo sguardo, lo rivolge verso i rami dell’albero sentinella, solitario,
immenso, frattale e spoglio contro i cumuli, che alza i grossi rami più bassi e
scuote la sua ampia sfera. Tutti i suoi indomiti ramoscelli si muovono
scricchiolando al vento, come se anche quel momento, così insignificante e
transitorio, verrà iscritto nei suoi anelli e invocato dai rami che trasmettono
segnali luminosi contro il più blu dei cieli invernali del Midwest.
Mimi Ma
Nei suoi casuali alti e bassi, la storia dà una scossa a Sih Hsuin. In capo a
quattro giorni andrà negli Stati Uniti, parte dello sparuto gruppetto di studenti
cinesi in tutto il 1948 cui è stato concesso il visto. Per settimane ha studiato le
cartine, ripassato le lettere di ammissione, si è esercitato nella pronuncia di
tutti i nomi imperscrutabili: USS General Meigs. Greyhound Supercouch.
Carnegie Institute of Technology. Per un anno e mezzo si è sciroppato gli
spettacoli pomeridiani di film con Gable Clark e Astaire Fred, esercitandosi
nella sua nuova lingua.
Insiste ostinatamente nel parlare in inglese, mosso dall’orgoglio. “Se vuoi
rimango qui.”
“Voglio che rimani? Non hai idea di quello che sto dicendo.”
Lo sguardo del padre è come una poesia:
Perché ti soffermi davanti a questo bivio
sulla strada
sfregandoti gli occhi?
Non mi capisci,
vero, ragazzo?
Con due bauli e una valigia di cartone, Ma Sih Hsuin prende il treno da
Shanghai per Hong Kong. Una volta arrivato, scopre che il suo certificato
medico, rilasciato dal consolato americano di Shanghai, non ha tutti i requisiti
necessari per l’ufficiale sanitario della nave, a cui bisogna allungare altri
cinquanta dollari perché rivisiti Sih Hsuin.
La General Meigs è appena stata messa in disarmo e ceduta all’American
President Lines per essere utilizzata come nave passeggeri di linea lungo il
Pacifico. È un piccolo mondo di millecinquecento persone. Sih Hsuin dorme
su uno dei ponti riservati agli asiatici, tre piani sotto la luce del sole. Gli
europei sono sopra, al sole, con le loro sdraio e i loro camerieri in livrea che
servono bibite fresche. Sih Hsuin deve fare la doccia insieme a dozzine di
altri uomini, sotto secchi d’acqua, completamente nudo. Il cibo è disgustoso e
difficile da trattenere nella pancia – salsicce impregnate d’acqua, patate
pastose e carne di manzo trita salata. A Sih Hsuin non importa. Sta andando
in America, al grande Carnegie Institute, per laurearsi in ingegneria
elettronica. Persino gli squallidi alloggi riservati agli asiatici sono un lusso –
niente bombe, niente stupri né torture. Rimane seduto sulla sua cuccetta per
ore, succhiando noccioli di mango, sentendosi il re del creato.
Attraccano a Manila, poi a Guam, poi alle Hawaii. Dopo ventuno giorni
arrivano a San Francisco, punto di sbarco per la terra fortunata di Fusang. Sih
Hsuin è in fila davanti all’Ufficio Immigrazione con i due bauli e la sudicia
valigia, ogni bagaglio con il suo nome stampato in inglese. Adesso è Sih
Hsuin Ma – la sua identità rovesciata, come una giacca sbarazzina reversibile.
Chiazze colorate ricoprono la valigia – adesivi della nave, un gagliardetto
rosa dell’Università di Nanchino, uno arancione del Carnegie Institute. Si
sente spensierato, ricolmo di affetto per la gente di tutte le nazioni tranne il
Giappone.
Il funzionario della dogana è una donna. Esamina i suoi documenti. “‘Ma’
è il suo nome di battesimo o il suo cognome?”
“Nessun nome di battesimo. Solo un nome musulmano. Hui.”
“È per caso una specie di culto?”
Lui sorride e annuisce diverse volte. La donna strizza gli occhi. Per un
attimo, si lascia prendere dal panico, pensando di essere stato scoperto. Ha
mentito sulla sua data di nascita, scrivendo 7 novembre 1925. In realtà, è nato
il settimo giorno dell’undicesimo mese del calendario lunare. La conversione
è troppo difficile per lui.
La donna gli chiede informazioni circa la durata, lo scopo e l’ubicazione
del suo soggiorno, tutto descritto nel dettaglio nelle sue scartoffie. L’intera
conversazione, stabilisce Sih Hsuin, è un puro e semplice test per valutare la
sua capacità di ricordare cos’ha scritto. La donna indica i bauli. “Potrebbe
aprire quello lì, per favore? No – l’altro.”
Ispeziona i contenuti della scatola con il cibo: tre torte lunari circondate da
uova millenarie. All’apertura della tomba, la donna è assalita da conati di
vomito. “Gesù. La chiuda.”
Rovista fra i vestiti e i testi di ingegneria, soffermandosi a esaminare le
suole di un paio di scarpe che ha riparato lui stesso. Il suo sguardo si posa sul
contenitore del rotolo, che Sih Hsuin e suo padre hanno deciso di tenere nella
scatola ma in bella vista. “Cosa c’è qui dentro?”
“Souvenir. Dipinti cinesi.”
“Lo apra, per favore.” Sih Hsuin sgombra la mente. Pensa ai suoi piccioni
viaggiatori, alla sua costante di Planck, a tutto tranne che a quel capolavoro
sospetto che, come minimo, gli farà spendere in dazi doganali quattro anni
della sua borsa di studio, o, alla peggio, lo farà arrestare per contrabbando.
Il viso del funzionario si increspa alla vista degli arhat. “Chi sono?”
“Sono dei santi.”
“Cos’hanno che non va?”
“La felicità. Vedono la Cosa Vera.”
“E sarebbe?”
Sih Hsuin non ne sa nulla di buddismo cinese. Il suo inglese è piuttosto
approssimativo. E adesso dovrebbe mettersi pure a spiegare l’Illuminazione a
questo funzionario americano donna.
“La Cosa Vera significa: gli esseri umani, così piccoli. E la vita, così
grande.”
L’agente sbuffa. “E l’hanno appena capito?”
Sih Hsuin annuisce.
“E questo li rende felici?” La donna scuote il capo e gli fa segno di
passare. “Buona fortuna a Pittsburgh.”
Sih Hsuin diventa Winston Ma: una semplice modifica ingegneristica. Nei
miti, la gente si trasforma in ogni genere di cosa. Animali, alberi, fiori, fiumi.
E allora perché non in un americano di nome Winston? E Fusang – la terra
mitica di suo padre a oriente – diventa, negli anni dopo Pittsburgh, Wheaton,
Illinois. Winston Ma e la sua nuova moglie piantano un gelso di
considerevoli dimensioni nel loro spoglio giardino dietro casa. È un unico
albero con due sessi, più antico della separazione di yin e yang, l’Albero del
Rinnovamento, l’albero al centro dell’universo, l’albero cavo in cui dimora il
sacro Tao. È l’albero della seta su cui fu costruita la fortuna della famiglia
Ma, un albero per onorare suo padre, che non potrà mai vederlo.
L’uomo si trova in piedi accanto alla pianta appena interrata, il cerchio
nero di terreno una promessa ai suoi piedi. Non si pulisce le mani sporche di
fango nemmeno sui calzoni da lavoro. Sua moglie Charlotte, discendente da
una famiglia di proprietari di piantagioni del sud, caduti in rovina, che un
tempo mandavano missionari in Cina, gli dice: “C’è un detto cinese che
recita: ‘Quand’è il momento migliore per piantare un albero? Vent’anni fa.’”
L’ingegnere cinese sorride. “Davvero niente male.”
“‘Quand’è il prossimo momento migliore? Adesso.’”
“Ah! Okay!” Il sorriso diventa reale. Fino a quel giorno, lui non ha mai
piantato nulla. Ma l’Adesso, quel prossimo momento migliore, è lungo, e
riscrive tutto.
Sua madre sembra completamente persa. “Tuo padre non vuole ferirci. Ha
certe idee. Io non lo capisco. È fatto così e basta.” Le sue parole provengono
da un luogo dove lo scoppio che ha sentito dal seminterrato è una delle tante
contingenze possibili nel tempo ramificato. Sembra così riconciliata, così in
pace nella sua confusione, così sprofondata sotto il flusso del fiume che Mimi
non può far altro che condividere la sua calma irreale. Il lavoro lasciato da
suo padre sarà compito di Mimi finirlo. Nessuno ha toccato la scena dove è
avvenuta la tragedia, tranne per rimuovere il corpo e la pistola. Frammenti di
cervello punteggiano i sassi e il tronco dell’albero, come nuove specie di
lumaca da giardino. Lei si trasforma in una macchina per le pulizie. Secchio,
spugna, acqua e sapone, per il pavimento tutto inzaccherato. Non è riuscita ad
avvertire le sorelle o a fermare quello che ha visto succedere. Però questo
riesce a farlo – ripulire definitivamente la carneficina nel giardino sul retro.
Mentre lava, diventa un’altra cosa. Il vento le scioglie i capelli. Guarda il
lastricato insanguinato, i frammenti di morbido tessuto che ospitava le idee
del padre. Lo vede lì accanto a lei, sorpreso dalle particelle del suo stesso
cervello sull’erba. Guarda il colore! Tu chiedere come avviene l’ascesa e il
declino delle persone in questa vita? Avviene così.
Si siede sotto l’albero malato. Il vento batte sulle foglie dalle grosse
dentellature. Solchi segnano la corteccia, come le pieghe sui volti degli arhat.
I suoi occhi bruciano di caos animale. Persino in quel momento, ogni metro
quadrato di terra è macchiato di frutta, la frutta macchiata, dice il mito, del
sangue di un suicida per amore. Le parole fuoriescono da lei, sgualcite e
metalliche. “Papà. Papi! Cosa fai?”
E poi l’ululato del silenzio.
“Non so, Dammie.” Jean, tre anni più grande, ha una consapevolezza più
oggettiva dell’elettorato. “Può darsi che non lo capiscano.”
“È divertente. Alla gente piacciono le cose divertenti.”
Perdono le elezioni, tre a due. Adam tiene il broncio per i successivi due
mesi.
***
Jean porta i suoi fratelli nella riserva forestale. Là, loro tre tengono la
funzione funebre cui il padre si oppone. Fanno un falò e raccontano delle
storie. La dodicenne Leigh, che scappa di casa dopo che papà l’ha
schiaffeggiata per aver sussurrato stronzo. La quattordicenne Leigh, che
punisce tutti loro per il fatto di odiarla, rifiutandosi di parlare con chiunque
tranne in spagnolo, che studia da un paio d’anni. La diciottenne Leigh, che
interpreta Emily Webb, tornata sulla Terra per rivivere il suo dodicesimo
compleanno. Uno splendido fantasma che ha fatto piangere l’intero liceo.
Adam prende la placca dell’olmo che aveva inciso per sua sorella e la
getta nel fuoco. Un albero è un passaggio tra la terra e il cielo. L’olmo non è
una gran legna da ardere, anche se brucia senza bisogno di troppa
persuasione. Tutte le sue parole biascicate diventano perfette e svaniscono
nell’oscurità generale – prima albero, poi passaggio, poi terra, e infine cielo.
I giudici del concorso di scienze fanno passare a Adam Appich qualsiasi
desiderio di tenere un taccuino da agrimensore o qualunque altra cosa. Col
tempo, si stufa delle formiche. Si libera delle Golden Guide mettendole fuori
accanto al marciapiede. I tesori segreti del museo tenuti al riparo
dall’aspirapolvere della madre adesso vengono buttati via con piacere. Roba
infantile.
Il liceo sono quattro anni bui nel bunker. Non che non abbia amici o
svaghi. In realtà, ne ha in abbondanza di entrambi. Notti passate a ubriacarsi e
a fare il bagno nudo nel lago artificiale sopra la città. Interi fine settimana nei
seminterrati a lanciare dadi e a discutere delle regole esoteriche dei giochi di
ruolo con immaturi omoni anemici che portano valigie piene di carte da
collezione da scambiare. I mostri del gioco sono come un errore nella storia
naturale. Insetti giganti. Alberi killer. L’obiettivo del gioco è estinguerli tutti
quanti.
“Testosterone,” spiega suo padre. Adesso ha paura di quel ragazzo
corpulento e goffo, e Adam lo sa. “Tempeste di ormoni, e nessun porto in
vista.”
Sebbene Adam voglia ferire l’uomo, suo padre non ha torto. Le ragazze ci
sono, ma lo lasciano perplesso. Fingono di essere stupide, a mo’ di
colorazione protettiva. Passive, immobili, e criptiche. Dicono il contrario di
quello che intendono, per verificare se afferri la loro vera natura. Cosa che
vogliono. E poi, quando ci riesci, si offendono.
Organizza raid nel liceo del quartiere, complicate operazioni notturne che
comprendono chilometri di carta igienica lanciata tra i rami dei tigli. Le
striscioline penzolano per mesi come giganteschi fiori bianchi. Adam passa
sotto di essi in sella alla sua mountain bike, sentendosi come un esponente
geniale della guerrilla art.
Insieme a un suo compagno disegna la mappa della scuola, del
supermercato, della filiale della banca. I due amici stilano un elenco dei
generi di attrezzi di cui avrebbero bisogno per fare una rapina. I piani
diventano elaborati. Stimano le armi, solo per farsi due risate. Per Adam è un
gioco: la logistica, la programmazione, la gestione delle risorse. Per il suo
amico, è quasi una religione. Adam osserva il ragazzo fragile, affascinato. Un
seme che atterra al suolo capovolto ruoterà – radice e stelo – compiendo
ampie inversioni a U finché non si raddrizza. Ma un giovane esemplare della
razza umana può anche sapere di essere rivolto nella direzione sbagliata, e
tuttavia credere che valga la pena seguirla.
Una cosa detta per scherzo da un amico – tre dollari se mi fai i compiti di
algebra – e si ritrova con dei soldi facili in tasca. Così facili, in realtà, che
comincia a farsi pubblicità. Compiti completi in qualsiasi materia tranne le
lingue straniere, in qualsiasi modo li si desideri, con consegna veloce a
seconda del bisogno. Impiega un po’ di tempo per trovare il giusto prezzo di
vendita, ma quando ci riesce, i clienti si mettono in coda. Prova a utilizzare
degli sconti quantità e piani di pagamento anticipato. Ben presto diventa
proprietario di una piccola, fiorente attività. I suoi genitori sono sollevati di
vederlo di nuovo impegnato coi compiti, per diverse ore di notte. Sono
contenti che abbia smesso di chiedere soldi. È come una situazione in cui tutti
ricavano dei vantaggi. In America è mattina, con il libero mercato che fa ciò
che gli riesce meglio, e Adam va a letto ogni notte grato per essere nato in
una cultura imprenditoriale.
È veloce e scrupoloso. Ogni compito è pronto entro la data di scadenza. Di
lì a breve, mette in piedi l’attività fraudolenta più affidabile e rispettata
dell’Harding High. Gli affari lo fanno diventare quasi famoso. Mette via
praticamente tutti i guadagni. Non c’è nessuna cosa in cui possa spendere i
soldi capace di dargli più piacere che guardare il suo patrimonio accumularsi
nel conto del suo libretto di risparmio e calcolare i dollari per educatore
gabbato.
Tuttavia, il lavoro impegnativo richiede sacrificio. Adam è obbligato a
imparare ogni genere di cosa interessante che non dovrebbe destargli
interesse.
Adam alza la testa. Le cose che hanno delle risposte pulite, concise e
giuste sono degli antidoti all’esistenza umana. Risolve il puzzle rapidamente,
con assoluta sicurezza. Ma quando controlla la soluzione, è sbagliata. Sulle
prime, pensa che la risposta stampata sia un errore. E poi capisce quello che
avrebbe dovuto essere ovvio. Si dice che è soltanto sfinito dalle tante ore di
lavoro passate a fare i compiti degli altri ragazzini. Non si è concentrato.
L’avrebbe risolto bene, se avesse fatto attenzione. Continua a leggere. Il libro
sostiene che solamente il quattro per cento degli adulti medi riesca a trovare
la soluzione corretta.
Per di più, quasi tre quarti delle persone che sbagliano il problema, nel momento
in cui viene mostrata loro la risposta elementare, accampano scuse sul perché
hanno sbagliato.
***
Non è difficile trovarle: due persone per le quali gli alberi non
significano quasi nulla. Due persone che, persino nel fiore dei loro anni, non
sanno distinguere una quercia da un tiglio. Due persone che non hanno mai
riflettuto attentamente sui boschi finché un’intera foresta non marcia per
miglia lungo il palcoscenico di un teatro sperimentale a downtown St. Paul,
nel 1974.
***
Ray scrive all’indirizzo del mittente – una casella postale a Eau Claire. Le
dice che la schiavitù è stata abolita in ogni parte nel mondo. Lei non sarà mai
proprietà di nessuno. Non ha intenzione di cambiare la sua carriera per lei; la
legge sul copyright e il brevetto è tutto quello che sa. È un lavoro necessario,
il motore della ricchezza del mondo, e lui è piuttosto bravo. Magari un po’
più che bravo. Ma se deve scegliere tra rinunciare all’idea di matrimonio o a
quella di recitare in un’altra produzione teatrale amatoriale, be’, nolo
contendere.
Ritorna, e vivremo insieme nel peccato con due auto separate, due conti correnti
separati, due case separate, due testamenti separati.
Poco dopo aver spedito la lettera, lei si presenta sul gradino davanti alla
porta del villino di Ray, a tarda notte, con due biglietti per Roma. Il viaggio
solleva qualche obiezione nel suo ufficio, ma due giorni dopo lui parte con lei
in una non-luna di miele. La terza notte nella Città Eterna, con fiumi di
prosecco che scorrono liberamente, le incantevoli luci, i fatiscenti monumenti
antichi, la dannata musica per le strade, i tigli con le loro chiome gloriose e le
lucine bianche infilate tra i loro eleganti rami, lei gli domanda – “Che cavolo,
ehi, Ray?” – se Ray sarà il suo bene mobile acquisito legalmente, legato
contrattualmente a lei per sempre. Alla fine, si ritrovano a lanciare monetine
alle loro spalle sinistre nella Fontana di Trevi. Un’idea davvero poco
originale, e probabilmente devono pagare le royalty a qualcuno.
Tornano a St. Paul in tempo per l’Oktoberfest. Si giurano l’un l’altra di
non dirlo mai a nessuno, di negare tutto. I loro amici però se ne accorgono,
subito dopo che la coppia esce insieme in pubblico sfoggiando un sorrisetto
furbesco. Cos’è successo a voi due a Roma? Niente di speciale. Nessuno ha
bisogno di alcun superpotere in grado di leggere i muscoli facciali per sapere
che stanno mentendo spudoratamente. Siete stati messi in prigione o qualcosa
del genere? Vi siete sposati? Voi due vi siete sposati, non è vero? Siete
sposati!
E non fa nessunissima differenza al mondo. Dorothy si trasferisce
nuovamente da lui. Insiste per tenere una scrupolosa contabilità, dividendo
esattamente a metà ogni spesa in comune. Ma in un angolo remoto della sua
mente pensa, mentre attraversa lentamente le stanze incantevoli della
biblioteca, della sala da pranzo e del solarium: Quando succederà, quando
sarà il momento di covare, quando diventerò tutta strana e calda per
riprodurmi, allora tutto questo apparterrà ai miei piccoli!
Il giorno del loro primo anniversario, lui le scrive una lettera. Impiega un
po’ di tempo a trovare le parole. Non riesce proprio a dire quello che ha
scritto, così lo lascia sul tavolo della colazione prima di andare al lavoro.
Mi hai dato qualcosa che non avrei mai potuto immaginare, prima che ti
conoscessi. È come se avessi la parola “libro” e tu me ne avessi messo uno in
mano. È come se avessi la parola “gioco” e tu mi avessi insegnato a giocare. È
come se avessi la parola “vita”, e tu fossi venuta da me a dirmi, “Oh! Intendi
questa qui.”
Ray dice che non c’è niente sulla Terra che potrebbe darle in occasione
del loro anniversario per ringraziarla per quello che gli ha dato. Niente, tranne
una cosa che cresce. Ecco cosa propongo che facciamo. Non sa dove prende
l’idea. Si è dimenticato delle lente, pesanti rivelazioni esterne che lo hanno
assalito durante il primo spettacolo teatrale amatoriale, quando ha dovuto
recitare la parte di un albero. Dorothy legge le parole mentre è in auto diretta
in tribunale per un pomeriggio di trascrizioni di udienze.
Ogni anno, il più vicino possibile a questo giorno, rechiamoci al vivaio a cercare
qualcosa per il giardino dietro casa. Non ne so nulla di piante. Non conosco i
loro nomi né so come curarle. Non so nemmeno distinguere un indistinto
esemplare verde da un altro. Però posso imparare, come ho dovuto imparare
tutto di nuovo – me stesso, quello che mi piace e quello che non mi piace, la
larghezza, l’altezza e la profondità di dove vivo – ancora, con te al mio fianco.
Non tutto quello che piantiamo attecchirà. Non tutte le piante cresceranno
rigogliose. Ma insieme possiamo guardare quelle che riempiranno il nostro
giardino.
Diversi chilometri più sotto e tre secoli prima, una vespa ricoperta di
polline scese lungo un buco all’estremità di un certo fico verde dove depose
le uova su tutto il giardino involuto di fiori nascosti all’interno. Ognuna delle
settecentocinquanta specie di Ficus presenti al mondo ha la sua unica vespa
personalizzata per fertilizzarlo. E in qualche modo, quella vespa ha trovato la
precisa specie di fico del suo destino. La fondatrice ha deposto le uova ed è
morta. La frutta che ha fertilizzato è diventata la sua tomba.
Una volta schiuse, le larve del parassita si sono nutrite delle parti interne
di questa infiorescenza. Però si sono fermate prima di distruggere la cosa che
le nutriva. I maschi si sono accoppiati con le loro sorelle, e poi sono morti
dentro la loro felpata prigione di frutta. Le femmine sono emerse dal fico e
sono volate via, ricoperte di polline, per portare il gioco senza fine da un’altra
parte. Il fico che si sono lasciate alle spalle ha dato vita a un fagiolo rosso più
piccolo della lentiggine sull’estremità del naso di Douglas Pavlicek. Il fagiolo
è stato mangiato da un bulbul. Il fagiolo è passato attraverso l’intestino
dell’uccello ed è caduto dal cielo in un mucchietto di sostanziosa merda che è
atterrata nell’incavo di un altro albero, dove il sole e la pioggia si sono presi
cura della risultante pianticella sfidando i milioni di modi in cui si può
morire. È cresciuta; le sue radici hanno racchiuso il suo ospite. Sono passati
decenni. Secoli. La guerra in groppa agli elefanti ha ceduto il passo ad
allunaggi trasmessi in televisione e bombe all’idrogeno.
Il tronco del fico ha ramificato, e i rami hanno prodotto le loro foglie
inclinate dalle gocce di pioggia. Dai rami più grossi se ne sono piegati altri a
gomito, che si sono abbassati verso il terreno e ispessiti fino a diventare dei
nuovi tronchi. Col passar del tempo, il singolo tronco centrale è diventato un
bosco. Il fico si è allargato fino a diventare un boschetto ovale di trecento
grossi tronchi e altri duecento più piccoli. Eppure era ancora un unico fico.
Un baniano...
***
***
La vita fa il conto alla rovescia. Nove anni, sei lavori, due storie d’amore
interrotte, tre targhe statali, due tonnellate e mezzo di birra passabile, e un
incubo ricorrente. Con un altro autunno che volge al termine e l’inverno
imminente, Douglas Pavlicek va a prendere il martello a penna tonda e fa una
serie di buche sulla strada piuttosto liscia che oltrepassa il maneggio di
cavalli e prosegue verso Blackfoot. L’obiettivo è quello di far rallentare le
persone in modo che lui possa stare accanto al recinto e vedere i loro visi.
Quando sarà novembre, è probabile che passerà un po’ di tempo prima di
avere di nuovo quel piacere.
Per Douglas diventa un modo per trascorrere il sabato, dopo aver dato da
mangiare ai cavalli e letto loro alcune pagine. Lo schema funziona. Se l’auto
rallenta quel tanto che basta, lui e il cane avanzano adagio sul ciglio della
strada finché un autista non abbassa il finestrino per salutare o estrarre una
pistola. In quel modo riesce a fare un paio di conversazioni piacevoli, un vero
compromesso. Un tizio si trattiene persino per un minuto. Douggie sa che il
comportamento potrebbe sembrare un po’ eccentrico, visto da fuori. Ma
quello è l’Idaho, e quando passi tutto il tuo tempo in compagnia di cavalli, la
tua anima si espande fino al punto in cui il comportamento degli uomini non
sembra nient’altro che una festa in maschera che faresti bene a non prendere
per ciò che appare.
In realtà, è sempre più convinzione di Douggie che il più grande difetto
della specie sia l’irresistibile tendenza a confondere il consenso con la verità.
L’unica più grande influenza su ciò che un corpo crederà o non crederà è
quello che alcuni corpi vicini trasmetteranno sulla banda pubblica. Provate a
mettere tre persone in una stanza, e vedrete che esse decideranno che la legge
di gravità è dannosa e dovrebbe essere soppressa perché i loro zii, ubriachi
fradici, sono caduti dal tetto.
Ha sperimentato questa idea con altri, però senza molto successo. Ma un
po’ di acciaio che scorre accanto alla sua vertebra L4, un piccolo fondo di
guerra della sua pensione del benservito, una Croce dell’Aeronautica militare
(data in pegno), un tardivo Purple Heart il cui retro gli ricorda la tazza di un
gabinetto, e la capacità di fare delle cose con le proprie mani lo autorizzano
ad avere opinioni salde.
Zoppica ancora un po’ mentre fa oscillare il martello. Il viso è diventato
lungo e cavallino, in un’imitazione inconscia degli animali di cui si prende
cura. Vive da solo per sette mesi all’anno mentre gli attempati proprietari del
ranch si dedicano alla sfilza dei loro altri hobby e delle loro abitazioni. Le
montagne lo cingono su tre lati. L’unica cosa che appare sullo schermo della
televisione è un caos di interferenze. E c’è ancora una parte di lui che vuole
sapere se le sue poche convinzioni personali possono essere avvalorate da
qualcuno, da qualche parte. La conferma degli altri: un male di cui morirà
l’intera razza. Eppure, passa il secondo sabato di ottobre a fare dei lavori
sulla strada davanti a casa, sperando che un’ampia buca farà rallentare la
gente.
Sta per abbandonare il posto di controllo per quella giornata e tornare al
capannone a discutere di Nietzsche con Chief Plenty Coups, il cavallo da tiro
belga, quando una Dodge Dart rossa guadagna la cima dell’altura a una
velocità vicina a quella del suono. Vedendo il tratto di crateri, l’auto si
affretta a fare una slittata mirabilmente controllata. Douggie e il cane
cominciano ad avanzare a lunghi passi. Quando raggiungono l’auto, il
finestrino è abbassato. Si sporge una donna dai capelli decisamente rossi.
Hanno molte cose da dirsi, si rende conto Douglas. Destinati a diventare
amici.
“Perché la strada è così rovinata, proprio qui?”
“Ribelli,” spiega Douglas.
La donna tira su il finestrino e si allontana a tutta velocità, al diavolo le
assi dell’auto. Nemmeno uno sguardo. Fine del gioco. Un gesto che priva
Douglas di qualcosa. L’ultima, ennesima goccia. Non è rimasto nemmeno lo
slancio vitale sufficiente per leggere qualche passo di Zarathustra al cavallo.
Quella notte le temperature scendono sotto lo zero, con fiocchi di neve
simili a carta vetrata che gli strofinano il viso, come se tutti i grandi spazi
aperti fossero diventati un centro californiano di trattamenti esfolianti. Si
dirige al Blackfoot, dove fa provvista di cocktail di frutta per un mese,
casomai le abbondanti nevicate arrivassero in anticipo. Finisce al bar dei
biliardi, distribuendo dollari d’argento come se fossero pezzi d’estrusione di
alluminio.
“Bisogna essere pronti a bruciare nelle proprie fiamme,” dice a una bella
fetta di clientela. Così parla l’ex prigioniero 571, che dovrà sempre dire che
non ha dato la sua coperta a un suo compagno di cella quando invece avrebbe
dovuto farlo. Rientra a casa dopo diciotto partite di palla 8 con più soldi di
quanti ne aveva quando era uscito. Seppellisce il denaro nel pascolo a nord,
accanto al resto del gruzzolo, prima che il terreno diventi troppo freddo per
riuscire a scavare.
Da quelle parti, l’inverno è più lungo del conto totale lasciato al bar di
un’intera civiltà. Lui intaglia. Utilizza i suoi corni ramificati per costruire
degli oggetti: una lampada, un attaccapanni, una sedia. Pensa alla donna dai
capelli rossi e alla sua natura gloriosa e irraggiungibile. Ascolta gli animali
fare esercizi di ginnastica ritmica in soffitta. Finisce una raccolta di scritti di
Nietzsche e continua con Il libro completo delle profezie di Nostradamus,
bruciando pagina dopo pagina nella stufa a legna man mano che finisce
ognuno. Dà una bella strigliata ai cavalli, li cavalca quotidianamente a
rotazione nel recinto al coperto, e legge loro Il Paradiso perduto, visto che
Nostradamus è troppo inquietante.
In primavera, porta una calibro 22 nel sottobosco. Però non riesce a tirare
il grilletto, nemmeno contro una lepre zoppa. C’è qualcosa che non va in lui,
ne è consapevole. Quando all’inizio dell’estate i suoi datori di lavoro fanno
ritorno, lui li ringrazia e dà le dimissioni. Non è sicuro di dove andrà. Dal suo
ultimo volo come addetto al carico, sapere cosa farà è diventato un lusso
impossibile.
Vuole continuare a dirigersi verso ovest. Il problema è che proseguire
verso l’unica striscia di terra ancora a ovest gli dà la sensazione di tornare a
est. Eppure, ha il suo pick-up F100 usato ma robusto, dei nuovi pneumatici,
una discreta quantità di monete, la sua pensione di invalidità da reduce di
guerra, e un amico a Eugene. Belle strade secondarie di campagna
attraversano le montagne fino a Boise e oltre. La vita è bella com’è stata da
quando è caduto dal cielo precipitando su un baniano. La radio del
camioncino va e viene lungo i canyon, come se le canzoni stessero arrivando
dalla luna. Brani high lonesome che sfumano in pezzi techno. Lui tanto non
sta ascoltando. È rapito dalle pareti lunghe chilometri di abete Engelmann e
subalpino. Si ferma sul margine della strada per riprendersi. Là sulle creste di
quei monti potrebbe fare la pipì sulla mezzeria dell’autostrada senza che
l’umanità se ne accorgesse minimamente. Ma il vandalismo è una brutta
deriva, come ha sempre insegnato ai cavalli. Si allontana dalla strada e si
inoltra nel bosco.
E là, bandiera a mezz’asta, occhi rivolti verso il territorio selvaggio, in
attesa che la vescica tolga la sicura, Douglas Pavlicek scorge lastre di luce in
mezzo ai tronchi dove dovrebbe esserci l’ombra fino al cuore della foresta.
Chiude la cerniera ed esplora. Si addentra ancor di più nel sottobosco, solo
che più si spinge all’interno più in realtà si allontana. Dopo la più corta delle
escursioni, sbuca di nuovo in qualcosa che non si può neppure definire
radura. Chiamiamola luna. Una zona desolata costellata di ceppi d’albero si
propaga davanti a lui. Il suolo stilla scorie rossastre mescolate a segatura e
fanghiglia. Ogni direzione fin dove riesce a vedere somiglia a un gigantesco
uccello spennato. È come se quel luogo fosse stato colpito dai raggi della
morte degli alieni, e il mondo stesse chiedendo il permesso di arrivare a una
fine. Soltanto una cosa nella sua esperienza assomiglia a quello che ha
davanti: le zone di giungla che lui, Dow e Monsanto hanno contribuito a
sgombrare. Ma quel disboscamento è molto più efficiente.
Si imbatte di nuovo nella tenda coprente di alberi, attraversa la strada, e
sbircia dal bosco dall’altra parte. Nuovo paesaggio lunare si distende sul
fianco della montagna. Avvia il camioncino e riparte. Il percorso sembra
attraversare nient’altro che foresta, chilometro dopo chilometro verde
smeraldo. Ora però Douggie capisce l’illusione. Sta percorrendo l’arteria più
sottile della vita immaginaria, un velatino che nasconde il cratere causato da
un’esplosione grande quanto uno stato sovrano. La foresta non è altro che un
arredo scenico, un pezzo di fine bravura. Gli alberi sono come poche decine
di comparse assunte per riempire un primissimo piano e far finta che sia New
York.
Si ferma a una stazione di rifornimento per fare benzina. Chiede al
cassiere: “Hanno disboscato, nella valle?”
Il tizio prende i dollari d’argento di Douggie. “Merda, proprio così.”
“E l’hanno imboscato dietro alla tendina di una cabina elettorale?”
“Le chiamano strisce meravigliose. Corridoi panoramici.”
“Ma... non è tutta foresta nazionale?”
Il cassiere si limita a fissarlo, come se la pura e semplice stupidità della
domanda nascondesse forse un qualche trucco.
“Pensavo che la foresta nazionale fosse terra protetta.”
Il cassiere fa una pernacchia lunga quanto un treno. “Forse pensava ai
parchi nazionali. Lo scopo degli alberi della foresta nazionale è quello di
venire abbattuti, a basso costo. E venduti a chiunque li voglia comprare.”
Be’ – un’esperienza educativa allo stato puro. Douglas prende l’abitudine
di imparare qualcosa di nuovo tutti i giorni. Questa piccola informazione lo
accompagnerà per alcuni giorni. Comincia a sentirsi ribollire di rabbia, da
qualche parte prima di Bend. Non sono solamente le centinaia di migliaia di
acri spariti davanti ai suoi occhi dal mattino al pomeriggio. Passi anche il
fatto che l’Orso Smokey e il Ranger Rick stiano mettendo da parte pensioni
pagate da Weyerhaeuser. Però il semplice, deliberato trucco antipaticamente
efficace della parete di alberi sul ciglio dell’autostrada gli fa venir voglia di
rifilare un ceffone a qualcuno. Ogni chilometro di quella fila di tronchi è un
inganno, proprio come avevano programmato. Sembra tutto così reale, così
vergine, così incorrotto. Gli sembra di essere sulla Cedar Mountain, quella
dell’epopea di Gilgamesh, che l’anno prima ha trovato nella biblioteca del
ranch e ha letto ai cavalli. La foresta dal primo giorno della creazione. Però si
scopre che Gilgamesh e il suo amico punk Enkidu sono già arrivati e hanno
sfoltito gli alberi del posto. La storia più antica del mondo. Potresti
attraversare lo stato e non accorgertene mai. Ecco dove sta la violenza di
quella cosa.
A Eugene, Douglas trasforma un’ingombrane torretta di dollari d’argento
in un giro su un piccolo aereo a elica. “Mi faccia volteggiare più a lungo
possibile per questi soldi. Voglio vedere che aspetto ha questo paesaggio
quaggiù da lassù.”
Assomiglia al fianco rasato di una bestia malata pronta per la sala
operatoria. Ovunque, in ogni direzione. Se l’immagine del panorama fosse
trasmessa in televisione, il disboscamento verrebbe interrotto il giorno
successivo. Tornato sulla superficie dissimulatrice del pianeta, Douglas passa
tre giorni sul divano dell’amico, in silenzio. Non ha capitale. Né arguzia
politica. Né potere di persuasione. Né acume economico o mezzi sociali.
Tutto quello che ha è l’immagine di un disboscamento davanti a sé, visibile
sia a occhi chiusi che aperti, che lo tormenta fino all’orizzonte.
Fa qualche indagine. E poi offre la forza della sua gamba e mezza buona a
un imprenditore per piantare di nuovo le pianticelle nelle terre spoglie. Lo
dotano di un badile e di una borsa Johnny Appleseed piena di piante per
ognuna delle quali deve pagare qualche penny. E per ogni albero piantato che
sarà ancora vivo nel giro di un mese gli promettono di pagarlo venti
centesimi.
L’abete di Douglas: l’albero da legname più pregiato d’America, così,
certo – perché non mettere in piedi un’azienda di arboricoltura con nient’altro
che quello? Cinque nuove case per acro. Tanto per cominciare, lui sa che sta
piantando alberi per gli intermediari di quegli stessi bastardi che hanno
abbattuto gli dèi primordiali. Tuttavia non è tenuto a sgominare l’industria del
legname o a vendicarsi della natura. Ha solo bisogno di guadagnarsi da vivere
e cancellare l’immagine di quegli sradicamenti, immagine che si insinua
come uno scarafaggio nell’alburno.
Trascorre le giornate attraversando le silenziose zone desolate in pendenza
ricoperte di fanghiglia. Si trascina carponi lungo le schifezze disseminate,
perdendo l’equilibrio in mezzo alla melma impenetrabile, trascinandosi in
avanti con le zampe sul caos di radici, bastoncini, fronde, rami, monconi e
tronchi, fibrosi e tagliuzzati, lasciati a marcire in un cimitero intricato.
Conosce a fondo l’arte di un centinaio di modi diversi di cadere. Si piega,
scava un piccolo cuneo nel terreno, ci ficca una pianticella, e richiude il buco
dando un colpetto affettuoso con la punta dei suoi scarponi. E poi lo fa
ancora. E ancora. Seguendo schemi a raggiera e reticoli sparsi. Su pendii e
burroni spelacchiati. Dodici volte all’ora. Centinaia di volte al giorno.
Migliaia e migliaia ogni settimana, finché il suo palpitante corpo di trentasei
anni non si gonfia come se fosse pieno di veleno di vipera. Certi giorni, si
taglierebbe la gamba zoppa con una lima, se ne avesse una sottomano.
Alloggia in accampamenti per coltivatori popolati da hippy e irregolari,
gente tosta e simpatica che alla fine della giornata è troppo stanca per
prendersi la briga di parlare. Di notte, quando è coricato a letto, rattrappito
dal dolore, gli viene in mente un detto – le parole che una volta aveva letto
agli animali affidati alle sue cure nella precedente vita di aiutante al
maneggio. Se avete in mano una pianticella quando arriva il Messia, prima
piantate l’arboscello e poi uscite a salutare il Messia. Né lui né i cavalli
l’hanno tenuto in gran conto. Fino a quel momento.
Si sente travolgere dall’odore dei tronchi tagliati. Il cassetto umido delle
spezie. La lana fredda e madida. I chiodi arrugginiti. Peperoni sottaceto.
Effluvi che lo riportano all’infanzia. Aromi che gli trasfondono
un’inspiegabile felicità. Odori che lo fanno precipitare nel pozzo più
profondo e lo tengono laggiù per ore. E poi sente il rumore, come se avesse le
orecchie coperte dal cuscino. Il ringhio delle seghe e delle mietitrici delle
foreste, da qualche parte in lontananza. Viene sopraffatto da una grande
verità: gli alberi cadono con spettacolare fragore. Ma la piantumazione è
silenziosa e la crescita invisibile.
Certi giorni, l’alba sorge velata da nebbie arturiane. Ci sono mattine in cui
il freddo minaccia di ucciderlo, mezzogiorni in cui il caldo lo stende.
Pomeriggi talmente prodighi di azzurro che lui si corica sulla schiena e fissa
in alto finché non gli lacrimano gli occhi. E poi arrivano le piogge beffarde e
inesorabili. Pioggia del peso e del colore del piombo. Pioggia timida,
terrorizzata al suo debutto. Pioggia che gli copre i piedi di muschio e licheni.
Là, un tempo, c’erano enormi matasse di legno intrecciato. Torneranno di
nuovo.
A volte, lavora a fianco di altri piantatori, alcuni dei quali non parlano
nessuna lingua che lui sia in grado di riconoscere. Incontra escursionisti che
vogliono sapere dove sono finite le foreste della loro gioventù. I pineros
stagionali vanno e vengono, e gli ossi duri, come lui, non mollano.
Fondamentalmente, non c’è che lui e il brutale ritmo di lavoro, sterile ed
estremamente semplificato. Scavare il cuneo, accovacciarsi, introdurre,
alzarsi in piedi e chiudere con la punta dello stivale.
Hanno un’aria talmente compassionevole, i minuscoli abeti di Douglas.
Sembrano scovolini. Supporti per un trenino giocattolo. In lontananza,
disseminati su quei campi fatti dall’uomo, sono i capelli a spazzola di una
persona sulla via della calvizie. Ma ogni stelo ricoperto d’erbacce che infila
nel terriccio è un trucco magico che richiede un’eternità. Li stende a migliaia,
e li ama e si fida di loro come amerebbe molto fidarsi del suo prossimo.
Lasciato da solo – e qui c’è il tranello – lasciato da solo, esposto all’aria,
alla luce e alla pioggia, ognuno potrebbe guadagnare decine di migliaia di
grammi. Una qualunque delle sue pianticelle potrebbe crescere per i
successivi seicento anni e far sembrare piccola la più grande ciminiera.
Potrebbe ospitare generazioni di arvicole che non scendono mai per terra e
diverse dozzine di specie di insetti il cui unico desiderio è quello di spolpare
il loro ospite. Potrebbe far cadere dieci milioni di aghi all’anno sui suoi rami
più bassi, formando tappetini di terreno che fanno crescere i loro stessi
giardini nell’aria in alto.
Ognuna di quelle allampanate pianticelle potrebbe produrre milioni di
pigne nel corso della sua vita, quelle maschili piccole e gialle con il polline
che fluttua lungo interi stati, e quelle femminili ricurve con le loro code di
topo che sporgono dalla spira di lamelle, un’immagine che gli è più cara della
sua stessa vita. E riesce quasi a sentire l’odore della foresta a cui potrebbero
nuovamente dar vita – resinosa, fresca, ricca di desiderio, linfa di un frutto
che non è un frutto, il profumo di Natali infinitamente più antichi di Cristo.
Douglas Pavlicek lavora un’area disboscata più grande del centro di
Eugene, dicendo addio alle sue piante mentre le infila dentro a una a una.
Aspettate un attimo. Soltanto dieci o venti decadi. Un gioco da ragazzi, per
voi, gente. Dovete solamente sopravvivere a noi. Così non rimarrà più
nessuno che potrà maltrattarvi.
Neelay Mehta
Per mesi lavora a un’epopea spaziale in forma di gioco di ruolo che, come
è prevedibile, sarà in assoluto il suo più grande regalo. La grafica è costituita
da sprite in alta definizione a sedici bit, si anima in sessantaquattro magnifici
colori. Lui si avventura fuori alla ricerca di bestiari surreali con cui popolare i
suoi pianeti. Una sera di primavera, sul tardi, si ritrova nella biblioteca
principale di Stanford, a leggere attentamente le copertine di riviste scadenti
del periodo d’oro della fantascienza e a sfogliare le pagine del Dr. Seuss. Le
immagini somigliano all’assurda vegetazione di quei fumetti economici di
Visnu e Krishna della sua infanzia.
Sentendo il bisogno di una pausa, attraversa il campus in sedia a rotelle
lungo il Serra Mall per andare a vedere cosa bolle in pentola nei laboratori. È
quasi l’ora del crepuscolo, in quella dolce perfezione che profuma quel posto
per nove mesi all’anno. Si dirige verso il suo cubicolo nel laboratorio
collegato in rete, procedendo come in un’avventura in prima persona.
L’imponente arcata di palme si allontana a zig-zag alla sua destra. Alla sua
sinistra, le Santa Cruz Mountains fanno capolino da dietro i chiostri in finto
stile romanico spagnolo. Una volta, in un’altra vita, ha percorso i sentieri fin
su verso lo Skyline sotto le sequoie, in compagnia di suo padre e di sua
madre. Dietro le montagne, a un’ora di distanza a bordo di un furgone adibito
al trasporto di persone disabili, c’è il mare. Le spiagge e le baie non gli sono
vietate. L’ultima volta che era andato risale a soli tre mesi prima. Molti amici
avevano dovuto portarlo vicino alla riva e sistemarlo sulla sabbia. Neelay si
era messo a sedere a fissare le onde e a guardare gli uccelli di ripa tuffarsi
nell’acqua e ad ascoltare i loro gemiti spettrali. Ore dopo, quando i suoi amici
avevano finito di nuotare e di lanciare i Frisbee e di inseguirsi lungo la
spiaggia, lui era l’unico a non averne avuto ancora abbastanza.
Svolta sulla rampa che dà accesso al Memorial Court nella principale
corte quadrangolare interna, oltre I Borghesi di Calais a grandezza naturale di
Rodin. La notte sarà lunga, e lui ha bisogno di far provvista di snack in grado
di fornirgli un supporto energetico. A bordo della sedia si dirige dritto dentro
la corte interna, verso l’uscita posteriore in direzione della Union e dei
distributori automatici migliori. Perso nei suoi progetti intergalattici, per poco
non falcia un capannello di turisti giapponesi intenti a fotografare la cappella.
Mentre indietreggia e si scusa, schiaccia con le ruote le dita del piede di una
donna attempata al suo primo viaggio all’estero. Lei fa un inchino,
mortificata. Neelay si divincola, si lancia con la sedia tutto a sinistra, e alza lo
sguardo. Là, in una fioriera delle dimensioni di un’auto, proprio a lato
dell’entrata della cappella, bulboso ed elefantesco, c’è l’organismo più
strabiliante che abbia mai visto. È la cosa che stava cercando, per la sua
epopea intergalattica. Un’allucinazione vivente di un vicino sistema stellare
dall’altro capo di un wormhole nello spazio. I custodi devono averlo portato
di nascosto la notte prima col favore delle tenebre. O è così, oppure ogni sera
per mesi lui gli è passato accanto con la sedia a rotelle senza mai notarlo
neppure una volta.
Si avvicina all’albero e scoppia a ridere. Il tronco gli ricorda una
gigantesca siringa capovolta per ungere la carne. I rami si distorcono e si
assottigliano ad angolazioni pazzesche. Allunga la mano per toccare la
corteccia. È perfetta. Assurda. Ha in mente qualcosa. Su una minuscola
targhetta si legge: BRACHYCHITON RUPESTRIS. L’ALBERO DELLA BOTTIGLIA
DEL QUEENSLAND. Il nome non giustifica nulla e spiega ancora meno. È un
invasore alieno, sicuro quanto Neelay.
Non sa decidersi su cosa sia più incredibile: l’albero o il fatto che non se
ne sia mai accorto. Con la coda dell’occhio vede agitarsi delle sagome. Sta
succedendo qualcosa alle sue spalle. Ha la netta sensazione di essere
osservato. Un coro silenzioso nella sua testa intona: Girati e guarda. Voltati e
vedi! Ruota la sedia nella posizione giusta. Niente sembra al proprio posto.
Tutta la corte del chiostro è cambiata. Un salto nell’iperspazio, ed è atterrato
in un arboreto intergalattico. Su tutti i lati, furiose speculazioni verdi lo
salutano con la mano. Creature realizzate per climi sopramondani. Pazzoidi di
ogni costume e forma. Cose di epoche così antiche da far sembrare i
dinosauri dei parvenu. Tutti quegli esseri senzienti e gesticolanti lo urtano
sulla sedia. Non ha mai fatto uso di droghe, ma dev’essere quello l’effetto che
danno. Piume color crema e gialle; una cascata viola che evapora prima di
toccare il suolo. Alberi come esperimenti strampalati fanno dei cenni da otto
grandi fioriere, ognuna una navicella spaziale in miniatura diretta verso
qualche altro sistema.
Neelay avanza lungo il cortile sulla sedia a rotelle con aria solenne. Il suo
corpo paraplegico si irrigidisce mentre la congrega risplende nel cerchio in
piedi, osservandolo mentre compie il percorso. Oltrepassa un altro mostro
seussiano alieno quanto il primo. Legge l’etichetta: un albero di filo di seta,
dalle foreste brasiliane che persino in quel momento si stanno riducendo di
centinaia di migliaia di acri al giorno. Pigne bitorzolute dalla punta acuminata
ricoprono il tronco, spine che si sono evolute per tenere lontano bestie da
pascolo estinte decine di milioni di anni prima.
Avanza di fioriera in fioriera, toccando gli esseri, annusandoli, ascoltando
i loro fruscii. Sono arrivati da torride isole e aridi territori appartati, dalle valli
remote dell’Asia centrale in cui è stata aperta una breccia soltanto di recente.
L’albero dei fazzoletti, la jacaranda, il cucchiaio del deserto, il canforo,
l’albero fiamma, la paulonia, l’albero della bottiglia, il gelso rosso: piante
irreali, in attesa di tendergli un agguato proprio lì in quel cortile mentre lui le
stava cercando su pianeti distanti. Tocca le loro cortecce e, appena sotto la
loro scorza, sente masse brulicanti di cellule, come intere civiltà planetarie,
pulsare e ronzare.
I turisti giapponesi si allontanano, diretti verso il loro autobus sulla
Galvez. Neelay rimane immobile nello spazio ormai svuotato, come un
coniglio che sfugge a un rapace. Resta da solo per non più di qualche
secondo. Ma in quell’intervallo, gli invasori alieni inseriscono un pensiero
direttamente nel suo sistema limbico. Ci sarà un gioco, un miliardo di volte
più vario e ricco di qualunque cosa sia mai stata ideata, che innumerevoli
persone intorno al mondo faranno contemporaneamente. Neelay deve crearlo.
Lo svilupperà a poco a poco lungo fasi progressive nel corso di decenni. Il
gioco metterà i giocatori proprio al centro di un mondo animista in fermento
che vive e respira, e sarà popolato da milioni di specie diverse, un mondo con
un disperato bisogno dell’aiuto dei giocatori. E il suo scopo sarà quello di
capire ciò che il nuovo e disperato mondo vuole da lui.
La visione finisce, depositandolo di nuovo nella corte quadrangolare
interna di Stanford. La visione, religiosa e verde scuro, sfuma di nuovo nella
sua ombra platonica, il legno. Neelay rimane immobile, aggrappandosi a
quello che ha appena visto, la cosa che il suo cervello ha in qualche modo
afferrato, appostandosi fuori alla fine della curva della legge di Moore. Dovrà
ritirarsi da scuola. Ora non ha più tempo per le lezioni. Deve trovare il giusto
ritmo in vista di un obiettivo a lungo termine. Finirà la stravagante epopea
spaziale in forma di gioco di ruolo a cui sta lavorando, poi la metterà in
vendita. Soldi veri, dollari materiali. I suoi fan urleranno. Lo diffameranno
sulla bacheca elettronica del paese come il peggior traditore. Ma a quindici
dollari per trenta parsec, il gioco sarà un affare. I guadagni che ricaverà dalla
sua prima incursione nella vita aliena serviranno a pagare il sequel, un gioco
che, quanto ad ambizione, supererà di gran lunga il primo. E a piccoli passi,
Neelay raggiungerà il luogo che ha appena visto.
Esce dal chiostro proprio nel momento in cui la luce si dilegua dietro le
montagne. Le colline proiettano un’ombra su se stesse, passando dal blu
livido al nero oblioso. In alto, invisibili ai suoi occhi, affioramenti rocciosi
pullulano di manzanita, allungando le loro cortecce cremisi distorte. Gli allori
fiancheggiano i prati creati dai taglialegna. I canyon si infoltiscono di
madrone arancione che si scorteccia assumendo un colore verde cremoso e
attaccaticcio. Esemplari di Quercus agrifolia come quella che lo ha reso
storpio si raccolgono sui dirupi. E giù nei freschi corridoi rivieraschi che
odorano di limo e di aghi marcescenti, le sequoie escogitano un piano che
impiegherà un migliaio di anni per realizzarsi – il piano che adesso si serve di
lui, sebbene pensi sia suo.
A quelle parole, viene riportata dove le ghiande sono a un passo dai volti e
le pigne formano i corpi degli angeli. Legge il libro. Le storie sono strane e
fluide, antiche quanto l’umanità. Per qualche motivo le sono familiari, come
se le conoscesse già al momento della nascita. Le fiabe sembrano riguardare
meno la trasformazione delle persone in altri esseri viventi che il
riassorbimento, da parte di altre creature viventi, nel momento di maggior
pericolo, dell’aspetto selvaggio delle persone che non è mai davvero
scomparso. Il corpo di Patricia è già a buon punto della sua tormentata
metamorfosi in qualcosa che lei rifiuta categoricamente. La recente
dilatazione del seno e dei fianchi, l’incipiente macchia tra le gambe
trasformano grossomodo anche lei in una bestia più antica.
Preferisce le storie in cui le persone diventano degli alberi. Dafne,
trasformata in un alloro appena prima che Apollo riesca a prenderla e a
ferirla. Le assassine di Orfeo, bloccate dalla terra, che guardano i loro piedi
trasformarsi in radici e le loro gambe in tronchi di legno. Legge del giovinetto
Ciparisso, che Apollo trasforma in un cipresso in modo che possa piangere
per sempre il suo cerbiatto ucciso. La bambina diventa rossa come una
barbabietola, una ciliegia, una mela, leggendo la storia di Mirra, trasformata
in un mirto dopo essersi infilata furtivamente nel letto di suo padre. E piange
per quella solida coppia, Filemone e Bauci, che hanno trascorso il secolo
insieme nelle sembianze di una quercia e di un tiglio, la loro ricompensa per
aver accolto degli sconosciuti che poi si sono rivelati degli dèi.
Arriva il suo quindicesimo autunno. Le giornate si accorciano. L’oscurità
cala presto, segnalando agli alberi di abbandonare il loro progetto di
produzione di zucchero, disfarsi di tutte le loro parti vulnerabili, e irrobustirsi.
Cade la linfa. Le cellule diventano permeabili. I tronchi lasciano fluire fuori
l’acqua, irrobustendosi per resistere al gelo. La vita dormiente appena sotto la
corteccia è percorsa da un’acqua talmente pura che non è rimasto più niente
in grado di aiutarla a solidificarsi.
Suo padre le spiega come funziona il trucco. “Riflettici! Hanno capito
come vivere bloccati lì senza nessun’altra protezione, battuti dai venti a trenta
gradi sotto zero.”
Più tardi, quell’inverno, mentre Bill Westerford sta rientrando da un
viaggio per ricerche sul campo, la sua Packard finisce su un blocco di
ghiaccio. L’uomo viene scaraventato fuori dall’auto mentre la vettura si
capovolge finendo in un fosso. Il suo corpo vola per più di sette metri prima
di schiantarsi contro un arancio degli Osagi che gli agricoltori avevano
piantato per farne una siepe un secolo e mezzo prima.
Al funerale, Patty legge alcuni versi di Ovidio. La promozione di
Filemone e Bauci ad alberi. I suoi fratelli credono abbia perso la testa per il
dolore.
Non permetterà alla madre di buttar via niente. Tiene il bastone da
passeggio e il cappello a cupola schiacciata del padre, in una specie di
reliquiario. Conserva la sua preziosa biblioteca – Aldo Leopold, John Muir, i
testi di botanica, gli opuscoli sulla divulgazione e ricerca agraria. Trova la sua
copia per adulti di Ovidio, segnata ovunque, allo stesso modo in cui la gente
segna i faggi. La sottolineatura comincia, tripla, sul primissimo verso: Mi
spinge l’estro a narrare il mutar delle forme in corpi nuovi.
Dove il cervo salta, dove la trota sale, dove il tuo cavallo smette di sprecare un
sorso di acqua ghiacciata mentre il sole è caldo sulla tua nuca, dove ogni respiro
che tiri è rinvigorente – quello è il luogo in cui crescono i pioppi tremuli...
Patricia si trova in mezzo alla radura in cima alla collina, rivolta verso un
canalone poco profondo. Pioppi tremuli ovunque, e il fatto che nessuno di
essi sia cresciuto da un seme la lascia allibita. In tutta quella parte dell’ovest,
pochi pioppi tremuli hanno fatto altrettanto in diecimila anni. Tempo
addietro, ci sono stati dei cambiamenti climatici, e oggi i semi di pioppo
tremulo non riescono più ad attecchire e a svilupparsi. Però si propagano
tramite le radici; si diffondono. Nel nord ci sono colonie di pioppi dove
c’erano lastre di ghiaccio, più vecchie delle stesse lastre. Gli alberi immobili
stanno emigrando – boschetti immortali di pioppi che si ritirano davanti agli
ultimi ghiacciai spessi tre chilometri, per poi seguirli nuovamente verso nord.
La vita non obbedirà alla ragione. E il significato è una cosa troppo giovane
perché riesca a esercitare molto potere su di essa. Tutto il dramma del mondo
si sta raccogliendo sotto terra – cori sinfonici che Patricia ha intenzione di
ascoltare prima di morire.
Si rivolge verso il piccolo burrone per cercare di capire in quale direzione
il suo esemplare maschio, quel clone gigantesco di pioppo tremulo, potrebbe
essere diretto. Sta vagando per le colline e i canaloni da dieci millenni alla
ricerca di un gigante tremolante femmina da fertilizzare. C’è qualcosa sulla
collinetta successiva che le procura un colpo al petto. Scavato nel cuore del
clone in espansione, un complesso residenziale è accovacciato tra un nastro
di strade nuove. Alcuni condomini, un po’ più vecchi, sono stati edificati
tagliando diversi acri del sistema di radici di una delle creature più sontuose
sulla terra. Dr. Westerford chiude gli occhi. Ha visto l’avvizzimento apicale
da una parte all’altra dell’ovest. I pioppi tremuli stanno appassendo. Brucati
da qualunque animale con gli zoccoli, isolati dagli incendi con il loro effetto
rinvigorente, interi boschetti stanno scomparendo. Ora vede una foresta, che
si era espansa lungo quelle montagne da prima che gli esseri umani
abbandonassero l’Africa, rimpiazzata dalle seconde case. La vede in una
grande, scintillante apparizione dorata: alberi ed esseri umani, in guerra per la
terra, l’acqua e l’atmosfera. E sente, più forte del tremolio delle foglie, quale
parte perderà vincendo.
Nei primi anni ottanta, Patricia si dirige a nordovest. Crescono ancora dei
giganti negli Stati Uniti continentali, macchie di vecchia vegetazione
disseminate dalla California del Nord fin su verso Washington. Lei intende
vedere che aspetto hanno le foreste non tagliate, finché è ancora possibile
vederne qualcuna. La Catena delle Cascate in un umido settembre: non c’è
nulla nel suo bagaglio di esperienze che possa riuscire a prepararla. Da metà
distanza, senza alcuna idea delle dimensioni, gli alberi non sembrano più
grossi delle varietà più grandi di sicomori e alberi dei tulipani delle zone
orientali. Ma nell’avvicinarsi, l’illusione svanisce, e lei si perde nel contrario
della ragione. Tutto quello che può fare è guardare e ridere e guardare ancora
un po’.
L’abete canadese, l’abete bianco americano, il cedro giallo, l’abete di
Douglas: conifere gigantesche con radici in superficie a sostegno del tronco
scompaiono nella foschia sopra di lei. Pecci di Sitka si gonfiano in
escrescenze nodose grandi quanto furgoncini – libbra per libbra, un legno più
forte dell’acciaio. Un solo tronco potrebbe riempire un grosso camion per il
trasporto di fusti. Lì, persino quelli più piccoli sono abbastanza grandi da
dominare una foresta orientale, e ogni acro ha almeno cinque volte la quantità
di legno. Sotto quei giganti, giù nel sottobosco, il suo corpo sembra
bizzarramente piccolo, come una di quelle persone che da piccola costruiva
con le ghiande. Il buco di un nocchio in una di queste colonne di aria
solidificata potrebbe essere la sua casa.
Schiocchi e cicalecci disturbano il silenzio della cattedrale. L’aria ha una
tonalità talmente verde crepuscolare che la donna ha la sensazione di essere
sott’acqua. Piovono particelle – nuvole di spore, ragnatele spezzate e forfora
di mammiferi, acari scheletriti, frammenti di escrementi di insetto e di piume
d’uccello... Tutto si arrampica su qualcos’altro, lottando per scampoli di luce.
Se rimane ferma troppo a lungo, le piante rampicanti la infesteranno.
Cammina in silenzio, calpestando a ogni passo diecimila invertebrati, in cerca
di orme in un luogo in cui almeno una delle lingue native usa la stessa parola
per impronta e comprensione. I cedimenti del terreno sotto i piedi sono come
un materasso bucherellato da colpi di pistola.
Un tratto di crinale brullo la conduce in un bacino. Patricia fa oscillare il
suo bastoncino forcuto davanti a sé, e la temperatura precipita mentre passa
attraverso una cortina termale. La canopia è un colino che punteggia le
superfici brulicanti di scarafaggi di macchioline di sole. Per ogni grosso
tronco, qualche centinaio di pianticelle si raccoglie sul suolo forestale. Felce
di spada, epatiche, licheni, e foglie piccole quanto granelli di sabbia
macchiano ogni centimetro dei tronchi freddi e umidi. Anche i muschi sono
folti come foreste in miniatura.
Patricia preme sulle fessure della corteccia, e le sue dita affondano fino
alle nocche. Avventurandosi nella boscaglia, riesce a comprendere le
proporzioni dell’incredibile marciume. Tronchi fatiscenti brulicanti di
creature, in decomposizione da secoli. Ceppi gotici attorcigliati, argentati
come ghiaccioli capovolti. Non ha mai inalato una putrefazione così feconda.
La pura e semplice massa di vita che muore ciclicamente stipata in un unico
piede cubo, mescolata a filamenti fungini e a ragnatele tradite dalla rugiada,
le procura un forte stordimento. I funghi si arrampicano sui fianchi dei
tronchi in sporgenze a terrazza. Il salmone morto nutre gli alberi. Impregnata
di nebbia per tutto l’inverno, una cosa spugnosa verde di cui non conosce il
nome ricopre ogni colonna di legno di un folto tappeto che supera la sua
testa.
La morte è ovunque, opprimente e bella. Patricia vede l’origine di quella
dottrina forestale a cui si era così opposta all’università. Guardando quella
gloriosa decadenza, una persona potrebbe venir perdonata per aver pensato
che vecchio significasse decadente, che questi spessi tappeti di
decomposizione fossero cimiteri di cellulosa bisognosi dell’ascia
rinvigorente. Capisce perché i membri della sua specie avranno sempre paura
di quei boschetti fitti e compatti, dove la bellezza degli alberi solitari viene
rimpiazzata da un ammasso spaventoso e frenetico. Quando la favola diventa
lugubre, quando il film trucido affronta l’orrore primigenio, è lì dove i
bambini condannati e gli adolescenti sbandati devono vagare. Ci sono cose là
dentro peggiori dei lupi e delle streghe, paure primordiali che nessuna
volontà civilizzatrice, per quanto potente, riuscirà mai a domare.
La prodigiosa foresta la esorta ad andare avanti, oltre il tronco di un
immenso cedro della Virginia. Con la mano carezza le strisce fibrose che si
staccano da un tronco scanalato la cui circonferenza può competere con
l’altezza di un corniolo canadese. Puzza di incenso. La cima è stata tranciata,
sostituita da un candelabro di rami promossi a controfigure di tronchi. Una
grotta si apre al piano terra nel durame putrefatto. Intere famiglie di
mammiferi potrebbero vivere lì dentro. Ma i rami, dopo un migliaio di anni,
incurvandosi con ramoscelli incrostati di una dozzina di piani sopra di lei,
sono ancora pieni zeppi di pigne. Si rivolge al cedro, usando parole dei primi
esseri umani della foresta. “Creatore di lunga vita. Sono qua. Quaggiù.” Sulle
prime, si sente sciocca. Ma ogni parola è un po’ più facile della successive.
“Grazie per i cesti e le cassette. Grazie per le mantelle e i cappelli e le
gonne. Grazie per le culle. I letti. I pannolini. Canoe. Pagaie, arpioni, e reti.
Aste, ceppi, pali. Le assicelle e le scandole a prova di marciume. La legna che
si accenderà sempre.”
Ogni nuovo articolo è liberazione e sollievo. Non trovando alcuna buona
ragione per andarsene, lascia che la gratitudine abbia libero sfogo. “Grazie
per gli attrezzi. Le cassapanche. I rivestimenti delle navi. Gli armadi a muro.
Il rivestimento a pannelli. Dimentico... Grazie,” dice, seguendo l’antica
formula. “Per tutti quei doni che ci hai dato.” E non sapendo ancora come
fermarsi, aggiunge, “Ci dispiace. Non sapevamo quanto fosse dura per te
ricrescere”.
Lavora felicemente per undici mesi. Le piante e gli animali selvatici non
la minacciano mai una volta, mentre i campeggiatori squilibrati soltanto in un
paio di occasioni. Sotto la pioggia incessante, tutto si ammuffisce. Alberi
enormi assorbono l’acquazzone e lo riversano nuovamente nell’aria in forma
di vapore. Le spore si diffondono su ogni superficie umida. Entrambe le sue
gambe mostrano il piede d’atleta fino alle ginocchia. A volte, quando si
corica e chiude gli occhi, ha la sensazione che, quando li riaprirà, il muschio
ricoprirà le sue palpebre. Per giorni si arrabatta per ricavare uno spazio
sgombro, tagliando la boscaglia di qualche metro quadrato. Entro la fine
dell’anno, il piccolo buco nel sottobosco si ricopre di arbusti e arboscelli.
Adora la sensazione che ogni tentativo dell’uomo di avanzare
nell’inarrestabile invasione verde verrà neutralizzato.
***
Di sopra la aspettano gli abbracci: due abituali, uno derisorio, uno freddo,
e uno pieno di dolcezza concupiscente da cane bastonato che dura da un anno
e mezzo. Detesta quell’abbracciarsi infinito e squallido dei suoi coinquilini,
ma ricambia i loro gesti in modo analogo. Il gruppo è confluito in quella casa
la primavera precedente in un’orgia di reciproco entusiasmo. Entro la fine di
settembre, la convivenza idilliaca scivola in una recriminazione quotidiana.
Di chi sono questi peli nel mio rasoio? Qualcuno ha rubato il tocco di
hashish nel congelatore. Chi diavolo ha infilato il rotolo di tacchino
nell’impianto di smaltimento dei rifiuti? Ma una ragazza può fare qualsiasi
cosa, con il traguardo in vista.
La cucina emana un profumo delizioso, ma nessuno la invita a sedersi a
tavola. Ispeziona il frigorifero. Le prospettive sono spaventose. Non mangia
da dieci ore, ma decide di resistere ancora un po’. Se riesce ad aspettare fin
dopo il suo festino privato, mangiare sarà poi come danzare con i semidei.
“Ho divorziato oggi,” annuncia lei.
Urrà e applausi sparsi. “Ti ci è voluto un bel po’,” dice la meno amata
delle sue ex anime gemelle.
“Vero. C’è voluto più tempo a divorziare di quanto sia stata sposata.”
“Non cambiare il nome con il vecchio. Quello di adesso è molto meglio.”
“A ogni modo, che idea è quella di sposarsi?”
“Non ha un bell’aspetto quella caviglia. Dovresti almeno rimuovere il
grasso.” Un altro giro di risatine soffocate.
“Vi adoro anch’io, ragazzi.” Olivia ruba una bottiglia di birra scura color
noce di qualcuno – l’unica cosa in frigo non andata a male – e la porta nella
sua camera in mansarda rimessa a nuovo. Lì, a letto, si scola il contenuto
della bottiglia senza nemmeno alzare la testa. Un talento acquisito. Il grasso e
il sangue che colano dalla caviglia imbrattano il copriletto.
Lei e Davy si sono incontrati un’ultima volta quel pomeriggio, tra Analisi
economica e Analisi lineare. Adesso è tutto finito, e la sentenza finale non ha
il potere di rattristarla ulteriormente. Qualche rimpianto ce l’ha eccome.
Legare la sua vita a quella di un’altra persona – un capriccio di una primavera
del secondo anno di università – sembrava un’esperienza così inclusiva,
radicale e innocente. Per due anni i suoi genitori hanno inveito contro
un’idiozia del genere. I suoi amici non hanno mai capito. Ma lei e Davy
erano determinati a dimostrare che tutti avevano torto marcio.
A modo loro, si amavano, anche se quel modo consisteva perlopiù nello
sballarsi, leggere Rūmī ad alta voce, e poi scopare fino allo stremo. Il
matrimonio però li ha fatti diventare entrambi violenti. Dopo la terza volta
del numero del lupo mannaro nella casa degli specchi, conclusosi con la
frattura del suo quinto osso metacarpale, qualcuno doveva smaltire la sbornia
e darci un taglio. Non avevano quasi nessuna proprietà, e nessun bambino, se
si escludono loro due. Avrebbero dovuto impiegare un giorno e mezzo a
divorziare. Il fatto che ci abbiano messo più di dieci mesi è dipeso
principalmente dalla brama nostalgica da parte di entrambi i litiganti.
Olivia appoggia la bottiglia vuota sul termosifone accanto agli altri
soldatini già fatti fuori e pesca nell’accozzaglia di ciarpame di fianco al letto
finché non trova il lettore CD. Il divorzio esige una funzione religiosa in
memoria di ciò che è andato perduto. Il matrimonio è stata la sua avventura, e
va commemorato. Davy si è tenuto Rūmī, ma lei ha ancora un sacco di dischi
della loro trance music preferita e abbastanza roba da poter trasformare i
dispiaceri in risate, almeno per quella giornata. C’è l’esame finale in Analisi
lineare di cui preoccuparsi, naturalmente. Ma mancano ancora tre giorni, e lo
studio le viene sempre meglio quando è un po’ più rilassata.
Sarebbe dovuto venirle in mente due anni prima, persino nell’entusiasmo
iniziale, il fatto che qualsiasi relazione in cui lei mentiva tre volte nelle prime
due ore non sarebbe potuta diventare qualcosa su cui investire a lungo
termine. Loro due passeggiavano sotto i fiori di ciliegio nell’arboreto del
campus. Lei professava un amore profondo per tutte le cose fiorite, cosa che
aveva una parvenza di verità, almeno allora. Gli raccontava che suo padre era
un avvocato esperto nei diritti umani, anche questo non del tutto falso, e che
sua madre era una scrittrice, il che era più o meno una cazzata, per quanto
poggiasse su uno scenario verosimile. Non si vergogna dei suoi genitori. In
realtà, una volta alle elementari era stata sospesa per aver rifilato un pugno a
una smorfiosetta che aveva detto che suo padre era “senza palle”. Ma nel
mondo delle storie appaganti – il suo ambito preferito – entrambi i genitori di
Olivia sono molto meno interessanti di quanto avrebbero dovuto essere. Così
lei li abbelliva un po’, per l’uomo con cui aveva già deciso che avrebbe
passato il resto della sua vita.
Anche Davy mentiva. Affermava di non doversi laureare, di aver
sostenuto l’esame per entrare nella Pubblica Amministrazione in modo così
brillante che il Dipartimento di Stato gli aveva offerto un lavoro. La panzana
era abbastanza assurda da risultare piuttosto bella. Lei era fissata con i
sognatori. In seguito, sotto i fiori di ciliegio innevati, lui le aveva mostrato
fugacemente il piccolo barattolo vittoriano con sopra la pubblicità della cera
per baffi e all’interno le sei pipe sottili e allungate simili a proiettili per
fumare erba. Lei non aveva mai visto niente di simile, tranne nei film di
propaganda contro la droga trasmessi al liceo. E di lì a breve, si era convertita
all’arte di librarsi al di sopra delle faccende terrene. E così era cominciata la
sua storia d’amore ancora in corso con un dono sempre prodigo di piaceri,
una storia d’amore che, diversamente da quella con Davy, sarebbe durata
sicuramente tutta la vita.
Accende la playlist della trance music, si mette comoda nel suo adorato
angolino accanto alla finestra, apre il pannello scorrevole che dà sulla gelida
notte, e soffia sbuffi di fumo sulla trappola mortale della scala antincendio.
Squilla il telefono, ma decide di non rispondere. È uno dei tre uomini cui non
ricorda esattamente cos’abbia detto riguardo ai suoi spostamenti. Il telefono
continua a squillare. La segreteria telefonica non è attiva. Chi userebbe un
dispositivo che ti accolla la responsabilità di richiamare una persona? Conta
gli squilli, una specie di meditazione. Se ne accumulano una dozzina, mentre
soffia due paffute nuvolette di hashish nell’aria polare. L’assurdo
accanimento restringe le possibilità sull’identità di chi sta telefonando, finché
lei non capisce. Può solo trattarsi del suo ex, desideroso di essere messo al
corrente, sperando di festeggiare l’avvenimento con un ultimo incontro
amoroso.
Salta tutti gli esami finali. Telefona ai genitori dicendo che a Natale non
tornerà a casa. Suo padre ne è sconcertato, poi offeso. Solitamente,
ricorrerebbe a urla più forti di quelle del padre. Ma non c’è rabbia che può
ferire una ragazza che è già morta. Gli racconta tutto – il suo festino dopo il
divorzio in assoluta solitudine, la sua folgorazione. Adesso nascondersi è
inutile. Qualcosa la sta osservando – enormi sentinelle viventi sanno chi è lei.
Suo padre sembra confuso, proprio come si sente Olivia quando di notte si
corica a letto, certa di non riuscire mai più a recuperare quello che le è stato
mostrato mentre era morta. Adesso, tornata in vita, avverte la paura del padre
– misteriosi influssi reconditi nell’avvocato di cui la figlia non ha mai
sospettato. Per la prima volta dalla sua infanzia, vuole confortarlo. “Papà, ho
fallito. Ho toccato il fondo. Ho bisogno di riposarmi.”
“Torna a casa. Potrai riposarti qui. Non puoi rimanere da sola durante le
vacanze.”
Sembra così fragile. L’ha sempre considerato molto diverso da lei, un
uomo di procedure laddove dovrebbero esserci le passioni. Adesso si
domanda se forse non sia capitato anche a lui di morire, una volta.
Parlano più a lungo di quanto abbiano mai fatto in anni. Lei gli racconta
come ci si sente a morire. Prova persino a raccontargli delle presenze nella
radura, quelle che le hanno mostrato delle cose, sebbene usi parole che non lo
mandano fuori di testa. Impulsi. Energia. Per due volte, lui è sul punto di
saltare in auto e guidare per mille chilometri per riportarla a casa. Lei lo
dissuade. Settanta secondi di morte l’hanno investita di uno strano potere. È
cambiato tutto tra loro due, come se lui fosse il bambino e lei la sua tutrice.
Gli domanda una cosa che non gli aveva mai chiesto. “Passami un attimo
la mamma. Voglio parlarle.” Persino la rabbia della madre è qualcosa che ora
deve conoscere e calmare. Alla fine della loro conversazione, entrambe le
donne sono in lacrime, promettendosi cose pazzesche.
È l’Indiana, 1990. Qui, cinque anni sono una generazione, cinquanta sono
archeologia, e qualunque cosa di più vecchio svanisce nella leggenda.
Eppure, i luoghi ricordano quello che le persone dimenticano. Il parcheggio
in cui sta dormendo un tempo era un frutteto, gli alberi piantati da un
benevolo, folle seguace di Swedenborg che vagò da queste parti vestito di
stracci e con una pentola come cappello, predicando il Nuovo Paradiso ed
estinguendo fuochi di bivacchi per evitare di uccidere gli insetti. Un santo
pazzoide che praticava l’astinenza mentre riforniva quattro stati di purea di
mele abbastanza fermentabile da mantenere per decenni in stato di
ubriachezza ogni pioniere americano dai nove ai novant’anni.
Per tutto il giorno, Olivia ha seguito il percorso di Johnny Appleseed
nell’entroterra. Una volta, le era capitato di leggere di quell’uomo in un
fumetto che le aveva dato suo padre. Il giornalino aveva fatto di lui un
supereroe, dotato del potere di far spuntare le cose dalla terra. Non diceva
nulla del filantropo con un acuto senso della proprietà, del vagabondo che
sarebbe morto con la bellezza di milleduecento acri della terra più ricca del
paese. Aveva sempre pensato si trattasse solo di un mito. Deve ancora
scoprire che i miti sono verità essenziali intrecciate nella mnemonica,
istruzioni spedite dal passato, ricordi che aspettano di diventare predizioni.
Ecco cosa caratterizza la mela: rimane attaccata alla gola. È un acquisto a
pacchetto: cupidigia e comprensione. Immortalità e morte. Dolce polpa con
semi di cianuro. È una botta in testa che fa nascere intere scienze. Una
deliziosa discordia dorata, il genere di regalo gettato in una festa di
matrimonio che porta a una guerra infinita. È il frutto che tiene in vita gli dèi.
Il primo e peggior crimine, ma una manna propizia caduta dal cielo. Che sia
benedetto il momento in cui venne colta la mela.*
Ed ecco ciò che caratterizza i semi di una mela: sono imprevedibili. Può
nascere qualsiasi cosa. Genitori seri e posati danno vita a un figlio scatenato.
Il dolce può diventare acido, così come l’amaro burroso. L’unico modo per
preservare il sapore di una varietà è fare un innesto in un nuovo rizoma.
Olivia Vandergriff rimarrebbe sorpresa nell’apprendere che ogni mela con un
nome risale allo stesso albero. Jonathan, McIntosh, Empire: colpi fortunati
tirando la leva nel gioco di Montecarlo del Malus.
E una mela con un nome è una mela brevettabile, come il padre direbbe a
Olivia. Una volta, aveva litigato con lui su uno dei suoi casi. Il padre stava
aiutando una ditta transnazionale a perseguire a termini di legge un
agricoltore che aveva conservato una parte di semi di soia dell’anno
precedente e poi ripiantato, senza ripagare i diritti di sfruttamento. Si era
infuriata. “Non si può detenere i diritti su una cosa vivente!”
“Si può. Si dovrebbe. Proteggere una proprietà intellettuale crea
ricchezza.”
“E cosa mi dici del seme di soia? Chi pagherà il seme di soia per la sua
proprietà intellettuale?”
Lui l’aveva guardata con un cipiglio giudicante: Di chi sei figlia, tu?
L’uomo che una volta possedeva il parcheggio in cui sta dormendo – il
missionario errante delle mele con una pentola come cappello – era certo che
l’innesto facesse soffrire l’albero. Prendeva i semi dalla polpa nello
spremifrutta e li seminava per realizzare un frutteto, un po’ più lontano a
ovest. E qualunque seme piantasse, innescava i suoi caparbi e imprevedibili
esperimenti. Come una magia esoterica, quei gesti della mano finirono per
trasformare un’area brulla dopo la falciatura dalla Pennsylvania all’Illinois in
alberi da frutto. Olivia ha guidato tutto il giorno lungo quel territorio. Ora
dorme in un parcheggio che un tempo era un frutteto pieno di mele
inimmaginabili. Gli alberi sono scomparsi e il paese dimentica. Ma non la
terra.
Si sveglia sul presto, intirizzita dal freddo, sotto una pila di vestiti. L’auto
è gremita di esseri luminosi. Sono ovunque, bellezza intollerabile, allo stesso
modo in cui erano la notte che il suo cuore si era fermato. Passano dentro e
attraverso il suo corpo. Non la rimbrottano per il fatto di essersi dimenticata
del messaggio che le hanno trasmesso. Si limitano a permearla di nuovo. Si
sente pervadere dalla gioia per il loro ritorno, e comincia a piangere. Non
pronunciano nessuna parola ad alta voce. Niente di così grezzo. Non sono
nemmeno loro. Sono parte di lei, suoi simili, in un modo che non le è ancora
chiaro. Emissari della creazione – cose che ha visto e conosciuto in questo
mondo, esperienze perse, frammenti di conoscenza ignorata, ramificazioni
familiari recise che lei ha il compito di ripristinare e far rivivere. La morte le
ha dato dei nuovi occhi.
Eri inutile, le bisbigliano. Ma ora non più. La morte ti ha risparmiato per
fare una cosa importantissima.
Quale cosa? vuole chiedere. Ma deve rimanere in silenzio e ferma.
Il momento cruciale è qui. Un test che non è ancora stato fatto.
Lei vive attraverso l’eternità, sotto una pila di vestiti, sul sedile posteriore
di un’auto gelida. Entità incorporee dalla parte opposta della morte si fanno
conoscere, lì, in quel momento, nel parcheggio di quel negozio, chiedendo il
suo aiuto. Il sole risale spuntando dalla terra. Due commercianti escono dal
negozio. È solamente l’alba, e stanno spingendo un carrello con un cartone
grande quanto la sua auto. I suoi pensieri si concentrano su un punto solo.
Ditemi. Ditemi quello che volete, e io lo farò. Passa un portacontainer,
dirigendosi con gran fracasso verso le piattaforme di carico. Nel fragore, le
creature si disperdono. Olivia si lascia prendere dal panico. Non hanno finito
di assegnarle il suo compito. Fruga nella borsa a tracolla in cerca di qualcosa
con cui scrivere. Sul retro di una scatola di caramelle per la tosse
scarabocchia, risparmiato, test. Ma queste parole non significano nulla.
Adesso è davvero mattina. Olivia si sente scoppiare la vescica. Ancora un
minuto e fare la pipì sarà l’unica cosa da cui non potrà prescindere. Smonta
dall’auto ed entra nel negozio attraversando il parcheggio. All’interno, un
uomo più vecchio la saluta come se fosse una vecchia amica. Il negozio è uno
spettacolo drag di benessere e di allegria. Alcuni televisori sono disposti in
fila lungo una parete sul retro, con dimensioni variabili che vanno dal
contenitore per il pane al monolite. Sono tutti sintonizzati sullo stesso
diversivo mattutino. Centinaia di paracadutisti acrobatici si radunano per una
simultanea funzione religiosa a mezz’aria. Si precipita in bagno passando per
la selva di televisori. Il sollievo, una volta a destinazione, è sublime. Poi
subentra di nuovo la tristezza. Soltanto un segno, implora, asciugandosi.
Ditemi solo cosa volete da me.
Di ritorno nella selva di televisori, la funzione religiosa di massa sospesa
per aria viene rimpiazzata da un altro raduno. Lungo il muro, su una serie di
diversi televisori, la gente siede incatenata insieme in una trincea davanti a un
bulldozer, in una cittadina che il titolo identifica come Solace, California. Un
rapido stacco, e una dozzina di persone forma un anello umano attorno a un
albero che riesce a malapena a circondare. L’albero sembra un effetto
speciale. L’inquadratura, persino in lontananza, include soltanto la base.
Della vernice blu macchia l’enorme tronco. Una voce fuori campo narra il
faccia a faccia, ma l’albero, moltiplicato lungo un muro di schermi,
sbalordisce Olivia al punto che non riesce a coglierne i dettagli. La
telecamera si sposta verso una donna di cinquant’anni coi capelli tirati
indietro, una camicia a scacchi e degli occhi simili a due fari. Lei dice,
“Alcuni di questi alberi esistevano prima della nascita di Gesù. Abbiamo già
preso il novantasette per cento dei vecchi. Non potremmo trovare il modo di
conservare l’ultimo tre per cento?”
Olivia rimane paralizzata. Le creature di luce che le hanno teso un agguato
in auto si stringono di nuovo intorno a lei, dicendo, Questo, questo, questo.
Ma nel momento in cui capisce che deve fare più attenzione, lo spezzone
termina e ne comincia un altro. Lei si alza in piedi, con gli occhi fissi su un
dibattito intorno al fatto se i lanciafiamme siano protetti dal Secondo
emendamento. Le creature di luce svaniscono. La rivelazione si abbassa al
livello degli articoli di elettronica di largo consumo.
Intontita, esce dall’enorme negozio all’ingrosso. Sta morendo di fame, ma
non compra nulla. Non riesce nemmeno a immaginare di mangiare. Una volta
in auto, si rende conto che deve continuare ad andare verso ovest. Il sole
sorge alle sue spalle, inondando il suo specchietto retrovisore. La neve dalle
tonalità rosa dell’alba ammanta i campi. Da una parte all’altra del cielo
occidentale, nuvole di peltro cominciano a rischiararsi, e da qualche parte
sotto di esse si nasconde il momento importante.
Deve chiamare i suoi genitori, ma non ha modo di dire loro cosa sta
succedendo. Guida per un’altra ottantina di chilometri, provando a ricostruire
quello che ha appena visto. Pezzetti di terreno coltivato dell’Indiana
risplendono di giallo-marrone-nero, fino all’orizzonte. La strada è libera e le
auto sono poche, senza nessuna città degna di nota. Due giorni prima, lungo
una strada come quella, lei avrebbe fatto gli ottanta. Quel giorno, guida come
se la sua vita potesse valere qualcosa.
Vicino al confine con l’Illinois, raggiunge la cima di una collina. Lungo la
strada, il bagliore del cancello di un passaggio a livello. Un lungo, lento treno
merci dal cuore del paese si dirige a nord verso il grande nodo ferroviario di
Gary e Chicago. Il costante sferragliare delle ruote lungo l’intersezione
innesca un pezzo di musica dub nella sua testa. Il treno è infinito; Olivia si
mette comoda. Poi si accorge del carico. I vagoni passano uno dopo l’altro
scanditi da un rumore secco, ognuno ricolmo di pallet di assi di legno di
dimensione standard. Un fiume di legno tagliato in travi uniformi scorre
all’infinito. Comincia a contare i vagoni, ma si ferma a sessanta. Non ha mai
visto così tanto legno. Una mappa ravviva la sua mente: treni come quello,
proprio in quel preciso momento, percorrono il paese in lungo e in largo,
nutrendo ogni espansione urbana incontrollata. Lei pensa: Hanno organizzato
tutto questo per me. Poi pensa, No: treni di questo tipo passano in
continuazione. Ma è pronta per vedere.
Passa l’ultimo vagone carico di legname, il cancello zebrato si alza, e le
luci rosse smettono di lampeggiare. Lei non si muove. Qualcuno alle sue
spalle suona il clacson. Olivia rimane immobile. Lo strombazzatore preme il
clacson con forza, poi si accosta alla sua auto con una sgommata, urlando
nell’abitacolo chiuso e agitandole davanti il dito medio come se stesse
cercando di accenderlo. Lei chiude gli occhi; dall’altra parte delle sue
palpebre, gente umile siede incatenata insieme attorno a un albero enorme.
I prodotti più spettacolari di quattro miliardi di anni di vita hanno
bisogno d’aiuto.
Ride e apre gli occhi, che si riempiono di lacrime. Confermato. Vi sento.
Sì.
Olivia guarda oltre la sua spalla e vede un’auto girata in senso opposto
rispetto al suo, ferma accanto a lei con il finestrino abbassato. Un uomo
asiatico con una maglietta con la scritta NOLI TIMERE le sta chiedendo, per la
seconda volta, “Tutto bene?” Olivia sorride, annuisce e si scusa con un
cenno. Mette in moto l’auto, che si era arrestata mentre guardava il fiume
incessante di legname. Poi si avvia di nuovo verso ovest. Solo ora sa dov’è
diretta. Solace. L’aria è carica di connessioni. Le presenze si illuminano
intorno a lei, cantando altre canzoni. Il mondo comincia lì. Quello è soltanto
l’inizio. La vita può fare qualunque cosa. Non hai idea.
Prepara il tè sulla stufa nella cucina dove i suoi genitori e sua nonna
sedevano quella mattina del decennio prima quando lui li salutò per andare al
museo d’arte di Omaha. La sua ospite gli racconta la sua storia,
inframmezzata da smorfie e sorrisi. Descrive la notte della sua trasformazione
– l’hashish, il suo corpo nudo e umido, il fatale portalampada. Nick ascolta
seduto, arrossendo e lasciandosi assorbire da ogni sua descrizione.
“Non mi sento pazza. È questa la cosa strana. Ero pazza prima. So cosa
significa la pazzia. Questo invece significa... Non so. Come se alla fine avessi
davanti agli occhi l’ovvio.” Unisce le mani a forma di coppa sulla tazza di tè
bollente.
Il castagno morto la agita in un modo che non riesce del tutto a capire. È
giovane, libera, impulsiva, e investita di una nuova causa. Stando a qualsiasi
parametro affidabile, è più che leggermente sconvolta. Ma l’uomo desidera
che mantenga quello stato d’animo, e che continui a raccontargli teorie
assurde nella cucina per tutta la notte. C’è un ospite in casa. Qualcuno è
tornato dal regno dei morti. “Non sembra pazza,” mente lui. O comunque non
una pazza pericolosa.
“Mi creda, so l’impressione che do. Resurrezione. Coincidenze bizzarre.
Messaggi provenienti da televisori all’interno di un negozio all’ingrosso di
articoli scontati. Creature di luce che non riesco a vedere.”
“Be’, se la mette così...”
“Però c’è una spiegazione. Deve esserci. Magari è solo il mio subconscio,
che alla fine presta attenzione a qualcosa di diverso da me. Forse qualche
settimana fa ho sentito parlare di quegli ambientalisti, prima che mi
fulminassi, e adesso li vedo ovunque.”
Lui sa cosa vuol dire prendere ordini dai fantasmi. È rimasto da solo per
talmente tanto tempo, a disegnare il suo albero morente, che non oserebbe
contraddire le teorie di nessuno. Non esiste nessuna stranezza più strana di
quella delle creature viventi. Lui ridacchia, masticando il pennino. “Negli
ultimi nove anni ho realizzato dei gingilli magici. I segnali segreti sono il mio
linguaggio.”
“Ecco cosa non capisco.” Gli occhi di Olivia lo implorano di avere pietà.
Il suo tè, il vapore sul suo viso, le regioni selvagge dell’Iowa innevato: una
storia così antica e vasta che lei non riesce a capire. “Sto guidando lungo la
strada e vedo la sua insegna, appesa a un albero che sembra...”
“Be’, sa, se si spinge abbastanza lontano...”
“Non so. Non so cosa credere. È stupido credere qualsiasi cosa. Abbiamo
sempre, sempre torto.”
Lui si vede dipingere quel viso con luminosi colori di guerra.
“Può chiamarla in qualunque modo voglia. C’è qualcosa che sta cercando
di attirare la mia attenzione.”
Qualcuno pensa che tutte le sue ricerche sul Castagno degli Hoel
dell’ultimo decennio possano avere un qualche significato. Per Nick è
sufficiente. Fa spallucce. “È impressionante quanto le cose diventino
pazzesche, una volta che cominci a guardarle.”
Passa dall’angoscia alla convinzione in zero secondi. “Ecco cosa sto
dicendo! Cos’è più pazzesco? Credere che nelle vicinanze potrebbero esserci
delle presenze di cui non siamo a conoscenza? O abbattere le ultime, vecchie
sequoie sulla Terra per costruire rivestimenti di ponti e scandole?”
Alza un dito e chiede scusa prima di andare di sopra. Torna di sotto con
un vecchio atlante stradale e tre volumi di uno scaffale di enciclopedie che
suo nonno aveva comprato da un commesso viaggiatore nel 1965. In verità,
c’è davvero una città di nome Solace, California, in mezzo agli alberi alti. In
realtà, ci sono sequoie alte tre piani e antiche quanto Gesù. Pazzesca è quella
specie che non è affatto minacciata. Lui la guarda; il viso di Olivia arde di
intenzione. L’uomo vuole seguirla ovunque la sua visione la porti. E quando
quella visione si affievolisce, vuole seguirla ovunque sarà la sua successiva
destinazione.
“Non ha fame?” chiede lei.
“Continuamente. La fame fa bene. La gente dovrebbe avere sempre
fame.”
Lui le prepara il porridge con formaggio fuso e peperoni piccanti. Le dice,
“Ho bisogno di pensarci di notte.”
“Lei è come me.”
“In che senso?”
“Riesco ad ascoltare meglio me stessa quando sto dormendo.”
La sistema nella camera dei suoi nonni, in cui non entrava dal Natale del
1980, tranne che per pulire. Lui dorme dabbasso, nel bugigattolo della sua
infanzia, sotto le scale. E ascolta tutta notte. I suoi pensieri si diffondono in
ogni direzione, cercando la luce. Si rende conto che non c’è nient’altro nella
sua vita che possa essere definito nemmeno lontanamente un progetto.
Quando si sveglia, lei è in cucina, con indosso dei nuovi vestiti presi in
auto, intenta a cercare di ricavare dei pancake dalla farina che lui ha lasciato
infestare. L’uomo si siede al tavolo al centro nella sua vestaglia di flanella.
La sua voce urta contro le parole. “Devo sgombrare questa casa entro la fine
del mese.”
Olivia fa un cenno verso i pancake. “Si può fare.”
“E devo disfarmi della mia arte. A parte ciò, ho una finestrella libera sul
calendario per il resto dell’anno.”
Nick guarda fuori dalla finestra della cucina con tanti vetri. Il cielo che
s’intravede tra i rami del Castagno degli Hoel è talmente sommerso dal blu
che sembra sia stato spalmato con i colori a dita da uno scolaro delle
elementari.
La primavera ritorna per Mimi Ma, la prima senza suo padre. I meli
selvatici, i peri, i siliquastri e le sanguinelle esplodono di rosa e di bianco.
Ogni petalo crudele sembra deriderla. Soprattutto i gelsi le fanno venir voglia
di appiccare il fuoco a tutto ciò che fiorisce. L’uomo non vedrà nemmeno una
parte di quell’abbagliamento. Eppure sono prorompenti, i colori crudeli e
indifferenti dell’Adesso.
Una seconda primavera incalza la prima, e poi una terza. Il lavoro la
rinvigorisce, oppure sono i fiori che cominciano a indebolirsi. Entro maggio,
il suo conto di Frequent Flyer raggiungerà il livello Platinum. La mandano in
Corea. La mandano in Brasile. Impara il portoghese. Impara che la gente di
ogni razza, colore e credo ha un ardente e illimitato desiderio di forme
personalizzate in ceramica.
Si dà alla corsa, all’escursionismo, alla bicicletta. Si dà al ballo da sala,
poi al jazz, seguito dalla salsa, che la porta a mettere una croce su tutti gli
altri generi di ballo. Si dà al bird-watching, e di lì a breve ha un elenco che
comprende centotrenta specie osservate. La ditta la promuove a responsabile
di settore. Segue un corso sull’arte rinascimentale, corsi serali in poesia
moderna, tutta quella roba dell’università di Holyoke che aveva respinto per
diventare un ingegnere. L’obiettivo è quasi patriottico: avere campo libero.
Avere tutto. Essere tutto.
Una collega la convince a giocare a hockey nel campionato interno
dell’ufficio. Ben presto, non le basta nemmeno quello. Gioca a poker con
uomini in quattro continenti e va a letto con uomini in due. Trascorre una
settimana a San Diego con una ragazza dagli appetiti sorprendentemente vari
e le spezza il cuore, nonostante il loro accordo aperto e franco. Si innamora
perdutamente di un tizio sposato di un’altra squadra di hockey che dimostra
davvero tanta delicatezza quando la blocca contro i bordi della pista. Si
incontrano una volta, a Helsinki, a dicembre, per un magico periodo
alternativo di tre giorni immersi nell’oscurità in pieno meriggio. Non lo
rivede più.
Per poco non si sposa. Subito dopo, non ricorda come abbia fatto a essere
stato a un passo dal succedere. Compie trent’anni. Poi (ingegnere affidabile)
trentuno, trentadue. Durante il sonno, attraversa continuamente aeroporti
epici, in mezzo a moltitudini pullulanti, quando sente il suo nome venire
annunciato dall’altoparlante.
Dopo dieci ore, Olivia dice, “Si vede che sei a tuo agio in silenzio.”
“Ho fatto un po’ di esercizio.”
“Mi piace. Io invece devo recuperare terreno.”
“Volevo chiederti... non so. La tua postura. La tua... aura. Come se stessi
espiando qualcosa.”
Lei scoppia a ridere come una bambina di dieci anni. “Magari sì.”
“Cosa?”
Olivia trova la risposta sull’orizzonte dell’ovest, che spumeggia di
montagne distanti. “Quella stronza che ero. Quella persona premurosa che
non ero.”
“È davvero molto confortante non dire nulla.”
Lei prova a mettere in pratica quel concetto e sembra essere d’accordo.
Lui pensa: Se mai venissi imprigionato, o rimanessi chiuso in un rifugio
antiatomico, sceglierei questa persona.
Al motel appena dopo Salt Lake, l’addetto alla reception chiede, “Un letto
matrimoniale o due singoli?”
“Due singoli,” dice Nick, sentendo la risata puerile accanto a lui. Entrano
in bagno a turno, con un certo imbarazzo. Poi rimangono svegli a letto per
un’altra ora, chiacchierando da una parte all’altra del vuoto tra i due letti
largo una sessantina di centimetri. Un momento di grande loquacità, rispetto
al viaggio di oltre mille chilometri che hanno appena fatto.
“Non ho mai preso parte a una contestazione pubblica.”
Lui deve pensarci: di sicuro una qualche azione dettata dalla rabbia
politica, quand’era al college. È sorpreso di dover dire, “Nemmeno io.”
“Non riesco a immaginare chi non parteciperebbe a questa qui.”
“Taglialegna. Libertari. Le persone che credono nel destino umano. Quelli
che hanno bisogno di terrazze pavimentate in legno e di scandole.” Di lì a
breve, i suoi occhi si chiudono spontaneamente, e lui viene trascinato nel
sonno, quel luogo serale di redenzione che ricorda quella delle piante.
Ogni Natale c’è sempre un simpatico siparietto tra loro due, un siparietto
sempre pronto a non essere tale, con un preavviso così breve. Un regalo che
si scambiano a vicenda vuole essere il tentativo di conversione di ogni anno.
In quella occasione, lui le regala Cinquanta idee che hanno cambiato il
mondo.
“Tesoro! Come sei stato premuroso!”
“Di certo hanno cambiato me.”
Lui non cambierà mai, pensa lei, baciandolo accanto alle labbra. Poi gli
consegna la sua parte del rituale: una nuova edizione annotata di Quattro
grandi romanzi di Jane Austen.
“Dorothy, mia cara. Mi hai letto nei pensieri!”
“Sai, potresti provare a leggerla, uno di questi anni.”
Lui ci aveva provato, anni prima, e per poco non era rimasto soffocato da
un senso di claustrofobia. Trascorrono le vacanze in vestaglia, ognuno
impegnato a leggere il regalo comprato dall’altro. La vigilia di Capodanno, si
sforzano di arrivare a mezzanotte. Sono coricati a letto, fianco a fianco, una
gamba vicina all’altra, ma con le mani ben salde sulle pagine di fronte a loro.
Mentre si sta addormentando, Ray legge lo stesso paragrafo una dozzina di
volte; le parole si trasformano in cose vorticose, come semi con le ali che
roteano nell’aria.
“Buon anno,” dice, quando finalmente la sfera luminosa compie la sua
discesa. “Sopravvissuti a un altro, eh?”
Si versano lo champagne che aspettava di fianco al letto, nel ghiaccio. Lei
fa cincin, beve, e dice, “Dovremmo vivere un’avventura quest’anno.”
Gli scaffali sono pieni di precedenti soluzioni, scelte e poi messe da parte.
Facili ricette indiane. Un centinaio di escursioni nel vasto Yellowstone.
Guida alle caratteristiche naturali degli uccelli canori dell’est. Ai fiori di
campo dell’ovest. All’Europa più insolita. Alla Tailandia sconosciuta.
Manuali sulla fermentazione della birra e di enologia. Testi intonsi in lingua
straniera. Tutte quelle sporadiche esplorazioni che devono provare e sprecare.
Hanno vissuto come dèi frivoli e distratti.
“Qualcosa di potenzialmente fatale,” aggiunge Dorothy.
“È proprio quello a cui stavo pensando,” dice lui.
“Magari dovremmo partecipare a una maratona.”
“Io... potrei essere il tuo preparatore. O altro.”
“Qualcosa che potremmo fare insieme. Il brevetto di volo?”
“Magari,” dice lui, distrutto dalla stanchezza. “Vabbè.” Posa il bicchiere e
si schiaffeggia le cosce.
“Già. Un’altra pagina prima di spegnere le luci?”
***
***
I lettori hanno bisogno di una locuzione del genere per rendere il miracolo
un po’ più vivido, visibile. L’aveva imparato tanti anni prima, da suo padre:
la gente vede meglio ciò che le assomiglia. Alberi magnanimi è qualcosa che
ogni persona generosa è in grado di capire e di amare. E con quelle parole,
Patricia Westerford sigilla il suo destino e cambia il futuro. Persino il futuro
degli alberi.
Sei settimane dopo, squilla il telefono del suo ufficio. Lei odia il telefono.
Schizofrenia manuale. Voci non viste che ti sussurrano in lontananza.
Nessuno le telefona eccetto per lavori sgradevoli. È il suo editor, che non ha
mai conosciuto, da New York, una città che non ha mai visto. “Patricia? Il
tuo libro. L’ho appena finito!”
Patricia sussulta, aspettando la stroncatura.
“Pazzesco. E chi sapeva che gli alberi architettassero tutte queste cose?”
“Be’. Alcune centinaia di milioni di anni di evoluzione sono sufficienti
per un bel repertorio.”
“Sei riuscita a infondere in loro la vita.”
“A dire il vero, erano già vivi.” Lei però sta pensando al volume che le
regalò suo padre quando aveva quattordici anni. Si rende conto che deve
dedicare il libro a suo padre. E a suo marito. E a tutte le persone che, col
tempo, si trasformeranno in altre cose.
“Patty, non crederesti a quello che mi hai fatto scoprire, tra la fermata
della metro e il mio ufficio. La parte sugli alberi magnanimi? Da urlo. Non ti
abbiamo pagato abbastanza per questo lavoro.”
“Mi hai pagato più di quanto abbia guadagnato in cinque anni.”
“Nel giro di un paio di mesi riceverai anche l’altra parte del compenso.”
Quello che Patricia Westerford vorrebbe riprendersi è la sua solitudine, il
suo anonimato, ma proprio in quel momento comincia a capire – così come
gli alberi sono in grado di percepire un’invasione ancora distante – che non
riavrà.
Destiny arriva, e non c’è modo di tornare indietro. Due mesi dopo l’uscita
del videogioco nel Nord America, il presidente, l’amministratore delegato e il
maggior azionista di Sequoia Sempreverde avvia una copia sul suo solido e
robusto computer, nel suo appartamento sopra il nuovissimo e luccicante
quartier generale dell’azienda sulle colline pedemontane lungo Page Mill
Road. È tutto legno rosso di sequoia e vetro – un parco giochi con spazi
stravaganti e meditativi. Strani angoli cingono atri all’aperto provvisti di
giganteschi pini domestici italiani. Lavorare alla propria postazione dà la
sensazione di campeggiare all’interno di un parco nazionale.
Il rifugio di Neelay è un po’ appartato in alto, sopra la zona dove fervono
tutte le attività. L’unico modo per raggiungerlo è a bordo di un ascensore
privato, nascosto dietro una scala antincendio. Al centro dello studio segreto
c’è un complesso letto d’ospedale. Neelay non lo usa quasi più. Quaranta
minuti per coricarsi e per alzarsi; in quel periodo, persino coricarsi sembra
mortale. Non c’è tempo. Lui dorme sulla sua sedia, quasi mai più di quaranta
minuti di fila ogni volta. Le idee lo torturano come le Erinni. Piani e progressi
per il suo mondo in evoluzione lo assillano senza pietà lungo la galassia.
È seduto di fronte a un enorme schermo su una superficie di lavoro
abbastanza alta da permettergli di infilarci sotto la sedia. Oltre lo schermo, un
panorama su una lastra di cristallo rivela la cima di Monte Bello. Quella
vista, e lo spettacolo del cielo stellato che traspare attraverso il lucernario
notturno, è all’origine della maggior parte dei viaggi di Neelay in paesi
stranieri. Le sue incursioni adesso sono simili a quelle di oggigiorno –
spedizioni lungo le coste delle terre emerse che cominciano avvolte nella
nebbia e culminano con la scoperta. Lui ha concepito le fondamenta del
gioco, ha scritto una discreta porzione del codice, e ha passato mesi a
elaborare i suoi possibili percorsi. Il destino non dovrebbe avere più alcun
potere di sorprenderlo; ma non manca mai di fargli accelerare il battito
cardiaco. Un clic del mouse, qualche battuta sui tasti, e lui si ritrova di nuovo
faccia a faccia con il prossimo continente vergine.
In verità, il gioco è piuttosto scadente. È bidimensionale – niente
sensazioni olfattive, tattili, del gusto, a pelle. È minuscolo e sgranato, con un
prototipo del mondo semplicistico come la Genesi. Però riesce a dare una
scossa al suo tronco encefalico ogni volta che lo avvia. Le mappe, i climi e le
risorse sparse sono nuove, ogni volta che si entra. I suoi avversari sono
Conquistadores, Costruttori, o Tecnocrati, Veneratori della Natura, Taccagni,
Filantropi o Utopisti radicali. Niente di simile al posto che è sempre esistito.
Eppure, andarci è un po’ come tornare a casa. La sua mente sta aspettando un
parco giochi simile da molto prima che cadesse da quell’albero traditore.
Quel giorno decide di essere un Saggio. Nella bacheca virtuale di tutto il
mondo si sta diffondendo la voce di una strategia superpotente di vittoria che
i giocatori chiamano Illuminazione. I leader di massimo livello stanno
facendo pressioni affinché l’approccio venga vietato. Ma persino da Saggio,
lui deve procurarsi sufficiente carbone, oro, minerale grezzo, pietra, legno,
cibo, onore e gloria per supplire alla crescita della sua popolazione. Deve
esplorare terreni sconosciuti, creare rotte commerciali e fare irruzione in
insediamenti vicini, insinuandosi lungo ramificazioni in cerca di Cultura,
Arte manuale, Economia e Tecnologia. Il gioco presenta tante scelte
importanti quante la Vita Vera, o, come il suo staff ha cominciato a
chiamarla, in un modo leggermente derisorio: VV. Quella mattina la grafica
sembra un po’ frastagliata rispetto a Destiny 2, già in cantiere. Ma la grafica
non ha mai significato molto per Neelay. Il visibile è un tappabuchi per il
desiderio vero. Tutto quello di cui lui e mezzo milione di altri giocatori di
Destiny hanno bisogno è semplice e con una forma che cambia all’infinito, in
un regno continuamente in crescita.
Sente qualcosa contorcersi dentro di lui. Impiega qualche minuto per
identificare quella sensazione come fame. Dovrebbe mangiare, ma mangiare
è un’operazione di un certo tipo. Si avvicina al frigorifero a bordo della sedia
a rotelle e prende una bibita energetica che poi si rivela un involtino al pollo,
che lui ingoia senza nemmeno scaldarlo al microonde. Di sera farà un pasto
vero, o il giorno dopo. Sta radunando una pila di tavole di cipresso tagliate
dalla sua migliore squadra di boscaioli dentro una navicella gigantesca
quando squilla il telefono. Il suo appuntamento mattutino con un giornalista
che vuole intervistare la piccola stella nascente del settore, il ragazzo ancora
sulla ventina che ha dato una casa a tanti ragazzi senza casa.
Il reporter sembra non molto più vecchio del suo concittadino, e impietrito
dalla paura. “Signor Mehta?”
Il signor Mehta è suo padre, che Neelay ha nascosto in un minuscolo
palazzo fuori Cupertino dotato di piscina, home cinema e laghetto accanto a
un mandir di legno di palissandro, dove la signora Mehta pratica Pūjā
quotidiane e prega gli dèi affinché portino al figlio la felicità e una ragazza
che lo veda per quello che è.
Una cosa riflessa nella lastra di cristallo alza lo sguardo verso di lui come
a volerlo sfidare: una mantide religiosa marrone e scheletrica con giunture
bulbose e un enorme cranio dalla pelle tirata al posto della testa: “Chiamami
Neelay.”
“Perbacco. Okay. Wow! Neelay. Sono Chris. Grazie per aver parlato.
Allora, per prima cosa voglio chiederti: te lo immaginavi che Destiny sarebbe
diventato un successo del genere?”
Neelay se lo immaginava, molto prima che il gioco venisse lanciato. Se
l’era immaginato dal momento in cui aveva avuto l’idea, di notte sotto quel
gigantesco, ampio e pulsante albero, lungo la Skyline.
“Più o meno. Sì. L’uscita della versione beta ha paralizzato i miei
dipendenti. Il mio project manager ha dovuto bloccare gli accessi.”
“Cazzarola. Sai a quanto ammontano le vendite?”
“Sta vendendo molto bene. In quattordici paesi.”
“E perché, secondo te?”
Il successo del videogioco è abbastanza semplice. È una riproduzione
ragionevole del luogo che Neelay aveva immaginato all’età di sette anni,
quando suo padre aveva trascinato un’enorme scatola di cartone su per le
scale dell’appartamento. Ebbene, Neelay-jj. Cosa sarà in grado di fare quella
piccola creatura? Quello che Neelay voleva che facesse quella scatola nera
era abbastanza semplice: farlo ritornare all’epoca del mito e delle origini,
quando tutti i luoghi che una persona poteva raggiungere erano verdi e dolci,
e la vita poteva ancora diventare qualsiasi cosa.
“Non so. Ha delle regole elementari. Il mondo ti obbedisce. Le cose
succedono più velocemente che nella vita. Puoi vedere crescere il tuo
impero.”
“Sono... Devo confessartelo. Ne vado matto! Ieri notte, quando alla fine
ho smesso di giocare, erano tipo le quattro del mattino. Volevo soltanto
vedere cosa sarebbe successo con un’altra mossa. E quando mi sono alzato in
piedi davanti allo schermo, la mia camera da letto stava ondeggiando.”
“So cosa vuoi dire.” E Neelay lo sa. Tranne la parte dell’alzarsi in piedi.
“Credi stia cambiando il cervello delle persone che ci giocano?”
“Sì, Chris. Ma è quello che fanno tutte le cose, credo.”
“Hai visto l’articolo del Times sui videogiochi della scorsa settimana?”
“Destiny non è un videogioco. È un gioco mentale.”
“Okay. Ma devi ammettere che si spreca un sacco di tempo che potrebbe
essere sfruttato in modo costruttivo.”
“Il gioco è assolutamente cronofagico.” Avverte un impercettibile punto
interrogativo comparire in una nuvoletta dei pensieri dall’altro capo del
telefono. “Risucchia-tempo.”
“Ti secca essere considerato un distruttore della produttività?”
Neelay guarda fuori il fianco di una montagna spogliato degli alberi
mezzo secolo prima. “Non penso... Potrebbe non essere così male,
distruggere un po’ di produttività.”
“Uhm! Okay. A ogni modo, il gioco sta uccidendo la mia insignificante
vita. Continuo a imbattermi in cose che non sono nel libro-gioco di
centoventotto pagine.”
“Già. In parte è ciò che continua a far giocare la gente.”
“Mentre sto giocando, sento di avere un obiettivo. Sempre qualcos’altro
da portare a termine.”
Sì, oh sì, vuole dire Neelay. Sicuro e comprensibile, senza alcuna
ambiguità stagnante che ti inghiotte, senza alcuna ombra di un altro essere
umano, e la tua volontà otterrà lo spazio che le spetta. Chiamalo significato.
“Credo che molte persone si sentano più a casa lì dentro. Di quanto si sentano
là fuori.”
“Può darsi! In ogni caso, molte persone della mia età.”
“Certo. Ma stiamo progettando ogni genere di nuovi ruoli per l’uscita
successiva. Nuovi modi di giocare. Ventagli di possibilità per ogni genere di
persona. Vogliamo che sia un bel posto per tutti.”
“Wow. Okay. Eccezionale. E quale sarà la mossa successiva
dell’azienda?”
Il controllo dell’azienda gli sta sfuggendo di mano. Squadre di lavoro e
dirigenti popolano una struttura organizzativa ad albero di cui lui non riesce
più ad avere il pieno controllo. I migliori sviluppatori della Silicon Valley
bussano alla sua porta ogni giorno, col desiderio di giocare. Ingegneri del
software sulla statale 128 nei pressi di Boston, freschi di laurea alla Georgia
Tech e alla Carnegie Mellon – con i cervelli plasmati fin dall’infanzia dai
videogiochi che Neelay aveva l’abitudine di regalare – lo implorano di dar
loro la possibilità di aiutare a organizzare la partenza in massa già in corso.
“Vorrei sapertelo dire.”
Chris insiste con un tono lagnoso. “E se ti supplicassi?”
La sua voce ha tutta la sicurezza di un maschio in salute e in grado di
camminare. Probabilmente bianco e di bell’aspetto. Il fascino e l’ottimismo di
un ragazzo che non sa ancora quello che la gente farà ad altra gente, ad altri
esseri viventi, una volta che insorgeranno le paure e i dolori e i bisogni.
“Soltanto un accenno?”
“Be’, è semplice, davvero. Più di ogni cosa. Più sorprese. Più possibilità.
Più luoghi, abitati da altri generi di creature. Immagina Destiny, dopo che ha
raddoppiato quaranta volte la ricchezza e la complessità. Non sappiamo
nemmeno quale aspetto potrebbe avere un posto del genere.” Tutto da un
seme di questa grandezza.
“Oh. È davvero stupefacente. Davvero... bello!”
Neelay avverte una fitta. Vuole dire: Chiedimelo ancora. C’è dell’altro.
“Posso chiederti di te?”
Il polso di Neelay subisce un’impennata, come se stesse cercando di
sollevarsi sui suoi anelli per gli esercizi. No, ti prego. Ti prego, non farlo.
“Certo.”
“Ho letto parecchie storie su di te. I tuoi dipendenti ti chiamano eremita.”
“Non sono un eremita. Solo che – le mie gambe non funzionano.”
“L’ho letto. Come gestisci l’azienda?”
“Telefono. E-mail. Messaggistica istantanea.”
“Perché non ci sono tue fotografie?”
“Non è un bello spettacolo.”
La risposta confonde Chris. Neelay vuole dire: va tutto bene. È solo VV,
vita vera.
“Credi che il fatto di essere cresciuto come il figlio di immigrati –”
“Oh, non credo. Probabilmente no.”
“No, cosa?”
“Non credo che mi abbia influenzato granché.”
“E... cosa mi dici del fatto di essere un americano di origini indiane? Non
pensi che –”
“Ecco quello che penso. Sono stato Ghandi e Hitler e Capo Giuseppe. Ho
brandito più di sei spade mentre indossavo un piccolo perizoma di cotta di
maglia che, francamente, non mi proteggeva molto!”
Chris scoppia a ridere. È una bella e sicura risata. A Neelay non interessa
che aspetto abbia il ragazzo. Non gli interessa se sia centottanta chili e
ricoperto di herpes. Si sente pervadere improvvisamente dal desiderio. Ti
andrebbe di uscire insieme una volta o l’altra? Uscire però significherà per
forza entrare. Non deve succedere nulla. In realtà, nulla potrebbe succedere.
Potremmo limitarci a... sederci da qualche parte, parlare delle cose, senza
paura, dolore, conseguenze. A rimanere seduti a parlare di dove sta andando
la gente.
Impossibile. Basta una sola occhiata agli arti grotteschi di Neelay perché
quel giornalista ridanciano e sicuro di sé rimanga disgustato. Eppure quel
tizio, Chris – adora il videogioco di Neelay. Gioca per tutta la notte, fino a
mattina. Il codice scritto da Neelay sta cambiando il cervello di quest’altra
persona.
“È solo questo. Sono stato molte cose. Ho vissuto dappertutto. Nell’Africa
dell’età della pietra e sull’orlo esterno di altre galassie. Credo che di qui a
breve – non subito, ma presto – se il software continuerà a migliorare e ad
aprirci altre possibilità, credo che riusciremo a trasformarci in qualunque cosa
vogliamo.”
“Sembra... un po’ strano.”
“Sì. Forse è così.”
“I videogiochi non sono... La gente vuole ancora i soldi. Vuole ancora il
prestigio e la posizione sociale. La politica. Sarà per sempre così.”
“Già. Per sempre? Forse.” Neelay fissa nello schermo, un mondo che si
impone con grande forza, dove la posizione sociale deriverà interamente dai
voti in uno spazio che è allo stesso tempo istantaneo, globale, anonimo,
virtuale e inesorabile.
“Le persone hanno ancora i corpi. Vogliono un potere reale. Amici e
amanti. Ricompense. Risultati.”
“Certo. Ma presto ci porteremo in giro tutto quanto nelle nostre tasche.
Vivremo e negozieremo e concluderemo accordi e avremo delle storie
romantiche, tutto quanto in uno spazio simbolico. Il mondo sarà un
videogioco, con i punteggi sugli schermi. E tutto questo?” Agita la mano,
come fa la gente al telefono, pur sapendo che Chris non può vederlo. “Tutte
queste cose che secondo te le persone vogliono veramente? La vita reale?
Ben presto non ci ricorderemo nemmeno com’era.”
Un’auto è diretta a nord sulla statale 36. Chevrolet Impala, che procede un
po’ troppo velocemente mentre scollina. Giù per la lunga pendenza, una
dozzina di casse nere in mezzo alla strada bloccano il transito. Bare. L’autista
frena e ferma la vettura a pochi metri davanti al funerale di massa. Per aria,
sopra le bare, su un cavo obliquo che collega due alberi solidi e robusti come
fari, si arrampica un puma femmina. Un’imbracatura abbraccia la sua vita
scheletrica, agganciata con un moschettone a un cavo di sicurezza. La sua
coda fruscia tra le lucide anche posteriori, e il suo capo nobile e baffuto
ciondola sul collo mentre ispeziona uno striscione smagliato.
Arriva una seconda auto da sud. Volkswagen Rabbit, che sbanda fino a
fermarsi davanti alle bare. Suona il clacson un paio di volte, prima che
l’autista si accorga del puma. La scena è abbastanza curiosa, persino lì nella
terra della ganja, perché l’autista si fermi per un attimo a godersi la scena con
aria imbambolata. L’animale è giovane, agile, indossa soltanto una
calzamaglia con stampate le parole STA ARRIVANDO UN CAMBIAMENTO che
spuntano da sotto il body sulla spalla. Il felino lotta con lo striscione; gli
autisti aspettano, incuriositi. Un’altra vettura rimane imbottigliata dietro a
quella diretta a nord. Poi un’altra.
In uno spiazzo sul ciglio della strada, un orso strattona la corda, cercando
di tirare il lenzuolo smagliato dall’altra parte del cavo di ritegno. Gli occhi
piccoli e infossati del grizzly sono una splendida creazione in cartapesta
dipinta. Le orbite sono talmente minuscole che l’orso è costretto a dimenare il
suo grosso muso per vedere qualsiasi cosa. Nel giro di qualche altro minuto,
comincia a formarsi una coda in entrambe le direzioni. Due tizi smontano
dalle loro auto. Sono adirati, ma non possono fare a meno di ridere davanti
alla fauna megagalattica. Una energica zampata del puma e il lenzuolo alla
fine cade, si gonfia al vento e si agita sull’autostrada come una vela:
***
Il bacio scende dalla cima della testa di Ray, da dietro, mentre è seduto nel
suo studio a leggere. I baci, spicci e precisi, come bombe a grappolo
filoguidate, sono ciò che meglio descrive la Dorothy di quel periodo. Non
mancano mai di gelargli il sangue.
“Vado a cantare.”
Lui allunga il collo per guardarla. Ha quarantaquattro anni, ma ai suoi
occhi ne ha ancora ventotto. È perché non ha figli, crede. Lo splendore la
pervade ancora, la pura attrazione, come se l’assurda leggiadria avesse ancora
un lavoro da fare, questa bellezza non più giovane. Jeans e camicetta di
cotone bianca con piccole pieghe che aderiscono alle sue costole patetiche.
Ricoperta da uno scialle lilla, leggermente disordinato e adagiato sul collo,
l’unico tratto di pelle che, a suo avviso, la tradisce. I capelli le ricadono sullo
scialle, splendenti, castani, perfetti, ancora della stessa lunghezza di quando
lei provava la parte per Lady Macbeth durante il loro primo appuntamento.
“Hai un aspetto stupendo.”
“Ah! Mi fa piacere che la tua vista cominci a dar segni di peggioramento.”
Lei solletica il punto in cui è atterrato il bacio. “Ti si stanno diradando i
capelli quassù.”
“Il cocchio alato del tempo.”
“Sto cercando di immaginarmi un veicolo del genere. E come dovrebbe
funzionare, esattamente?”
Lui allunga il collo ulteriormente. In una mano appoggiata contro i suoi
leggings da corsa, Dorothy tiene stretta un’edizione Peters verde chiaro
adorna dell’enorme parola in nero:
BR MS
Spezzata in due dal suo perfetto avambraccio. Sotto di essa, più piccola:
Il concerto è alla fine di giugno. Lei sarà sul palco con un centinaio di
altre voci, e non spiccherà in mezzo alle altre donne se non per il fatto di
essere una delle poche che ancora non sono ingrigite, e canterà:
Siehe, ein Ackermann wartet
auf die köstliche Frucht der Erde
und ist geduldig darüber,
bis er empfahe den Morgenregen und Abendregen.
Lei si allontana verso ovest lungo la Birch, sotto aceri arancioni. Il marito
non si prende la briga di guardare le luci posteriori o vedere dove svolta.
Sarebbe un’umiliazione per entrambi. Lei è troppo intelligente per non
passare prima davanti alla sala per le audizioni. Inoltre: lui è già stato delle
notti alla finestra a guardare le luci posteriori. Ha già fatto tutto, tutte le cose
disperate e disgustose. Cercato i numeri sconosciuti sul registro della bolletta
telefonica. Controllato le tasche dei vestiti che lei indossava la notte
precedente. Perquisito la sua borsetta in cerca di biglietti. Non trova alcun
biglietto. Soltanto le prove materiali dalla A alla Z della sua vergogna.
Le settimane d’incredulità di molto tempo prima si sono trasformate in
una caduta libera molto più angosciante del periodo della loro gioventù in cui
praticavano lo skydiving. Il panico della scoperta è diventato un grumo di
dolore, del genere che aveva provato quand’era morta sua madre. Poi il
dolore si è tramutato in virtù, che lui ha covato in segreto per settimane,
finché la virtù non è collassata sotto la sua crescita esplosiva in un’amara
immobilità. Ogni domanda è una pazzia volontaria. Chi? Perché? Per quanto?
Quanto spesso prima?
Che importanza ha? Lasciati il cappotto sbottonato. Adesso lui desidera
soltanto la pace, ed esserle vicino ancora per un po’, il più a lungo possibile,
prima che lei mandi tutto a monte solo per punirlo per il fatto di averlo
scoperto.
Entra in casa con il viso roseo per il freddo. La sciarpa striscia per terra
mentre richiude la porta alle sue spalle con una spinta. La partitura del
Requiem le cade di mano. Si china per raccoglierla, e quando si raddrizza, i
loro occhi si incrociano, tradendo qualsiasi emozione. Spaventati, spavaldi,
imploranti, malvagi. Desiderosi di essere di nuovo a casa, con un vecchio
amico.
“Ehi! Non ti sei minimamente spostato da quella poltrona.”
“Belle le prove?”
“Le migliori!”
“Mi fa piacere. In quale sezione hai cantato?”
Attraversa la stanza verso il punto in cui è seduto il marito. Una loro
vecchia abitudine. Lo abbraccia, Ziemlich langsam und mit Ausdruck. Prima
che lui abbia il tempo di alzarsi, lei sguscia via, verso la cucina, sentendosi
addosso quell’odore di sale e candeggina. “Mi farò una doccia veloce prima
di andare a letto.”
È una donna intelligente, ma non ha mai avuto molta pazienza con le cose
ovvie. Né crede il marito capace di una semplice riflessione. Si era fatta la
doccia venti minuti prima di andare a cantare Brahms.
Mentre Olivia fa i bagagli rassicura Nick. “Se pensi di poter fare di più da
quaggiù... starò bene anche da sola. Non oseranno farmi del male. Pensa alla
stampa!”
Lui non starà bene se non dove è lei. È così semplice, così assurdo. Non
glielo dice. La cosa è così straordinariamente ovvia, persino nel modo in cui
indugia e annuisce. Ovviamente lei lo sa. Riesce a sentire degli esseri che non
ci sono neppure. Ovviamente lei sente i suoi pensieri martellanti, il sangue
che pulsa nelle sue orecchie, persino più forte della pioggia incessante.
E così Nick rimane da solo con questa donna che si è impossessata della
sua vita. Lei gli prende la mano, che non si è ancora rilassata dopo la presa.
“Nick. Siamo qui. Dentro Mimas.”
Lei pronuncia il nome della creatura come se fosse un vecchio amico.
Come se ci stesse parlando da molto tempo. Sono seduti uno accanto all’altra
nel buio costellato di aghi, a una sessantina di metri da terra, su ciò che
Buzzard e Sparks chiamavano la Grande Sala da Ballo: una piattaforma due
metri per tre costruita con tre porte imbullonate insieme. Pareti scorrevoli di
tela cerata li proteggono su tre lati.
“Più grande della mia stanza del college,” dice Olivia. “E più carina.”
In equilibrio su un altro ramo appena sotto, raggiungibile con la scala di
corda, c’è un piccolo frammento di compensato. Un barile per la pioggia, un
vasetto per gli insetti contenente veleno e un secchio con chiusura ermetica
completano il bagno. Tre metri sopra di loro, su una giuntura più alta,
un’altra piattaforma funge da dispensa, cucina e studiolo. È piena d’acqua,
cibo, tela cerata e provviste. Un’amaca spiegata tra due rami è la culla di una
biblioteca circolante ben rifornita, lasciata lì da precedenti partecipanti al sit-
in. L’intera casetta sull’albero posta su tre livelli trova il proprio equilibrio in
cima a un enorme ramo biforcuto creatosi secoli prima, quando il tronco era
stato colpito da un fulmine. Oscilla a ogni alito di vento.
Una lampada a cherosene le illumina il viso. Lui non l’ha mai vista con
quell’espressione così ostinata. “Vieni qui.” Gli afferra il polso avvicinandolo
a sé. “Qui. Più vicino.” Come se spostarsi più lontano fosse un’opzione. E lo
prende come qualcuno che ha la certezza che la vita ha bisogno di lei.
* Verso di una poesia di un autore sconosciuto del XV secolo intitolato Adam lay
ybounden.
* Nome per l’albero dell’ippocastano. (N.d.T.)
* Lettera di Giacomo 5, 7. (N.d.T.)
* Libro di Christopher D. Stone. (N.d.T.)
* Button Up Your Overcoat di Frank Sinatra. (N.d.T.)
* Prima lettera ai Corinzi 15, 51-52. (N.d.T.)
Di notte, si sente sfiorare il viso da qualcosa di morbido e caldo. È la sua
mano, pensa lui, o i suoi capelli che gli ricadono addosso mentre Olivia si
avvicina. Persino la lenta, nauseante barcarola del sacco a pelo sembra
benedetta – gli angusti luoghi dell’amore. Un artiglio gli penetra la guancia, e
il succubo sprigiona barbugliamenti in falsetto. Guardiano si tira su di scatto,
urlando, “Merda!” Si lancia verso il tratto piano della piattaforma, ma la sua
fune di sicurezza lo blocca. Un palmo perfora le pareti illusorie di tela cerata.
Le creature viventi si insinuano tra i rami, urlanti.
Olivia si alza in un battibaleno, bloccandogli le braccia. “Nick. Fermati.
Nick! Va tutto bene.” Il pericolo si frantuma in piccoli cocci. In mezzo a un
cicaleccio scrosciante, impiega un po’ a capire quello che gli sta dicendo.
“Scoiattoli volanti. Hanno giocato sopra di noi per dieci minuti.”
“Gesù! Perché?”
Lei scoppia a ridere e lo coccola, riportandolo di nuovo in posizione
orizzontale. “Non devi far altro che chiederglielo. Se mai torneranno.”
Olivia strofina il viso contro di lui, la sua pancia nell’incavo della schiena
di Nick. Il sonno non vuole saperne di arrivare. Ci sono creature che vivono
così in alto e lontano dall’uomo che non hanno mai saputo che cos’è la paura.
E grazie alla pazzia delle sue cellule, Nick – proprio quella notte durante il
suo primo vero sit-in – gliel’ha fatta conoscere.
Si svegliano prima che sia pieno giorno, al rumore di macchinari nel fitto
della foresta alle loro spalle.
Costruiamo questo posto con ogni dettaglio, prendendo spunto dalle cose presenti
nel mondo. Vere savane, vere foreste temperate, vere zone umide. I fratelli Van
Eyck hanno dipinto 75 varietà diverse di piante distinguibili nella Pala d’Altare
di Gent. Io voglio riuscire a contare 750 specie di piante finte in Destiny 7,
ognuna con il proprio comportamento...
Mentre redige gli appunti, gli impiegati bussano alla porta ed entrano, con
documenti da firmare, controversie da appianare. Non mostrano alcuna
repulsione o compassione per l’enorme bastone da passeggio appoggiato alla
sedia in posizione verticale. Sono abituati a lui, questi giovani cibernauti.
Non fanno caso nemmeno più al catetere, che si svuota nel suo serbatoio sul
telaio della sedia. Conoscono il suo patrimonio netto. Quel pomeriggio, il
bilancio d’esercizio espresso in percentuali di Sequoia Sempreverde ha
chiuso a quarantuno e un quarto, il triplo dell’offerta pubblica iniziale
dell’anno prima. L’uomo esile come un virgulto in sedia a rotelle possiede il
ventitré per cento dell’azienda. Ha fatto diventare tutti quanti ricchi, e ha fatto
diventare ricco se stesso come i più grandi imperatori del gioco.
Invia gli ultimissimi appunti delle dimensioni di un pamphlet, e qualche
minuto dopo si sente invadere da un senso di minaccia. E poi fa quello che fa
sempre quando non sente più la terra sotto i piedi: telefona ai suoi genitori. È
sua madre a rispondere. “Oh, Neelay. Sono davvero felice che sia tu!”
“Anch’io sono molto felice, Moti. Tutto bene?” E non ha importanza
quello che lei sta dicendo. Pita che fa troppi sonnellini. La visita in
programma ad Ahmedabad. L’invasione di coccinelle nel garage – un odore
molto pungente. Un taglio di capelli che potrebbe essere decisamente
imminente. Lui si bea di qualunque cosa lei voglia continuare a parlare. La
vita, in ogni commovente dettaglio che non vuole saperne di entrare in
nessuna simulazione.
Ma poi ecco la domanda insopportabile, che quella volta arriva piuttosto
presto. “Neelay, pensiamo ancora che non sia impossibile trovarti qualcuno.
Nell’ambiente.” Per anni non hanno fatto che provare a persuaderlo in
qualunque modo. Sarebbe un sadismo forzato nei confronti di qualsiasi donna
che venisse costretta a un’unione del genere. “No, Moti. Ne abbiamo già
parlato.”
“Ma Neelay!” Ecco cosa percepisce nel modo in cui pronuncia quelle
parole: Tu vali milioni, decine di milioni, magari di più – non vuoi dirlo
neppure a tua madre! Che sacrificio sarebbe? Chi non potrebbe imparare ad
amare?
“Mamma? Avrei dovuto dirtelo. Qui c’è una donna. In realtà, è una delle
mie badanti.” Sembra quasi plausibile. Il silenzio carico di attesa speranzosa
all’altro capo del telefono lo distrugge. Gli serve un nome credibile e
rassicurante, qualcosa che si ricorderà. Rupi. Rutu. “Si chiama Rupal.”
Un tremendo e profondo sospiro, e lei scoppia a piangere. “Oh, Neelay.
Sono davvero, davvero felice!”
“Anch’io, Mamma.”
“Proverai la vera gioia! Quando la conosceremo?”
Si chiede perché la sua mente criminale non abbia previsto questa piccola
difficoltà. “Presto. Non voglio farla scappare dallo spavento.”
“La tua famiglia la spaventerà? Che genere di ragazza è?”
“Magari il mese prossimo? Alla fine del prossimo mese?” Pensando,
ovviamente, che prima di allora il mondo finirà. Già avvertendo il dolore
profondissimo della madre quando apprenderà della loro simulata
separazione pochi giorni prima dell’incontro tra le due donne. Però l’ha resa
felice nell’unico posto in cui le persone vivono veramente, la finestra
temporale dell’Adesso, che dura qualche-secondo. Va tutto bene, e quando la
telefonata finisce, lui sta già promettendo ai suoi parenti sia del Gujarat che
del Rajasthan di dar loro un preavviso di almeno quattordici mesi per
liberarsi degli impegni, comprare i biglietti aerei, e farsi confezionare i sari,
prima di qualunque matrimonio.
“Buon Dio. Queste cose hanno bisogno di tempo, Neelay.”
Quando riagganciano, lui alza la mano in aria e la sbatte sul bordo esterno
della scrivania. Avverte un rumore molto strano, seguito da un dolore
lancinante e intenso, e capisce di essersi rotto almeno un osso.
Accecato dal dolore, entra nel suo ascensore privato e scende
nell’opulente atrio, con le bellissime finiture interne di legno rosso di sequoia
ripagato dal desiderio di milioni di persone di vivere da nessun’altra parte che
lì. Ha gli occhi pieni di lacrime e di rabbia. Ma con calma e cortesia, solleva
il suo artiglio gonfio e lacerato davanti all’addetta alla reception terrorizzata e
dice, “Dovrò andare all’ospedale.”
Sa cosa lo aspetterà là, dopo che gli avranno medicato la mano. Lo
rimprovereranno. Lo metteranno sotto flebo e gli faranno giurare di mangiare
sano. Mentre l’addetta alla reception fa le sue telefonate frenetiche, Neelay
alza lo sguardo verso la parete dove ha appeso quelle parole di Borges,
ancora il filo conduttore della sua giovane vita:
Ogni uomo deve essere capace di tutte le idee, e penso che in futuro lo sarà.*
Portland sembra avere un effetto tossico su Patricia. Consulente tecnico
accademico, persino peggio. La mattina dell’istruttoria, la dottoressa
Westerford è a letto, sentendosi come se fosse stata colpita da un ictus.
“Non posso farlo, Den.”
“Non puoi non farlo, piccola.”
“Intendi moralmente o legalmente?”
“È il lavoro della tua vita. Non puoi sottrarti adesso.”
“Non è il lavoro della mia vita. Il lavoro della mia vita è ascoltare gli
alberi!”
“No. Quello è il passatempo della tua vita. Il lavoro consiste nel dire alla
gente quello che dicono.”
“Un’ordinanza di interrompere l’abbattimento degli alberi su territori
federali sensibili. È pane per gli avvocati. Cosa ne so della legge, io?”
“Vogliono sapere cosa ne sai di alberi.”
“Perito tecnico? Mi darò malata.”
“Limitati a dire quello che sai.”
“È proprio questo il problema. Non so nulla.”
“Sarà come mettersi di fronte a una classe.”
“Tranne che, invece di ventenni idealisti animati dal desiderio di imparare,
ci saranno un mucchio di avvocati che litigano per milioni di dollari.”
“Non dollari, Patty. L’altra cosa.” E sì, ammette lei, portando i piedi sulle
fredde assi di legno. Questa roba riguarda l’altra cosa. Proprio l’opposto dei
dollari. La cosa che necessita di tutti i testimoni che si può procurare.
La mattina dopo, sta discutendo ancora con uno dei taglialegna quando lui
si ferma a metà frase.
“Ehi! Togliti un attimo il cappello.” Lei ubbidisce. Il turbamento
dell’uomo è evidente da una distanza pari a due terzi di un campo da football.
“Merda! Sei stupenda.”
“E non mi hai visto da vicino! Quando non sono congelata e ho fatto un
bagno nell’ultimo mese o due.”
“Che diavolo ci fai lì, su un albero? Potresti avere tutti gli uomini che
vuoi.”
“Chi è che vuole degli uomini quando può avere Mimas?”
“Mimas?”
È una piccola vittoria, solo il fatto di fargli pronunciare il nome.
I boscaioli smettono di far capolino. Non c’è più nulla su cui litigare.
Anche i nuovi rifornimenti dalla squadra di terra del GDV si esauriscono.
“Dobbiamo essere ancora sotto assedio,” dice Guardiano. Ma non vedono
alcuno sbarramento sulla superficie. Il genere umano potrebbe benissimo
essersi dileguato ovunque eccetto che dalla testimonianza fossile. Nella
canopia in alto, non vedono nessun animale più grande degli scoiattoli
volanti, che di notte proteggono i nidi con il calore del loro corpo.
Né l’uno né l’altro sanno dire quanti giorni siano passati. Nick segna ogni
giorno su un calendario disegnato a mano, ma dopo aver fatto la pipì e pulito
con la spugna e fatto colazione e sognato un altro po’ un’opera d’arte
collettiva che potrebbe rendere giustizia a una foresta, spesso non si ricorda
se ha segnato già il giorno o meno.
“Che importa?” chiede Capelvenere. “Le bufere sono quasi finite. Le
temperature si stanno alzando. Le giornate si stanno allungando. Ce
l’abbiamo già il calendario che ci serve.”
Passano interi pomeriggi con Guardiano intento a fare degli schizzi.
Disegna i muschi che spuntano da ogni fessura. Tratteggia l’usnea e altri
licheni penzolanti che trasformano l’albero in una fiaba. La sua mano si
muove e il pensiero prende forma: Di che abbiamo bisogno, a parte il cibo?
E le creature come Mimas, che si producono il loro cibo – sono le più libere
di tutte.
Si sentono i macchinari sibilare ancora lungo il fianco squarciato della
collina. Una sega nelle vicinanze, un’esboscatrice più lontana: i due
sull’albero diventano bravi a distinguere una creatura dall’altra. Alcune
mattine, quei suoni sono l’unico modo che hanno di sapere se il sistema della
libera impresa si sta ancora dirigendo a tutta velocità verso la sua barriera che
si erge imponente quanto Dio.
“Ovvio che stanno cercando di farci morire di fame.” Ma durante quel
lungo periodo di tempo in cui non arrivano le provviste, loro possono contare
sul cous cous e l’immaginazione.
“Tieni duro,” gli dice Capelvenere. “I mirtilli saranno pronti di nuovo
prima che ce ne accorgiamo.” Lei continua a centellinare dei ceci essiccati
come se fossero un corso di filosofia. “Prima di adesso, non sapevo che
sapore avessero veramente le cose.”
Nemmeno lui. E non ha mai saputo che odore avesse il suo corpo, e la sua
merda fresca di produzione, in procinto di diventare concime organico. E
come cambia il suo pensiero quando fissa per ore la luce scolpita che penetra
dai rami. E qual è il rumore del sangue che gli martella nelle orecchie nell’ora
successiva al tramonto, e mentre tutte le creature viventi trattengono il
respiro, in attesa di vedere quello che succede, una volta che cade la notte.
La realtà si inclina rispetto alla perpendicolare a ogni lieve brezza. I
pomeriggi molto ventosi sono un epico sport a due. Quando il vento aumenta
d’intensità, non c’è nient’altro che vento. Risveglia in loro istinti animaleschi
– la tela cerata che sbatte all’impazzata e gli aghi che si scagliano addosso a
loro in modo assurdo. Quando soffia il vento, non c’è nient’altro che occupa
la mente – nessun disegno, nessuna poesia, nessun libro, nessuna causa,
nessuna vocazione – soltanto le violente raffiche e i folli pensieri che
turbinano rumorosamente, come delle specie che ruzzolano via dal retaggio
del loro albero genealogico.
Una volta che la luce svanisce, a loro due non rimane che il rumore. Le
candele e il cherosene sono troppo preziosi per essere consumati nel piacere
della lettura. Non hanno idea di quando le prossime provviste riusciranno a
oltrepassare il cordone, se esista ancora un cordone, ancora un GDV o
un’istituzione terrena che si ricorda di loro due, in cima a un albero di mille
anni, bisognosi di rifornimenti.
Lei gli prende la mano al buio, l’unico gesto di cui ha bisogno. Si
rintanano l’uno nell’altra, come fanno ogni notte, contro l’oscurità.
“Dove sono, loro?”
Sono soltanto due le cose che lei può intendere con loro. Tre, se si
contano le creature di luce. E la sua risposta è la stessa per tutte e tre.
“Non lo so.”
“Forse si sono dimenticati di questo bosco.”
“No,” risponde lui. “Non credo.”
Il chiaro di luna alle sue spalle getta un velo lungo i suoi lineamenti. “Non
possono vincere. Non possono sconfiggere la natura.”
“Ma possono fare un gran casino per un tempo incredibilmente lungo.”
Però, in una notte come quella, mentre la foresta pompa le sue sinfonie in
milioni di movimenti e la voluminosa e splendente luna viene frammentata
tra i rami di Mimas, è facile persino per Nick credere che il verde abbia un
piano che farà sembrare l’era dei mammiferi una piccola, insignificante
deviazione.
“Sss,” dice lei, benché lui sia già in silenzio. “Che cos’è?”
Lui lo sa e non lo sa. Un’altra incarnazione sperimentale che fa capolino,
rendendo noto il suo territorio, sondando il buio, calcolando il suo spazio
nell’enorme alveare brulicante. La verità è che i suoi occhi si stanno
chiudendo e non riesce proprio a impedire che la domanda di Olivia si
trasformi in un oscuro enigma. Senza alcuna possibilità di addomesticare il
buio o di renderlo quasi inutile, è spacciato. Però è ancora vigile per rendersi
conto di una cosa: È il più lungo periodo di tempo che abbia mai passato
senza che il cane nero si faccia vivo per morsicarmi il sedere.
Si addormentano. Non si legano più con la cintura di sicurezza. Però la
maggior parte delle notti si tengono abbastanza stretti l’uno all’altra che
finirebbero per cadere ugualmente insieme sul lato della piattaforma.
Passano infinite ore a leggere nei loro sacchi a pelo. Divorano tutti i libri
che precedenti dimostranti avevano lasciato nella biblioteca circolante
sull’amaca. Leggono Shakespeare, reggendo il voluminoso tomo sulle loro
pance appaiate. Leggono un’opera teatrale ogni pomeriggio, interpretando le
parti tra di loro. Sogno di una notte di mezza estate. Re Lear. Macbeth.
Leggono due romanzi stupendi, uno scritto tre anni prima e l’altro
centovent’anni prima. Mentre si avvicinano alla fine della storia più vecchia,
lei ha qualche difficoltà a tenere la voce sotto controllo.
“Ti piacciono queste persone?” Le storie lo hanno affascinato. Segue con
vivo interesse il loro sviluppo. Ma lei – lei è a pezzi.
“Se mi piacciono? Wow. Okay. Forse. Ma sono tutte quante rinchiuse in
un bugigattolo, e non hanno idea. Vorrei scuoterle e urlare, Aprite gli occhi,
dannazione! Guardatevi intorno! Ma non ci riescono, Nicky. Tutto quello
che c’è di vivo è appena fuori il loro campo visivo.”
I suoi lineamenti si alterano e gli occhi si arrossano di nuovo. Piangono
per la cecità, persino di creature fittizie.
“La senti?” domanda lei, sotto il caos del cielo occidentale una sera sul
presto, o forse quella dopo. Senza nessun’altra spiegazione, lui sa cosa
intende. Adesso riesce a leggere nei suoi pensieri, tante sono le ore che hanno
passato insieme a contemplare senza un preciso scopo, con i gomiti
appoggiati sulle ginocchia.
La senti sollevarsi e scomparire? Quell’onda stazionaria di elettricità
statica costante? La distrazione così onnipresente che non ti sei mai reso
nemmeno conto di esserne completamente assorbito. La certezza umana. La
cosa che ti rende cieco davanti a ciò che è proprio qui – sparita. Lui riesce –
riesce a sentirla. L’albero, come un potente segnale. Loro due, che si
trasformano in qualcosa alimentato da chiazze di sole che li raggiungono
attraverso i tanti metri di rami di Mimas ancora sopra le loro teste.
“Saliamo in cima,” gli dice lei. E prima che lui abbia il tempo di obiettare,
sta già alzando lo sguardo verso una gargolla incrostata di fango appollaiata
su uno stelo appuntito potato da un fulmine, le gambe di Olivia avvinghiate
intorno a un ramo che arriva fino a terra e le braccia alzate in alto, intente a
setacciare il cielo.
Mimi scuote il capo, incredula. “Non sapevo che questa città avesse tanti
sbirri.” Douggie zoppica accanto a lei, le gambe arcuate. “Lo sai che non
siamo obbligati a farlo. Almeno mezza dozzina di persone sarebbero felici di
fare le controfigure.”
Lui ruota per esserle di fronte, e per poco non incespica. “Di che stai
parlando?” È come un golden retriever sfinito dopo essere andato a prendere
con grande fierezza il giornale arrotolato. “Aspetta.” Le tocca la spalla,
confuso. “Hai paura, Meem? Perché non sei tenuta a fare nulla che –”
Mimi non lo sopporta, il suo buonismo. “D’accordo. Sto solamente
dicendo di non fare l’eroe, per questa volta.”
“Non ho fatto l’eroe, l’ultima volta. Come potevo sapere che volevano
fondermi i vecchi gioielli di famiglia?”
Lei li ha visti, il giorno in cui gli hanno lacerato il denim, esponendoli
all’aria. I gioielli di famiglia, che sbatacchiavano al vento, infiammati da
sostanze chimiche. Da quella volta lui ha voluto mostrargliela ancora, molto
spesso: la miracolosa guarigione – quasi una resurrezione, si potrebbe dire.
Lei non se la sente. Ama quell’uomo, forse più di quanto tenga a chiunque a
parte le sue sorelle e i loro bambini. È motivo di costante stupore per lei il
fatto che un uomo così ingenuo sia riuscito ad arrivare all’età di quarant’anni.
Non riesce a immaginare di non vigilare su di lui. Però appartengono a due
specie diverse. Questa causa che hanno abbracciato – la difesa di tutto quello
che è immobile e innocente, la lotta per qualcosa di migliore dell’insaziabile
appetito suicida – è tutto ciò che hanno in comune.
Si avviano verso il veicolo corazzato, dove la nuova arma segreta della
manifestazione di protesta, i manicotti dell’anello di metallo, vengono
distribuiti. “Eccome se lo facciamo, donna. Che ne pensi? Quella non è stata
la mia prima medaglia al valore. O la mia ultima. Finirò per accumularne
un’intera serie, come i segmenti di un lombrico.”
“Douggie. Basta ferite. Oggi non potrei sopportarlo.”
Punta il mento verso il cordone della polizia, aspettando che succeda
qualcosa. “Andiamo a dirlo a loro.” E poi, come una creatura priva di
memoria a parte il ricordo del sole, “Accidenti! Guarda tutta quella gente! È
un movimento o cosa?”
Una lunga carrellata riprende ogni primo piano. Un uomo alto e goffo coi
denti anteriori distanziati e lunghi, folti capelli tirati indietro in una treccia di
cavallo comincia a cantare. We shall overcome. We shall overcome. Sulle
prime, si sentono delle risatine. Ma alla terza battuta, il resto del gruppo si è
già unito a lui. Cinque poliziotti strattonano i dimostranti, ma districarsi
facilmente non è un’opzione. Un uomo in uniforme dice, come se leggesse da
un gobbo: “Sono lo sceriffo Sanders. La vostra presenza qui è in violazione
del codice penale, numeri di sezione...” Grida dal cerchio coprono la sua
voce. Lui si interrompe, chiude gli occhi, e ricomincia. “Questa è proprietà
privata. Vi ordino in rappresentanza dello stato dell’Oregon di disperdervi. Se
non vi ritirate pacificamene, sarete trattenuti per radunata sediziosa così come
per violazione di proprietà con intento criminale. Qualsiasi tentativo di
opporre resistenza sarà considerato in violazione delle sezioni del codice
penale –”
L’uomo goffo coi denti distanziati grida più forte di lui. “Dovresti unirti a
noi quaggiù.”
L’agente indietreggia. Qualcuno non inquadrato urla, “Siete tutti quanti
dei criminali. Volete soltanto trattare di merda le altre persone!”
Il cerchio ricomincia a cantare in coro. Altri poliziotti si accalcano a
ridosso della circonferenza del cerchio. Lo sceriffo avanza di nuovo di un
passo. Il suo discorso è lento, chiaro e a voce alta, come quello di un maestro
delle scuole elementari. “Liberate le mani da qualunque cosa le tenga legate...
da dentro i tubi. Se non vi liberate nel giro di cinque minuti, useremo lo spray
al peperoncino per costringervi ad attenervi alle disposizioni.”
Qualcuno nel cerchio dice, “Non potete farlo.” La videocamera si posa su
una piccola donna asiatica con il viso rotondo e un caschetto nero. Non
inquadrato, lo sceriffo dice, “Certo che possiamo. E lo faremo.” Dal cerchio
si levano delle grida. La videocamera non sa dove puntare. Si sente la donna
dal viso rotondo dire, “Ai sensi della legge americana, è vietato l’uso dello
spray al peperoncino da parte di qualunque pubblico ufficiale a meno che non
sia in pericolo. Guardateci! Non possiamo nemmeno muoverci!”
Lo sceriffo consulta l’orologio. “Tre minuti.”
Parlano tutti insieme. Una panoramica sull’atrio sfocato ritorna a primi
piani spaventati. C’è una mischia; un giovane nel cerchio viene colpito al
rene con un calcio da dietro. La videocamera oscilla e finisce per posarsi
sull’uomo coi denti distanziati. La sua coda di cavallo si agita avanti e
indietro. “Soffre d’asma, amico. E di brutto. Non potete usare lo spray al
peperoncino su una persona asmatica. Si può morire per quello, amico.”
Qualcuno non inquadrato grida, “Fa’ quello che dice l’agente.”
L’uomo dai denti distanziati annuisce come se si fosse rotto il collo.
“Fallo, Mimi. Liberati. Fallo.”
La donna dai capelli grigi lo zittisce. “Abbiamo accettato tutti quanti di
portare avanti questa cosa insieme.”
Lo sceriffo dice a voce alta, “State violando la legge e le vostre azioni
stanno danneggiando la comunità. Vi prego di sgombrare il posto. Avete
sessanta secondi.”
Passano sessanta secondi nella stessa confusione. “Vi chiedo ancora una
volta di liberarvi e di togliere le mani da quei tubi e di andarvene
pacificamente.”
“Ho vinto una Croce dell’Aeronautica militare per essere stato abbattuto
mentre proteggevo questo paese.”
“Vi ho dato l’ordine di disperdervi più di cinque minuti fa. Siete stati
avvisati di tutte le conseguenze, e le avete accettate.”
“Io non le accetto!”
“Adesso useremo lo spray al peperoncino e altre sostanze chimiche
affinché liberiate le mani dai tubi. Continueremo a impiegare questi agenti
chimici finché non acconsentirete a liberarvi. Siete pronti a farlo adesso, per
evitare tutto questo?”
Douglas si piega da una parte, poi dall’altra. Non la vede. La colonna è tra
di loro, e il cerchio sta impazzendo. Grida il suo nome ed eccola là, mentre
inclina lo sguardo terrorizzato e incrocia il suo. Le urla cose che lei non
riesce a distinguere, in tutto quel trambusto. Si guardano fisso negli occhi per
ciò che sembra la più breve eternità. Tramite quell’angusto canale, le
comunica in fretta un mucchio di messaggi urgenti. Non devi farlo. Per me
sei più importante di tutte le foreste che questa piccola azienda può uccidere.
Lo sguardo di Mimi è ancor più denso di messaggi, ognuno dei quali si
riduce a quello scritto col pennino più duro: Douglas. Douglas. Cosa fare,
loro?
***
Cominciano dal corpo più vicino ai piedi dello sceriffo – una donna tra i
quaranta e i cinquant’anni, sovrappeso, con lunghi capelli dalle punte tinte e
un paio di occhiali raffinati molto di moda l’anno prima. Le si avvicina un
agente da dietro, con un bicchiere di carta in una mano e un batuffolo di
ovatta nell’altra. La voce dello sceriffo è calma. “Non opponga resistenza.
Qualsiasi minaccia nei nostri confronti sarà considerata un’aggressione nei
confronti di un agente, che è un reato grave.”
“Siamo immobilizzati! Siamo immobilizzati!”
Un altro sbirro si mette di fianco a quello con il tampone e il bicchiere di
carta. Si china e tiene ferma la donna con una mano mentre con l’altra le
spinge la testa all’indietro. La donna si lascia sfuggire di bocca, “Insegno
biologia alla scuola media Jefferson. Ho dedicato vent’anni a insegnare ai
ragazzini –”
Qualcuno non inquadrato urla, “Ti daranno una bella lezione!”
Lo sceriffo dice, “Si liberi dal tubo.”
L’insegnante inspira. Ci sono delle urla. L’agente con il batuffolo lo
accosta all’occhio destro della donna. Prova in ogni modo possibile a farne
entrare un altro po’ nell’occhio sinistro. Le sostanze chimiche si raccolgono
sotto la palpebra e scendono sul lato del viso della donna inclinato
all’indietro. I gemiti della donna sono assolutamente animaleschi. Qualcuno
grida, “Basta! Adesso!”
“Abbiamo dell’acqua per i suoi occhi. Quando si sarà liberata gliela
daremo. Ha intenzione di liberarsi?” L’altro agente le piega di nuovo la testa
all’indietro, e quello con il batuffolo di ovatta lo applica sugli occhi e sul
naso. “Se si libera le daremo acqua fresca con cui risciacquarsi.”
Qualcuno grida, “La state uccidendo. Ha bisogno di un dottore.”
Lo sbirro con il batuffolo lo agita verso il suo collega. “La prossima volta
useremo il Mace. È molto peggio.”
Le grida della donna degenerano in piagnucolii. È troppo immersa nel
dolore per riuscire a liberarsi. Le sue mani non riescono a trovare il
moschettone per sganciarlo. I due addetti alla distribuzione della comunione
passano in senso orario alla prossima persona nel cerchio – un uomo
nerboruto di poco più di trent’anni che ha più l’aria di un taglialegna che di
un amante dei gufi. Abbassa la testa e la tiene premuta in basso serrando gli
occhi.
“Signore? Ha intenzione di liberarsi?”
Le sue larghe e forti spalle si piegano verso l’interno, ma i manicotti di
metallo su entrambe le braccia non gli permettono di incurvarsi
ulteriormente. L’assistente dell’agente lotta per ripiegare all’indietro la testa
dell’uomo. La forza è dalla parte della polizia, e quando un terzo agente
subentra per dare una mano, il collo viene piegato immediatamente. Aprire
gli occhi non è un lavoretto altrettanto pulito. Infilano il batuffolo nelle
fessure delle palpebre mentre bloccano la grossa testa. Il peperoncino
concentrato si spande ovunque. Una goccia finisce dentro il naso, e l’uomo
comincia a sentirsi soffocare. La videocamera si muove all’impazzata per la
stanza. Indugia sulla finestra fuori, dove la folla di dimostranti sul prato
intona i cori senza avere la minima idea di quello che sta succedendo
all’interno. I versi di soffocamento vengono interrotti da un poliziotto. “Ha
intenzione di liberarsi? Signore? Signore. Mi sente? È pronto a mollare?”
Qualcuno grida, “Non avete un briciolo di coscienza?”
Un’altra persona urla, “Usate la bottiglia. Spruzzategli dell’acqua sugli
occhi.”
“Ma questa è tortura. In America!” La videocamera è in preda a capogiri.
Si trascina a stento come un ubriaco.
Caricano i piatti sporchi nel camion per il tragitto di ritorno in città. Lei lo
afferra davanti alla portiera.
“Sono una donna ricca, vero?”
“Non abbastanza ricca da provare a ottenere una carica pubblica, se è
quello cui stai pensando.”
Patricia ride in modo troppo sguaiato per la battuta, e si calma troppo
velocemente. “In loco sta venendo meno la preservazione. E adesso mi rendo
conto che sarà sempre così.” Den la guarda e aspetta. Lei pensa: Se il resto
delle specie sapesse guardare e aspettare come quest’uomo, potremmo
ancora essere salvati. “Voglio aprire una banca dei semi. Al mondo c’è la
metà degli alberi che c’era prima che scendessimo da essi.”
“Per colpa nostra?”
“L’un per cento della foresta nel mondo, ogni decennio. Una zona più
estesa del Connecticut, ogni anno.”
Lui annuisce, come se nessuno in ascolto potesse rimanerne sorpreso.
“Da un terzo a metà delle specie esistenti potrebbero estinguersi per
quando me ne sarò andata.”
Le sue parole lo lasciano perplesso. “Stai andando da qualche parte?”
“Decine di migliaia di alberi di cui non sappiamo nulla. Specie che
abbiamo a malapena classificato. È come incenerire la biblioteca, il museo
d’arte, la farmacia, e l’archivio, tutto in una volta.”
“Vuoi aprire un’arca.”
Quella parola la fa sorridere, ma fa spallucce. Una parola vale l’altra.
“Voglio aprire un’arca.”
“Dove puoi conservare...” Si lascia prendere dalla stranezza di quell’idea.
Una camera blindata in cui riporre qualche centinaia di milioni di anni di
affanni e armeggiamenti. Con la mano sulla portiera dell’auto, lui fissa lo
sguardo su qualcosa in alto su un cedro. “Cosa... ne faresti? Quand’è che i
semi...”
“Den, non lo so. Ma un seme può rimanere dormiente per migliaia di
anni.”
Gli unici animali che sanno di essere spacciati. Ecco, continua a dire
Douggie – intorno alla mezzanotte, più forte degli inni squillanti di pazzi
scatenati in un posto di ristoro gremito di guardie nazionali in libera uscita e
altri patrioti armati – ecco dove cominciano tutti i guai.
“Cioè, in che modo la consapevolezza di stare per morire ti dà un aiuto?
Chi è abbastanza sveglio da capire di essere un mucchio di carne putrescente
avvolta intorno a un tubicino per lo scarico del liquame che verrà meno in –
quanto? Qualche altro migliaio di tramonti?”
Il suo compare filosofo seduto accanto a lui nel bar rivestito di legno satin
risponde, “Potresti chiudere quella dannata bocca per un secondo?”
“Ora, un albero. Queste creature sanno cose su una scala spazio-temporale
che noi non possiamo nemmeno –”
Parte un pugno che lo colpisce allo zigomo, così velocemente che Douglas
rimane immobile lì dov’è. Poi sbatte contro le assi del pavimento di abete a
testa in avanti e sviene così rapidamente che non sente nemmeno il tizio che
lo sovrasta pronunciare il suo panegirico. “Mi dispiace. Ma eri stato
avvertito.”
Quando rinviene, il suo amico Spinoza se n’è andato da un pezzo. Si tocca
la testa e il viso con polpastrelli esitanti. Non manca niente, ma avverte un
disorientamento che non sembra del tutto normale. Stelline e luci, nuvole
nere e dolore, per quanto sia sopravvissuto a ben di peggio. Si fa aiutare a
rimettersi in piedi dalla cameriera preoccupata prima di divincolarsi. “Le
persone non sono quelle che sembrano.” Questa volta, non c’è nessuno che
esprima il proprio dissenso.
È seduto nel suo veicolo nel parcheggio del posto di ristoro, intento a
elaborare il suo piano fuori programma. Per quel che ne sa, non ha nessuno
da cui andare per chiedere aiuto e conforto tranne la sua compagna di
avventure volte a salvare il mondo, la donna che si è unita a lui in una causa
più grande del mero pavlicekismo destinato al fallimento. Soltanto lei sa
come prenderlo e dargli uno scopo nella vita. Equivale a spingersi oltre i
limiti, andare a trovare Mimi a quell’ora. Per quanto lei non gli abbia mai
espressamente vietato di passarla a trovare di notte, non sarà molto entusiasta.
Eppure, saprà cosa fare per quel disastro che è la sua faccia.
Una volta, quando erano incatenati l’uno all’altra lungo un tratto di strada
che, come venne fuori, non interessava granché nemmeno alle ditte di
legname, gli aveva raccontato dei suoi grandi amori giovanili. Di entrambi i
sessi, nientemeno. Quella rivelazione, più il peso di una piuma, avrebbero
potuto metterlo al tappeto. Lui apprezza la compagnia di chiunque la donna
potrebbe voler avere intorno. Il mondo dipende da tante specie diverse,
ognuna un esperimento strambo. Vorrebbe soltanto che ogni tanto lei lo
lasciasse entrare nel suo sancta sanctorum, nel ruolo di fidato confidente, di
servitore o qualcosa del genere. Vorrebbe che lei e chiunque in quel momento
rappresentasse la chiave della felicità della sua vita lo lasciasse guardare – lo
lasciasse vigilare su di loro, una sentinella contro il mondo malevolo.
Si arrabatta per inserire la chiave dell’accensione. Probabilmente non è
affidabile alla guida di mezzi pesanti. Ma ha una guancia tumefatta e un
occhio da cui sta stillando qualcosa. E davvero nessuno a cui rivolgersi. Esce
dal parcheggio e si immette nuovamente sull’autostrada della valle, diretto
verso la città, e l’amore.
Non vede il camion accostato sul ciglio fuori dal bar. Non lo vede
muoversi adagio sull’asfalto alle sue spalle. Non vede nulla finché due occhi
bianchi non riempiono il suo specchietto retrovisore e il bestione colpisce il
suo paraurti posteriore. Lui avanza vibrando, slittando di coda. Il camion si
profila all’improvviso e lo urta di nuovo con violenza. Douglas non riesce a
frenare, e nemmeno a pensare. La strada prosegue in discesa. Spinge sul
pedale, ma il camion non lo molla. Ai piedi della collina, rasenta un
passaggio a livello, sbalzando in aria.
Intravede avvicinarsi un incrocio. All’improvviso sbanda a destra a tutto
gas, al doppio della velocità di una curva ben controllata. In uno slalom al
rallentatore, la parte posteriore ruota completamente, di duecentosettanta
gradi in senso orario. Quando si arresta, si trova nell’incrocio,
perpendicolare, mentre il camion vuoto per il trasporto del legname
sbatacchia sull’autostrada, con il guidatore che si accanisce sul clacson, un
lungo, squillante addio.
Douglas è in mezzo all’incrocio con il motore in folle, in preda al panico.
Quell’attacco lo fa sentire peggio di qualunque cosa la polizia abbia fatto.
Peggio di quando il suo aereo era precipitato. Quella volta si era trattato solo
di Dio, intento a giocare alla Sua solita roulette. Quello lì invece è un pazzo, e
con un piano in mente.
Oltrepassa l’incrocio e continua il lungo tragitto di ritorno verso la città.
Non riesce a staccare lo sguardo dallo specchietto retrovisore, dove si aspetta
che i due fasci di luce bianca ricompaiano in qualsiasi momento. Eppure,
riesce a raggiungere il condominio di Mimi senza altri incidenti. La luce è
ancora accesa nel suo appartamento. Quando apre la porta, è indubbiamente
ubriaca. Dietro di lei, la stanza è devastata. Un rotolo di pergamena è spiegato
sul pavimento del soggiorno.
Mimi barcolla e farfuglia, “Cos’è successo?”
Lui si tocca il viso, sorpreso. Ha già dimenticato tutto. Prima di avere il
tempo di rispondere, lei lo tira dentro. Ed è così che finalmente gli alberi li
riportano a casa.
Adam Appich mette il piede destro in una nicchia immaginaria e sale su.
Fa scorrere il nodo scorsoio, fa un altro passo con il sinistro. Fa ogni sforzo
possibile per dimenticare quanti passi inconsistenti ha già fatto. Si dice: Mi
arrampicavo sempre sugli alberi. Ma Adam non si sta arrampicando su un
albero. Si sta arrampicando per aria, su una corda sottile come una matita,
penzolando da un tronco così ampio da non riuscire a vederne
contemporaneamente entrambe le estremità. I solchi nella corteccia spessa
una trentina di centimetri sono più profondi della sua mano. Sopra di lui, una
lunga strada marrone svanisce dentro una nuvola. La corda comincia a
ruotare. Una voce dice dall’alto, “Aspetti. Non opponga resistenza.”
“Non riesco.”
“Ci riesce. Ci riuscirà, signore.”
La sua gola si riempie di reflusso e di paura. Con un piede alla volta,
copre la distanza incolmabile. Ormai in cima, osa guardare verso il basso.
Due creature arboree pronunciano dolci incoraggiamenti cui lui non dà retta
né crede. Raggiunge qualcosa di solido, respirando ancora. Non bene, ma pur
sempre respiro.
“Vede?” Il viso radioso della donna lo porta a chiedersi se non sia morto
da qualche parte durante la salita. L’uomo – pelle impiastrata e barba da
Vecchio Testamento – gli allunga un bicchiere d’acqua. Adam beve. È ancora
lontano dal convincersi che starà bene. La piattaforma sotto di lui s’inclina al
vento. La chioma dell’albero incombe su di lui, offrendogli le bacche.
“Sto bene.” E poi, “Immagino sarebbe stato più convincente se l’avessi
detto cinque minuti fa.”
La donna di nome Capelvenere sgambetta su un ramo in direzione della
dispensa improvvisata, in cerca di un tè che, stando a quanto sostiene, gli sarà
d’aiuto contro le vertigini. Non è aggrappata a nulla. A piedi nudi, a venti
piani di altezza. Lui sprofonda il viso nel cuscino imbottito di aghi di pino.
Quando se la sente, Adam guarda in basso. Una fanghiglia a mosaico si
propaga lungo la foresta di sotto. È passato molto vicino al massacro,
introdotto di nascosto dal messaggero Loki. Ma questa veduta dall’alto è
peggio. Il più lungo e determinato sit-in sugli alberi della zona – dotato di
soggetti ideali per il suo studio sull’idealismo incauto – è l’ultimo grande
brandello scampato all’abbattimento e alla raccolta dei tronchi. Boschetti
occasionali punteggiano terreni brulli, come i ciuffetti di barba sfuggiti al
rasoio di un adolescente. Ceppi di alberi appena recisi ovunque, scorie e
radura ricoperta di resti d’alberi tagliati, scarti ricoperti di segatura, gli
sporadici tronchi lasciati in burroni troppo ripidi per preoccuparsene. E un
folto d’alberi intorno all’esemplare gigantesco che questi contestatori
chiamano per nome.
L’uomo, Guardiano, indica i punti di rifermento. “Tutto quel terriccio
sciolto sta buttando giù questa parete, spingendola nell’Eel. Uccidendo i
pesci fino all’oceano. Difficile da ricordare, ma quando siamo arrivati qui,
dieci mesi fa, tutto era verde a perdita d’occhio. E dire che abbiamo cercato
di rallentare le cose!”
Adam non è un medico, e dopo duecentocinquanta interviste ad attivisti
lungo la Lost Coast, ha paura di sparare eventuali diagnosi. Però Guardiano o
è profondamente depresso o si è convertito al realismo.
Una vampa molto lontano, di sotto, il ronzio di macchinari pesanti simile
a quello del calabrone, e Guardiano si piega per guardare. “Là.” Un giallo più
vivo di una banana slug, che procede avanti e indietro a mezzo chilometro di
distanza nella foresta che sta scomparendo.
“Cosa abbiamo?” domanda Capelvenere.
“Verricello forestale. Un paio di trattori a cingoli con pinze. Potremmo
venire isolati entro domani.” Guarda Adam. “Forse avrà voglia di chiedere
qualunque cosa gli passi per la testa, prima di scendere a terra, stanotte.”
“Oppure può restare con noi,” dice Capelvenere. “La sistemeremo nella
stanza per gli ospiti.”
Adam non riesce a rispondere. I giramenti di testa sono ancora opprimenti.
Respirare lo fa star male. Vuole soltanto tornare a Santa Cruz, analizzare i
dati dei suoi questionari e tirare conclusioni dubbie da inflessibili statistiche.
“È più che benvenuto,” gli dice la donna. “In fondo, ci siamo offerti
volontari per qualche giorno, ed eccoci qui, quasi un anno dopo.”
Guardiano sorride. “C’è una bella collana di libri di Muir. Sono uscito per
fare una passeggiata e...”
I contenuti dello stomaco di Adam si spargono nell’aria, volando a terra
per sessanta metri.
I soggetti sono seduti sulla piattaforma, gli occhi fissi sul questionario e
sulle matite che Adam ha dato loro. Hanno le mani macchiate di marrone e di
verde, con grumi secchi di pudding sotto le unghie. Hanno un odore di
stagionatura e di muffa come il legno di sequoia. L’esaminatore si è messo
sopra di loro sul posto di vedetta dell’amaca, che non vuole saperne di
smettere di dondolare. Scruta le loro facce in cerca di tracce di quel paranoico
pensiero salvazionista che ha visto in tanti attivisti già intervistati. L’uomo –
capace ma fatalista. La donna – padrona di sé in un modo in cui nessuno che
abbia subito una batosta del genere ha il diritto di essere.
Capelvenere chiede, “È per il suo dottorato di ricerca?”
“Sì.”
“Qual è la sua ipotesi?”
Adam fa interviste da talmente tanto tempo che la parola suona estranea.
“Qualsiasi cosa dica potrebbe condizionare le vostre risposte.”
“Ha una teoria sulla gente che...”
“No. Ancora nessuna teoria. Sto solamente raccogliendo dei dati.”
Guardiano ride, un teso monosillabo. “Non è così che funziona, vero?”
“Che funziona cosa?”
“Il metodo scientifico. Non si possono raccogliere i dati senza una teoria
guida.”
“Come vi ho detto, sto studiando i profili delle personalità degli attivisti
ambientalisti.”
“Convinzione patologica?” domanda Guardiano.
“Nient’affatto. Voglio soltanto... imparare qualcosa sulla gente che...
crede che...”
“Anche le piante siano delle persone?”
Adam scoppia a ridere, e vorrebbe non averlo fatto. È l’altitudine. “Sì.”
“Lei spera che sommando tutti questi risultati e facendo una specie di
analisi della regressione –”
La donna tasta la caviglia del suo compagno. Lui si zittisce di colpo in un
modo che risponde a una delle due domande che Adam vuole inserire nel
questionario. L’altra domanda è come fanno a cacare uno di fronte all’altro,
sospesi a sessanta metri d’altezza.
Il sorriso di Capelvenere instilla in Adam un senso di disonestà. Lei è più
giovane di lui di alcuni anni, ma più sicura di qualche decennio. “Lei sta
studiando ciò che ad alcune persone fa prendere seriamente il mondo vivente,
quando l’unica vera cosa importante per tutti sono gli altri esseri umani.
Dovrebbe studiare chi è convinto che contino soltanto le persone.”
Guardiano scoppia a ridere. “A proposito di patologico.”
Per un instante, sopra di loro, il sole si ferma. Poi comincia la sua lenta
discesa verso ovest, di nuovo nell’oceano in attesa. La luce del meriggio
inonda il paesaggio d’oro e di acquerello. California, l’Eden americano.
Queste ultime vestigia tascabili di foresta giurassica, un mondo come non ce
ne sono altri sulla Terra. Capelvenere sfoglia il libricino di domande, sebbene
Adam le abbia chiesto di non guardare più avanti. Scuote il capo davanti a
qualche ingenuità a pagina tre. “Niente di tutto questo potrà dirle qualcosa di
importante su di noi. Se vuole conoscerci, dovrà solo parlarci.”
“Bene.” L’amaca sta facendo venire il mal di mare a Adam. Non riesce a
guardare da nessuna parte se non verso il terreno di quattro metri quadrati
sotto di lui. “Il problema è –”
“Ha bisogno di dati. Di quantità semplici.” Guardiano fa un cenno con la
mano verso sudovest, il canto del progresso della sega sibilante. “Completa
questa analogia: i questionari stanno alle personalità complesse come i
verricelli forestali stanno a...”
La donna si alza in piedi con un tale scatto che Adam è certo che cadrà
oltre il bordo. Lei si inclina da un lato, mentre Guardiano si piega all’indietro
per controbilanciare. Nessuno dei due è consapevole della loro manovra di
doppio misto. Capelvenere si gira verso Adam. Lui aspetta che lei precipiti
come Icaro. “Mi mancavano circa tre crediti formativi per laurearmi in
scienza attuariale. Sa cos’è la scienza attuariale?”
“Io... per caso si tratta di una domanda trabocchetto?”
“È la scienza che sostituisce una vita umana intera con il suo valore di
riscatto.”
Adam espira. “Perché, sa, non si siede o qualcosa del genere?”
“Non c’è un alito di vento! Ma d’accordo. A patto che possa domandarle
una cosa.”
“Okay. La prego solo di...”
“Cosa può imparare su di noi con un esame che non può fare guardandoci
negli occhi e rivolgendoci delle domande?”
“Voglio sapere...” Comprometterà il questionario. Darà loro degli spunti
tali da invalidare qualsiasi risposta che potrebbero dare. Ma per qualche
motivo, in cima a quel campanile di mille anni, non gli importa più nulla.
Vuole parlare, una cosa che per un po’ non ha voluto fare. “Molte prove
suggeriscono che la lealtà di gruppo interferisce con la ragione.”
Capelvenere e Guardiano si scambiano sorrisetti compiaciuti, come se
Adam avesse appena detto loro che la scienza ha dimostrato che l’atmosfera è
perlopiù aria.
“La gente costruisce la realtà. Dighe idroelettriche. Tunnel sotto la
superficie del mare. Trasporto supersonico. È dura opporre resistenza a tutto
ciò.”
Guardiano sorride, stanco. “Noi non costruiamo la realtà. La eludiamo e
basta. Fino a questo momento. Saccheggiando capitale naturale e
nascondendo i costi. Ma tra poco ci presenteranno il conto, e non riusciremo
a pagarlo.”
Adam non sa decidersi se sorridere o annuire. Sa soltanto che quella gente
– le pochissime persone immuni alla realtà comunemente accettata – ha un
segreto che lui deve cercare di capire.
Capelvenere scruta Adam, come attraverso un vetro a specchio da
laboratorio. “Posso chiederle un’altra cosa?”
“Qualunque cosa voglia.”
“È una domanda semplice. Quanto tempo crede che abbiamo?”
Adam non capisce. Lancia un’occhiata a Guardiano, ma anche lui sta
aspettando la sua risposta.
“Non lo so.”
“Nel profondo del suo cuore. Quanto tempo ci rimane, prima che
distruggiamo tutto quello che è intorno a noi?”
Le sue parole imbarazzano Adam. È una domanda per studentati
universitari. Per bar nei sabati sera a tarda ora. Ha lasciato che la situazione
gli sfuggisse di mano, e niente di tutto quello – la violazione di un terreno
privato, la salita, la conversazione ambigua – può valere le due informazioni
aggiuntive. Distoglie lo sguardo, rivolgendolo verso le sequoie devastate.
“Davvero. Non lo so.”
“Crede che gli esseri umani stiano usando le risorse più velocemente di
quanto il mondo riuscirà a sostituirle?”
La domanda sembra così al di là di ogni possibile previsione da risultare
senza senso. Poi un piccolo intoppo dentro di lui si sblocca, ed è come
ritornare a vedere.
“Sì.”
“Grazie!” Lei è soddisfatta del suo scolaretto. Lui ricambia con un largo
sorriso. La testa di Capelvenere oscilla in avanti e le sue sopracciglia brillano.
“E direbbe che il ritmo sta rallentando o accelerando?”
I grafici lui li ha visti. Li hanno visti tutti. Il processo è stato appena
avviato.
“È così semplice,” dice lei. “Così ovvio. La crescita esponenziale in un
sistema finito porta al crollo. Le persone però non lo capiscono. Quindi la
loro autorità è rovinata.” Capelvenere lo fissa con uno sguardo a metà tra
l’interesse e la compassione. Adam vuole soltanto che la culla smetta di
oscillare. “La casa sta andando a fuoco?”
Un’alzata di spalle. Le labbra si torcono. “Sì.”
“E vuole osservare un manipolo di persone che sta urlando, Spegnetelo,
quando tutti gli altri sono contenti di vedere bruciare ogni cosa.”
Un minuto prima, questa donna era l’oggetto dello studio di Adam. Ora
lui vuole confidarsi con lei. “Ha un nome. Lo chiamiamo effetto spettatore.
Una volta ho lasciato che il mio professore morisse perché nessun altro nella
sala conferenze si è alzato in piedi. Più il gruppo è grande...”
“Più forte deve gridare, Fuoco?”
“Perché se ci fosse un vero problema, di certo qualcuno –”
“– molta gente avrebbe già –”
“– con altri sei milioni –”
“Sei? Facciamo sette. Quindici, tra qualche anno. Tra non molto avremo
consumato la nuova produttività del pianeta. La richiesta di legna è triplicata
nell’arco della nostra vita.”
“Non si riesce a premere il freno quando si sta per sbattere contro il
muro.”
“È più facile buttare l’occhio fuori.”
Il ringhio distante si interrompe, percepibile ancora in silenzio. Adam
comincia a vedere tutto il suo studio come una distrazione. Deve studiare la
malattia su una scala inimmaginabile, una malattia che nessuno spettatore
riuscirebbe a riconoscere. Capelvenere rompe il silenzio. “Non siamo soli.
Altre persone stanno cercando di raggiungerci. Le sento.”
I peli si rizzano dal collo di Adam fino alla base della schiena. Sembra
enorme, tutto ricoperto di peli. Ma il segnale è invisibile, perso
nell’evoluzione. “Senti chi?”
“Non so. Gli alberi. La forza vitale.”
“Vuoi dire che stanno parlando? Ad alta voce?”
Lei carezza un ramo come se fosse un cucciolo. “Non ad alta voce. È più
un coro greco nella mia testa.” La ragazza guarda Adam, il viso luminoso
come se gli avesse appena chiesto di rimanere a cena. “Sono morta. Sono
stata fulminata mentre ero a letto. Il mio cuore si è fermato. Sono tornata in
vita e ho cominciato a sentirli.”
Adam si gira verso Guardiano per avere conferma della sua sanità
mentale. Ma il profeta barbuto si limita a inarcare le sopracciglia.
Capelvenere picchietta sul questionario con un dito. “Immagino che
adesso abbia la sua risposta. Sulla psicologia dei salvatori del mondo?”
Guardiano le tocca la spalla. “Cos’è più assurdo – il fatto che le piante
parlino, o che gli esseri umani le sentano?”
Adam non ascolta. Si sta sintonizzando proprio con qualcosa che si
nasconde da molto tempo in piena luce. Dice, a nessuno in particolare, “A
volte parlo ad alta voce. A mia sorella. È scomparsa quand’ero piccolo.”
“Bene, d’accordo, allora. Possiamo esaminarla noi?”
Una verità gli si accosta, verità che la sua disciplina non troverà mai. La
stessa consapevolezza ha il sapore della follia, contrapposta ai pensieri del
mondo verde. Adam allunga le mani per ritrovare l’equilibrio e tocca soltanto
un arboscello oscillante. Sorretto sopra la superficie ormai distante quasi fino
al punto di sparire da una creatura che dovrebbe volerlo morto. Il suo cervello
gira vorticosamente. L’albero lo ha drogato. Sta ancora roteando accanto a
una corda dalla larghezza di una pianta rampicante. Fissa lo sguardo sul viso
della donna come se un ultimo, disperato tentativo di interpretazione della
personalità potesse ancora proteggerlo. “Cosa...? Cosa stanno dicendo? Gli
alberi?”
Lei prova a dirglielo.
***
Nel tardo pomeriggio, scorgono Loki a una certa distanza emergere dalla
foresta sventrata, giusto in tempo per riaccompagnare lo psicologo oltre il
blocco di Humboldt. Ma qualcosa nel suo passo arrancante le fa capire che la
missione è cambiata.
“Cosa c’è che non va?” domanda Guardiano.
“Ve lo dico una volta che arrivo lassù.”
Gli fanno spazio nel loro nido affollato. È pallido e ha il respiro affannoso,
ma non per l’arrampicata. “Si tratta di Madre N e di Moses.”
“Li hanno aggrediti ancora?”
“Sono morti.”
Capelvenere lancia un urlo.
“Qualcuno ha bombardato l’ufficio. Si trovavano all’interno a scrivere un
discorso per il Comitato dell’azione forestale. La polizia dice che si sono fatti
saltare in aria con riserve di esplosivi. Accusando il GDV di terrorismo
interno.”
“No,” esclama Capelvenere. “No. Questo no, per favore.”
C’è un lungo silenzio che non è silenzioso. È Guardiano a parlare. “Madre
N, una terrorista! Non mi lasciava nemmeno conficcare dei chiodi in un
albero. Mi diceva, ‘Potrebbe ferire il tizio armato di sega.’”
***
***
A metà strada di lì, dall’altra parte del paese, un’altra donna comincia un
periodo di detenzione completamente sola. L’inondazione nel cervello del
marito finisce per sommergere anche lei. Chiama il 911. Viaggia con lui a
bordo dell’ambulanza nella calda notte. All’ospedale, firma il consenso
consapevole, per quanto abbia perduto per sempre il senso della
consapevolezza. Entra in camera dall’uomo dopo l’operazione. Quello che è
rimasto di Ray Brinkman giace inerte nel letto regolabile. Metà del cranio è
stato rimosso, e il cervello è stato ricoperto da un lembo di cuoio capelluto.
Dei tubicini sbucano dal suo corpo. Ha il viso paralizzato dal terrore.
Nessuno può dire a Dorothy Cazaly Brinkman per quanto tempo potrebbe
rimanere in quello stato. Una settimana. Un altro mezzo secolo. Quelle prime
notti, durante la veglia al pronto soccorso, la sua mente è attraversata da molti
pensieri. Cose terribili. Rimarrà finché lui non si sarà stabilizzato. Dopo di
che, dovrà mettersi in salvo.
Continua a sentire le parole che gli aveva urlato, appena qualche ora prima
che il suo cervello crollasse. È finita, Ray. È finita. La nostra relazione è
finita. Tu non sei una mia responsabilità. Noi due non ci apparteniamo, e non
è mai stato così.
In prigione, con il sonno agitato sulla brandina in alto, Adam vede grandi
sequoie esplodere come razzi sulla piattaforma di lancio. La sua ricerca è
intatta – tutti i preziosi dati del questionario raccolti lungo mesi sono intatti –
lui però non lo è. Ha cominciato a capire alcune cose sulla fede e la legge che
si nascondevano dietro la vastità del buonsenso. La prigione senza chiamata
in giudizio aiuta la sua capacità di visione.
“Ha capito il loro gioco,” gli dice Guardiano. “Non vogliono il costo o la
pubblicità che comporterebbe andare sotto processo. Usano il sistema legale
soltanto per ferirci il più possibile.”
“Non esiste una legge...?”
“Eccome se esiste. Ma loro la stanno infrangendo. Possono tenerci dietro
le sbarre per settantadue ore senza accusa. È successo ieri.”
A Adam viene in mente l’origine della parola radicale. Radix. Wrad.
Radice. Della pianta, del pianeta, del cervello.
Non è reale. Non è altro che teatro, simulazione, finché loro non vedono le
conseguenze.
I giornali pubblicano una fotografia: un pompiere e due guardie forestali
esaminano un escavatore carbonizzato. Cinque persone si passano la foto
attorno al tavolo da pranzo di Mimi Ma. Un pensiero li unisce, segretamente,
come ormai fanno molto spesso i pensieri. Porca puttana. Siamo noi.
Per diverso tempo, non c’è bisogno di parlare. Lo stato d’animo che li
accomuna aleggia come una famiglia di volatili. Ma si assesta in una sfida
passiva. “Abbiamo reso loro pan per focaccia,” dice Mimi. I ventidue punti
sul viso le procurano una fitta a ogni parola. “Siamo pari.”
Adam non riesce a guardarla, e nemmeno Douglas, il suo volto un’altra
maschera tutta bendata. Anche Adam voleva quella vendetta contro
quell’equipaggiamento che ha mezzo accecato uno di loro e deturpato un
altro. La rivincita contro il sadismo degli uomini. Ora non sa quello che vuole
o come ottenerlo.
“In realtà,” dice Nick, “loro sono ancora in vantaggio.”
È un semplice atto dettato dalla disperazione. Ma il bisogno di giustizia è
come la responsabilità o l’amore. Alimentarlo lo rende solo più grande. Due
settimane dopo la rimessa per i macchinari, prendono di mira una segheria
vicino a Solace, California, che continua a essere attiva per mesi nonostante il
permesso revocato pagando la multa con i profitti di una settimana di lavoro.
La donna che sente le voci spiega come bisogna organizzare l’attacco.
L’osservatore addestrato si occupa dell’appostamento. L’ingegnere trasforma
due dozzine di contenitori di latte di plastica in ordigni esplosivi. Il veterano
si occupa della detonazione. Lo psicologo fa in modo che tutti tengano duro. I
micidiali macchinari bruciano meglio di quanto chiunque di loro si
aspettasse. Questa volta lasciano un messaggio scarabocchiato sul lato del
vicino magazzino, risparmiato perché pieno di tronchi innocenti. Le lettere
sono ricercate, quasi barocche:
NO ALL’ECONOMIA SUICIDA
SÌ ALLA CRESCITA VERA
Si siedono tutti ingobbiti attorno al tavolo di Gelso come se stessero per
distribuire una mano di carte. Ormai la filosofia e le altre belle distrazioni non
sono più in grado di aiutarli. Un confine è stato oltrepassato, il lavoro è fatto;
le parole non hanno alcuna importanza. E tuttavia non riescono a smettere di
parlare, sebbene le frasi non siano mai lunghe. Stanno ancora discutendo,
quando la conclusione del loro ragionamento è scomparsa da un pezzo dallo
specchietto retrovisore del loro furgone per le consegne.
Adam guarda i suoi compagni piromani, mentre fa mente locale senza
volerlo. Gelso taglia l’aria al rallentatore. Fa atterrare l’estremità della lama
su un punto preciso del suo palmo aperto. “Mi sento come se fossi stata a un
continuo funerale per due anni.”
“Fin da quando si sono staccati i paraocchi,” concorda il clown bambino.
“Tutte le proteste. Tutte le lettere. Le botte prese. Le urla a pieni polmoni,
senza venire ascoltati.”
“Abbiamo ottenuto più risultati in due giorni che in due anni di sforzi.”
Riuscire a raggiungere dei risultati è qualcosa che Adam non riesce più a
giudicare. Quello che stanno facendo – quello che lui ha fatto – è soltanto
fermare il dolore abbastanza a lungo da riuscire a sopportarlo.
Mimi dice, “Non è più un funerale.”
“Non è una scelta difficile,” dice Nick. La sua voce diventa tranquilla,
colta alla sprovvista dall’agguato del buonsenso. “Distruggiamo una piccola
parte di attrezzature, oppure quelle attrezzature distruggono una grossa parte
di vita.”
Lo psicologo ascolta. Ci sono altri inganni molto più profondi nell’intimo
degli esseri umani. Lui ha legato la propria sorte al bisogno di salvare ciò che
può essere salvato. Bisogna guadagnare un po’ di tempo dall’imminente
apocalisse. Non c’è niente di più importante. La sua tesi ha la sua risposta.
A Olivia basta abbassare il mento perché gli altri si zittiscano. Il suo
potere di stregarli è migliorato a ogni crimine. Ha posato la mano su un ceppo
reciso grande quanto una cappella. Ha guardato morire una foresta più
vecchia della sua specie. Ha accettato consigli da creature più grandi di un
uomo. “Se abbiamo torto, ne pagheremo il prezzo. Non possono prendere più
delle nostre stesse vite. E se invece avessimo ragione?” Abbassa lo sguardo
in un raggio di pensieri. “E tutto quello che è in vita mi dice che abbiamo...”
Nessuno ha bisogno che lei completi il pensiero. Cosa non farebbe una
persona, per aiutare i prodotti più spettacolari di quattro miliardi di anni di
creazione? Nel tempo che impiega Adam a concepire quel pensiero, si rende
conto di qualcos’altro: loro cinque affronteranno una nuova sfida. Un’altra.
Dev’essere l’ultima. E poi prenderanno strade diverse, dopo aver fatto quel
poco che era in loro potere per impedire che la specie si uccidesse.
È lo stesso Adam a scoprire la notizia: “Corpo forestale cerca progetti
multiuso.” Migliaia di acri di terreno demaniale nello stato di Washington,
Idaho, Utah e Colorado ceduti a speculatori e imprenditori privati. Il gruppo
ascolta il servizio in silenzio. Non c’è nemmeno bisogno di mettere la
questione ai voti.
Non ci sono né lettere né e-mail, e quasi nessuna telefonata. Comunicano
direttamente o non comunicano affatto. Vivono pagando in contanti. Niente
viene segnato su un foglio. Gli esperimenti ingegneristici di Gelso diventano
più sofisticati. Comincia la sua opera di gran lunga migliore, corredata di
opuscoli segreti scritti a mano: Le quattro regole dell’incendio doloso.
Appiccare il fuoco con timer elettrici. Il nuovo progetto è più affidabile.
Gelso e Abete di Douglas percorrono fino a ottanta chilometri in auto per
andare a prendere le attrezzature necessarie.
Guardiano e Capelvenere tengono d’occhio uno dei siti appena ceduti –
Stormcastle, in Idaho, sui Monti Bitterroot, vicino al confine con il Montana.
Grosse fette di foresta in ottima salute svendute per far largo all’ennesimo
resort aperto tutte le stagioni. Si mettono in viaggio e visitano l’area del
cantiere di notte, quando il posto è deserto. L’artista disegna tutto – il manto
stradale appena tagliato, le rimesse per l’attrezzatura e le roulotte del cantiere
edile, l’impronta delle nuove fondamenta del resort. All’origine dei suoi
schizzi perfetti c’è sia zelo che umiltà. Quando disegna, quella che aveva
abbandonato gli studi di scienza attuariale vaga per il terreno sgombrato,
percorrendo distanze tra i paletti del cantiere. Inclina la testa mentre ascolta.
Tutti e cinque lavorano nel garage di Gelso, sotto una cappa di esalazioni,
in tenute intere da pittore e guanti. Raccolgono valanghe di secchi di
combustibile da diciannove litri e timer in Tupperware di plastica. Segnano
sulle mappe di Guardiano i punti in cui ogni dispositivo deve essere collocato
per dar vita alla bruciatura più sostenibile. Manderanno quell’ultimo
messaggio e sarà tutto finito. Poi si separeranno, scompariranno nuovamente
nelle loro routine invisibili, dopo aver attirato l’attenzione del paese. Fatto
appello alle coscienze di milioni di persone. Piantato un seme, quello che ha
bisogno del fuoco per aprirsi.
Ci sta tutto nel retro del loro furgone. Quando la porta del garage di Gelso
si alza e loro escono pian piano, è come se fossero diretti verso le montagne
per campeggiare e fare un’escursione. Portano con sé la ricetrasmittente della
polizia. Guanti e passamontagna per tutti. Ognuno di loro è vestito di nero.
Partono dall’Oregon occidentale la mattina presto. Qualsiasi incidente
durante il tragitto lungo l’interstatale basterà a trasformare il furgone in
un’enorme palla di fuoco.
A bordo del camioncino, chiacchierano e guardano il paesaggio.
Attraversano lunghi tratti della foresta fittizia, un panorama che si estende
solo per qualche metro. Doug tira fuori un libro di quiz e interroga gli altri
sulle guerre d’indipendenza e civile. È Adam a vincere. Fanno birdwatching
– rapaci lungo la corsia della statale, teatro della carneficina di piccoli
mammiferi. Dopo due ore, Mimi scorge un’aquila di mare testabianca con
un’apertura alare di oltre due metri. Zittisce tutti quanti.
Ascoltano un audiolibro: miti e leggende dei primi abitanti del Nordovest
pacifico. Il più vecchio tra gli anziani, Kemush, salta fuori dalle ceneri delle
luci del nord e crea ogni cosa. Coyote e Whishpoosh lacerano il paesaggio
durante la loro battaglia epica. Gli animali si riuniscono per rubare il fuoco
dal Pino. E tutti gli spiriti dell’oscurità mutano forma, numerosi e cangianti
come foglie.
Scende la notte sui Monti Bitterroot. Gli ultimi chilometri sono i più duri
– lenti, tortuosi e distanti. Finalmente accostano il furgone nei pressi della
zona di raccolta dei mezzi, a tre chilometri dalla statale. L’area sembra
esattamente come Guardiano l’ha disegnata. Mimi rimane nel furgone, una
sciarpa avvolta intorno al viso deturpato, intenta a scorrere le stazioni radio
con lo scanner della polizia. Gli altri si mettono al lavoro in silenzio. Ogni
compito è stato approfondito dozzine di volte. Si muovono come un’unica
creatura, posizionando a fatica i recipienti di combustibile da cinque galloni
ciascuno e collegandoli con salviette e lenzuola arrotolate a mo’ di stoppini e
imbevute di propellente. Dopo di che attaccano i timer nei Tupperware.
IL CONTROLLO UCCIDE
LA CONNESSIONE GUARISCE
Fa un passo indietro per valutare il germoglio della sua unica certezza.
Con un grosso evidenziatore, impreziosisce le lettere maiuscole con steli e
ramoscelli, finché non sembrano rispuntare di nuovo dall’apocalisse.
Somigliano a geroglifici egiziani, o alle figure danzanti del bestiario dell’op
art. Sotto quelle due righe aggiunge la speranza finale: