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MONFORTANI
ITALIANI
IN MISSIONE
Frammenti di cronaca dalla corrispondenza
dei missionari italiani in missione
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(1972/1980)
A cura
di Santino Epis
Bergamo 2002
1972
Rose e spine del missionario
Il giorno più lungo della sua vita
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d’acqua, mentre io sto a guardia della donna che si dimena in
preda ai dolori. Che debba fare anche da levatrice? Il luogo è
deserto e prima di trovare una capanna bisogna farne di passi.
Aspetta, aspetta: passa mezz’ora, un’ora, due e la levatrice non
compare. Auto dirette a Malosa non se ne vedono. Solo alcuni
camion che vanno verso Ntaja. Incomincio a fermare qualcuno
per mandare qualche messaggio di soccorso a P. Gotti e P.
Maggioni, alla Polizia di Ntaja e a quella benedetta ambulanza
che se n’è andata.
Intanto le ore scorrono. Io vado su e giù, per vedere se
arrivano le due donne. Mi siedo ai margini polverosi della
strada e cerco di recitare qualche posta del Rosario. Ma sì,
anche le Ave Maria non sbucano diritte. L’occhio è sempre là,
sul cassone, al mio ‘Datsum’ fermo sulla strada. Solo qualche
grossa scimmia viene di tanto in tanto a sedersi sulla strada e
passeggia dondolandosi sgangheratamente. Purché non arrivi
qualche cosa d’altro, di quelle non c’è d’aver paura. Se ne
vedono tante che attraversano la strada e fuggono sugli alberi.
Finalmente le due donne ritornano, Ma la loro fatica è stata
inutile. L’acqua messa nel radiatore usciva come una
fontanella. La ventola aveva urtato il radiatore e l’aveva
bucato. Non c’è che da attendere qualche Angelo Custode.
Dopo molto tempo arriva una macchina. La fermo,
carichiamo l’ammalata con le due donne e partono. Ora sono
più leggero e posso attendere fino a notte. Tutt’al più mi annido
in cabina. La notte si avvicina. Finalmente arriva un’altra Land
Rover. Mi faccio trascinare fino a Nsanama, la missione più
vicina. P. Valdameri non c’è e la casa è chiusa. Ho una fame da
lupo...».
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Noi Padri italiani abbiamo già aperto un Centro per la
formazione professionale della gioventù disoccupata. Ogni
anno vi trovano posto 50 giovani e 75 ragazze tra i 16 e i 22
anni, di qualunque razza o religione essi siano, purché poveri e
disoccupati.
Al ‘Centre Culturel’, così si chiama questo Centro, si
impara falegnameria, carpenteria, ebanisteria. Attualmente è in
via d'esperimento anche il ramo di fabbroferraio, stagnino e
saldatore. Le ragazze imparano taglio e cucito, cucina,
lavanderia, rammendo, ricamo, stiro, puericultura e igiene.
Avessimo locali più grandi avremmo molti più giovani. Ora
stiamo acquistando il terreno dove costruiremo un altro
centro...
Per poter prendere contatto con un maggior numero di
persone, visitiamo, sistematicamente, tutte le famiglie e,
all’occasione di un battesimo, cerchiamo il contato con tutti i
membri della famiglia. È così che abbiamo portato a circa un
migliaio il numero dei ragazzi da catechizzare. Anche due
gruppi di adulti e uno di studenti frequentano il catecumenato.
Durante la settimana andiamo nelle scuole statali superiori
dove cerchiamo di discutere dei problemi di carattere religioso
con gli studenti che lo desiderano, cercando di aiutarli a
formarsi una coscienza retta, poiché più tardi saranno essi a
dirigere il paese. Questa, in breve, la nostra vita e i nostri
progetti».
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consigliavano di separarsi, ma loro tenevano duro. Un indovino
aveva dato loro un amuleto a suo parere infallibile! E un giorno
Baoala sentì pulsare qualcosa di nuovo dentro di sé: un figlio!
Boala e Kamisy tornarono dall’indovino; gli offrirono in
omaggio un pollo e chiesero l’oroscopo. “Quello che aspettate
è un evento felice, sentenziò l’indovino, ma vi ricordo che i
gemelli non possono essere allevati: la maledizione degli
antenati distruggerebbe la famiglia; ma questo capita di rado,
state tranquilli”.
Le donne di Morarano si soffermavano spesso accanto alla
capanna di Baoala: si parlava dell’atteso felice evento. Kamisy
prese ogni precauzione per lei. L’erede doveva nascere bene: la
fece quindi entrare all’ospedale per il parto. Dopo una notte di
doglie terribili, allo spuntar del sole, due bei maschietti a turno
riempirono la sala di strilli. L’ostetrica e l’infermiera erano
raggianti di gioia. Baoala, visti i bambini, girò la testa contro la
parete per non vederli: erano i gemelli porta sfortuna! Kamisy
prese il cappello da paglia e ripartì cupo alla volta di Morarano.
La notizia passò di capanna in capanna: tutti erano
sbigottiti. La sera tardi, protetta dalle prime ombre, Baoala
ritornò a casa con i suoi due bambini e si tappò nella capanna
con Kamisy. Si chiedevano più con gli occhi che con le parole,
come farli scomparire. Li guardavano preoccupati, quasi con
terrore: la maledizione degli antenati poteva fulminarli da un
momento all'altro.
Kamisy prese una risoluzione: uscì di notte e a qualche
metro dalla capanna, con una vanga, scavò con precauzione
una buca nella sabbia. Chi mai avrebbe potuto trovare le due
creaturine un metro sotto terra? Nessuno l’avrebbe saputo! La
buca era pronta. Con un colpo di tosse Kamisy avvertì Baoala.
Questa avvolse i gemelli in un pezzo di lenzuolo ed uscì. Uno
dei bambini, troppo schiacciato, incominciò a strillare come
una sveglia in piena notte. Baoala si voltò per vedere se
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qualcuno potesse sentire. Ebbe un brivido trovandosi davanti la
cristiana Romaine che la guardava.
Romaine ruppe il silenzio: “Baoala, dalli a me i gemelli,
saranno miei figli. Nessuno lo saprà. La maledizione degli
antenati cada pure su di me: sono cristiana, Iddio mi aiuterà...”.
Kamisy, con la vanga in mano, tremando, balbettò:
“Portali via, ma che non ritornino più qui, mai più!”.
Romaine prese quel fagotto tiepido e sparì nelle tenebre:
Baoala e Kamisy respirarono profondamente. Romaine non
camminava, ma danzava, lei sposa da dieci anni, senza la gioia
di un figlio: ora di colpo ne aveva due tra le braccia. Le pareva
di avere un tesoro, di essere un’altra, mentre lacrimoni
inarrestabili le bagnavano il viso.
Romaine era povera. Suo marito l’aveva abbandonata da
sei mesi proprio perché non aveva figli, cosa grave per un
malgascio. La povera donna viveva confezionando cestelli e
stuoie di paglia. Anche se il marito era partito, continuava ad
essere una donna seria e religiosa.
Il giorno dopo, Noeline, originaria dell’isola Sainte
Marie, venne a trovarla. Era una sua amica. Dopo una vita
avventurosa con tre mariti, si era fatta catecumena ed era stata
battezzata a Pasqua. Ora viveva sola. Viene a sapere la storia
dei gemelli. “Romaine, dammene uno!”. Romaine la guardò a
lungo, esitò, poi ne prese uno e glielo mise tra le braccia.
Stavano commosse a contemplare le due piccole creature,
quando entrò un uomo: era Laurent, il marito di Romaine. Si
diresse verso la sposa, prese il bambino tra le braccia e disse:
“Questo bambino ora è nostro. Lo alleveremo ed educheremo
insieme!”... e si sedette come se non si fosse mai allontanato da
casa...
La domenica, 13 novembre 1971, un capannello di curiosi
assistevano al Battesimo dei gemelli. Padre Angelo Rota li
inondava di acqua lustrale: i due gemelli, maledetti dagli
antenati, avevano genitori sulla terra ed una Padre in cielo...».
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Gravi danni del ciclone “Eugenie”
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Nella Vigilia Pasquale abbiamo avuto 40 battesimi, 15
matrimoni, 50 Prime Comunioni d’adulti. Fu il risultato di un
lavoro di lenta e approfondita preparazione alla vita cristiana.
Oltre ai giovani provenienti dalla scuole private e di Stato,
c’erano sposati e non sposati. È soprattutto per questi la nostra
gioia, nel vederli decisi ad un impegno definitivo. Liberati
dalle superstizioni e dai tabù della loro religione animista,
responsabili della loro vita coniugale e dell’educazione dei
figli, capaci di riflettere, di dialogare, di dividersi le
responsabilità e prevedere il domani, desiderosi di migliorare la
loro condizione di vita.
Su questi focolari vorremmo fondare le nostre speranze per
una base di un cristianesimo più impegnato; che siano lievito
nei loro quartieri poveri sotto ogni punto.
A titolo di informazione ecco alcuni tabù per le donne
che aspettano un bimbo: non devono bere latte, non ne
avrebbero per allattare; non devono mangiare uova, il nascituro
sarebbe muto; non possono mangiare ananas, il nascituro
avrebbe i capelli crespi; non devono mangiare banane doppie,
nascerebbero gemelli; sopprimere i gemelli, essi farebbero
morire la madre; non guardare l’accetta, il bimbo sarebbe
coperto dalla lebbra o dalle ferite; non strappare erbe, la
placenta uscirebbe subito; non sedersi sulla porta, per il
pericolo di aborto; non preparare i pannolini, sarebbe come
sfidare il destino.
Vi risparmiamo tutto il resto della serie di questi interdetti
per non farvi arricciare il naso, ma vi assicuriamo che la lista
non si ferma a quanto accennato sopra. I focolari cristiani sono
un esempio di amore reciproco, di serenità nella vita a due. La
loro fede diventa una vera testimonianza per i pagani e un
invito ad una vita migliore.
Le spine. Tre mesi fa, tre cicloni ci hanno fatto stare sulle
spine, ed un quarto, nominato ‘Eugenie’, si è scatenato con
tutta la sua rabbia sulla diocesi di Tamatave. La città e tutta la
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costa fino a Brickaville e a Vatomandry, Ilaka, Mahanoro sono
state flagellate in maniera spaventosa. Raffiche di vento,
accompagnate da un vero e proprio diluvio, hanno seminato
panico e distrutto case e raccolti. Il bilancio fu di 96 morti, 112
dispersi, 7000 senza tetto, 20 ponti distrutti. Anche la
maggioranza delle cappelle sussidiarie della brughiera
abbattute. I danni più gravi però si riscontrano nei raccolti: il
75% è andato perduto. Qui nella nostra parrocchia ci furono
200 capanne distrutte o danneggiate.
Abbiamo organizzato i comitati di soccorso tra i cristiani e
abbiamo potuto distribuire 100.000 franchi, del riso e qualche
quintale di vestiti...».
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dormire. Sento il bisogno di mettere sul bianco quanto ho in
cuore, sfidando le dolorose punzecchiature delle insolenti
zanzare, indesiderate compagne in questa torrida notte africana.
Oggi, per ben due volte mi sono trovato con gli occhi pieni
di lacrime... Mi ero assentato dalla missione per sette giorni, in
visita alle cristianità più lontane. Ieri sera, ritornando a casa
verso le 20, mentre canticchiavo un noto motivo di Celentano:
«Ciao, amici, ciao!», ho trovato Emery, una ragazza madre,
sulle rive dei Rivi Rivi, il fiume che taglia in due la missione di
Utale. Conosco molto bene lei e la sua bambina: non mancava
giorno infatti che non venisse alla missione a chiedermi
qualcosa. Poverissima e abbandonata dal suo promesso sposo
mi ero impegnato a procurare quanto le necessitava per non
esporla alla tentazione di vedere il suo giovane corpo venduto
per un pugno di farina o per un vestitino...
Le chiedo: “Dove vai a quest'ora, Emery?”. “Padre, torno
dal dispensario. Geltrude sta molto male. Da alcuni giorni
soffre terribili attacchi di malaria...”.
Questa mattina, mi vedo arrivare il catechista: “Padre, la
figlia di Emery è morta questa notte”. “Cosa, è morta?”. Corro
al villaggio. Trovo la capanna attorniata da donne in pianto. La
piccola è adagiata sulla nuda terra coperta con uno straccetto
unto e bisunto. La scopro. Contemplo in silenzio quel faccino
senza vita. Sembrava dormisse.
Geltrude era un bambina di una bellezza incomparabile.
Non ho saputo trattenere le lacrime. Mi sono poi avvicinato
alla madre, in preda alla disperazione... Non vi dico quello che
ho sofferto, cosa ho provato. Mi sono sforzato di balbettare una
parola di conforto. Ho pregato a lungo per quella povera
donna...
Ma ancora non mi so rassegnare di non vedere più quella
bambina che a Natale avevo vestita di nuovo con quanto mia
mamma mi aveva spedito da Padova, di non poterla più
stringere tra le braccia, di osservare divertito l’illuminarsi dei
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suoi occhietti dinanzi ad una zolletta di zucchero. “Si poteva
salvare”: è il martellante ritornello che mi tormenta.
Forse sono troppo esigente con me stesso e con gli altri,
ma non ho saputo gioire quando, dopo il funerale della piccola
Geltrude, si presenta alla porta un’altra mamma con una
gallina: “Padre, questo è quanto ti posso offrire perché ora il
mio bambino sta bene”. Era una delle tante che avevo aiutato.
È la vita di qui: dove si arriva in tempo si salva, quando
invece le circostanze non lo permettono è la morte. Ditemi voi:
c’è o non c’è motivo d’essere tristi?».
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Per lo scavo di questo pozzo occorrebbe la somma di un
milione e mezzo. Presento a voi questa occasione di compiere
un’opera di misericordia: dare da bere agli assetati; ognuno può
concorrere nella misura delle proprie possibilità. Il Signore
saprà ricompensare con abbondanti benedizioni...».
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della Nazione sono mobilitate per preparare un Congresso
Nazionale nel quale si rifaranno le basi di una nuova
Costituzione per una vita politica, economica e culturale più
giusta e adatta all’isola.
I mesi di agosto e settembre saranno decisivi per
l’avvenire del Madagascar. Noi missionari lavoriamo e ci
auguriamo che questo rinnovamento di vita politica e sociale si
realizzi nell’ordine e possa stabilire più giustizia per i ceti più
poveri. Lavoriamo perché un vincolo più fraterno possa unire
le 18 tribù, formando una sola famiglia, un solo popolo, nel
grande regno di Cristo».
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Potete immaginare la nostra gioia quando li vediamo
riprendersi. A volte si è tentati di pensare ad un miracolo. Basta
qualche cura appropriata e soprattutto del cibo.
Accanto a questi... miracolati, ci sono i casi disperati. In un
passato recente, in 48 ore sono partiti per il cielo 10 bambini
tra i 4 a 10 anni. Queste morti precoci potrebbero essere evitate
se i genitori fossero più previdenti e invece di consultare un
indovino o uno stregone, chiamassero il medico, e disponessero
del minimo necessario per nutrirli convenientemente. Di fronte
a questi casi rimango sempre pensierosa e col cuore straziato.
Un bambino di due anni pesa solo quattro chili: il peso di
un neonato. Casi come questo potrei citarvene molti dato che
tanta è anche la miseria in cui vive la nostra gente.
Voi, care mamme, che non lasciate mancare nulla ai vostri
bambini, fate benissimo, è un vostro dovere. Pensate però
anche a tante vostre sorelle malgasce. Amano i loro bambini
come tutte le mamme del mondo, ma quale pena per esse non
poter dare nemmeno il necessario alle coro creature...».
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del viso dei bimbi, dei loro grandi occhi, del loro sorriso bianco
sul viso nero...
Mi trovo nella stessa comunità delle due Suore italiane:
Suor Clelia e Suor Ernestina. Con loro lavoro nell’Ospedale
Principale di Tamatave. Un lavoro intenso, dal ritmo incalzante
per il gran numero dei malati, in genere gravi, che arrivano nei
nostri servizi. Un lavoro difficile perché troppe cose necessarie
mancano o scarseggiano, come medicinali e persino... il cibo.
Un lavoro delicato oggi, data la situazione politica che non
vede troppo favorevolmente la presenza di stranieri su tutta la
faccia dell’Isola. Un lavoro, però che dà, in cambio, la gioia
autentica, gioia insperata, perché è pur sempre vero che, se
anche mancano tante cose spesso indispensabili, c’è il cuore
che ama e che cerca di supplire con la comprensione, la
tenerezza, la dedizione.
Amo molto i miei malati ed essi lo sanno molto bene
ormai; ad essi regalo le mie giornate, dal mattino alla sera. Fra
loro mi sento a mio agio, anche se la lingua malgascia è tanto
difficile ed io so comporre soltanto piccoli frasi.... Ma non è
questo ciò che conta: qualche parola malgascia, un sorriso, una
parola francese, un gesto...dicono ugualmente tanto e la
cordialità è instaurata! La mia gioia è piena quando constato
che anche loro sono contenti di avermi nel servizio e che mi
considerano una di loro...
Al sabato pomeriggio, un po’ più libera dal servizio in
ospedale, mi reco ad Ampalalana, a pochi chilometri di qui, il
villaggio del miei sogni, vale a dire il villaggio dei lebbrosi.
Una quarantina di capanne, miserrime, addossate le une alle
altre, prive assolutamente di igiene, situate sulla riva del mare,
ove forma un’ansa naturale incantevole...
Là vivono un centinaio di persone, tra adulti e bambini: i
primi malati o ex malati che portano i segni della loro lebbra
nelle membra senza mani e senza piedi, nel viso senza naso o
senza orecchie; i secondi che rischiano ad ogni istante di
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ammalare, perché il contagio è inevitabile e le risorse fisiche
troppo scarse per combatterlo.
Sono radunati là, reietti, rifiutati dai loro villaggi, ove
pure hanno tentato di tornare. Raccolte le loro misere cose, se
ne sono andati per sempre, in quel luogo di pace anche se
intriso di tristezza. Poiché per ora non mi è concesso di andare
là a curare quei poveri esseri pieni di piaghe sanguinolenti e
fetide, mi limito ad andare a portare loro qualcosa da mangiare,
grazie all’aiuto dei miei cari amici italiani. Non vi dico la gioia
dei bimbi quando mi vedono arrivare al villaggio. Ormai essi
sanno l’ora e si siedono sull’erba, all’ingresso del villaggio.
Quando scorgono la nostra vecchia ‘Renault’ cominciano ad
urlare di gioia: è questo il segno e.... Tutti escono dai loro
miseri tuguri, camminando sui monconi, sulle ginocchia,
perché i piedi non ci sono più e vengono a stringermi la mano,
offrendomi i loro monconi, felici di constatare che la Suora
bianca non esita a stringerli forte, con affetto!
Non posso descrivervi, perché ne sono davvero incapace,
la gioia dei bimbi, dipinta sui loro poveri visini, che addentano
il pane fresco: pare mangino le torte deliziose o i pasticcini dei
bimbi italiani! Potrò continuare ad offrire loro almeno questo?
Spero tanto di sì, perché sarebbe troppo triste deluderli.
Confido nella Provvidenza che dimostra evidentemente di
gradire quanto faccio per quei poveri infelici...».
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mentre si allontanano nel buio. Mi abbandono ai miei pensieri
ora e rimango solo con la mia pipa. Signore, cosa ne sarà del
nostro piccolo Malawi circondato dal grande Mozambico in
ebollizione?...».
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1973
Nuova fondazione in India
Intervista a Mons. A. Assolari
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l’operazione agricola di aratura del campi piantati a riso e a
cotone, mettervi un centro di assistenza medica e costruirvi 5
scuole. Se avessimo personale, sacerdoti cioè, potremmo
aprirvi una seconda missione tra i maomettani che qui
raggiungono il 99% della popolazione.
Non vorremmo fermarci qui. Per il fatto che siamo
costretti ad affrontare alcuni progetti molto impegnativi, non è
che possiamo dimenticare le altre missioni: un po’ ovunque ci
sarebbero scuole da costruire. A Namalaka, a Kapire, a
Namandanje e a Nsanama ci stanno le residenze da fare; chiese
centrali devono essere costruite a Ulongwe, Nsanama,
Namandanje e Namwera. Ci sono un paio di posti nuovi di
prossima apertura. Sta pure maturando un grosso progetto che
interesserà le missioni di Mpiri, Balaka e Namandanje.
Non pretendiamo di essere migliori degli altri: posso dire
però che i missionari italiani della Prefettura Apostolica di
Mangochi lavorano con grande entusiasmo e gioia...».
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si estenda ai giovani e alle ragazze, e che aiuti a creare delle
famiglie veramente cristiane.
Qui a Utale abbiamo cercato di agire in questa direzione.
Abbiamo fatto varie riunioni nei villaggi. Ma il problema più
importante era di trovare della gente in gamba che potesse
dirigere questi dibattiti, gente decisa e sveglia che, conoscendo
a fondo la mentalità africana e le sue tradizioni, potesse dire
una parola chiara su ciò che del passato si può seguire e ciò che
si deve tralasciare, nonché su ciò che di nuovo bisogna
introdurre nella famiglia africana perché possa adattarsi alle
nuove esigenze e alla nuova situazione sociale.
E di gente in gamba ne abbiamo trovata parecchia. Tra
questi fa spicco una maestra, Janet, che si è mostrata subito
entusiasta di simile lavoro. Alle riunioni dirette da lei le donne
se ne stanno là sedute per terra anche quattro ore di fila e non
vorrebbero mai smettere di ascoltare e di fare domande. Lo
stesso succede quando Janet dirige un dibattito con le ragazze.
Ha un modo di parlare che convince anche i più... sordi. Ma è
ancor più interessante quando cerca di convincere le donne
anziane preposte alla iniziazione delle ragazze.
Queste vecchie educatrici, anche se cattoliche, ricorrono
spesso a riti superstiziosi e a insegnamenti che contrastano con
l’igiene e la morale. Ora il desiderio di Janet è di convincerle a
lasciare spontaneamente certe pratiche per introdurne altre
dettate dalla medicina moderna e dall’igiene.
Ma anche Janet aveva un suo problema personale da
risolvere. Un giorno, dopo una delle solite brillanti conferenze
mi confidò che non si sentiva la coscienza a posto. “Vede,
padre - mi disse - io continuo a dare dei buoni consigli su come
formare o far continuare un’unione familiare felice, ma se le
mie ascoltatrici mi domandassero come va la mia famiglia,
dovrei rispondere loro che è un disastro perché io e mio marito,
pur avendo messo al mondo tre figli, siamo praticamente
separati già da parecchi anni”. E poi mi raccontò del suo
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matrimonio con un bravo giovane della polizia, dell’amore che
regnava nella sua casa, del suo lavoro di maestra, nella scuola
della missione.
Tutto filava d’amore e d’accordo quando in giorno
s’accorse che il suo uomo usava i soldi dello stipendio che lei
gli consegnava per pagare un’altra donna. Lui ormai c’era
dentro fino al collo, quell’altra aspettava un figlio. Janet accusò
il colpo. Non essendo un tipo facile al compromesso, si ribellò,
lui, forse, tentò anche si disfarsi di lei con il veleno, e lei
ritornò dai suoi genitori portando con sé il figlio...».
In mezzo ai maomettani
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formazione professionale accelerata per ragazze ed i giovanotti
disoccupati di Tamatave.
Ora sta sorgendo una nuova opera nel quartiere più lontano
della parrocchia e della città. P. Angelo Rota, con un martello
in una mano e un metro nell’altra, protetto da un capellone di
giunchi, dirige i lavori. Sarà un centro di promozione per la
zona depressa della periferia di questo porto di Tamatave.
Presto inizieremo corsi di religione, igiene, cucito, taglio,
bucato, artigianato ed alfabetizzazione. Un lavoro di contatto e
coscentizzazione è in corso da un anno tra la gente della zona.
Un gruppo di cosiddetti notabili, presi tra pagani e
cristiani, ne saranno i responsabili; devono essere loro i primi
ad interessarsi alla promozione dei loro fratelli. La zona è
talmente povera che non ve ne sono di simili. Eloquente il
nome stesso della zona: ‘Ambalakisoa’ (porcili!). Noi evitiamo
questo nome e che sostituiamo con quello di ‘Morarano’, cioè :
‘Acqua che sorge facilmente’. Vuol essere un augurio e un
programma per questa zona povera, arida e sporca.
Vorremmo che la dignità di queste persone, spesso
intristite nei loro tuguri, possa sbocciare e fiorire per tutti senza
eccezione, particolarmente per i più diseredati..
Gli aiuti raccolti da P. Carlo Berton durante le sue ultime
vacanze, e i doni giunti sotto ogni forma a P. Angelo Rota qui
sul posto, ci permettono di dare una forte spinta in avanti a
questo lavoro di promozione umana e cristiana.
Noi ci consideriamo un po’ come i vostri intendenti;
trasmettiamo ai poveri i vostri aiuti. Non avendo nulla di
personale, diamo le nostre persone in dono e siamo felici di
questa consacrazione. Siamo convinti che la nostra vita è spesa
bene, utilmente.
Le nostre gioie più grandi sono i cambiamenti, le
trasformazioni, i miglioramenti di questa popolazione sia sul
piano materiale che spirituale. Rinnoviamo la nostra
riconoscenza, poiché siete voi che ci permettete di dare una
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speranza a chi è sfiduciato e un sorriso a chi piange: un giorno
chissà, comprenderemo più chiaramente la loro dignità di Figli
di Dio...».
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cristianesimo nei dintorni della missione di Balaka e, inoltre,
per una manifestazione pubblica di devozione alla Madonna in
un ambiente dove i Protestanti sono piuttosto numerosi e che,
fatta eccezione degli anglicani, rifiutano di onorarla quale
Madre di Dio e Madre nostra.
Lo scopo, credo, sia stato raggiunto. Per l’occasione
aumentarono coloro che di giorno in giorno venivano a dare il
proprio nome per iscriversi e iniziare il tirocinio di due anni di
catecumenato, tra questi vi erano protestanti, pagani e
musulmani. Non mancarono naturalmente opposizioni. Si
passava da un villaggio all’altro, da una capanna all’altra,
cantando e recitando la Corona e portando processionalmente
una statuetta della Madonna.
Alla capanna dove si giungeva il missionario teneva un
fervorino adatto all’occasione e tutti insieme si pregava per le
varie necessità spirituali della Chiesa. Il missionario faceva
ritorno alla missione, mentre i cristiani, dopo cena, ritornavano
a riprendere la veglia notturna, innalzando preghiere e canti in
onore della Madonna, sotto la direzione di un catechista e di un
legionario.
Tutto sembrava correre liscio, fino a quando non si giunse
al villaggio Mponda, che prende il nome del capo villaggio.
Questi va su tutte le furie e lancia imprecazioni contro i
cristiani, la Chiesa Cattolica e in modo particolare contro la
Madonna. E diceva: “Ma chi è questa Madonna? No! Nel mio
villaggio non voglio che si faccia questo! Qui si veglia la notte
in canti solo quando muore una persona, non per altro!”.
I cristiani, anche se con il cuore ferito, non conservano
rancore, si sottomettono, sospendono ogni canto e si limitano a
pregare per il loro capo villaggio. Dopo un anno Mponda si
ammala. Viene immediatamente trasportato all’ospedale, ma è
subito dimesso. Il medico si dichiara incapace di curare la sua
malattia e lo consiglia di tentare l’ultima carta, recandosi da
uno stregone del villaggio. Anche qui niente da fare.
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Ora è lì nella sua capanna, circondato da parenti e amici,
che lotta tra la vita e la morte. Tra i numerosi familiari, uno
solo è cattolico, è un lebbroso, suo fratello. È lui che una
domenica, dopo aver ricevuto l’Eucaristia e terminata la Messa,
mi si avvicina e con supplichevole mi dice: “Padre, fa qualcosa
per questo fratello; quanto desidererei che ricevesse il
Battesimo!”.
Eccomi dal capo villaggio. Dopo averlo incoraggiato mi
accomiato da lui, assicurando il mio ricordo personale al
Signore e quello dei cristiani. Mi ringrazia della visita e quindi
ritorno alla missione.
Il giorno seguente, preparo tutto il necessario per la S.
Messa e parto per i villaggi. Dopo una settimana di girovagare
ecco un po’ di quiete. Accendo la radio, cercando di captare le
onde italiane per seguire le partite di calcio. Improvvisamente
sento bussare e chiamare alla porta. Era il fratello di Mponda,
quel lebbroso, il quale, senza troppi arzigogoli e con un tono di
voce che faceva trasparire un senso di tristezza frammista a
gioia, mi dice: “Vieni, presto, Padre; mio fratello si è aggravato
e vuol ricevere il Battesimo!”.
Eccomi accanto al moribondo che mi accoglie con queste
parole: “Padre, ho paura, sento che la mia fine è prossima; non
so cosa mi aspetta nell’aldilà; anch’io voglio essere
battezzato... Chiedo perdono degli insulti e oltraggi nei riguardi
della vostra Chiesa e della Madonna”.
Il giorno dopo, Samuele passava a miglior vita. Da
bestemmiatore a figlio di Dio e della Madonna...».
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dovere d’inviare una riga, essendo la sorella maggiore. Noi tre
siamo impiegate all’Ospedale Maggiore di Tamatave. Ognuna
di noi, per motivi professionali, ha la responsabilità di un
padiglione: aiutiamo gli ammalati e formiamo gli infermieri e
le infermiere: lavoro delicato, ma nello stesso tempo missione
importante.
Tuttavia non ci limitiamo solo al lavoro in ospedale:
ognuna di noi adempie un’altra missione presso altre categorie
di persone. Personalmente mi occupo dei carcerati: uomini e
donne ed anche minorenni. Insegno loro ad occupare il tempo,
organizzando corsi di cucito per le donne e corsi di lavori
artigianali per gli uomini. Ogni settimana porto dei panieri di
vettovagliamento. Questo mi permette d’avere un dialogo
interessante con i guardiani e con i carcerati.
Suor Clelia, invece, si occupa degli orfani nella parrocchia
affidata ai Missionari Italiani. La consorella ama i piccoli in
modo particolare. Quando tiene un bambino in braccio ha un
sorriso tanto aperto che anche le mamme anziane e sdentate
scoppiano in risate clamorose.
Suor Alessandra, invece, è l’ultima arrivata. Sprizzante di
energie e di iniziative, come un giovane puledro appena uscito
dalla scuderia, si consacra ai lebbrosi. Sogna di consacrarsi
unicamente al ‘Villaggio dei lebbrosi’ di Ampangalana».
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interessante e divertente che mi ha fatto capire un pochino con
quali tipi di “nuovi profeti” abbiamo a che fare...
Mi esonero di riportarvi l’intera conversazione e le mie
critiche, essendo talmente evidenti e facili che anche un
bambino avrebbe risposto a puntino. È solo un esempio
illuminante ed eloquente delle difficoltà che incontriamo nel
nostro lavoro apostolico. Un dialogo sereno, sincero e
rispettoso è molto difficile tra questo caos di Sette vecchie e
nuove. Incontrasi, discutere per porre in comune i valori reali
della fede è cosa ardua quando alla base c’è ignoranza,
settarismo e orgoglio.
Leggo con interesse sulle riviste il dialogo ecumenico a
livello internazionale e fa piacere lo sforzo d’intesa e di fiducia
reciproca. Ma come coordinare un lavoro serio alla base
quando mancano i presupposti per una ricerca della verità?
Quando ogni nostro minimo sforzo di buona volontà viene
interpretato come un cedimento e viene additato dai fratelli
delle chiese motivo di vittoria che mettono scompiglio e
imbarazzo nei nostri fedeli?
Passerò come un retrogrado, un ecumenista di serie C, ma
qui, per i motivi riportati all’inizio, è necessaria sì carità e
comprensione, ma nello stesso tempo fermezza, chiarezza di
idee, una certa prudenza nei rapporti coi fratelli dissidenti, una
intransigenza di fondo su certe verità di fede e di morale. Non
dimenticate che siamo in prima linea, esposti a tiri secchi e
pepati di chi di ecumenismo non ne hai mai sentito parlare.
Ogni imprudente e indiscriminato contatto possono mettere a
dura prova la fede dei neofiti già seriamente impegnati e
preoccupati di liberarsi definitivamente degli ‘dei falsi e
bugiardi’.
Con questo non pensiate che qui si facciano ‘guerre sante’.
Non, per carità! E chi più ci crede alle guerre sante? Il nostro è
un atteggiamento fermo, forte e serio di legittima difesa che
deve offrire sicurezza e serenità ai nostri cristiani, in attesa di
38
tempi migliori, e cioè di una maggior coscentizzazione del
problema ecumenico da parte della base... separata...».
39
Solo le foto possono rendere evidente la situazione di
questa cintura di miseria che assedia la città di Tamatave. Ma
la presenza sul posto dice ancor meglio l’odore nauseabondo di
questi tuguri in cui la gente si pigia in una promiscuità tale da
rendere impossibile un minimo di intimità familiare.
In questa zona intristisce la dignità dell’uomo e si sviluppa
la delinquenza, la prostituzione e la criminalità. Capanne,
capannucce di foglie di paglia, sbilenche e spesso sventrate,
disseminate un po’ in tutti i sensi, con viottoli stretti. Neanche
la polizia osa mettere i piedi di notte: nel buio la zona pare un
vero dedalo. P. Angelo ed io abbiamo visitato tante baracche,
parlato con questa gente, all’inizio tanto difficile, ma ora più
aperta.
Abbiamo potuto scoprire la situazione in cui la gente vive
e le piaghe che la colpiscono: ignoranza, analfabetismo,
superstizione, malnutrizione... Ritrovandoci insieme sul passo
di Matteo: “E Gesù era triste vedendo la folla soffrire,
abbandonata come un gregge senza pastore” pensavamo che il
Cristo aveva preso sulla sua persona le pene ed i dolori dei più
diseredati.
L’apertura di un centro sociale per la promozione della
zona depressa sta lentamente realizzandosi. Ma quello che ci
interessa di più è la promozione delle persone che vi abitano;
solo essi saranno gli artefici del loro sviluppo.
La nostra preoccupazione è la formazione di laici
impegnati: laici sia cristiani, sia pagani animisti di buona
volontà. Gli anziani e notabili dei vari gruppi etnici della zona
ricevono la nostra visita. Ci considerano i loro amici. Insieme
esaminiamo la possibilità di coscentizzare la massa paralizzata
dall’apatia e dal fatalismo...
La zona sta cambiando. La gente l’aveva battezzata una
volta col nome di ‘Porcili’, ora la chiamiamo ‘Morarano’
(l’acqua che sgorga). Acqua di purificazione per fare riscoprire
40
ad ogni abitante della zona depressa il viso risplendente di Figli
di Dio!».
41
questi fratelli africani tanto aperti al vangelo quanto semplici e
poveri.
Una prima impressione è quella di essere capitato in un
continente completamente diverso dal nostro per mentalità e
costumi. Si ha l’impressione di ritornare bambini, quando
ancora non si sa parlare e ancora non si conoscono il perché e il
significato di tanti modi di fare degli adulti. Proprio come un
bambino, senza lingua e senza esperienza, ho incominciato a
balbettare le prime parole di chichewa, a formulare le prime
frasi e i primi discorsetti. Di consolante c’è che nessuno ti ride
in faccia o fa il minimo cenno di disgusto anche se tiri fuori i
più grossi strafalcioni.
Pian piano, e magari a proprie spese, si prende
dimestichezza con i costumi e le abitudini del posto. Non molto
tempo fa stavo portando l’Eucaristia ad un ammalato quando
per strada incontro una donna che al mio arrivo si ritira sul
ciglio della strada e si china profondamente quasi a scomparire
in mezzo all’erba mentre con una mano si batte le cosce.
Pensando che le fosse successo qualcosa mi avvicino per
soccorrerla, ma la donna stava più bene che mai. Con quel
gesto, come mi spiegò poi, il nero che mi accompagnava,
voleva solo porgermi il suo saluto nel modo più gentile e
rispettoso.
Il primo lavoro di un missionario, giunto fresco in Africa,
deve essere quello di mettersi ad imparare. Deve quasi
dimenticare di essere europeo per amalgamarsi il più possibile
con la nuova civiltà con la quale deve vivere . Penso che
l’efficacia del nostro apostolato in terra di missione dipenda
molto dalla riuscita o no di questo processo di
africanizzazione.
Mi meravigliava la frase che il mio vescovo mi disse
appena giunto in Malawi: “Per almeno due anni stai zitto! Ma
apri molto occhi e orecchi”. Ora trovo che il consiglio è saggio.
In questo senso vorrei dire che i primi mesi di Africa sono
42
abbastanza duri. Ci si sente come un pesce fuor d’acqua.
Conosci ben poco, anche se è venuto dall’Europa con diplomi e
licenze. Non è che lo studio assimilato in Europa non serva;
deve essere riveduto in chiave africana. Ciò crea un certo
imbarazzo iniziale.
Col passare dei mesi ci si accorge che il passaggio avviene
in modo sereno e s’incomincia a sentirsi quasi a proprio agio.
Quello che veramente ti dà la spinta definitiva in questo sforzo
di assimilazione al nero è l’esempio e l’esperienza dei vecchi
missionari, i quali, parlo di quei pochi che ho conosciuto, si
sono veramente africanizzati, e lavorano per lo sviluppo
spirituale e materiale del nero con una dedizione e con un
entusiasmo sorprendente.
Lo stridente contrasto tra lo strabenessere dei nostri paesi
europei con la povertà dei paesi africani mi è apparso fin dagli
inizi in tutta la sua drammaticità. Non voglio dire che questa
gente manchi del cibo. No! In un modo o nell’altro riescono
sempre a strappare dal suolo qualcosa per sfamarsi. Il problema
più scottante si pone in termini sociali: necessità di scuole per
dare a tutti la possibilità di un minimo d’istruzione. Necessità
di ospedali per strappare alla morte prematura tanta gente,
soprattutto bambini. Necessità di creare centri sociali per
insegnare e spingere tutti a cercare un modo di vivere più
igienico e più umano. Sono convinto che l’annuncio del
Vangelo non vada disgiunto da una buona formazione umana».
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accontentarsi di un mattone. L’importante è ascoltare la materia
e imparare.
Mentre i piccoli studiano, gli adulti, con sacrifici enormi,
mattone per mattone, stanno preparando la casa per i loro figli
perché loro probabilmente non riusciranno a goderla e nello
stesso tempo cercano una soluzione per tutti gli altri problemi
più urgenti: manca l’acqua, l’elettricità, le fognature ecc..
L’igiene in queste condizioni è impossibile; le malattie
infettive dilagano rapidamente, soprattutto tra i bambini che
sono i più esposti.
Con tutto questo è difficile incontrare una persona triste.
Sembra che la sofferenza, il sacrificio non intacchino l’intimo
di questa gente semplice e sempre allegra. Fa proprio pensare a
quel re che cercava la camicia dell’uomo felice: incontrò
l’uomo felice, però era senza camicia.
Ma forse questo popolo è felice perché vive con una
grande speranza in un futuro migliore, speranza in una vita
migliore, speranza che Cristo non può dimenticare il grido dei
poveri, speranza che alla fine il sole, simbolo dell’impero
incaico, risorgerà vincitore delle tenebre».
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tua giovinezza si avvia al meriggio. È un progetto che covavi
da anni. Lo sai bene tu qual è il tuo nord.
Sarai uomo del progresso, costruttore, medico agronomo,
psicologo, un dilettante insomma, come si richiede dove i
bisogni sono tanti e scarse le braccia. Ma soprattutto
troveranno in te l’uomo della Parola e del Pane di vita, e il
gesto fedele del pescatore di uomini. È il mio augurio.
Arrivederci!».
46
ripensamento da parte di tutta la comunità ecclesiale poiché in
nome e in forza di questa egli è stato inviato, mandato.
È noto a tutti la tragica situazione in cui versano in
particolare molti paesi dell’Africa occidentale a causa della
siccità. “Brucia il cuore dell’Africa”, è stato scritto con
un’immagine suggestiva ma nel contempo allucinante, se si
riflette agli innumerevoli drammi, privati e pubblici, che si
sono scatenati in questo angolo sfortunato di mondo.
Secondo alcuni calcoli, pubblicati di recente, in Africa le
persone ridotte alla fame ammontano a circa due milioni.
Senegal, Mauritania, Malì, Alto Volta, Niger e Nigeria, Etiopia
e Ciad lottano contro la sete e la fame. Questi paesi, soprattutto
nei giorni scorsi, erano all’attenzione di tutti gli uomini
sensibili all’immane tragedia africana. C’è stato pure un
appello dei vescovi italiani per un intervento straordinario della
Caritas a favore delle nazioni colpite dalla siccità.
Tanti amici hanno tratto un respiro di sollievo non
vedendoci inclusi nell’elenco offerto all’opinione pubblica
internazionale. In verità il Malawi (Africa Centrale) è stato
colpito solo in parte da questa calamità, il che fa capire che ci
sono vaste zone che si battono con gli stessi problemi
dell’Occidente Africano. Tra queste zone colpite c’è la
missione di Nankwali dove attualmente mi trovo.
Le mancate piogge hanno bruciato tutti i raccolti di
granoturco, di arachidi e di chinangua. La gente vive disperata.
Le scorte sono esaurite. Giovani e uomini in massa emigrano in
Sudafrica o in Rodesia, altri cercano la fortuna in città. Le
donne, i vecchi, gli ammalati e i bambini sono in balia di una
fame che fa paura. È un pellegrinare continuo alla missione con
la speranza di trovare un pugno di grano duro. “Njala, bambo!
Njala, bambo!”. “Fame, padre! Fame, padre!”…È il triste
ritornello sulla bocca dal più piccolo al più grande.
Quello che fa impressione è notare come la gente
normalmente abulica, pigra, indolente, negata per natura ad
47
ogni iniziativa e al lavoro, gente che vive ordinariamente
abbandonandosi ciecamente al corso benigno delle stagioni,
sembri improvvisamente riscoprire una dignità e un orgoglio
sconosciuti. Quel pugno di grano non lo vogliono
gratuitamente ma chiedono di lavorare. P. Pagani ed io stiamo
scervellandoci per trovare modo di occuparli, di offrire loro la
possibilità di guadagnarsi poche lire.
In piena foresta di scelte ce ne sono poche, credetemi!
Tuttavia ci siamo dati da fare. Abbiamo organizzato una
squadra per la costruzione di mattoni. Un’altra a disboscare
alcuni ettari di foresta, un’altra a sistemare le strade. Lanciata
l’idea che ci occorrevano delle canne e dell’erba per sistemare
alcune capanne, in un baleno ci siamo trovati con una
montagna di roba che non sappiamo neppure noi che farcene.
Mi viene voglia di ridere al solo pensarci, ma in realtà c’è da
piangere. Che abbiamo risolto? Sì, abbiamo procurato a molti il
denaro necessario, ma abbiamo anche esaurito le riserve che
tanti amici ci avevano in passato inviato per alcune opere in
progetto. Ed ora, che facciamo?
In attesa del nuovo raccolto, piogge permettendo, il
prossimo ottobre, novembre, dicembre, gennaio, febbraio,
marzo e aprile sono mesi che dobbiamo vivere con in gola il
problema terribile di trovare qualcosa per affrontare la carestia.
Per un certo orgoglio personale non ho mai avuto il coraggio di
chiedere direttamente aiuti attraverso queste pagine, ma ora per
forza maggiore e per amore di tanti nostri fratelli in serie
difficoltà, sono costretto ad invitarvi ad aiutarli..».
49
Prime notizie dall'India
51
Lui: Cristo. Quel Gesù che porteremo sarà anche per l’India un
potente mezzo di elevazione economica e civile; specialmente
sarà per questo popolo il Salvatore e Redentore che lo strapperà
dall’errore lo eleverà, al più presto, ad essere faro di luce
cristiana al mondo contemporaneo».
55
la creazione e il culto nei suoi riguardi è un simbolo del rispetto
che l’uomo deve avere per tutte le creature di Dio».
56
1974
Un alternarsi di buone e cattive notizie
La prima religiosa monfortana del Perù
57
ricordano ne parlano come di un’anima santa e di generosità
eroica.
Nel 1933 si apriva a Bogotà una casa per aspiranti
monfortane e Suor Rosa ne fu nominata Maestra. Ogni anno da
Bogotà le Suore dovevano scendere a Villavicencio per unirsi
alle Consorelle nei Santi Esercizi. Un viaggio che allora
prendeva tre giorni affrontando rischi mortali. E proprio di uno
di questi rischi rimase vittima Suor Rosa di Lima.
Ecco come le cronache del tempo narrano la tragedia. “Era
il 9 gennaio 1936. Da Bogotà due Suore prendono il bus: Luisa
del Buon Pastore e Rosa di Lima. Arrivando al ponte di
Caqueza il bus cozza e salta sopra un macigno. L’autista dà
uno scossone al volante, però inutilmente: l’automezzo rotola
per una dozzina di metri e cade nel fiume. Suor Luisa si
aggrappa al sedile che le sta davanti e chiude gli occhi; per
alcuni istanti si sente affogare nell’acqua, poi esce a respirare
perché il bus continuando nella caduta fa emergere la parte
anteriore. Suor Rosa di Lima invece resta schiacciata dallo
sportello che si è spalancato nella caduta. Un uomo caritatevole
riesce a liberarla, ma la povera sorella ha lo sterno e le costole
frantumate e in pochi minuti esala l’ultimo respiro”.
Nella cappella cimiteriale di Choachi, Fratel Abilio ed io
abbiamo pregato davanti alla tomba di questo primo fiore
monfortano del Perù: con la sua Patrona, Santa Rosa, ottenga
grazie per un fecondo apostolato nella sua terra.
I lettori sono già informati dell’altra primizia monfortana,
Fratel Abilio. Un piccolo compendio del Perù: colore della
pelle tendente al bruno come la razza incaica; nato nella
Capitale, Lima, da genitori della Selva andina; cresciuto sui
monti in una zona chiamata la Svizzera del Perù. Ci ha fatto
persuasi che il Perù può dare alla Chiesa, anche oggi che si
parla tanto di crisi, ottime vocazioni, come diede al mondo nel
passato quelle due perle di santità che rispondono al nome di
58
Santa Rosa di Lima e San Martino de Porres. Basta cercarle e
coltivarle».
I Guru-God dell’India
59
Un altro uomo-Dio che ho visitato nella sua residenza a
Bombay è Shri Satya sai. Di lui si raccontano cose strabilianti.
Si dice che fin da ragazzo abbia fatto molti “miracoli”: fiori
trasformati in diamanti, pietre convertite in cibo, guarigioni
ecc.. Migliaia di devoti lo seguono tuttora convinti che solo
incontrarsi con il suo sguardo tutti i peccati vengono rimessi.
Di se stesso dice: “Perché temete quando io sono qui. Voi
guardate me, io guardo voi e tutti i vostri peccati sono
perdonati, io porterò le vostre pene, lasciate con me tutti i
vostri dolori...”.
Che pensare di questi uomini-Dio? Un fatto è certo, sono
tutti ricchissimi: suntuosissimi palazzi con aria condizionata,
lussuose Rolls Royces, perfino elicotteri personali per
trasferirsi da una città all’altra. I discepoli, come regola,
devono offrire al loro Guru il proprio corpo, la propria mente e
tutto il proprio denaro. Non fu certo questo il modi di agire di
Gesù Cristo!».
60
Giovane il Continente, giovani la maggior parte degli
abitanti. La media della vita umana in molti di questi territori
raggiunge appena i 40 anni. Popoli giovani. A Lima questa
qualifica ha sostituito quell’altra che suonava un po’
ignominiosa: Barriadas o città di miseria.
Chiunque entra in uno di questi miserabili conglomerati
umani nota subito che la massa degli abitanti è in gran parte
costituita da bambini e da giovani. In un senso ancora più vero
e pieno di quello della Cornelia, madre dei Gracchi i gioielli,
gli unici, delle famiglie peruviane, sono i figliuoli.
Ai nostri occhi si presenta un arcobaleno di colori e di
razze. Il Perù, specialmente il Perù dei poveri, è un crogiuolo
per la fusione delle stirpi che popolano il mondo. Abbiamo sì i
colori allo stato puro, gli immigrati della prima generazione:
bianchi, neri, gialli, olivastri, ma poi tutte le sfumature che
possono risultare dalla fusione di questi colori. Chi volesse fare
pratica di antropologia non avrebbe che venire in uno di questi
popoli giovani del Perù.
Con i creoli, nati da genitori spagnoli stabilitisi in questa
terra degli Incas, vi sono i meticci, nati dal matrimonio di un
bianco con una india e viceversa; vi sono i zambi, nati
dall’unione di una persona nera con una india; vi sono i mulatti
figli di bianchi e neri; vi sono i cholos che vanno dai
quarteroni, nati da un genitore mulatto e da un bianco, agli
otturoni nei quali solo un’ottava parte deriva da un ascendente
di un colore senza miscuglio.
Quel che è interessante dal punto di vista umano e
cristiano è che tutte queste categorie vivono fianco a fianco
senza difficoltà. Non vi è la minima ombra di apartheid. Le
lenti che ho visto adoperare in certi parti dell’Africa per
guardare il colore della pelle di un bambino per accettarlo o
meno in una scuola, qui in Perù non servirebbero.
E gli stranieri? Ci chiamano i gringos. Lo pronunciano con
rispetto, quasi un titolo di nobiltà. Si sono dimenticati
61
completamente di quel senso di astio e di rigetto con il quale la
parola è nata in Messico. Lì non volevano i soldati statunitensi,
in divisa verde scesi per imporre la dominazione dello Zio Sam
e perciò dicevano: Gree, go! Verde, vattene!
Per noi italiani i Peruviani hanno una parola tutta
particolare: siamo i bachiches. Non si sa il significato
particolare di questa parola. Ma alla maniera con cui ce lo
dicono si può indovinare un senso di affettuosa familiarità».
62
coraggio nell’affrontare i cambi necessari, e una visione chiara
delle prospettive che si aprono. Noi cercheremo di dare il
nostro apporto umano e cristiano».
Informano anche che i Monfortani hanno fondato una
nuova missione ad Huanuco. Regione e diocesi fa le più
bisognose di assistenza spirituale, dato il numero molto ridotto
di sacerdoti.
La regione ricopre un territorio di circa 35.000 kmq. e si
estende dalle Cordigliere Andine di Huayhuash e di Raura, la
cui vetta più elevata è il monte Yerupajà (6.634 m), fino
all’immensa selva amazzonica. La popolazione è di 400.000
abitanti, disseminati in tutta la regione. Piccoli paesi sperduti.
Strade accidentate.
La nuova missione si trova nella vallata dell’Huallanga, a
2.000 metri di altitudine, tra le Ande e la Selva.
È affidata dal 1° gennaio 1974 ai Padri Monfortani, una
parrocchia che comprende la nuova urbanizzazione delle città,
creatasi dall’afflusso degli indios in cerca di lavoro. Si sta
costruendo la Chiesa. Ci sono già le pareti, manca il tetto, la
pavimentazione e le rifiniture. La casa parrocchiale non c’è. Si
vivrà in una casetta presa in affitto.
Nei piccoli paesi circostanti sorgono delle cappelle
abbandonate in tutti i sensi: bisognerà aggiustarle o meglio
rifarle. Qui ci ha chiamati la Provvidenza di Dio nella quale
speriamo...».
64
Il programma che abbiamo davanti è abbastanza affollato e
pesante. Dopo la casa del Padre, dovremmo iniziare la
costruzione dell’ospedale, con le casette del personale, le
cucine e qualche salone per i degenti. Ma non finisce qui.
Il problema che ci assilla di più fin d’ora è quello del
pozzo. Non abbiamo una sorgente, né un pozzo. Per fornire
l’acqua ai muratori le donne dei nostri villaggi devono
sobbarcarsi ad una vera fatica, per andare ad attingere acqua in
una pozzanghera scavata nel letto di un fiume secco ad un
miglio di distanza. E devono portare tutto con secchi, sulla
testa. Quando poi l’ospedale sarà pronto l’acqua diventerà
ancor più necessaria. Ma speriamo sempre nella Provvidenza,
nella benevola assistenza di Papa Giovanni e di quanti
vogliono onorare il grande Papa buono, aiutando a costruirsi la
sua missione».
65
Perché perfino i sacerdoti musulmani ti consultano, ti
venerano e ti amano? Forse perché sei un ospite straordinario
che ha portato oro e argento? No! Credo che tutto sia un
risultato della tua testimonianza evangelica. Ti sei fatto uno di
loro, é la tua vita condivisa totalmente con la loro. È la tua
testimonianza di povertà totale che sa “farsi tutto a tutto”
secondo l’espressione di San Paolo.
A Namalaka ha cambiato qualcosa soprattutto la tua carità,
la tua sensibilità e la tua carica umana, virtù vivificante del tuo
amore per Cristo. Come Lui non sopporti di vedere un nero
soffrire ed è per questo che hai messo tutto a loro disposizione:
tempo, denaro, auto, vita. I tuoi neri hanno capito che li ami, li
stimi, li consideri.
In fondo la soluzione di tutti i loro problemi sta proprio
qui: un po’ di amore e un po’ di calore umano. Ti fai amare per
le tue buone parole, per il tuo contatto semplice e spontaneo
con la gente, ma, soprattutto, ripeto, per la tua carità che è tanto
grande che a volte ci preoccupa perché ti trascuri e ti
dimentichi. Mi piace tanto ricordarti quanto mi diceva un tuo
maomettano una settimana fa: “Padre Duca è un bianco di pelle
ma il suo cuore è nero quanto il nostro!”.
Sei sulla strada buona. È stato scritto che il missionario
deve scendere per risalire, incarnarsi per convertire, perdersi
per salvare, adattarsi per evangelizzare Tu questo lo stai
realizzando con la tua testimonianza.
Ti ho visto ultimamente un po’ abbattuto perché i
catecumeni non aumentano. P. Duca, tieni duro, sii fiducioso:
la conversione è opera di Dio, lo sappiamo. Tu hai seminato
abbondantemente. Arriverà pure il tempo della mietitura. Non
sappiamo se tu avrai la gioia di raccogliere ma siamo certi che
si mieterà: Lui ce l’ha promesso! Qualcosa ho potuto notare
ultimamente in occasione del primo funerale cristiano del tuo
primo ragazzo battezzato lo scorso anno, morto per un banale
incidente. Avevi tutta Namalaka musulmana presente al rito
66
funebre. Ricordo che le tue toccanti parole di circostanza sono
state spezzate da un singhiozzo di dolore che ha scosso tutta
l’assemblea e qualcuno ha mormorato: “Guarda un po’ come si
amano i cristiani”. Sono parole queste che conosciamo e che ci
ricordano il lento e sofferto nascere della prima Chiesa. Parole
di speranza anche per te che ti invitano a guardare il futuro con
fiducia e serenità...».
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preparazione dei matrimoni, dei battesimi e si occupano della
catechesi degli adolescenti. Nostro dovere è dare loro una
solida formazione...».
70
solo il Signore che mi mantenga sempre questa gioia e con
questo entusiasmo.
Solo tre giorni dopo il mio arrivo, i Padri di Tamatave
hanno voluto farmi provare le prime gioie missionarie, così mi
hanno fatto amministrare i battesimi: più di venti. Ero piuttosto
emozionato, ma, con in mano il mio foglietto con la formula in
malgascio, me la sono sbrigata non troppo male. Ho lavato per
bene quelle teste dalla pelle un po’ più scura della mia,
pregando il Signore di inondarli della sua grazia e anche
ringraziandolo perché finalmente potevo realizzare quello che
pensavo da tanti anni.
Ora vado a scuola ad Ambositra, una cittadina
dell’altopiano, a più di 1300 metri di altezza. Nel Madagascar
tutti i nomi hanno un significato: Ambositra deriva il suo da
una piccola operazione che subivano i prigionieri di guerra, i
quali diventavano, di conseguenza, degli ottimi custodi di
harem. Vado a scuola per imparare la lingua. Beh, se è
relativamente facile leggerla, il parlarla è piuttosto difficile,
anzi, mi dicono ci vorrà qualche anno per sbrigarmela
correntemente.
Nel frattempo mi do da fare per conoscere anche gli usi e i
costumi di questa gente. Già dalla fine di novembre ho
cominciato ad uscire nelle chiese dei dintorni di Ambositra, per
celebrare la Messa, in malgascio naturalmente.
I primi cristiani che hanno partecipato alla mia Messa
devono aver avuta molta pazienza e soprattutto devono essersi
fatte delle grasse risate nell’ascoltare i miei strafalcioni. Ma
non hanno lasciato trasparire nulla e alla fine, quanto ho
chiesto se avevo letto bene, ho avuto come risposta un coro di
sì. Ma non mi sono fatto eccessive illusioni, perché già in
precedenza mi avevano detto che difficilmente un malgascio ti
dice che hai sbagliato.
In chiesa tutti pregano e soprattutto cantano in modo
formidabile, dai più piccoli ai più grandi. Questa è stata una
71
delle cose che fin dall’inizio mi hanno lasciato a bocca aperta:
non c’è occasione in cui il malgascio non canti e, senza che
nessuno insegni loro la musica, formano dei bellissimi cori.
Ma il più interessante dal punto di vista spettacolare,
avviene dopo la Messa: tutta la gente si raduna nel cortile della
chiesa, in cerchio, e tu devi stare in mezzo, sorbirti un
discorsetto di ringraziamento, accettare un’offerta e stringere la
mano a tutti. Ho detto accettare un’offerta: questo potrà fare
arricciare il naso a più di uno. È successo lo stesso anche a me
la prima volta e mi si continua a stringere il cuore ogni volta
che ricevo qualcosa. Ma bisogna accettare altrimenti ne restano
gravemente offesi e poi si sentono molto onorati se si accettano
le loro cose.
Dato che vado a scuola, di tanto in tanto ho diritto anche
alle vacanze. Così ho potuto trascorrere la Pasqua sulla costa
est, nella diocesi di Tamatave, che sarà poi anche il mio campo
di lavoro. Ho celebrato la Messa in tre villaggi diversi. Per
fortuna sono collegati tra di loro da una specie di strada e con
l’automobile non è stato difficile arrivarci. Due dei villaggi si
trovano proprio in riva all’oceano, solo che non si può fare il
bagno: ci sono i pescecani. Ma la natura è stata previdente: a
poche decine di metri ci sono dei bellissimi laghetti dove si può
sguazzare liberamente. Faceva un gran caldo quel giorno e
quelli che mi conoscono possono ben immaginare quanto ho
potuto sudare.
I cristiani mi hanno offerto il pranzo: riso bollito senza sale
e qualche pesce. Per fortuna avevano comperato una bottiglia
di vino. Mi sono fatto la siesta sotto le palme con il pericolo di
prendermi in testa una noce di cocco e con l’oceano che
rumoreggiava ad una decina di metri. Poi via verso un altro
villaggio dove ho celebrato la mia terza Messa.
Qui volevano tenermi per la cena e per trascorrevi la notte,
ma ho saputo essere all’altezza della situazione: l’idea di
mangiare ancora riso bollito non mi seduceva affatto...Ho
72
ascoltato gli argomenti della pancia che brontolava e con una
bella scusa tutta fiorita, ho lasciato i cristiani con a promessa di
ritornare presto.
Così sono tornato a casa, con un po’ di fame e soprattutto
con una grande gioia: nessuno mi conosceva, ma tutti mi
avevano accolto molto bene, contenti soprattutto di poter
celebrare l’Eucaristia il giorno di Pasqua. E la loro gioia
l’avevano comunicata anche a me.
La vita, certo, non è facile qui, ma basta sapersi adattare e
prenderla per il verso giusto e diventa bella, molto bella. E poi
la certezza che Cristo ci è vicino, aiuta a vivere ancora meglio e
soprattutto ad amare del suo amore questa gente così diversa da
noi. Intanto la vita continua. Andrò a scuola fino a settembre e
poi sarò completamente disponibile per il lavoro...».
75
Non riuscirai mai a capire la mentalità africana
78
speranza. La mamma smette di urlare e intravedo sul suo volto
un qualcosa di umanamente indefinibile. Mentre l’infermiera
continua disperatamente a prodigarsi al caso, riprendo a tutta
velocità la via del ritorno. Una preghiera profonda elevo a Dio.
Odo un lamento sommesso. Forse...Ancora un breve tratto...
Mi sento felice, ma per pochi istanti, perché mi sento dire:
“Fermati, Padre. È inutile continuare”. Il cuore ha ceduto. Mi
trovo con gli occhi pieni di pianto: speravo in un miracolo ma
forse la mia fede è ancora troppo debole per meritare tanto.
Namalaka, Namkwali, Utale: sono la stessa cosa.
Cambiano i volti, ma le sofferenze, i dolori, i problemi sono
sempre gli stessi. Voglia Dio accettare questa nuova e difficile
prova di impotenze e di debolezza in cambio di quell’amore e
di quella dedizione che questi nuovi fratelli attendono da me».
79
«Abbiamo un assistente medico, un’infermiera,
un’ostetrica e una insegnante domestica. Sono tutti indigeni,
regolarmente pagati dalla missione. Lavorano molto bene.
Quando sono arrivato la mortalità infantile nei primi mesi
arrivava anche al 65%. Ora difficilmente vanno al Creatore.
Abbiamo iniziato una campagna di cure preventive:
vaccini contro il morbillo, vaiolo, poliomielite, ipertosse,
malaria. Ogni bambino ha la sua cartella e ogni mese viene
regolarmente controllato. I bambini denutriti vengono tenuti
alla missione per alcune settimane insieme alle mamme: si cura
il bambino e nel frattempo si insegna alla madre come e con
quali materie nutrire il figlio. Diventa una vera scuola di
puericultura».
83
Anivorano: una missione bella, grande e promettente.
Conoscendola da tanti anni, non nascondo di aver avuto un
attimo di sbigottimento. Una chiesa a tre navate... tetto da
rifare, i pipistrelli da... sloggiare.
La casa dei Padri, crollata da qualche anno, è sempre in
attesa di essere rimessa in piedi. Una scuola che minaccia
continuamente di mettersi in ginocchio. Non parlo poi dei
problemi del centro. Tutto un programma di lavoro per braccia
numerose e robuste! Dopotutto sono anche un po’ lusingato. Il
Vescovo ha ancora fiducia negli anziani... E i giovani
missionari quando arriveranno? Noi aspettiamo sempre. Intanto
io torno laggiù, nella speranza di continuare un lavoro che poi
altri perfezioneranno...».
84
1975
Fervore di iniziative sociali
Un bilancio di nove anni di missione
85
missionario: non so quando durerà la convivenza con nostro
Signore e se Lui sarà contento del suo coinquilino. Poi vorrei
realizzare un pozzo per l’acqua, il salone parrocchiale, due case
per i maestri, qualche scuola in cemento per le succursali e
poi...».
87
Leggendo quotidianamente alcuni giornali locali sono
rimasto particolarmente sensibilizzato da un grosso problema
che colpisce il bambino indiano: la malnutrizione. Quasi un
milione di bambini muore in India ogni anno a causa di questa
severa malattia. La nazione conta 85 milioni di bambini sotto
l’età dei cinque anni, di cui l’82% vive in zone rurali, e 280
milioni di bambini sotto i quindici. L’80% di questi bambini
sono malnutriti e sono colpiti da uno sviluppo somatico
inadeguato o da nanismo.
Povertà e malnutrizione sono strettamente correlative.
Secondo un rapporto dell'ONU il 30% della popolazione
guadagna meno di 225 rupie l’anno, pari a circa 19.000 lire.
Anche se spendono il 90% delle entrate per il cibo, tuttavia non
possono permettersi un pasto completo al giorno per se stessi e
per i loro figli...
In ultima analisi possiamo dire che sarà possibile una
soddisfacente alimentazione per i milioni di bambini indiani
solo elevando lo stato economico della popolazione;
migliorando il livello di alfabetizzazione; educando i genitori
ad una corretta alimentazione; sforzandosi di elevare la
produzione al ritmo di crescita della popolazione;
propagandando la necessità di una pianificazione familiare.
E noi missionari non dobbiamo aspettare troppo. Il Cristo
non ha licenziato neanche momentaneamente le sue folle,
perché si arrangiassero a trovarsi da mangiare, ma ha dato un
esempio di grande sollecitudine con la potente e immediata
carità. E noi speriamo vivamente di poter continuare il suo
esempio, soprattutto se sostenuti da un numero sempre
maggiore di benefattori».
92
disdetta: dopo tanto diluvio, non una goccia d’acqua per lavare,
pulire e cucinare.
Terminato il primo atto del dramma incominciava il
secondo, forse il più duro. Giornate di ansia e di attesa. Molte
famiglie vivevano di banane acerbe fatte bollire. Ringraziando
il cielo, vennero poi i primi soccorsi: un chilo di riso per
famiglia. Era qualcosa, ma bisognava aspettare ore ed ore,
facendo una coda interminabile.
Si passò poi ad una giornata di lavoro per ripulire il grande
canale che attraversa Anivorano. Tutti apprezzarono il mio
gesto, ma non mi permisero di entrare nel canale. Il
commerciante cinese, anche lui prese parte, come tutti gli altri
al lavoro. Il suo coraggio fu ricompensato con la scoperta di
una grosso serpente commestibile secondo loro. Lo
prendemmo un po’ in giro, ma lui era troppo contento per
ascoltare le nostre riflessioni. Tre sere dopo me lo vedo
arrivare con una bella marmitta di zuppa cinese, molto
ricercata... Gliene fummo molto grati e l’apprezzammo come si
meritava.
All’indomani, passando da casa sua, aveva già pronta la
battuta: “Era buona la zuppa di ser...?!!!”. Un sorriso illuminò
tutto il suo volto. Era contento. Mi aveva fatto mangiare il
serpente del canale. E non sono né morto né ammalato, anzi
non avendo subito nessun danno ne guadagnò la mia perfetta
forma che mi dà il coraggio di riprendere il lavoro di
ricostruzione che prevedo lungo a duro».
94
Sta per passare un mese ormai e molto granoturco è già
destinato a seccare. Nella speranza che la pioggia non faccia
scherzi troppo lunghi si seminano patate dolci.
Una donna, che dicono preveda il futuro, interpellata da
molti capi villaggio, dà questa risposta: la pioggia tarda a
venire a causa dei vostri peccati, però verrà e a lungo. E la
pioggia venne, il giorno prima delle Ceneri.
Ora molti sperano che tutto il granoturco riprenda, ma
purtroppo molto continua la sua caduta; una buona metà
almeno, secca definitivamente. La fame vera e propria non ci
sarà, ma per alcuni sarà dura...
L’anno scorso del granoturco se ne raccolse molto, ma la
tentazione di venderlo per un po’ di denaro, senza pensare che
si doveva tirare aventi per un anno superò il buon senso. Così
già ora ci sono delle famiglie che devono fare i salti mortali,
razionando per un pranzo al giorno...».
96
si è fatto per loro e poi la promessa del ricordo nella preghiera.
Ho saputo che in ogni chiesa venne celebrata un S. Messa per
la mia guarigione e per il mio apostolato...».
97
Alla domanda: “Perché accusano di essere comunisti quelli
che mettono in pratica l’insegnamento sociale della Chiesa”, P.
Mario precisa:
«C’è il pericolo di essere strumentalizzati politicamente: è
un rischio che si deve correre, per costruire la vera umanità. Si
vuole lavorare per una politica di liberazione umana,
indipendentemente dalle sollecitazioni di destra o di sinistra,
dal basso a dall’alto. Persone come Helder Camara o Camillo
Torres qui sono ammirati e come loro dobbiamo avere un
dialogo di amore che non porti alla rassegnazione...».
I negritos di Huanuco
99
gruppo: un ragazzo vestito da vecchio con la barba lunga e la
schiena rigonfia con una grossa gobba; è il buffone ufficiale.
Dalla chiesa escono e per ore ed ore percorrono in lungo e
in largo la città. Chi li organizza? Persone di Huànuco, come
un atto di devozione al Bambino Gesù. Queste persone si
sdebitano con i componenti la squadra di ‘Negritos’ fornendo
loro il necessario per mascherarsi e danno loro un pasto
abbondante. Altri omaggi per lo stomaco gli attori ricevono
nelle soste davanti alla case.
La mia impressione è che non commettano eccessi nel
bere. Forse perché sono dei ragazzi nei quali il richiamo
atavico dell’alcool non si è fatto ancora sentire. Questi ragazzi
non hanno altre occupazioni.
Gennaio è il primo mese della grandi vacanze dalla scuola.
Il clima in quella cittadina della Ande è primaverile. È dunque
una vera fortuna per i ‘Negritos’ entrare in uno di questi gruppi
dove possono mangiare a sazietà e divertirsi, salvando nello
stesso tempo il senso religioso della stagione: il culto al
Bambino Gesù».
100
per la città si distinguono subito dal resto della massa per la
caratteristica divisa che portano.
È su questi studenti che vorrei attirare la vostra attenzione.
Studiano a Balaka ma la stragrande maggioranza non sono di
Balaka; provengono dai più lontani villaggi. Una volta giunti in
città debbono cercarsi un posto per dormire e arrangiarsi per
mangiare, visto che la scuola non si cura di loro che durante le
lezioni.
Assolvere a questi due bisogni primari dell’esistenza non è
eccessivamente difficile per loro che sanno adattarsi un po’ a
tutto e possono sempre trovare alloggio presso i cittadini di
Balaka. Il vero problema è un altro: come occupare il tempo
libero.
Dopo la scuola che termina alle due del pomeriggio li
vedete girovagare per la città sfaccendati; li trovate al mercato,
alla stazione, alcuni frequentano posti ambigui, altri sono
coinvolti in risse e chi ha due soldi può anche ubriacarsi.
Sempre perché l’ozio è il padre dei vizi. Risultato: la
bocciatura agli esami e nei casi più gravi l’espulsione dalla
scuola con conseguenze tragiche per loro e per le loro famiglie.
Io vivo in mezzo a questi giovani, parlo molto con loro.
Sono ragazzi fondamentalmente buoni come tutti i ragazzi di
questo mondo. Solo le occasioni li distraggono e li
distruggono.
Questo problema del come occupare il “dopo scuola” è
all’ordine del giorno ed è stato oggetto di discussione in una
riunione plenaria fatta con loro. Una soluzione positiva trovata
insieme: creare un ambiente comune cui far capo dopo le ore
della scuola. Di più l’ambiente comporterebbe una biblioteca,
una sala per lo studio e una sala ricreativa.
Il progetto è stato accolto con applausi da tutta l’assemblea
studentesca, ma all’applauso è seguito un momento di silenzio
che mi è sembrato un’eternità: tutti gli occhi erano su di me; ho
avuto l’impressione di essere sotto processo: “Chi farà tutto
101
questo?”. Nell’eternità di quel silenzio ho pensato ai giovani
impegnati per gli aiuti al Terzo Mondo, a chi può fare qualcosa
e non fa nulla, così non mi sono sentito più sotto accusa...
Sciogliendo l’assemblea dissi ai miei studenti:
“Ragazzi, dobbiamo aspettare. La Provvidenza ci aiuterà”. Così
essi aspettano ed io pure aspetto...».
103
qui dentro in attesa di giudizio, mentre i maschi se la spassano
lassù al villaggio. Vecchie storie umane...
I loro vestiti sono quelli che avevano addosso al momento
dell’arresto. In un angolo però vediamo che qualcuna delle
carcerate sta manovrando attorno ad una “Singer”. Suor
Ernestina dà qualche consiglio tecnico. Al momento del
commiato non mancano di chiederci scampoli e lana.
Promettiamo di darci da fare anche per loro.
Ed eccoci tra gli adulti. Sono circa 400 ci dice il
maresciallo. Non ne potremo prendere uno in più. Affidiamo
gli altri alle succursali dei Distretti circostanti, ma anche là
hanno grossi problemi per i posti.
I locali delle prigioni di Tamatave sono tutti uguali.
Stanzoni immensi con le solite impalcature letto: tavolacci e
sacconi sui lati. Dappertutto la pulizia è visibile. Brava Suor
Ernestina! In ogni reparto c’è il solito gruppo di artigiani che
incollano fibre di rafia, conchiglie, fiorellini e altro nell’intento
di trarne qualcosa di originale. I turisti ne vanno pazzi quando
li trovano sulle bancherelle della città. Suor Ernestina può così
riempire le sue sporte e arricchire il magrissimo menù che è di
solito a base di manioca bollita. Una pagnotta e un po’ di
pietanza la suora riesce sempre a racimolarla in contraccambio
dell’artigianato.
Di padiglione in padiglione siamo ritornati alla Direzione.
Ripetiamo le promesse fatte. Davvero ci daremo da fare per
loro. Saranno magari cattivi, ma ci hanno commosso...».
P. Mario Belotti ringrazia per gli aiuti che gli sono giunti
dall’Italia a favore dei lebbrosi dell’India.
«...In questi giorni ci è giunta la notizia della vostra
sensibile, pronta e generosa risposta all’appello dei poveri in
India. Vi promettiamo che il vostro contributo sarà presto
104
tradotto in opere concrete a beneficio dei più bisognosi,
specialmente dei lebbrosi di Bangalore.
Ogni volta che li visitiamo nelle loro baracche, ogni volta
che distribuiamo loro medicinali, ogni volta che fasciamo loro
le piaghe, essi benedicono e glorificano il nostro Dio. È questo
un primo passo importante per poter poi annunciare loro nei
dettagli il messaggio di liberazione cristiana...
L’aiuto prezioso che riceviamo ha una dimensione
direttamente missionaria. Vestendo, nutrendo e curando il
bisognoso, voi date a noi l’occasione di annunciare il Cristo
che si manifesta sempre nei più piccoli...».
105
tranne una casetta nelle adiacenze della residenza del
missionario, non s’è visto un mattone...
Quando sono giunto a Kankao ho trovato tutto da fare e sto
ancora arrabattandomi per risolvere il problema. Qui in Malawi
non è cosa semplice creare un’opera di beneficenza in favore
degli handicappati. Qui, tutti gli handicappati, dai ciechi ai
poliomielitici, sono sotto la protezione di un’Associazione
governativa, la quale, per ogni eventualità, esige garanzie e
soprattutto un piano ben definito. E poiché finora le mie risorse
non sono tali da poter sognare un progetto in grado d’essere
approvato su in alto, ecco che mi trovo un po’ in panne, o
meglio, poiché la speranza è sempre viva, sono in stato di
speranzosa attesa.
Le speranze sembrano cresciute in questi ultimi tempi, in
quanto, se è vero ciò che si dice negli ambienti clericali di
Mangochi, fra poco dovrebbe arrivare a Kankao un giovane
missionario, minuto di persona, ma pieno di intelligenza,
attività e con una gran voglia di lavorare. Per cui il sottoscritto
ha tutte le chances che il suo vicario dia una mano, anzi due, in
maniera che una delle sue possa trovarsi libera di dedicarsi ad
altre cose. Per esempio: ai nostri ragazzi poliomielitici. Lo
spero fermamente e prego Papa Giovanni che non si fa mai
pregare due volte, che metta una buona parola presso il Buon
Dio...
Parliamo un po’ di loro. Una volta al mese li riuniamo alla
missione, dove trovano tanti amici e coetanei che li
intrattengono e li fanno divertire. A tale scopo mettiamo a
disposizione il salone parrocchiale, con due piccole biciclette e
un numero imprecisato di bambole, tutte cose che riempiono il
mondo dei bambini e li tengono allegri per un po’ di tempo. In
seguito speriamo di rinforzare il nostro parco di auto e
biciclette, nonché il nostro harem di bambole...».
106
1976
Arrivano nelle missioni i visitatori
107
Gli alunni superano ora i trecento. Chiedevo un giorno a
degli spilungoni della prima classe: "”La scuola è qui da anni,
dove eravate?”. “Non si veniva perché ci dicevano: la vi
battezzano e vi fanno mangiare il porco”...
E non è finita a Chipoka... Altrove ci fu il calvario di
Maometto. Ordine del Governo: tutti gli indiani o lasciare il
paese o ritirarsi nei quattro centri loro permessi. A Mangochi
non resterà un solo indiano. Loro hanno sempre tenuto lo
zampino negli affari di Chipoka; ora partono e i cristiani ridono
sotto i baffi. Fanno bene? Fanno male? Ad ognuno
giudicare...».
108
certi adulti e giovani ci fa pensare ai primi capitoli degli Atti
degli Apostoli.
Infanzia. I ragazzi tra i 6 e i 15 anni hanno un programma
catechistico vario ed adatto all’età. I ragazzi sono suddivisi nei
tre Centri parrocchiali. Questa massa è inquadrata da 75
maestri catechisti: padri e madri di famiglia, ma in
maggioranza studenti del liceo. Noi missionari non ci
occupiamo che dei catechisti: sessioni di formazione teologico
biblica e metodologia dell’insegnamento. Procuriamo loro:
quaderni, registri, lavagnette, gesso, libri di testo, Bibbia,
posters della LDC, ed una volta al mese si passano delle
filmine della San Paolo Film.
Noi stessi siamo meravigliati dello zelo di questi
Catechisti che oltre a dare corsi, cercano di visitare le famiglie
dei ragazzi per vederne le ripercussioni nella loro vita. E i frutti
si sono visti: 40 Matrimoni, 60 Battesimi di adulti, 156
Battesimi di adolescenti, 300 Prime Comunioni.
Naturalmente non sono queste cifre che ci abbagliano:
quello che ci incoraggia sono le trasformazioni di vita, di
comportamento. Aumentano l’amore reciproco, la
comprensione, la responsabilità, il senso di dedizione e
servizio.
Comitato dei laici responsabili della Comunità
Ecclesiale. L’abbiamo costituito, ora lavoriamo per migliorarlo
e formarlo all’apostolato. Questo comitato riunisce i 10
quartieri in cui abbiamo suddiviso ed inquadrato la parrocchia.
I Responsabili dell’animazione del settore: visite ai poveri,
accoglienza agli immigrati dalla brughiera, sostegno ai
Catecumeni, preparazione ai battesimi. Un gruppo di uomini,
confermati dal Vescovo, Mons. Rasafindrazaka, porta
l’Eucaristia agli ammalati, preparano i morenti ad una morte
cristiana, dirigono le vegli mortuarie che qui hanno
un’importanza straordinaria, distribuiscono gli aiuti di prima
necessità ai diseredati.
109
Il Comitato Parrocchiale gestisce le finanze di quanto
raccolgono sul posto: doni, elemosine, offerte varie, collette,
spettacoli. Perché lo facciamo fare a loro? Non vi nascondiamo
che noi missionari siamo in una situazione di emergenza; per
varie ragioni si può essere indotti a dover partire. Non
possiamo dire: dopo di noi il diluvio! Dopo di noi desideriamo
una comunità responsabile ed autosufficiente nei vari aspetti:
catechistico, liturgico, economico.
Opere di promozione umana. Gesù non ha solo parlato,
ha condiviso il pane con i poveri, ha vibrato con il cuore delle
folle. Noi due, P. Angelo e P. Carlo, dirigiamo ora la maggiore
parte delle opere di sviluppo della città. Il ‘Centre Sartoriale’
per madri di famiglia, a Morarano: più di cento donne; adulte e
giovani spose seguono i corsi di economia domestica e di
sartoria, dirette da una suora malgascia e da cinque sarte.
Queste donne ringraziano i benefattori italiani che hanno dato a
P. Angelo 5 macchine da cucire “Singer” con scampoli e filo. I
corsi prendono più efficienza ed il numero delle apprendiste
aumenta: ne uscirà un vero laboratorio d’apprendistato e di
produzione.
Corsi di falegnameria, carpenteria e di fabbroferraio al
‘Centre Culturel et Social’. Quest’anno si è celebrato il decimo
anniversario di fondazione.
Entrando in questo centro si possono vedere 40 giovanotti
che segano, piallano, inchiodano, manovrando scalpelli,
sgorbie, succhielli, menarole, gattucci, graffietti, misurando
con attenzione degna di tecnici professionisti. Il mese scorso
abbiamo avuto in dono una sega a nastro. Vorremmo
completare l’attrezzatura della nostra scuola artigianale con una
piallatrice. Siamo alla ricerca di tale strumento e di... eventuali
benefattori che ci aiutino a pagarla!».
110
Ricordi e impressioni di un viaggio in Perù
112
«In India non abbiamo una casa monfortana. Siamo ospiti
di un grande seminario carmelitano a Bangalore. Lì abbiamo in
affitto un appartamento. Ci sono nove seminaristi che
desiderano essere monfortani; sono delle regioni del Sud,
studiano inglese e spiritualità monfortana. Con loro c’è P.
Mario Belotti che lavora con la ‘Legio Mariae’, in parrocchia e
in una zona di lebbrosi. P. Attilio Corna fa comunità con loro
ed insegna mariologia nel seminario diocesano. Dovremmo
acquistare il terreno per costruire una casa nostra».
Alla domanda se l’India può essere considerato paese di
missione gli studenti indiani hanno risposto:
«L’India è un paese missionario come tanti altri. Dobbiamo
predicare la missione come inizio, come lo stesso Montfort
voleva. Dobbiamo lavorare nelle zone strettamente missionarie
e sostenere economicamente i giovani che studiano e vogliono
essere monfortani. Quando avremo personale sufficiente
potremo iniziare un lavoro strettamente missionario.
Attualmente abbiamo tre missionari che non possono
uscire da Bangalore perché senza permesso. C’è la necessità di
missionari indiani per iniziare un lavoro di evangelizzazione:
avremo così più indipendenza e più libertà di movimento, una
nuova fisionomia, un volto nuovo».
113
acqua dalle pozzanghere vicino al fiume, con le conseguenti
malattie, colera in primo piano.
È quindi assolutamente necessario strappare alla forza
delle acque i due pozzi e i due generatori per la luce e l’acqua
che servono tutto l’ospedale, la missione e la casa delle suore.
È un'impresa un po’ ardita per noi che non abbiamo impianti e
possibilità sufficienti. Ma nonostante questo il lavoro s’ha da
fare, con i mezzi messi a nostra disposizione, se non si vuole
lasciare in preda alla acque il prezzo di cinque milioni...
Lo scorso anno si implorava l’acqua tutti i giorni;
quest’anno invece penso che non ce ne sia bisogno e un
rimedio s’impone da sé. Un milione per salvarne cinque. Il
necessario non è poca cosa: 54 gabbie di ferro, due rotoli di
rete metallica, cemento per far un blocco unico alla base,
sabbia, molti sassi raccolti un po’ ovunque, infine operai, tante
zappe e tante mani che aiutino a scavare il lungo fossato e a
portare pietre.
La popolazione è già stata mobilitata e il lavoro ha preso
inizio. Anche il sottoscritto non si è risparmiato e si è visto
rispuntare i vecchi calli solo dopo un’ora di lavoro con la zappa
e come se non bastasse anche una bella botta sul dito mentre
sistemava le pietre nelle gabbie. Ora speriamo solo che l’acqua
non ci piombi addosso prima di finire i lavori..».
114
sopravvivenza tra le formiche africane, finora hanno fatto
ricerche inutili tra le pagine della rivista.
Il caro P. Betti non può certo lamentarsi: il silenzio l’ho
mantenuto e più del previsto. Ora vorrei quindi prima di tutto
mandare un saluto a tutti gli amici che non mi hanno
dimenticato, e perché no, anche agli altri. Ed ora veniamo a
noi.
Prima visione! Non è la presentazione di un nuovo film,
ma un timido affacciarsi sulla finestra del mondo africano.
Meglio, sono quasi quattro anni che lo guardo e vorrei dire agli
amici, con qualche articoletto, se riesco a mantenere la
promessa, che cosa ho visto e come l’ho visto, non tanto con
gli occhi, ma con il cuore.
Gli occhi ti mettono di fronte ad una realtà che è la
vergogna dei ricchi, ma d’altra parte ti porterebbe a mandare
tutti i neri a...Pechino o in qualche altra parte. C’è chi parla di
una razza maledetta da distruggere dalla faccia della terra. Nel
mio cuore dico: “Perdona, Signore, quelli che si credono di
razza!”. Ma il cuore ti permette di carpire certi valori umani
che all’occhio sfuggono.
Un giorno, dopo colazione, mentre stavo facendo un
piccolo lavoro sotto la veranda della casa, eccoti arrivare
cinque bambini ed una bambina della scuola vicina: ben lavati
e pettinati. Si fermano tutti ad una debita distanza e poco dopo
la bambina si stacca dal gruppo dei compagni e mi si avvicina.
Le porgo il formale saluto e la invito a sedere. Guarda attorno
con la curiosità tipica dei bambini, poi abbassa gli occhi, si
siede incrociando le mani sul petto e appoggiando una spalla al
muto.
Certamente dovevo averla vista spesso correre con gli
altri bambini della scuola e sudare con la sua zappa sotto il
caldo sole del mattino. Ora è qui con quella straordinaria calma
che tante donne africane sembrano possedere. Il continuo il
mio lavoro e lei mi guarda con gioia serena e amichevole: la
115
meraviglia e la gioia dei rapporti umani in Africa! “Sarebbe ora
che smetta di lavorare e badi un pochino a me”. Mi vergognai.
Lasciai subito il lavoro...Dopo un po’ di tempo ricordai dove
l’avevo vista. Alcuni giorni prima ero andato a far visita ad una
povera donna che il marito ubriaco aveva bastonato e ridotta in
cattivo stato. Nantume era sua figlia ed era venuta a restituirmi
la visita.
Grazie, Nantume, la tua lezione non l’ho dimenticata.
Dovevi essere tu, pagana, a farmi capire che la gente vale più
delle costruzioni. La tentazione di essere sovraccarichi di
lavoro, di dirlo o semplicemente pensarlo, è molto forte qui in
Africa e quel che è peggio, in conclusione si finisce proprio per
crederci. E’ brutto, perché non hai più tempo di ascoltarli, di
parlare con loro e di loro.
Questa brava gente ti classifica subito. O sei l’uomo
bianco, intelligente, che fa grandi cose, che ha tanti soldi, e
loro si sentono tanto piccoli e lontani da te da temerti; o sei il
loro amico e fratello che hai tempo per loro, che hai fiducia in
loro, che non ti metti a disagio con la tua presenza ed allora ti
amano e ti restituiscono la fiducia.
Quando lasciai i miei cristiani di Mpiri per la nuova
missione di Kankao colsi questo commento da due persone che
si credevano inosservate: “Peccato che il Padre vada via, era
veramente uno di noi, non ci si accorgeva che fosse un bianco”.
Per me è stato il complimento più ambito, anche se non me lo
hanno detto direttamente, è la migliore ricompensa di tre anni
di lavoro. Grazie, amici!».
117
poveri prigionieri che sei mesi sarebbero trascorsi in fretta e
che qualcuno sarebbe andato a trovarli.
Intanto la distribuzione continuava, ma con un colpo di
fischietto i poliziotti li hanno richiamati all’ordine. Parole di
riconoscenza e strette di mano hanno accompagnato questi
momenti di separazione con un “Ciao, arrivederci!”».
118
Giusto il tempo per alcune compere in città e poi mi
azzardo ad affrontare il viaggio verso Namalaka su una strada
ora acquitrinosa ora viscida, resa tale dalla stagione delle
piogge in corso.
Per ben tre volte mani amiche mi aiutano con generosità ad
uscire dal fango... L’apparire delle prime capanne di Namalaka
mi fanno tirare un sospiro di sollievo. Il rombo della mia
Datsum è motivo di perplessità e di curiosità. Chi osa sfidare il
fango? “Bambo Lorenz”, è il grido di gioia dei più piccoli che
per primi individuano e riconoscono il loro amico.
Devo stare attento e prudente nella guida, poiché una
ciurma di ragazzini, incuranti del pericolo, si assiepano,
saltellando in mezzo alla strada. In un baleno il villaggio è
informato del mio arrivo. I primi a correre a porgermi il “moni”
è lo sparuto gruppo di cristiani. Intravedo nei loro occhi una
gioia grande. Non sanno che ripetere con una cantilena
caratteristica:”Abambo! Abambo!”. Poi mi intrattengo coi
numerosi musulmani che a gara mi stringono calorosamente la
mano.
È sempre ricco di emozioni questo contatto semplice e
spontaneo con i vecchi amici. Ha così inizio la mia seconda
esperienza in terra africana...».
119
per cui sono in India. Rischierebbero l’espulsione immediata.
La loro vita non è facile.
Nonostante tutto, con l’aiuto del Signore, il loro lavoro
procede meravigliosamente. Il compito cui sono chiamati è di
far sorgere nella stessa India dei missionari monfortani. Le
vocazioni non mancano, le domande da parte di giovani che
aspirano alla vita missionaria monfortana aumentano sempre di
più.
Sono giovani che provengono da differenti regioni, da
culture diverse, da un contesto cristiano povero e fragile. Le
loro famiglie sono di umili condizioni economiche e i Padri per
questo, devono provvedere al loro completo mantenimento sia
per il vitto che per la scuola. Vengono dai loro villaggi a piedi
scalzi, con una o due camice e un pezzo di stoffa che si legano
attorno alla vita.
I Padri trascorrono le giornate quasi sempre con loro,
cercando di inculcare una solida formazione religiosa,
sacerdotale e missionaria. Per questo li conducono spesso nei
villaggi più poveri, situati nella periferia di Bangalore. Li fanno
parlare con la gente e li obbligano ad interessarsi ai loro
problemi.
I Padri, per dare l’esempio, non disdegnano di andare a
fare opere sociali religiose; una volta alla settimana fanno
visita ad un villaggio di lebbrosi, situato nelle periferia di
Bangalore. È gente che ha bisogno di tutto: medicine, cibo,
vestiti, scarpe. Sono poveri che hanno bisogno di una parola di
qualcuno che s’interessi di loro. Oltre a questo, i Padri non
rifiutano il lavoro missionario della predicazione. Infatti in un
breve spazio di tempo, la gente e i sacerdoti hanno avuto modo
di apprezzare l’efficacia della loro predicazione, specie in tema
di rinnovamento della vita cristiana in un contesto mariano. Le
richieste di ritiri sono numerose...».
120
Madagascar: scrivo da un villaggio di montagna
122
Quando ti deciderai a dare la pillola alle tue donne?
124
parola di San Paolo: “Chi aiuta l’Apostolo, riceverà la mercede
dell’Apostolo”.
126
nella barriadas della nostra parrocchia, i genitori che vogliono
battezzare un bambino saranno accontentati solo dopo aver
fatto una preparazione al sacramento insieme ai padrini.
Uguale norma vale per l’amministrazione degli altri
sacramenti. Questo sforzo lo facciamo per evangelizzare
seriamente una popolazione che ha un fondo umano bellissimo,
ma con deboli e scarse nozioni circa la fede cristiana che dice
di professare...».
127
scuole, l’università, i seminari, i noviziati e l’ospedale, forse il
migliore del Lesotho.
La piaga del Lesotho è l’emigrazione per il lavoro nelle
vicine miniere del Sudafrica. Su di una popolazione di neppure
un milione di abitanti sono oltre 200.000 gli uomini nelle
miniere. Dunque nei villaggi c’è il vuoto degli uomini... Ecco
perché, malgrado la povertà del Lesotho, la gente appare ben
vestita e ben nutrita. Dopo tutto è una grazia poter trovare di
che vivere. L’emigrazione dovrebbe essere più regolata e più
protetta.
Il Lesotho è un paese indipendente dal 1966: quest’anno si
celebrerà il decennio. Hanno un Re con un Primo Ministro.
Un’altra piaga è la mancanza di boschi. Non ci sono
piante. Gli alberi possono crescere benissimo, ma i neri, forse
sono timorosi che la foresta porti le bestie feroci o aiuti i
crimini. Per fortuna ora il Governo spinge a piantare alberi
ovunque. La gente è lenta ad ubbidire.
D’altra parte c’è molto bestiame, vacche, cavalli e asini. La
gente s’industria ad utilizzare tutto. Quindi non ti meravigliare
quando senti dire che il letame essiccato serve come carbonella
per cucinare nelle case ordinarie dei villaggi. Un altro uso è
quello di plasmare il pavimento della casa: produce l’effetto di
una vera moquette che dura a lungo. L’ho vista anche nella
chiesa di S. Davide. Basta rinnovarla due o tre volte l’anno.
Naturalmente appena plasmata, manda un profumo che sente
più di presepio che dell’acqua di colonia. E come vi dicevo
sopra, serviva e serve ancora oggi nei villaggi, da bitume per le
costruzioni in pietra...».
129
proprio livello di vita, per creare una società più giusta dove i
frutti del lavoro saranno equamente distribuiti tra tutti i membri
della società secondo il lavoro dato!
Per questo il 21 dicembre 1975 la gente ha risposto in
massa sì al referendum popolare, rendendo così costituzionale
la scelta socialista.
Euforia quindi, ma bisogna anche rimboccarsi le maniche.
La pancia non si riempie con belle parole. Per riuscire ci vuole
rivoluzione delle mentalità, coerenza tra dottrina e realtà, fra
parole e fatti, fra azione del governo e quella del popolo. E qui
sta il difficile: cambiare mentalità. Saper vedere in là del
proprio interesse personale, oltre il proprio villaggio o lavorare
per progresso di tutta la nazione. Un modo di pensare e di
vivere non si cambia in un giorno, per questo la strada è
disseminata di ostacoli e sacrifici che bisognerà vincere e
superare uno ad uno.
Tutti siamo chiamati a lavorare per il buon successo di
questa rivoluzione. I paesi che hanno colonizzato questo
popolo, anche se cristiani, non hanno saputo e meglio non
hanno voluto dare a questa gente la dignità umana. Essere
capitalisti e nello steso tempo cristiani non è più credibile per
questa gente. Da qui nasce la scelta socialista rivoluzionaria: un
popolo che cerca la sua dignità umana, che Cristo ha predicato
e realizzato e che ci ha detto di portare a tutti gli oppressi. Un
popolo che ha scelto l’indipendenza, la libertà, la dignità, la
giustizia e la pace».
131
a lavorare la risaia o di bruciare la foresta per piantare qualcosa
da mangiare. La scuola messa in piedi dagli occidentali, sforna
ogni anno dei disoccupati. Si arriva in città per tentare la
grande avventura. Sulle strade se ne vedono molti che
aspettano... aspettano... finché la fame è più forte della
speranza. Allora c’è chi ritorna al villaggio natio, chi invece
comincia a rubacchiare qua e là. Infatti, per aiutare soprattutto i
giovani, è sorto il centro culturale e sociale: maschile e
femminile.
Ogni città ha i suoi sobborghi: la miseria vi regna con
degradazioni di ogni genere. Anche a Tamatave esistono. Ma
se in Europa si vive nelle borgate con la televisione ed
elettrodomestici, qui la povertà è davvero miseria.
Anche la Parrocchia del Sacro Cuore comporta delle
borgate di tal genere: uomini tutto il giorno in cerca di lavoro,
donne che allattano l’ultimo nato, bambini (quanti!) che
giocano sulla sabbia. Anche per loro s’è reso necessario fare
qualcosa; è sorto così un centro di alfabetizzazione e un centro
sartoriale.
I locali della parrocchia per più pomeriggi la settimana
sono pieni di donne che imparano taglio e cucito. Sono
veramente molte quelle che desiderano imparare, alcune a
malincuore devono essere rinviate per mancanza di spazio. I
figli da vestire sono tanti, tanti... e i soldi sono pochi.
“L’aiuto straniero deve essere considerato come un
supplemento, non deve mai diventare un complemento. Ogni
aiuto che non ci aiuta a fare a meno dell’aiuto straniero deve
essere rifiutato": così recita la Carta della Rivoluzione
Socialista Malgascia. Ed è vero: a tutte queste persone non si
dà da mangiare, ma si insegna loro a guadagnarsi onestamente
la vita. Dopo due anni di studio e di lavoro pratico, riceveranno
in regalo alcuni strumenti di lavoro ai quali sono già abituati.
L’inizio sarà forse un po’ difficile, ma il lavoro sicuro e
l’avvenire se non proprio roseo, almeno meno incerto.
132
Ho parlato solo dell’impegno sociale del Padre a Tamatave
e non del resto. Aggiungete il lavoro pastorale nella parrocchia
e vedete che la mole di lavoro non è poca. Ora P. Carlo, col
nuovo titolo, ha lasciato la parrocchia. Il giorno dell’elezione
ha spiegato così il perché dell’accettazione del nuovo incarico:
“Ho qui sotto mano un’immaginetta dove c’è figurato un asino
con la scritta: Il Signore ne ha bisogno, staccatelo! Se il
Signore ha bisogno di me sono pronto ad essere staccato per il
suo servizio. E noi sappiamo come gli sia costato lasciare tutte
le opere iniziate...».
134
Lima: una città in enorme crescita
136
Si ammira lo spirito di organizzazione e di corpo. Sono
sorte subito bottegucce di generi alimentari e di bevande e
perfino un ristorante. Capitata la disgrazia dell’incendio delle
capanne distrutte hanno subito trovato alloggio dai vicini,
perché il numero deve essere la forza per spuntarla col
Governo e con la legge.
E la Chiesa? Andando a visitare le nuove borgate abbiamo
trovato un’accoglienza cordiale. La Diocesi si mette subito in
movimento nella persona del Vescovo Ausiliare incaricato dei
‘pueblos jòvenes’. Egli è già intervenuto per visitare e anche
per celebrare una Messa. Fortunatamente non gli è successa la
cosa spiacevole che gli capitò sette anni fa quando, nella Villa
“El Salvador”, predicando alle migliaia d’invasori, gli uscì
detto di aver pazienza con la polizia, perché Nostro Signore sul
Calvario aveva dovuto soffrire da parte degli ufficiali
dell’ordine pubblico. Poche ore dopo il Vescovo veniva
arrestato e portato in prigione per ordine del Ministro
dell’Interno. Però il pronto intervento del Cardinal Arcivescovo
e dello stesso Presidente della Repubblica lo fecero subito
rimettere in libertà e con tante scuse.
Questo gonfiarsi a dismisura della città, mentre il clero
diventa sempre più scarso, è uno dei problemi più angosciosi
della Pastorale di Lima. Quante volte il Cardinale ha supplicato
noi ed altri di andare a prendere cura di gruppi di 80 e 100 mila
persone per le quali non vi è la presenza di un solo sacerdote!».
138
giusto per procurarsi un pasto. Concluse la sua storia dicendo
che stava desiderosamente aspettando la morte, perché la vita
non le procurò altro che miseria.
Incontrammo un’altra abitante del selciato: si chiamava
Bhagwati Devi. Aveva 29 anni ma ne dimostrava più di 45.
Accanto a lei dormiva un figlio di 4 anni ed una figlia di 8. Con
le lacrime agli occhi si raccontò la sua impressionante storia.
Proveniva da una famiglia borghese. Suo padre era un
uomo d’affari. I suoi fratelli erano impiegati statali. Lei aveva
frequentato l’università, conseguito un diploma in scienze
casalinghe ed in dattilografia. Si sposò nel 1967 con un
giovane abbastanza ricco. Ebbero anche una casa tutta loro. Ma
questa felicità durò solo tre anni. Ci fu una disputa in famiglia,
ed i fratelli ruppero ogni relazione con il vecchio padre,
lasciandolo solo e nella più squallida miseria.
Bhagwati decise di accoglierlo a casa sua. Ma suo marito
le si oppose violentemente, scacciandola di casa insieme al
vecchio padre che morì sul marciapiede.
Questi sono i casi della capitale dell’India. Ma secondo un
recente censimento nelle quattro metropoli dell’India: Delhi,
Madras, Bombay, Calcutta, i senza tetto sono più di 200.000 ed
in tutta l’India sono più di 500.000».
140
Veramente qui la gente ama cantare
141
Signore che ha sfamato i poveri, guarito gli ammalati,
prediletto i deboli ed i miseri?
A tutte le anime di buona volontà lascio la gioia di poter
diventare strumenti nelle mani del Signore per aiutare quanti si
trovano veramente nel disagio!
143
In Malawi si reca anche P. Battista Ceruti
144
mamme, le madrine e i parenti delle neobattezzate, in segno di
gioia, si esibiscono in danze e canti popolari».
146
piove. Ma da due anni la pioggia sembra essere più
abbondante. Anche il Governo ha lanciato da anni “la
campagna per l’albero”. In futuro si vedranno i frutti.
Nala: progresso o abbondanza. Un miglioramento c’è stato
e grande. Quando confrontiamo gli abitanti del Lesotho con
quelli delle altre nazioni africane, bisogna ammetterlo: il
Lesotho è molto più progredito che non le altre nazioni...
Il clima freddo ha spinto a vestirsi: si possono contare
coloro che camminano ancora a piedi nudi. Dal Sudafrica
arrivano continuamente sacchi di farina di granoturco e di
frumento. Il pane non è più una rarità, ma viene consumato
anche dai più poveri. La scuola è frequentata. Tutti amano
imparare a leggere e scrivere. Ciò che colpisce è soprattutto
l’evoluzione della donna, superiore, a volte, a quella
dell’uomo.
Quando l’Inghilterra diede l’indipendenza al Paese, dieci
anni fa, il Lesotho faceva pietà. C’erano sì e no dieci chilometri
di asfalto. Ora invece c’è una buona rete di strade asfaltate che
collegano i vari distretti nella pianura.
Si spera di trovare delle miniere. L’agricoltura è
rudimentale, tuttavia il terreno viene arato. Il raccolto è povero.
Occorrono industrie: alcune sono state costruite e danno lavoro
a quasi trenta mila operai. Il Lesotho ha un popolo energico,
molto fiero, amante della fraternità.
Alle celebrazioni ufficiali erano presenti parecchie
rappresentanze diplomatiche, compreso il Delegato del Papa.
Con ragione, quindi, diceva il Primo Ministro: Visitatori,
guardate voi stessi il Lesotho! Vedete come qui ci sia pace,
progresso...
Sua Eccellenza Mons. Francesco Colasuonno, Delegato
Speciale del Santo Padre per l’occasione, venuto dal
Mozambico, esaltò il progresso del Lesotho in questi dieci
anni. Durante la solenne concelebrazione nella cattedrale di
Maseru, domenica 3 ottobre, prevedeva uno sviluppo ancora
147
maggiore, non solo materiale ma anche spirituale, con la
nascita di nuove diocesi».
148
strade tracciate, senza acqua, dove ognuno si arrangia.
Casupole di foglie, di paglia, di lamiere, di compensato, di
vecchi bidoni appiattiti. Solo viottoli strettissimi formano un
dedalo nel quale P. Angelo Rota ed io ci perdevamo spesso.
Ora più. Da tre anni abbiamo creato un centro per la
formazione professionale femminile. I tiratori dei risciò
portano le loro mogli: “... che imparino a lavare, stirare, a
cucinare un po’ meglio”.
Le bambine creano il loro centro. Mentre le mamme si
davano da fare sotto la guida di Suor Germaine Talata e di due
signorine sarte, le ragazzine si interrogarono: “Ma a noi chi
pensa?”. Andarono a trovare Monique, una catechista del
quartiere. “Tu ci devi aiutare: anche noi vogliamo imparare a
fare qualcosa. Molte di noi non vanno a scuola, non essendoci
posto. Almeno sapremo cucire e rammendare”.
Senza troppo tardare, le ragazze trovarono alcuni aghi e
dei pezzetti di stoffa. Sedute sulla veranda del Centro sartoriale
e, sbirciando per la grande porta sempre aperta, iniziarono a
fare piccoli orli al proprio scampolo.
Delegazione delle bambine. Le adulte continuavano
imperterrite il loro lavoro. Pensavano che le bambine tra i 6 e
12 anni si trastullassero. Dopo un incontro con la catechista
Monique, ecco una ventina di ragazzine invadere il salone e
chiedere udienza alla Suora ed alle due sarte. “Anche noi
vogliamo imparare! Non vogliamo incominciare quando
avremo i capelli bianchi a studiare e saper far qualcosa”.
Le donne si guardarono tra loro. Alcune mamme già si
preparavano a dare due scapaccioni alle loro figlie, quando
Suor Germaine disse: “Proprio poco fa ho letto le parole:
lasciate i piccoli venire a me. Queste ragazzine non hanno solo
bisogno di balocchi e bambole: vogliono saper cucire, stirare,
rammendare, lavorare l’uncinetto, ricamare...”.
La cosa si seppe nel quartiere. Se passate da Morarano il
martedì e giovedì pomeriggio potete vedere fino a 40 ragazzine
149
tra i 6 e gli 11 anni cucire, tagliare modellini di carta, fare la
calza, fare vestiti per i fratellini e sorelline, delle cuffiette...
Suor Germaine mi scrive: “Padre Carlo, le mie bambine
stanno preparando una vendita esposizione dei loro lavoretti.
Inviteranno i notabili di Morarano, Ambalakisoa,
Ambolomadinika e Poudrette. Sarà una festa di queste
adolescenti fiere del loro lavoro. Ora vogliono insegnare alle
altre ragazze più povere. Non potresti scrivere in Italia agli
amici. Ci occorrerebbero: aghi, forbici, nastro da sarta per
misurare la stoffa, uncinetti, un po’ di lana. Con i piccoli doni
si possono fare miracoli di attività. Conto su di lei, Padre
Carlo...».
150
Clemente Gaddi, vescovo di Bergamo. Ben presto P. Tarcisio
raggiungerà in Perù P. Ernesto e Suor Giovanna.
151
missionari monfortani, grazie al treno che l’attraversa per
settanta chilometri. È una regione molto fertile e fornisce alla
capitale Tananarive una quantità enorme di banane, arance,
mandarini, ananas, noci di cocco e il famoso zènzero, tanto
gustoso nei condimenti.
Non si contano poi le incantevoli colline e i fiumi ricchi
d’acqua, ma rare le strade e quelle che ci sono ridotte ad
impraticabili sentieri. Quando il missionario deve intraprendere
un viaggio vuol dire per lui compiere dai cento ai duecento
chilometri a piedi in mezzo a macchie, cespugli e foreste.
Nonostante le difficoltà delle comunicazioni la missione si
sviluppò rapidamente. Il piccolo seminario di Tamatave trovò
ad Anivorano una collina ideale e un terreno fertile. Una
foresta immensa dava vita a una falegnameria che a quei tempi
era ritenuta la migliore di tutto il Madagascar.
La gente si stimava felice ed orgogliosa e sognava un
avvenire meraviglioso. E quando il Padre Van Preecken, nel
1929, tracciò le fondamenta della nuova chiesa, 42 metri di
lunghezza, tre navate, due braccia di 28 metri, nessuno ebbe a
ridire.
Purtroppo gli avvenimenti cambiarono rotta. Con l’avvento
delle locomotive a diesel, la stazione, prima deposito di
combustibile, legna, carbone, perdette d’importanza e gli
abitanti emigrarono in altre regioni. In seguito si giudicò bene,
nel 1965, di trasferire il seminario minore a Tamatave, vicino
all’episcopio. La popolazione rimasta ad Anivorano ne fu
profondamente amareggiata.
Con la partenza di molti europei anche la falegnameria non
trovava più un lavoro sufficiente per poter esistere. Allora il
pensiero volò ancora a Tamatave, là certamente si sarebbe
trovata una clientela numerosa. E così, un brutto giorno, furono
caricati tutti i macchinari sul treno e con essi furono portate via
tante belle speranze.
152
Nel 1973 non vi rimaneva che un solo missionario, il quale
si esauriva nel visitare le quaranta cristianità, sparse nella
foresta. Il Padre, animato da tanta buona volontà, rivolgeva
ogni suo sforzo a salvare il salvabile. Ciò nonostante il centro
di Anivorano perdeva a vista d’occhio di stabilità e bellezza,
travolto e soffocato da ogni sorta di erbe, rovi e spine. Tuttavia
il piccolo gruppo di cristiani, sempre coraggioso e compatto,
continuava a riunirsi regolarmente ogni domenica, anche se il
Padre era lontano. Pregava ed aspettava...
Anivorano era diventata la missione dei contrasti. Un
chiesa immensa, solida nella sua pietra viva; un seminario
minore in cemento armato, con tanti finestre, verande spaziose,
ampi dormitori vuoti, avvolti in un glaciale silenzio. Quanta
pena e tristezza! Chi poteva rianimare un corpo così mal
ridotto? Nel cuore di tutti viveva una speranza: le Suore. Ma
dove trovarle?
Si cercò, si bussò a tante porte, finché un giorno abbiamo
avuto la gioia, veramente inaspettata, di constatare che le
nostre suppliche erano state esaudite. Le Suore Orsoline di
Verona spalancarono non solo le loro porte, ma anche i loro
cuori. Accettarono di visitare la nostra missione.
La Madre Generale in persona, nel maggio 1974, prese il
treno per Anivorano. Ma, neppure farlo apposta, sembrava che
il diavolo e suoi satelliti si fossero uniti insieme per impedire
che il nostro sogno si realizzasse. In casa non c’era anima viva,
all’infuori dei fastidiosi insetti e una quantità di topi che
scorazzavano dappertutto. Il treno nel quale si trovavano le
Suore si fermò in mezzo alla foresta...
Poco e magro il cibo e, in aggiunta, una notte in bianco.
Conseguentemente la nostra paura di un netto rifiuto era ben
fondata. Ma chi non sa che opere del Signore incominciano
tutte con dei contrasti!...
Fortunatamente le Suore non hanno tenuto conto di queste
prime impressioni, anzi, sospinte dalla grazia del Signore, ne
153
hanno tratto un buon auspicio. Non si sono fatte pregare di
ritornare, in seguito, ad hanno così potuto constatare che
l’ambiente stava mutando rapidamente, grazie alla buona
volontà, all’assiduo lavoro e all’opera intensa ed efficace del
piccolo gruppo di cristiani.
Siamo giunti così al 27 ottobre, data che resterà
memorabile per la nostra missione. Quel pomeriggio c’era tutta
la gente alla stazione. I non addetti ai lavori si chiedevano il
perché. Le loro idee si sono chiarite solo all’arrivo del treno,
quando le tre Suore Orsoline di Verona arrivarono, accolte da
un possente: Tonga soa!!! Ben arrivate le nostre bianche!
Quanti sorrisi e strette di mano. I bambini erano poi
scatenati. Mi venivano i mente i films western, quando ad un
certo punto tutti scattavano in piedi gridando: arrivano i nostri!
Proprio così. Nella circostanza anche il treno dovette
prolungare la sosta di dieci minuti. Quindi una lunga
processione che sembrava non finire mai...
La prima visita fu alla chiesa, dove un canto, di quelli
maiuscoli, sottolineò la gioia di tutti. Nel breve tragitto che
portava alla casa delle Suore ho notato un cambiamento
impercettibile, ma reale. Constatai che alcune persone anziane
cedevano volentieri il passo agli altri, preferendo restare in
coda. Erano diretti alla vecchia falegnameria, destinata ad
essere la dimora delle Suore. E quei buoni vecchi avevano
vergogna di presentare una simile casa, che, malgrado le
numerose riparazioni, restava sempre una spelonca. Ma non era
una sorpresa per nessuno, neppure per le Suore. Esse stesse si
erano rifiutate di abitare nel seminario, perché di grosse
dimensioni e fuori mano. Avevano preferito la vecchia
falegnameria più modesta e più vicina alla gente. E cantando
entrammo tra quelle povere mura.
La domenica 31 ottobre è stata la giornata
delliinstallazione ufficiale da parte del nostro Vescovo, presenti
le autorità del luogo e una numerosa folla. Non mancarono i
154
discorsi, le promesse di collaborazione, i programmi e molte
foto. Ed una fraterna agape ci strinse ancora più
affettuosamente nell’armonia dei cuori e degli intenti.
Le giornate che seguirono furono spese in un lavoro
assiduo di sistemazione. Più tardi bisognerà pensare ad una
casetta più conveniente e più adatta ed attrezzata di tutto il
necessario per una scuola vera....
La venuta delle Suore Orsoline di Verona è un grazia e una
benedizione del Signore per Anivorano!».
155
1977
Grande fervore missionario
158
villaggi lontani erano in chiesa già da 3 o 4 ore, e favoriti
dall’oscurità si erano assopiti per terra.
A mezzanotte Padre Pagani mise in funzione il generatore
di corrente e la chiesa si illuminò all’improvviso. Il passaggio
dall’oscurità della luna ci fece tornare alla mente e gustare
anche sensibilmente la profezia di Isaia: “Il popolo che
camminava nelle tenebre vide una grande luce”. Tutti si erano
svegliati e cantavano a gran voce. Per un attimo non sentimmo
più le punture delle zanzare che da un’ora si divertivano a
trasformarci in un colabrodo! Vedevamo solo Gesù Bambino
nel presepe, che veniva a nascere di nuovo povero tra i poveri
di Nankwali.
Alla fine della Messa il catechista ci presentò alla
comunità parrocchiale. Da quel momento diventammo membri
della Chiesa di Nankwali. Fuori della chiesa, miriadi di stelle
stavano ad ascoltare le nostre risposte agli auguri natalizi
rivolti dalla gente.
Durante il giorno di Natale alcune donne vennero ad
offrirci farina per la polenta, mango, banane e perfino un pollo
per mostraci concretamente la loro gioia per la nostra presenza.
Alla sera sentimmo di nuovo bussare alla porta: era un ragazzo
che ci portava in dono una manciata di squisite formiche
africane arrostite! Ormai ci consideravano africane e ne fummo
molto felici...».
160
1500 bambini dei catechisti che avevano animato le cerimonie
con canti e danze religiose.
Se gli obbiettivi hanno potuto fissare le nostre facce non fu
da meno per gli animi di chi ci attorniava: “Guarda come si
assomigliano!”. Peccato non potessero comprendersi a parole.
Non così con i gesti... Una cosa li meravigliò: mamma Carolina
era semplice e buona, come tutte le mamme. Dovevano credere
che P. Angelo venisse da chissà quale casato, invece...
Se tutti ricordano la visita di mia mamma, coloro che non
la dimenticheranno mai saranno le mamme di cui essa
accarezzò e baciò i bambini. Brava, mamma! Grazie!».
“Una Monfortana sul tetto del Perù”: così titola una sua
corrispondenza dal Perù P. Pasquale Buondonno.
«Non si tratta naturalmente di un tetto di tegole, ma uno
degli altipiani che fanno da terrazza al nostro globo
terracqueo... Su una di queste terrazze si è installata da quattro
anni Suor Anna Giuseppina Bussini, monfortana, nata a
Treviglio. Si è messa lì non per studiare fisica cosmica o
scienze del genere, ma per fare la missionaria tra una
popolazione di 5000 abitanti che vive attorno alla grande
miniera di Milpo.
Suor Anna Giuseppina ha accettato con entusiasmo il
compito della cura pastorale degli operai della miniera e delle
loro famiglie. Solo di quando in quando un sacerdote va lì per
celebrare la S. Messa e a confessare. Per tutto il resto pensa la
Suora: distribuzione della Comunione, battesimi, matrimoni,
paraliturgie, catechesi, assistenza degli ammalati e moribondi e
in più assistenza sociale.
Ecco come Suor Anna ricorda l’inizio della sua attività a
Milpo.
“...La mia Bibbia di Milpo è cominciata con la storia di un
nuovo Mosè. Ero da poco arrivata sul campo del mio lavoro.
161
Una ragazza di 16 anni, non sposata, mette al mondo una
creatura. Alloggiata nella casa dello zio paterno era riuscita ad
occultare la gravidanza fino al momento del parto. Si era
sgravata da sola e approfittando dell’oscurità della notte aveva
abbandonato il piccino in una cantuccio della strada.
Come avrà potuto il povero neonato resistere al forte gelo
della notte, senza neppure uno straccetto addosso? Fatto sta che
alle quattro del mattino gli operai che terminano il turno di
lavoro nella miniera lo hanno trovato assiderato. Avvisata la
polizia, si porta il bambino all’ospedale e qui viene soccorso,
scaldato e massaggiato. Mi hanno chiamato perché lo
battezzassi, dal momento che poteva morire da un momento
all’altro. Come chiamare questo trovatello? Penso al
condottiero del popolo ebreo, salvato dalle acque. Questo è
stato salvato dal gelo. E così gli ho posto il nome di Mosè. È
stato il primo battesimo che ho amministrato.
Dopo alcuni giorni la polizia riesce a trovare la ragazza
madre. Questa non si mostra affatto entusiasta nel vedere viva
e salva la propria creatura; era persuasa di esserne disfatta per
sempre. Per evitare l’arresto si dichiara pentita e chiede di
riprendere con sé il figlio.
Per un anno non ho saputo più nulla. Ma ecco che un
giorno, salendo su un pullman mi trovo davanti un frugolo
molto vispo che la mamma fa saltellare contenta. È proprio lui,
il mio piccolo Mosè che ha aperto il primo capitolo della mia
Bibbia nel villaggio di Milpo...”».
162
partenza per l’Italia. Così, ai primi di dicembre, gli orfani
hanno abitato nella nuova casa...».
Al suo rientro in Italia, scrive: «Dopo circa 5 anni di
attività missionaria, si sente il bisogno di un periodo di vacanza
in patria, per rifarsi fisicamente, spiritualmente,
professionalmente e per rivedere parenti ed amici. Lasciando
gli orfani avevo il cuore grosso ed anch’essi erano tristi,
temendo che non tornassi..., ma una volta rassicurati, il sorriso
è riapparso sui loro volti.
Ciascuno mi ha dato una consegna: “portami tante belle
cose!”. Se dovessi accontentarli tutti una nave non sarebbe
sufficiente... Mi vogliono bene ed anch’io, ma sono molto
esigenti, perché desidero che diventino uomini e donne
responsabili, capaci di impegnarsi nella vita e di affrontarla con
le sue gioie e con le sue pene. Saranno essi la speranza e
l’avvenire del paese e della chiesa di Dio. Tutto il mio
apostolato tende e formare dei buoni cristiani e dei buoni
cittadini».
163
Fuori dal Perù i preti stranieri!
166
poveri per considerarli realmente le persone in cui di
preferenza Cristo di manifesta.
Ho già avuto con P. Mario l’occasione di andare a fare
visita alla colonia di lebbrosi che si trova al centro della città:
sono circa 600 persone. Come P. Mario anch’io mi sono messo
a maneggiare forbici, garze, disinfettanti.
Un risultato importante cui si è giunti è che questo lavoro
non rimane solo a livello di assistenza caritativa, lasciato alla
bontà di qualche persona coraggiosa, il governo ha affidato al
vescovo il compito di portare avanti l’opera, provvedendo al
terreno. Questo è un segno della fiducia che le autorità locali
danno alla Chiesa e il Governo sperimenta i propri limiti,
perché l’opera più che semplice filantropia, esige l’amore
fraterno tra i Figli di Dio. Gli aiuti materiali sono sempre
necessari... e nella carità ci sentiamo sempre uniti, anche se
lontani...».
171
Nel cuore del continente nero vivono quattro milioni di
africani di razze diverse: gli Utu (80%), i Tutsi (18%), i Batua
(2%). Gli Utu sono un popolo discendente dai Bantu, tozzi,
naso schiacciato, indefessi lavoratori dei campi.
I Tutsi, invece, longilinei, alti fino a 2 metri, naso
all’europea, belli d’aspetto, vivono di allevamento di mucche.
Intelligenti, abituati a dominare, guardano le altre due razze
con disprezzo.
I Batua sono quelli che noi chiamiamo i Pigmei: piccoli,
grassocci, passano i loro giorni nelle foreste in capanne di
banana, a piccoli gruppi. Sono gli specialisti dei vasi di
terracotta
Come nacque la mia missione di Rilima? Nel 1972 nel
Burundi il governo dei Tutsi dava la caccia agli Utu più in vista
(200.000 morti). Braccati dai Tutsi molti Utu si rifugiarono
negli stati vicini: Zaire, Tanzania e Ruanda. L’ONU e la
Charitas cercarono di aiutarli regalando zappe, badili ecc..
Molti di questi poveri sbandati erano cattolici e il Vescovo di
Kigali li affidò alle cure di un sacerdote, pure lui fuggiasco,
che, però, vi rimase per poco.
Provvidenza volle che nel frattempo il Vescovo ricevesse
una lettera da un prete diocesano di Vercelli, espulso dal
Burundi, che cercava di lavorare in una missione. Il permesso
fu subito accordato.
Il sacerdote in parola è Don Giuseppe Minghetti. Egli
stesso mi raccontò del suo arrivo a Rilima, delle sue difficoltà,
della miseria, della situazione morale, delle malattie, della
fame, delle morti ecc.
Nel mese di agosto Rilima è diventata la mia missione.
È una missione molto difficile da guidare perché è un mosaico
di gente di varie nazionalità, di giovani provenienti da ogni
parte di cerca di terreno da coltivare. Perciò spesso si hanno
matrimoni campati per aria, ubriacature, risse, odi e gelosie a
non finire.
172
Adesso comprendo perché nessun nero o bianco vuole
venire a Rilima! Non parlo poi della lingua quanto mai
indigesta. Quella del Malawi è un giochetto da ragazzi in
confronto. Dicono gli esperti che il Kinyaruanda sia, dopo
l’arabo, la lingua più difficile. Ed è vero. Ma io mi trovo bene
qui. Mi sento vero missionario alla Montfort, con molte croci
ma con tanta gioia nel cuore...».
173
Un’ora più tardi mi stavo congedando quando due suore,
sorprese dalla mia curiosità, mi invitarono a visitare i lebbrosi.
Presi dalle loro mani una grossa borsa di medicinali e le
seguii. Il villaggio si estende quasi a ridosso della ferrovia. Ne
chiedo la ragione. Mi viene risposto che si tratta di una
concessione governativa: quei poveretti avrebbero diritto di
viaggiare in treno con biglietto gratuito... ammesso che
vengano accolti bene dai passeggeri.
Dalle baracche esalano tutti gli odori immaginabili. Ma ciò
che appare agli occhi mi distoglie subito da ogni problema di
respirazione. Mi viene detto che sono tutti casi disperati. Due
giovanotti portano un tavolino, che serve da dispensario, e lo
sistemano nella piazzetta del villaggio. Pochi minuti dopo
appare la muta processione dei pazienti. Chi ancora può, cerca
di sorridere e di congiungere le mani in segno di saluto e di
riconoscenza.
Il primo a ricevere le medicine è Armugon, un giovane non
ancora ventenne, ma già inabile al lavoro perché senza mani.
Poi viene un bambino di sei anni, con le braccia e il torace già
marchiati dalle caratteristiche macchie bianche. Minakschi è
invece una giovane mamma senza mani e dal volto tutto
piagato: eppure ha in braccio un bambino di un anno e deve
continuare a mantenere altri cinque. Per ora sono tutti sani, ma
per quanto tempo ancora? Ramaya ha 65 anni. Probabilmente è
il più vecchio dei pazienti. Non è venuto da solo, ma lo hanno
accompagnato i nipoti, perché è cieco e non ha più i piedi. E in
questa condizione ne passano più di cento.
“Ma non è possibile portarli all'ospedale?”, chiedo. “Vuol
dire il lebbrosario? È sovrappopolato. Questa è gente
poverissima: non può pagarsi le spese della degenza”. Il
coraggio di queste suore mi trascina: “Posso prestarvi il mio
aiuto?”.
174
Da quel giorno ci vado ogni settimana: aiuto le suore nella
distribuzione delle medicine, ascolto la gente, la vado a trovare
negli slums.
La condizione di quei poveri malati è resa ancor più grave
dall’analfabetismo e da un ambiente spaventosamente privo di
igiene. Di questo passo tutti gli abitanti del villaggio verranno
colpiti dalla malattia, ed i più esposti purtroppo sono i bambini
perché continuamente a contatto con i genitori.
I più coraggiosi, per sopravvivere, affrontano il rischio
dell’accattonaggio, ma spesso devono subire l’indifferenza se
non la stizza della gente che cerca sempre di evitarli...».
175
Dopo tre mesi, i giovani vendevano per le vie di
Vatomandry il frutto del loro lavoro: zucche, pomodori cavoli,
cocomeri. Padre Jean disse loro: “Ora siete capaci di vivere da
soli”. Gli risposero: “Ma tu devi restare con noi”.
Alcuni partirono: sapevano ormai come coltivare un orto
nel loro villaggio. Avevano degli strumenti agricoli nuovi!
Sapevano come fare l’innesto e la potatura delle arance e dei
mandarini; sapevano coltivare un semenzaio, pulire le aiuole
con la zappa, piantare in linea il granoturco, le patate
americane e lo zenzero.
A poco a poco altri giovani, senza lavoro e mezzi di
sussistenza, vollero aggregarsi. I giovani hanno il loro
consiglio di direzione. Il Padre li aiuta quando non ce la fanno
più. Ora stanno lanciando l’allevamento di conigli e di galline.
Riusciranno? Lo speriamo!».
177
domenicale mi hanno avvicinato e mi chiedono se posso
interessarmi del loro gruppo...
L’altra settimana hanno voluto visitare i lebbrosi che sono
all’ospedale di Balaka. Hanno fatto tutto da soli. Un ragazzo ha
letto la Parola di Dio. Agli uomini: la guarigione del lebbroso;
alle donne: il fatto dell’emoroissa. Poi il loro leader, John, ha
spiegato cosa volevano dite questi due episodi rilevando che
queste persone sono guarite perché hanno creduto...
Un alto impegno che si sono assunti è quello di tener
pulito attorno alla chiesa e di prendersi cura dei fiori. La serietà
con cui fanno tutte queste cose lascia veramente stupiti...».
179
Medaglia di cavaliere al merito di Francia
180
1.500 e i 6.000 metri di altitudine. È una pianta poco robusta,
assai sensibile al vento e alla siccità. Nelle sue foglie, simili per
grandezza e colore a quelle dell’alloro, gli scienziati hanno
trovato almeno quattordici alcaloidi, il più forte dei quali è la
cocaina.
Da tempi immemorabili gli abitanti delle Ande hanno
imparato a utilizzare questo stupefacente masticando le foglie
unite o a un po’ di cenere o di solito a un pizzico di calce viva.
Tra i vasi di ceramica che vengono alla luce dagli scavi di
antichità è facile trovare alcuni in forma umana con una
guancia un po’ rigonfia per un grumo di coca. E oggi
viaggiando per la Sierra delle Ande, fate attenzione a non
avvicinarvi troppo ad un omnibus in sosta: correte il rischio di
essere colpiti da una cicca verdastra sputata attraverso il
finestrino che di solito è senza vetro.
Nessuno può negare al Perù il primato della coltivazione
della coca. La produzione è abbondante e non richiede quasi
nessuna cura. La raccolta avviene tre volte l’anno. Si è
calcolato una delle ultime raccolte complessive in un anno:
venti milioni di chili!
Otto milioni vengono elaborati clandestinamente in
cloridato di coca, cioè la cocaina, la quale per mezzo di squadre
organizzate di narcotrafficanti viene distribuita negli Stati Uniti
e in Europa. Dieci milioni vengono masticati allo stato naturale
dagli indigeni. La piccola quantità che resta viene esportata
legalmente per fini di utilità farmacologica e anche per
preparare alcuni tipi di bevande. Si pensi in particolare alla
Coca Cola, bevanda diffusa in tutto il mondo, nella quale può
entrare una parte minima di coca con estratti di noci di cola,
altra pianta africana i cui semi contengono caffeina,
teobromina, tannino e amido.
Non a torto abbiamo detto che Huanuco, ove abbiamo un
gruppo missionario di Padri e Suore, si può considerare la
Mecca della Coca: per la produzione, la commercializzazione e
181
il consumo. È in questa città che si può vedere legalizzata la
vendita al pubblico delle foglie di coca. Botteghe apposite
recano scritto sulla porta: Estanco de coca: spaccio di coca. In
altre città della Cordigliera delle Ande i sacchi sono limitati al
peso di una “arroba”: undici chili e mezzo!
Il prezzo? Poco più di mille lire al chilo. Un sacco di 65
chili circa ottantamila lire. È con l’elaborazione che i prezzi
vanno alle stelle e si calcolano in dollari... Un chilo di pasta
costa diecimila dollari. Nella nostra zona di Huanuco, Santa
Maria del Valle, ho visto e fotografato una gramola
rudimentale per ricavare questa pasta dalle foglie. La pasta
raffinata in cloridrato, la cocaina, vale all’ingrosso
cinquantamila dollari al chilo. Il prezzo diventa incontrollabile
arrivando ai minutanti.
Si può facilmente immaginare la sete i guadagno che
stimola gli spacciatori in tutto il mondo. E le astuzie ai cui
ricorrono per far circolare il frutto proibito, con non solo il
rischio della prigione e di multe salatissime, ma della vita
stessa. Qui all’aeroporto di Lima è morto un giovane
statunitense che faceva ritorno dalla Bolivia al suo paese. Cosa
gli era successo? Per passare franco per le frontiere e le dogane
aveva ingoiate un centinaio di bustine di plastica, ciascuna con
cinque grammi di cocaina. Altre volte gli era andata bene, ma
in questo ultimo viaggio una bustina gli si è rotta nello stomaco
ed i dollari del sogno gli si sono cambiati in dolori e in morte».
183
1978
Realizzazione di opere importanti
184
“Sumana Halli”: Villaggio della buona volontà
188
nuova generazione che la Chiesa e il Paese contano per
l’avvenire...».
189
L’acqua del fiume è anche medicina per diverse malattie,
se usata in determinate ore del giorno, con gesti rituali e
preghiere propiziatorie. I malgasci venerano l’acqua. Per essi
l’acqua è o calda o fredda e mai si permettono di dire che è
sporca o inquinata.
La ricchezza per la famiglia malgascia dipende dal fiume.
È il fiume che dà l’acqua per irrigare le risaie. È l’acqua che
permette la cottura del riso. Un proverbio recita: “L’acqua è
inseparabile dal riso sia nella risaia che nel paiolo”. Il fiume
permette il trasporto dei prodotti locali: la canna da zucchero
allo stabilimento, le arance e le banane al centro di raccolta, la
legna e il carbone dalla foresta al villaggio. Nel fiume si
passano le ore di svago con il nuoto. Nel fiume si prende il
pesce per rendere più appetitoso il riso.
Anch’io vado a pesca. I pesci grossi li prendo con
l’arpione, quelli più piccoli con l’amo e i granchi e i gamberi
con il cestello di vimini ove colloco conchiglie come esca.
Come missionario, lavorando in una zona dove i fiumi
sono numerosi, comprendo il successo di Gesù che parlava alle
folle. Era sul lago che avveniva l’incontro...».
190
Il Piccolo Cottolengo di Kankao
191
i 280, quasi al limite di sopportazione, sia per seguire poi
eventuali disturbi cardiaci e disordini circolatori.
Il nostro caro Fratello ha obbedito a queste prescrizioni,
ma solo in parte; preso dal suo attaccamento al lavoro di
oratorio non faceva i controlli con la frequenza prescritta. Un
infermiere che gli passava le pastiglie per reumatismi,
concorreva a deviare l’attenzione dai disturbi al cuore, come la
mancanza di respiro nel muoversi con palpitazioni al cuore
accelerate; Domenico attribuiva tutto questo malessere ai
dolori reumatici. In queste circostanze siamo arrivati alla
conclusione repentina e dolorosa della sua vita missionaria.
Difatti la mattina di martedì, 2 maggio, fra Domenico si è
alzato come sempre alle 5.30. Stava bene, senza grossi disturbi.
Quella mattina, e qui è l’ispirazione del Signore, aveva voluto
accostarsi al sacramento della riconciliazione. Era sceso poi ad
aprire la chiesa. Partecipò alla Messa con noi, alle 7.00 e con
noi fece la sua colazione. Come al solito si era avviato al suo
oratorio per le pulizie.
Più tardi, con la sua borsa, si era recato alla vicina Plaza de
Mayo per comperare il pane. Al rientro, infilando il corridoio,
si sentì mancare il respiro. Si sedette sulla panca. Pochi istanti.
È crollato prima in ginocchio e poi lungo disteso sul
pavimento. Un giovane che passava davanti all’oratorio lo ha
visto e, intuendo la gravità, è corso a chiamarci. Quando è
arrivato P. Gheno, e subito dopo tutti noi della parrocchia, il
caro fratello era già senza vita. Abbiamo portato subito la
salma in casa e poi in chiesa, ove è incominciata una vera
processione di amici e di estimatori...».
Il seminario di Nankunda
193
può pretendere che il Governo si addossi la spesa e la fatica di
educare anche i ministri della religione.
D’altronde si sa che la vita e la missione del sacerdote
richiedono una particolare preparazione e questa, pensano i
Vescovi del Malawi, può essere data solo nel seminario...».
195
‘non sta male’ il nostro impegno è condividere con generosità
quanto Dio ha messo nelle nostri mani, anzitutto quello che
siamo, la nostra vita e poi quello che abbiamo. Questi
atteggiamenti provocano la vera pace nei nostri cuori e nel
nostro mondo che tanto la desidera.
Una parola sull’operazione Mandebvu, che sta diventando
una realtà, “mattone su mattone”. L’altro giorno P. Giancarlo è
andato a portare le porte della scuola e con grande
soddisfazione ha visto molta collaborazione da parte della
gente: “mettiamo anche le porte?”.
Ciò che sembrava impossibile, ora, collaborando, si è
realizzato».
197
Due cose importanti: la Bibbia e la vanga
198
Sono felice di trovarmi di nuove ad Utale
199
prima volta che mi capita di amministrare il Viatico e
l’Estrema Unzione in terra africana.
Cerco una bicicletta. Il catechista pedala davanti, portando
sulla canna il giovanotto che è venuto a chiamarmi. Pedala!
Pedala! Comincio ad averne a sufficienza. Un’ora se n’è andata
e non ne posso più. Non mi ero mai sognato di allenarmi in
bici, e l’ultima volta deve perdersi nella notte dei tempi...
Pedala! Pedala! Ed ecco un branco di capre e pecore. Le
capre scattano prontamente con due salti nella scarpata, ma le
pecore no, rimangono lì, non si spostano. Qua finisce che ne
investo una.
Pedala! Pedala! Adesso cominciano a far capolino pensieri
cattivi. Chi me la fatto fare? Che peccato ho fatto?... Forse il
peccato più grosso è stato quello di aver chiesto di venire in
Africa e poi ti accorgi che di mani ce ne vogliono due e tutti i
piedi.
Pedala! Pedala! Mi sento come il cireneo che aiuta sì Gesù
a portare la croce, ma se c’è riuscito è solo perché Gesù stesso
glielo ha permesso e gli ha dato la forza per farlo...
Finalmente vedo che davanti si sono fermati. Siamo
arrivati! Smonto dalla bici e, mentre le gambe si fermano, la
testa fa per parecchie volte il giro del mondo. Ma ecco che il
giovanotto mi viene vicino, mi prende la bici e, spingendola,
taglia dentro, in mezzo ai campi. Dopo venti minuti noto che
vicino ad una capanna c’è un assembramento di persone.
Siamo arrivati! Alzo il polso per guardare l’orologio: sono le
9.30. Due ore tirate allo spasimo, senza un attimo di sosta...».
201
sorpresa della gente sempre più incuriosita e giustificò il gesto
dicendo: "Maria Bhavan è la casa della Madonna”.
Finalmente gli venne consegnata dell’acqua benedetta,
asperse i muri dell’entrata e disse dal alta voce: “Maria Bhavan
è la casa delle virtù”. Sapienza, preghiera, Maria, virtù: ecco
come è visto il Monfortano in India ed ecco quello che
facciamo concretamente.
Siamo fondamentalmente considerati dei Missionari e
perciò continuiamo ad annunciare con convinzione la Parola,
Sapienza Incarnata, a coloro che vivono nella ignoranza
evangelica. Lo facciamo non solo nelle zone della missione
classica, ma anche e soprattutto a casa, a Maria Bhavan, che
noi abbiamo aperto a tutti coloro che vogliono sentire parlare di
Cristo.
Siamo degli animatori di comunità cristiane e perciò
riceviamo numerose richieste di ritiri o catechesi da parte di
comunità parrocchiali e religiose. Una caratteristica, questa,
che i nostri candidati ammirano molto in noi. Ecco perché
Maria Bhavan sarà un cenacolo per coloro che vogliono
imparare a pregare.
Siamo devoti di Maria, che abbiamo scelto come modello
nel nostro cammino di fede. Assieme ai nostri candidati
abbiamo riscoperto l’eredità letteraria lasciataci dal Montfort,
ed abbiamo capito che il discorso sul mezzo di santificazione
“sicuro e facile” è molto vero.
Siamo particolarmente attenti a sviluppare le virtù della
carità e della attenzione ai poveri. È per questo che qui a
Bangalore nel giro di pochi anni siamo riusciti ad individuare
la presenza di circa 10.000 lebbrosi, non solo, ma siamo anche
riusciti ad eliminare in loro il senso della disperazione ed a farli
sperare nella possibilità di una riabilitazione integrale.
Abbiamo inaugurato Maria Bhavan non con delle idee
vaghe, ma con l’ansietà di dover farci conoscere, ma con una
202
identità chiara che fa spesso dire alla gente: “Ah, questi sì che
sono preti!”».
203
prima che il progetto si trasformi in ‘Centro Giovanni XXIII’.
Ciò avvenne nella tarda primavera del 1977, quando, grazie ad
una bellissima spinta da parte delle Suore di San Pietro Claver,
Fratel Stefano ha potuto varare il piano. E in poco più di sei
mesi ha messo a punto il complesso di casette.
Ora è una felice realtà, non più un sogno di mezza estate. E
alla sera, quando mi affaccio sulla soglia della casa della
missione e spingo lo sguardo, nella profonda notte africana,
verso la casa illuminata del Centro, mi pare di sognare...».
205
1979
Dal freddo gelido al caldo tropicale
206
volte mi hanno rivolto la domanda: “Muli bwanji? (Come
stai?)”, cui rispondevo: “Indiri bwino” (Sto bene). Spero di
riuscire presto a diventare un po’ africano: capire la vita di
questo popolo, parlare la loro lingua e vivere con loro. Ora, per
i primi mesi, mi devo accontentare di vedere, sentire e
imparare. Devo considerarmi un bambino che va all’asilo e
impara a parlare, a scrivere e a vivere...».
207
Penso alla gente che ho incontrato e che incontrerò, a tutti i
problemi piccoli e grossi che fanno parte della loro vita.
Mentre anche la mia lingua incomincia a sciogliersi un po’, mi
riesce di cogliere meglio la realtà di sofferenza e di speranza di
queste persone che guardano al loro riso, alle piantagioni di
caffè, uniche risorse per una vita serena. Sanno che tanta gente,
in villaggi più o meno lontani, non ha più riso e la vita diventa
dura. Anche in questi villaggi scarseggiano elementi
indispensabili e i medicinali sono difficili a trovarsi. Quali
prospettive?
Rivedo davanti a me le famiglie provate dal dolore per
l’improvvisa morte di un loro bambino. Perché? Non lo sanno.
Febbre alta e dopo poche ore... la morte. In questa stagione
calda i casi non sono isolati, ma numerosi; le parole si fermano
tutte dentro; in silenzio, penso a non so che cosa, mentre tanti
interrogativi mi arrovellano la testa...».
208
«Utale cambia aspetto. I lebbrosi ancora in forze
costruiscono le loro capanne nei dintorni della missione. Qui vi
restano solo i più poveri tra i poveri, i più colpiti, i veri
invalidi. Lo spirito però rimane: di carità e di amore. Le sue
porte si riaprono ogni qualvolta Cristo sofferente, sotto spoglie
umane, si presenta a bussare...
Parecchie casette sono andate in rovina e altre ne stanno
seguendo la sorte. Una trentina sono state riparate negli anni
scorsi. Ne restano ancora una ventina da sistemare. Per
ricordare i 50 anni di Utale ne ho costruite quattro nuove sulle
rovine di quelle cadute, aggiungendovi anche una piccola
veranda. E le altre? Quando passo vicino, prego il Signore che
me le tenga ancora in piedi, nonostante le crepe grosse, le
termiti, il tetto malandato...».
210
1980
Si va delineando la missione dell’India
211
Personalmente sono alla quinta partenza. Mentirei se
affermassi che c’è soltanto entusiasmo quando si parte. Posso
tuttavia assicurarvi che è proprio l’entusiasmo ad aiutarci a
ripartire. Naturalmente anche noi paghiamo il nostro contributo
al famoso detto: “Partire è un po’ morire”, proprio perché non
siamo diversi dagli altri. Ma questo morire un poco è vero nei
due sensi: di qui i legami del sangue, di là quelli dello spirito.
Verissimo perciò quello che la sapienza malgascia ha
stigmatizzato in uno dei suoi mille proverbi: “Many ny mody
(E’ dolce il ritornare)”.
Ciò che costa di più in queste partenze è che mentre noi
andiamo in su con gli anni, non vediamo un numero sufficiente
di giovani ‘in panchina’, pronti per il cambio quando occorrerà.
Sì, perché invece di voler entrare in campo, i giovani guardano
piuttosto ad altre squadre...Ed io mi domando: insufficienza di
giovani o mancanza di entusiasmo? Per questo si può dire
veramente che ‘partire è un po' morire’. Ciò nonostante noi
partiamo perché: “many ny mody”, è dolce il ritornare».
213
Resoconto di una giornata in Kenya tra i Samburu
214
Nuovo impegno missionario in Argentina
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un’isola quando il fiume è in piena. Quest’isola si trova nello
Stato dell’Andhra Pradesh e si estende su una superficie di
circa 1.500 kmq.
Fino a venticinque anni fa nessun missionario ebbe il
coraggio di attraversare il fiume: troppo rischioso, si diceva.
Inoltre, l’isola era infestata da troppi serpenti e da zanzare
portatrici di malaria e di elefantiasi. E così si chiuse ogni
discorso sull’isola con la fatalistica espressione: “E’ una terra
abbandonata da Dio”.
Nel 1955, un padre del Pime, dopo un ennesimo invito da
parte di qualche simpatizzante indù residente nell’isola, e dopo
aver fatto un atto di fede nella promessa di Cristo: “Ecco io vi
ho dato il potere di camminare sopra i serpenti e gli scorpioni;
e se berrete qualche veleno, non vi recherà danno”, un
missionario del Pime, dicevo, affittò una barca ed attraversò il
fiume. Sull’altra sponda l’aspettavano già in molti: gente
povera, semplice, ma soprattutto desiderosa di ascoltare un
messaggio di salvezza.
Nel giro di pochi anni si ottennero molte conversioni. Oggi
si contano più di 150 comunità cristiane, e moltissimi villaggi
indù chiedono di entrare nel catecumenato. Purtroppo
l’assistenza spirituale è povera: in tutta l’isola vi lavorano solo
cinque sacerdoti missionari. Ed è per questo che l’arrivo dei
Monfortani è stato giudicato provvidenziale.
Cosa stanno facendo i Monfortani in questa terra così
aperta al messaggio cristiano? Intanto stiamo studiando la
lingua del posto, si chiama Telegu, che ha un alfabeto
composto di circa 50 lettere: sembrano 50 pose di un serpente!
Quasi ogni giorno visitiamo le piccole comunità cristiane
sparse nel raggio di 30 km. attorno al centro della missione. Lo
facciamo generalmente in moto o con un calesse a due o tre
posti.
Svolgiamo prevalentemente un lavoro di evangelizzazione
e di promozione sociale. In questo siamo aiutati moltissimo
216
dalla presenza indispensabile dei catechisti e dai mezzi di
comunicazione. Occorrerà istituire altre piccole opere come
dispensari, scuole elementari e scuole per adulti: opere
attraverso le quali si stabilisce un primo contatto con la gente.
Non sappiamo ancora esattamente cosa il Signore ci stia
preparando in questa nostra nuova missione, ma possiamo dire
con fermezza che Egli ci ha chiamato qui per contribuire al
compimento della sua promessa: “Non ti chiamerò più
abbandonata!”».
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Il petalo numero quattro è la casetta del Noviziato,
recentemente presa in affitto a Mysore, dove risiedono quattro
novizi con il loro padre maestro.
Bisogna ammettere che nel giro di pochi anni questo
nuovo fior di loto indiano s’è imposto all’attenzione del
pubblico, specialmente della Chiesa locale: “Questi Monfortani
hanno in loro qualche cosa di speciale”. Ma non c’è altro che
ringraziare il Signore per questa predilezione nei nostri
confronti. Indubbiamente Egli non ha dimenticato la “Preghiera
Infuocata” del Montfort.
Accanto al Signore sento di dover ringraziare tutti i nostri
benefattori che in un modo o nell’altro hanno fatto sì che il loto
indiano aprisse i suoi petali per proclamare la gloria di Dio».
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Indice
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