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MISSIONARI

MONFORTANI
ITALIANI
IN MISSIONE
Frammenti di cronaca dalla corrispondenza
dei missionari italiani in missione

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(1972/1980)

A cura
di Santino Epis

Bergamo 2002
1972
Rose e spine del missionario
Il giorno più lungo della sua vita

P. Giovanni Losa racconta: «...Si stava proprio nel bel


mezzo dei giochi per la chiusura delle scuole. Canti e balli
africani. Arriva un messaggio: c’è una partoriente da portare
all’ospedale di Malosa. Poco da discutere: il caso è serio. Ne ha
messi al mondo 12 e, ora, al tredicesimo non ce la fa proprio
più. È spossata e sembra che da un momento all'altro stia per
andarsene.
Partiamo con la nuova nurse e un’altra donna che s’è
offerta di accompagnarci. Non c’era proprio nessuno ad
accompagnare quella poveretta. Solo una figlioletta di sette o
otto anni, che portava legato alla schiena un fratellino di due
anni.
Fatto una quindicina di miglia, il primo intoppo. In un
tratto di strada dove la sabbia è alta più di una ventina di
centimetri e la strada è piuttosto stretta, ci scontriamo con una
Land Rover: un’autoambulanza. In simili casi c’è una sola via
per uscirne: spingere a fondo l’acceleratore e balzare deciso
nella sabbia, tenendo ben saldo il volante e manovrando con
decisione per tornare in carreggiata, prima di schiantarsi contro
qualche albero. Ma come fare una simile manovra con
un’ammalata grave sul cassone? I danni, a prima vista, non
sono gravi. Il motore va ancora e anche la ruota, liberata dalla
lamiere, gira ancora.
Prego il conducente dell’ambulanza di caricare l’ammalata
e proseguire fino all’ospedale, ma non ci sente. Ripartiamo,
affidandoci ai nostri soliti Angeli Custodi. Percorriamo altri
dieci miglia e proprio sulle prime montagne, vedo la spia rossa
sul segnalatore dell’acqua. Ci siamo! Scendo, apro: il radiatore
è asciutto e perde acqua. Le due donne partono in cerca

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d’acqua, mentre io sto a guardia della donna che si dimena in
preda ai dolori. Che debba fare anche da levatrice? Il luogo è
deserto e prima di trovare una capanna bisogna farne di passi.
Aspetta, aspetta: passa mezz’ora, un’ora, due e la levatrice non
compare. Auto dirette a Malosa non se ne vedono. Solo alcuni
camion che vanno verso Ntaja. Incomincio a fermare qualcuno
per mandare qualche messaggio di soccorso a P. Gotti e P.
Maggioni, alla Polizia di Ntaja e a quella benedetta ambulanza
che se n’è andata.
Intanto le ore scorrono. Io vado su e giù, per vedere se
arrivano le due donne. Mi siedo ai margini polverosi della
strada e cerco di recitare qualche posta del Rosario. Ma sì,
anche le Ave Maria non sbucano diritte. L’occhio è sempre là,
sul cassone, al mio ‘Datsum’ fermo sulla strada. Solo qualche
grossa scimmia viene di tanto in tanto a sedersi sulla strada e
passeggia dondolandosi sgangheratamente. Purché non arrivi
qualche cosa d’altro, di quelle non c’è d’aver paura. Se ne
vedono tante che attraversano la strada e fuggono sugli alberi.
Finalmente le due donne ritornano, Ma la loro fatica è stata
inutile. L’acqua messa nel radiatore usciva come una
fontanella. La ventola aveva urtato il radiatore e l’aveva
bucato. Non c’è che da attendere qualche Angelo Custode.
Dopo molto tempo arriva una macchina. La fermo,
carichiamo l’ammalata con le due donne e partono. Ora sono
più leggero e posso attendere fino a notte. Tutt’al più mi annido
in cabina. La notte si avvicina. Finalmente arriva un’altra Land
Rover. Mi faccio trascinare fino a Nsanama, la missione più
vicina. P. Valdameri non c’è e la casa è chiusa. Ho una fame da
lupo...».

Il campo dove lavoriamo

P. Angelo Rota e P. Carlo Berton inviano notizie:


«...Tamatave: porto principale dell’Isola Rossa, caratterizzata
da una forte natalità e una impressionante immigrazione. La
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popolazione si aggira sulle 70.000 unità. Tutte le 19 tribù
malgasce sono rappresentate qui alla capitale di Betsimisaraka.
Ci sono pure gli stranieri: creoli, cinesi, vietnamiti, giapponesi,
francesi e... italiani, una decina, senza dimenticare i russi.
Le navi di passaggio e i turisti danno una nota di festa in
questo porto traendo in inganno i passeggeri in transito che non
conoscono i veri problemi che invece preoccupano chi ci vive e
lavora.
La metà della popolazione non ha ancora 16 anni. Le
strade e le piazze rigurgitano di marmocchi che le scuole statali
e private non riescono a contenere. Tutti vorrebbero studiare
per conseguire un diploma, ma mancano le scuole. Manca
ancora di più il lavoro; la disoccupazione è il problema numero
uno della città. Le domestiche accettano di lavorare per 5.000
lire mensili. Il salario base di un operaio, con libretto di lavoro,
è di 12.000 lire al mese. Con queste misere paghe devono
vivere fino ad una decina di persone.
La nostra Parrocchia ‘Sacré Coeur’ ha i quartieri più
poveri della città, dove la gente si installa alla meno peggio in
capanne di foglie di palma, lamiere, vecchio tavolame... Il
numero degli abitanti e la promiscuità di questi abitacoli fanno
pensare al cavanserraglio di Betlemme.
Un terzo di questi abitanti sono affidati alle nostre cure
pastorali. 25.000 anime di cui 8/10 mila sono battezzati; gli
altri, o sono senza religione o praticano l’animismo magico,
centrato sul culto dei morti e degli spiriti, i quali presiedono
alla vita degli uomini.
In questi quartieri le capanne sono costruite con un
disordine spaventoso. Mancano l’acqua e l’igiene. Le vie di
accesso sono così strette che è difficile accedervi anche in
bicicletta. Le bottegucce offrono giusto l’indispensabile, ma vi
abbonda invece la ‘btsa’, bevanda tratta dalla canna da
zucchero. Si beve per dimenticare la angosce della vita...

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Noi Padri italiani abbiamo già aperto un Centro per la
formazione professionale della gioventù disoccupata. Ogni
anno vi trovano posto 50 giovani e 75 ragazze tra i 16 e i 22
anni, di qualunque razza o religione essi siano, purché poveri e
disoccupati.
Al ‘Centre Culturel’, così si chiama questo Centro, si
impara falegnameria, carpenteria, ebanisteria. Attualmente è in
via d'esperimento anche il ramo di fabbroferraio, stagnino e
saldatore. Le ragazze imparano taglio e cucito, cucina,
lavanderia, rammendo, ricamo, stiro, puericultura e igiene.
Avessimo locali più grandi avremmo molti più giovani. Ora
stiamo acquistando il terreno dove costruiremo un altro
centro...
Per poter prendere contatto con un maggior numero di
persone, visitiamo, sistematicamente, tutte le famiglie e,
all’occasione di un battesimo, cerchiamo il contato con tutti i
membri della famiglia. È così che abbiamo portato a circa un
migliaio il numero dei ragazzi da catechizzare. Anche due
gruppi di adulti e uno di studenti frequentano il catecumenato.
Durante la settimana andiamo nelle scuole statali superiori
dove cerchiamo di discutere dei problemi di carattere religioso
con gli studenti che lo desiderano, cercando di aiutarli a
formarsi una coscienza retta, poiché più tardi saranno essi a
dirigere il paese. Questa, in breve, la nostra vita e i nostri
progetti».

I gemelli attirano la maledizione degli antenati

P. Carlo Berton racconta di una credenza superstiziosa dei


malgasci. Ne parla prendendo lo spunto da un fatto di cui è
stato testimone.
«...Baoala abitava in una capanna di Morarano, con
Kamisy, l’uomo della stessa tribù. Lui sfacchinava al porto, lei
selezionava pazientemente i grani di caffè per l’esportazione.
Due anni di vita comune, ma nessun figlio. I parenti

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consigliavano di separarsi, ma loro tenevano duro. Un indovino
aveva dato loro un amuleto a suo parere infallibile! E un giorno
Baoala sentì pulsare qualcosa di nuovo dentro di sé: un figlio!
Boala e Kamisy tornarono dall’indovino; gli offrirono in
omaggio un pollo e chiesero l’oroscopo. “Quello che aspettate
è un evento felice, sentenziò l’indovino, ma vi ricordo che i
gemelli non possono essere allevati: la maledizione degli
antenati distruggerebbe la famiglia; ma questo capita di rado,
state tranquilli”.
Le donne di Morarano si soffermavano spesso accanto alla
capanna di Baoala: si parlava dell’atteso felice evento. Kamisy
prese ogni precauzione per lei. L’erede doveva nascere bene: la
fece quindi entrare all’ospedale per il parto. Dopo una notte di
doglie terribili, allo spuntar del sole, due bei maschietti a turno
riempirono la sala di strilli. L’ostetrica e l’infermiera erano
raggianti di gioia. Baoala, visti i bambini, girò la testa contro la
parete per non vederli: erano i gemelli porta sfortuna! Kamisy
prese il cappello da paglia e ripartì cupo alla volta di Morarano.
La notizia passò di capanna in capanna: tutti erano
sbigottiti. La sera tardi, protetta dalle prime ombre, Baoala
ritornò a casa con i suoi due bambini e si tappò nella capanna
con Kamisy. Si chiedevano più con gli occhi che con le parole,
come farli scomparire. Li guardavano preoccupati, quasi con
terrore: la maledizione degli antenati poteva fulminarli da un
momento all'altro.
Kamisy prese una risoluzione: uscì di notte e a qualche
metro dalla capanna, con una vanga, scavò con precauzione
una buca nella sabbia. Chi mai avrebbe potuto trovare le due
creaturine un metro sotto terra? Nessuno l’avrebbe saputo! La
buca era pronta. Con un colpo di tosse Kamisy avvertì Baoala.
Questa avvolse i gemelli in un pezzo di lenzuolo ed uscì. Uno
dei bambini, troppo schiacciato, incominciò a strillare come
una sveglia in piena notte. Baoala si voltò per vedere se

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qualcuno potesse sentire. Ebbe un brivido trovandosi davanti la
cristiana Romaine che la guardava.
Romaine ruppe il silenzio: “Baoala, dalli a me i gemelli,
saranno miei figli. Nessuno lo saprà. La maledizione degli
antenati cada pure su di me: sono cristiana, Iddio mi aiuterà...”.
Kamisy, con la vanga in mano, tremando, balbettò:
“Portali via, ma che non ritornino più qui, mai più!”.
Romaine prese quel fagotto tiepido e sparì nelle tenebre:
Baoala e Kamisy respirarono profondamente. Romaine non
camminava, ma danzava, lei sposa da dieci anni, senza la gioia
di un figlio: ora di colpo ne aveva due tra le braccia. Le pareva
di avere un tesoro, di essere un’altra, mentre lacrimoni
inarrestabili le bagnavano il viso.
Romaine era povera. Suo marito l’aveva abbandonata da
sei mesi proprio perché non aveva figli, cosa grave per un
malgascio. La povera donna viveva confezionando cestelli e
stuoie di paglia. Anche se il marito era partito, continuava ad
essere una donna seria e religiosa.
Il giorno dopo, Noeline, originaria dell’isola Sainte
Marie, venne a trovarla. Era una sua amica. Dopo una vita
avventurosa con tre mariti, si era fatta catecumena ed era stata
battezzata a Pasqua. Ora viveva sola. Viene a sapere la storia
dei gemelli. “Romaine, dammene uno!”. Romaine la guardò a
lungo, esitò, poi ne prese uno e glielo mise tra le braccia.
Stavano commosse a contemplare le due piccole creature,
quando entrò un uomo: era Laurent, il marito di Romaine. Si
diresse verso la sposa, prese il bambino tra le braccia e disse:
“Questo bambino ora è nostro. Lo alleveremo ed educheremo
insieme!”... e si sedette come se non si fosse mai allontanato da
casa...
La domenica, 13 novembre 1971, un capannello di curiosi
assistevano al Battesimo dei gemelli. Padre Angelo Rota li
inondava di acqua lustrale: i due gemelli, maledetti dagli
antenati, avevano genitori sulla terra ed una Padre in cielo...».

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Gravi danni del ciclone “Eugenie”

Successivamente P. Carlo Berton informa sul ciclone che


ha colpito le nostre missioni:
«... La notte del 13/14 febbraio fu in inferno: il ciclone
‘Eugenie’ si abbatteva sulle nostre missioni. Raffiche di vento
sui 130/150 Km. orari. Scrosci di pioggia cadente in ogni
direzione. Nubi oscure si accavallavano scaricando botti di
acqua. Sembrava essere sotto bombardamento a più riprese,
con un fragore indiavolato. Si sentiva lo schianto delle piante
che, abbattendosi, schiaffeggiavano le case di cemento. Le
povere capanne di foglie di palma volavano via.
Prime statistiche: 46 morti, 112 dispersi, 17 feriti, 3.500 i
senzatetto, 40 chiese distrutte. La forza maggiore e l’occhio del
ciclone erano sulla zona di Tamatave-Brickaville, poi continuò
nell’interno dell’isola, affievolendosi sugli altipiani.
Girando per le nostre missioni, abbiamo pianto con i
poveri malgasci. Un’altra volta c’è tutto da rifare...».

P. Lorenzo Pege aggiorna gli amici sulla sua vita africana.

«...Sono da poco terminati i giorni forti dell’anno liturgico.


Mi riferisco alla Settimana Santa, la seconda che trascorro in
terra d’Africa. L’anno scorso non sono sceso in campo,
handicappato com’ero dalla lingua. Ma quest’anno il mio
allenatore, mons. Alessandro Assolari, ha creduto opportuno
gettarmi nella mischia anzitempo, non disponendo di alcune
valide pedine bisognose di un turno di riposo.
Utale è il nome della città dove gioco il più bel campionato
del mondo, quello per cui Cristo ha offerto il meglio di se
stesso. Sono sceso in campo un po’ emozionato ma deciso a
combinare qualcosa di buono. I miei compagni, tutti neri come
il carbone, mi garantirono la loro solidarietà e la loro
comprensione. D’altra parte avevo avuto modo di approfondire
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la tecnica e lo stile di vivere e santificare la liturgia domenicale
di questi amici...».

Guardando indietro ai miei quattro anni di Africa...

Anche P. Giovanni Losa scrive agli amici, non dal Malawi,


ma dall’Italia dove si trova in vacanza. Descrive impressioni e
sensazioni e tenta alcune riflessioni.
«... Il 15 marzo u.s. ricorreva il quarto anniversario del mio
primo sbarco in Africa. Nel pomeriggio del 15 marzo del 1968,
infatti, toccavo definitivamente l’Africa nel porto di Beira. La
prima persona nota che incontrai fu il P. Alessandro Assolari,
ora Prefetto Apostolico di Mangochi e mio diretto superiore.
Dire cosa provo ora, guardando indietro a questi quattro
anni di Africa, è un po’ difficile, tante sono le vicende lieti e
difficili, entusiasmanti e meno che vi ho incontrato. Una cosa
però è certa: l’avventura missionaria, come la si vuole
chiamare impropriamente, è tale che è ben degna di essere
vissuta da chiunque, giovani e non giovani, forse più da questi
che da quelli. E la grazia alla chiamata alle missioni rimarrà,
nella vita di uno, come una grazia straordinaria, da inserire
nell’albo, assieme a quella del sacerdozio e della vita religiosa.
Ora sono già in vacanza in Italia, confuso tra la folla
indaffarata della vostra civiltà del consumo. Mi trovo un po’
spaesato e come trasognato. E mi scuserete, perché la nostra
vita è in Africa, e le nostre vacanze non sono che di ... attesa e
di lavoro. Di attesa, perché ognuno di noi, prima di pensare alle
vacanze, pensa al suo ritorno in Africa, alla zona che gli sarà
affidata, al lavoro e ai progetti di domani.
Parlarvi dei miei progetti futuri è ancora un po’ prematuro,
dato che non so ancora di preciso la mia nuova destinazione.
Posso dirvi solo che forse sarò destinato ad aprire una nuova
missione nell’ovest di Kasupe, tra le tribù degli Angoni, gente
fiera e bellicosa. E questo vale di più che una lunga
presentazione, perché aprire una nuova missione è sempre
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un’impresa esaltante e difficile, bramata e temuta nello stesso
tempo.
Ma la vostra aperta simpatia e il vostro incoraggiante aiuto
in preghiere, sacrifici e denaro, sarà per me come un viatico
corroborante che mi farà guardare all’avvenire mio e della mia
nuova missione, con serena fiducia».

Sempre P. Giovanni Losa, in Italia, scrive: «...Da più di un


mese mi trovo in Italia per il mio turno di vacanza. Non vi dico
le impressioni che ho avuto nel rivedere la nostra Italia dopo
quattro anni di Africa, perché mi domandereste: “ma quello da
che mondo viene?”...
In breve: mentre ammiro tutti i vostri meravigliosi ritrovati
per abbellire la vita, la casa, i paesi, le città, dietro tutto questo
spunta sempre, inevitabile, il paesaggio africano, con le sue
capanne di fango e di erbe, e tanti e tanti volti di neretti, che mi
guardano, ammiccano, quasi per incoraggiarmi e rammentarmi
qualcosa: “Ricordati, pare che mi dicano, che siamo qui ad
aspettarti, che sei il nostro ambasciatore in vacanza di
missione; che ti abbiamo affidato tanti messaggi...”.
Ritornerà deluso, o come si dice, con le pive nel sacco,
questo vostro ambasciatore dei poveri dell'Africa? Oppure
troverà tanta comprensione e amore, da far ballare di gioia i
suoi neretti al suo ritorno? Io lo spero con tutto il cuore e con
tutte le forze...».

Le spine e le rose della vita missionaria

P. Angelo Rota e P. Carlo Berton parlano delle rose e delle


spine della loro vita missionaria.
«Le rose. Il nostro lavoro missionario sta per essere
coronato ora da un bel raccolto: l’entrata nella comunità
cristiana dei catecumeni, cioè degli adulti che per due anni si
sono preparati al sacramento del Battesimo.

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Nella Vigilia Pasquale abbiamo avuto 40 battesimi, 15
matrimoni, 50 Prime Comunioni d’adulti. Fu il risultato di un
lavoro di lenta e approfondita preparazione alla vita cristiana.
Oltre ai giovani provenienti dalla scuole private e di Stato,
c’erano sposati e non sposati. È soprattutto per questi la nostra
gioia, nel vederli decisi ad un impegno definitivo. Liberati
dalle superstizioni e dai tabù della loro religione animista,
responsabili della loro vita coniugale e dell’educazione dei
figli, capaci di riflettere, di dialogare, di dividersi le
responsabilità e prevedere il domani, desiderosi di migliorare la
loro condizione di vita.
Su questi focolari vorremmo fondare le nostre speranze per
una base di un cristianesimo più impegnato; che siano lievito
nei loro quartieri poveri sotto ogni punto.
A titolo di informazione ecco alcuni tabù per le donne
che aspettano un bimbo: non devono bere latte, non ne
avrebbero per allattare; non devono mangiare uova, il nascituro
sarebbe muto; non possono mangiare ananas, il nascituro
avrebbe i capelli crespi; non devono mangiare banane doppie,
nascerebbero gemelli; sopprimere i gemelli, essi farebbero
morire la madre; non guardare l’accetta, il bimbo sarebbe
coperto dalla lebbra o dalle ferite; non strappare erbe, la
placenta uscirebbe subito; non sedersi sulla porta, per il
pericolo di aborto; non preparare i pannolini, sarebbe come
sfidare il destino.
Vi risparmiamo tutto il resto della serie di questi interdetti
per non farvi arricciare il naso, ma vi assicuriamo che la lista
non si ferma a quanto accennato sopra. I focolari cristiani sono
un esempio di amore reciproco, di serenità nella vita a due. La
loro fede diventa una vera testimonianza per i pagani e un
invito ad una vita migliore.
Le spine. Tre mesi fa, tre cicloni ci hanno fatto stare sulle
spine, ed un quarto, nominato ‘Eugenie’, si è scatenato con
tutta la sua rabbia sulla diocesi di Tamatave. La città e tutta la

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costa fino a Brickaville e a Vatomandry, Ilaka, Mahanoro sono
state flagellate in maniera spaventosa. Raffiche di vento,
accompagnate da un vero e proprio diluvio, hanno seminato
panico e distrutto case e raccolti. Il bilancio fu di 96 morti, 112
dispersi, 7000 senza tetto, 20 ponti distrutti. Anche la
maggioranza delle cappelle sussidiarie della brughiera
abbattute. I danni più gravi però si riscontrano nei raccolti: il
75% è andato perduto. Qui nella nostra parrocchia ci furono
200 capanne distrutte o danneggiate.
Abbiamo organizzato i comitati di soccorso tra i cristiani e
abbiamo potuto distribuire 100.000 franchi, del riso e qualche
quintale di vestiti...».

Quante delusioni ebbi in Italia...

P. Remigio Villa scrive per manifestare una delusione:


«...Quante delusioni ebbi in Italia! Da gente che credevo
possibile fonte d’aiuto, ebbi l’amara sorpresa di sentire che non
avevano tempo di pensare al missionario medicante di Cristo!
Una sola persona anziana rispose ad un mio accorato appello
lanciato con oltre cinquanta lettere in una parrocchia! Cristo
benedica e ricompensi tutti i cuori buoni e generosi della gente
semplice dei nostri paesi. A loro il mio augurio e la mia
preghiera.
Ed ora si ricomincia: con l’aiuto del Signore, ben sicuro,
ma anche con il vostro aiuto di sempre. Conto in modo speciale
sulla vostra preghiera e sui vostri sacrifici: la Madonna farà il
resto. All’opera dunque e lavoriamo insieme per il Regno di
Cristo in Africa...».

Questa sera sono molto triste!

P. Lorenzo Pege si confida con gli amici: «... Questa sera


sono molto triste. Il ritmo monotono del tam tam che saluta il
sorgere della luna nuova mi dà sui nervi. Non ho voglia di

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dormire. Sento il bisogno di mettere sul bianco quanto ho in
cuore, sfidando le dolorose punzecchiature delle insolenti
zanzare, indesiderate compagne in questa torrida notte africana.
Oggi, per ben due volte mi sono trovato con gli occhi pieni
di lacrime... Mi ero assentato dalla missione per sette giorni, in
visita alle cristianità più lontane. Ieri sera, ritornando a casa
verso le 20, mentre canticchiavo un noto motivo di Celentano:
«Ciao, amici, ciao!», ho trovato Emery, una ragazza madre,
sulle rive dei Rivi Rivi, il fiume che taglia in due la missione di
Utale. Conosco molto bene lei e la sua bambina: non mancava
giorno infatti che non venisse alla missione a chiedermi
qualcosa. Poverissima e abbandonata dal suo promesso sposo
mi ero impegnato a procurare quanto le necessitava per non
esporla alla tentazione di vedere il suo giovane corpo venduto
per un pugno di farina o per un vestitino...
Le chiedo: “Dove vai a quest'ora, Emery?”. “Padre, torno
dal dispensario. Geltrude sta molto male. Da alcuni giorni
soffre terribili attacchi di malaria...”.
Questa mattina, mi vedo arrivare il catechista: “Padre, la
figlia di Emery è morta questa notte”. “Cosa, è morta?”. Corro
al villaggio. Trovo la capanna attorniata da donne in pianto. La
piccola è adagiata sulla nuda terra coperta con uno straccetto
unto e bisunto. La scopro. Contemplo in silenzio quel faccino
senza vita. Sembrava dormisse.
Geltrude era un bambina di una bellezza incomparabile.
Non ho saputo trattenere le lacrime. Mi sono poi avvicinato
alla madre, in preda alla disperazione... Non vi dico quello che
ho sofferto, cosa ho provato. Mi sono sforzato di balbettare una
parola di conforto. Ho pregato a lungo per quella povera
donna...
Ma ancora non mi so rassegnare di non vedere più quella
bambina che a Natale avevo vestita di nuovo con quanto mia
mamma mi aveva spedito da Padova, di non poterla più
stringere tra le braccia, di osservare divertito l’illuminarsi dei

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suoi occhietti dinanzi ad una zolletta di zucchero. “Si poteva
salvare”: è il martellante ritornello che mi tormenta.
Forse sono troppo esigente con me stesso e con gli altri,
ma non ho saputo gioire quando, dopo il funerale della piccola
Geltrude, si presenta alla porta un’altra mamma con una
gallina: “Padre, questo è quanto ti posso offrire perché ora il
mio bambino sta bene”. Era una delle tante che avevo aiutato.
È la vita di qui: dove si arriva in tempo si salva, quando
invece le circostanze non lo permettono è la morte. Ditemi voi:
c’è o non c’è motivo d’essere tristi?».

Un pozzo per dare da bere agli assetati

P. Vittorio Crippa, rientrato dalla vacanza in Italia, chiede


aiuti per un progetto concreto e urgente:
«... Durante questi mesi trascorsi in mezzo a voi, ho
assistito ad una vera gara di bontà e generosità a favore
dell’opera missionaria, ed è quindi con animo commosso che
esprimo il grazie più sincero.
Il 4 giugno sono ripartito per il Malawi dove tanti miei
cristiani attendevano con gioia il loro missionario, per avere
tante belle cose che serviranno a sollevare la loro miseria. Sono
ritornato nella mia missione di Balaka che si trova in una zona
molto povera e una delle più sottosviluppate, perché colpite
periodicamente dalla siccità.
La popolazione si serve di acqua stagnante e per di più
costa loro fatica. Devono percorrere molti chilometri e
attendere diverse ore per procurarsi un secchio d’acqua cattiva
e malsana, causa, specie nei bambini, di malattie e morte.
Vorrei risolvere almeno in parte questo problema, cercando di
far scavare un pozzo. Ciò sarebbe possibile, poiché
l’esperienza fatta in altre zone, ci assicura che scavando con la
trivella ad una cinquantina di metri, si può trovare acqua
abbondante e buona.

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Per lo scavo di questo pozzo occorrebbe la somma di un
milione e mezzo. Presento a voi questa occasione di compiere
un’opera di misericordia: dare da bere agli assetati; ognuno può
concorrere nella misura delle proprie possibilità. Il Signore
saprà ricompensare con abbondanti benedizioni...».

Un SOS dalla missione di Chipanda

Un SOS arriva anche da P. Michele Gotti e da P. Giovanni


Maggioni:
«A nome dei nostri cristiani di Chipanda, lanciamo a tutti
un appello, un SOS. ... Da pochi giorni avevamo terminato di
coprire la nuova chiesa di Mpiri. Si era tutti contenti. Che
venissero pure le piogge torrenziali...
Il 3 giugno, di buon’ora, arriva fradicio di pioggia, il
nostro catechista di Chipanda, con una faccia da funerale.
Lasciando da parte una volta tanto i convenevoli, ci dice
subito: “La nostra chiesa è rovinata! Stanotte il vento e la
pioggia hanno strappato via il tetto, ed ora si trova nel campo
di granoturco di Victor. E poi... anche i muri sono pericolanti.
Di sicuro è stato il demonio...”.
Ci sembrava impossibile, eppure dovevamo credere, come
già a novembre e a dicembre, quando altre staffette vennero ad
annunciarci altri disastri del genere. Ma proprio a Chipanda
doveva capitare? Venendo a Mpiri tutti e due a distanza di
pochi mesi, nel 1970, avevamo voluto portare a termine la
chiesetta di Chipanda. Fu uno dei nostri primi lavori. Poiché
era costruita in mattoni e fango, la intonacammo tutta di
cemento, dentro e fuori, e ci mettemmo un bel pavimento
liscio. Avevamo investito anche il nostro estro artistico per
renderla più accogliente. All’inaugurazione, presente mons.
Assolari, fu una giornata indimenticabile. E tutto ad un tratto la
rovina.
Trascorsi pochi giorni, P. Gotti, in bici, poiché le strade
erano impraticabili, si recò a celebrare la Messa a Chipanda:
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tutti i cristiani erano presenti, aspettando soprattutto una
decisione. Ripararla era come esporsi un’altra volta ad un
pericolo più grande. Demolirla completamente e ricostruirla in
cemento, con un tetto nuovo? Fu deciso così.
A turno, uomini, donne e bambini hanno demolito,
mattone per mattone, facendo attenzione a non romperli, la loro
chiesa che avevano innalzato qualche anno prima con tanti
sacrifici e sudori. Hanno portato già la sabbia ed ora aspettano
il cemento, le lamiere nuove e gli operai muratori...
Sono due mesi ormai che si radunano a pregare in una
chiesa senza tetto, senza mura, ricca solo di un pavimento
mezzo scrostato anche quello! Fino a quando continueranno
così?
Cari amici, aiutateci, toglieteci questo peso grosso dal
cuore, già carico di tante altre preoccupazioni, nonché di fatture
da pagare, e vi contraccambieremo con la nostra preghiera
unita a quella dei nostri cristiani di Chipanda».

Avvenimenti sanguinosi nell’Isola Rossa

P. Carlo Berton invia notizie sugli avvenimenti sanguinosi


accaduti nel maggio scorso nel Madagascar. Ne ha parlato la
stampa e la stessa tv italiana. “La rivoluzione del Madagascar”:
così P. Carlo titola il suo servizio sui fatti e sulle conseguenze
dell’evento in questione.
«Dal 1959, anno dell’indipendenza dell’isola, il
Madagascar non ha conosciuto né cambiamenti né sommosse.
La Repubblica Malgascia era considerata in Africa come la
‘saggia’. Il malcontento serpeggiava tuttavia tra i ceti più
poveri dell’isola. Le ragioni della scontentezza verso il
Governo erano queste: mancanza di libertà politica, partito
unico, uno stato di privilegi e di ingiustizie sociali e culturali,
elezioni truccate, mancanza di verità nella informazione
nazionale, scuola inadatta al paese, ancora regolata unicamente
sul modello francese.
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Nell’aprile 1971 si rivoltò la tribù dell’estremo sud, gli
Antandroy. La repressione fu violenta: più di mille morti. Il
ministro degli Interni, Resampa, fu messo in carcere, sotto
accusa di tradimento.
Ognuno avvertiva che la situazione era insopportabile, ma
nessuno osava fare il primo passo. Gli universitari della
capitale, Tananarive, si misero in sciopero, rifiutando di
studiare per essere poi dei disoccupati. Il Governo, per tutta
risposta, espulse gli studenti e chiuse l’università. Fu la
scintilla nella polveriera. In una settimana tutti gli studenti
dell’isola rifiutarono di andare ai corsi. Si organizzarono sfilate
silenziose per le strade con slogans, chiedendo la riforma della
scuola.
La maggioranza dei professori si unì agli studenti.
Assemblee di studenti avevano luogo un po’ ovunque: vi si
spiegavano i motivi e le richieste dello sciopero generale. La
Polizia intervenne. Arrestarono i responsabili del movimento,
sequestrarono i giornali cattolici e tre sacerdoti malgasci per la
loro pretesa di creare una società più giusta.
Si mossero anche gli operai: scioperarono e sfilarono
protestando. Il paese era ormai paralizzato. Il 13 maggio ci fu
lo scontro tra i giovani e la Polizia. Tananarive e Majunga
ebbero il numero più elevato di morti e feriti. Più di 100.000
persone inscenarono nella capitale una sommossa generale.
Bruciarono il Municipio, demolirono le rotative del giornale
francese paragovernativo, ‘Courrier de Madagascar’, tentarono
di accerchiare il Palazzo presidenziale. Il presidente Tsiranana
cedette. Diede il potere ai militari e sciolse il Governo. Il
cardinale Rakotomalala intervenne parlando ai manifestanti per
impedire vendette tribali.
La vita malgascia ha ripreso il suo ritmo. Si respira un
clima nuovo di libertà. Il Paese è governato da tecnici sotto la
direzione di tre Generali. Le scuole e gli esami sono stati
soppressi: studenti, operai e rappresentanti delle forze vive

17
della Nazione sono mobilitate per preparare un Congresso
Nazionale nel quale si rifaranno le basi di una nuova
Costituzione per una vita politica, economica e culturale più
giusta e adatta all’isola.
I mesi di agosto e settembre saranno decisivi per
l’avvenire del Madagascar. Noi missionari lavoriamo e ci
auguriamo che questo rinnovamento di vita politica e sociale si
realizzi nell’ordine e possa stabilire più giustizia per i ceti più
poveri. Lavoriamo perché un vincolo più fraterno possa unire
le 18 tribù, formando una sola famiglia, un solo popolo, nel
grande regno di Cristo».

Il mio lavoro tra gli orfani di Tamatave

Da diversi anni Suor Clelia, Figlia della Sapienza, vive e


lavora in Madagascar. È una missionaria molto attiva e sempre
pronta ad aggiornare gli amici sulla sua attività. Ecco uno
stralcio di una sua ultima lettera:
«...Finora mi conoscete solo per l’attività che svolgo tra gli
orfani di Tamatave. Dovete tuttavia sapere che questa è solo un
lavoro extra, che mi permette di riempire le poche ore libere di
cui dispongo lungo la settimana.
L’attività principale la svolgo all’ospedale maggiore, nel
reparto di pediatria, dove ho in media tra i quaranta e cinquanta
piccoli malgasci. Sono bimbi che fanno tanta compassione, ma
al tempo stesso sono affascinanti. Purtroppo quando arrivano in
ospedale sono troppo mal ridotti a causa di malattie tipiche dei
paesi tropicali e specie della miseria in cui vivono.
Quest’ultima fa più vittime che non i microbi e i virus.
Su dieci bambini ricoverati, cinque sono malnutriti e fanno
veramente pietà: sono piccoli scheletri e spesso deformati;
usando una parola forte li chiamerei quasi ‘cadaverini in
deposito per un tentativo di rianimazione’.

18
Potete immaginare la nostra gioia quando li vediamo
riprendersi. A volte si è tentati di pensare ad un miracolo. Basta
qualche cura appropriata e soprattutto del cibo.
Accanto a questi... miracolati, ci sono i casi disperati. In un
passato recente, in 48 ore sono partiti per il cielo 10 bambini
tra i 4 a 10 anni. Queste morti precoci potrebbero essere evitate
se i genitori fossero più previdenti e invece di consultare un
indovino o uno stregone, chiamassero il medico, e disponessero
del minimo necessario per nutrirli convenientemente. Di fronte
a questi casi rimango sempre pensierosa e col cuore straziato.
Un bambino di due anni pesa solo quattro chili: il peso di
un neonato. Casi come questo potrei citarvene molti dato che
tanta è anche la miseria in cui vive la nostra gente.
Voi, care mamme, che non lasciate mancare nulla ai vostri
bambini, fate benissimo, è un vostro dovere. Pensate però
anche a tante vostre sorelle malgasce. Amano i loro bambini
come tutte le mamme del mondo, ma quale pena per esse non
poter dare nemmeno il necessario alle coro creature...».

Nuove partenze per il Malawi

Parte per il Malawi P. Bruno Epis, realizzando il suo


sogno missionario. Sempre per il Malawi parte anche P.
Francesco Perico. Così lo ricordano i generosi giovani di
Prezzate, suo paese:
«...Giovedì, 3 agosto 1972: P. Francesco Perico partiva per
la sua nuova missione in terra africana. Se n’e andato
accompagnato dall’augurio di tutto un paese, che si è
impegnato a sostenerlo e ad aiutarlo spiritualmente e
materialmente.
Ripercorriamo insieme tutti gli ultimi passi di P. Francesco
nel nostro paese. Nel periodo in cui veniva consacrato
sacerdote nel nostro paese è esploso una grande fervore
missionario. La gente si preparava nell’anonimato a questo
avvenimento, mentre un gruppo di giovani esternava il proprio
19
entusiasmo in una intensa attività missionaria. Infatti da quel
momento i giovani hanno iniziato la raccolta di stracci, carta,
ferro, ecc…
Si può ben immaginare con quanto fervore hanno lavorato
e stanno tuttora lavorando. Tutto il lavoro è sfociato in una
“Mostra missionaria” dedicata a P. Francesco e al mondo delle
missioni.
Perché tutto questo? La risposta sta nella persona di P.
Francesco Perico. Un nostro compaesano è riuscito ad
infondere in noi il vero spirito evangelico. Non è stata la
classica predica di un famoso teologo, ma l’esempio
trascinante di un uomo schivo, ma che crede fortemente in Dio.
Sì, la sua fede, la sua voglia di pregare, il suo sorriso e la sua
serenità hanno conquistato Prezzate. P. Francesco è nel cuore
di tutti noi e con lui c’è la speranza di un popolo che vuole
l’avvento del regno di Dio».

E' giunto il momento di dirci addio

In partenza per il Malawi, dopo un periodo di vacanza, P.


Giovanni Losa invia un “biglietto missionario” agli amici:
«...E’ giunto il momento fatidico di dirci addio. Quando
leggerete queste mie righe forse avrò già toccato, se tutto andrà
bene, il suolo di Chileka. Non è certo il caso, alla mia verde
età, di intonare il famoso “Addio monti, sorgenti dall’acque...”
con quel che segue. Ma neppure di lasciare il pur caro suolo
italico alla chetichella, o come si dice, insalutato ospite. Oltre
tutto non sarebbe una cosa molto carina e se qualcuno mi
lanciasse dietro qualche epiteto, non saprei proprio come
difendermi.
Per questo ho deciso di scrivere due parole di commiato.
Innanzitutto rinnovo il mio grazie sentito e di cuore, per le
simpatiche accoglienze che mi avete riservato, per i generosi
aiuti che mi avete affidato e per le preghiere con le quali
vorrete accompagnare il vostro missionario in questa sua
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seconda esperienza africana, che si apre quasi in sintonia con il
suo 25° di sacerdozio.
Non faccio nomi, perché sarei costretto a tralasciarne più
di quanti non ne possa menzionare. A mo’ di commiato che vi
dirò? Ecco, forse ho trovato. Vorrei portarvi tutti con me in
Africa, nella mia nuova missione. Certo, materialmente
l’impresa sarebbe un po’ difficile. Chissà che gigantesco ponte
aereo bisognerebbe allestire! Ma col cuore la cosa diventa più
facile, anzi facilissima, tanto che può essere alla portata di tutti.
Se ognuno di voi, come spero, vorrà seguirmi con le sue
preghiere e con i suoi sacrifici e la sua carità, sarà come se ogni
volta qualcuno di voi si posasse accanto al vostro missionario,
per aiutarlo, incoraggiarlo nelle sue difficoltà, che non saranno
poche. Perché dove c’è il cuore, li ci siamo tutti noi...».

Partono per le missioni i primi visitatori

Sulla rivista “L'Apostolo di Maria” fanno la loro prima


apparizione articoli degli “Alendo”, i “visitatori” delle nostre
missioni.
Sandro Cassera racconta le sue “meravigliose vacanze
in Africa”. «... Dire quanto ho visto in questi pochi giorni di
permanenza in Malawi è impossibile, perché la sensazione è
stata così forte e traumatica che non trovo le parole adatte. Da
Mangochi a Namwera, a Mpiri, a Utale ed in tutte le altre
missioni è un fervore di opere: dagli ospedali alle chiese ecc. e
tutto questo fatto da pochi padri in un territorio, quasi senza
strade, tra foreste che nascondono talvolta pericoli che noi non
affronteremmo per nessuna somma al mondo; tutto questo è
fatto solo per amore di Dio e del prossimo. Questa è la grande
lezione che si trae da questo breve viaggio: l’amore è la più
grande molla dell’universo che muove gli uomini di buona
volontà.
Il cielo meraviglioso, la natura prodiga, i colori intensi, il
silenzio vero e profondo della notte, sono tutte cose che ti
21
danno all’inizio come uno stordimento, poi, pian piano, anche
in pochi giorni, ti trovi una calma, una serenità addirittura una
gioia di vivere...».

L’infermiera dei poveri

P. Gianni Maggioni racconta volentieri la storia di Suor


Juliana.
«Juliana era una ragazzina vivace, forse fin troppo, e
abitava in un villaggio vicino a Limbe. Conosceva le Suore
Figlie della Sapienza e aveva una gran simpatia per quelle
donne che lavoravano esclusivamente per gli altri.
Finita la scuola, invece di aiutare la mamma nelle faccende
domestiche, nei campi o nel tenere a bada i fratellini più
piccoli, scappava e andava a giocare dalle Suore. Quando le
sue Suore la pregavano di un servizio, non se lo faceva dire due
volte. Erano così buone le Suore!
Immancabilmente, quando rincasava, erano rimproveri e
percosse: “Sei buona a nulla, ormai sei grande, hai terminato le
scuole e devi pensare a farti notare da qualche ragazzo”.
Passarono gli anni, molte sue compagne di scuola avevano
già formato una famiglia, ma a lei non interessava seguire il
loro esempio. Finalmente un giorno, in casa, espresse il suo
desiderio di farsi suora. Apriti cielo! Andò a dormire
piangendo e senza nsima. Pensarono i genitori a farle cambiare
parere, chiamando sempre più spesso a casa loro un ragazzo
che secondo loro avrebbe fatto felice la figlia Juliana,
sposandola.
Poveri illusi! Finché c’era papà e mamma, Juliana si
prestava al gioco; quando si fissavano appuntamenti fuori casa,
lei disertava sempre, mandando su tutte le furie il suo
innamorato. Le Suore sapevano, la consigliavano, la
comprendevano e, soprattutto, pregavano per la povera figliola.
Un giorno in cui i suoi genitori erano più esasperati del
solito, Juliana riuscì a renderli più ragionevoli, promettendo
22
loro che sarebbe andata lei stessa a casa del giovanotto.... Ma
appena fuori tiro, svolto a destra e corse fino al convento delle
Suore che l’accolsero a braccia aperte...
Juliana restò con le Suore, prese i voti con il nome di
Elisabetta, come sua madre, ma tutti la chiamano ancora
Juliana, come una volta. Fu mandata poi ad alcuni corsi di
infermiera, ma non poté diplomarsi perché il suo lavoro
immediato era necessario altrove. Però ne sa quanto un medico,
dopo tanti anni di lavoro!
Da un anno è nella missione di Mpiri, come aiutante di
un’altra Suora diplomata. Ma la nostra Juliana non conosce
riposo: dal dispensario alla maternità, giorno e notte, sempre
pronta a sorridere. La vivacità che le rimproveravano quand’era
piccola, non l’ha mai lasciata. È un piacere osservarla mentre
gioca a palla con le ragazze della missione. Tutti ormai qui a
Mpiri e dintorni la conoscono ed apprezzano il suo lavoro; è
amata e stimata da tutti..».

Cinque mesi fa partivo per il Madagascar

Inizia la sua corrispondenza, e la protrarrà per lunghi anni,


Suor Alessandra Martini. Ecco un brano della sua lettera:
«...Cinque mesi fa partivo da Fiumicino con un aereo della
‘Air Madagascar’: mi rivedo ancora là, emozionata ma serena,
rivivo il momento in cui quel grande uccello si staccò dal suolo
italiano e mio lungo viaggio che mi ha portato nella terra dei
miei sogni! Cinque mesi, trascorsi a velocità incredibile: i
giorni, le settimane, i mesi, quasi fossero istanti....
Sono felice di vivere in questo Paese meraviglioso,
nell’Isola della felicità (così è chiamata), ove tutto canta la
magnificenza di Dio. La natura è un incanto: il cielo di un
azzurro intenso, il mare dalle tonalità vive e cangianti, il sole
luminoso e... caldo. E la vegetazione, le piante, i fiori dalla
tinte vive: tutto è un'esplosione di bellezza! E come non parlare

23
del viso dei bimbi, dei loro grandi occhi, del loro sorriso bianco
sul viso nero...
Mi trovo nella stessa comunità delle due Suore italiane:
Suor Clelia e Suor Ernestina. Con loro lavoro nell’Ospedale
Principale di Tamatave. Un lavoro intenso, dal ritmo incalzante
per il gran numero dei malati, in genere gravi, che arrivano nei
nostri servizi. Un lavoro difficile perché troppe cose necessarie
mancano o scarseggiano, come medicinali e persino... il cibo.
Un lavoro delicato oggi, data la situazione politica che non
vede troppo favorevolmente la presenza di stranieri su tutta la
faccia dell’Isola. Un lavoro, però che dà, in cambio, la gioia
autentica, gioia insperata, perché è pur sempre vero che, se
anche mancano tante cose spesso indispensabili, c’è il cuore
che ama e che cerca di supplire con la comprensione, la
tenerezza, la dedizione.
Amo molto i miei malati ed essi lo sanno molto bene
ormai; ad essi regalo le mie giornate, dal mattino alla sera. Fra
loro mi sento a mio agio, anche se la lingua malgascia è tanto
difficile ed io so comporre soltanto piccoli frasi.... Ma non è
questo ciò che conta: qualche parola malgascia, un sorriso, una
parola francese, un gesto...dicono ugualmente tanto e la
cordialità è instaurata! La mia gioia è piena quando constato
che anche loro sono contenti di avermi nel servizio e che mi
considerano una di loro...
Al sabato pomeriggio, un po’ più libera dal servizio in
ospedale, mi reco ad Ampalalana, a pochi chilometri di qui, il
villaggio del miei sogni, vale a dire il villaggio dei lebbrosi.
Una quarantina di capanne, miserrime, addossate le une alle
altre, prive assolutamente di igiene, situate sulla riva del mare,
ove forma un’ansa naturale incantevole...
Là vivono un centinaio di persone, tra adulti e bambini: i
primi malati o ex malati che portano i segni della loro lebbra
nelle membra senza mani e senza piedi, nel viso senza naso o
senza orecchie; i secondi che rischiano ad ogni istante di

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ammalare, perché il contagio è inevitabile e le risorse fisiche
troppo scarse per combatterlo.
Sono radunati là, reietti, rifiutati dai loro villaggi, ove
pure hanno tentato di tornare. Raccolte le loro misere cose, se
ne sono andati per sempre, in quel luogo di pace anche se
intriso di tristezza. Poiché per ora non mi è concesso di andare
là a curare quei poveri esseri pieni di piaghe sanguinolenti e
fetide, mi limito ad andare a portare loro qualcosa da mangiare,
grazie all’aiuto dei miei cari amici italiani. Non vi dico la gioia
dei bimbi quando mi vedono arrivare al villaggio. Ormai essi
sanno l’ora e si siedono sull’erba, all’ingresso del villaggio.
Quando scorgono la nostra vecchia ‘Renault’ cominciano ad
urlare di gioia: è questo il segno e.... Tutti escono dai loro
miseri tuguri, camminando sui monconi, sulle ginocchia,
perché i piedi non ci sono più e vengono a stringermi la mano,
offrendomi i loro monconi, felici di constatare che la Suora
bianca non esita a stringerli forte, con affetto!
Non posso descrivervi, perché ne sono davvero incapace,
la gioia dei bimbi, dipinta sui loro poveri visini, che addentano
il pane fresco: pare mangino le torte deliziose o i pasticcini dei
bimbi italiani! Potrò continuare ad offrire loro almeno questo?
Spero tanto di sì, perché sarebbe troppo triste deluderli.
Confido nella Provvidenza che dimostra evidentemente di
gradire quanto faccio per quei poveri infelici...».

Alla sera mi piace conversare con i miei cristiani

P. Emilio Nozza sente il bisogno di farci conoscere le


“chiaccherate di sera con i suoi negretti”.
«... Seduto sotto il porticato della casa attendo la mia gente
per il Rosario. Sono le sette di sera ed è già buio. Al tropico la
notte scende svelta ed improvvisa. Le cinque famiglie cristiane
vicine alla missione sono fedeli al Rosario ed alla preghiera
della sera. Ci sia o no la luna, ci sia o no la pioggia, essi sono
sempre puntuali.
25
Uno ad uno eccoli arrivare e sedersi vicini a me.
S’incomincia il Rosario circondati dal silenzio della montagna
e dal buio sempre più profondo. La bella cantilena si snoda con
voci di papà, mamme e bambini. I più piccoli si abbandonano
subito al ritmo della preghiera. Il dondolio della schiena
materna li porta lontani lontani nella valle del sonno. Noi
grandi continuiamo il nostro Rosario. Poi la preghiera della
sera.
Ora tutto è terminato. Ascoltiamo alcuni istanti con
l’orecchio teso il mistero della notte tropicale che ci circonda.
Bisogna affinare l’udito, essere attenti. In questo posto isolato,
lontano da villaggi e confinante con la riserva nazionale,
l’apparizione di leoni, leopardi od elefanti non è improbabile.
Poi incomincia il notiziario della giornata.
I miei uomini si abbandonano ai commenti degli
avvenimenti. Dice Iohanne: “Dalla parte di Kwizimba i soldati
portoghesi hanno sconfinato ancora nel Malawi, hanno bruciato
delle capanne, poi sono ripassate nel Mozambico, portando con
sé la gente sorpresa a coltivare i campi sul confine”.
“Insomma - dice una donna - noi qui vicini al Mozambico
ne abbiamo sempre una coi portoghesi: una volta ci bruciano i
villaggi, un’altra volta ci portano via la gente o fanno
scomparire dei giovani. Non ci lasciano coltivare in pace i
nostri campi. D’altra parte come facciamo a sapere di preciso i
confini in mezzo alla foresta?”.
Ad ogni modo - concludo io - fate attenzione che i
portoghesi non scherzano, si considerano in guerra. Avvisate i
vostri parenti nei villaggi di stare lontani dai confini e di
piantare granoturco, manioca ed arachidi in zone più sicure...
Beh!... adesso andiamo a dormire! Zikomo! Mugone bwino!
Grazie, dormite bene!
Uno ad uno eccoli alzarsi, aumentare la fiammella delle
loro lampade a petrolio, mentre le mamme si assicurano meglio
sul loro dorso i bambini addormentati. Rimango ad osservarli

26
mentre si allontanano nel buio. Mi abbandono ai miei pensieri
ora e rimango solo con la mia pipa. Signore, cosa ne sarà del
nostro piccolo Malawi circondato dal grande Mozambico in
ebollizione?...».

27
1973
Nuova fondazione in India
Intervista a Mons. A. Assolari

Mons. Alessandro Assolari parla dei progetti sul futuro


della Prefettura Apostolica di Mangochi.
«... Se abbiamo progetti? Ma certo, e tanti! Si tratta di
progetti abbastanza impegnativi. Abbiamo appena terminato la
costruzione di un convitto per ragazze della scuola secondaria
di Mangochi. Annessa al convitto ci sta la casa delle Suore
della Divina Provvidenza di Munster (Germania). C’è posto
per 50 ragazze: dormitori lindi e confortevoli, sale di
ricreazione e di studio, adiacenze. Un ampio refettorio servirà a
tutti gli studenti della scuola secondaria. Un’opera davvero
graziosa e utilissima: darà un volto nuovo al Vaticano di
Mangochi: così l’arcivescovo anglicano ha chiamato il
complesso della chiesa cattolica a Mangochi.
La maggior parte dei progetti dovrebbe essere realizzata
nel 1973. Nuova missione e ospedale a Namwera. Pensiamo di
poter illustrare quest’opera su queste stesse pagine in un
prossimo futuro, soprattutto per il personale che in detto
ospedale dovrebbe essere impiegato: è qui, infatti, che
dovrebbe essere impiegato il primo gruppo di missionari laici
che verranno a lavorare nella nostra Prefettura.
Poi ci sarà il Centro per l’assistenza e la promozione della
donna, a Balaka. Questo Centro che comprenderà: convitto,
casa delle Suore, scuola di economia domestica e oratorio
femminile, sarà affidato alla cure delle Suore Madri
Canossiane.
Fuori dagli schemi abituali sarà l’iniziativa a carattere
agricolo che vogliamo tentare quest’anno nella zona di
Malombe. Vorremmo curare questa zona dove nessuna chiesa e
nessuna setta protestante è presente. Vorremmo tentare:

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l’operazione agricola di aratura del campi piantati a riso e a
cotone, mettervi un centro di assistenza medica e costruirvi 5
scuole. Se avessimo personale, sacerdoti cioè, potremmo
aprirvi una seconda missione tra i maomettani che qui
raggiungono il 99% della popolazione.
Non vorremmo fermarci qui. Per il fatto che siamo
costretti ad affrontare alcuni progetti molto impegnativi, non è
che possiamo dimenticare le altre missioni: un po’ ovunque ci
sarebbero scuole da costruire. A Namalaka, a Kapire, a
Namandanje e a Nsanama ci stanno le residenze da fare; chiese
centrali devono essere costruite a Ulongwe, Nsanama,
Namandanje e Namwera. Ci sono un paio di posti nuovi di
prossima apertura. Sta pure maturando un grosso progetto che
interesserà le missioni di Mpiri, Balaka e Namandanje.
Non pretendiamo di essere migliori degli altri: posso dire
però che i missionari italiani della Prefettura Apostolica di
Mangochi lavorano con grande entusiasmo e gioia...».

Fatti e figure dell’Africa

P. Luciano Nervi racconta la storia di Janet: una maestra


di vita.
«La situazione familiare qui in Africa non è che sia delle
più rosee, tutt’altro! E più si va avanti e la gente si vede tra le
mani un po’ di denaro e più le famiglie vanno a pezzi.
Qui l’ideale della donna è essere madre, d’accordo, ma che
le ragazze a 14/15 anni abbiano già un marmocchio sulla
schiena il cui padre si guarda bene di riconoscere, è tutt’altra
cosa. Oppure ci sono matrimoni precoci: a 15 anni si ha già la
capacità di scegliersi un compagno di tutta una vita. E come si
fa a conoscersi se, dopo una settimana o due che si sono visti,
vivono insieme come sposini?
La necessità di creare tra i cristiani un movimento per
consolidare la famiglia è più che evidente, un movimento che

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si estenda ai giovani e alle ragazze, e che aiuti a creare delle
famiglie veramente cristiane.
Qui a Utale abbiamo cercato di agire in questa direzione.
Abbiamo fatto varie riunioni nei villaggi. Ma il problema più
importante era di trovare della gente in gamba che potesse
dirigere questi dibattiti, gente decisa e sveglia che, conoscendo
a fondo la mentalità africana e le sue tradizioni, potesse dire
una parola chiara su ciò che del passato si può seguire e ciò che
si deve tralasciare, nonché su ciò che di nuovo bisogna
introdurre nella famiglia africana perché possa adattarsi alle
nuove esigenze e alla nuova situazione sociale.
E di gente in gamba ne abbiamo trovata parecchia. Tra
questi fa spicco una maestra, Janet, che si è mostrata subito
entusiasta di simile lavoro. Alle riunioni dirette da lei le donne
se ne stanno là sedute per terra anche quattro ore di fila e non
vorrebbero mai smettere di ascoltare e di fare domande. Lo
stesso succede quando Janet dirige un dibattito con le ragazze.
Ha un modo di parlare che convince anche i più... sordi. Ma è
ancor più interessante quando cerca di convincere le donne
anziane preposte alla iniziazione delle ragazze.
Queste vecchie educatrici, anche se cattoliche, ricorrono
spesso a riti superstiziosi e a insegnamenti che contrastano con
l’igiene e la morale. Ora il desiderio di Janet è di convincerle a
lasciare spontaneamente certe pratiche per introdurne altre
dettate dalla medicina moderna e dall’igiene.
Ma anche Janet aveva un suo problema personale da
risolvere. Un giorno, dopo una delle solite brillanti conferenze
mi confidò che non si sentiva la coscienza a posto. “Vede,
padre - mi disse - io continuo a dare dei buoni consigli su come
formare o far continuare un’unione familiare felice, ma se le
mie ascoltatrici mi domandassero come va la mia famiglia,
dovrei rispondere loro che è un disastro perché io e mio marito,
pur avendo messo al mondo tre figli, siamo praticamente
separati già da parecchi anni”. E poi mi raccontò del suo

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matrimonio con un bravo giovane della polizia, dell’amore che
regnava nella sua casa, del suo lavoro di maestra, nella scuola
della missione.
Tutto filava d’amore e d’accordo quando in giorno
s’accorse che il suo uomo usava i soldi dello stipendio che lei
gli consegnava per pagare un’altra donna. Lui ormai c’era
dentro fino al collo, quell’altra aspettava un figlio. Janet accusò
il colpo. Non essendo un tipo facile al compromesso, si ribellò,
lui, forse, tentò anche si disfarsi di lei con il veleno, e lei
ritornò dai suoi genitori portando con sé il figlio...».

In mezzo ai maomettani

P. Remigio Villa, parlando della sua missione dove la


quasi totalità sono maomettani, osserva:
«...Per cinque anni Mons. Assolari girava questi villaggi
tutto triste e solo, vedendo la massa enorme di infedeli. Avesse
incontrato un bravo cristiano come Twelve (dodici),
certamente sarebbe stato felice come uno che vince almeno un
‘dodici’ al totocalcio.
Le vie del Signore sono meravigliose. Oggi a Mangochi
si assiste ad un movimento che sa del miracoloso. Tutti
vogliono la scuola cattolica! E questo movimento è suscitato da
uomini non ancora battezzati, ma che sentono la spinta della
grazia, come Twelve...E noi cristiani? Speriamo di fare un
perfetto ‘tredici’! Vincerà il Signore...».

Promozione umana e cristiana nei quartiere dei porcili

Altre notizie giungono dal Madagascar e sono inviate dalla


coppia P. Carlo Berton e P. Angelo Rota. Parlano di
“promozione umana e cristiana nel quartiere dei porcili”.
«Mentre le tre Suore italiane (Ernestina, Clelia e
Alessandra) si occupano dei prigionieri, degli orfani e dei
lebbrosi, noi stiamo dirigendo e ampliando i corsi di

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formazione professionale accelerata per ragazze ed i giovanotti
disoccupati di Tamatave.
Ora sta sorgendo una nuova opera nel quartiere più lontano
della parrocchia e della città. P. Angelo Rota, con un martello
in una mano e un metro nell’altra, protetto da un capellone di
giunchi, dirige i lavori. Sarà un centro di promozione per la
zona depressa della periferia di questo porto di Tamatave.
Presto inizieremo corsi di religione, igiene, cucito, taglio,
bucato, artigianato ed alfabetizzazione. Un lavoro di contatto e
coscentizzazione è in corso da un anno tra la gente della zona.
Un gruppo di cosiddetti notabili, presi tra pagani e
cristiani, ne saranno i responsabili; devono essere loro i primi
ad interessarsi alla promozione dei loro fratelli. La zona è
talmente povera che non ve ne sono di simili. Eloquente il
nome stesso della zona: ‘Ambalakisoa’ (porcili!). Noi evitiamo
questo nome e che sostituiamo con quello di ‘Morarano’, cioè :
‘Acqua che sorge facilmente’. Vuol essere un augurio e un
programma per questa zona povera, arida e sporca.
Vorremmo che la dignità di queste persone, spesso
intristite nei loro tuguri, possa sbocciare e fiorire per tutti senza
eccezione, particolarmente per i più diseredati..
Gli aiuti raccolti da P. Carlo Berton durante le sue ultime
vacanze, e i doni giunti sotto ogni forma a P. Angelo Rota qui
sul posto, ci permettono di dare una forte spinta in avanti a
questo lavoro di promozione umana e cristiana.
Noi ci consideriamo un po’ come i vostri intendenti;
trasmettiamo ai poveri i vostri aiuti. Non avendo nulla di
personale, diamo le nostre persone in dono e siamo felici di
questa consacrazione. Siamo convinti che la nostra vita è spesa
bene, utilmente.
Le nostre gioie più grandi sono i cambiamenti, le
trasformazioni, i miglioramenti di questa popolazione sia sul
piano materiale che spirituale. Rinnoviamo la nostra
riconoscenza, poiché siete voi che ci permettete di dare una

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speranza a chi è sfiduciato e un sorriso a chi piange: un giorno
chissà, comprenderemo più chiaramente la loro dignità di Figli
di Dio...».

P. Emilio Nozza riprende le sue “chiacchierate di sera”

«... Sotto il porticato il mio gruppo è al completo per il


Rosario della sera. Stasera le voci del più piccoli sono
particolarmente squillanti: Sandro, Ilario, Maria e Agnes hanno
tutti gli occhi bene aperti. Ma ecco un lume laggiù... E’
l’infermiera, accompagnata da un giovanotto che stringe tra le
mani un lungo coltello. “Padre - dice l’infermiera – quest’uomo
chiede aiuto. Sua moglie attende un bambino, è rimasta per la
strada e non ce la fa a raggiungere il nostro ospedale. Chiede
d’andarla a prendere”.
Prendo la camionetta e via... attraverso i campi. D’un tratto
l’infermiera dice di fermarmi. Una giovane donna, con un
fagottino tra le mani, avanza lentamente al fianco della strada.
La vedo fermarsi e confabulare con l’infermiera, poi questa mi
dice: “Tutto a posto, Padre: è già nato, ma faccia salire la
ragazza e ritorniamo all’ospedale”. Mi rivolgo alla donna:
“ Dimmi, mamma, non avevi paura dei leopardi mentre stavi
sola ai bordi del bosco?”. “Sì, ma... Dio protegge noi
mamme!”. Ed eccomi di nuovo col mio gruppo. Arrestano la
loro discussione animata, mi guardano e capiscono che non mi
è capitato nulla di straordinario. Continuano la loro
chiacchierata...».

Prima bestemmiatore della Madonna poi battezzato

P. Alessandro Pagani parla della conversione di un capo


villaggio:
«...Siamo nel mese di maggio, dedicato alla Madonna.
D’accordo con i catechisti e i cristiani si decide di fare la così
detta ‘Peregrinatio Mariae’, allo scopo di risvegliare il

33
cristianesimo nei dintorni della missione di Balaka e, inoltre,
per una manifestazione pubblica di devozione alla Madonna in
un ambiente dove i Protestanti sono piuttosto numerosi e che,
fatta eccezione degli anglicani, rifiutano di onorarla quale
Madre di Dio e Madre nostra.
Lo scopo, credo, sia stato raggiunto. Per l’occasione
aumentarono coloro che di giorno in giorno venivano a dare il
proprio nome per iscriversi e iniziare il tirocinio di due anni di
catecumenato, tra questi vi erano protestanti, pagani e
musulmani. Non mancarono naturalmente opposizioni. Si
passava da un villaggio all’altro, da una capanna all’altra,
cantando e recitando la Corona e portando processionalmente
una statuetta della Madonna.
Alla capanna dove si giungeva il missionario teneva un
fervorino adatto all’occasione e tutti insieme si pregava per le
varie necessità spirituali della Chiesa. Il missionario faceva
ritorno alla missione, mentre i cristiani, dopo cena, ritornavano
a riprendere la veglia notturna, innalzando preghiere e canti in
onore della Madonna, sotto la direzione di un catechista e di un
legionario.
Tutto sembrava correre liscio, fino a quando non si giunse
al villaggio Mponda, che prende il nome del capo villaggio.
Questi va su tutte le furie e lancia imprecazioni contro i
cristiani, la Chiesa Cattolica e in modo particolare contro la
Madonna. E diceva: “Ma chi è questa Madonna? No! Nel mio
villaggio non voglio che si faccia questo! Qui si veglia la notte
in canti solo quando muore una persona, non per altro!”.
I cristiani, anche se con il cuore ferito, non conservano
rancore, si sottomettono, sospendono ogni canto e si limitano a
pregare per il loro capo villaggio. Dopo un anno Mponda si
ammala. Viene immediatamente trasportato all’ospedale, ma è
subito dimesso. Il medico si dichiara incapace di curare la sua
malattia e lo consiglia di tentare l’ultima carta, recandosi da
uno stregone del villaggio. Anche qui niente da fare.

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Ora è lì nella sua capanna, circondato da parenti e amici,
che lotta tra la vita e la morte. Tra i numerosi familiari, uno
solo è cattolico, è un lebbroso, suo fratello. È lui che una
domenica, dopo aver ricevuto l’Eucaristia e terminata la Messa,
mi si avvicina e con supplichevole mi dice: “Padre, fa qualcosa
per questo fratello; quanto desidererei che ricevesse il
Battesimo!”.
Eccomi dal capo villaggio. Dopo averlo incoraggiato mi
accomiato da lui, assicurando il mio ricordo personale al
Signore e quello dei cristiani. Mi ringrazia della visita e quindi
ritorno alla missione.
Il giorno seguente, preparo tutto il necessario per la S.
Messa e parto per i villaggi. Dopo una settimana di girovagare
ecco un po’ di quiete. Accendo la radio, cercando di captare le
onde italiane per seguire le partite di calcio. Improvvisamente
sento bussare e chiamare alla porta. Era il fratello di Mponda,
quel lebbroso, il quale, senza troppi arzigogoli e con un tono di
voce che faceva trasparire un senso di tristezza frammista a
gioia, mi dice: “Vieni, presto, Padre; mio fratello si è aggravato
e vuol ricevere il Battesimo!”.
Eccomi accanto al moribondo che mi accoglie con queste
parole: “Padre, ho paura, sento che la mia fine è prossima; non
so cosa mi aspetta nell’aldilà; anch’io voglio essere
battezzato... Chiedo perdono degli insulti e oltraggi nei riguardi
della vostra Chiesa e della Madonna”.
Il giorno dopo, Samuele passava a miglior vita. Da
bestemmiatore a figlio di Dio e della Madonna...».

Trio delle Suore italiane a Tamatave

Suor Ernestina che, con Suor Clelia e Suor Alessandra,


compongono il trio delle Suore italiane a Tamatave, scrive:
«... Con piacere leggiamo su “L’Apostolo di Maria"
l’angolo riservato alle Suore missionarie. Anch’io mi sento in

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dovere d’inviare una riga, essendo la sorella maggiore. Noi tre
siamo impiegate all’Ospedale Maggiore di Tamatave. Ognuna
di noi, per motivi professionali, ha la responsabilità di un
padiglione: aiutiamo gli ammalati e formiamo gli infermieri e
le infermiere: lavoro delicato, ma nello stesso tempo missione
importante.
Tuttavia non ci limitiamo solo al lavoro in ospedale:
ognuna di noi adempie un’altra missione presso altre categorie
di persone. Personalmente mi occupo dei carcerati: uomini e
donne ed anche minorenni. Insegno loro ad occupare il tempo,
organizzando corsi di cucito per le donne e corsi di lavori
artigianali per gli uomini. Ogni settimana porto dei panieri di
vettovagliamento. Questo mi permette d’avere un dialogo
interessante con i guardiani e con i carcerati.
Suor Clelia, invece, si occupa degli orfani nella parrocchia
affidata ai Missionari Italiani. La consorella ama i piccoli in
modo particolare. Quando tiene un bambino in braccio ha un
sorriso tanto aperto che anche le mamme anziane e sdentate
scoppiano in risate clamorose.
Suor Alessandra, invece, è l’ultima arrivata. Sprizzante di
energie e di iniziative, come un giovane puledro appena uscito
dalla scuderia, si consacra ai lebbrosi. Sogna di consacrarsi
unicamente al ‘Villaggio dei lebbrosi’ di Ampangalana».

P. Lorenzo Pege riflette sul problema dell’ecumenismo

«... Ecumenismo. È un problema che ho iniziato ad amare,


a capire e a prendere seriamente a cuore dopo aver assistito a
Roma ad una forte e coraggiosa conferenza del compianto
Cardinal Bea. Arrivato in Africa mi sembrava giunto il
momento di mettere in cantiere tanti buoni propositi di
comprensione, di carità e di rispetto verso i ‘fratelli separati’,
passando cioè dalla teoria alla pratica, essendo noto a tutti
come la Chiesa africana sia un centro ben nutrito di Sette che si
avvalgono dell’appellativo “cristiano”.
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Non vi nascondo che la convivenza pratica mi risulta più
difficile del previsto e che tanta buona volontà se ne è andata.
Mi spiego. Qui si vive in prima linea ... protestanti e cattolici.
In tutti c’è santo zelo di predicare il Cristo... ma molto spesso i
‘cari fratelli separati’ dimenticano gli accordi e gli appelli al
rispetto reciproco che i vari rappresentanti delle Chiese più
volte ci hanno raccomandato. Sicché nella vita quotidiana
troviamo che gli Anglicani mettono scompiglio, paure e
confusione tra i nostri fedeli, senza parlare di certe pressioni
morali...
I Luterani dal canto loro usano sistemi di proselitismo che
farebbe scoraggiare e mandare in bestia il più accanito
‘ecumenista’. Cito qualche esempio. Nei matrimoni misti
obbligano la comparte cattolica ad abdicare al suo Credo, a
farsi luterana e a ricevere nuovamente il Battesimo. Inoltre i
Pastori di questa Chiesa incoraggiano i giovani a scegliersi
come spose ‘le cattoliche’ per strappare così ai romani - come
dicono loro – “la fonte della vita”.
Si nota inoltre nei nostri confronti un certo atteggiamento
di astio, di insofferenza, di cattiva volontà che si fa sentire
soprattutto nei rapporti sociali e burocratici. C’è una scuola da
aprire? Un ospedale o una chiesa da costruire? In certi Distretti
si deve lottare per ottenerne l’approvazione solo perché il
pubblico ufficiale è un fratello luterano...
Alle grandi Chiese dobbiamo aggiungere poi un numero
indefinito di Sette dai nomi più strani, dalle caratteristiche
originalissime e dalla dottrine più strane. Cito un solo esempio.
La settimana scorsa sono stato a visitare la nostra comunità di
Chitala. Un temporale mi sorprese lungo la strada sicché sono
stato costretto a ripararmi nella capanna più vicina. Caso volle
che il proprietario fosse un pastore della ‘Chiesa degli
Apostoli’, una setta locale che conta pochi anni di vita.
Naturalmente il discorso ha preso subito una piega...
ecumenica. Una conversazione confusa, senza capo né coda ma

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interessante e divertente che mi ha fatto capire un pochino con
quali tipi di “nuovi profeti” abbiamo a che fare...
Mi esonero di riportarvi l’intera conversazione e le mie
critiche, essendo talmente evidenti e facili che anche un
bambino avrebbe risposto a puntino. È solo un esempio
illuminante ed eloquente delle difficoltà che incontriamo nel
nostro lavoro apostolico. Un dialogo sereno, sincero e
rispettoso è molto difficile tra questo caos di Sette vecchie e
nuove. Incontrasi, discutere per porre in comune i valori reali
della fede è cosa ardua quando alla base c’è ignoranza,
settarismo e orgoglio.
Leggo con interesse sulle riviste il dialogo ecumenico a
livello internazionale e fa piacere lo sforzo d’intesa e di fiducia
reciproca. Ma come coordinare un lavoro serio alla base
quando mancano i presupposti per una ricerca della verità?
Quando ogni nostro minimo sforzo di buona volontà viene
interpretato come un cedimento e viene additato dai fratelli
delle chiese motivo di vittoria che mettono scompiglio e
imbarazzo nei nostri fedeli?
Passerò come un retrogrado, un ecumenista di serie C, ma
qui, per i motivi riportati all’inizio, è necessaria sì carità e
comprensione, ma nello stesso tempo fermezza, chiarezza di
idee, una certa prudenza nei rapporti coi fratelli dissidenti, una
intransigenza di fondo su certe verità di fede e di morale. Non
dimenticate che siamo in prima linea, esposti a tiri secchi e
pepati di chi di ecumenismo non ne hai mai sentito parlare.
Ogni imprudente e indiscriminato contatto possono mettere a
dura prova la fede dei neofiti già seriamente impegnati e
preoccupati di liberarsi definitivamente degli ‘dei falsi e
bugiardi’.
Con questo non pensiate che qui si facciano ‘guerre sante’.
Non, per carità! E chi più ci crede alle guerre sante? Il nostro è
un atteggiamento fermo, forte e serio di legittima difesa che
deve offrire sicurezza e serenità ai nostri cristiani, in attesa di

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tempi migliori, e cioè di una maggior coscentizzazione del
problema ecumenico da parte della base... separata...».

Tra i lebbrosi per ricaricarmi per la settimana

Dal Madagascar Suor Alessandra ribadisce che per lei il


sabato non è un giorno come tutti gli altri.
«... In effetti il sabato pomeriggio vado dai miei lebbrosi
a... ricaricarmi di coraggio, di gioia, di sorriso per la settimana
seguente. Ogni 15 giorni il panettiere lascia, passando per la
nostra comunità dell’ospedale una grossa cesta piena di una
sessantina di lunghi pani e, rientrando a mezzogiorno e mezzo,
la casa è già tutta invasa dal loro profumo.
Subito dopo il pranzo, lo carico sulla macchina e via di
corsa a Salazamay, a raggiungere le consorelle che si occupano
da tempo del villaggio e dei suoi abitanti. Gli altri sabati sono
talvolta i caschi di banane ancora verdi che vengono caricati, o
le scatole di carne, o ancora un sacco di riso o di fagioli secchi,
oppure pacchi di zucchero, di sale e di candele: tutto è manna
per chi non ha niente...».

Ancora notizie dalla Parrocchia S. Cuore di Tamatave.

P. Carlo Berton torna sulla necessità di portare Cristo


tra i diseredati di Morarano, la cintura di miseria che assedia la
città di Tamatave.
«...Nel 1968 il vescovo di Tamatave riceveva un rapporto
sulla situazione allarmante dei quartieri periferici della città di
Tamatave. Tristi ammassamenti di capanne e di tuguri stavano
sorgendo in un disordine spaventoso. Gente di ogni tribù
dell’isola, accomunata da un denominatore comune: la miseria.
Il vescovo mi chiamò e dopo un dialogo assai lungo, mi disse:
“Questa zona la do agli italiani. Voi ve la sbrogliate sempre.
Prenditi un altro italiano e presto al lavoro”. E sono al lavoro
con P. Angelo Rota.

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Solo le foto possono rendere evidente la situazione di
questa cintura di miseria che assedia la città di Tamatave. Ma
la presenza sul posto dice ancor meglio l’odore nauseabondo di
questi tuguri in cui la gente si pigia in una promiscuità tale da
rendere impossibile un minimo di intimità familiare.
In questa zona intristisce la dignità dell’uomo e si sviluppa
la delinquenza, la prostituzione e la criminalità. Capanne,
capannucce di foglie di paglia, sbilenche e spesso sventrate,
disseminate un po’ in tutti i sensi, con viottoli stretti. Neanche
la polizia osa mettere i piedi di notte: nel buio la zona pare un
vero dedalo. P. Angelo ed io abbiamo visitato tante baracche,
parlato con questa gente, all’inizio tanto difficile, ma ora più
aperta.
Abbiamo potuto scoprire la situazione in cui la gente vive
e le piaghe che la colpiscono: ignoranza, analfabetismo,
superstizione, malnutrizione... Ritrovandoci insieme sul passo
di Matteo: “E Gesù era triste vedendo la folla soffrire,
abbandonata come un gregge senza pastore” pensavamo che il
Cristo aveva preso sulla sua persona le pene ed i dolori dei più
diseredati.
L’apertura di un centro sociale per la promozione della
zona depressa sta lentamente realizzandosi. Ma quello che ci
interessa di più è la promozione delle persone che vi abitano;
solo essi saranno gli artefici del loro sviluppo.
La nostra preoccupazione è la formazione di laici
impegnati: laici sia cristiani, sia pagani animisti di buona
volontà. Gli anziani e notabili dei vari gruppi etnici della zona
ricevono la nostra visita. Ci considerano i loro amici. Insieme
esaminiamo la possibilità di coscentizzare la massa paralizzata
dall’apatia e dal fatalismo...
La zona sta cambiando. La gente l’aveva battezzata una
volta col nome di ‘Porcili’, ora la chiamiamo ‘Morarano’
(l’acqua che sgorga). Acqua di purificazione per fare riscoprire

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ad ogni abitante della zona depressa il viso risplendente di Figli
di Dio!».

P. Gianbattista Maggioni, ringrazia amici e benefattori

«...Durante questi mesi trascorsi in mezzo a voi, ho


assistito ad una vera gara di generosità e favore dell’opera
missionaria, ed è quindi con animo commosso che esprimo il
grazie più sentito.
Il 1° giugno sono ripartito per il Malawi, dove tanti miei
cristiani attendevano con ansia il loro missionario, che ha
portato tante belle cose per sollevare la loro miseria.
Sono ritornato nella mia missione di Mpiri, che si trova in
una zona molto povera e una delle più sottosviluppate: un
enorme lavoro mi attende: scuole, pozzi, dispensari.
Prima di tutto vorrei risolvere il problema del trasporto
degli ammalati - mi stanno a cuore soprattutto le mamme che
vengono alla nostra piccola maternità - acquistando
un’autoambulanza. Presento a voi tutti questa occasione di
compiere un’opera buona e di misericordia: dare una mano ai
nostri fratelli neri che soffrono..».

Le mie impressioni africane

P. Francesco Perico invia alla Redazione de “L’Apostolo


di Maria” le sue prime impressioni africane.
«... E' la prima volta che scrivo in veste di missionario.
Sono solo pochi mesi che mi trovo in Malawi. So che i
simpatizzanti dei Missionari Monfortani nel Malawi sono molti
e che tutti, tramite la rivista, seguono con vivo interesse lo
sviluppo delle nostre missioni. Penso quindi di fare cosa
gradita ai lettori se partecipo loro le mie prime impressioni
missionarie.
Prima di tutto debbo dire di essere molto contento di
trovarmi a svolgere il mio ministero sacerdotale in mezzo a

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questi fratelli africani tanto aperti al vangelo quanto semplici e
poveri.
Una prima impressione è quella di essere capitato in un
continente completamente diverso dal nostro per mentalità e
costumi. Si ha l’impressione di ritornare bambini, quando
ancora non si sa parlare e ancora non si conoscono il perché e il
significato di tanti modi di fare degli adulti. Proprio come un
bambino, senza lingua e senza esperienza, ho incominciato a
balbettare le prime parole di chichewa, a formulare le prime
frasi e i primi discorsetti. Di consolante c’è che nessuno ti ride
in faccia o fa il minimo cenno di disgusto anche se tiri fuori i
più grossi strafalcioni.
Pian piano, e magari a proprie spese, si prende
dimestichezza con i costumi e le abitudini del posto. Non molto
tempo fa stavo portando l’Eucaristia ad un ammalato quando
per strada incontro una donna che al mio arrivo si ritira sul
ciglio della strada e si china profondamente quasi a scomparire
in mezzo all’erba mentre con una mano si batte le cosce.
Pensando che le fosse successo qualcosa mi avvicino per
soccorrerla, ma la donna stava più bene che mai. Con quel
gesto, come mi spiegò poi, il nero che mi accompagnava,
voleva solo porgermi il suo saluto nel modo più gentile e
rispettoso.
Il primo lavoro di un missionario, giunto fresco in Africa,
deve essere quello di mettersi ad imparare. Deve quasi
dimenticare di essere europeo per amalgamarsi il più possibile
con la nuova civiltà con la quale deve vivere . Penso che
l’efficacia del nostro apostolato in terra di missione dipenda
molto dalla riuscita o no di questo processo di
africanizzazione.
Mi meravigliava la frase che il mio vescovo mi disse
appena giunto in Malawi: “Per almeno due anni stai zitto! Ma
apri molto occhi e orecchi”. Ora trovo che il consiglio è saggio.
In questo senso vorrei dire che i primi mesi di Africa sono

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abbastanza duri. Ci si sente come un pesce fuor d’acqua.
Conosci ben poco, anche se è venuto dall’Europa con diplomi e
licenze. Non è che lo studio assimilato in Europa non serva;
deve essere riveduto in chiave africana. Ciò crea un certo
imbarazzo iniziale.
Col passare dei mesi ci si accorge che il passaggio avviene
in modo sereno e s’incomincia a sentirsi quasi a proprio agio.
Quello che veramente ti dà la spinta definitiva in questo sforzo
di assimilazione al nero è l’esempio e l’esperienza dei vecchi
missionari, i quali, parlo di quei pochi che ho conosciuto, si
sono veramente africanizzati, e lavorano per lo sviluppo
spirituale e materiale del nero con una dedizione e con un
entusiasmo sorprendente.
Lo stridente contrasto tra lo strabenessere dei nostri paesi
europei con la povertà dei paesi africani mi è apparso fin dagli
inizi in tutta la sua drammaticità. Non voglio dire che questa
gente manchi del cibo. No! In un modo o nell’altro riescono
sempre a strappare dal suolo qualcosa per sfamarsi. Il problema
più scottante si pone in termini sociali: necessità di scuole per
dare a tutti la possibilità di un minimo d’istruzione. Necessità
di ospedali per strappare alla morte prematura tanta gente,
soprattutto bambini. Necessità di creare centri sociali per
insegnare e spingere tutti a cercare un modo di vivere più
igienico e più umano. Sono convinto che l’annuncio del
Vangelo non vada disgiunto da una buona formazione umana».

Un Centro Culturale a Ñaña

P. Ivo Libralato parla del progetto di un “Centro Culturale”


a Ñaña.
«... Il 14 giugno nel Cuzco, capitale dell'impero incaico,
migliaia di persone partecipano alla festa della nascita del sole
(Intirraimi), una specie di rappresentazione sacra e profana che
ricorda le antiche glorie degli Incas. Il sole che lotta contro le
tenebre e ogni giorno risorge nuovo e vittorioso, sembra
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proprio il simbolo di questo popolo peruviano che da secoli sta
lottando contro gli elementi naturali per poter sopravvivere.
Alluvioni e terremoti sono all’ordine del giorno. Non c’è
settimana che qualche scossa non faccia sobbalzare una parte
delle Costa o della Sierra o che qualche fiume non inondi parte
della Selva o faccia precipitare frane dalle altissime montagne
dove tiene le sue sorgenti.
La pazienza, la tenacia, la costanza, che raggiunge quasi il
fatalismo, sono le uniche armi che questa povera gente ha a sua
disposizione per combattere. E sono le migliori perché a poco a
poco si dominano le forze naturali, si trasformano le macerie e
con l’ambiente cambiano anche le persone. Nuovo Perù e
nuovi peruviani: sembra questo il motto e la realtà che stiamo
vivendo in questa terra tormentata.
Noi missionari non rimaniamo fuori da questa corrente,
anzi ci sentiamo nel nostro ambiente perché il messaggio
liberatore di Cristo risorto si fa più attuale e più penetrante.
In questo quadro si può comprendere l’opera che stiamo
svolgendo qui in Perù e in particolare nella nostra zona di Ñaña
e che sta prendendo forma concreta nella costruzione del
“Centro Culturale”, che comprende la Chiesa, una biblioteca,
saloni di riunioni e di lavoro per i vari gruppi di persone.
Questo ‘Centro Culturale’ dovrebbe essere il cuore di
questa zona, dove sta sorgendo un nuovo paese formato da
quasi 2000 famiglie che hanno visto le loro capanne portate via
dalla inondazione del fiume del 1970. A forza di lottare si è
ottenuto un terreno e ad ogni famiglia è toccato 10 metri
quadrati per poter edificare un’abitazione degna di persone
umane.
All’inizio di quest’anno si è risolto provvisoriamente
anche il problema della scuola. In quindici giorni si sono
costruite quattro aule: alcuni mattoni tenuti insieme da un po’
di fango e alcune canne per tetto. Gli alunni più fortunati
possono sedersi in tre o quattro per banco, gli altri devono

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accontentarsi di un mattone. L’importante è ascoltare la materia
e imparare.
Mentre i piccoli studiano, gli adulti, con sacrifici enormi,
mattone per mattone, stanno preparando la casa per i loro figli
perché loro probabilmente non riusciranno a goderla e nello
stesso tempo cercano una soluzione per tutti gli altri problemi
più urgenti: manca l’acqua, l’elettricità, le fognature ecc..
L’igiene in queste condizioni è impossibile; le malattie
infettive dilagano rapidamente, soprattutto tra i bambini che
sono i più esposti.
Con tutto questo è difficile incontrare una persona triste.
Sembra che la sofferenza, il sacrificio non intacchino l’intimo
di questa gente semplice e sempre allegra. Fa proprio pensare a
quel re che cercava la camicia dell’uomo felice: incontrò
l’uomo felice, però era senza camicia.
Ma forse questo popolo è felice perché vive con una
grande speranza in un futuro migliore, speranza in una vita
migliore, speranza che Cristo non può dimenticare il grido dei
poveri, speranza che alla fine il sole, simbolo dell’impero
incaico, risorgerà vincitore delle tenebre».

All’amico P. Guido Libralato in partenza per il Madagascar

“L'Apostolo di Maria” pubblica una lettera di addio di P.


Basilio Gavazzeni all’amico P. Guido Libralato in partenza per
il Madagascar.
«...Vado in Madagascar - mi hai detto - i Superiori mi
hanno dato il benestare. Le pratiche sono a buon punto. Partirò
in ottobre. Mi aspettano. Per un anno mi dedicherò interamente
allo studio del malgascio. Poi mi rimboccherò le maniche.
Dovrò perdere qualche oncia di grasso.
Siamo stati insieme tre lustri, dalla quinta elementare alla
prima Messa, recente. Un’amicizia lunga, la nostra, un po’
scontrosa, di poche parole, ma salda. Così te ne vai, mentre la

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tua giovinezza si avvia al meriggio. È un progetto che covavi
da anni. Lo sai bene tu qual è il tuo nord.
Sarai uomo del progresso, costruttore, medico agronomo,
psicologo, un dilettante insomma, come si richiede dove i
bisogni sono tanti e scarse le braccia. Ma soprattutto
troveranno in te l’uomo della Parola e del Pane di vita, e il
gesto fedele del pescatore di uomini. È il mio augurio.
Arrivederci!».

Mons. Alessandro Assolari, vescovo di Mangochi

“L'Apostolo di Maria” annuncia la consacrazione ormai


prossima di Mons. Alessandro Assolari, primo vescovo della
diocesi di Mangochi.
«...Nell’ottobre del 1969, il Papa lo nominava Prefetto
Apostolico della nuova circoscrizione ecclesiastica di Fort
Johnston che ora è stata elevata a diocesi dal Papa stesso.
Mons. Alessandro Assolari sarà consacrato vescovo da Mons.
Clemente Gaddi, nella cattedrale di Bergamo, l’8 dicembre
prossimo».

Sento il bisogno di “mettere nero sul bianco”

P. Lorenzo Pege confida agli amici i problemi che lo


preoccupano.
«... Un altro giorno sta per concludersi. Dalla mia stanzetta
posso comodamente contemplare un ennesimo tramonto
africano. Spettacolo incomparabile!
C’è tanta calma attorno a me. Sono solo con i miei
pensieri. Il cuore gonfio di tutte le cose viste in questi giorni, e
un bisogno struggente di mettere nero sul bianco. Sì, poiché
penso che i problemi, le preoccupazioni, le sofferenze, le gioie,
gli affetti del missionario non siano strettamente personali ma
siano e debbano essere oggetto di considerazione e di

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ripensamento da parte di tutta la comunità ecclesiale poiché in
nome e in forza di questa egli è stato inviato, mandato.
È noto a tutti la tragica situazione in cui versano in
particolare molti paesi dell’Africa occidentale a causa della
siccità. “Brucia il cuore dell’Africa”, è stato scritto con
un’immagine suggestiva ma nel contempo allucinante, se si
riflette agli innumerevoli drammi, privati e pubblici, che si
sono scatenati in questo angolo sfortunato di mondo.
Secondo alcuni calcoli, pubblicati di recente, in Africa le
persone ridotte alla fame ammontano a circa due milioni.
Senegal, Mauritania, Malì, Alto Volta, Niger e Nigeria, Etiopia
e Ciad lottano contro la sete e la fame. Questi paesi, soprattutto
nei giorni scorsi, erano all’attenzione di tutti gli uomini
sensibili all’immane tragedia africana. C’è stato pure un
appello dei vescovi italiani per un intervento straordinario della
Caritas a favore delle nazioni colpite dalla siccità.
Tanti amici hanno tratto un respiro di sollievo non
vedendoci inclusi nell’elenco offerto all’opinione pubblica
internazionale. In verità il Malawi (Africa Centrale) è stato
colpito solo in parte da questa calamità, il che fa capire che ci
sono vaste zone che si battono con gli stessi problemi
dell’Occidente Africano. Tra queste zone colpite c’è la
missione di Nankwali dove attualmente mi trovo.
Le mancate piogge hanno bruciato tutti i raccolti di
granoturco, di arachidi e di chinangua. La gente vive disperata.
Le scorte sono esaurite. Giovani e uomini in massa emigrano in
Sudafrica o in Rodesia, altri cercano la fortuna in città. Le
donne, i vecchi, gli ammalati e i bambini sono in balia di una
fame che fa paura. È un pellegrinare continuo alla missione con
la speranza di trovare un pugno di grano duro. “Njala, bambo!
Njala, bambo!”. “Fame, padre! Fame, padre!”…È il triste
ritornello sulla bocca dal più piccolo al più grande.
Quello che fa impressione è notare come la gente
normalmente abulica, pigra, indolente, negata per natura ad

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ogni iniziativa e al lavoro, gente che vive ordinariamente
abbandonandosi ciecamente al corso benigno delle stagioni,
sembri improvvisamente riscoprire una dignità e un orgoglio
sconosciuti. Quel pugno di grano non lo vogliono
gratuitamente ma chiedono di lavorare. P. Pagani ed io stiamo
scervellandoci per trovare modo di occuparli, di offrire loro la
possibilità di guadagnarsi poche lire.
In piena foresta di scelte ce ne sono poche, credetemi!
Tuttavia ci siamo dati da fare. Abbiamo organizzato una
squadra per la costruzione di mattoni. Un’altra a disboscare
alcuni ettari di foresta, un’altra a sistemare le strade. Lanciata
l’idea che ci occorrevano delle canne e dell’erba per sistemare
alcune capanne, in un baleno ci siamo trovati con una
montagna di roba che non sappiamo neppure noi che farcene.
Mi viene voglia di ridere al solo pensarci, ma in realtà c’è da
piangere. Che abbiamo risolto? Sì, abbiamo procurato a molti il
denaro necessario, ma abbiamo anche esaurito le riserve che
tanti amici ci avevano in passato inviato per alcune opere in
progetto. Ed ora, che facciamo?
In attesa del nuovo raccolto, piogge permettendo, il
prossimo ottobre, novembre, dicembre, gennaio, febbraio,
marzo e aprile sono mesi che dobbiamo vivere con in gola il
problema terribile di trovare qualcosa per affrontare la carestia.
Per un certo orgoglio personale non ho mai avuto il coraggio di
chiedere direttamente aiuti attraverso queste pagine, ma ora per
forza maggiore e per amore di tanti nostri fratelli in serie
difficoltà, sono costretto ad invitarvi ad aiutarli..».

P. Giovanni Bigoni parte per l’America Latina

Padre Giovanni Bigoni, di Ardesio (BG) rispondendo


all’appello dei Vescovi che chiedevano l’invio di sacerdoti
nell’America Latina, si è offerto di partire per il Perù. Parte
dopo una breve esperienza di lavoro in una parrocchia
periferica di Roma. Qui è stato apprezzato per la sua
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semplicità, bontà d’animo, disponibilità e apertura senza
fanatismi ai problemi e alle iniziative della Chiesa del dopo
Concilio.
È venuto a Redona, nel Santuario di Maria Regina dei
Cuori che lo ha visto sacerdote novello, per farsi consegnare il
Crocifisso. Durante la S. Messa ha detto: «Non c’è nulla di
straordinario per la partenza di un missionario. Non fatemi eroe
prima del tempo».

Suor Alessandra Martini, dal suo primo arrivo in


Madagascar, cura una fitta corrispondenza con gli amici
italiani, solo in parte pubblicata da “L'Apostolo di Maria”. In
una lettera circolare fa sapere:
«... Grazie per il vostro costante ricordo. Grazie per le
vostre lettere che sono sempre motivo di gioia, nella
constatazione che davvero l’amicizia supera lo spazio e il
tempo, annulla le distanze e intensifica, approfondisce ed
arricchisce l’affetto. Grazie per la simpatia con cui seguite i
miei passi qui in Madagascar: vi assicuro che essa diventa un
sostegno, specie nei momenti più duri! Grazie per l’aiuto che,
ora l’uno ora l’altro mi inviate: tutto giunge sempre
puntualmente e, credetelo, provvidenzialmente!...
Oggi lascio l’Ospedale Principale di Tamatave e la
comunità, per trasferirmi a Salazamay, la comunità più vicina
al villaggio dei lebbrosi, per iniziare a studiare a fondo la
lingua malgascia....
Un lavoro enorme si profila all’orizzonte, ma non ne siamo
spaventate: giorno dopo giorno dedicheremo a questi infelici la
nostra esistenza. E... la prima capanna, identica alle altre, che
sarà costruita vicino al nuovo piccolo centro di cure che è
appena terminato, sarà la nostra abitazione, perché è
indispensabile per noi vivere al villaggio dei lebbrosi: essi
stessi lo hanno ripetutamente chiesto!».

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Prime notizie dall'India

Dall’India arrivano le prime notizie di P. Attilio e P.


Michelangelo Corna, inviati per una nuova fondazione
monfortana.
«Il 7 settembre P. Michelangelo Corna e il sottoscritto
siamo giunti in India per dare inizio ad una attività missionaria.
La prima tappa del nostro viaggio è stata la grande città di
Bombay, dove ci siamo subito messi a contatto con quel
mondo che diventerà il nostro campo di lavoro. Quindi ci
siamo diretti a Bangalore e da qui verso i centri più importanti.
Non siamo stati i primi a mettere piede sul suolo indiano,
perché altri Monfortani ci hanno preceduto, anche se solo
momentaneamente. Possiamo dirci i primi in quanto a noi è
stato affidato questo nuovo ambiente di apostolato.
La nostra presenza in India è motivata dallo scopo della
nostra famiglia religiosa che è quello di rinnovare la vita
cristiana e di fondare la Chiesa, là dove non c’è, per mezzo
della devozione alla Madonna. Visitando lo Stato del Kerala e
Goa ci siamo resi conto che i Monfortani si troveranno a loro
agio predicando missioni e ritiri spirituali fra quella gente che
si vanta di essere stata evangelizzata da San Tommaso
Apostolo, ma che sente ora il bisogno di rinnovare la propria
fede.
Assai più vasto ed impegnativo si prospetta il lavoro tra i
non cattolici che sono circa il 99% su una popolazione di oltre
500 milioni di abitanti.
L’Induismo è tuttora la religione più diffusa. Ovunque,
nelle città e nelle campagne, si vedono templi Indù, nei quali
accorrono migliaia di fedeli per pregare e bruciare l’incenso
alla divinità, raffigurata in innumerevoli e stravaganti figure.
La religione Indù è un miscuglio di cultura civile e di mitologia
religiosa, ben lontana da quella di vita cristiana che ha portato
il Vangelo.
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Un’altra religione molto diffusa, anche se in minor
proporzione, è l’islamismo importato dagli Arabi. Di quando in
quando si vedono minareti svettare verso il cielo, da dove,
mattina e sera, i muezzin lanciano l’invito alla preghiera.
Ci sono altri gruppi religiosi tutti lontani da Cristo e
qualcuno addirittura contro. Sicché l’India ha bisogno di veri
missionari fedeli al comando di Gesù: “Andate e battezzate e
fate miei discepoli tutti gli uomini”. Il Montfort, che nella sua
vita ha tanto sognato le missioni, vuole certo che anche oggi i
suoi figli intraprendano coraggiosamente nuove attività
missionarie.
L’India non risparmierà certamente le nostre fatiche, anzi
sembra spronarci con le sue grandi necessità economiche e
religiose ad un particolare invito a noi Monfortani con una
caratteristica che abbiamo subito notato.
I cristiani, in India, sono molto devoti della Madonna e i
due grandi Santuari mariani che abbiamo visitato: uno a
Bombay e l’altro a Sardhana sono mete di numerosi
pellegrinaggi. Ai cristiani si uniscono in gran numero anche
Indù e Musulmani. La Madonna mostra di essere veramente la
mamma di tutti: dei credenti, aiutandoli a vivere la vita di
Cristo in un mondo che non li favorisce affatto; dei non
credenti perché nella loro ricerca spasmodica di Dio, attraverso
miti e leggende, possano raggiungere la vita del Vangelo. Per
cui anche noi Monfortani, animati dalla devozione alla
Madonna, dovremo poter trovare facilmente il nostro giusto
campo di apostolato.
Ma il lavoro sarà certamente arduo. L’india, come si sa, è
vastissima e piena di stridenti contrasti: ricchezza e miseria,
cultura raffinata e ignoranza spaventosa, elevato ascetismo e
miseria morale, il tutto avvolto in un misterioso alone di
religiosità non facile a capirsi. Qualcuno ci ha detto addirittura
che dovremo rassegnarci a rinunciare a poter entrare nella
mentalità indiana. Ma non saremo noi ad aiutare l’India, ma

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Lui: Cristo. Quel Gesù che porteremo sarà anche per l’India un
potente mezzo di elevazione economica e civile; specialmente
sarà per questo popolo il Salvatore e Redentore che lo strapperà
dall’errore lo eleverà, al più presto, ad essere faro di luce
cristiana al mondo contemporaneo».

Precedenti monfortani in Perù

P. Pasquale Buondonno racconta i precedenti monfortani


dell’arrivo in Perù dei missionari italiani.
«...Alla conquista dell’impero del Sole, il Perù, sono partiti
anche i Missionari monfortani. Non per impadronirsi dell’oro
materiale, ma per guadagnare anime a Cristo per mezzo di
Maria.
Il primo tentativo risale all’anno 1902. La vigilia di Natale
di quell’anno sbarcarono nel porto del Callao, il porto della
Capitale, Lima, tre Padri Monfortani. Un quarto padre, con
l’incarico di Superiore, arrivò alla missione partendo da Haiti.
Padre Alano Gouriou si sentiva proprio l’animo di un
conquistador. A leggere la sua corrispondenza si vede ch’egli
non poneva limiti alle conquiste missionarie dei Monfortani.
Voleva impiantarsi al Nord del paese, Piura, perché di lì, per
mezzo di una linea ferroviaria la cui costruzione sembrava
imminente (e dopo 70 anni è rimasta tuttora in archivio)
pensava di passare all’immensa selva dell’Amazzonia.
Discuteva il progetto di una fondazione sull’altipiano
dell’estremo Sud, Puno, sulle rive del lago Titicaca. Parlava di
accettare la cura spirituale del Callao, il porto di Lima; gli
arrideva soprattutto il pensiero di aprire in tutto il Perù
‘orfelinatos campesinos’, orfanatrofi di contadini dai quali
sperava vocazioni monfortane.
Morto di lì a poco il Vescovo di Huaraz, Mons. Soto, che
aveva fatto il contratto con la Compagnia; morto anche il Padre
Generale che lo aveva firmato, dietro insistenze della Santa
Sede di accettare un territorio di missione in Colombia, il
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nuovo Generale, Padre Antonino Lhoumeau, ordinò ai quattro
Padri di passare a questa nuova missione abbandonando il
Perù.
Obbedirono. Scene strazianti alla partenza, specialmente di
quella del Padre Dionigi le Tendre che aveva preso in cura la
parrocchia di Nepeña, sulle Ande. La gente, gridando e
piangendo, supplicava il Padre di restare, le mamme
sollevavano verso di lui i bambini per commuoverlo. Il Padre,
anche lui in lacrime, mentre spronava il cavallo verso la
pianura. “L'obbedienza alle volte è ben dura, ma le voci di
questo popolo il Signore non potrà non ascoltarle”.
Aveva lasciato in quel povero villaggio una emula della
prima Figlia della Sapienza che sarà dopo più di dieci anni
Suor Rosa di Lima. Mentre il Superiore del gruppo, Padre
Gouriou, scriveva al Delegato Apostolico di Lima, Mons.
Bavona: “Eccellenza, la missione monfortana del Perù non è
morta che per risuscitare un giorno”. Una profezia che si
avvererà 58 anni dopo, nel 1961».

Visita in Malawi dei miei genitori

Padre Lorenzo Pege manifesta la sua gioia per aver


ricevuto la visita dei suoi genitori.
«... E' stata un’esperienza esaltante per tutti: per loro, per
me e per i neri. Innanzitutto per i miei genitori che con
coraggio ammirevole hanno affrontato un viaggio alquanto
impegnativo. È stato premiato il loro spirito missionario, la
loro fede e il loro grande affetto per il figlio missionario. Li ho
visti estasiati dinanzi all’incantevole natura africana,
commuoversi fino alle lacrime a contatto con la dura vita del
nero. Avrebbero voluto aiutare tutti, consolare e soccorrere le
miseria più terribili, manifestare insomma in qualche modo la
loro grande sensibilità umana e cristiana. È stato difficile per
loro in certi momenti trattenere quel certo fremito interiore che
ti prende di fronte ad una umanità che soffre troppo.
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È stata una preziosa esperienza anche per me, non solo
perché ho goduto della loro presenza, ma soprattutto perché ho
avuto la possibilità di meditare, riflettere, soffrire e discutere
insieme i grandi e urgenti problemi di questa gente. Mi hanno
fatto bene i loro preziosi consigli e i loro caritatevoli
suggerimenti che si possono riassumere in tre parole: “Padre
Lorenzo, sii buono, paziente e amali tanto questi neri!”.
Non c’è che dire ma la loro visita è stata pure una grande
novità per i nostri neri. Mai infatti avevano visto i genitori di
un loro missionario. Siamo stati tutti esterrefatti del come li
abbiano accolti e onorati. C’è stata un vera gara tra i cristiani e
pagani per manifestare loro riconoscenza e affetto. Ti venivano
lì con quanto di più caro avevano e lo offrivano con una tale
delicatezza e squisita bontà che solo i poveri conoscono e
hanno. Mamma non sapeva più cosa dire; impallidiva per la
commozione, mentre papà aveva gli occhioni rossi. Ed io
gioivo...Pensavo che la carità e l’amore saranno sempre
ricambiati con altrettanta carità e amore. E carità e amore ce ne
hanno quei genitori che sacrificano con gioia e fede un figlio
per le missioni».

Mucche sacre e credenze indiane

Dall’India arriva un corrispondenza di P. Michelangelo


Corna. Parla delle mucche sacre e delle credenze indiane.
«... Una delle caratteristiche che subito colpiscono il turista
straniero che visita l’India è il vedere numerose mucche
passeggiare liberamente per la città in mezzo al traffico davanti
ai palazzi. Non è raro vedere macchine che si fermano
pazientemente in attesa che intiere mandrie di mucche
attraversino la strada.
Va detto subito che queste mucche hanno tutte un
proprietario e vengono generalmente usate per il lavoro dei
campi, per i trasporti e per la produzione del latte. Tutti gli
induisti hanno verso queste bestie la massima venerazione. La
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gente, quando le vede passare, porta loro da mangiare, vengono
spesso portate ai fiumi e lavate amorevolmente; se ammalate ci
sono a volte ospedali specializzati per curarle. Finalmente,
quando invecchiano e sono inabili a qualunque lavoro vengono
a volte portate in ricoveri specializzati dove sono assistite in
tutti i modi da persone incaricate a rendere meno penosa la loro
vecchiaia.
Nella campagna del centro India, ho visitato uno di questi
ricoveri per vecchie mucche. Solo pochi giorni prima era stato
organizzato un festival con musiche e danze in loro onore.
Tutta la gente dei villaggi vicini era accorsa per onorare ed
esprimere la loro gratitudine verso queste bestie che avevano
consumato la loro vita per il bene dell’umanità.
Perché tutto questo? La mucca non viene adorata come una
divinità. Essa riceve un culto perché viene consacrata a Dio.
Quanto all’origine di questo culto non sembra sia dovuto a
superstizione ma piuttosto a certe considerazioni razionali. La
mucca è sempre stata per l’indiano di grande rendimento. Essa
fornisce la maggior parte del nutrimento e lo aiuta nel lavoro
dei campi. Era dunque necessario preservare questo animale
tanto essenziale per il benessere della popolazione. Il mezzo
più efficace era quello di dichiarare la mucca animale sacro.
Da qui le disposizioni sacrosante per ogni indù che
leggiamo già nei libri sacri: “Che egli non mangi la carne né di
vacca, né di bue, essendo la vacca e il bue fondamento di ogni
benessere... Mangiare la carne di vacca e di bue è come andare
verso la propria distruzione”.
Questa proibizione di uccidere le mucche vige tuttora in
molti stati dell’India. Naturalmente questo motivo economico
oggi non regge più dato che il numero considerevole di vecchie
mucche è più un danno che un benessere per l’economia
nazionale. Oggi gli induisti più ortodossi preferiscono dare
argomenti più validi. Per Mahatma la mucca rappresenta tutta

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la creazione e il culto nei suoi riguardi è un simbolo del rispetto
che l’uomo deve avere per tutte le creature di Dio».

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1974
Un alternarsi di buone e cattive notizie
La prima religiosa monfortana del Perù

P. Pasquale Buondonno racconta la storia della prima


religiosa monfortana del Perù, Suor Rosa di Lima. La storia
della sua vocazione risale alla presenza dei primi Padri
Monfortani in Colombia.
«A Nepeña, ai piedi delle Ande peruviane, nei dieci mesi
che il P. Dionisio Le Tendre, vi aveva fatta la missione, una
giovane di 22 anni aveva maturato il proposito di essere
monfortana. Partito il Padre essa era rimasta ferma nella sua
aspirazione e per corrispondenza aveva continuato ad insistere
rifiutando le tante possibilità che le si offrivano di entrare in
qualche altra Congregazione. Dovette aspettare dieci anni, dal
1902 al 1912.
Morti i genitori, morta una sorella più giovane, la nostra
aspirante decise di partire offrendosi vittima per la conversione
di suo fratello traviato. Aveva 32 anni e si chiamava Manuela
Guerrero Asau. Il cognome rivela un’ascendenza giapponese. I
figli del Sol Levante nel Perù rappresenta il gruppo straniero
più numeroso: 35.000. Dopo viene il gruppo cinese, 30.000 e
terzo il gruppo italiano, 25.000. Il Perù è un crogiuolo di razze
nel quale esse si fondono senza contrasti.
Il viaggio di Manuela per la Francia fu un primo atto
eroico: lungo e irto di difficoltà. Non c’erano aerei e non
esisteva il Canale di Suez. Raggiunta la Casa Madre a St.
Laurent-sur-Sèvre, fece professione l’8 settembre 1914
prendendo il nome di Suor Rosa di Lima.
L’anno seguente, 1915, l’obbedienza la destinò alla
missione di Colombia. Essendo maestra diplomata le fu
affidato l’incarico di una classe di bambine ch’essa pose sotto
la protezione di Santa Rosa di Lima. Le Suore che ancora la

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ricordano ne parlano come di un’anima santa e di generosità
eroica.
Nel 1933 si apriva a Bogotà una casa per aspiranti
monfortane e Suor Rosa ne fu nominata Maestra. Ogni anno da
Bogotà le Suore dovevano scendere a Villavicencio per unirsi
alle Consorelle nei Santi Esercizi. Un viaggio che allora
prendeva tre giorni affrontando rischi mortali. E proprio di uno
di questi rischi rimase vittima Suor Rosa di Lima.
Ecco come le cronache del tempo narrano la tragedia. “Era
il 9 gennaio 1936. Da Bogotà due Suore prendono il bus: Luisa
del Buon Pastore e Rosa di Lima. Arrivando al ponte di
Caqueza il bus cozza e salta sopra un macigno. L’autista dà
uno scossone al volante, però inutilmente: l’automezzo rotola
per una dozzina di metri e cade nel fiume. Suor Luisa si
aggrappa al sedile che le sta davanti e chiude gli occhi; per
alcuni istanti si sente affogare nell’acqua, poi esce a respirare
perché il bus continuando nella caduta fa emergere la parte
anteriore. Suor Rosa di Lima invece resta schiacciata dallo
sportello che si è spalancato nella caduta. Un uomo caritatevole
riesce a liberarla, ma la povera sorella ha lo sterno e le costole
frantumate e in pochi minuti esala l’ultimo respiro”.
Nella cappella cimiteriale di Choachi, Fratel Abilio ed io
abbiamo pregato davanti alla tomba di questo primo fiore
monfortano del Perù: con la sua Patrona, Santa Rosa, ottenga
grazie per un fecondo apostolato nella sua terra.
I lettori sono già informati dell’altra primizia monfortana,
Fratel Abilio. Un piccolo compendio del Perù: colore della
pelle tendente al bruno come la razza incaica; nato nella
Capitale, Lima, da genitori della Selva andina; cresciuto sui
monti in una zona chiamata la Svizzera del Perù. Ci ha fatto
persuasi che il Perù può dare alla Chiesa, anche oggi che si
parla tanto di crisi, ottime vocazioni, come diede al mondo nel
passato quelle due perle di santità che rispondono al nome di

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Santa Rosa di Lima e San Martino de Porres. Basta cercarle e
coltivarle».

I Guru-God dell’India

P. Michelangelo Corna scrive dall’India per informarci sui


“Guru-God”.
«... Il Guru è il maestro che guida gli uomini sullo stretto
sentiero della verità. “Perché credete che il Guru sia Dio”,
chiedo ad un induista. Mi risponde: “Perché la verità non può
arrivare a noi ed essere tramandata attraverso i libri e lo studio,
ma solo attraverso la sapienza incarnata”. Il Guru è la fiamma
vivente della verità e solo lui ha il compito di illuminare i
discepoli attraverso la sua luce divina. Il Guru riceve più
omaggi della stessa divinità. I discepoli si prostrano davanti a
lui, pongono ai suoi piedi le offerte, bevono l’acqua nella quale
egli si è lavato i piedi.
Numerosi sono gli uomini-Dio attualmente viventi in
India. Bada, uno di questi, afferma essere Gesù Cristo ritornato
di nuovo sulla terra. Egli afferma che nessuno può capire il suo
mistero e la miglior cosa fare è quella d’immergersi in esso.
Un altro, Bhagwan Rajniesh, afferma di essere la verità, la
via, la porta. I devoti affermano che egli riassume in sé la
sapienza di Laotse, la bontà di Cristo, la pace di Budda. I suoi
discepoli sono innumerevoli. Dovunque egli vada, una folla lo
segue.
Al suo arrivo nelle città il traffico viene interrotto per
diverse ore. Numerosi sono pure i seguaci provenienti
dall’Europa e dall’America. Uno di questi, un americano,
confessava: “Ero solito stare seduto a contemplare il Guru per
giorni interi. Dopo qualche giorno incominciai a sentire delle
strane sensazioni nella mia testa e nel mio corpo. Ero come
immerso in un mare di miele, dopo di che l’estasi, una terribile
estasi...”.

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Un altro uomo-Dio che ho visitato nella sua residenza a
Bombay è Shri Satya sai. Di lui si raccontano cose strabilianti.
Si dice che fin da ragazzo abbia fatto molti “miracoli”: fiori
trasformati in diamanti, pietre convertite in cibo, guarigioni
ecc.. Migliaia di devoti lo seguono tuttora convinti che solo
incontrarsi con il suo sguardo tutti i peccati vengono rimessi.
Di se stesso dice: “Perché temete quando io sono qui. Voi
guardate me, io guardo voi e tutti i vostri peccati sono
perdonati, io porterò le vostre pene, lasciate con me tutti i
vostri dolori...”.
Che pensare di questi uomini-Dio? Un fatto è certo, sono
tutti ricchissimi: suntuosissimi palazzi con aria condizionata,
lussuose Rolls Royces, perfino elicotteri personali per
trasferirsi da una città all’altra. I discepoli, come regola,
devono offrire al loro Guru il proprio corpo, la propria mente e
tutto il proprio denaro. Non fu certo questo il modi di agire di
Gesù Cristo!».

Dall’impero del sole ponente.

Dall’India al Perù. Ne parla P. Pasquale Buondonno. «Il


Continente americano, Nord e Sud, emerse in epoche più
recenti del nostro Continente e dell’Africa e Asia.
Geologicamente, mi diceva un ingegnere, in America rocce e
terreni sono più friabili. Di qui, quando si scava una galleria,
un pericolo più grande di frane. Di qui anche, frequenza di
terremoti: la struttura tettonica del Nuovo Continente non è
ancora ben assestata. L’Osservatorio sismico che sta nel
territorio della nostra Parrocchia di Ñaña, in un solo giorno, ha
registrato più di 400 scosse. Noi non ci accorgiamo di questi
balzi tellurici se non quando il movimento sale nella Scala
Mercalli oltre i due gradi. Due volte, nel 1966 e nel 1971, il
sisma ha superato i sei gradi ed ha fatto strage di case e di vite
umane.

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Giovane il Continente, giovani la maggior parte degli
abitanti. La media della vita umana in molti di questi territori
raggiunge appena i 40 anni. Popoli giovani. A Lima questa
qualifica ha sostituito quell’altra che suonava un po’
ignominiosa: Barriadas o città di miseria.
Chiunque entra in uno di questi miserabili conglomerati
umani nota subito che la massa degli abitanti è in gran parte
costituita da bambini e da giovani. In un senso ancora più vero
e pieno di quello della Cornelia, madre dei Gracchi i gioielli,
gli unici, delle famiglie peruviane, sono i figliuoli.
Ai nostri occhi si presenta un arcobaleno di colori e di
razze. Il Perù, specialmente il Perù dei poveri, è un crogiuolo
per la fusione delle stirpi che popolano il mondo. Abbiamo sì i
colori allo stato puro, gli immigrati della prima generazione:
bianchi, neri, gialli, olivastri, ma poi tutte le sfumature che
possono risultare dalla fusione di questi colori. Chi volesse fare
pratica di antropologia non avrebbe che venire in uno di questi
popoli giovani del Perù.
Con i creoli, nati da genitori spagnoli stabilitisi in questa
terra degli Incas, vi sono i meticci, nati dal matrimonio di un
bianco con una india e viceversa; vi sono i zambi, nati
dall’unione di una persona nera con una india; vi sono i mulatti
figli di bianchi e neri; vi sono i cholos che vanno dai
quarteroni, nati da un genitore mulatto e da un bianco, agli
otturoni nei quali solo un’ottava parte deriva da un ascendente
di un colore senza miscuglio.
Quel che è interessante dal punto di vista umano e
cristiano è che tutte queste categorie vivono fianco a fianco
senza difficoltà. Non vi è la minima ombra di apartheid. Le
lenti che ho visto adoperare in certi parti dell’Africa per
guardare il colore della pelle di un bambino per accettarlo o
meno in una scuola, qui in Perù non servirebbero.
E gli stranieri? Ci chiamano i gringos. Lo pronunciano con
rispetto, quasi un titolo di nobiltà. Si sono dimenticati

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completamente di quel senso di astio e di rigetto con il quale la
parola è nata in Messico. Lì non volevano i soldati statunitensi,
in divisa verde scesi per imporre la dominazione dello Zio Sam
e perciò dicevano: Gree, go! Verde, vattene!
Per noi italiani i Peruviani hanno una parola tutta
particolare: siamo i bachiches. Non si sa il significato
particolare di questa parola. Ma alla maniera con cui ce lo
dicono si può indovinare un senso di affettuosa familiarità».

Eccomi per la terza volta in Malawi

Tornando in Malawi, dopo la breve vacanza in Italia, P.


Adriano Preda scrive:
«Eccomi per la terza volta in Malawi, la mia patria
missionaria di adozione. Dieci anni fa si viveva in una zona
sperduta, quasi interamente musulmana, nell’incertezza di tante
cose. Oggi, una speranza di gioia concreta è venuta a dissipare
ogni dubbio. Una nuova Diocesi, un nuovo Vescovo, una
Chiesa in cammino: Mangochi! È vero, i disegni di Dio non
sono quelli degli uomini...
Colgo l’occasione per dire il mio grazie più sincero per la
generosità mostratami in questi mesi di permanenza tra voi. La
mia nuova destinazione è al lebbrosario di Utale, ove tanti
fratelli bisognosi attendono il vostro aiuto, il vostro ricordo...».

Perché abbiamo scelto il Perù

Suor Giovanna e P. Ernesto Zanga, sorella e fratello


monfortani, lasciando l’Italia, spiegano perché hanno scelto il
Perù:
«...il Perù sta ad una svolta decisiva; le ideologie e i
fermenti sociali rivoluzionari scuotono e risvegliano le
coscienze di quasi tutta la gente. La Chiesa deve essere
presente per dare un indirizzo cristiano a queste scelte. È un
lavoro arduo e delicato. Si richiede una mentalità aperta,

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coraggio nell’affrontare i cambi necessari, e una visione chiara
delle prospettive che si aprono. Noi cercheremo di dare il
nostro apporto umano e cristiano».
Informano anche che i Monfortani hanno fondato una
nuova missione ad Huanuco. Regione e diocesi fa le più
bisognose di assistenza spirituale, dato il numero molto ridotto
di sacerdoti.
La regione ricopre un territorio di circa 35.000 kmq. e si
estende dalle Cordigliere Andine di Huayhuash e di Raura, la
cui vetta più elevata è il monte Yerupajà (6.634 m), fino
all’immensa selva amazzonica. La popolazione è di 400.000
abitanti, disseminati in tutta la regione. Piccoli paesi sperduti.
Strade accidentate.
La nuova missione si trova nella vallata dell’Huallanga, a
2.000 metri di altitudine, tra le Ande e la Selva.
È affidata dal 1° gennaio 1974 ai Padri Monfortani, una
parrocchia che comprende la nuova urbanizzazione delle città,
creatasi dall’afflusso degli indios in cerca di lavoro. Si sta
costruendo la Chiesa. Ci sono già le pareti, manca il tetto, la
pavimentazione e le rifiniture. La casa parrocchiale non c’è. Si
vivrà in una casetta presa in affitto.
Nei piccoli paesi circostanti sorgono delle cappelle
abbandonate in tutti i sensi: bisognerà aggiustarle o meglio
rifarle. Qui ci ha chiamati la Provvidenza di Dio nella quale
speriamo...».

Kankao: posa della prima pietra del progetto “Giovanni XXIII”

P. Giovanni Losa ha “qualcosa di molto interessante da


comunicare”.
«...Oggi abbiamo benedetto la prima pietra delle casa
parrocchiale della missione ‘Papa Giovanni XXIII’, a Kankao.
La missione è stata eretta il 4 maggio scorso, quando Mons.
Assolari, Vescovo di Mangochi, inviava il sottoscritto ad
iniziare i lavori per la nuova fondazione.
63
Quando arrivai qui avevo solo quella carta in mano e,
salvo la chiesa, che però ha estremo bisogno di riparazione,
non c’era nulla. C’erano solo erbacce e spine. Come alloggio
avevo la chiesa, aperta ai quattro venti, come cucina una
capanna in fango ed erbe e come vasca un... catino.
Con i miei cristiani ci siamo messi subito al lavoro. Le
donne a strappare con la zappa le erbe, gli uomini a tagliare le
piante inutili o dannose, specie le piante di spine che crescono
alte e robuste. In poco tempo si fece pulito intorno alla chiesa e
nel luogo dove dovranno sorgere i fabbricati. E già sono in
corso i lavori per un’aggiunta alla chiesa: cioè la sacrestia, un
salone per le riunioni parrocchiali, una stanza ufficio, una
stanza da letto, che provvisoriamente servirà al Padre come
rifugio. E poiché questa è già a buon punto non abbiamo voluto
attendere più oltre per iniziare la Casa della missione vera e
propria.
Così, dopo la Messa cantata delle ore 10, ci siamo portati
sul luogo dove erano state tracciate in precedenza le
fondamenta e abbiamo proceduto, con molta semplicità, ma
anche con tanta gioia di tutti, alla cerimonia della benedizione
della prima pietra. Nel plico, rinchiuso in uno spazio ricavato
nella prima pietra, abbiamo voluto introdurre una foto di Papa
Giovanni, poiché questa è la missione di Papa Giovanni,
un’immagine della Madonna e due piccole monete: una del
Malawi e una italiana. In questa scelta c’era un intento preciso,
un significato: sottolineare la collaborazione tra i cristiani del
Malawi, specie di questa missione, con i loro fratelli d’Italia.
Domani incominceranno i lavori che si protrarranno
probabilmente per qualche mese. Ma mi sembra di avere già la
mia casa, e lo stare con nostro Signore in chiesa non mi sembra
più una cosa strana. Per questo oggi la mia gioia è grande,
raggiunge le stelle e con voglio lasciare passare neppure un
giorno senza comunicarla.

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Il programma che abbiamo davanti è abbastanza affollato e
pesante. Dopo la casa del Padre, dovremmo iniziare la
costruzione dell’ospedale, con le casette del personale, le
cucine e qualche salone per i degenti. Ma non finisce qui.
Il problema che ci assilla di più fin d’ora è quello del
pozzo. Non abbiamo una sorgente, né un pozzo. Per fornire
l’acqua ai muratori le donne dei nostri villaggi devono
sobbarcarsi ad una vera fatica, per andare ad attingere acqua in
una pozzanghera scavata nel letto di un fiume secco ad un
miglio di distanza. E devono portare tutto con secchi, sulla
testa. Quando poi l’ospedale sarà pronto l’acqua diventerà
ancor più necessaria. Ma speriamo sempre nella Provvidenza,
nella benevola assistenza di Papa Giovanni e di quanti
vogliono onorare il grande Papa buono, aiutando a costruirsi la
sua missione».

P. Lorenzo Pege parla dell’amico P. Luciano Duca.

«...Con gioia ho potuto seguire passo passo il tuo lavoro


missionario, grazie anche ai nostri frequenti incontri e alle
nostre chiacchierate fiume. Lasciamelo dire: il Signore ha
benedetto il tuo coraggio e i tuoi sacrifici. Esagero, forse, se
affermo che a Namalaka qualcosa è cambiato? Un tempo i
musulmani ti avevano accolto con indifferenza, vedevano in te
un intruso e ti chiamavano ‘buana’, signore, benché in realtà tu
fossi più povero di tutti noi. Ora non più. Ti chiamano
‘bambo’, padre.
Quando t’incontravi con i tuoi neri ostentavano una
freddezza che ti faceva male e una certa diffidenza. Ora no: ti
salutano, ti chiamano per nome, vengono a trovarti, ti
confidano le loro pene, ti chiedono consigli, domandano aiuti.
Ma cos’è che li ha cambiati? Cos’è che li ha trasformati?
L’ospedale che hai costruito? La maternità? Le scuole che hai
realizzato ed altre che hai programmato? Non penso.

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Perché perfino i sacerdoti musulmani ti consultano, ti
venerano e ti amano? Forse perché sei un ospite straordinario
che ha portato oro e argento? No! Credo che tutto sia un
risultato della tua testimonianza evangelica. Ti sei fatto uno di
loro, é la tua vita condivisa totalmente con la loro. È la tua
testimonianza di povertà totale che sa “farsi tutto a tutto”
secondo l’espressione di San Paolo.
A Namalaka ha cambiato qualcosa soprattutto la tua carità,
la tua sensibilità e la tua carica umana, virtù vivificante del tuo
amore per Cristo. Come Lui non sopporti di vedere un nero
soffrire ed è per questo che hai messo tutto a loro disposizione:
tempo, denaro, auto, vita. I tuoi neri hanno capito che li ami, li
stimi, li consideri.
In fondo la soluzione di tutti i loro problemi sta proprio
qui: un po’ di amore e un po’ di calore umano. Ti fai amare per
le tue buone parole, per il tuo contatto semplice e spontaneo
con la gente, ma, soprattutto, ripeto, per la tua carità che è tanto
grande che a volte ci preoccupa perché ti trascuri e ti
dimentichi. Mi piace tanto ricordarti quanto mi diceva un tuo
maomettano una settimana fa: “Padre Duca è un bianco di pelle
ma il suo cuore è nero quanto il nostro!”.
Sei sulla strada buona. È stato scritto che il missionario
deve scendere per risalire, incarnarsi per convertire, perdersi
per salvare, adattarsi per evangelizzare Tu questo lo stai
realizzando con la tua testimonianza.
Ti ho visto ultimamente un po’ abbattuto perché i
catecumeni non aumentano. P. Duca, tieni duro, sii fiducioso:
la conversione è opera di Dio, lo sappiamo. Tu hai seminato
abbondantemente. Arriverà pure il tempo della mietitura. Non
sappiamo se tu avrai la gioia di raccogliere ma siamo certi che
si mieterà: Lui ce l’ha promesso! Qualcosa ho potuto notare
ultimamente in occasione del primo funerale cristiano del tuo
primo ragazzo battezzato lo scorso anno, morto per un banale
incidente. Avevi tutta Namalaka musulmana presente al rito

66
funebre. Ricordo che le tue toccanti parole di circostanza sono
state spezzate da un singhiozzo di dolore che ha scosso tutta
l’assemblea e qualcuno ha mormorato: “Guarda un po’ come si
amano i cristiani”. Sono parole queste che conosciamo e che ci
ricordano il lento e sofferto nascere della prima Chiesa. Parole
di speranza anche per te che ti invitano a guardare il futuro con
fiducia e serenità...».

Giungono notizie dall’India

P. Michelangelo Corna racconta la storia del piccolo Babu


e la tragedia della sua famiglia.
«...Tutto l’edificio della società induista è fondato sulla
distinzione della caste. L’appartenenza ad un casta è
determinata dalla discendenza ereditaria. La casta dei Bramini
ha acquistato lungo il corso dei secoli un prestigio ed una
potenza. Si esige dai Bramini un elevato grado di cultura ed
una reale superiorità morale.
Fra le caste c’è una netta distinzione. Abbandonare la
propria significa essere rinnegato dalla famiglia e da tutti i
membri della casta. È questo uno dei più grandi ostacoli alla
conversione al cattolicesimo.
Il piccolo Babu vive qui a Bangalore in una piccola
capanna con la mamma e cinque fratelli. La loro vita è fatta di
autentica miseria, Ma non fu sempre così. Il padre e la madre
appartenevano alla famiglia dei Bramini: nobiltà, ricchezza,
vita agiata, trascorsa nei numerosi palazzi a Madras e altrove.
Qualche anno fa, nonostante le conseguenze, si
convertirono al cattolicesimo. Furono immediatamente
diseredati e rinnegati dalla famiglia. Lasciarono allora Madras
e si rifugiarono a Bangalore.
Fu impossibile per il padre trovare un impiego decoroso.
Costretto a fare il camionista, con grandi sacrifici riuscì a
comprarsi una casetta e un piccolo negozio. L’anno scorso però
fu colpito da una malattia incurabile. Medici e medicine
67
valsero a nulla, se non a riempire la famiglia di debiti. Due
mesi fa è morto, lasciando la famiglia nella più nera miseria.
Ora questi poveretti rischiano di essere buttati su una strada.
Sono degli autentici martiri della fede che meritano
compassione ed il nostro aiuto».

Madagascar: le conseguenze della rivoluzione in atto

In una corrispondenza firmata ancora una volta da P. Carlo


Berton e P. Angelo Rota, viene aggiornata la situazione
venutasi a creare nel Madagascar in seguito alla rivoluzione.
«...Dal maggio 1972 in qua, stiamo vivendo un’epoca
nuova per l’Isola: un’era di “rivoluzione innovatrice”. Le
strutture socio-politiche-economiche, lasciate in eredità da 70
anni di colonia francese, sono rimesse radicalmente in
questione.
Dopo gli studenti ed intellettuali, ora un po’ tutte le
categorie sono travagliate dalla ricerca di una autenticità,
personalità e cultura proprie del Popolo Malgascio. Dei passi
sono stati fatti: in economia con l’uscita dalla zona franco-
francese, con la nazionalizzazione di alcune società straniere;
in politica dando al paese una nuova organizzazione, basata
sulla struttura delle comunità di base come i villaggi Ujamah
della Tanzania e le comunità rurali cinesi. La lingua ufficiale
non è il francese, ma il ‘malagasy’ e i programmi scolastici
sono in pieno riadattamento.
In questo cambiamento di mentalità, di stile di vita e di
relazioni, non fa meraviglia che ci possano essere delle
stravaganze un po’ troppo nazionaliste, ma non ancora
xenofobe. Con la partenza di varie società straniere e la
sorveglianza dei capitali locali e stranieri, passiamo un periodo
economicamente critico, ma si spera in una ripresa ed in una
società costruita e realizzata dagli stessi malgasci.
La Chiesa Cattolica, non essendo legata a nessuna cultura
ed a nessun regime politico, collabora con tutti gli uomini di
68
buona volontà. Noi due siamo un po’ gli incaricati effettivi di
dirigere le opere sociali della città di Tamatave: Centro
artigianale di falegnameria, carpenteria (40 giovani); Centro di
sartoria per le ragazze tra i 15 e 20 anni (ve ne sono 65); Centro
di Alfabetizzazione per adulti di Morarano; Centro di
Economia domestica per donne e signorine al Béryl Rose.
La nostra preoccupazione attuale è di formare dei malgasci
laici competenti, responsabili e coscienziosi, capaci di dirigere
queste opere. Studiamo con loro soprattutto come poter rendere
autosufficienti le opere di promozione: cose certamente difficili
per ora, ma da studiarsi in modo assoluto.
Già una schiera di piccoli artigiani, di falegnami, di sarte
sono usciti dalle nostre scuole professionali: ora formano e
sono delle braccia attive per lo sviluppo del Paese.
L’utilità della presenza qui nel Madagascar, in quanto
europei, può essere messa in questione da alcuni. Cosa non si
mette in discussione oggi? Il nostro vescovo, Mons. Jérome
Razafindrazaka, ci ha detto: “Pietro era straniero a Roma,
Paolo in Grecia, Marco in Egitto, Bonifacio in Germania,
Cirillo in Pannonia...Un giorno forse ci saranno dei missionari
malgasci in India e altrove; però siamo realisti: ora abbiamo
bisogno di voi ed anche di altri missionari, senza distinzione di
nazionalità”.
Possiamo dirvi, senza alcuna vanagloria, che i nostri
cristiani ci amano davvero. Stiamo vivendo il Sinodo
Diocesano, e cioè cercando come adattare la manifestazione
delle fede cristiana all’originalità della cultura malgascia, come
dare al laicato delle responsabilità maggiori.
Già alcune decisioni sono state prese: una decina di
persone adulte compongono il Comitato Responsabile della
parrocchia: ognuno di loro è responsabile di uno dei dieci
quartieri in cui abbiamo suddiviso la parrocchia di 25.000
anime. I laici distribuiscono l’Eucaristia in chiesa e agli
ammalati, dirigono le riunioni di quartiere, ci aiutano nella

69
preparazione dei matrimoni, dei battesimi e si occupano della
catechesi degli adolescenti. Nostro dovere è dare loro una
solida formazione...».

P. Tarcisio Betti, “missionario in stampelle”.

Partì per l’Africa nel lontano 1939, giovanissimo prete


di 26 anni. Nel 1966, dopo un ricovero nell’ospedale di Zomba,
gli venne diagnosticata una sclerosi multipla. Dopo una
periodo di cura, sia pure appoggiandosi alle stampelle, ha
deciso di tornare in Malawi. «Certamente a settembre: a ottobre
iniziano le scuole in Malawi ed io voglio essere al mio posto. I
miei ragazzi mi aspettano».
A chi gli chiede come farà a camminare per visitare le
scuole, risponde: «Da Mangochi parte una strada che va al lago
Malawi, al fiume Shirè, a Zomba: una strada moderna,
costruita da poco per incrementare il turismo. E su questa
strada sono dislocate le tredici scuole che ogni settimana visito
puntualmente.
Con la mia macchina vado ad ogni scuola,
indipendentemente dalle mie gambe, perché le scuole sono
tutte lungo questa strada. Sento di essere di aiuto alla chiesa
d’Africa. Perché fermarmi qui? Non mi sento più italiano,
occidentale: appartengo alla gente, alla Chiesa d’Africa».

Scrive per la prima volta dal Madagascar P. Guido Libralato.

«Sono nel Madagascar da novembre e finalmente mi


decido a scrivere, anche per far coraggio ai pochi e sparuti fans
che mi restano in Italia e per dire loro che sono in buona forma
e ho perso solo qualche chilo del mio peso.
Il Madagascar: ho incominciato a sentirne parlare fin dal
primo anno che ho trascorso a Bergamo, quando partivano i
primi missionari italiani. Adesso ci sono anch’io e non ho
parole per dire la gioia che provo in questo momento; prego

70
solo il Signore che mi mantenga sempre questa gioia e con
questo entusiasmo.
Solo tre giorni dopo il mio arrivo, i Padri di Tamatave
hanno voluto farmi provare le prime gioie missionarie, così mi
hanno fatto amministrare i battesimi: più di venti. Ero piuttosto
emozionato, ma, con in mano il mio foglietto con la formula in
malgascio, me la sono sbrigata non troppo male. Ho lavato per
bene quelle teste dalla pelle un po’ più scura della mia,
pregando il Signore di inondarli della sua grazia e anche
ringraziandolo perché finalmente potevo realizzare quello che
pensavo da tanti anni.
Ora vado a scuola ad Ambositra, una cittadina
dell’altopiano, a più di 1300 metri di altezza. Nel Madagascar
tutti i nomi hanno un significato: Ambositra deriva il suo da
una piccola operazione che subivano i prigionieri di guerra, i
quali diventavano, di conseguenza, degli ottimi custodi di
harem. Vado a scuola per imparare la lingua. Beh, se è
relativamente facile leggerla, il parlarla è piuttosto difficile,
anzi, mi dicono ci vorrà qualche anno per sbrigarmela
correntemente.
Nel frattempo mi do da fare per conoscere anche gli usi e i
costumi di questa gente. Già dalla fine di novembre ho
cominciato ad uscire nelle chiese dei dintorni di Ambositra, per
celebrare la Messa, in malgascio naturalmente.
I primi cristiani che hanno partecipato alla mia Messa
devono aver avuta molta pazienza e soprattutto devono essersi
fatte delle grasse risate nell’ascoltare i miei strafalcioni. Ma
non hanno lasciato trasparire nulla e alla fine, quanto ho
chiesto se avevo letto bene, ho avuto come risposta un coro di
sì. Ma non mi sono fatto eccessive illusioni, perché già in
precedenza mi avevano detto che difficilmente un malgascio ti
dice che hai sbagliato.
In chiesa tutti pregano e soprattutto cantano in modo
formidabile, dai più piccoli ai più grandi. Questa è stata una

71
delle cose che fin dall’inizio mi hanno lasciato a bocca aperta:
non c’è occasione in cui il malgascio non canti e, senza che
nessuno insegni loro la musica, formano dei bellissimi cori.
Ma il più interessante dal punto di vista spettacolare,
avviene dopo la Messa: tutta la gente si raduna nel cortile della
chiesa, in cerchio, e tu devi stare in mezzo, sorbirti un
discorsetto di ringraziamento, accettare un’offerta e stringere la
mano a tutti. Ho detto accettare un’offerta: questo potrà fare
arricciare il naso a più di uno. È successo lo stesso anche a me
la prima volta e mi si continua a stringere il cuore ogni volta
che ricevo qualcosa. Ma bisogna accettare altrimenti ne restano
gravemente offesi e poi si sentono molto onorati se si accettano
le loro cose.
Dato che vado a scuola, di tanto in tanto ho diritto anche
alle vacanze. Così ho potuto trascorrere la Pasqua sulla costa
est, nella diocesi di Tamatave, che sarà poi anche il mio campo
di lavoro. Ho celebrato la Messa in tre villaggi diversi. Per
fortuna sono collegati tra di loro da una specie di strada e con
l’automobile non è stato difficile arrivarci. Due dei villaggi si
trovano proprio in riva all’oceano, solo che non si può fare il
bagno: ci sono i pescecani. Ma la natura è stata previdente: a
poche decine di metri ci sono dei bellissimi laghetti dove si può
sguazzare liberamente. Faceva un gran caldo quel giorno e
quelli che mi conoscono possono ben immaginare quanto ho
potuto sudare.
I cristiani mi hanno offerto il pranzo: riso bollito senza sale
e qualche pesce. Per fortuna avevano comperato una bottiglia
di vino. Mi sono fatto la siesta sotto le palme con il pericolo di
prendermi in testa una noce di cocco e con l’oceano che
rumoreggiava ad una decina di metri. Poi via verso un altro
villaggio dove ho celebrato la mia terza Messa.
Qui volevano tenermi per la cena e per trascorrevi la notte,
ma ho saputo essere all’altezza della situazione: l’idea di
mangiare ancora riso bollito non mi seduceva affatto...Ho

72
ascoltato gli argomenti della pancia che brontolava e con una
bella scusa tutta fiorita, ho lasciato i cristiani con a promessa di
ritornare presto.
Così sono tornato a casa, con un po’ di fame e soprattutto
con una grande gioia: nessuno mi conosceva, ma tutti mi
avevano accolto molto bene, contenti soprattutto di poter
celebrare l’Eucaristia il giorno di Pasqua. E la loro gioia
l’avevano comunicata anche a me.
La vita, certo, non è facile qui, ma basta sapersi adattare e
prenderla per il verso giusto e diventa bella, molto bella. E poi
la certezza che Cristo ci è vicino, aiuta a vivere ancora meglio e
soprattutto ad amare del suo amore questa gente così diversa da
noi. Intanto la vita continua. Andrò a scuola fino a settembre e
poi sarò completamente disponibile per il lavoro...».

A Nankwali arrivano le Sacramentine

Nella missione di Namkwali sono in arrivo quattro Suore


Sacramentine.
I missionari fanno sapere che «... la situazione è quella che
è. Ci diamo da fare, ma i risultati per ora sono scarsissimi e la
vita cristiana è all’acqua di rose. Troppo soli! Non abbiamo
catechisti preparati e non troviamo neppure chi lo possa fare.
Tutto il nostro sforzo è teso a preparare qualcuno che ci
rappresenti nelle varie cristianità sparse su un territorio vasto.
Quelli che ci dovrebbero aiutare sono più pagani che cristiani.
Ci nascondono situazioni, casi si morale che non sono
compatibili con il cristianesimo. Favoriscono usi e costumi
pagani. La situazione dei matrimoni è così disastrosa da far
cascare le braccia. .
Tutto il lavoro da fare è l’avvicinamento della donna, la
sua formazione ed educazione. È lei che trasmette la tradizione
ai figli. Forse proprio perché siamo uomini ci è difficile
inserirci nel loro mondo. Ecco quindi il compito che spetta alle
4 Suore Sacramentine che verranno: contatto umano prima di
73
tutto e servizio sociale per riuscire a penetrare nel loro animo, e
poi discorso cristiano e testimonianza di vita di fede e di
sacrificio. La donna qui è povera, analfabeta, ignorante sotto
tutti i punti di vista.
Contatto umano: visitare le capanne, insegnare a cucinare,
a lavare, a curare i bambini, a confortare, ad incoraggiare...
Servizio sociale: insegnare a leggere e a scrivere; lezioni di
cucito, ricamo, igiene, assistenza sanitaria. Non c’è nessuno
che si curi delle ragazze e dei loro problemi, che le organizzi,
le faccia divertire...
Discorso cristiano: catechismo, adunanze, ritiri,
promuovere associazioni, visitare le varie cristianità
regolarmente e là dove è impossibile il ministero domenicale
del missionario far pregare, distribuire l’Eucaristia alle
comunità e agli ammalati.
Testimonianza di fede e di sacrificio: promuovere il culto
eucaristico, l’ora di adorazione. La dedizione disinteressata ed
amorosa farà riflettere senz’altro e si aprirà un discorso
vocazionale in un mondo dove sembra che il matrimonio sia
l’unico ideale delle ragazze.
Ecco, grosso modo, il lavoro che si prospetta alle
missionarie Sacramentine. Senza dire poi quante saranno utili a
noi missionari, sempre sporchi e rotti, quasi figli di nessuno...».

Mi chiedo: perché questa miseria africana?

P. Eugenio Cucchi confida alcune sue impressioni di


missionario alla sua prima esperienza.
«...Avevo appena terminato di celebrare la Messa e mi
portavo lentamente verso la casa per continuare lo studio della
lingua locale. Alle orecchie mi giungeva monotono e sordo il
rullio del mulino della missione, interrotto di tanto in tanto dal
frignare di un neonato, forse infastidito dalle mosche, mentre
tentava di riposare sulla schiena della madre. Certamente non
aveva trascorso la notte con tre o quattro coperte sulle spalle...
74
Mi sedetti al tavolo e lasciando da parte lo studio preferii
riflettere un po’. Sinceramente ero innervosito e il pensiero di
una umanità così egoista mi dava fastidio: perché questa
miseria africana? Perché la povertà? Non stavo chiedendomi il
perché filosofico che mi desse motivo di dolore umano. Me la
presi un po’ con me stesso, poi con gli europei, con gli
americani e ancora con me stesso. Eppure ero già in Africa,
avevo già deciso di testimoniare per sempre l’amore di Cristo e
la sua giustizia; mi ero già buttato...
Il documento sui diritti umani dell’uomo stava davanti a
me: lo avevo appena riletto la sera prima. Parlava chiaro, fin
troppo chiaro, ma la realtà umana che avevo davanti era
paurosamente in contrasto con esso e la vedevo ogni giorno.
Eppure il documento è stato riconosciuto e accettato da tutte le
nazioni del mondo ed ha 25 anni di vita...
Oggi è giunto il momento in cui non possiamo più dire:
non lo sapevo! Ora lo sappiamo. In Sudafrica la segregazione
razziale è sancita dalla legge; nel continente africano milioni di
uomini muoiono per carestia, siccità, malaria, colera, diarree,
morbillo, sinistre compagne delle immense folle di poveri del
Terzo Mondo. E sappiamo pure che queste miserie sono state
più volte messe a confronto con lo scandalo delle nostre super-
alimentazioni che così volentieri condividiamo con cani e
gatti...
Per nostra consolazione non tutti la pensano così. Nel
nostro ospedale di Namwera ci sono otto volontarie. Sì, ce ne
sono e sono in aumento coloro che hanno il coraggio delle loro
parole, coloro che hanno capito che il solo tempo sprecato è
quello che non è messo a disposizione di Dio e dei fratelli e
sanno perdere la loro vita per i fratelli più poveri del Terzo
Mondo, per ritrovarla più pura, autentica, più bella in barba a
tutti coloro che la ritengono assurda...».

75
Non riuscirai mai a capire la mentalità africana

P. Eugenio Cucchi torna ancora sull’argomento in un’altra


corrispondenza.
«I veterani dell’Africa mi hanno messo subito con le spalle
al muro: non riuscirai mai a capire veramente la mentalità
africana, anche per noi resta ancora un mistero. Però un
pivellino come me, in Africa solo da qualche mese, ha ancora
tempo e volontà per ficcarci il naso. Così, tra una lezione e
l’altra di chichewa me ne vado nel villaggio vicino alla
missione.
È un villaggio degli Angoni, una tribù guerriera
proveniente dal Sud Africa che nel passato non esitava ad
assalire altri villaggi distruggendo persone e cose pur di trovare
qualcosa da mangiare o semplicemente per motivi di
supremazia. Vengo accolto con allegra ospitalità e tutti
vogliono che entri in casa per parlare e gustare un po’ di cibo...
I bambini mi seguono di casa in casa e a loro faccio le
domande più semplici. Così mi rendo conto che non vanno a
scuola perché non hanno 1.500 lire per pagare la tassa. Ma a
questa scusa non sempre ci credo...Ci ripenso: è davvero così
impossibile trovare 2 kwacha (1.500 lire!)?
Mentre mi girano nel cervello simili considerazioni i loro
occhi si incontrano con quelli di Paolo. Avrà sì e no 5 anni ed è
coperto solo da un paio di calzoncini nei quali ci sta due volte.
Non è la prima volta che lo vedo, ma oggi la sua pancia mi
sembra più gonfia.
L’istinto naturale mi suggerisce di prenderlo in braccio e
portarlo alla missione o all’ospedale o non so dove, ma
qualcosa mi trattiene: fissandoli tutti uno per uno capisco che
nessuno dovrebbe essere escluso da quell’istinto. Il pensiero
vola a casa mia, da mia madre: quanto non ha fatto per tirarmi
su quand’ero piccolo! E se ora fosse qui...; poi penso allo
spreco di cibo e medicine e, per associazione di idee, alle
76
cliniche per cani.... Ho un brivido di freddo nonostante il sole
africano. Mi accontento di passare la mano sulla testa di
Paolo...
Mi dovrò abituare, ma solo per non prendermi una paralisi
totale ogni ora. Abituarsi per poter essere più prudente ed
oggettivo nell’affrontare e risolvere i loro bisogni urgenti
lasciando che chiaramente capiscano che sta a loro muoversi,
che dopo la prima spinta devono continuare da soli...
Queste sono le riflessioni che si accavallano in me mentre
ritorno, per la verità un po’ sconvolto, dal villaggio degli
Angoni. Forse è la voglia che ho di incominciare a inserirmi
per capire e amare questo popolo. Non so perché, ma ogni
tanto mi perdo in queste speculazioni come se tutto dipendesse
da me, ma cosa volete, anche questo è un modo per ficcarci il
naso...».

Bambo Duca: spero che la perdita sia solo momentanea

P. Lorenzo Pege scrive per informare che P. Luciano Duca


è rientrato in Italia per un periodo di assoluto riposo:
«... Speriamo che la perdita sia solo momentanea. La sua
partenza ha messo in seria difficoltà il Vescovo che per un
motivo o per l’altro vede assottigliarsi il numero dei suoi
missionari già troppo pochi per un territorio così vasto. Quanta
tristezza e pena!
“Namalaka resterà senza sacerdote?”: era questa la
domanda che ci ponevamo un po’ tutti. La risposta l’ho avuta
in un colloquio con Mons. Assolari che mi chiedeva di lasciare
Nankwali per sostituire il confratello ammalato.
Ho lasciato quasi in sordina la mia missione. Non è
mancata una stretta al cuore e quella certa malinconia che ti
prende quando si lasciano vecchi amici e cose care.
Nei pressi di Namalaka rallento la velocità per un primo e
sommario contatto con quella che sarà la mia gente. Ecco le
prime capanne. Il rumore del motore attira l’attenzione di molti
77
che si portano ai bordi della strada. Il colore celestino di una
certa macchina inganna i più e un urlo di gioia si leva in coro:
“Bambo Duca! Bambo Duca!”. E una delusione per tanti volti
nuovi quando si accorgono che quel viso pallido non è il loro
vecchi amico.
Mi salutano timorosi. Mi squadrano, mi fissano, mi
osservano come si squadra e si fissa uno straniero. Leggo sui
loro volti quella nostalgia provate alcune ore prima lasciando
Namkwali. Cerco di sorridere per accattivarmi simpatia in
fretta. Ci vorrà del tempo. Esigono la prova che consiste
nell’amarli, nell’aiutarli e nel capirli come P. Duca ha saputo
amarli, aiutarli e capirli. Pretendono un’amicizia semplice,
gioiosa, profondamente umana come quella di P. Luciano.
La situazione è imbarazzante sia per me come per loro.
Fossero almeno cristiani, qualcosa di comune avremmo trovato
subito da comunicarci. Ma cristiani non sono. E la loro stima e
amicizia me la devo guadagnare. E l’esame inizia subito.
Stanco e sopraffatto più dalle emozioni che dal viaggio,
l’infermiera del nostro piccolo ospedale mi chiede di portarla
dalla mamma malata a circa 20 chilometri. Dopo pochi istanti
di esitazione, mi permetto di chiedere un solo minuto di libertà,
poi torno al volante.
Non ho percorso che 5 Km. Quando in una semicurva sono
costretto ad una frenata brusca: una donna al centro della strada
con in braccio una bambina mi chiede di fermarmi. Una scena
straziante: urla di dolore, un pianto disperato. “Buana, portami
a casa. È morta or ora. Stavo portandola all’ospedale della
missione. Troppo tardi!”.
Prendo la bambina fra le mie braccia. È ancora calda. La
poso delicatamente sul sedile dell’auto, scambio uno sguardo
d’intesa con l'infermiera la quale si mette all’opera praticandole
la respirazione bocca a bocca mentre io cerco di riattivare i
battiti del cuore con dei massaggi. Sono momenti di tensione
terribili e indimenticabili. La bambina apre gli occhi. C’è una

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speranza. La mamma smette di urlare e intravedo sul suo volto
un qualcosa di umanamente indefinibile. Mentre l’infermiera
continua disperatamente a prodigarsi al caso, riprendo a tutta
velocità la via del ritorno. Una preghiera profonda elevo a Dio.
Odo un lamento sommesso. Forse...Ancora un breve tratto...
Mi sento felice, ma per pochi istanti, perché mi sento dire:
“Fermati, Padre. È inutile continuare”. Il cuore ha ceduto. Mi
trovo con gli occhi pieni di pianto: speravo in un miracolo ma
forse la mia fede è ancora troppo debole per meritare tanto.
Namalaka, Namkwali, Utale: sono la stessa cosa.
Cambiano i volti, ma le sofferenze, i dolori, i problemi sono
sempre gli stessi. Voglia Dio accettare questa nuova e difficile
prova di impotenze e di debolezza in cambio di quell’amore e
di quella dedizione che questi nuovi fratelli attendono da me».

Mi sono subito rimboccato le maniche

In Italia per un periodo di vacanza P. Francesco Valdameri


parla di Ansanama, la sua missione, dove si trova da quattro
anni. Alla domanda: “Cosa hai realizzato in questa missione?”,
risponde:
«Ho avvertito subito una grande sofferenza dovuta al
dilagare di malattie infettive: ho sentito l’urgenza di un
ospedale. Mi sono rimboccato le maniche ed ho organizzato
una fabbrica di mattoni. L’inizio per la verità fu triste: la
cottura di mattoni mandò alla malora migliaia di soldi per la
scarsa compattezza del terreno. Ripiegai su prisme di cemento
ed ho costruito una piccolo reparto maternità che funziona
bene: in media abbiamo 50 nascite al mese. Nei miei progetti
c’era anche un ambulatorio, per la mancanza di fondi non è
stato realizzato. Attualmente il reparto maternità funziona
anche da ambulatorio».
Interrogato anche sul funzionamento del reparto maternità,
aggiunge:

79
«Abbiamo un assistente medico, un’infermiera,
un’ostetrica e una insegnante domestica. Sono tutti indigeni,
regolarmente pagati dalla missione. Lavorano molto bene.
Quando sono arrivato la mortalità infantile nei primi mesi
arrivava anche al 65%. Ora difficilmente vanno al Creatore.
Abbiamo iniziato una campagna di cure preventive:
vaccini contro il morbillo, vaiolo, poliomielite, ipertosse,
malaria. Ogni bambino ha la sua cartella e ogni mese viene
regolarmente controllato. I bambini denutriti vengono tenuti
alla missione per alcune settimane insieme alle mamme: si cura
il bambino e nel frattempo si insegna alla madre come e con
quali materie nutrire il figlio. Diventa una vera scuola di
puericultura».

È davvero strano destino quello dei paesi del Terzo Mondo!

P. Eugenio Cucchi torna a scrivere sulle gravi ingiustizie


presenti nel Terzo Mondo:
«...E' davvero strano destino quello dei paesi del Terzo
Mondo: gode il beneficio dell’attualità mondiale solo in casi di
stravaganze dei suoi leaders o di catastrofi naturali. Non
appena qualcosa giunge a minacciare i nostri interessi anche le
più disastrose catastrofi altrui passano nel dimenticatoio.
In questo modo il cronico stato di sottosviluppo al quale è
costretta la maggioranza dei paesi del Terzo Mondo rimane tale
e quale, senza prospettive di speranza. A volte mi dichiaro
fortunato di trovarmi in un luogo povero come l’Africa, non
certo perché preferisca che l’uomo resti povero, ma
semplicemente perché non m’interessa più far parte di un paese
ricco, scrollandomi egoisticamente dalle spalle il peso di una
responsabilità e di una colpa verso questa moltitudine di poveri
con i quali e per i quali ora vivo, lavoro e prego...
Che fare? Lasciamo che i diretti responsabili del progresso
umano facciano la corsa agli armamenti o si mettano a litigare
per gli scandali locali o mondiali: non si rendono più conto
80
ormai che lo scandalo vero e proprio è l’esistenza di ricchi che
diventano sempre più ricchi e di poveri che dovranno morire
nella loro sempre più squallida povertà! Noi, con tutti coloro
che credono nella giustizia divina e alla possibilità di uno
sviluppo umano più degno, cerchiamo di salvare il salvabile
lavorando concretamente per la giustizia e per la pace, per
costruire un ordine che sia equilibrio fondato sull’amore non
sulle forze armate...».

Terremoto in Perù: 50.000 persone senza tetto

P. Pasquale Buondonno informa sul terremoto che ha


colpito il Perù.
«... Nei dodici anni trascorsi da noi Monfortani in Perù la
terra ci ha scossi con abbastanza violenza tre volte. E così che
questo 3 ottobre 1974 il terremoto ha raggiunto gli otto gradi.
Gli specialisti ci stanno avvertendo e rassicurando:
avvertendo che questa danza della terra continuerà per dei
mesi; rassicurando perché si tratta di assestamenti secondari
della cappa tettonica dopo l’immensa frana sottomariana del 3
ottobre che spostò una delle placche di questo Continente.
Quel giorno si celebrava il sesto anniversario del colpo
militare che portò al Governo una giunta di generali e la
rivoluzione che ha in animo di cambiare le strutture della
società peruviana.
Il Presidente Velasco si disponeva a pronunziare un
discorso di consuntivo e preventivo alle 4 del pomeriggio:
dovette rimandarlo ad altro giorno. Infatti alle 9.25 è iniziata la
danza poco interessante. Io stavo nella mia stanzetta. Pensavo
che fosse uno dei soliti movimenti brevi e leggeri. Quando
invece ho sentito che la scossa durava e s’intensificava sono
uscito all’aria aperta.
Fortunatamente la nostra casa, la nostra chiesa e tutta la
zona della parrocchia non ha subito grossi danni. Solo la croce
di cemento armato che campeggia sulla facciata della chiesa ha
81
ondeggiato paurosamente durante il sisma. Poi, dopo i due
minuti del terremoto, è rimasta inclinata verso la volta. I
pompieri che abbiamo chiamato subito hanno fatto una verifica
e sembra che non ci sia pericolo...
Grazie al Signore che ha protetto tutta la nostra parrocchia.
In città invece si sono contati una ottantina di morti. Molti
edifici sono crollati e resi inagibili; cinque chiese chiuse al
culto o perché sono crollate le pareti o è precipitata la volta o la
cupola. In una di queste chiese era programmata la Prima
Comunione. Fortunatamente la celebrazione sarebbe stata più
tardi, se no sarebbe successo un disastro.
Più di cinquantamila persone sono rimaste senza tetto. Il
danno più grave lo hanno subito le scuole, alcune delle quali
con più di cinquemila alunni. Nella lista dei danneggiati figura
anche la Scuola di Ñaña delle Suore Monfortane. Ha solo pochi
anni ed è stata costruita con molti sacrifici.
Qualcuno mi chiederà: e voi ve ne rimanete tranquilli con
questa prospettiva di altri terremoti? Siamo nelle mani del
Signore. Dunque... in buone mani».

Non è Vazala (straniero) , lui, è Mompera (il nostro padre).

P. Antonio Marchesi, dopo una breve vacanza in Italia,


torna in Madagascar. Lo aspettavano con ansia:
«”Quando ritorni?”. Me lo hanno detto e ripetuto prima
che lasciassi il Madagascar e me lo hanno scritto più volte a
casa mia. Un semplice complimento o puro interesse? Un
pizzico d’interesse non manca, perché sanno che il Padre non
torna mai a mani vuote. C’è però qualcosa di più profondo! Un
desiderio vivo e sincero di ritrovare una persona fidata, quella
che loro chiamano con la tipica espressione di “Bay aman-
dremy”, che vuol dire papà e mamma insieme.
Bisogna vedere come reagiscono quando uno sconosciuto
ci saluta: “Buon giorno, Vazala!” (bianco straniero). Scattano
subito. “Non è un Vazala lui, è Mompera: il nostro Padre”. E
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ce lo dicono e ripetono spesso: voi per noi non siete stranieri,
voi siete dei nostri!.
Entrare a far parte della loro famiglia, essere, considerato
uno di loro è un privilegio riservato a pochi. Siamo entrati nella
loro vita: non attraverso i nostri discorsi fatti in un malgascio
che fa pietà, ma attraverso una vita tutta dedita al loro bene.
La nostra presenza è uno stimolo, che richiede tante
piccole rinunce e sacrifici. Sono obbligati a camminare contro
corrente e a volte rendiamo loro la vita dura. La presenza del
Padre è tutto un programma di lavoro. Ci vengono a prendere
alla missione, portano i nostri bagagli, ci accompagnano per
giorni attraverso la foresta. Si astengono dal lavoro, accettano
la discussione di cose piuttosto astruse. Rinunciano a tanti usi e
costumi, entrati a far parte della loro vita. Sopportano il nostro
temperamento piuttosto focoso. Ascoltano le nostre lunghe
chiaccherate, fatte in una lingua maltrattata e strapazzata.
Chiudono gli occhi alle nostre innumerevoli mancanze,
naturalmente involontarie, ai loro usi e costumi. A volte li
abbiamo feriti, non osservando i loro modi di fare e di
giudicare. Sanno comprendere e sanno perdonare, ma quante
piccole rinunce!
Per tanti anni hanno taciuto, senza mai farci sentire il loro
rammarico. Ora manifestano di più il loro pensiero, osano
prendere certe posizioni che ci fanno riflettere. Ma sempre con
tanta delicatezza. E se ci amano ancora, malgrado i nostri
difetti e insufficienze, è per uno scopo ben preciso: vogliono
progredire. Prendiamo nota di questa loro buona volontà...
Ancora resta da fare. Accettiamo riconoscenti il loro
invito. È un incoraggiamento indispensabile per continuare la
nostra opera talvolta ardua.
Per quel che mi riguarda, ricevo proprio in questo
momento una lettera del mio Vescovo, scritta in lingua
malgascia, perché ormai le sorti della chiesa sono nelle sue
mani. Si dice contento perché ho accettato di andare ad

83
Anivorano: una missione bella, grande e promettente.
Conoscendola da tanti anni, non nascondo di aver avuto un
attimo di sbigottimento. Una chiesa a tre navate... tetto da
rifare, i pipistrelli da... sloggiare.
La casa dei Padri, crollata da qualche anno, è sempre in
attesa di essere rimessa in piedi. Una scuola che minaccia
continuamente di mettersi in ginocchio. Non parlo poi dei
problemi del centro. Tutto un programma di lavoro per braccia
numerose e robuste! Dopotutto sono anche un po’ lusingato. Il
Vescovo ha ancora fiducia negli anziani... E i giovani
missionari quando arriveranno? Noi aspettiamo sempre. Intanto
io torno laggiù, nella speranza di continuare un lavoro che poi
altri perfezioneranno...».

E così, eccomi nuovamente a Mangochi.

P. Tarcisio Betti informa sul suo viaggio di ritorno in


Malawi.
«...L’arrivo di notte a Roma Ciampino è uno spettacolo
che batte ogni fantasia e immaginazione... Da Nairobi a
Chileka fu incantevole la vista del Kilimangiaro: i suoi pendii
erano avvolti nelle nuvole, il resto era lanciato nel cielo, come
un immane gigante, avvolto nel suo manto di neve.
E a Chileka... ecco i sorrisi di Mons. A, Assolari e di P. M.
Bonomelli. Poi Monsignore, fatto un fascio delle leggi di
velocità, macina duecento chilometri per arrivare nelle braccia
impazienti di P. R. Villa.
E così eccoci nuovamente a Mangochi. Ma poche ore in
aereo non possono cancellare il ricordo di parecchi mesi
trascorsi in Italia. E quanta simpatia e comprensione, quanta
carità e generosità davvero commoventi! Ed io approfitto de
“L'Apostolo di Maria” che s’intrufola un po’ ovunque, per far
pervenire a tanti e a tutti i miei sinceri ringraziamenti».

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1975
Fervore di iniziative sociali
Un bilancio di nove anni di missione

P. Luciano Marangon rilascia un’intervista dove parla dei


suoi nove anni trascorsi in Malawi. Interrogato su cosa pensa
della vita del missionario risponde:
«...E’ caduta una certa letteratura fantasiosa del
missionario colonialista e colonizzatore, ne è emersa
un’immagine più realistica e cristiana: un fratello in mezzo ai
fratelli, uomo in mezzo ad altri uomini più bisognosi. Un uomo
semplice, alla mano, con un incarico specifico spirituale, che
promuove una liberazione dell’uomo dal di dentro. Non si
limita alle opere sociali: costruirebbe solo dei freddi
monumenti. Il missionario opera, istruisce vivendo tra i fratelli
neri. Testimonia i suoi sacrifici non per fare adepti, ma perché
la carità li apra alla luce di Dio».
Circa le opere da realizzare, aggiunge: «Quando sono
arrivato in Malawi ho iniziato a Nankwali, poi nel 1971 fui
mandato a Kapire. Trovai solo quattro aule scolastiche e un
pozzo inefficiente. Mi accampai in un’aula scolastica. Dopo
pochi mesi il Vescovo mi aiutò economicamente e sotto la
guida di Fratel Gustavo Bombo, in tre mesi abbiamo costruito
un ambulatorio, un piccolo reparto maternità e una chiesa che
ha una capienza di 600 persone. Terminata la chiesa mi sono
trasferito nella sagrestia. Poi ho costruito quattro casette per i
maestri, due casette per le infermiere che aiutano le partorienti.
L’anno scorso il governo mi ha aiutato, ultimando la scuola
con altre 4 aule.
Nel 1972 ho approntato un capannone in fango e paglia,
pali e canne di bambù: mi serviva per le varie riunioni e per i
momenti di svago. Si sta rovinando, marcisce; vorrei
ricostruirlo al mio ritorno. Ho in progetto la casa per il

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missionario: non so quando durerà la convivenza con nostro
Signore e se Lui sarà contento del suo coinquilino. Poi vorrei
realizzare un pozzo per l’acqua, il salone parrocchiale, due case
per i maestri, qualche scuola in cemento per le succursali e
poi...».

Il primo impatto con l’India è sempre scioccante

Dall’India scrive per la prima volta P. Mario Belotti. Si


sofferma sulla povertà e sulla malnutrizione.
«... La più seria è senz’altro la carenza di vitamina A, che
porta ogni giorno alla cecità centinaia di bambini al di sotto dei
tre anni. Inoltre alcuni esami medici su bambini provenienti da
comunità povere rilevano che il 90% di loro possiede calorie in
quantità notevolmente al di sotto del minimo richiesto. La
carenza va dalle 300 al 400 calorie al giorno.
Una malnutrizione nei primi anni può influenzare in
maniera permanente lo sviluppo somatico e cerebrale del
bambino, affermano gli studiosi. Ma è possibile anche che la
malnutrizione incominci durante il periodo prenatale. Questa è
una forma ancora più grave se si tiene conto che un’appropriata
alimentazione materna durante la gravidanza è essenziale al
futuro sviluppo del bambino.
Stranamente però, ma anche fortunatamente, le povere
madri indiane, a dispetto del fatto che si nutrono male in
maniera inadeguata, spesso sono capaci di allattare a lungo i
loro bambini, addirittura fino al terzo anno. Del resto, questa è
l’unica ancora di salvezza, specialmente nelle povere comunità
rurali.
Comunque, dopo il quarto mese si dovrebbe perlomeno
fornire al bambino un supplemento di cibo per aiutarlo a
raggiungere uno sviluppo normale. Invece, sembra che la
maggioranza di questi bambini non riceva altro che latte
materno, con il conseguente problema della carenza di proteine
e calorie.
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La malnutrizione è spesso aggravata da un ambiente
antigienico. Del resto i bambini malnutriti sono i più soggetti
all’infezione e l’infezione a sua volta aggrava la
malnutrizione. Se ci spostiamo dalle zone rurali povere alla
zone urbane di ceto medio, il problema della malnutrizione
permane ancora in lato grado. Vittime ne sono ad esempio, i
figli di professori, di piccoli negozianti, di operai specializzati,
di artigiani, eccetera.
Fattori responsabili ne sono l’ignoranza, la superstizione e
i pregiudizi in fatto di dieta. Un esempio, come detto sopra, è
l’abitudine di dare il latte materno fino al secondo o al terzo
anno, senza la compensazione di un cibo solido, come vegetali,
legumi, eccetera. Se le madri fossero capaci di correggere
queste cattive abitudini, certamente la gravità della
malnutrizione diminuirebbe, nonostante la presente situazione
economica.
A questo proposito, gli insegnanti delle scuole potrebbero
coprire un ruolo importante. Dopo una adeguata preparazione
potrebbero avvicinare le madri nelle loro stesse case,
educandole pian piano ad una alimentazione corretta, per se
stesse e per i figli.
In effetti già in precedenza l’Indian Council of Madical
Research’, si era più volte prodigato nel propagandare tra i
villaggi una varietà di facili ma efficaci ricette alimentari. Ma
sembra che non abbia ricevuto tanto credito. Perché? Per
rispondere dobbiamo purtroppo accusare un altro grosso
problema: l’ignoranza dovuta all’analfabetismo.
L’impatto con l’India è sempre qualcosa di scioccante, che
costringe ogni giorno il missionario a ridiscutere tutti i buoni
propositi di autentica evangelizzazione. Noi stessi Padri
Monfortani, che abbiamo aperto gli occhi sull’India da circa un
anno, ci siamo resi conto che il più grosso problema di questo
immenso paese non è l’Induismo, ma la povertà e tutte le
conseguenze che ne derivano.

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Leggendo quotidianamente alcuni giornali locali sono
rimasto particolarmente sensibilizzato da un grosso problema
che colpisce il bambino indiano: la malnutrizione. Quasi un
milione di bambini muore in India ogni anno a causa di questa
severa malattia. La nazione conta 85 milioni di bambini sotto
l’età dei cinque anni, di cui l’82% vive in zone rurali, e 280
milioni di bambini sotto i quindici. L’80% di questi bambini
sono malnutriti e sono colpiti da uno sviluppo somatico
inadeguato o da nanismo.
Povertà e malnutrizione sono strettamente correlative.
Secondo un rapporto dell'ONU il 30% della popolazione
guadagna meno di 225 rupie l’anno, pari a circa 19.000 lire.
Anche se spendono il 90% delle entrate per il cibo, tuttavia non
possono permettersi un pasto completo al giorno per se stessi e
per i loro figli...
In ultima analisi possiamo dire che sarà possibile una
soddisfacente alimentazione per i milioni di bambini indiani
solo elevando lo stato economico della popolazione;
migliorando il livello di alfabetizzazione; educando i genitori
ad una corretta alimentazione; sforzandosi di elevare la
produzione al ritmo di crescita della popolazione;
propagandando la necessità di una pianificazione familiare.
E noi missionari non dobbiamo aspettare troppo. Il Cristo
non ha licenziato neanche momentaneamente le sue folle,
perché si arrangiassero a trovarsi da mangiare, ma ha dato un
esempio di grande sollecitudine con la potente e immediata
carità. E noi speriamo vivamente di poter continuare il suo
esempio, soprattutto se sostenuti da un numero sempre
maggiore di benefattori».

Dopo un primo senso di smarrimento

Rientrato in Madagascar, P. Antonio Marchesi, scrive:


«Eccomi finalmente giunto al mio nuovo posto di missione,
dopo un lungo pellegrinaggio per le strade d’Italia. Il viaggio è
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stato eccellente, senza intoppi, neppure da parte della dogana
sempre così pignola qui a Tananarive.
Il cambiamento di clima è stato un po’ brusco. Ci si abitua
alla svelta. Oggi il termometro segna 34 gradi. Sono contento
di essermi fermato un po’ e di riprendere il lavoro. E qui non
manca il lavoro! Era una missione fiorente quando c’era il
seminario, con una grande falegnameria. Poi il seminario è
stato trasferito a Tamatave e anche l’atelier è svanito.
La missione è in uno stato di abbandono quasi totale. Un
chiesone infestato da pipistrelli, una casa portata via dal ciclone
e una scuola che sta in piedi per abitudine. La bella proprietà è
diventata una boscaglia di rovi e spine. Io abito in una casetta
malgascia, in buona compagnia di topi e di alcuni serpentelli.
In compenso è molto fresca, perché coperta di foglie.
Superato il primo senso di smarrimento, mi sono messo di
buona lena a ripulire: chiesa, sacrestia, casa e dintorni. Ora si
respira meglio. Si fanno dei piani... Speriamo di avere presto
dei rinforzi.
Aspetto con impazienza le mie casse e che la dogana
chiuda qualche occhio... Grazie di quanto è stato fatto per la
mia missione...».

Partire è un po’ morire!

“Partire è morire!”: così titola il suo addio alla missione P.


Remigio Villa.
«Ogni missionario, per un motivo o altro, lasciando la sua
missione, penso, possa far sue le riflessioni che Papa Giovanni
XXIII faceva per se stesso al momento della sua Consacrazione
Episcopale. Scriveva Mons. Roncalli, lasciando l’ufficio di
Direttore nazionale di Propaganda Fide: “Lasciare ora l’Opera
della Propagazione della Fede, quando mi sembra di poter
cogliere più belli i frutti del modesto ma cordiale ed intenso
lavoro di questi anni, mi è veramente sacrificio grave”. Ma
fedele al suo motto:”Obedientia et Pax”, Papa Giovanni avrà
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meditato allora quanto egli medesimo aveva scritto del suo
Vescovo Mons. Radini Tedeschi: “Il Signore non ha bisogno di
uomini, ma li muta a piacimento secondo i suoi disegni pieni
d’infinita sapienza e, soprattutto, di grande bontà”.
Partire è morire, si dice. Qualche volta ancora più duro...
Ma per il missionario, consacrato al servizio più diretto del
Signore e della Chiesa, non è il caso di dolersi dei distacchi che
bisogna fare, ma anzi è il caso di consolarsi che il sacrificio lo
accompagni nella sua vita, perché il soffrire per una causa è il
migliore mezzo per servirla.
Queste riflessioni mi aiutarono nel momento più doloroso
della mia vita, quando cioè lasciai la mia missione per
l’ospedale di St. Anne’s a Salisbury. Dei 38 anni trascorsi in
Africa, gli ultimi furono spesi nella zona maomettana di
Mangochi. Era con paura che io già anziano, mi avvicinavo ad
una tribù nuova, che per il passato si era mostrata refrattaria al
Vangelo. Invece, il Signore mostrò che Lui può cambiare il
cuore degli uomini. I sacrifici, le lacrime di Mons. Assolari, in
meno di 8 anni, produssero una fioritura di scuole e chiesette e
ospedaletti da “poter cogliere più belli i frutti del modesto ma
intenso lavoro” fatto dai missionari negli ultimi anni. Lodiamo
il Signore insieme.
Soffrire per una causa è il miglior mezzo per servirla...
Parole gravi, consolanti per chi non può fare altro, almeno per
ora, che soffrire e pregare. Invochiamo insieme la “Regina
delle Missioni” perché apostoli più giovani e zelanti continuino
l’opera intrapresa a Mangochi da Mons. Assolari 9 anni or
sono».

Il problema delle vocazioni in Malawi

P. Tarcisio Riva, dopo un breve viaggio in Malawi, parla


dell’animazione vocazionale nella Diocesi di Mangochi.
«...I Monfortani italiani, responsabili della Diocesi di
Mangochi, pur essendo in numero limitato, per un territorio che
90
supera le dimensioni della Lombardia, hanno preso a cuore fin
dalla fondazione della Diocesi il problema delle vocazioni.
Senza lasciare spazio a discussioni aride sui diversi criteri
capaci di dare a queste comunità dei preti, i nostri padri hanno
trovato soluzioni pratiche e idonee alla semplicità e povertà di
questi ambienti...
Questi ragazzi vivono nella missione come vivrebbero al
loro villaggio, con grande libertà e autonomia di movimento.
Frequentano la scuola vicino alla missione. Questa scuola può
essere diretta dai cattolici, sia dai protestanti, sia dai
musulmani, o anche semplicemente governativa. Terminato
l’orario delle lezioni, rientrano nella missione, si fanno da
mangiare per conto loro, come farebbero nel loro ambiente.
Gioco e studio completano la loro giornata.
La Diocesi di Mangochi, non potendo sostenere l’onere
dell’organizzazione di un seminario si è associata con quella di
Zomba e ogni anno una ventina di giovani delle nostre missioni
entrano in questo seminario dove insegna il nostro P. Mario
Bonomelli. Gli studi di teologia vengono portati a termine nel
seminario nazionale...».

I disastri dell'ennesimo ciclone sull'Isola Rossa

P. Antonio Marchesi, dal Madagascar, informa sui disastri


provocati dal passaggio dell’ultimo ciclone.
«...E’ ormai trascorso il periodo dei cicloni, ma non
abbiamo ancora dimenticato l’ultimo. Una depressione
tropicale, chiamata ‘Ines’, nome tanto gentile, che ha lasciato
però nel ricordo di tutti una visione di diluvio universale.
Una settimana intera d’acqua. Una pioggia fitta,
persistente, arrabbiata del Nord, del Sud dell’Est e dell’Ovest...
Finita un’ondata, ne veniva un’altra e poi un’altra ancora.
Le capanne ricoperte di paglia non riuscivano più a trattenere la
violenza. I poveri anivoranesi cercavano un angolo più
riparato. Ma l’acqua era decisa ad entrare nelle case. Non
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potendo vincere la robustezza delle larghe foglie, ha preso la
via più facile e naturale, quella della porta di casa.
Di notte è stata una sorpresa per tutti e l’allarme veloce
come un lampo. Il problema duplice: salvare le proprie
masserizie e soprattutto la propria pelle. Aiuti dagli altri non si
poteva sperare.
Nel 1959 c’era stato un ciclone simile, ma era venuto in
pieno giorno. Soltanto i più grandi lo ricordano; per i più
piccoli invece era un’esperienza nuova. Mezzo addormentati,
nell’oscurità più assoluta, fuggire senza sapere dove... E
l’acqua nera, melmosa, puzzolente cresceva lentamente ma
inesorabilmente. Penetrava nella case con quel mormorio
caratteristico delle piccole onde del lago.
Non c’era tempo da perdere. Bisognava scappare e presto.
A onor del vero non ci fu quel panico che poteva essere fatale.
Qualche grido qua e là, soprattutto ordini secchi e decisi dei
papà e delle mamme che indicavano ai bambini la via da
seguire... I più grandi prendevano i fratellini sulle loro gracili
spalle e via, nella notte, sotto l’acqua col pericolo di
sprofondare in qualche buca.
Grazie a Dio, tutto si è svolto nel migliore dei modi.
Nessun incidente particolare, solo tanta paura. Gli abitanti della
casa più vicina al grande fiume Rianila, avevano attaccato la
barca all’albero centrale della loro abitazione. Quando si
accorsero del pericolo era troppo tardi, non potevano più
fuggire senza correre un grande rischio. Entrarono tutti nella
barca e, per ore ed ore, pregarono il Signore che l’albero
tenesse duro. Solo al mattino seguente furono scoperti e tratti
in salvo.
Quando ‘Ines’ ebbe svuotate tutte le sue riserve, si
cominciò a vedere qualche spiraglio di sole. Le acque ripresero
la via del ritorno, com’erano venute, lentamente e
silenziosamente. La gente rientrò nelle loro capanne. Niente era
stato distrutto, ma quanto fango, sporcizia e fetore! E quale

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disdetta: dopo tanto diluvio, non una goccia d’acqua per lavare,
pulire e cucinare.
Terminato il primo atto del dramma incominciava il
secondo, forse il più duro. Giornate di ansia e di attesa. Molte
famiglie vivevano di banane acerbe fatte bollire. Ringraziando
il cielo, vennero poi i primi soccorsi: un chilo di riso per
famiglia. Era qualcosa, ma bisognava aspettare ore ed ore,
facendo una coda interminabile.
Si passò poi ad una giornata di lavoro per ripulire il grande
canale che attraversa Anivorano. Tutti apprezzarono il mio
gesto, ma non mi permisero di entrare nel canale. Il
commerciante cinese, anche lui prese parte, come tutti gli altri
al lavoro. Il suo coraggio fu ricompensato con la scoperta di
una grosso serpente commestibile secondo loro. Lo
prendemmo un po’ in giro, ma lui era troppo contento per
ascoltare le nostre riflessioni. Tre sere dopo me lo vedo
arrivare con una bella marmitta di zuppa cinese, molto
ricercata... Gliene fummo molto grati e l’apprezzammo come si
meritava.
All’indomani, passando da casa sua, aveva già pronta la
battuta: “Era buona la zuppa di ser...?!!!”. Un sorriso illuminò
tutto il suo volto. Era contento. Mi aveva fatto mangiare il
serpente del canale. E non sono né morto né ammalato, anzi
non avendo subito nessun danno ne guadagnò la mia perfetta
forma che mi dà il coraggio di riprendere il lavoro di
ricostruzione che prevedo lungo a duro».

Cantare la riconoscenza è un bisogno del cuore!

Suor Alessandra, sempre puntuale nell’informare i lettori


sulla sua attività a favore dei lebbrosi, sente la necessità di
confidare che “cantare la riconoscenza è un bisogno del
cuore!”.
«... Perché vi racconto la mia vita? Perché so bene che ci
seguite con interesse e voglio farvi partecipi delle nostre gioie;
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perché desidero dirvi che gli aiuti che generosamente vi inviate
per il villaggio dei lebbrosi non si trasformano più soltanto in
pane, riso, zucchero, olio, petrolio, candele ecc. ecc. ma si
trasformano oggi in dignità umana, in lavoro prezioso perché
fatto spesso con fatica e con tanta buona volontà, con vero
sudore... in soddisfazione per questa povera gente, che nulla
sperava più dalla vita! Se il sole splende e dardeggia su
Ampanalana come da sempre... ora esso riscalda tanti cuori che
non conoscevano il calore... e li apre alla fiducia, alla speranza
e alla riconoscenza! Con tutti loro vi dico: grazie!».

E la pioggia venne, il giorno prima delle Ceneri

P. Eugenio Cucchi si sofferma sul problema della fame nel


Malawi.
«...In molte zone povere della terra, quando si parla della
fame i motivi che la possono causare sono due: piogge
interminabili che inondano e distruggono tutto il seminato
oppure una imprevista siccità.
Nel Malawi le inondazioni sono pressoché impossibili; se
la pioggia è abbondante, come accadde lo scorso anno, esse
ingrossano i fiumi e la distruzione si limita alla coltivazioni che
stanno lungo i fiumi. È invece possibile una siccità; e una
siccità può essere fatale qui come altrove, in quelle nazioni
cioè in cui il cibo base è a senso unico: granoturco o riso. Se
un’annata gira a vuoto è la fame! Quest’anno poco ci mancava
che fosse l’anno vuoto.
La paura della fame riporta molti alle superstizioni di un
tempo e non ancora morte: si deve trovare colui che ha irritato
gli antenati e questi hanno chiuso le cateratte pluviali per
punizione. La popolazione si raduna con il capo villaggio e
magari con uno stregone, si offrono sacrifici pagani, si pesta
per bene il presunto colpevole ma la pioggia non si fa vedere.

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Sta per passare un mese ormai e molto granoturco è già
destinato a seccare. Nella speranza che la pioggia non faccia
scherzi troppo lunghi si seminano patate dolci.
Una donna, che dicono preveda il futuro, interpellata da
molti capi villaggio, dà questa risposta: la pioggia tarda a
venire a causa dei vostri peccati, però verrà e a lungo. E la
pioggia venne, il giorno prima delle Ceneri.
Ora molti sperano che tutto il granoturco riprenda, ma
purtroppo molto continua la sua caduta; una buona metà
almeno, secca definitivamente. La fame vera e propria non ci
sarà, ma per alcuni sarà dura...
L’anno scorso del granoturco se ne raccolse molto, ma la
tentazione di venderlo per un po’ di denaro, senza pensare che
si doveva tirare aventi per un anno superò il buon senso. Così
già ora ci sono delle famiglie che devono fare i salti mortali,
razionando per un pranzo al giorno...».

La sorpresa della missione illuminata

Dalla missione “Papa Giovanni XXIII” di Kankao P.


Giovanni Losa fa sapere:
«...La missione è iniziata nel maggio del 1973. Sta
compiendo quindi due anni. Per prima cosa è sorto il salone
parrocchiale con annessi uffici. Nell’ottobre 1973 Mons.
Assolari tagliava il nastro dell’inaugurazione. Poi venne il
pozzo. Fin da principio l’acqua è stata uno dei problemi più
assillanti e cruciali della missione di Kankao. Per le piogge
abbiamo dovuto più volte sospendere i lavori. Ma la vigilia di
Natale del 1973 ha visto sgorgare dalla profondità di 200 piedi
un bel getto d’acqua limpida e fresca. Per vederla scaturire però
dovemmo attendere fino a giugno del 1974.
Il 3 giugno, tornando da un viaggio in città, ebbi la gradita
sorpresa di trovare la missione illuminata. Fra Gabriele, in mia
assenza, aveva fatto il miracolo. La prima luce era comparsa a
Kankao, non importa se provvisoriamente, tanto in Africa il
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provvisorio si trasforma spesso in stabile. Un gentile pensiero
certo di Papa Giovanni cui abbiamo affidato la nostra missione.
Tre giorni dopo era installata anche la pompa elettrica e
l’acqua incominciava ad affluire fino alla missione, fino alla
casa dei missionari che stava incamminandosi velocemente
verso gli ultimi tocchi di rifinitura. Non starebbe a me a farne
gli elogi, in quanto i meriti vanno equamente distribuiti a chi di
dovere. Prima di tutto ai miei cari operai neri, che si sono
prodigati generosamente e con grande abilità a fare bella la
casa del loro missionario...
E veniamo all’ospedale ‘Papa Giovanni XXIII’. Come
tutte le altre costruzioni di Kankao segue lo stesso stile, le
colonne o lesene sono parte in mattoni e parte in pietre bianche,
tanto per ricordare anche esternamente la collaborazione tra
uomini bianchi e neri.
Il progetto sarà poi completato con una maternità e altri
locali per i pazienti interni. Per ora si limiterà ai pazienti
esterni. Speriamo che la Provvidenza sollecitata dalle preghiere
di Papa Giovanni ci aiuti a portare a termine tutto il complesso
in maniera che la gente di Kankao possa godere di un po’ di
assistenza sanitaria.
Ed ora uno sguardo al futuro. Oltre le case del personale
che non dovremo tardare a mettere in cantiere ci restano
ancora due cose da fare: la chiesa di Daimoni e la chiesa di
Buleya. E la lista potrebbe arrestarsi qui, per il momento, ma in
questi ultimi giorni si è verificato un fatto nuovo: alla missione
di Kankao si è unita quella di Phalula, una località a circa 20
miglia. Le chiese sono in uno stato pietoso...».

Si prega ovunque per la mia pronta guarigione

P. Remigio Villa fa sapere: «...Molte sono le lettere che mi


arrivano dall’Africa e da ogni categoria di persone: cristiani,
pagani, maomettani, maestri, catechisti o gente semplice. Tutti
sembrano dire la stessa cosa: la loro gratitudine per il poco che

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si è fatto per loro e poi la promessa del ricordo nella preghiera.
Ho saputo che in ogni chiesa venne celebrata un S. Messa per
la mia guarigione e per il mio apostolato...».

Nuovi cambiamenti esigono nuove esperienze pastorali

P. Mario Quadri rilascia un’intervista in cui ribadisce che


“nuovi momenti storici esigono esperienze nuove nella Chiesa
del Perù”. Interrogato sull’impegno politico dei cristiani
dell’America Latina, risponde:
«I Paesi dell’America Latina hanno avuto una storia di
oppressione da parte degli spagnoli. Il Perù è indipendente da
150 anni. Terminata la schiavitù degli spagnoli, ha fatto seguito
lo sfruttamento di molte compagnie multinazionali. È
comprensibile la collera e l’impazienza di questo popolo
umiliato e offeso nella sua dignità. Si comprende come proprio
da qui la teologia della liberazione abbia avuto un terreno
fertile. Abbiamo davanti agli occhi un quadro di gente che è
stata oppressa e che attualmente con slancio tenta di
sollevarsi...».
Sul modo nuovo di essere missionario e fare attività
missionaria, P. Mario così si esprime:
«Mi trovo in un villaggio formatosi di recente da gente
venuta da ogni parte. All’inizio tento di conoscere il loro
passato, la triste economia: non faccio troppe domande, ma
nell’amicizia colgo problemi e preoccupazioni. Vivono in
capanne piccole e povere: sarà nostra preoccupazione procurare
loro il fazzoletto di terra dove poter costruire una casa
decorosa. C’è un’organizzazione che lavora molto bene in
questo settore. Mi inserisco nella loro vita per cogliere
esigenze e priorità: la terra, l’acqua, la casa, la luce, il lavoro.
Vedendo l’interessamento del missionario qualcuno domanda:
“Padre, celebra la Messa, preghiamo insieme?”».

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Alla domanda: “Perché accusano di essere comunisti quelli
che mettono in pratica l’insegnamento sociale della Chiesa”, P.
Mario precisa:
«C’è il pericolo di essere strumentalizzati politicamente: è
un rischio che si deve correre, per costruire la vera umanità. Si
vuole lavorare per una politica di liberazione umana,
indipendentemente dalle sollecitazioni di destra o di sinistra,
dal basso a dall’alto. Persone come Helder Camara o Camillo
Torres qui sono ammirati e come loro dobbiamo avere un
dialogo di amore che non porti alla rassegnazione...».

I negritos di Huanuco

P. Pasquale Buondonno parla dei “negritos” di Huànuco.


«...Da alcuni mesi i Monfortani hanno un nuovo posto di
lavoro missionario nella Sierra delle Ande, in quella parte del
Perù dove e usanze e tradizioni antiche sono più tenaci. È nella
diocesi di Huànuco. La città è a quasi 2.000 metri sul mare, ma
certe zone sono a più di 4.000 metri, mentre altre appartengono
alla Selva Amazzonica: un bel riassunto di tutto il Perù. La
regione che coincide con la diocesi è grande come la Svizzera,
con la differenza però che la viabilità è in gran parte primitiva,
riservata ad animali a quattro zampe.
Popolazione: mezzo milione. Sacerdoti: in tutto una
trentina, dei quali un buon terzo in età avanzata. La fetta che ci
è stata assegnata è una vallata di oltre 20 chilometri con circa
30.000 anime.
Huànuco è la capitale della regione e della diocesi. Conta
più di 60.000 anime e vanta tutti i titoli di centro regionale,
perfino una Università, anche se in pratica è un grosso borgo di
campagna. Grande sorpresa per P. Giovanni Gheno e per me
quando nel gennaio del 1974 andammo per i preliminari della
fondazione. Ci giungeva molto di frequente all’orecchio il
suono di una fanfara festiva anche se poco variata. Chiedemmo
informazioni ai Francescani che ci ospitavano. Ci risposero che
98
si trattava dei ‘Negritos’. Tutto il mese di gennaio si
organizzano almeno in tre gruppi: sono ragazzi mascherati da
negri e vanno in giro per la città accompagnati da una banda
musicale e portando il Bambino Gesù.
Non è difficile incontrare questi ‘Negritos’ per le vie.
Portavano a spalle un Bambino Gesù, preceduti dalla musica e
si fermavano molto spesso per esibirsi in una danza primitiva,
allegra, buffonesca e ricevevano leccornie, viveri e bevande.
L’origine dei ‘Negritos’ risale ad un’usanza del tempo
degli spagnoli, quando abbondavano gli schiavi razziati in
Africa e venduti come bestie in questo Nuovo Mondo. Sua
Maestà Cattolica aveva proibito di fare schiavi gli indigeni
d’America: potevano solo essere ‘encomendados’, affidati ai
coloni spagnoli che avevano l’obbligo di formarli alla fede
cristiana. Praticamente anche questi indios erano schiavi, con la
sola differenza che non potevano passare per vendita da un
padrone all’altro. Per i servizi di movimento fu permesso di
ricorrere ai poveri africani.
Dunque era entrata l’usanza di concedere dei giorni di
libertà a questi poveretti. Essi ne approfittavano per darsi alla
pazza gioia, producendosi con la musica e i ritmi delle loro
danze, non solo, ma anche prendendo in giro con lazzi non
sempre garbati i propri padroni. E per meglio fare il gioco si
coprivano col manto della religione: un omaggio al Bambino
Gesù...
La nostra sorpresa aumentò quando una mattina presto,
mentre stavamo in chiesa per la Santa Messa, vedemmo entrare
un gruppo di ‘Negritos’ con la musica. È proprio in chiesa che
danno principio alla loro giornata, danzando davanti al
presepio. Lo fanno con tanto rispetto e tanto garbo: ad ogni
giro di danza, ben sincronizzato con la musica, passando
davanti alla grotta di Betlemme fanno una profonda
genuflessione, due per due. Personaggio caratteristico del

99
gruppo: un ragazzo vestito da vecchio con la barba lunga e la
schiena rigonfia con una grossa gobba; è il buffone ufficiale.
Dalla chiesa escono e per ore ed ore percorrono in lungo e
in largo la città. Chi li organizza? Persone di Huànuco, come
un atto di devozione al Bambino Gesù. Queste persone si
sdebitano con i componenti la squadra di ‘Negritos’ fornendo
loro il necessario per mascherarsi e danno loro un pasto
abbondante. Altri omaggi per lo stomaco gli attori ricevono
nelle soste davanti alla case.
La mia impressione è che non commettano eccessi nel
bere. Forse perché sono dei ragazzi nei quali il richiamo
atavico dell’alcool non si è fatto ancora sentire. Questi ragazzi
non hanno altre occupazioni.
Gennaio è il primo mese della grandi vacanze dalla scuola.
Il clima in quella cittadina della Ande è primaverile. È dunque
una vera fortuna per i ‘Negritos’ entrare in uno di questi gruppi
dove possono mangiare a sazietà e divertirsi, salvando nello
stesso tempo il senso religioso della stagione: il culto al
Bambino Gesù».

Un doposcuola per gli studenti di Balaka

P. Francesco Perico esprime un desiderio degli studenti


della missione di Balaka: avere un ambiente dove trascorrere il
“dopo scuola”.
«Balaka è un posto chiave per il commercio. Le due uniche
ferrovie del Malawi si incrociano qui e danno vita ad un
mercato che è senz’altro uno dei più ricchi della zona e
richiamano commercianti dal vicino Mozambico e dallo
Zambia.
Ma chi dà una nota particolarmente gaia a tutta la città è la
gioventù studentesca. Balaka è uno dei pochi centri del Malawi
che può vantare una ‘Secondary Shool’, un liceo diremmo noi.
Vi sono circa 300 studenti divisi in quattro classi. Incontrandoli

100
per la città si distinguono subito dal resto della massa per la
caratteristica divisa che portano.
È su questi studenti che vorrei attirare la vostra attenzione.
Studiano a Balaka ma la stragrande maggioranza non sono di
Balaka; provengono dai più lontani villaggi. Una volta giunti in
città debbono cercarsi un posto per dormire e arrangiarsi per
mangiare, visto che la scuola non si cura di loro che durante le
lezioni.
Assolvere a questi due bisogni primari dell’esistenza non è
eccessivamente difficile per loro che sanno adattarsi un po’ a
tutto e possono sempre trovare alloggio presso i cittadini di
Balaka. Il vero problema è un altro: come occupare il tempo
libero.
Dopo la scuola che termina alle due del pomeriggio li
vedete girovagare per la città sfaccendati; li trovate al mercato,
alla stazione, alcuni frequentano posti ambigui, altri sono
coinvolti in risse e chi ha due soldi può anche ubriacarsi.
Sempre perché l’ozio è il padre dei vizi. Risultato: la
bocciatura agli esami e nei casi più gravi l’espulsione dalla
scuola con conseguenze tragiche per loro e per le loro famiglie.
Io vivo in mezzo a questi giovani, parlo molto con loro.
Sono ragazzi fondamentalmente buoni come tutti i ragazzi di
questo mondo. Solo le occasioni li distraggono e li
distruggono.
Questo problema del come occupare il “dopo scuola” è
all’ordine del giorno ed è stato oggetto di discussione in una
riunione plenaria fatta con loro. Una soluzione positiva trovata
insieme: creare un ambiente comune cui far capo dopo le ore
della scuola. Di più l’ambiente comporterebbe una biblioteca,
una sala per lo studio e una sala ricreativa.
Il progetto è stato accolto con applausi da tutta l’assemblea
studentesca, ma all’applauso è seguito un momento di silenzio
che mi è sembrato un’eternità: tutti gli occhi erano su di me; ho
avuto l’impressione di essere sotto processo: “Chi farà tutto

101
questo?”. Nell’eternità di quel silenzio ho pensato ai giovani
impegnati per gli aiuti al Terzo Mondo, a chi può fare qualcosa
e non fa nulla, così non mi sono sentito più sotto accusa...
Sciogliendo l’assemblea dissi ai miei studenti:
“Ragazzi, dobbiamo aspettare. La Provvidenza ci aiuterà”. Così
essi aspettano ed io pure aspetto...».

Suor Ernestina: l’angelo delle carceri di Tamatave

P. Angelo Rota parla di Suor Ernestina e del suo lavoro


nelle carceri.
«A Tamatave tutti sanno che c’è una suora italiana che si
occupa dei carcerati. È la nostra Suor Ernestina della Sapienza.
Nei ritagli di tempo, dopo il normale servizio nei reparti
dell’Ospedale Maggiore, inforca il motorino e fila laggiù dai
suoi figliuoli, a fare opera di carità. Si era preso tanto a cuore la
situazione dei carcerati da ottenere l’autorizzazione di andare a
trovarli dentro il carcere.
Munita di permessi, istituì dei corsi di catechismo,
organizzò lavoretti per le donne, corsi pratici per i minorenni e
artigianato per gli adulti. Infine, da qualche mese in qua, tutto il
terreno disponibile, suggerì che lo trasformassero in un
bellissimo orto. Buon per loro, perché vi assicuro che il rancio,
là dentro, non è abbondante e nemmeno troppo appetitoso.
Di tutto questo ne sentivo parlare ovunque, ma non mi era
stato dato di vederlo con i miei stessi occhi. In quelle carceri
non ero entrato che due volte per celebrarvi la Messa in
occasione di qualche solennità. A volte incontravo Suor
Ernestina col suo motorino carico di ogni ben di Dio. Cosa
avrei dato per improvvisarmi suo segretario per poter entrare
anch’io là dentro. Purtroppo la semplicità non è il mio forte e
allora ...
Segretario lo divenni in seguito, senza volerlo, un giorno
che P. Elio Gambari venne a Tamatave. Dovendo compiere un
viaggio in Africa, mise in programma una visita in
102
Madagascar. Nonostante avesse poco tempo, volle vedere tutto
e tutti: noi missionari, le nostre opere, la nostra gente e infine
anche le carceri. Dopo un breve colloquio con il Direttore, la
visita ai reparti.
Iniziammo dai minorenni. Una cinquantina di ragazzi che
hanno conosciuto troppo presto la strada del vizio. Hanno fatto
di tutto! Li salutiamo nel cortile, poi il sorvegliante ci introduce
nel loro locale riservato. Uno stanzone occupato sui due lati da
grandi impalcature a 2 piani. Sui tavolacci sono allineati dei
sacconi. Una coperta è ben piegata al posto del cuscino.
Notiamo subito una certa pulizia e ne felicitiamo coi
responsabili.
Sempre il sorvegliante ci racconta la storia di qualcuno dei
suoi ragazzi, poi ci spiega i tentativi per recuperarli. Non
dimentica che è grazie a Suor Ernestina se ci sono corsi di
alfabetizzazione ed altri utili alla vita, specie quando
ritorneranno liberi. Lei, la Suora, sembra meno interessata ai
nostri discorsi. Roba che lei conosce da sempre. I suoi interessi
sono rivolti altrove. In un batter d’occhio ispeziona il locale:
lavagna, gessi, quaderni, coperte, ecc..
Al piano superiore di una impalcatura, sta succedendo
qualcosa di non regolare. Tre ragazzotti cercano di sprofondarsi
nei materassi: si fanno piccini con la speranza di non essere
visti. E probabilmente noi non li avremmo visti, ma all’occhio
di Suor Ernestina non sfugge nulla. Lei li ha scovati!
Secondo reparto: le donne. Non sono numerose. Una
ventina, forse meno. Donne mature e signorine che neppure là
dentro hanno perso la voglia di ammiccare ai visitatori. Si
ravvedono subito dopo che la sorvegliante ci ha presentati. E ci
stringono la mano. Alcune mamme allattano i loro piccini. Non
hanno voluto separarsene. Probabilmente hanno
contrabbandato qualche litro di rhum distillato in foresta dai
loro uomini. Oppure hanno malmenato troppo forte qualche
contendente eccessivamente devota dei loro mariti. Ora sono

103
qui dentro in attesa di giudizio, mentre i maschi se la spassano
lassù al villaggio. Vecchie storie umane...
I loro vestiti sono quelli che avevano addosso al momento
dell’arresto. In un angolo però vediamo che qualcuna delle
carcerate sta manovrando attorno ad una “Singer”. Suor
Ernestina dà qualche consiglio tecnico. Al momento del
commiato non mancano di chiederci scampoli e lana.
Promettiamo di darci da fare anche per loro.
Ed eccoci tra gli adulti. Sono circa 400 ci dice il
maresciallo. Non ne potremo prendere uno in più. Affidiamo
gli altri alle succursali dei Distretti circostanti, ma anche là
hanno grossi problemi per i posti.
I locali delle prigioni di Tamatave sono tutti uguali.
Stanzoni immensi con le solite impalcature letto: tavolacci e
sacconi sui lati. Dappertutto la pulizia è visibile. Brava Suor
Ernestina! In ogni reparto c’è il solito gruppo di artigiani che
incollano fibre di rafia, conchiglie, fiorellini e altro nell’intento
di trarne qualcosa di originale. I turisti ne vanno pazzi quando
li trovano sulle bancherelle della città. Suor Ernestina può così
riempire le sue sporte e arricchire il magrissimo menù che è di
solito a base di manioca bollita. Una pagnotta e un po’ di
pietanza la suora riesce sempre a racimolarla in contraccambio
dell’artigianato.
Di padiglione in padiglione siamo ritornati alla Direzione.
Ripetiamo le promesse fatte. Davvero ci daremo da fare per
loro. Saranno magari cattivi, ma ci hanno commosso...».

Giungono dall’Italia aiuti per i lebbrosi di Bangalore

P. Mario Belotti ringrazia per gli aiuti che gli sono giunti
dall’Italia a favore dei lebbrosi dell’India.
«...In questi giorni ci è giunta la notizia della vostra
sensibile, pronta e generosa risposta all’appello dei poveri in
India. Vi promettiamo che il vostro contributo sarà presto

104
tradotto in opere concrete a beneficio dei più bisognosi,
specialmente dei lebbrosi di Bangalore.
Ogni volta che li visitiamo nelle loro baracche, ogni volta
che distribuiamo loro medicinali, ogni volta che fasciamo loro
le piaghe, essi benedicono e glorificano il nostro Dio. È questo
un primo passo importante per poter poi annunciare loro nei
dettagli il messaggio di liberazione cristiana...
L’aiuto prezioso che riceviamo ha una dimensione
direttamente missionaria. Vestendo, nutrendo e curando il
bisognoso, voi date a noi l’occasione di annunciare il Cristo
che si manifesta sempre nei più piccoli...».

Inaugurato il “Villaggio dell’Amicizia” per i lebbrosi

Suor Alessandra partecipa gli amici la sua grande gioia per


l’inaugurazione del nuovo ‘Villaggio dell'Amicizia’, come è
stato chiamato in Belgio, dagli Amici della ‘Fondazione Riou’
che hanno sostenuto e stanno sostenendo tuttora, le spese della
costruzione.
«... Festa grande! Non vi sembra che le persone che tanto
ci hanno aiutato avessero mille motivi per intonare un
Magnificat di ringraziamento? L’8 luglio 1974 c’era là ancora
la foresta vergine... Il 3 gennaio 1975 noi abitavamo al
villaggio... il 17 aprile seguente le prime 20 famiglie entravano
felici nelle loro nuove dimore... Il 18 agosto festeggiavamo
l’inaugurazione del nuovo villaggio... Un record, se si pensa al
ritmo di vita oggi in Madagascar!...».

Una “Casa del sorriso” per gli handicappati di Kankao

P. Giovanni Losa parla ancora dei progetti che ha


intenzione di realizzare nella missione di Kankao.
«... Da tempo sto parlando dei nostri ragazzi poliomielitici
e della ‘Casa del Sorriso’ che vorrei costruire loro, ma finora,

105
tranne una casetta nelle adiacenze della residenza del
missionario, non s’è visto un mattone...
Quando sono giunto a Kankao ho trovato tutto da fare e sto
ancora arrabattandomi per risolvere il problema. Qui in Malawi
non è cosa semplice creare un’opera di beneficenza in favore
degli handicappati. Qui, tutti gli handicappati, dai ciechi ai
poliomielitici, sono sotto la protezione di un’Associazione
governativa, la quale, per ogni eventualità, esige garanzie e
soprattutto un piano ben definito. E poiché finora le mie risorse
non sono tali da poter sognare un progetto in grado d’essere
approvato su in alto, ecco che mi trovo un po’ in panne, o
meglio, poiché la speranza è sempre viva, sono in stato di
speranzosa attesa.
Le speranze sembrano cresciute in questi ultimi tempi, in
quanto, se è vero ciò che si dice negli ambienti clericali di
Mangochi, fra poco dovrebbe arrivare a Kankao un giovane
missionario, minuto di persona, ma pieno di intelligenza,
attività e con una gran voglia di lavorare. Per cui il sottoscritto
ha tutte le chances che il suo vicario dia una mano, anzi due, in
maniera che una delle sue possa trovarsi libera di dedicarsi ad
altre cose. Per esempio: ai nostri ragazzi poliomielitici. Lo
spero fermamente e prego Papa Giovanni che non si fa mai
pregare due volte, che metta una buona parola presso il Buon
Dio...
Parliamo un po’ di loro. Una volta al mese li riuniamo alla
missione, dove trovano tanti amici e coetanei che li
intrattengono e li fanno divertire. A tale scopo mettiamo a
disposizione il salone parrocchiale, con due piccole biciclette e
un numero imprecisato di bambole, tutte cose che riempiono il
mondo dei bambini e li tengono allegri per un po’ di tempo. In
seguito speriamo di rinforzare il nostro parco di auto e
biciclette, nonché il nostro harem di bambole...».

106
1976
Arrivano nelle missioni i visitatori

P. Gioacchino Sangiorgio, a 57 anni suonati, il 15


gennaio è partito per il Malawi.

E venne la questione della scuola

Dal Malawi P. Tarcisio Betti racconta: «... Chipoka è un


enorme villaggio, tutto maomettano, lungo il lago Malawi, a
nove miglia da Mangochi. Questa località è stata per il
cristianesimo un segno di contraddizione per molti anni. Con
l’aiuto degli indiani vi si era costruita una grande moschea e gli
indiani di Mangochi amavano pregare là molti venerdì e
spiegare il Corano e incoraggiare i capoccia maomettani contro
ogni infiltrazione di altre sette religiose. Ecco perché
trascorsero venti lunghi anni dalla prima apparizione di una
nostra piccola chiesa. Grazie all’intervento di un Membro del
Parlamento i capi diedero il terreno e il permesso di costruirla
per i cristiani della zona. Maometto incominciava a perdere
terreno.
E venne la questione della scuola. Il nuovo Governo
voleva scuole ovunque. A richiesta della gente e dei capi
villaggio a Chipoka doveva sorgere solo la scuola dell’Agenzia
Maomettana. Per tre anni non si fece nulla e il Governo passò
la scuola all’Agenzia Cattolica. Che vespaio! Due aule, una
casetta per il maestro, 23 allievi.
Nel villaggio, giorno e notte, i capoccia maomettani
giravano per le capanne minacciando l’inferno maomettano a
chi mandava i figli a scuola. In una grande riunione alcuni
coraggiosi chiesero ai capoccia maomettani: “Perché non
volete la scuola per i nostri figli, ma mandate i vostri al quella
anglicana di Nsanama?”. Fu come tagliare la testa al toro!

107
Gli alunni superano ora i trecento. Chiedevo un giorno a
degli spilungoni della prima classe: "”La scuola è qui da anni,
dove eravate?”. “Non si veniva perché ci dicevano: la vi
battezzano e vi fanno mangiare il porco”...
E non è finita a Chipoka... Altrove ci fu il calvario di
Maometto. Ordine del Governo: tutti gli indiani o lasciare il
paese o ritirarsi nei quattro centri loro permessi. A Mangochi
non resterà un solo indiano. Loro hanno sempre tenuto lo
zampino negli affari di Chipoka; ora partono e i cristiani ridono
sotto i baffi. Fanno bene? Fanno male? Ad ognuno
giudicare...».

Evangelizzazione e promozione umana a tutto campo

Dal Madagascar P. Carlo Berton e P. Angelo Rota


informano amici e benefattori sulla loro vita e il loro lavoro.
«... Ognuno di voi ha tante domande da proporci: Come
state? Come vedete il vostro lavoro in questo momento di
evoluzione? Cerchiamo di rispondere brevemente.
Evangelizzazione diretta. La prima ragione della nostra
presenza in quest’isola è l’annuncio della persona di Gesù.
Problema di precedenza su ogni altro lavoro. La Parrocchia
‘Sacré Coeur’ si estende nella periferia Sud e supera i 30.000
abitanti. A questa folla dobbiamo annunciare il Cristo
liberatore e salvatore. Essendo solo due missionari, abbiamo
creato tre luoghi o centri per incontrare la gente, dialogare e
stare in mezzo a loro.
Catecumenato degli adulti e dei giovani. Due gruppi di
gente sposata ed uno di giovanotti e signorine si riuniscono
settimanalmente per confrontare la loro vita, le loro credenze,
le loro aspirazioni con la Persona di Cristo. Quelli che sanno
leggere portano i Nuovo Testamento. Si dialoga, si legge, si
prega e si parte con un progetto impegnativo per ognuno: la
fede non è una dottrina, è qualcosa da vivere. La generosità di

108
certi adulti e giovani ci fa pensare ai primi capitoli degli Atti
degli Apostoli.
Infanzia. I ragazzi tra i 6 e i 15 anni hanno un programma
catechistico vario ed adatto all’età. I ragazzi sono suddivisi nei
tre Centri parrocchiali. Questa massa è inquadrata da 75
maestri catechisti: padri e madri di famiglia, ma in
maggioranza studenti del liceo. Noi missionari non ci
occupiamo che dei catechisti: sessioni di formazione teologico
biblica e metodologia dell’insegnamento. Procuriamo loro:
quaderni, registri, lavagnette, gesso, libri di testo, Bibbia,
posters della LDC, ed una volta al mese si passano delle
filmine della San Paolo Film.
Noi stessi siamo meravigliati dello zelo di questi
Catechisti che oltre a dare corsi, cercano di visitare le famiglie
dei ragazzi per vederne le ripercussioni nella loro vita. E i frutti
si sono visti: 40 Matrimoni, 60 Battesimi di adulti, 156
Battesimi di adolescenti, 300 Prime Comunioni.
Naturalmente non sono queste cifre che ci abbagliano:
quello che ci incoraggia sono le trasformazioni di vita, di
comportamento. Aumentano l’amore reciproco, la
comprensione, la responsabilità, il senso di dedizione e
servizio.
Comitato dei laici responsabili della Comunità
Ecclesiale. L’abbiamo costituito, ora lavoriamo per migliorarlo
e formarlo all’apostolato. Questo comitato riunisce i 10
quartieri in cui abbiamo suddiviso ed inquadrato la parrocchia.
I Responsabili dell’animazione del settore: visite ai poveri,
accoglienza agli immigrati dalla brughiera, sostegno ai
Catecumeni, preparazione ai battesimi. Un gruppo di uomini,
confermati dal Vescovo, Mons. Rasafindrazaka, porta
l’Eucaristia agli ammalati, preparano i morenti ad una morte
cristiana, dirigono le vegli mortuarie che qui hanno
un’importanza straordinaria, distribuiscono gli aiuti di prima
necessità ai diseredati.

109
Il Comitato Parrocchiale gestisce le finanze di quanto
raccolgono sul posto: doni, elemosine, offerte varie, collette,
spettacoli. Perché lo facciamo fare a loro? Non vi nascondiamo
che noi missionari siamo in una situazione di emergenza; per
varie ragioni si può essere indotti a dover partire. Non
possiamo dire: dopo di noi il diluvio! Dopo di noi desideriamo
una comunità responsabile ed autosufficiente nei vari aspetti:
catechistico, liturgico, economico.
Opere di promozione umana. Gesù non ha solo parlato,
ha condiviso il pane con i poveri, ha vibrato con il cuore delle
folle. Noi due, P. Angelo e P. Carlo, dirigiamo ora la maggiore
parte delle opere di sviluppo della città. Il ‘Centre Sartoriale’
per madri di famiglia, a Morarano: più di cento donne; adulte e
giovani spose seguono i corsi di economia domestica e di
sartoria, dirette da una suora malgascia e da cinque sarte.
Queste donne ringraziano i benefattori italiani che hanno dato a
P. Angelo 5 macchine da cucire “Singer” con scampoli e filo. I
corsi prendono più efficienza ed il numero delle apprendiste
aumenta: ne uscirà un vero laboratorio d’apprendistato e di
produzione.
Corsi di falegnameria, carpenteria e di fabbroferraio al
‘Centre Culturel et Social’. Quest’anno si è celebrato il decimo
anniversario di fondazione.
Entrando in questo centro si possono vedere 40 giovanotti
che segano, piallano, inchiodano, manovrando scalpelli,
sgorbie, succhielli, menarole, gattucci, graffietti, misurando
con attenzione degna di tecnici professionisti. Il mese scorso
abbiamo avuto in dono una sega a nastro. Vorremmo
completare l’attrezzatura della nostra scuola artigianale con una
piallatrice. Siamo alla ricerca di tale strumento e di... eventuali
benefattori che ci aiutino a pagarla!».

110
Ricordi e impressioni di un viaggio in Perù

P. Giuseppe Fenili, Superiore Provinciale, dopo una visita


di 35 giorni in Perù, consegna ai lettori de “L’Apostolo di
Maria” le sue impressioni:
«... Per 20 giorni almeno ho vissuto con gli occhi sbarrati
senza capacitarmi a collocare quel mondo di miseria nella mia
testa di europeo, senza trovare in me termini di confronto e di
paragone.
La prima forte impressione sul Perù la raccolsi dall’oblò
dell’aereo da Guayaquil a Lima: dopo un volo rapido sulle
Ande alla quota di undicimila metri, ecco la costa peruana, una
zona arida, un deserto di colli e montagne tutta sabbia.
Interrogavo P. Luigi, mio compagno di viaggio, reduce a
Lima e ormai avvezzo all’ambiente: è mai possibile vivere qui?
La capitale, che assorbe circa un quarto dell’intera popolazione
peruana, è situata proprio in questa terra arida e senz’acqua.
Non vede la pioggia e i torrenti d’acqua che scendono dalle
Ande creano un po’ di verde solo là dove scorrono. Eppure
questo Perù, da come lo venivo scoprendo giorno dopo giorno,
è un paese ricco di risorse naturali. Qui sta il dramma del Perù:
un popolo che ha ricchezza a portata di mano, ma che è
destinata a vivere in una cruda e avvilente condizione di
miseria...
Un seconda impressione riguarda i poveri della barriadas.
Il fenomeno della miseria e del sottosviluppo, proprio di tanta
parte dell’America Latina, lo vedi in maniera brutale nella
barriadas: villaggi di casupole costruite con stuoie o con
mattoni non cotti. Uscendo dalla città di Lima, ti trovi dinanzi
una distesa interminabile di barriadas davvero impressionante.
Ci vivono due milioni di persone... I Monfortani e le Figlie
della Sapienza lavorano qui, in questi quartieri..
M’interessava molto conoscere da vicino il quadro politico
del Paese. Si sa che l’America Latina è per la maggior parte
111
nelle mani di militari. Questa è anche la sorte del Perù dal
1968. E te ne accorgi subito, girando la città. I militari hanno la
loro zona residenziale distinta, hanno le loro scuole a parte, i
loro collegi, hanno un loro ospedale grandioso. Si impongono
veramente, quasi come un gruppo sociale a sé stante.
Questo regime militare dà nell’occhio per la sua imponente
organizzazione, mentre non si impone per la sua forza e per la
sua rigidità del controllo. Si definisce come la “terza via”, un
socialismo ispirato ad un umanesimo di promozione e che non
trascura la tradizione cristiana del popolo...
Una parola sulla religiosità popolare. Tutti sanno che il
Perù è un paese cristiano, cattolico. I missionari spagnoli dei
secoli scorsi hanno fatto la loro parte per portare il Vangelo.
Con una catechesi adatta ai tempi e alle persone. Sarebbe
troppo facile condannarli in tutto. Il risultato che oggi
raccogliamo qual è? Un popolo credente,sì, ma che ha bisogno
di approfondire la sua adesione al cristianesimo; un popolo che
ha le sue tradizioni religiose...
Il 28 ottobre mi trovavo a Lima. Andai espressamente a
vedere la processione di Nostro Signore dei Miracoli. Alle sette
del mattino in strada, un foltissimo gruppo di fedeli ascoltava
la Messa in piazza; moltissimi vestiti in violetto. L’effige del
Signore ha percorso molte vie della capitale, ritornando al
Santuario la sera...».

Ospiti a Redona alcuni Monfortani Indiani

A Natale sono stati ospiti della comunità di Redona


Norberto Lobo, P. Augusto Carvalho, Peeter Swamy, P. Joseph
Raja Rao: sono giovani che hanno lasciato il loro paese, la
lontana India, per venire a studiare in Italia nelle università
ecclesiastiche di Roma. Sono stati intervistati.
Sulla situazione dei Monfortani in India e sulle prospettive
future hanno risposto:

112
«In India non abbiamo una casa monfortana. Siamo ospiti
di un grande seminario carmelitano a Bangalore. Lì abbiamo in
affitto un appartamento. Ci sono nove seminaristi che
desiderano essere monfortani; sono delle regioni del Sud,
studiano inglese e spiritualità monfortana. Con loro c’è P.
Mario Belotti che lavora con la ‘Legio Mariae’, in parrocchia e
in una zona di lebbrosi. P. Attilio Corna fa comunità con loro
ed insegna mariologia nel seminario diocesano. Dovremmo
acquistare il terreno per costruire una casa nostra».
Alla domanda se l’India può essere considerato paese di
missione gli studenti indiani hanno risposto:
«L’India è un paese missionario come tanti altri. Dobbiamo
predicare la missione come inizio, come lo stesso Montfort
voleva. Dobbiamo lavorare nelle zone strettamente missionarie
e sostenere economicamente i giovani che studiano e vogliono
essere monfortani. Quando avremo personale sufficiente
potremo iniziare un lavoro strettamente missionario.
Attualmente abbiamo tre missionari che non possono
uscire da Bangalore perché senza permesso. C’è la necessità di
missionari indiani per iniziare un lavoro di evangelizzazione:
avremo così più indipendenza e più libertà di movimento, una
nuova fisionomia, un volto nuovo».

Operazione Rivi Rivi

P, Eugenio Cucchi informa sull’operazione “Rivi Rivi”. Di


che si tratta?
«...Il fiumiciattolo di Utale è un vero rompicapo, più
imprevedibile di un vulcano, un fiume con letto e sponde di
pura sabbia, incapace di contenere le sue acque, con relativi
danni alla coltivazioni di grano e banane.
Portare via il grano o le banane seminate lungo il fiume
Rivi Rivi è già troppo per questa gente, ma farsi portar via due
pozzi d’acqua pulita per il periodo secco, significa far attingere

113
acqua dalle pozzanghere vicino al fiume, con le conseguenti
malattie, colera in primo piano.
È quindi assolutamente necessario strappare alla forza
delle acque i due pozzi e i due generatori per la luce e l’acqua
che servono tutto l’ospedale, la missione e la casa delle suore.
È un'impresa un po’ ardita per noi che non abbiamo impianti e
possibilità sufficienti. Ma nonostante questo il lavoro s’ha da
fare, con i mezzi messi a nostra disposizione, se non si vuole
lasciare in preda alla acque il prezzo di cinque milioni...
Lo scorso anno si implorava l’acqua tutti i giorni;
quest’anno invece penso che non ce ne sia bisogno e un
rimedio s’impone da sé. Un milione per salvarne cinque. Il
necessario non è poca cosa: 54 gabbie di ferro, due rotoli di
rete metallica, cemento per far un blocco unico alla base,
sabbia, molti sassi raccolti un po’ ovunque, infine operai, tante
zappe e tante mani che aiutino a scavare il lungo fossato e a
portare pietre.
La popolazione è già stata mobilitata e il lavoro ha preso
inizio. Anche il sottoscritto non si è risparmiato e si è visto
rispuntare i vecchi calli solo dopo un’ora di lavoro con la zappa
e come se non bastasse anche una bella botta sul dito mentre
sistemava le pietre nelle gabbie. Ora speriamo solo che l’acqua
non ci piombi addosso prima di finire i lavori..».

Per due anni guarda e sta zitto!

P. Bruno Epis, in Malawi dal 5 agosto del 1972, invia le


sue impressioni.
«... Quando arrivai in Malawi venni messo sotto la cura di
un vecchio e sperimentato missionario. Avendo notato una mia
certa insofferenza e facilità nel giudicare la realtà africana, mi
fece la prima consegna: “Per due anni guarda e sta zitto!”.
Parole sagge. Mi si chiedeva qualche articolo, amici che,
conoscendo la mia minuta persona, mettevano in dubbio la mia

114
sopravvivenza tra le formiche africane, finora hanno fatto
ricerche inutili tra le pagine della rivista.
Il caro P. Betti non può certo lamentarsi: il silenzio l’ho
mantenuto e più del previsto. Ora vorrei quindi prima di tutto
mandare un saluto a tutti gli amici che non mi hanno
dimenticato, e perché no, anche agli altri. Ed ora veniamo a
noi.
Prima visione! Non è la presentazione di un nuovo film,
ma un timido affacciarsi sulla finestra del mondo africano.
Meglio, sono quasi quattro anni che lo guardo e vorrei dire agli
amici, con qualche articoletto, se riesco a mantenere la
promessa, che cosa ho visto e come l’ho visto, non tanto con
gli occhi, ma con il cuore.
Gli occhi ti mettono di fronte ad una realtà che è la
vergogna dei ricchi, ma d’altra parte ti porterebbe a mandare
tutti i neri a...Pechino o in qualche altra parte. C’è chi parla di
una razza maledetta da distruggere dalla faccia della terra. Nel
mio cuore dico: “Perdona, Signore, quelli che si credono di
razza!”. Ma il cuore ti permette di carpire certi valori umani
che all’occhio sfuggono.
Un giorno, dopo colazione, mentre stavo facendo un
piccolo lavoro sotto la veranda della casa, eccoti arrivare
cinque bambini ed una bambina della scuola vicina: ben lavati
e pettinati. Si fermano tutti ad una debita distanza e poco dopo
la bambina si stacca dal gruppo dei compagni e mi si avvicina.
Le porgo il formale saluto e la invito a sedere. Guarda attorno
con la curiosità tipica dei bambini, poi abbassa gli occhi, si
siede incrociando le mani sul petto e appoggiando una spalla al
muto.
Certamente dovevo averla vista spesso correre con gli
altri bambini della scuola e sudare con la sua zappa sotto il
caldo sole del mattino. Ora è qui con quella straordinaria calma
che tante donne africane sembrano possedere. Il continuo il
mio lavoro e lei mi guarda con gioia serena e amichevole: la

115
meraviglia e la gioia dei rapporti umani in Africa! “Sarebbe ora
che smetta di lavorare e badi un pochino a me”. Mi vergognai.
Lasciai subito il lavoro...Dopo un po’ di tempo ricordai dove
l’avevo vista. Alcuni giorni prima ero andato a far visita ad una
povera donna che il marito ubriaco aveva bastonato e ridotta in
cattivo stato. Nantume era sua figlia ed era venuta a restituirmi
la visita.
Grazie, Nantume, la tua lezione non l’ho dimenticata.
Dovevi essere tu, pagana, a farmi capire che la gente vale più
delle costruzioni. La tentazione di essere sovraccarichi di
lavoro, di dirlo o semplicemente pensarlo, è molto forte qui in
Africa e quel che è peggio, in conclusione si finisce proprio per
crederci. E’ brutto, perché non hai più tempo di ascoltarli, di
parlare con loro e di loro.
Questa brava gente ti classifica subito. O sei l’uomo
bianco, intelligente, che fa grandi cose, che ha tanti soldi, e
loro si sentono tanto piccoli e lontani da te da temerti; o sei il
loro amico e fratello che hai tempo per loro, che hai fiducia in
loro, che non ti metti a disagio con la tua presenza ed allora ti
amano e ti restituiscono la fiducia.
Quando lasciai i miei cristiani di Mpiri per la nuova
missione di Kankao colsi questo commento da due persone che
si credevano inosservate: “Peccato che il Padre vada via, era
veramente uno di noi, non ci si accorgeva che fosse un bianco”.
Per me è stato il complimento più ambito, anche se non me lo
hanno detto direttamente, è la migliore ricompensa di tre anni
di lavoro. Grazie, amici!».

Sono felice di dedicare il mio tempo ai carcerati

Suor Ernestina parla del sua ultima visita ai carcerati di


Tamatave.
«... Da circa 12 anni sono felice di dedicare il mio tempo
libero di fine settimana ai prigionieri di Tamatave. Anche le
suore però hanno diritto di ammalarsi, così, verso la metà di
116
dicembre, sono stata vittima della malaria provocata come tutti
sapete, da una puntura dell’anofele, obbligandomi a letto a
causa della febbre. Per cui mi privo della visita alle carceri il
giorno consueto, ma una giornata a mia disposizione per gli
ultimi preparativi e gli ultimi saluti, mi permette d’incontrare i
miei amici, i carcerati.
Le ore passarono in fretta e le borse preparate per loro, con
ogni ben di Dio: pane, carne, sigarette, tabacco, calzoni,
camice, quaderni, matite, ecc...
Impossibile caricare tutta questa roba sul mio inseparabile
ciclomotore perché rischierei di rompermi il collo o una
gamba. È già l’ora in cui i carcerati vengono richiusi nelle loro
celle. Che fare? Prendere un taxi? Passa più di mezz’ora prima
di trovarne uno. Ma ecco finalmente partita.
Appena giunta, come un lampo, passo la prima e al
seconda porta, aperta dal portiere con grandi sorrisi ed
esclamazioni perché mi ha vista carica come un asinello e spera
qualche cosa anche lui. Non m’attardo in parole inutili, ma
chiedo soltanto: “Sono tutti chiusi?”. Ha capito al volo e
risponde: “Almeno la metà”.
Aiutato da un detenuto passo l’ultima porta che
m’introduce nel cortile della prigione. Quelli che già stavano
dietro le sbarre a contemplare gli ultimi raggi del sole, prima di
coricarsi sul duro cemento, vedendomi gridano: “Ecco la
suora!”.
Questo grido attirò l’attenzione dei loro compagni che nel
cortile, in fila, aspettavano l’appello del poliziotto. Quale
spettacolo! Come uno sciame di api mi corrono incontro,
lasciando i poliziotti con le chiavi in mano, a bocca aperta, a
guardare lo spettacolo. Tutti volevano essere vicini a me e le
domande erano unanimi: “Quando tornerai? Chi ti sostituirà?
Chi andrà a visitare i miei bambini, mia moglie, mia mamma?
Chi mi porterà le medicine? Non dimenticare di portarci il
pallone, la tombola...”. Non mi è stato facile convincere quei

117
poveri prigionieri che sei mesi sarebbero trascorsi in fretta e
che qualcuno sarebbe andato a trovarli.
Intanto la distribuzione continuava, ma con un colpo di
fischietto i poliziotti li hanno richiamati all’ordine. Parole di
riconoscenza e strette di mano hanno accompagnato questi
momenti di separazione con un “Ciao, arrivederci!”».

Così ebbe inizio la mia seconda esperienza africana

P. Lorenzo Pege parla del suo ritorno in Malawi. ...


“Lascia la tua terra e va’ dove ti mostrerò”:
«... è stato il canto d’addio rivoltomi dalla comunità della
mia parrocchia poche ore prima della mia partenza
dall’aeroporto “Marco Polo” di Venezia. Mi ha fatto fremere di
commozione. L’ultimo abbraccio alla mamma, al papà, alle
persone care, il distacco da tante cose e luoghi familiari, mi
fanno capire quanto mai la realtà che il “partire è un po’
morire”.
Sono solo con i miei pensieri. Il cuore gonfio di tutti i
ricordi d’una vacanza missionaria. Cerco di distrarmi.
Dall’aereo che mi porta da Venezia a Karthoum assisto al
sorgere del sole. Spettacolo incomparabile! Anzitutto i primi
annunci, poi i preparativi immediati. Dall’oblò posso vedere il
buio messo in fuga dal chiarore dell’alba. Poi il sole, come
guerriero, che sguaina la spada, entra in campo con tutta la sua
prepotenza. Sorvolo il Kenya, le nuvole mi negano lo
spettacolo che di solito offre al turista il Kilimanjaro, poi la
Tanzania e quindi il Malawi.
La prima impressione che se ne ha giungendo in aereo è
quella di un immenso tappeto verde marrone un po’ corrugato.
Poi, una volta a terra, la massa indistinta si scompone nei suoi
reali colori: un paese annegato da macchie coloratissime di
fiori tropicali. Ad attendermi a braccia aperte ci sono alcuni
confratelli.

118
Giusto il tempo per alcune compere in città e poi mi
azzardo ad affrontare il viaggio verso Namalaka su una strada
ora acquitrinosa ora viscida, resa tale dalla stagione delle
piogge in corso.
Per ben tre volte mani amiche mi aiutano con generosità ad
uscire dal fango... L’apparire delle prime capanne di Namalaka
mi fanno tirare un sospiro di sollievo. Il rombo della mia
Datsum è motivo di perplessità e di curiosità. Chi osa sfidare il
fango? “Bambo Lorenz”, è il grido di gioia dei più piccoli che
per primi individuano e riconoscono il loro amico.
Devo stare attento e prudente nella guida, poiché una
ciurma di ragazzini, incuranti del pericolo, si assiepano,
saltellando in mezzo alla strada. In un baleno il villaggio è
informato del mio arrivo. I primi a correre a porgermi il “moni”
è lo sparuto gruppo di cristiani. Intravedo nei loro occhi una
gioia grande. Non sanno che ripetere con una cantilena
caratteristica:”Abambo! Abambo!”. Poi mi intrattengo coi
numerosi musulmani che a gara mi stringono calorosamente la
mano.
È sempre ricco di emozioni questo contatto semplice e
spontaneo con i vecchi amici. Ha così inizio la mia seconda
esperienza in terra africana...».

India: è gente che ha bisogno di tutto...

P. Giovanni Crippa, dall’India dove si trova come nuovo


missionario, fa sapere perché i Monfortani sono in India e i
disagi che devono affrontare nel loro lavoro:
«... Siamo in un clima di emergenza e voi sapete che in una
simile situazione è molto difficile far pervenire articoli da
pubblicare. Tutto è controllato rigidamente. Gli stranieri sono
pedinati giorno e notte. I Padri stessi che vivono laggiù, e
questo lo posso testimoniare io stesso che con loro ho trascorso
sei mesi circa, devono stare attenti a non manifestare il motivo

119
per cui sono in India. Rischierebbero l’espulsione immediata.
La loro vita non è facile.
Nonostante tutto, con l’aiuto del Signore, il loro lavoro
procede meravigliosamente. Il compito cui sono chiamati è di
far sorgere nella stessa India dei missionari monfortani. Le
vocazioni non mancano, le domande da parte di giovani che
aspirano alla vita missionaria monfortana aumentano sempre di
più.
Sono giovani che provengono da differenti regioni, da
culture diverse, da un contesto cristiano povero e fragile. Le
loro famiglie sono di umili condizioni economiche e i Padri per
questo, devono provvedere al loro completo mantenimento sia
per il vitto che per la scuola. Vengono dai loro villaggi a piedi
scalzi, con una o due camice e un pezzo di stoffa che si legano
attorno alla vita.
I Padri trascorrono le giornate quasi sempre con loro,
cercando di inculcare una solida formazione religiosa,
sacerdotale e missionaria. Per questo li conducono spesso nei
villaggi più poveri, situati nella periferia di Bangalore. Li fanno
parlare con la gente e li obbligano ad interessarsi ai loro
problemi.
I Padri, per dare l’esempio, non disdegnano di andare a
fare opere sociali religiose; una volta alla settimana fanno
visita ad un villaggio di lebbrosi, situato nelle periferia di
Bangalore. È gente che ha bisogno di tutto: medicine, cibo,
vestiti, scarpe. Sono poveri che hanno bisogno di una parola di
qualcuno che s’interessi di loro. Oltre a questo, i Padri non
rifiutano il lavoro missionario della predicazione. Infatti in un
breve spazio di tempo, la gente e i sacerdoti hanno avuto modo
di apprezzare l’efficacia della loro predicazione, specie in tema
di rinnovamento della vita cristiana in un contesto mariano. Le
richieste di ritiri sono numerose...».

120
Madagascar: scrivo da un villaggio di montagna

P. Guido Libralato parla di un’esperienze di vita diversa.


«... Scrivo da un villaggio di montagna, in piena foresta, e
anche se non più molto vergine. Per arrivare fino qui ho fatto
sessanta km. in moto, su una strada che raramente le capita di
meritare tale nome, poi una camminata di circa quattro ore.
Sono abbastanza stanco, ma scrivo perché mi piace far
conoscere la vita dei missionari, come del resto è avida di
vostre notizie la gente di qui.
I topi. Hanno messo a mia disposizione una casa, perché
non ne ho una mia. E questa serve anche da deposito per il riso
e per tutte quelle cosucce che si possono comperare dal cinese
più vicino. Come al solito, dove c’è riso ci sono anche i topi.
Quest’anno poi sembrano particolarmente numerosi: me lo
diceva un vecchio l’altro ieri. Anche questa casa non fa
eccezione ed è ben popolata: topi vecchi e che vivono di
rendita e giù fino ai piccolini che ancora allattano. E sono topi
coraggiosi o meglio famelici: scendono fin sulla tavola dove
mangio il mio riso e di notte mi capita di trovarli dentro la
zanzariera... forse per vedere la nuova faccia barbuta entrata
nel loro regno.
È di notte che sono più numerosi: è tutto un rincorrersi su e
giù per la capanna: forse sono i più giovani in vena di giocare,
ma soprattutto è l’assalto ai sacchi del riso; e le donne domani
dovranno ricominciare a rattoppare.
Nonostante tutto riesco anche a dormire, non fosse altro a
causa della stanchezza che mi procura il viaggio. Solo che
capita di svegliarsi di soprassalto quando i coinquilini passano
certi limiti. E sono momenti in cui il “Cantico delle creature” di
S. Francesco non mi passa neppure per l’anticamera del
cervello. Cosa volete: i santi erano giunti a tal punto da
intendersela anche con gli animali, io invece, con i topi, riesco
a farmi capire col lancio delle ciabatte. Ognuno fa come può,
121
l’importante è avere la tranquillità che ognuno desidera quando
dorme.
L’acqua. Siamo in un paese tropicale e il caldo si fa
sentire. Io, poi, sono uno di quelli che suda molto. A volte mi
sembra di essere una spugna imbevuta d’acqua e che gocciola
da tutte le parti. E dire che, tra una camminata e l’altra, ne ho
già persi di chili... Beh, quando fa caldo e si suda, si ha anche
sete. Ma qui, e sembra strano, non esistono sorgenti d’acqua, e
dire che piove in media per due terzi dell’anno. L’acqua, anche
quella dei torrentelli di montagna, è sempre più o meno
inquinata: pericolo di vermi o di altre malattie.
E i malgasci cosa bevono? Ogni villaggio è costruito
vicino ad un corso d’acqua: ci bevono i buoi, sguazzano le
anatre e le oche, ci si lava e si lavano i panni e le pentole, si
attinge per preparare da mangiare. E l’acqua è sempre acqua
anche se il colore cambia.
A noi fa una certa impressione e quando si arriva in un
villaggio ci si accontenta di caffè o di tisane dal colore
indefinibile. Ma quando si cammina e si suda i rigagnoli
d’acqua sono una continua e grossa tentazione, soprattutto
quando si vedono i malgasci bere di quell’acqua e scioccare la
lingua con soddisfazione; solo il pensiero di star male dopo, mi
trattiene dal fare come loro. E intanto sogno la fontana d’acqua
fresca nel cortile di casa mia.
Per fortuna al centro di Brickaville abbiamo un frigorifero
a petrolio ma riesce a far bene il suo dovere. Così appena
arrivo, la prima visita è per lui: spero che il Signore non me lo
conti come peccato di gola.
Vedo arrivare la mia cena: riso e pollo bollito, è sempre
la stessa cosa. Veramente non ho tanta voglia dato il caldo e la
bocca impastata per la sete. Ma bisogna pur mangiare, domani
avrò ancora un bel pezzo di strada... A sera sarò ospite di una
famiglia cinese e finalmente avrò dell’acqua da bere e fresca
per di più».

122
Quando ti deciderai a dare la pillola alle tue donne?

Suor Alessandra, si trova in vacanza in Italia, e riceve la


notizia della nascita di Alexandrina. L’occasione le offre
lìopportunità di alcune puntualizzazione sul problema della
regolamentazione delle nascite.
«...Tra le persone che mi circondavano ne scorsi alcune
che spalancarono gli occhi in modo significativo, ed una ebbe
il coraggio di gettare un po’ d'acqua sul mio entusiasmo:
“Ancora una bimba! Ma non ne avete ancora abbastanza al
villaggio dei lebbrosi? Quando ti deciderai a dare la pillola alle
tue donne? Sarebbe anche ora! Almeno a quelle poverette mi
concederai che le pillole si possono distribuire in tutta serenità
di coscienza...”.
Non udivo più quella voce che continuava imperterrita
l’arringa che voleva essere convincente per una zuccona come
me, che non accetta facilmente discorsi di questo genere...
Mi ritrovai di colpo ad Amapanalna, rividi Rosy che
piangeva disperatamente nel dispensario, allorché venne con
suo marito a chiedermi di aiutarli: desideravano un bimbo e,
ogni volta che esso si annunciava, dopo qualche mese, ecco che
Rosy lo perdeva... Vedere soffrire così, vi assicuro che spezza
il cuore!...
Rivedo Florine, la moglie di Rasolo, allorché rientrammo
dalla visita ostetrica. Delusa, le lacrime negli occhi grandi, mi
chiese: “Ma allora non c’è il bimbo?”. No, non c’era... E la sua
era solo una gravidanza psicologica! Talmente grande era il
suo desiderio d’aver un bimbo suo da Rasolo, l’uomo pure
lebbroso, che aveva saputo fare di lei una donna come le altre,
dimenticando le sue tristi lesioni lepromatose...
E ancora rivedo Rekoeka, la giovane mamma di
Alexandrine, che camminava a ginocchi... Non riuscii a
consolarla il giorno in cui entrai nella capanna dov’era
allungata sulla stuoia febbricitante. Aveva appena persa la sua
123
creatura: era già al quarto mese e sperava davvero di farcela a
dare una sorellina al suo bambino...
No, non porterò riserve di quelle pillole ad Ampanalana...
allorché rientrerò! Ho delle liste interminabili di cose ben più
utili, che renderanno felici le nostre donne e le loro
famiglie....».

Le prime impressioni non solo di tipo turistico

P. Gioacchino Sangiorgio comunica la sua prima buona


impressione.
«... Scartando impressioni di carattere turistico su cui ci si
potrebbe dilungare non poco, dato che il Malawi è senz’altro
uno dei più bei paesi africani, mi piace sottolineare quello che
in modo particolare colpisce, stando in mezzo alla gente,
trattando quotidianamente con loro come missionario.
Hanno una grande deferenza, un profondo rispetto per i
Padri. Il contegno che tengono alla nostra presenza sa perfino
di esagerato, ed invece non è altro che la ripetizione del
comportamento per loro abituale, nei confronti degli anziani e
dignitari del villaggio cui appartengono.
Innanzi tutto non mancano mai di salutarti e di venirti
incontro per stringerti la mano. Che la mano sia pulita o meno,
asciutta o bagnata, poco importa, l’importante è che possano
stringere la mano del missionario. Inutile dirlo: i bambini sono
sempre in prima fila ed è meraviglioso raccogliere il loro
sguardo negli occhietti vispi, mentre ti porgono la destra per
un’amichevole stretta di mano.
Quando ricevono qualcosa, non porgono mai una sola
mano, ma sempre presentano le due congiunte, in segno di
gioia e di gratitudine insieme. L’unica cosa che dispiace è che,
purtroppo, quando si dà sempre al di sotto dei grandi bisogni.
Per questo il missionario apprezza il gesto di chi fa di tutto per
essere generoso nell’aiutare le missioni. Non dimentichiamo la

124
parola di San Paolo: “Chi aiuta l’Apostolo, riceverà la mercede
dell’Apostolo”.

Sono maturato come uomo e come prete

P. Riva Felice, rientrando in Italia, tenta un bilancio dei


suoi 15 anni di vita missionaria in Perù.
«...Sono maturato come uomo e come prete. Ritornando in
Italia provo ad immaginare i commenti che si faranno intorno
alla mia persona: “Sei diventato più vecchio e più brutto”,
diranno i realisti; “Felice, gli anni vanno su anche se li porti
bene”, diranno invece i più diplomatici. È certo che quindici
anni di vita missionaria lasciano il segno nel fisico. Gradirei
tuttavia che le persone che avvicinerò s’accorgessero di segni
più profondi ed interiori che sono stati per me motivo di
arricchimento e come uomo e come prete.
Posso garantire di avere ricevuto di più di quanto ho dato.
La logica del Vangelo: “riceverete il centuplo”, si è realizzata
in pieno per me. Ogni partenza dall’Italia è stata dura, però è
solo partendo che si diventa oggetto della promessa di Cristo.
L’esperienza di Abramo: “... lascia la tua terra e va”,
caratterizza tutte le vocazioni, soprattutto quella missionaria.
Quando uno va in missione gli si prospettano difficoltà e
sacrifici che sono reali, ma non insormontabili. Al mio arrivo
in Perù l’impatto con le novità, a volte molto strane, mi ha
buttato in un atteggiamento di critica verso tutto ciò che
vedevo. Non riuscivo a capire la mentalità latinoamericana,
perché ancora troppo aggrappato al mondo italiano. Non
trovavo un punto d’incontro. Ho dovuto spogliarmi del Felice
vecchio per lasciar il posto ai valori del popolo peruano.
Mai come in qui primi tempi di missione mi sono venute
buone le meditazioni sull’umiltà fatte durate il Noviziato. Il
rendermi conto dei forti limiti che avevo, mi ha permesso di
avvicinarmi a quella gente come il povero servo del Vangelo;
diversamente avrei iniziato con la mentalità del colonizzatore.
125
Ho iniziato il mio lavoro in mezzo a quella gente in allegria e
serenità.
In questi anni di soggiorno in Perù ho sempre svolto la mia
attività in una parrocchia della periferia di Lima, composta in
gran parte da famiglie numerose, alloggiate in baracche fatte di
cartone, legno e lamiera. Quanta sia questa gente non ve lo
saprei dire, perché vanno e vengono in continuazione. Il loro
numero si aggira intorno alle 30/50 mila unità.
Forse voi direte come abbia fatto ad arricchirmi
spiritualmente in questo ambiente di miseria. È vivendo con i
poveri che le virtù evangeliche emergono e, se le
condividiamo, ci arricchiscono. Questi poveri mi hanno
insegnato a pregare, perché non mi manchi il pane quotidiano,
a non essere egoista condividendo quanto ho con gli altri... e
con loro ho camminato durante questi quindici anni per una
promozione umana che avesse come obiettivo il rispetto della
persona nell’ambiente in cui vivo.
Rientrando in Italia sarei contento se si dicesse che sono
diventato una vero peruano, sia pure per i difetti che in mezzo a
quella gente ho contratto. Segno che mi sono fatto uno di loro.
Mi sono inserito bene nella pastorale peruana. Tanto per
intenderci sul significato della parola “Pastorale”, devo dire
che è la missione specifica del sacerdote: predicare e
testimoniare il Vangelo.
In tutto il Perù la pastorale si svolge secondo le linee
fissate dalla Conferenza Episcopale: promozione umana e
Evangelizzazione. L’Episcopato peruano sta facendo un grande
sforzo per dare un’impostazione unitaria al suo lavoro
ecclesiale, senza soffocare i carismi che possono emergere nei
vari luoghi o persone.
In questo discorso unitario ho cercato d’inserirmi e con
l’aiuto dei confratelli della comunità ho raggiunto buoni
risultati nella lotta contro l’ignoranza religiosa, che resta
l’impegno primario. Oggi, in qualunque posto del Perù, e anche

126
nella barriadas della nostra parrocchia, i genitori che vogliono
battezzare un bambino saranno accontentati solo dopo aver
fatto una preparazione al sacramento insieme ai padrini.
Uguale norma vale per l’amministrazione degli altri
sacramenti. Questo sforzo lo facciamo per evangelizzare
seriamente una popolazione che ha un fondo umano bellissimo,
ma con deboli e scarse nozioni circa la fede cristiana che dice
di professare...».

Lesotho: la mia nuova missione

P. Remigio Villa invia la sua prima corrispondenza dal


Lesotho, la sua nuova missione.
«... Sono già cinque mesi che mi trovo nel Lesotho. Il
tempo passa veloce. Vi dico che mi trovo bene davvero, prima
per la salute. Il clima è ottimo e tutto l’insieme è piacevole: i
Padri Oblati di Maria Immacolata sono tanto buoni e pieni di
premure. I neri sono dei veri Banthu, accoglienti e pronti al
colloquio. La lingua stessa, anche se un po’ dura, è però facile
per la pronuncia. Ed è così che da parecchi giorni celebro la
Messa in ‘sesotho’, sperando che Dio capisca tutto quello che
dico, i fedeli buona parte, ed io l’essenziale...
Sono ancora alle prime impressioni. Bisogna dire che gli
Oblati hanno fatto un ottimo lavoro nei cento e più anni di
apostolato. Quando si vede la gente riempire le chiese e
pregare e cantare con tanta devozione, uno resta davvero
commosso. E con che fervore fanno la comunione! La
difficoltà è il confessare tutta questa gente. Ci sono
nell’archidiocesi di Maseru 42 missioni o parrocchie. Quasi
sempre c’è un solo sacerdote, coadiuvato da un convento di
suore. Al presente in 4 missioni non ci sono sacerdoti fissi: le
suore mantengono la missione come possono.
Che belle missioni! Costruzioni quasi tutte in pietra, che è
il materiale più a buon mercato nel Lesotho. Vi sono poi le

127
scuole, l’università, i seminari, i noviziati e l’ospedale, forse il
migliore del Lesotho.
La piaga del Lesotho è l’emigrazione per il lavoro nelle
vicine miniere del Sudafrica. Su di una popolazione di neppure
un milione di abitanti sono oltre 200.000 gli uomini nelle
miniere. Dunque nei villaggi c’è il vuoto degli uomini... Ecco
perché, malgrado la povertà del Lesotho, la gente appare ben
vestita e ben nutrita. Dopo tutto è una grazia poter trovare di
che vivere. L’emigrazione dovrebbe essere più regolata e più
protetta.
Il Lesotho è un paese indipendente dal 1966: quest’anno si
celebrerà il decennio. Hanno un Re con un Primo Ministro.
Un’altra piaga è la mancanza di boschi. Non ci sono
piante. Gli alberi possono crescere benissimo, ma i neri, forse
sono timorosi che la foresta porti le bestie feroci o aiuti i
crimini. Per fortuna ora il Governo spinge a piantare alberi
ovunque. La gente è lenta ad ubbidire.
D’altra parte c’è molto bestiame, vacche, cavalli e asini. La
gente s’industria ad utilizzare tutto. Quindi non ti meravigliare
quando senti dire che il letame essiccato serve come carbonella
per cucinare nelle case ordinarie dei villaggi. Un altro uso è
quello di plasmare il pavimento della casa: produce l’effetto di
una vera moquette che dura a lungo. L’ho vista anche nella
chiesa di S. Davide. Basta rinnovarla due o tre volte l’anno.
Naturalmente appena plasmata, manda un profumo che sente
più di presepio che dell’acqua di colonia. E come vi dicevo
sopra, serviva e serve ancora oggi nei villaggi, da bitume per le
costruzioni in pietra...».

Madagascar: la scelta socialista

P. Guido Libralato parla della “scelta socialista” del


Madagascar. «... Il Madagascar è un paese marcato da una sua
storia: colonizzato per molto tempo, abituato ad obbedire,
economia dominata per molto tempo dagli stranieri, cultura
128
occidentale imposta. Basta leggere qualsiasi libro per sapere
cosa significhi essere colonizzato: sfruttamento delle risorse
umane e materiali, lavoro obbligatorio senza remunerazione,
arruolamento nelle file della “madre patria”, esportazione delle
materie prime per rivenderle il prodotto finito, imposte ecc...
Indipendenza: di nome ma non di fatto nel 1960. Infatti
tutto era ancora legato alla Francia in modo da impedire il
progresso: neocolonialismo, scambio ineguale. Si arrivò così
agli eventi del maggio 1972 in cui fu rovesciato il Governo.
Referendum popolare e un generale d’armata è scelto a capo
della nazione. Ma le cose non vanno meglio: c’è chi dice che
da allora tutto cominciò a degradarsi, altri affermano che fu il
momento in cui si ritrovò la vera libertà.
Il fatto è che nel gennaio 1975 il capo del governo dà le
dimissioni e designa il suo successore. Il malcontento di alcuni
si esprime una settimana dopo e in modo violento: ammazzano
il capo della stato. Coprifuoco, legge marziale, giunta militare,
scaramucce, qualche morto, si vive per un po’ di tempo dei “si
dice”.
Pian piano le cose si rimettono a posto, quando il 16
giugno si ha la grande novità: la giunta militare sceglie il
nuovo capo di stato: Didier Ratsiraka. Data importante questa
per il Madagascar: il nuovo Presidente fa la scelta socialista.
La gente delle campagne capisce poco il nuovo linguaggio
e la radio comincia la sua campagna propagandistica e pian
piano il significato della nuova ideologia comincia ad entrare.
Dopo qualche mese viene pubblicata la “Carta della
Rivoluzione Socialista Malgascia”.
Programma ambizioso, direte voi, ma fattibile? L’85%
della popolazione è formata da contadini in condizioni di
povertà e proletariato estremo. Gente che vive alla giornata
sperando di mangiare anche domani. Cosa c’è di più
affascinante per questa gente del sentirsi dire che d’ora in poi
lavoreranno per loro e la propria famiglia, per migliorare il

129
proprio livello di vita, per creare una società più giusta dove i
frutti del lavoro saranno equamente distribuiti tra tutti i membri
della società secondo il lavoro dato!
Per questo il 21 dicembre 1975 la gente ha risposto in
massa sì al referendum popolare, rendendo così costituzionale
la scelta socialista.
Euforia quindi, ma bisogna anche rimboccarsi le maniche.
La pancia non si riempie con belle parole. Per riuscire ci vuole
rivoluzione delle mentalità, coerenza tra dottrina e realtà, fra
parole e fatti, fra azione del governo e quella del popolo. E qui
sta il difficile: cambiare mentalità. Saper vedere in là del
proprio interesse personale, oltre il proprio villaggio o lavorare
per progresso di tutta la nazione. Un modo di pensare e di
vivere non si cambia in un giorno, per questo la strada è
disseminata di ostacoli e sacrifici che bisognerà vincere e
superare uno ad uno.
Tutti siamo chiamati a lavorare per il buon successo di
questa rivoluzione. I paesi che hanno colonizzato questo
popolo, anche se cristiani, non hanno saputo e meglio non
hanno voluto dare a questa gente la dignità umana. Essere
capitalisti e nello steso tempo cristiani non è più credibile per
questa gente. Da qui nasce la scelta socialista rivoluzionaria: un
popolo che cerca la sua dignità umana, che Cristo ha predicato
e realizzato e che ci ha detto di portare a tutti gli oppressi. Un
popolo che ha scelto l’indipendenza, la libertà, la dignità, la
giustizia e la pace».

Nuovo Superiore Regionale dei Monfortani in Madagascar

P. Carlo Berton viene eletto Superiore Regionale dei


Monfortani francesi, italiani e malgasci della diocesi di
Tamatave. P. Guido Libralato ne approfitta per tracciare un
bilancio dell’attività missionaria del nuovo eletto.
«E’ solo qualche decina di anni che i missionari
monfortani lavorano nella diocesi di Tamatave. I primi arrivati
130
hanno già ricevuto dal buon Dio il premio delle loro fatiche, gli
altri sono ancora qui che tentano di guadagnarsi il Paradiso.
Anche se inutile rivangare vecchie storie, è un fatto che i
monfortani italiani sono ben pochi nel Madagascar. Ma la
specie sembra buona, visto che sono amati dalla gente per le
opere realizzate e che proprio un italiano è stato scelto come
Vicario Provinciale.
P. Carlo è già noto ai lettori de “L'Apostolo di Maria”, ha
la penna facile e soprattutto ha sempre qualcosa da raccontare:
s’è preso un po’ di malattia dei malgasci. È un veterano del
posto: arrivò qui nel 1956. Si erano messi a fare la guerra a
Suez in quel momento... così, obbligato alla
circumnavigazione, si è potuto godere anche un po’ d’Africa.
Appena arrivato, studia la lingua e dopo tre mesi, già al
lavoro, è brevettato per la predicazione e le confessioni. Tutti i
vecchi Padri hanno fatto la stessa esperienza e all’inizio
ognuno faceva come e meglio poteva. E gli anziani del posto
sorridevano sornioni degli strafalcioni del pivellino.
Dice un proverbio di qui: il figlio del cinghiale che non
riesce a sbrogliarsela, in foresta è destinato a morire. Qualche
anno di “brousse”, tanto per cominciare, fa anche bene,
soprattutto si impara la lingua e gli usi della gente; ma quante
peripezie a piedi e a cavallo!
Nel 1960 il Vescovo chiama P. Carlo in città con l’incarico
di curato. «Abitavo in una casa di legno e tutto solo», racconta.
Non c’era recinto, e tutti quelli che passavano si lasciavano
prendere dalla tentazione di spiare per le fessure per vedere
com’era fatto lo straniero...
Nel 1964 P. Carlo riceve l’incarico di Assistente
Diocesano dell’Azione Cattolica: «... Lavoro interessante,
spiega, che mi ha permesso di girare tutta la diocesi e di
conoscere un po’ tutti: giovani e meno giovani».
Tamatave è una città che ingrossa alla svelta: il porto,
qualche industria. I giovani non se la sentono più di continuare

131
a lavorare la risaia o di bruciare la foresta per piantare qualcosa
da mangiare. La scuola messa in piedi dagli occidentali, sforna
ogni anno dei disoccupati. Si arriva in città per tentare la
grande avventura. Sulle strade se ne vedono molti che
aspettano... aspettano... finché la fame è più forte della
speranza. Allora c’è chi ritorna al villaggio natio, chi invece
comincia a rubacchiare qua e là. Infatti, per aiutare soprattutto i
giovani, è sorto il centro culturale e sociale: maschile e
femminile.
Ogni città ha i suoi sobborghi: la miseria vi regna con
degradazioni di ogni genere. Anche a Tamatave esistono. Ma
se in Europa si vive nelle borgate con la televisione ed
elettrodomestici, qui la povertà è davvero miseria.
Anche la Parrocchia del Sacro Cuore comporta delle
borgate di tal genere: uomini tutto il giorno in cerca di lavoro,
donne che allattano l’ultimo nato, bambini (quanti!) che
giocano sulla sabbia. Anche per loro s’è reso necessario fare
qualcosa; è sorto così un centro di alfabetizzazione e un centro
sartoriale.
I locali della parrocchia per più pomeriggi la settimana
sono pieni di donne che imparano taglio e cucito. Sono
veramente molte quelle che desiderano imparare, alcune a
malincuore devono essere rinviate per mancanza di spazio. I
figli da vestire sono tanti, tanti... e i soldi sono pochi.
“L’aiuto straniero deve essere considerato come un
supplemento, non deve mai diventare un complemento. Ogni
aiuto che non ci aiuta a fare a meno dell’aiuto straniero deve
essere rifiutato": così recita la Carta della Rivoluzione
Socialista Malgascia. Ed è vero: a tutte queste persone non si
dà da mangiare, ma si insegna loro a guadagnarsi onestamente
la vita. Dopo due anni di studio e di lavoro pratico, riceveranno
in regalo alcuni strumenti di lavoro ai quali sono già abituati.
L’inizio sarà forse un po’ difficile, ma il lavoro sicuro e
l’avvenire se non proprio roseo, almeno meno incerto.

132
Ho parlato solo dell’impegno sociale del Padre a Tamatave
e non del resto. Aggiungete il lavoro pastorale nella parrocchia
e vedete che la mole di lavoro non è poca. Ora P. Carlo, col
nuovo titolo, ha lasciato la parrocchia. Il giorno dell’elezione
ha spiegato così il perché dell’accettazione del nuovo incarico:
“Ho qui sotto mano un’immaginetta dove c’è figurato un asino
con la scritta: Il Signore ne ha bisogno, staccatelo! Se il
Signore ha bisogno di me sono pronto ad essere staccato per il
suo servizio. E noi sappiamo come gli sia costato lasciare tutte
le opere iniziate...».

Nuove chiese e nuove scuole a Kankao

P. Giovanni Losa continua la sua opera di aggiornamento


circa i progetti in fase di realizzazione.
«Ci siamo lasciati nel settembre scorso, in occasione
dell’inaugurazione dell’ospedale ‘Papa Giovanni XXIII’ a
Kankao. Da allora, in attesa che maturino gli eventi per il
proseguimento del complesso ospedaliero, il nostro interesse si
è concentrato su altri obiettivi: quello delle chiese e delle
scuole, più un mini progetto per i nostri ragazzi poliomielitici,
che sta per essere terminato in questi giorni.
Così sorsero la chiesa della SS. Trinità a Daimoni, quella
della Madonna del Buon Consiglio a Nziza, e, sempre a Nziza,
il primo tronco delle scuole elementari. Progetto questo,
sostenuto validamente dai bravi ragazzi dell’Oratorio di
Gorgonzola e dalle ‘Mani Tese’ dello stesso paese. Per ovvie
ragioni di spazio, oggi ci occuperemo soltanto della chiesa
della SS. Trinità.
Commento storico. Sorge a 7 km. da Kankao, in località
Daimoni, che fa parte del territorio del capo villaggio di
Chimpakati, la propaggine più lontana e selvaggia. Difatti si
trova ai margini della grande foresta di Nsania, che si estende
fino alla Matope Road, paradiso di caprioli, antilopi, iene e un
sacco di galline faraone, che farebbero venir le travecole anche
133
ad un cacciatore orbo. Ascoltare quanto raccontano gli anziani
della Chimpakati sarebbe uno dei più antichi insediamenti
cristiani della zona.
È stata fondata dai Padri di Utale nel 1926. Allora Utale
estendeva la sua influenza fino a Ulongwe, a Fort Johnston e
Cap Mc Clear sul lago. Prima di guadare il Rivi Rivi e avviarsi
sulle dondolanti amache per i sentieri del Distretto di Fort
Johnston, facevano sosta a Chimpakati o nei dintorni, e a volte
la sosta si protraeva più del necessario a causa di tre o quattro
fiumiciattoli che solcano la zona degli uomini coi loro letti.
A dispetto della sua veneranda antichità, però, la comunità
di Chimpakati ha sempre avuto la fama di essere più incline a
seguire la comunità di Corinto che quella dei Tessalonicesi.
Basta pensare che nella sola Chimpakati pullulano la bellezza
di 10/12 chiesuole più o meno cristiane e bibliche. A tutto
questo va aggiunto un altro fattore: il miscuglio di varie tribù:
Angoni, Alomwe, Ayao... Tutta gente che si vede come il cane
e il gatto.
In breve, i cristiani di Daimoni sentirono il bisogno di una
chiesetta propria e un bel giorno convocarono i loro amici e
fratelli di Chimpakati e, in belle maniere, come solo gli africani
sanno fare, si salutarono, promettendosi di farsi visita a
vicenda. Così il 15 agosto del 1973 potevano già assistere alla
prima S. Messa celebrata nello loro chiesetta di erbe, che
resiste tuttora, quasi le dispiacesse lasciare i suoi fedeli...
La nuova chiesa è lunga 69 piedi e larga 28. Il presbiterio è
in mattoni rosso gress, dono degli amici di Mani Tese di
Gorgonzola. E, “dulcis in fundo”, sulla parte dietro l’altare,
spiccherà una bella tela raffigurante l’Assunzione di Maria in
cielo, opera del carissimo amico e confratello P. Libero
Vitali...».

134
Lima: una città in enorme crescita

Dal Perù P. Pasquale Buondonno invia notizie sull’enorme


crescita della città di Lima.
«Lima col 1976 ha raggiunto i 4 milioni di abitanti. Vuol
dire che quasi un terzo di tutto il Perù vive nella Capitale.
Quando noi Monfortani arrivammo qui, quindici anni fa, la
città contava solo due milioni di abitanti. Con questo ritmo si
prevede che alla fine del secolo essa raggiungerà e supererà
facilmente i dieci milioni, albergando in sé più della metà
dell’intera popolazione.
Il fenomeno è un po’ universale: in tutto il mondo si nota
un flusso dalla campagna e dai monti verso le città ove ci si
illude di trovare lavoro, comodità, divertimenti. Benché nei
paesi più avanzati il ritmo si stia rallentando e si noti quasi un
moto contrario: la confusione assordante delle metropoli fa
preferire la tranquillità della campagna facilmente
raggiungibile con un auto per riposare meglio e trovarsi in
famiglia.
A Lima il fenomeno della crescita avviene in maniera
originale. Nuovi borghi (ieri si chiamavano ‘barriadas’ oggi si
preferisce chiamarli ‘pueblos jòvenes’) con migliaia di abitanti
sorgono nello spazio di una notte.
È recente il fenomeno della nascita improvvisa di tre di
questi ‘pueblos jòvenes’ lungo la nuova strada che conduce da
Lima a Ñaña. Una fungaia di misere capanne in mezzo ad un
terreno ancora più misero perché costellato di pozzanghere e di
scarichi delle immondezze della città. Il fatto che qui non piove
mai significa il sorgere di queste “ville miserie”.
I giornali, come sempre, hanno protestato, i padroni del
terreno o il demanio hanno tirato in ballo argomenti di
giustizia, d’igiene e di sicurezza. In quel luogo vi sono tutti i
sottoprodotti delle spazzature: acque luride, mosche, zanzare,
topi, serpenti... In più il pericolo di linee ad alta tensione che
passano da queste parti per portare elettricità a Lima. Inoltre la
135
facilità degli incendi. Già il fuoco ha ridotto a cenere una
cinquantina di queste capanne di stuoie o di plastica. Vari
bambini sono morti per infezioni. Un giovane di 22 anni ha
voluto refrigerarsi in una di quelle pozzanghere: lo hanno tirato
fuori cadavere.
Tutti giurano, e lo hanno detto anche a due di noi andati a
visitare queste nuove concentrazioni umane, che non
rimarranno lì che per poco tempo: il Governo darà loro un
terreno più comodo. C’è da sperare. Ma l’esperienza parla in
senso contrario. Fino ad oggi tutte queste invasioni si sono
stabilizzate più o meno bene, dopo alcuni anni non fanno più
notizia.
Da dove viene questa gente? In generale dalla montagna.
Vi è una speculazione ben organizzata: individui specialisti del
mestiere. Si è trovato qualcuno che ha occupato abusivamente
anche una ventina di lotti di terreno, naturalmente in posti
differenti, per poi rivendere subito ad altri. Vi sono poi gli
esperti della legge: un avvocato che assiste gli invasori. Si deve
trattare di centinaia di famiglie che in una notte danno l’assalto
al terreno prescelto. Su ogni capannella subito la bandiera
nazionale, intoccabile.
Il padrone o chi per lui interviene appoggiato dalla polizia,
ma dato il numero della gente in cui predominano donne e
bambini, l’intervento s’incaglia e diventa inefficace. Passano i
mesi, passano gli anni e alla fine l’invasione resta legalizzata e
intanto alcuni avranno tirato su una casetta di mattoni, mentre
la città avrà provveduto in qualche modo acqua e luce.
Nella nostra parrocchia monfortana di Ñaña abbiamo visto
sorgere così due grosse borgate e due anni fa è iniziata una
terza. A Lima hanno formato la borgata di Comas che ora
ospita trecentomila abitanti e quella di Villa ‘El Savador’ che
ne ha duecentomila. Nei colloqui avuti con questa gente è
venuta a galla la solita storia: il richiamo di qualche parente o
conoscente della città a scendere dalla Ande.

136
Si ammira lo spirito di organizzazione e di corpo. Sono
sorte subito bottegucce di generi alimentari e di bevande e
perfino un ristorante. Capitata la disgrazia dell’incendio delle
capanne distrutte hanno subito trovato alloggio dai vicini,
perché il numero deve essere la forza per spuntarla col
Governo e con la legge.
E la Chiesa? Andando a visitare le nuove borgate abbiamo
trovato un’accoglienza cordiale. La Diocesi si mette subito in
movimento nella persona del Vescovo Ausiliare incaricato dei
‘pueblos jòvenes’. Egli è già intervenuto per visitare e anche
per celebrare una Messa. Fortunatamente non gli è successa la
cosa spiacevole che gli capitò sette anni fa quando, nella Villa
“El Salvador”, predicando alle migliaia d’invasori, gli uscì
detto di aver pazienza con la polizia, perché Nostro Signore sul
Calvario aveva dovuto soffrire da parte degli ufficiali
dell’ordine pubblico. Poche ore dopo il Vescovo veniva
arrestato e portato in prigione per ordine del Ministro
dell’Interno. Però il pronto intervento del Cardinal Arcivescovo
e dello stesso Presidente della Repubblica lo fecero subito
rimettere in libertà e con tante scuse.
Questo gonfiarsi a dismisura della città, mentre il clero
diventa sempre più scarso, è uno dei problemi più angosciosi
della Pastorale di Lima. Quante volte il Cardinale ha supplicato
noi ed altri di andare a prendere cura di gruppi di 80 e 100 mila
persone per le quali non vi è la presenza di un solo sacerdote!».

India: i senza casa della Capitale

P. Mario Belotti scrive dall’India per parlare dei “Senza


casa della Capitale”. «In Delhi quasi 20.000 senza casa
dormono sul marciapiede. È diventato così comune vedere
esseri umani dormire sul selciato, nonostante il freddo e la
pioggia, che i più fortunati con ci badano più. Ma il numero dei
senza casa sta considerevolmente crescendo come conseguenza
inevitabile di un mancato piano di urbanizzazione.
137
Una fredda notte dello scorso febbraio vedemmo un
giovane raggomitolarsi sui suoi ginocchi che cercava invano di
addormentarsi. Dopo averlo assicurato che non intendevamo
fargli alcun male, ci disse che in tutta la sua vita non ebbe la
consolazione di possedere una casa propria. Nacque ed è
cresciuto in quella stessa piazzetta. Ci indicò poi un albero
sotto il quale i suoi genitori morirono qualche anno fa.
Dopo la morte del padre fece l’accattone per circa un anno.
Poi riuscì a trovare un posto, anche se mal pagato. Con voce
tremante ci rivelò che la sua coperta era più vecchia di lui.
Apparteneva infatti a suo padre. Aveva altre poche cose con sé:
un vecchio lenzuolo, una camicia, un paio di pantaloni ed una
gavetta di alluminio.
Mentre ci parlava il giovane continuava a guardare verso
una ragazza che dormiva sul marciapiede a pochi metri da lui.
Ci disse che era la figlia di un calzolaio e ne era innamorato...
Lasciammo il nostro amico e procedemmo camminando
sul marciapiede. Dopo venti metri circa incontrammo Prem
Sundri. Era molto anziana: probabilmente aveva 85 anni.
Vestiva un sai tutto stracciato e sembrava molto magra e
debole. Faceva la mendicante, ed a motivo della sua età
nessuno obiettava se dormiva all’aperto od in veranda.
Ci raccontò un po’ della sua vita. Suo padre faceva
l’agricoltore. Ella studiò fino alla sesta in una scuola cristiana.
Poi si sposò con un elettricista. Ma dopo 20 anni di matrimonio
rimase vedova. Ebbe due figli che morirono entrambi di vaiolo
quando erano in tenera età. I suoi parenti allora cominciarono a
maltrattarla.
Qualcuno le disse che a Delhi avrebbe potuto
guadagnare qualcosa per sopravvivere. E così, assieme a tre
altre donne, andò nella Capitale. Ma i suoi sogni svanirono
presto: non trovò nessun posto di lavoro, e tanto meno un buco
per viverci. Alla fine decise di darsi all’accattonaggio.
Raccoglieva dall’una alle tre non più di 250 lire al giorno,

138
giusto per procurarsi un pasto. Concluse la sua storia dicendo
che stava desiderosamente aspettando la morte, perché la vita
non le procurò altro che miseria.
Incontrammo un’altra abitante del selciato: si chiamava
Bhagwati Devi. Aveva 29 anni ma ne dimostrava più di 45.
Accanto a lei dormiva un figlio di 4 anni ed una figlia di 8. Con
le lacrime agli occhi si raccontò la sua impressionante storia.
Proveniva da una famiglia borghese. Suo padre era un
uomo d’affari. I suoi fratelli erano impiegati statali. Lei aveva
frequentato l’università, conseguito un diploma in scienze
casalinghe ed in dattilografia. Si sposò nel 1967 con un
giovane abbastanza ricco. Ebbero anche una casa tutta loro. Ma
questa felicità durò solo tre anni. Ci fu una disputa in famiglia,
ed i fratelli ruppero ogni relazione con il vecchio padre,
lasciandolo solo e nella più squallida miseria.
Bhagwati decise di accoglierlo a casa sua. Ma suo marito
le si oppose violentemente, scacciandola di casa insieme al
vecchio padre che morì sul marciapiede.
Questi sono i casi della capitale dell’India. Ma secondo un
recente censimento nelle quattro metropoli dell’India: Delhi,
Madras, Bombay, Calcutta, i senza tetto sono più di 200.000 ed
in tutta l’India sono più di 500.000».

Ritorno felice tra i miei lebbrosi: grazie!

Dal Madagascar Suor Alessandra Clara Martini invia il suo


grazie riconoscente dopo essere tornata tra i lebbrosi di
Ampanalana.
«Ritorno felice tra i miei lebbrosi di Ampanalana. Quanti
incontri, quante sorprese, quanti ricordi porto nel cuore! Però
prima di lasciarvi vorrei ripetere a tutti quanto ebbi occasione
di dire più volte, anche dal pulpito di qualche chiesa.
Missionari nel mondo e nella Chiesa di Dio siamo tutti: noi e
voi! Noi che lavoriamo a stretto contatto dei poveri in terre
lontane, voi che costruite le nostre retrovie più valide con la
139
vostra preghiera, col vostro aiuto materiale senza il quale
potremmo fare ben poco, con la vostra simpatia che ci sostiene
davvero, specie quando le difficoltà sembrano insormontabili e
la stanchezza si fa sentire...
E anche a voi dico: non ammirateci, ma continuate ad
aiutarci! Se fino ad oggi abbiamo potuto realizzare qualcosa
per i lebbrosi di Ampanalana e i loro figli è perché non
eravamo sole!».

Una commovente sensazione di ospitalità

P. Lorenzo Pege dalla missione di Namalaka fa sapere:


«Da una settimana mi trovo nella mia missione. La lunga
assenza di sei mesi trascorsi in Italia spiega l’incessante
processione di ragazzi, giovani, uomini e donne che vengono a
porgermi il benvenuto con tanti piccoli doni: riso, pannocchie,
banane, canna da zucchero, uova e qualche gallinella. Sono
sufficienti questi piccoli gesti per scoprire fino in fondo la
commovente sensazione di ospitalità di questo paese dove si
ritrovano valori e usanze gentili che da noi si sono perdute o
sono andate alterate dalle cosiddette convenzioni sociali.
Sto bene attento a mostrarmi cortese e allegro anche se in
verità non ho ancora smaltito una profonda nostalgia, poiché la
preoccupazione e di conseguenza il viso corrucciato sono alieni
alla mentalità malawaiana, anzi vengono considerati come uno
sgarbo, un’offesa.
Fra tanti tipi che mi vengono a trovare c’è anche un certo
Kalulu, un musulmano quanto mai simpatico: nero alabastro,
alto, robusto, con un testone sproporzionato sul viso. Da
quando gli ho procurato varie sementi per il suo giardino non
mi lascia più in pace. Un urlo di gioia accompagna la nostra
poderosa stretta di mano...».

140
Veramente qui la gente ama cantare

P. Gioacchino Sangiorgio esprimere una sua seconda


impressione, dopo il suo arrivo in Malawi.
«Veramente la gente di qui ama cantare. Ed ogni occasione
è buona per cantare. Cantano in occasione di matrimoni, di
funerali, di feste, di celebrazioni liturgiche. Sentono il canto.
Lo amano tutti e vi vogliono partecipare. Il canto di uno o di un
gruppo diventa immediatamente il canto di tutti. Avviene
questo perché chi canta si abbandona a motivi musicali
conosciuti dalla gente o piuttosto perché la gente ha un
orecchio intonato e prende subito l’aria del canto?
Naturalmente ho avuto modo di seguire soprattutto il canto
in chiesa, diverso dal nostro. Un canto che porta la musica dei
loro villaggi, parla in maniera efficace al loro animo ed evoca
emozioni e sentimenti profondi. E quanto fa piacere, durante la
Messa solenne, sentire tutti i fedeli che riempiono la chiesa.
Uomini e donne, giovani e signorine, bambini e vecchi,
cantano...
Si ha anche l’impressione, quando si offre loro la
possibilità di cantare, che è meglio dimenticare in camera
l’orologio, per non essere nemmeno tentati di controllare il
tempo che passa. Sì, perché godono tanto il canto e amano
effondervisi senza condizioni e limitazioni. Per loro le
celebrazioni liturgiche in canto non sono mai troppo lunghe. È
una realtà questa che deve tenere presente il padre celebrante, e
farà bene ad accorciare un po’ la predica se non vuole che la
Messa duri due ore o magari di più. È più facile che la gente si
addormenti per la predica che non per il canto.
Più di una volta, accorgendomi di essere preso
dall’emozione, udendoli cantare, mi sono chiesto: Perché tanto
amore e tanta effusione nel canto? Forse perché in esso trovano
una maniera bella, piacevole di dimenticare le tante prove e
privazioni della vita quotidiana? O non piuttosto perché c’è nel
loro canto il gemito spontaneo di una preghiera fervida al

141
Signore che ha sfamato i poveri, guarito gli ammalati,
prediletto i deboli ed i miseri?
A tutte le anime di buona volontà lascio la gioia di poter
diventare strumenti nelle mani del Signore per aiutare quanti si
trovano veramente nel disagio!

Nel numero di dicembre «L'Apostolo di Maria» ospita


alcune testimonianze di persone che hanno visitato le missioni
monfortane in Madagascar, in Malawi e in Perù.

Il viaggio di Mamma Carolina in Madagascar

In Madagascar si reca la signora Carolina, la mamma di p.


Angelo Rota. L’accompagna la signorina Maria Gangemi,
missionaria di Maria.
«I cristiani della parrocchia ‘Sacro Cuore’ di Tamatave
aspettavano la mamma di P. Angelo e l’accoglienza è stata
festosa. Tutti volevano stringerle la mano. Mamma Carolina si
è sentita assai confusa per un affetto così spontaneo nella sua
semplicità da gente sconosciuta.
Nei quindici giorni di permanenza abbiamo visitato i vari
centri di formazione per la gioventù: l’orfanatrofio, le prigioni,
l’ospedale, il lebbrosario. Ovunque l’accoglienza è stata
cordiale e affettuosa, ma quanta miseria e disagio si può
costatare nelle abitazioni!....
Siamo stati profondamente commossi per l’accoglienza e
l’ospitalità dei Padri, delle Suore e delle comunità cristiane, per
i loro calorosi ringraziamenti. Certamente essi non hanno
immaginato quale lezione di carità hanno dato a noi con la loro
spontaneità.
Con spiccato senso musicale e con i canti, i malgasci ci
hanno espresso la loro gioia e la loro sofferenza. Abbiamo
ancora negli occhi il coro compatto e armonioso delle loro
voci, durante la celebrazione eucaristica, alla quale partecipano
numerosi, attivamente e con devota attenzione.
142
“Vorrei essere più giovane, dice mamma Carolina, per
fermarmi con mio figlio e aiutarlo nella sua missione...”».

La mia esperienza di un viaggio in Malawi

Della sua esperienza in Malawi scrive Fiorenza Celoria.


«Da due anni a questa parte il mio sogno più grande era quello
di andare a fare un’esperienza in un paese di missione.
Conoscevo i problemi del Terzo Mondo attraverso l’esperienza
dei missionari del mio paese e tramite i mezzi d’informazione,
però nell’uomo c’è sempre quella caratteristica che lo spinge a
voler toccare con mano e, nel mio caso, a voler provare a
vivere la vita di un missionario. E finalmente il 2 luglio scorso
con altri nove sono partita per il Malawi...
In Malawi ho avuto modo di visitare molti villaggi ed è
proprio in uno di questi che ha avuto inizio una commovente
vicenda nella quale mi sono trovata coinvolta. Mi trovavo nella
missione di Maceda dove P. Gianbattista Maggioni doveva
celebrare la S. Messa. Poco prima di tornare dalla missione
ecco avvicinarsi una donna con una bambina in braccio e un
bambino attaccato alla gonna. Il loro aspetto era di una miseria
commovente.
La donna voleva far battezzare la figlia perché era malata e
da una settimana non riusciva a reggersi in piedi. Prima di
battezzarla il padre volle portarla in ospedale per vedere che
cosa avesse e se la si potesse curare, ma sia il medico della
missione sia la dottoressa dell’ospedale di Namwera
sentenziarono che era troppo tardi per fare qualcosa. La
bambina aveva avuto un attacco di poliomielite e sarebbe
rimasta paralizzata dalla vita in giù. Le ho fatto da madrina in
occasione del Battesimo e le ho dato il mio stesso nome...».

143
In Malawi si reca anche P. Battista Ceruti

«E’ il primo giovedì del mese di agosto, mi trovo nella


missione di Mpiri dove risiede P. Gianbattista Maggioni. Verso
le otto il Padre mi invita ad andare con lui per celebrare la S.
Messa in due villaggi. La strada tutta buche si inoltra per molti
chilometri fra villaggi, piantagioni di cotone e fagioli, alberi di
mango e baobab ed erbe alte anche due metri.
Lungo la via ci fermiamo più volte per far salire sul
furgoncino ammalati e donne ormai prossime alla maternità
che si recano all’ambulatorio del villaggio. Qui una suora
infermiera, durante tutto il giorno, li visiterà e darà loro le cure
del caso.
Alla chiesa capanna del villaggio sono ad attenderci solo
alcuni cristiani. Saliti in macchina, ripartiamo per l’altro
villaggio. Qui la gente è accorsa numerosa. Scendo dal
furgoncino e con Padre missionario mi avvicino al luogo
predisposto per la celebrazione. Rimango subito colpito dal
campanile: un cerchione di auto appeso ad una catena di
bicicletta e per batacchio un pezzo di pedale pure di bicicletta.
Si avvicina P. Gianbattista Maggioni: “Battista, mi dice, ci
sono due bambine da battezzare, vuoi farlo tu?”. Un nodo mi
sale alla gola, fin da bambino ho sempre sognato di poter
battezzare un bambino nero in Africa. Ora, inaspettata, mi si
presenta l’occasione.
Per circa un’ora mi esercito nella lettura in lingua
chichewa del rito del battesimo. Tutte quelle parole ricche di
tante acca, di tante cappa e di tante doppie mi si rivelano un
ottimo scioglilingua.
Verso mezzogiorno iniziamo la Messa. Dopo la liturgia
della parola, visibilmente emozionato, amministro i due
battesimi. I nomi per le due bambine li scelgo io. La prima
bambina la chiamo Maria, in omaggio a mia mamma, la
seconda Teresa, in onore della patrona delle missioni. Quanta
gioia! Al termine della Messa, scattate le foto ricordo, le

144
mamme, le madrine e i parenti delle neobattezzate, in segno di
gioia, si esibiscono in danze e canti popolari».

Dopo un viaggio in Perù

Anche le due Sorelle Cortinovis, di Costa Serina, tornando


da un viaggio in Perù, dove vive la sorella Suor Linda, Figlia
della Sapienza, raccontano la loro esperienza.
«Descrivere quello che abbiamo visto e, soprattutto, ciò
che abbiamo provato dentro di noi, è una cosa impossibile.
Vorremmo gridare a tutti: Andate in Perù a vedere le
meravigliose opere dei missionari, il loro apostolato in mezzo
alla gente. Ne vale la pena!
Abbiamo viaggiato per intere giornate. Le strade
provinciali sono peggiori delle nostre mulattiere di montagna,
abbandonate.
Ci ha colpito l’estrema povertà della gente, bisognosa di
tutto, indifesa e sfruttata. Persone che vivono nella sporcizia,
privi anche del necessario, perfino dell’acqua e, perciò, facile
esca ad ogni sorta di malattie.
Azzardarsi poi a prendere un pullman bisognava avere un
coraggio fuori dal comune. È preferibile salire sul reparto
riservato agli animali. Questa gente però è di animo buono,
molto ospitale e generosa: offre volentieri tutto quello che ha.
Siamo convinte che chi presta la loro opera ai peruviani, come i
missionari, compie un’azione meravigliosa davanti a Dio e agli
uomini.
Quanto abbiamo visto ci ha fatto riflettere seriamente e ci
siamo chieste: come possono i missionari nutrirsi in maniera
conveniente per sostenere la gran mole di lavoro, se la loro
gente non mangia a sufficienza e male?... E la solitudine? È
impossibile non avvertirla anche in mezzo a una moltitudine
che non sa dialogare, che non si pone problemi, non frequenta
la scuola. Come possono essere aiutati dal Governo, quando i
capi, che lo rappresentano, sfruttano i poveri?... Eppure
145
abbiamo scoperto in questi missionari, di cui siamo stati ospiti,
la gioia di vivere, la serenità nell’amare i poveri, gli ammalati,
gli sfruttati, gli abbandonati, l’entusiasmo di fare e sempre
accompagnati da un sorriso che incanta. I giorni trascorsi in
Perù non li dimenticheremo!».

Ho deciso di costruire una struttura per poliomielitici

P. Giovanni Losa fa sapere: «Stanco di stare da solo ho


pensato di formarmi una famiglia. Si tratta del progetto di
costruire una struttura per ragazzi poliomielitici.
Proprio in quei giorni stavo ultimando l’ultima casetta
che deve ospitare i nostri ragazzi poliomielitici. Mentre le
operazioni di muratura vanno avanti, dal canto mio cerco di
portare avanti altre operazioni: rifornirla del necessario.
Seguendo questa linea ho comperato sei lettini e altrettanti
materassini... Il resto, piatti, stoviglie, attrezzi di cucina,
verranno in seguito, man mano che se ne presenterà il
bisogno...».

Lesotho: X anniversario dell’indipendenza del Paese

P. Remigio Villa, scrive dal Lesotho per informarci sulle


manifestazioni per il X anniversario dell’indipendenza del
Paese.
«Dieci anni di indipendenza ben meritano di essere
celebrati. Pace: malgrado una crisi di alcuni anni fa, la pace è
sempre regnata nel Lesotho. Pace accompagnata da una vera
libertà che le nazioni africane moderne se la possono sognare.
Eccetto pochissime unità, ovunque regna la dittatura più nera.
Nel Lesotho regnano la pace e la libertà; il Partito
d’opposizione parla liberamente, critica il Governo senza paura
di essere messi in prigione o in un campo di concentramento.
Pula: nel Lesotho la pioggia è sempre aleatoria. C’è stato
un disboscamento totale del paese. Quindi piove quando...

146
piove. Ma da due anni la pioggia sembra essere più
abbondante. Anche il Governo ha lanciato da anni “la
campagna per l’albero”. In futuro si vedranno i frutti.
Nala: progresso o abbondanza. Un miglioramento c’è stato
e grande. Quando confrontiamo gli abitanti del Lesotho con
quelli delle altre nazioni africane, bisogna ammetterlo: il
Lesotho è molto più progredito che non le altre nazioni...
Il clima freddo ha spinto a vestirsi: si possono contare
coloro che camminano ancora a piedi nudi. Dal Sudafrica
arrivano continuamente sacchi di farina di granoturco e di
frumento. Il pane non è più una rarità, ma viene consumato
anche dai più poveri. La scuola è frequentata. Tutti amano
imparare a leggere e scrivere. Ciò che colpisce è soprattutto
l’evoluzione della donna, superiore, a volte, a quella
dell’uomo.
Quando l’Inghilterra diede l’indipendenza al Paese, dieci
anni fa, il Lesotho faceva pietà. C’erano sì e no dieci chilometri
di asfalto. Ora invece c’è una buona rete di strade asfaltate che
collegano i vari distretti nella pianura.
Si spera di trovare delle miniere. L’agricoltura è
rudimentale, tuttavia il terreno viene arato. Il raccolto è povero.
Occorrono industrie: alcune sono state costruite e danno lavoro
a quasi trenta mila operai. Il Lesotho ha un popolo energico,
molto fiero, amante della fraternità.
Alle celebrazioni ufficiali erano presenti parecchie
rappresentanze diplomatiche, compreso il Delegato del Papa.
Con ragione, quindi, diceva il Primo Ministro: Visitatori,
guardate voi stessi il Lesotho! Vedete come qui ci sia pace,
progresso...
Sua Eccellenza Mons. Francesco Colasuonno, Delegato
Speciale del Santo Padre per l’occasione, venuto dal
Mozambico, esaltò il progresso del Lesotho in questi dieci
anni. Durante la solenne concelebrazione nella cattedrale di
Maseru, domenica 3 ottobre, prevedeva uno sviluppo ancora

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maggiore, non solo materiale ma anche spirituale, con la
nascita di nuove diocesi».

La situazione reale in cui versa l’India

P. Mario Belotti fa sapere la situazione reale in cui versa


l’India in cui si trova a svolgere la sua attività missionaria.
«Per avere un’idea più chiara al riguardo, basti osservare
questo grafico che documenta la condizione sociale degli
abitanti: 10 milioni di benestanti; 60 milioni di media
borghesia; 250 milioni sulla soglia di povertà; 250 milioni sotto
la soglia della povertà.
Interessante osservare anche la distribuzione della
ricchezza: i benestanti e la media borghesia, che costituiscono
il 13% della popolazione in India, godono il 62% di tutte le
entrate nazionali; il rimanente 38% delle entrate viene
distribuito tra i poveri che costituiscono l'86,5%.
Lo stesso discorso vale per la distribuzione delle proprietà:
il 12,8% costituisce il gruppo dei grossi-medi proprietari e
possiedono il 59,1% delle zone coltivabili in India; i piccoli
contadini rappresentano il 57,6% della popolazione e possiede
solo il 7,1% delle zone coltivabili.
Come si vede, la disparità tra coloro che “hanno” e coloro
che “non hanno” è fortissima. Il fatto diventa ancora più grave
se si pensa che al Governo ci stanno persone provenienti solo
dal gruppo dei grossi-medi proprietari, e tutte le leggi sulle
proprietà sono fatte naturalmente a loro uso e servizio...».

Quando i bambini malgasci si organizzano

P. Carlo Berton informa dal Madagascar su quanto sanno


fare i bambini quando si organizzano:
«Chi non conosce Morarano a Tamatave? È il quartiere dei
poveri! Quelli che vogliono costruirsi una capanna senza
passare al servizio urbanistico si sistemano qui: zona senza

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strade tracciate, senza acqua, dove ognuno si arrangia.
Casupole di foglie, di paglia, di lamiere, di compensato, di
vecchi bidoni appiattiti. Solo viottoli strettissimi formano un
dedalo nel quale P. Angelo Rota ed io ci perdevamo spesso.
Ora più. Da tre anni abbiamo creato un centro per la
formazione professionale femminile. I tiratori dei risciò
portano le loro mogli: “... che imparino a lavare, stirare, a
cucinare un po’ meglio”.
Le bambine creano il loro centro. Mentre le mamme si
davano da fare sotto la guida di Suor Germaine Talata e di due
signorine sarte, le ragazzine si interrogarono: “Ma a noi chi
pensa?”. Andarono a trovare Monique, una catechista del
quartiere. “Tu ci devi aiutare: anche noi vogliamo imparare a
fare qualcosa. Molte di noi non vanno a scuola, non essendoci
posto. Almeno sapremo cucire e rammendare”.
Senza troppo tardare, le ragazze trovarono alcuni aghi e
dei pezzetti di stoffa. Sedute sulla veranda del Centro sartoriale
e, sbirciando per la grande porta sempre aperta, iniziarono a
fare piccoli orli al proprio scampolo.
Delegazione delle bambine. Le adulte continuavano
imperterrite il loro lavoro. Pensavano che le bambine tra i 6 e
12 anni si trastullassero. Dopo un incontro con la catechista
Monique, ecco una ventina di ragazzine invadere il salone e
chiedere udienza alla Suora ed alle due sarte. “Anche noi
vogliamo imparare! Non vogliamo incominciare quando
avremo i capelli bianchi a studiare e saper far qualcosa”.
Le donne si guardarono tra loro. Alcune mamme già si
preparavano a dare due scapaccioni alle loro figlie, quando
Suor Germaine disse: “Proprio poco fa ho letto le parole:
lasciate i piccoli venire a me. Queste ragazzine non hanno solo
bisogno di balocchi e bambole: vogliono saper cucire, stirare,
rammendare, lavorare l’uncinetto, ricamare...”.
La cosa si seppe nel quartiere. Se passate da Morarano il
martedì e giovedì pomeriggio potete vedere fino a 40 ragazzine

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tra i 6 e gli 11 anni cucire, tagliare modellini di carta, fare la
calza, fare vestiti per i fratellini e sorelline, delle cuffiette...
Suor Germaine mi scrive: “Padre Carlo, le mie bambine
stanno preparando una vendita esposizione dei loro lavoretti.
Inviteranno i notabili di Morarano, Ambalakisoa,
Ambolomadinika e Poudrette. Sarà una festa di queste
adolescenti fiere del loro lavoro. Ora vogliono insegnare alle
altre ragazze più povere. Non potresti scrivere in Italia agli
amici. Ci occorrerebbero: aghi, forbici, nastro da sarta per
misurare la stoffa, uncinetti, un po’ di lana. Con i piccoli doni
si possono fare miracoli di attività. Conto su di lei, Padre
Carlo...».

Balocchi usati degli amici italiani

“E’ arrivata una nave carica di...”. Così scrive Suor


Alessandra Clara Martini dal suo “Village des Lépreux”. Si
tratta di grandi pacchi confezionati durante la breve vacanza in
Italia, contenenti “Balocchi usati”.
«Dopo il pranzo ci accingemmo ad aprirli. La prima ad
essere estasiata fu proprio Suor Germaine. Guardava e toccava
le bambole nate dalla tenerezza delle mamme di Bruxelles della
Fondazione ‘Riou’ e le automobiline, dono degli amici italiani.
“Che bei giocattoli! Un sogno!...”. Rientrarono a casa col loro
balocco prezioso, gli uni accanto agli altri, ammirando bambole
e automobili... con uno sguardo pieno di luce, un sorriso che
parlava di gioia...».

Padre Tarcisio Zanga viene ordinato sacerdote

Il 18 dicembre, nel Santuario “Maria Regina dei Cuori”


di Redona (BG), viene consacrato sacerdote a cinquant’anni, P.
Tarcisio Zanga, fratello di P. Ernesto e di due Figlie della
Sapienza: Suor Clara e Suor Giovanna. Lo consacra Mons.

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Clemente Gaddi, vescovo di Bergamo. Ben presto P. Tarcisio
raggiungerà in Perù P. Ernesto e Suor Giovanna.

La proverbiale pazienza africana

P. Gioacchino Sangiorgio, attento alle usanze e tradizioni


della gente, racconta la “pazienza africana”.
«Qui in Africa è tutta questione di pazienza e poi di
pazienza ancora... Naturalmente anche il Padre, che lavora in
mezzo a loro e per loro, deve tenere nel dovuto conto questa
bella, profondamente radicata, universalmente praticata, virtù
della pazienza.
Si va da uno per noleggiare il camion, che serve per la
sabbia, mattoni ecc... L’intesa è presto raggiunta: per lunedì il
camion sarà alla missione. Il padre, in tutta fretta, cerca ed
ingaggia doversi uomini per il lavoro. Arriva lunedì, quasi tutti
gli operai sono presenti perché c’è di mezzo la paga. Il camion
però non c’è. Passa un’ora, due, tre ed il camion non arriva.
Via allora di corsa verso l’interessato, che, con calma,
beatamente, ti dice: “Padre, è lunedì. L’autista non è venuto; si
vede che ieri ha bevuto un po’. Se non capiterà nulla domani il
camion sarà da lei”.
Per chi è riuscito a farsi “africano con gli africani” la
soluzione è molto semplice: un po’ di pazienza, una buona
fumatina, e domani si vedrà. Quanto agli operai si pagano in
santa pace: dopotutto per un ministro di Dio i soldi non devono
mai contare troppo...».

Anivorano: benvenute le Suore Orsoline di Verona

P. Antonio Marchesi annuncia con soddisfazione l’arrivo


delle “nostre sorelle bianche”. Si tratta dell’arrivo delle Suore
Orsoline di Verona nella missione di Anivorano.
«...La regione di Anivorano, nel Madagascar, è una delle
prime che ha avuto la fortuna di ricevere la visita dei

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missionari monfortani, grazie al treno che l’attraversa per
settanta chilometri. È una regione molto fertile e fornisce alla
capitale Tananarive una quantità enorme di banane, arance,
mandarini, ananas, noci di cocco e il famoso zènzero, tanto
gustoso nei condimenti.
Non si contano poi le incantevoli colline e i fiumi ricchi
d’acqua, ma rare le strade e quelle che ci sono ridotte ad
impraticabili sentieri. Quando il missionario deve intraprendere
un viaggio vuol dire per lui compiere dai cento ai duecento
chilometri a piedi in mezzo a macchie, cespugli e foreste.
Nonostante le difficoltà delle comunicazioni la missione si
sviluppò rapidamente. Il piccolo seminario di Tamatave trovò
ad Anivorano una collina ideale e un terreno fertile. Una
foresta immensa dava vita a una falegnameria che a quei tempi
era ritenuta la migliore di tutto il Madagascar.
La gente si stimava felice ed orgogliosa e sognava un
avvenire meraviglioso. E quando il Padre Van Preecken, nel
1929, tracciò le fondamenta della nuova chiesa, 42 metri di
lunghezza, tre navate, due braccia di 28 metri, nessuno ebbe a
ridire.
Purtroppo gli avvenimenti cambiarono rotta. Con l’avvento
delle locomotive a diesel, la stazione, prima deposito di
combustibile, legna, carbone, perdette d’importanza e gli
abitanti emigrarono in altre regioni. In seguito si giudicò bene,
nel 1965, di trasferire il seminario minore a Tamatave, vicino
all’episcopio. La popolazione rimasta ad Anivorano ne fu
profondamente amareggiata.
Con la partenza di molti europei anche la falegnameria non
trovava più un lavoro sufficiente per poter esistere. Allora il
pensiero volò ancora a Tamatave, là certamente si sarebbe
trovata una clientela numerosa. E così, un brutto giorno, furono
caricati tutti i macchinari sul treno e con essi furono portate via
tante belle speranze.

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Nel 1973 non vi rimaneva che un solo missionario, il quale
si esauriva nel visitare le quaranta cristianità, sparse nella
foresta. Il Padre, animato da tanta buona volontà, rivolgeva
ogni suo sforzo a salvare il salvabile. Ciò nonostante il centro
di Anivorano perdeva a vista d’occhio di stabilità e bellezza,
travolto e soffocato da ogni sorta di erbe, rovi e spine. Tuttavia
il piccolo gruppo di cristiani, sempre coraggioso e compatto,
continuava a riunirsi regolarmente ogni domenica, anche se il
Padre era lontano. Pregava ed aspettava...
Anivorano era diventata la missione dei contrasti. Un
chiesa immensa, solida nella sua pietra viva; un seminario
minore in cemento armato, con tanti finestre, verande spaziose,
ampi dormitori vuoti, avvolti in un glaciale silenzio. Quanta
pena e tristezza! Chi poteva rianimare un corpo così mal
ridotto? Nel cuore di tutti viveva una speranza: le Suore. Ma
dove trovarle?
Si cercò, si bussò a tante porte, finché un giorno abbiamo
avuto la gioia, veramente inaspettata, di constatare che le
nostre suppliche erano state esaudite. Le Suore Orsoline di
Verona spalancarono non solo le loro porte, ma anche i loro
cuori. Accettarono di visitare la nostra missione.
La Madre Generale in persona, nel maggio 1974, prese il
treno per Anivorano. Ma, neppure farlo apposta, sembrava che
il diavolo e suoi satelliti si fossero uniti insieme per impedire
che il nostro sogno si realizzasse. In casa non c’era anima viva,
all’infuori dei fastidiosi insetti e una quantità di topi che
scorazzavano dappertutto. Il treno nel quale si trovavano le
Suore si fermò in mezzo alla foresta...
Poco e magro il cibo e, in aggiunta, una notte in bianco.
Conseguentemente la nostra paura di un netto rifiuto era ben
fondata. Ma chi non sa che opere del Signore incominciano
tutte con dei contrasti!...
Fortunatamente le Suore non hanno tenuto conto di queste
prime impressioni, anzi, sospinte dalla grazia del Signore, ne

153
hanno tratto un buon auspicio. Non si sono fatte pregare di
ritornare, in seguito, ad hanno così potuto constatare che
l’ambiente stava mutando rapidamente, grazie alla buona
volontà, all’assiduo lavoro e all’opera intensa ed efficace del
piccolo gruppo di cristiani.
Siamo giunti così al 27 ottobre, data che resterà
memorabile per la nostra missione. Quel pomeriggio c’era tutta
la gente alla stazione. I non addetti ai lavori si chiedevano il
perché. Le loro idee si sono chiarite solo all’arrivo del treno,
quando le tre Suore Orsoline di Verona arrivarono, accolte da
un possente: Tonga soa!!! Ben arrivate le nostre bianche!
Quanti sorrisi e strette di mano. I bambini erano poi
scatenati. Mi venivano i mente i films western, quando ad un
certo punto tutti scattavano in piedi gridando: arrivano i nostri!
Proprio così. Nella circostanza anche il treno dovette
prolungare la sosta di dieci minuti. Quindi una lunga
processione che sembrava non finire mai...
La prima visita fu alla chiesa, dove un canto, di quelli
maiuscoli, sottolineò la gioia di tutti. Nel breve tragitto che
portava alla casa delle Suore ho notato un cambiamento
impercettibile, ma reale. Constatai che alcune persone anziane
cedevano volentieri il passo agli altri, preferendo restare in
coda. Erano diretti alla vecchia falegnameria, destinata ad
essere la dimora delle Suore. E quei buoni vecchi avevano
vergogna di presentare una simile casa, che, malgrado le
numerose riparazioni, restava sempre una spelonca. Ma non era
una sorpresa per nessuno, neppure per le Suore. Esse stesse si
erano rifiutate di abitare nel seminario, perché di grosse
dimensioni e fuori mano. Avevano preferito la vecchia
falegnameria più modesta e più vicina alla gente. E cantando
entrammo tra quelle povere mura.
La domenica 31 ottobre è stata la giornata
delliinstallazione ufficiale da parte del nostro Vescovo, presenti
le autorità del luogo e una numerosa folla. Non mancarono i

154
discorsi, le promesse di collaborazione, i programmi e molte
foto. Ed una fraterna agape ci strinse ancora più
affettuosamente nell’armonia dei cuori e degli intenti.
Le giornate che seguirono furono spese in un lavoro
assiduo di sistemazione. Più tardi bisognerà pensare ad una
casetta più conveniente e più adatta ed attrezzata di tutto il
necessario per una scuola vera....
La venuta delle Suore Orsoline di Verona è un grazia e una
benedizione del Signore per Anivorano!».

155
1977
Grande fervore missionario

Nuove partenze per il Malawi

“Esci dalla tua terra e va”. Con questo titolo “L’Apostolo”


di Maria annuncia la partenza di due nuovi missionari per il
Malawi: P. Mario Pacifici e P. Eugenio Salmaso.
«... Siamo partiti per l’Africa ed è doveroso rivolgere un
cordiale saluto a tutti e un sincero ringraziamento. Stiamo
finalmente vivendo il motivo che ci ha animato per lunghi anni
di preparazione al sacerdozio. Si è realizzato il sogno
missionario della nostra vita.
Accogliamo, pieni di timore e di speranza, sentimenti che
dentro ci fanno sentire perfettamente consapevoli della nostra
responsabilità, l’invio che il Signore rivolse a suo tempo ad
Abramo: esci dalla tua terra e va’...
Abbiamo lasciato la nostra terra, la nostra gente, i nostri
cari, quanti ci hanno seguiti ed aiutati in svariati modi. Certi
della presenza dello Spirito Santo, animati da profondi
sentimenti di donazione, siamo pronti a spendere ed impiegare
le nostre giovanili risorse. Siamo sicuri di essere mandati e
sostenuti da voi, amici carissimi. Ora ci inviate come vostri
rappresentanti. Non ci sentiamo soli, sprovveduti e
abbandonati, ma consapevoli di adempiere una missione che ci
vedrà tutti coinvolti...».

Nuova partenza per la missione in India

Parte per l’India un nuovo missionario: P. Isidoro


Tomasoni. di Bolgare (BG).
Prima di lasciare l’Italia scrive: «Accolgo con gioia
l’invito a scrivere qualche riga su “L’Apostolo di Maria”, per
partecipare ai lettori o sentimenti e le ansie che vivo nel partire
156
per l’India. Come ho avuto modo di esprimere a più di una
persona, non mi sento un eroe nell’intraprendere una grandiosa
avventura. Per quanto partire comporti lasciare familiari, amici
e il proprio paese, non sono partito per un’impresa personale,
ma in nome dell’invito del Signore che come ad Abramo
chiede a me di lasciare la mia terra e di andare dove egli mi
mostrerà...
Rispondere a questo invito esige un po’ di coraggio ed è
questo che forse manca ai cristiani dei nostri giorni. È certo più
comodo e dà maggiore garanzie restare nella propria patria...
Molti si chiedono ancora: “Perché tocca proprio a te fare
questo passo?”. Posso rispondere solo che lo stesso invito
Cristo lo rivolge a tutti noi, solo che poi ognuno risponde in
proporzione alle proprie capacità, al proprio coraggio, al
proprio amore, e perché no, alla propria fantasia.
Non tutti possono partire per l’India o per altri paesi
lontani, lasciando tutto. Per questo il sacerdote, la suora o il
laico devono sentirsi sostenuti da una comunità, e partendo
vanno anche a nome di chi condividendo la stessa ansia per il
Vangelo, non può lasciare la propria professione o la propria
famiglia.
Cari lettori, vorrei chiedervi di sostenermi in questo
momento e durante il mio futuro lavoro con la vostra preghiera,
perché possa essere fedele alla chiamata di Cristo a servire gli
uomini e a camminare specialmente con i più bisognosi di
fraternità e di annuncio cristiano».

Arrivano a Nankwali le Suore Sacramentine

Dalla missione di Nankhwali le Suore Sacramentine fanno


sapere che è iniziata la loro avventura missionari in Malawi.
«Eravamo impazienti la mattina del 16 dicembre a Balaka
mentre con i nostri bagagli attendevamo la venuta di Mons.
Assolari che ci avrebbe accompagnate in macchina alla nostra
missione a Nankhwali.
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Da tre mesi circa ci troviamo presso le carissime Madri
Canossiane le quali, ci avevano accolte come fossimo membri
della loro stessa famiglia religiosa e ci davano una mano
nell’apprendimento della lingua cichewa. La desiderata
“galimoto” non si fece molto attendere e dopo un rapido saluto
alle sorelle Canossiane, viaggiavamo a 120 km. All’ora sulla
strada per Nankwali, mentre il sole stava tuffandosi nel lago
Malawi e mandava nel cielo gli ultimi raggi infuocati tingendo
tutto di rosa. C’era ad attenderci il nostro parroco, P.
Alessandro Pagani, felice di avere finalmente l’aiuto delle
Suore. Con grande disponibilità ci ospitò nella sua casa finché
la nostra fu abitabile.
I giorni precedenti al Natale, in quella casetta bianca, in
cima alla collina che dominava il lago, tutti sentivano che le
Suore erano arrivate, perché facevano i lavori di riordino: chi
scopava, chi grattava il cemento dal pavimento grezzo, chi
dava la caccia a mille animaletti che si erano introdotti
abusivamente in casa...!
Ogni tanto dovevamo interrompere il lavoro per salutare
questa o quella persona che molto gentilmente veniva a darci il
benvenuto. C’erano poi i bambini, tanti bambini, che
rimanevano dalla mattina alla sera seduti intorno alla casa a
guardare tutto quello che facevamo, come fossimo esseri venuti
da un altro pianeta.
La vigilia di Natale ci trovavamo tutte e quattro sedute in
veranda col cuore colmo di gioia, mentre attendevamo di
andare alla Messa di Mezzanotte. La nostra casa era tutta ben
sistemata e pronta ad accogliere noi e Gesù Eucaristia nella
piccola cappella.
La Messa di Mezzanotte fu per noi un’esperienza
meravigliosa. Nella chiesa semibuia, illuminata solo da due
modeste lampade a paraffina, un gran numero di persone si
riversava a gruppi in chiesa. Molte persone che abitavano in

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villaggi lontani erano in chiesa già da 3 o 4 ore, e favoriti
dall’oscurità si erano assopiti per terra.
A mezzanotte Padre Pagani mise in funzione il generatore
di corrente e la chiesa si illuminò all’improvviso. Il passaggio
dall’oscurità della luna ci fece tornare alla mente e gustare
anche sensibilmente la profezia di Isaia: “Il popolo che
camminava nelle tenebre vide una grande luce”. Tutti si erano
svegliati e cantavano a gran voce. Per un attimo non sentimmo
più le punture delle zanzare che da un’ora si divertivano a
trasformarci in un colabrodo! Vedevamo solo Gesù Bambino
nel presepe, che veniva a nascere di nuovo povero tra i poveri
di Nankwali.
Alla fine della Messa il catechista ci presentò alla
comunità parrocchiale. Da quel momento diventammo membri
della Chiesa di Nankwali. Fuori della chiesa, miriadi di stelle
stavano ad ascoltare le nostre risposte agli auguri natalizi
rivolti dalla gente.
Durante il giorno di Natale alcune donne vennero ad
offrirci farina per la polenta, mango, banane e perfino un pollo
per mostraci concretamente la loro gioia per la nostra presenza.
Alla sera sentimmo di nuovo bussare alla porta: era un ragazzo
che ci portava in dono una manciata di squisite formiche
africane arrostite! Ormai ci consideravano africane e ne fummo
molto felici...».

Grazie, mamma, d'essere venuta a trovarmi in Malawi!

P. Michele Gotti sente il bisogno di ringraziare la mamma


per essere venuta in Malawi:
«Grazie mamma! Ti ringrazio d’essere venuta a trovarmi
fin qui in Malawi. Lo desideravo tanto, ma proprio non speravo
che ce l’avresti fatta a deciderti veramente. Da parte mia ero
sicuro che sarebbe andata bene. E il Signore ci ha aiutato!
Anche se hai quasi ottant’anni, sei sempre la mia cara e bella
mamma!
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Spesse volte devo frenare i miei desideri di vederti ancora,
qui accanto a me... perché sono certo che se ti facessi una
proposta del genere mi sentirei rispondere: “accontentati!”.
Sì, hai ragione, mamma, mi accontento e adesso ho la gioia
di vederti sempre vicina nel mio lavoro missionario, Così
anche tu, assieme a me e con ragione, puoi sentirti missionaria
accanto al figlio missionario...».

Un sogno che vorrei non si interrompesse mai!

Anche P. Angelo Rota ha ricevuto la visita di sua mamma


e ne parla:
«Custodisco tutto gelosamente dentro di me quello che ho
vissuto in quei giorni come un sogno che vorrei non si
interrompesse mai. Sì, perché vedere la propria mamma, a 72
anni, venirti a trovare nel Madagascar con un volo di 10.000
km. è una cosa che bisogna vivere per capirla. Mai avrei osato
pensarlo, e ancora oggi stenterei a crederlo se non fosse stata
una realtà.
Il dovere mi impedì di andare ad abbracciarla alla Capitale.
P. Achille Valsecchi lo fece per me, e durante due giorni si
incaricò di farle scoprire Tananarive. Un breve volo di mezzora
portò la mamma a casa mia. Erano all’aeroporto di Tamatave
con me tutti i confratelli e le suore. Ognuno aveva
l’impressione di accogliere la propria mamma
Grande la sorpresa delle nonnine, solite ad assistere alla
Messa quotidiana. Quel mattino rinunciarono al caffè per
mamma Carolina. Facendo ala all’entrata della missione,
l’accolsero con calorosi battimani, abbracci e baci. Anche loro
accoglievano la mamma di tutti. Giorni troppo brevi per vedere
tutto, però intensi nell’affetto.
Un giorno, dopo la Messa cantata, i battesimi e i
matrimoni dei catecumeni, il saluto e i regali della Comunità
parrocchiale. Tutti hanno voluto stringerle la mano, compresi i

160
1500 bambini dei catechisti che avevano animato le cerimonie
con canti e danze religiose.
Se gli obbiettivi hanno potuto fissare le nostre facce non fu
da meno per gli animi di chi ci attorniava: “Guarda come si
assomigliano!”. Peccato non potessero comprendersi a parole.
Non così con i gesti... Una cosa li meravigliò: mamma Carolina
era semplice e buona, come tutte le mamme. Dovevano credere
che P. Angelo venisse da chissà quale casato, invece...
Se tutti ricordano la visita di mia mamma, coloro che non
la dimenticheranno mai saranno le mamme di cui essa
accarezzò e baciò i bambini. Brava, mamma! Grazie!».

Una Suora monfortana sul tetto del Perù

“Una Monfortana sul tetto del Perù”: così titola una sua
corrispondenza dal Perù P. Pasquale Buondonno.
«Non si tratta naturalmente di un tetto di tegole, ma uno
degli altipiani che fanno da terrazza al nostro globo
terracqueo... Su una di queste terrazze si è installata da quattro
anni Suor Anna Giuseppina Bussini, monfortana, nata a
Treviglio. Si è messa lì non per studiare fisica cosmica o
scienze del genere, ma per fare la missionaria tra una
popolazione di 5000 abitanti che vive attorno alla grande
miniera di Milpo.
Suor Anna Giuseppina ha accettato con entusiasmo il
compito della cura pastorale degli operai della miniera e delle
loro famiglie. Solo di quando in quando un sacerdote va lì per
celebrare la S. Messa e a confessare. Per tutto il resto pensa la
Suora: distribuzione della Comunione, battesimi, matrimoni,
paraliturgie, catechesi, assistenza degli ammalati e moribondi e
in più assistenza sociale.
Ecco come Suor Anna ricorda l’inizio della sua attività a
Milpo.
“...La mia Bibbia di Milpo è cominciata con la storia di un
nuovo Mosè. Ero da poco arrivata sul campo del mio lavoro.
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Una ragazza di 16 anni, non sposata, mette al mondo una
creatura. Alloggiata nella casa dello zio paterno era riuscita ad
occultare la gravidanza fino al momento del parto. Si era
sgravata da sola e approfittando dell’oscurità della notte aveva
abbandonato il piccino in una cantuccio della strada.
Come avrà potuto il povero neonato resistere al forte gelo
della notte, senza neppure uno straccetto addosso? Fatto sta che
alle quattro del mattino gli operai che terminano il turno di
lavoro nella miniera lo hanno trovato assiderato. Avvisata la
polizia, si porta il bambino all’ospedale e qui viene soccorso,
scaldato e massaggiato. Mi hanno chiamato perché lo
battezzassi, dal momento che poteva morire da un momento
all’altro. Come chiamare questo trovatello? Penso al
condottiero del popolo ebreo, salvato dalle acque. Questo è
stato salvato dal gelo. E così gli ho posto il nome di Mosè. È
stato il primo battesimo che ho amministrato.
Dopo alcuni giorni la polizia riesce a trovare la ragazza
madre. Questa non si mostra affatto entusiasta nel vedere viva
e salva la propria creatura; era persuasa di esserne disfatta per
sempre. Per evitare l’arresto si dichiara pentita e chiede di
riprendere con sé il figlio.
Per un anno non ho saputo più nulla. Ma ecco che un
giorno, salendo su un pullman mi trovo davanti un frugolo
molto vispo che la mamma fa saltellare contenta. È proprio lui,
il mio piccolo Mosè che ha aperto il primo capitolo della mia
Bibbia nel villaggio di Milpo...”».

Realizzato il progetto di un nuovo orfanatrofio

Dal Madagascar Suor Clelia Piroddi fa sapere: «Il mio


sogno è diventato realtà!» Il progetto del nuovo orfanatrofio è
stato realizzato:
«Gioite con me! Dall’inizio alla fine sono trascorsi solo
quattro mesi; gli operai non hanno perso tempo, anche perché li
ho molto sollecitati, desiderando fare il trasloco prima della

162
partenza per l’Italia. Così, ai primi di dicembre, gli orfani
hanno abitato nella nuova casa...».
Al suo rientro in Italia, scrive: «Dopo circa 5 anni di
attività missionaria, si sente il bisogno di un periodo di vacanza
in patria, per rifarsi fisicamente, spiritualmente,
professionalmente e per rivedere parenti ed amici. Lasciando
gli orfani avevo il cuore grosso ed anch’essi erano tristi,
temendo che non tornassi..., ma una volta rassicurati, il sorriso
è riapparso sui loro volti.
Ciascuno mi ha dato una consegna: “portami tante belle
cose!”. Se dovessi accontentarli tutti una nave non sarebbe
sufficiente... Mi vogliono bene ed anch’io, ma sono molto
esigenti, perché desidero che diventino uomini e donne
responsabili, capaci di impegnarsi nella vita e di affrontarla con
le sue gioie e con le sue pene. Saranno essi la speranza e
l’avvenire del paese e della chiesa di Dio. Tutto il mio
apostolato tende e formare dei buoni cristiani e dei buoni
cittadini».

Visita del Presidente della Repubblica

Dal Madagascar P. Angelo Rota comunica la notizia della


visita del Presidente della Repubblica, Didier Ratsiraka, alla
Comunità del Sacro Cuore. Lo fa in occasione del matrimonio
della sorella, Monique Ratsiraka, con uno speaker della Radio.
In assenza del vescovo e del Vicario Generale spetta a P.
Angelo fare gli onori di casa.
«... E’ la prima volta, forse l’unica, che un Presidente
onorava della sua presenza la Comunità del Sacro Cuore.
Eravamo un po’ tutti confusi. La cerimonia si svolse nella più
assoluta semplicità. Sola nota particolare: la benedizione dei
genitori agli sposi, prima di quella del sacerdote, secondo
un’usanza ancestrale...».

163
Fuori dal Perù i preti stranieri!

“Fuori i preti stranieri!”: così P. Ivo Libralato titola la sua


corrispondenza dal Perù.
«Il mese di novembre dello scorso anno è stato anche per
noi un novembre nero. Si erano creati dei grossi problemi tra
gli operai delle poche fabbriche esistenti nella nostra zona. In
una, dopo più di tre mesi di sciopero, gli operai si erano
barricati dentro la fabbrica.
Prima un gruppo di uomini, poi un altro di spose e di
mamme, vennero da me dicendomi: Padre, faccia qualcosa per
noi. Non abbiamo più nulla da mangiare e i nostri bambini non
possono più andare a scuola.
Avevo già parlato con il padrone, ma nulla da fare. Gli
interessi economici dell’impresa, come sempre, erano superiori
all’interesse per l’uomo. Cosa potevo fare io sacerdote e per di
più straniero? L’unica cosa era di accompagnare tutte queste
famiglie nella loro lotta e di aiutarli a raccogliere tra la gente
del paese del cibo per la loro. E così feci.
Ci fu una risposta meravigliosa; anche i più poveri
sapevano privarsi di qualche cosa per riempire la ‘pentola
comune’. Durante il giorno le donne facevano a turno per
preparare i cibi e al mattino, a mezzogiorno e alla sera tutte le
famiglie si riunivano insieme per dividersi quel poco che c’era
da mangiare.
La solidarietà è la forza dei poveri e dei deboli e questo dà
fastidio alle persone che approfittano della povertà e
dell’ignoranza per i loro interessi. Dovevano trovare il mezzo
per dividere questi poveri e pensarono che la migliore forma
fosse quella di calunniare il prete.
Una sera, mentre andavo anch’io alla ‘pentola comune’ mi
accorsi che mi guardavano in silenzio, con una strana
gentilezza. Finalmente un giovane del gruppo si avvicina e mi
dice: “Hai visto, Padre, cosa hanno fatto?”. Senza dirmi nulla
tira fuori dalla tasca un foglietto, che era stato distribuito per le
164
strade. Lo prendo e lo leggo e capisco subito da che parte
viene. In sostanza diceva che dovevano mandar via tutti i preti
stranieri, che Padre Ivo stava seminando la zizzania tra la
gente, corrompendo la gioventù, che era un lupo vestito da
pecora, che dovevo interessarmi della religione e della morale
ecc… In pratica che i preti se ne stiano in chiesa e pregare e
non interessarsi della gente, anche se muore di fame.
Rassicurai tutti i presenti, che si erano avvicinati per
manifestarmi la loro solidarietà. Sapevo bene chi poteva aver
scritto quelle cose. Qualcuno mi disse: Padre, risponderemo noi
per le rime; faremo vedere che la Chiesa e il Signore stanno
dalla parte dei più poveri!
Dopo aver pregato con loro, ritornai a casa pian piano,
calpestando quella terra del Perù e mi parve che quella polvere
che riempiva tutti i giorni il mio naso e la mia bocca, avesse un
nuovo odore e un nuovo sapore.
Era una terra ricca quella del Perù, ma i peruviani non
godevano questa ricchezza. Le materie prime che estraevano
dalla miniere, la canna da zucchero che cresceva nel nord, il
cotone del sud, il pesce che pescavano dal mare: tutto serviva
per i grandi stabilimenti che sorgevano in Europa e negli Stati
Uniti. Io ero arrivato come uno straniero in mezzo a loro e mi
avevano accolto; avevo cercato di vivere la loro vita e
incominciarono a chiamarmi fratello. Adesso erano gli altri, gli
europei, i miei connazionali, i padroni, che mi vedevano come
nemico».

Sono in India da quattro mesi: prime impressioni

P. Isidoro Tomasoni invia dall’India le sue “prime


impressioni”.
«Sono giunto a Bangalore da quattro mesi circa, unendomi
alla comunità qui esistente da quattro anni.
Bangalore è una bella città di 2 milioni di abitanti, situata
su di un altipiano, con un elevato livello di vita economica e
165
civile, anche se non mancano scene di reale povertà, immagini
che tutti più o meno abbiamo presenti da riviste o da films.
Forse non è del tutto esatto parlare dell’India solo in termini di
miseria, anche se la povertà rimane la contraddizione più forte
di fronte alla testimonianze delle civiltà del passato: templi,
costruzioni, scritti …
Come è possibile che un continente così vasto, con una
civiltà che ha preceduto la nostra civiltà occidentale europea,
possa oggi sperimentare problemi economici e sociali così
gravi? È un interrogativo a cui non è facile dare una risposta...
e tanto meno lo posso io.
Sto comprendendo che la nostra presenza è un servizio per
la Chiesa dell’India. P. John, P. Norberto e noi quattro padri
italiani stiamo costruendo con i nostri ragazzi una comunità
che tenta di vivere secondo lo spirito del Montfort nel contesto
indiano.
È urgente il problema della casa, perché attualmente
viviamo in affitto, con i problemi che nascono dalla convivenza
di due comunità diverse. Ma più urgente è il problema delle
persone: tutti noi cerchiamo di essere un segno concreto nel
mondo. È lo stesso interrogativo che tutti ci poniamo come
cristiani, per essere un segno della bontà del Padre e in
annuncio della presenza di Cristo in mezzo agli uomini.
Sono rimasto colpito dalla facilità con cui si può rimanere
impassibili di fronte ai poveri. A Bangalore ci sono diverse
zone dove la gente vive nelle baracche, in condizioni
disumane. Uomini e donne e molti bambini che chiedono
l’elemosina. Se si ha qualche spicciolo ci si tranquillizza
facilmente la coscienza, altrimenti si cerca di evitare alla svelta
l’incomodo.
Un ostacolo forte per noi, è la mancanza di conoscenza
della lingua di questi poveri, e quindi l’impossibilità di
comunicare: forse a volte è il fatto che non basta vedere i

166
poveri per considerarli realmente le persone in cui di
preferenza Cristo di manifesta.
Ho già avuto con P. Mario l’occasione di andare a fare
visita alla colonia di lebbrosi che si trova al centro della città:
sono circa 600 persone. Come P. Mario anch’io mi sono messo
a maneggiare forbici, garze, disinfettanti.
Un risultato importante cui si è giunti è che questo lavoro
non rimane solo a livello di assistenza caritativa, lasciato alla
bontà di qualche persona coraggiosa, il governo ha affidato al
vescovo il compito di portare avanti l’opera, provvedendo al
terreno. Questo è un segno della fiducia che le autorità locali
danno alla Chiesa e il Governo sperimenta i propri limiti,
perché l’opera più che semplice filantropia, esige l’amore
fraterno tra i Figli di Dio. Gli aiuti materiali sono sempre
necessari... e nella carità ci sentiamo sempre uniti, anche se
lontani...».

“Emile”: un nuovo, devastante ciclone

Dal Madagascar giunge la notizia del ciclone “Emile” che


ha devastato le missioni.
«Madagascar, Costa Orientale, prima settimana di febbraio
1977! La radio annuncia che una depressione tropicale, dopo
aver aumentato di violenza, è diventata un ciclone, battezzato
‘Emile’.
Le piogge cadono ininterrotte, il mare scatenato
rumoreggia e schiaffeggia la costa, ma nessuno si preoccupa: la
radio dice che il ciclone si trova a 400 km. al largo ed avanza a
15 km all’ora. Ma in una notte il vento si mette a soffiare verso
il largo, verso l’occhio del ciclone. I gabbiani e tutti gli uccelli
del mare svolazzano verso terra: è segno che il ciclone è vicino.
“Emile” passò a 50 km al largo di Tamatave. Si trattenne il
respiro per una giornata. Scendeva zizzagando lungo il sud.
Arrivato all’altezza del 20° parallelo australe, si lanciò sulla
costa penetrando a Mahanoro. Il vento seguì la vallata di
167
Magoro e del Nosivolo, soffiando e trascinando quanto trovava
sul suo passaggio: capanne, banane, caffè, chiodi di garofano...
Quello che il vento non portò via lo inondò l’acqua. Questa
cadeva a secchi. I fiumi in piena non trovavano più sfogo
sull’Oceano Indiano in furia. Così le acque allagarono risaie e
terreni bassi.
Nel fuggi fuggi generale dai villaggi alcuni si annegarono
ed anche intere mandrie di buoi e zebù sparirono. La radio non
annunciava che questo: “Non abbiamo nessuna comunicazione
dalle zone colpite dal ciclone”. Telefono e radio dei posti di
gendarmeria erano stati rovinati. Ora c’è tutto da rifare.
I nostri missionari sono stati provati parecchio. Marolambo
e paesi della brughiera: distruzione al 50%. Ambinanindrano:
distruzione all’80%. Masomeloka: tutto raso al suolo, fuorché
le costruzioni in cemento. Perfino la caserma dei soldati appena
rifatta non resistette alla violenza del vento e delle acque. I
missionari del sud della diocesi mi hanno scritto, chiedendo
aiuti. Sono più di 800 i villaggi devastati. Anche se le capanne
non hanno un gran valore, trovare di che mangiare fra qualche
mese è il vero problema».

La prima volta in Malawi

P. Mario Pacifici parla della sua prima esperienza africana:


“Io, straniero in Africa”.
«...Dopo i primi giorni d’impatto con la realtà africana di
Nairobi, caratterizzati da un certo stordimento per la novità, ora
sto rivivendo in tutte le sue conseguenze la scelta cristiana e
missionaria maturata con voi.
A conclusione di una settimana piuttosto dura in cui sono
stato anche un po’ ammalato, forse di malaria, mi è venuta
spontanea la domanda: è possibile amare? E' possibile servire
fratelli diversi in situazioni difficili?...
La mia semplice esperienza in un ambiente in cui non
conosco nessuno e non posso comunicare... mi sta convincendo
168
che ciò che per un uomo è impossibile è invece “possibile a
Dio”. A volte però mi chiedo perché il Signore non abbia dato
ai suoi missionari il dono delle lingue...».

Notizie sui primi passi della missione in India

P. Attilio Corna, tornato dall’India per una breve vacanza,


informa sui i primi passi dei monfortani italiani:
«Contro ogni aspettativa, solo dopo 4 anni, il nostro lavoro
ha portato frutti significativi. Infatti ci sono già 3 sacerdoti
monfortani indiani, 4 religiosi monfortani indiani e una ventina
di studenti.
Abbiamo già avuto contatti per l’acquisto di un terreno in
Bangalore ed ora vorremmo iniziare quanto prima una nostra
casa per la formazione di questi nostri studenti indiani. Quale
sarà il nostro lavoro? Portare il messaggio di Cristo: messaggio
di liberazione non solo dalle pesanti superstizioni che gravano
sul popolo indiano, ma anche liberazione dalla tremenda ed
inesprimibile miseria economica.
A questo proposito è stato programmato che i nostri
monfortani indiani tentino nuove vie, anche se tremendamente
difficili per aiutare i poveri dei villaggi. E cioè vorremmo
costruire non grandi opere ma piccole scuole e modesti
ospedali, dove tutti possano accedere senza arrossire della loro
miseria. Desideriamo che l’annuncio del Vangelo sia stimolo,
non solo di elevazione morale e religiosa, ma anche economica
e sociale. Inoltre coopereremo anche noi a ridare dignità umana
ai numerosi lebbrosi di Bangalore. Per loro è già stato aperto
un conto in banca e assieme alle Suore di Madre Teresa stiamo
già lavorando in mezzo a loro.
Queste nostre istituzioni saranno aperte a tutti, senza
distinzione di casta e di fede religiosa. È nostro vivo desiderio
che venga data la preferenza ai più poveri e abbandonati.
Questi i nostri programmi di lavoro. Le autorità religiose e
civili di Bangalore hanno dimostrato il loro apprezzamento e la
169
loro stima. Alcuni vescovi ci hanno già invitato nelle loro
diocesi...».

Dalla missione di Balaka alla missione di Nankwali

Ritornando in Malawi dopo un periodo di riposo in Italia,


P. Francesco Perico scrive:
«Sono stato destinato nella missione di Nankwali. In un
primo momento mi era dispiaciuto lasciare Balaka dove avevo
trascorso i miei primi quattro anni di missione.
In questa missione si ha l’impressione di essere in un posto
di villeggiatura, una sorta di stazione balneare. È posta su una
collinetta che domina il Lago Malawi in tutta la sua maestà: un
tappeto argentato, punteggiato ai bordi da una serie di isolati
che ad occhi inesperti danno tutta l’impressione di ippopotami
in cerca di ossigeno. Un centinaio di monti si lancia assetato
dallarida savana per cercare refrigerio nella freschezza delle
acque del lago, spaccandolo nettamente in due.
Per quanto il paesaggio sia favoloso, non c’è posto per i
villeggianti, anche perché il Lago Malawi, in questo punto
particolare, brulica di ippopotami e di coccodrilli. Vi sono
invece molti pescatori che con semplici canoe, in barba a
queste bestie, cercano di strappare al lago il pane quotidiano.
Passeggiare lungo la riva del lago, intrattenersi con i pescatori
e i bambini è per me rivedere una delle scene più belle del
Vangelo. Anche Gesù amava il lago e suoi pescatori e il
messaggio del Regno viene annunciato così alla buona, tra una
retata e l’altra, oppure seduto su di una canoa con un grappolo
di ragazzi. Veramente ho capito che il Regno di Dio è fatto per
i semplici e i piccoli.
Girando tra la mia gente, ho dovuto constatare, con
rincrescimento, che questo angolo del Malawi, chiuso
geograficamente dal lago e dai monti è uno dei meno sviluppati
del Paese. Alto il numero dei denutriti, spaventosa la mortalità,
altissima la percentuale degli analfabeti. Si calcola che solo il
170
75% dei ragazzi abbia la fortuna di frequentare la scuola, il
resto cresce analfabeta, come i loro padri. Eppure sappiamo che
solo l’istruzione può portare questi nostri fratelli ad un livello
di civiltà, degno dell’uomo.
Convinto che l’annuncio del Vangelo non può essere
disgiunto dalla promozione umana, mi sono rimboccato le
maniche e spero di fare qualcosa se l’aiuto dei buoni non mi
viene a mancare».

Dalla nuova missione in Ruanda

P. Giovanni Delli, già missionario in Malawi, dalla sua


nuova missione in Ruanda, scrive: «...Da circa un anno ormai
mi trovo in Ruanda, nella missione di Rilima. Per quanto ne
sappia il sottoscritto, il Ruanda non ha mai fatto la sua
comparsa su “L'Apostolo di Maria”. Perciò è un godimento
spirituale per me parlarne da queste pagine per la prima volta.
Il territorio appartiene all’Africa centrale ed occupa la
regione tra il lago Kivu e il corso del Kagera, comprendendo il
versante meridionale della catena vulcanica del Viruga ed è
limitato a sud dal corso dell’Akangaru che lo separa dal
Burundi. Abbraccia un’estensione di 26.000 kmq. Per la
massima parte occupata da alture vulcaniche e da elevati ripiani
che toccano i 3.000 metri intramezzati da aree di
sprofondamento il cui fondo è occupato da laghi chiusi.
Fu visitato la prima volta dal tenente C.A. Catzen che lo
attraversò in varie direzioni; a lui si deve la scoperta del Lago
Kivu (1894). Il Ruanda ha un clima tropicale mitigato dalla
considerevole altitudine, cosicché la temperatura scende anche
sotto lo zero. Abbondanti le piogge, ripartite in due periodi:
settembre-dicembre e febbraio-maggio. Numerosi corsi
d’acqua lo solcano, appartenenti in maggioranza al bacino del
Kagera e solo in piccola parte a quello del Lago Kivu e del suo
emissario Rusisi.

171
Nel cuore del continente nero vivono quattro milioni di
africani di razze diverse: gli Utu (80%), i Tutsi (18%), i Batua
(2%). Gli Utu sono un popolo discendente dai Bantu, tozzi,
naso schiacciato, indefessi lavoratori dei campi.
I Tutsi, invece, longilinei, alti fino a 2 metri, naso
all’europea, belli d’aspetto, vivono di allevamento di mucche.
Intelligenti, abituati a dominare, guardano le altre due razze
con disprezzo.
I Batua sono quelli che noi chiamiamo i Pigmei: piccoli,
grassocci, passano i loro giorni nelle foreste in capanne di
banana, a piccoli gruppi. Sono gli specialisti dei vasi di
terracotta
Come nacque la mia missione di Rilima? Nel 1972 nel
Burundi il governo dei Tutsi dava la caccia agli Utu più in vista
(200.000 morti). Braccati dai Tutsi molti Utu si rifugiarono
negli stati vicini: Zaire, Tanzania e Ruanda. L’ONU e la
Charitas cercarono di aiutarli regalando zappe, badili ecc..
Molti di questi poveri sbandati erano cattolici e il Vescovo di
Kigali li affidò alle cure di un sacerdote, pure lui fuggiasco,
che, però, vi rimase per poco.
Provvidenza volle che nel frattempo il Vescovo ricevesse
una lettera da un prete diocesano di Vercelli, espulso dal
Burundi, che cercava di lavorare in una missione. Il permesso
fu subito accordato.
Il sacerdote in parola è Don Giuseppe Minghetti. Egli
stesso mi raccontò del suo arrivo a Rilima, delle sue difficoltà,
della miseria, della situazione morale, delle malattie, della
fame, delle morti ecc.
Nel mese di agosto Rilima è diventata la mia missione.
È una missione molto difficile da guidare perché è un mosaico
di gente di varie nazionalità, di giovani provenienti da ogni
parte di cerca di terreno da coltivare. Perciò spesso si hanno
matrimoni campati per aria, ubriacature, risse, odi e gelosie a
non finire.

172
Adesso comprendo perché nessun nero o bianco vuole
venire a Rilima! Non parlo poi della lingua quanto mai
indigesta. Quella del Malawi è un giochetto da ragazzi in
confronto. Dicono gli esperti che il Kinyaruanda sia, dopo
l’arabo, la lingua più difficile. Ed è vero. Ma io mi trovo bene
qui. Mi sento vero missionario alla Montfort, con molte croci
ma con tanta gioia nel cuore...».

Bangalore: tra le baracche di trecento lebbrosi

Dall’India scrive P. Michelangelo Corna per informare sul


suo lavoro “nelle baracche di 300 lebbrosi”.
«Capita spesso qui a Bangalore, come in tutte le metropoli
del mondo, di incontrare giovani tradizionalmente in crisi.
Fanno tanta pena, specialmente quando vengono a trovarci e
svuotano il sacco con quella sincerità che è tutta loro.
Naturalmente si fa del proprio meglio per annunciare loro il
messaggio di liberazione cristiana. Ma in questi ultimi tempi
mi è capitato spesso di fare loro una proposta concreta: “Se hai
due ore libere, va a Jayachamaraja... a soli dieci minuti da casa
tua”.
Jayachamaraja è una colonia di 500 slums e più di 300
lebbrosi. Non è molto distante dal centro di Bangalore, eppure
molti nostri cristiani non lo sanno. Non fa meraviglia che sia
stata scoperta dalle suore di Madre Teresa, queste donne
meravigliose, ministre del servo sofferente, che si introducono
in tutti gli angoli più reconditi ed abbandonati della città.
Ero curioso di conoscere la loro attività da vicino e così
andai a trovarle in un piccolo cottage alla periferia ovest, dove
vengono raccolti e curati i bambini malnutriti, abbandonati
nottetempo al campicello delle madri disperate.
Pure immerse nel loro lavoro, le suore mi spiegarono
pazientemente i singoli casi dei quei bambini e le cure che sono
solite amministrare loro per ricuperarli ad una salute normale.

173
Un’ora più tardi mi stavo congedando quando due suore,
sorprese dalla mia curiosità, mi invitarono a visitare i lebbrosi.
Presi dalle loro mani una grossa borsa di medicinali e le
seguii. Il villaggio si estende quasi a ridosso della ferrovia. Ne
chiedo la ragione. Mi viene risposto che si tratta di una
concessione governativa: quei poveretti avrebbero diritto di
viaggiare in treno con biglietto gratuito... ammesso che
vengano accolti bene dai passeggeri.
Dalle baracche esalano tutti gli odori immaginabili. Ma ciò
che appare agli occhi mi distoglie subito da ogni problema di
respirazione. Mi viene detto che sono tutti casi disperati. Due
giovanotti portano un tavolino, che serve da dispensario, e lo
sistemano nella piazzetta del villaggio. Pochi minuti dopo
appare la muta processione dei pazienti. Chi ancora può, cerca
di sorridere e di congiungere le mani in segno di saluto e di
riconoscenza.
Il primo a ricevere le medicine è Armugon, un giovane non
ancora ventenne, ma già inabile al lavoro perché senza mani.
Poi viene un bambino di sei anni, con le braccia e il torace già
marchiati dalle caratteristiche macchie bianche. Minakschi è
invece una giovane mamma senza mani e dal volto tutto
piagato: eppure ha in braccio un bambino di un anno e deve
continuare a mantenere altri cinque. Per ora sono tutti sani, ma
per quanto tempo ancora? Ramaya ha 65 anni. Probabilmente è
il più vecchio dei pazienti. Non è venuto da solo, ma lo hanno
accompagnato i nipoti, perché è cieco e non ha più i piedi. E in
questa condizione ne passano più di cento.
“Ma non è possibile portarli all'ospedale?”, chiedo. “Vuol
dire il lebbrosario? È sovrappopolato. Questa è gente
poverissima: non può pagarsi le spese della degenza”. Il
coraggio di queste suore mi trascina: “Posso prestarvi il mio
aiuto?”.

174
Da quel giorno ci vado ogni settimana: aiuto le suore nella
distribuzione delle medicine, ascolto la gente, la vado a trovare
negli slums.
La condizione di quei poveri malati è resa ancor più grave
dall’analfabetismo e da un ambiente spaventosamente privo di
igiene. Di questo passo tutti gli abitanti del villaggio verranno
colpiti dalla malattia, ed i più esposti purtroppo sono i bambini
perché continuamente a contatto con i genitori.
I più coraggiosi, per sopravvivere, affrontano il rischio
dell’accattonaggio, ma spesso devono subire l’indifferenza se
non la stizza della gente che cerca sempre di evitarli...».

Incominciano a farsi concreti i frutti del nostro lavoro

Dal Madagascar P. Carlo Berton racconta il miracolo di


“...legumi che prendono il posto di sterpaglie”. I frutti del
lavoro fatto incominciano a farsi concreti.
«… I Padri della missione cattolica incontrarono i giovani
per convertirli al lavoro. Solo un gruppo di 12, come gli
apostoli, accettò di andare con P. Jean ad iniziare un’esperienza
nuova. In una località, detta Tamboro, crescevano solo
sterpaglie e spine. In poco tempo quei giovanotti cominciarono
a disboscare, a sradicare le erbacce, a livellare il terreno.
Durante i primi tre mesi la missione cattolica diede loro
due scodelle di riso al giorno, una vanga, una zappa e un
falcetto. Furono i giovani stessi a costruirsi una tettoia con erbe
secche fatte macerare. Padre Jean trovò anche un sacco di
concime. In un angolo acquitrinoso fecero una grande buca. Da
qui veniva l’acqua per innaffiare l’orto.
Il terreno ormai sarchiato e dissodato riceveva le prime
sementi. Mentre le piantine d’insalata e di altri ortaggi
crescevano, i giovani si riunivano all’ombra dei grossi mango.
Assieme discutevano del loro avvenire e quello dei loro
compagni.

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Dopo tre mesi, i giovani vendevano per le vie di
Vatomandry il frutto del loro lavoro: zucche, pomodori cavoli,
cocomeri. Padre Jean disse loro: “Ora siete capaci di vivere da
soli”. Gli risposero: “Ma tu devi restare con noi”.
Alcuni partirono: sapevano ormai come coltivare un orto
nel loro villaggio. Avevano degli strumenti agricoli nuovi!
Sapevano come fare l’innesto e la potatura delle arance e dei
mandarini; sapevano coltivare un semenzaio, pulire le aiuole
con la zappa, piantare in linea il granoturco, le patate
americane e lo zenzero.
A poco a poco altri giovani, senza lavoro e mezzi di
sussistenza, vollero aggregarsi. I giovani hanno il loro
consiglio di direzione. Il Padre li aiuta quando non ce la fanno
più. Ora stanno lanciando l’allevamento di conigli e di galline.
Riusciranno? Lo speriamo!».

Balaka: la mia prima missione

“A Balaka, la mia prima missione”: lo scrive P. Mario


Pacifici.
«...Uno dei primi verbi che ho imparato in lingua chichewa
è ‘kuchesa’. Se domandi alle persone sedute davanti ad una
capanna cosa stanno facendo, è facile sentirsi rispondere:
“stiamo insieme”. Potrebbe sembrare una perdita di tempo, ma
in realtà è un parlare di tante cose che favoriscono l’amicizia. È
un valore che per noi, presi spesso da tante cose,
dimentichiamo e subordiniamo a ciò che dobbiamo fare.
Eppure tutte le volte che ho sperimentato questo “stare
insieme”, soprattutto nei villaggi, in occasione della Messa, mi
ha riempito di tanta gioia.
Da due mesi mi trovo nella missione di Balaka. È poco, ma
potrei parlarvi delle prime impressioni, abbondanti perché tutto
mi riesce nuovo: la lingua, bella ma tanto diversa dalla nostra;
le usanze, l’accoglienza della gente, i viaggi da un villaggio
all’altro nelle 20 chiesette succursali per l’incontro mensile con
176
i cristiani; la povertà, la semplicità della gente, la bellezza dei
bambini tanto numerosi e simpatici, l’incontro con gli
ammalati nelle misere capanne, la capacità di soffrire degli
anziani, le mamme che arrivano alla missione con i loro piccoli
per chiedere aiuto, i ragazzi in divisa che alle 7 del mattino
vedi correre scalzi alle nostre scuole, i ragazzi che non vanno a
scuola o la lasciano perché i genitori non pagano le tasse;
l’atmosfera di festa della Messa domenicale, l’originalità dei
mercatini, le strade belle e quelle non belle molto più
numerose, la gente che vedi camminare per chilometri,
succhiando una canna da zucchero, la fede di molti adulti,
anche se mista a molte superstizioni; i canti, la visita agli
ammalati di lebbra e la messa settimanale con loro...
Tante e tante esperienze semplici, ma piene di vita che mi
fanno scoprire sempre più il dono che il Signore mi ha fatto
con la chiamata missionaria. Naturalmente, come ogni dono,
anche quello della vocazione missionaria comporta una
responsabilità che solo con il suo aiuto si riesce ad adempiere.
Arrivando a Balaka, i giovani e i ragazzi, per la mia età mi
hanno visto un po’ come il loro “bambo” (padre). P. Giancarlo,
responsabile della missione, da 10 anni in Africa, è molto
impegnato nel seguire tutte le comunità nel loro cammino di
fede, nei loro problemi di ogni genere. Naturalmente è anche
mio compito, ma mi ci vorrà un po’ di tempo, perché le cose da
imparare, oltre la lingua, sono molte.
I primi incontri con i giovani sono stati di poche parole e
tanti sorrisi, perché alla volontà di dare tante cose non
corrispondeva la lingua. Così ho chiesto aiuto a Suor Luisa,
una giovane suora canossiana, da due anni e mezzo a Balaka.
Con molta disponibilità, quando è necessario, in bici da casa
sua viene alla missione e insieme lavoriamo per la pastorale
giovanile...
Una bella sorpresa è stata per me quando alcuni ragazzini,
con l’incoraggiamento di Suor Luisa, dopo la Messa

177
domenicale mi hanno avvicinato e mi chiedono se posso
interessarmi del loro gruppo...
L’altra settimana hanno voluto visitare i lebbrosi che sono
all’ospedale di Balaka. Hanno fatto tutto da soli. Un ragazzo ha
letto la Parola di Dio. Agli uomini: la guarigione del lebbroso;
alle donne: il fatto dell’emoroissa. Poi il loro leader, John, ha
spiegato cosa volevano dite questi due episodi rilevando che
queste persone sono guarite perché hanno creduto...
Un alto impegno che si sono assunti è quello di tener
pulito attorno alla chiesa e di prendersi cura dei fiori. La serietà
con cui fanno tutte queste cose lascia veramente stupiti...».

Miei cari amici, eccomi nel Burundi...

P. Remigio Villa scrive dal Burundi: «Miei cari amici,


eccomi nel Burundi. Mi sembra d’essere ritornato nel
Nyasaland dell’anteguerra. La gente è buona e semplice come
era l’Africa in quel tempo.
Muyinga è una cittadina com’era Namwera in Malawi. Ci
sono gli uffici governativi, quasi tutti costruiti all’epoca del
governo belga. Parecchie botteghe, però prive di tante cose. Per
fare qualche compera bisogna andare a Bujumbura, cioè ad
oltre 200 km. Non ci sono banche. C’è però un ospedale, tenuto
da signore francesi.
Molti cristiani e bravi. Con l’amministratore apostolico,
una domenica, andai in una chiesa senza sacerdoti. Vidi una
folla immensa di fedeli. Le due messe durarono circa due ore
ciascuna. Che devozione! Il Vescovo predicava: un vero
dialogo con il popolo...
Mi diceva lo stesso Vescovo: i missionari del passato
erano dei veri pionieri. Hanno anticipato di decenni la
“Populorum Progressio”, costruendo scuole, cappelle, ospedali
e strade, ed aiutando la gente nell’agricoltura.
Il posto dei laici? Senza questi come farebbe la chiesa in
questo Paese dove non ci sono che pochi sacerdoti? In ogni
178
comunità parrocchiale c’è un capo catechista, assistito da tanti
altri. Tutto quello che avviene nella cristianità, durante la
settimana, viene annunciato ogni domenica: quanti battesimi,
quanti morti, quanti sposati, quanti poveri assistiti dalla San
Vincenzo. E tutto nel modo più naturale del mondo, senza
pretese o suono di tromba. Nel Burundi i cattolici sono più di
due milioni.
Mi trovo nel seminario minore. Insegnerò quindi, usando il
francese, essendo questa la lingua ufficiale. Dato che io stesso
devo studiare il ‘cirundi’, lingua locale, spero non mi diano
troppe ore di insegnamento. Vedremo. Appena sarò capace di
dire da solo la Messa in cirundi, almeno la domenica, sarò
altrove, per fare ministero. Certo, non dimenticherò mai l’anno
trascorso nel Lesotho. Fu un’esperienza unica nella mia vita,
piena di gioie spirituali, mai provate altrove. Mi lascio guidare
dal Signore che continua a sballottarmi di qui e di là, con i suoi
piani di misericordia... e di amore».

Eccomi di nuovo tra la mia gente, i miei orfani

In Madagascar torna Suor Clelia Piroddi: «Dopo alcuni


mesi di vacanza trascorsi in Italia, dove mi sono arricchita di
nuove esperienze e amicizie, eccomi di nuovo fra la mia gente:
i poveri e gli orfani. Sono contenta d’essere tornata fra loro,
malgrado le delusioni provate al mio arrivo. Gli orfani stanno
bene, sono cresciuti, hanno cambiato aspetto.
Partendo avevo lasciato un lavoro ed un programma, ma,
mancando una valida guida, non hanno concluso niente. Si
sono accontentati dello studio e dello svago. Troppo poco per
le mie esigenze. Nel vedere in che stato è ridotta la nuova casa
c’è da scoraggiarsi, viene voglia di piantare lì baracca e
burattini... A che servirebbe agire in questo modo?».

179
Medaglia di cavaliere al merito di Francia

Sempre dalla grande Isola Rossa, P. Carlo Berton


comunica d’aver ricevuto dall’ambasciatore francese la
medaglia di cavaliere al merito di Francia.
«Era il primo luglio 1977. Un folto gruppo di varie
nazionalità era raccolto sotto i grandi ‘bananiers’ del Consolato
francese a Tamatave. L’ambasciatore di Francia, attorniato da
varie personalità, tra cui il Capo della regione di Tamatave,
procedeva alla decorazione per meriti vari. Erano tutti francesi
decorati, eccetto uno, il sottoscritto italiano.
L’ambasciatore lesse la motivazione: “Il Presidente della
Repubblica francese, Mr. Valery Giscard d’Estaing, grande
Maestro dell’Ordine Nazionale del Merito Francese, nomina
oggi il R. P. Carlo Berton, di nazionalità italiana, religioso,
superiore dei missionari monfortani, Cavaliere dell’Ordine del
Merito”. Conferimento della medaglia, abbracci ed un
brindisi...».

Monfortani alla conquista della Mecca ...della coca

Dal Perù, P. Pasquale Buondonno scrive: “I Monfortani


alla conquista della Mecca!”. Per evitare false interpretazioni,
aggiunge:
«Non si tratta della Mecca di Maometto, ove si venera la
Pietra Nera che sarebbe caduta dal cielo, ma di una Mecca del
Perù che ha per centro di devozione un arbusto che fiorisce e
fruttifica sulla Cordigliera della Ande, specialmente nella zona
di Huanuco. In questa zona noi Monfortani abbiamo stabilito
una nostra missione da quattro anni.
È Luis Alberto Sanchez, uno dei più noti scrittori e
professori universitari del Perù attuale, che ha definito
Huanuco ‘La Mecca della Coca’.
Che cos’è la coca? Un arbusto alto un paio di metri. Cresce
nelle valli calde e umide nel versante orientale delle Ande, tra i

180
1.500 e i 6.000 metri di altitudine. È una pianta poco robusta,
assai sensibile al vento e alla siccità. Nelle sue foglie, simili per
grandezza e colore a quelle dell’alloro, gli scienziati hanno
trovato almeno quattordici alcaloidi, il più forte dei quali è la
cocaina.
Da tempi immemorabili gli abitanti delle Ande hanno
imparato a utilizzare questo stupefacente masticando le foglie
unite o a un po’ di cenere o di solito a un pizzico di calce viva.
Tra i vasi di ceramica che vengono alla luce dagli scavi di
antichità è facile trovare alcuni in forma umana con una
guancia un po’ rigonfia per un grumo di coca. E oggi
viaggiando per la Sierra delle Ande, fate attenzione a non
avvicinarvi troppo ad un omnibus in sosta: correte il rischio di
essere colpiti da una cicca verdastra sputata attraverso il
finestrino che di solito è senza vetro.
Nessuno può negare al Perù il primato della coltivazione
della coca. La produzione è abbondante e non richiede quasi
nessuna cura. La raccolta avviene tre volte l’anno. Si è
calcolato una delle ultime raccolte complessive in un anno:
venti milioni di chili!
Otto milioni vengono elaborati clandestinamente in
cloridato di coca, cioè la cocaina, la quale per mezzo di squadre
organizzate di narcotrafficanti viene distribuita negli Stati Uniti
e in Europa. Dieci milioni vengono masticati allo stato naturale
dagli indigeni. La piccola quantità che resta viene esportata
legalmente per fini di utilità farmacologica e anche per
preparare alcuni tipi di bevande. Si pensi in particolare alla
Coca Cola, bevanda diffusa in tutto il mondo, nella quale può
entrare una parte minima di coca con estratti di noci di cola,
altra pianta africana i cui semi contengono caffeina,
teobromina, tannino e amido.
Non a torto abbiamo detto che Huanuco, ove abbiamo un
gruppo missionario di Padri e Suore, si può considerare la
Mecca della Coca: per la produzione, la commercializzazione e

181
il consumo. È in questa città che si può vedere legalizzata la
vendita al pubblico delle foglie di coca. Botteghe apposite
recano scritto sulla porta: Estanco de coca: spaccio di coca. In
altre città della Cordigliera delle Ande i sacchi sono limitati al
peso di una “arroba”: undici chili e mezzo!
Il prezzo? Poco più di mille lire al chilo. Un sacco di 65
chili circa ottantamila lire. È con l’elaborazione che i prezzi
vanno alle stelle e si calcolano in dollari... Un chilo di pasta
costa diecimila dollari. Nella nostra zona di Huanuco, Santa
Maria del Valle, ho visto e fotografato una gramola
rudimentale per ricavare questa pasta dalle foglie. La pasta
raffinata in cloridrato, la cocaina, vale all’ingrosso
cinquantamila dollari al chilo. Il prezzo diventa incontrollabile
arrivando ai minutanti.
Si può facilmente immaginare la sete i guadagno che
stimola gli spacciatori in tutto il mondo. E le astuzie ai cui
ricorrono per far circolare il frutto proibito, con non solo il
rischio della prigione e di multe salatissime, ma della vita
stessa. Qui all’aeroporto di Lima è morto un giovane
statunitense che faceva ritorno dalla Bolivia al suo paese. Cosa
gli era successo? Per passare franco per le frontiere e le dogane
aveva ingoiate un centinaio di bustine di plastica, ciascuna con
cinque grammi di cocaina. Altre volte gli era andata bene, ma
in questo ultimo viaggio una bustina gli si è rotta nello stomaco
ed i dollari del sogno gli si sono cambiati in dolori e in morte».

Consegna del Crocifisso a sette nuovi missionari

Il 22 dicembre 1977, nel santuario “Maria Regina dei


Cuori” di Redona, Don Ceribelli, responsabile dell’Ufficio
Missionario Diocesano, ha consegnato il crocifisso a sette
missionari: P. Tarcisio Zanga, destinato in Perù; P. Pierino
Limonta e P. Pietro Lonni, destinati in Madagascar; P. Battista
Torri, P. Angelo Maffeis e P. Piergiorgio Gamba, destinati in
Malawi.
182
P. Angelo Maffeis si fa interprete dei sentimenti dei
partenti. «... La partecipazione alla cerimonia è stata massiccia;
oltre agli apostolini, parenti ed amici affollavano la chiesa.
Così i parenti hanno la coscienza di “non essere soli”, e Dio sa
quanto è necessaria, specialmente nei primi mesi di vita
missionaria lontani dall’Italia, la certezza che ci sono degli
amici che ti ricordano e pregano per te.
La gioia del momento si respira nella fredda aria invernale
e nel cuore dei partenti nasceva una speranza. La speranza che
non saremo mai soli, né gli ultimi a partire, perché Dio ruba
ancora la vita di molti uomini e donne che lo hanno incontrato,
perché nessuno ha il diritto di essere felice da solo...».

183
1978
Realizzazione di opere importanti

Le Suore Sacramentine in Malawi

P. Luciano Nervi informa sulla nuova presenza in Malawi


delle Suore Sacramentine. «...Sono quattro: Sr. Angela
Carminati di Ubiale (BG), Sr. Olimpia Tagliaferri di Nembro
(BG), Sr. Luciana Cremasco di Cantù (CO) e Sr. Mirella
Begnis di Lenna (BG).
Eccetto Sr. Angela, la Superiora, che ha trascorso cinque
anni in Brasile, per le altre tre è la prima esperienza in terra di
missione.
Dopo qualche mese trascorso studiando la lingua del
luogo, ora stanno iniziando i primi esperimenti di apostolato
nella missione di Nankwali, dove risiedono. Se per Sr. Luciana
è stato facile inserirsi nel lavoro dell’ospedale, dato che era
infermiera, per le altre si tratta di inventare una nuova presenza
della Suora in missione.
Parlo di una presenza perché, almeno in Malawi, le Suore
hanno sempre avuto un’attività nella scuola o nell’ospedale, e
raramente venivano a contatto diretto con la gente nel suo
ambiente, cioè nel villaggio. Perciò pensano di prendersi “in
cura” un determinato villaggio a testa e farvi un’animazione
sociale e pastorale insieme: scuola di cucito, insegnamento del
catechismo, visita nelle famiglie, contatto diretto con la gente
e i suoi problemi...
L’entusiasmo non manca loro, sostenuto pure da una
costante preghiera-adorazione del SS. Sacramento. Per loro un
augurio sincero di buona riuscita».

184
“Sumana Halli”: Villaggio della buona volontà

P. Michelangelo Corna parla del progetto “Sumana Halli”


(Villaggio della buona volontà).
«Il missionario che vive in India si accorge ben presto di
trovarsi di fronte a due mondi: un mondo immenso di miseria,
di coloro che aspettano... e il mondo dei pochi ricchi, che
vivono nella sicurezza dei loro suntuosi palazzi. Un grande
muro separa ricchi e poveri. Un muro che impedisce ogni
contatto e ogni vera comunione.
A volte, qualche frettoloso viandante può far cadere
qualche spicciolo tra mani imploranti. Pochi vogliono
guardare, rendersi conto del mondo che sta dall’altra parte.
Appena si affaccia, si trova di fronte ad una realtà
sconcertante e inverosimile. Subito colpisce la folla immensa
di mendicanti, ammalati di lebbra, che vivono sui marciapiedi
delle strade principali di Bangalore. Le ultime statistiche
dicono che circa 180 mila persone soffrono di lebbra nel solo
distretto di questa città. Tre milioni in tutta l’India.
Dai tempi più remoti, gli ammalati di lebbra sono stati
respinti dalla società e anche dalla propria famiglia e costretti a
mendicare per sopravvivere. Hanno formato così una loro
casta: la casta de lebbrosi. Hanno costruito i loro miseri tuguri
su terreni abbandonati e malsani al centro o alla periferia di
Bangalore. E lì trascinano la loro povera esistenza in attesa di
essere liberati dalla miseria...Intanto si sviluppa nel loro animo
a disperazione, la rivolta, il desiderio della morte,
esperimentando ogni giorno la dissoluzione del proprio corpo,
o vedendo arti malati divorati dai topi durante il sonno.
Nel 1972 i Padri Monfortani, da poco giunti in India, si
uniscono alla Suore di Madre Teresa per portare qualche
medicina e fasciare le piaghe. Non si hanno molte pretese, si
vuole solo essere segno per tentare di rompere il “muro” e
suscitare interesse. Ben presto professori e studenti di medicina
si unirono a noi per portare cure adeguate.
185
Nel maggio 1977 il governo chiede l’aiuto alla Chiesa
Cattolica perché costruisca un centro per la riabilitazione degli
ammalati di lebbra. In risposta a questo appello abbiamo
fondato una società ufficialmente riconosciuta e registrata dal
Governo. E si preparò un piano coraggioso per costruire un
villaggio: ‘Sumana Halli’ (Il villaggio della buona volontà). Il
governo ha offerto una grande area di terreno.
Il piano comprende la costruzione di 400 casette per
raccogliere gli ammalati di lebbra con le loro famiglie.
L’obiettivo della ‘Sumana Halli’ non è solo la riabilitazione
fisica degli ammalati di lebbra, ma si punterà anche alla loro
riabilitazione sociale.
In Bangalore si sta creando un grandissimo interesse per
questo nostro progetto. Gente di ogni ceto sociale e di diversa
denominazione religiosa ci sta aiutando generosamente...».

Ancora sul problema della Coca

P. Pasquale Buondonno torna sul problema della coca.


«Tutte le persone sane e sensate concordano nel dire no al
consumo degli stupefacenti, tra i quali la cocaina. Si eccettuano
rari casi di medicinali. I dispiaceri sorgono quando si tratta
della coca allo stato naturale.
Noi Monfortani che stiamo lavorando nella ‘Mecca della
Coca’, Huanuco, siamo senza esitazione per il no e vediamo in
questa droga uno dei grandi nemici della nostra opera di
evangelizzazione.
Ci proponiamo di combattere contro questo grande e
secolare nemico. I giornali ci hanno fatto ridere quando hanno
annunziato che nel 1980 questa battaglia sarà vinta: l’uso della
coca in quell’anno sarà completamente scomparsa dal Perù.
Sarebbe questo uno dei propositi del Governo rivoluzionario
che regge attualmente il Perù, con l’autorità delle armi. Noi che
conosciamo e viviamo la situazione vediamo in questo
proposito solo un pio desiderio, un futuribile da utopia. La
186
storia di tanti secoli insegna... Un po’ come per i tabacco: serve
più da propaganda che da freno.
Ad ogni modo seguiteremo a combattere, anche se un
risultato positivo non ci arride neppure a scadenza di decenni.
L’evangelizzazione abbraccia la salute del corpo e quella
dell'anima. È compito nostro promuovere anche lo stato di
salute fisico. Ora si sa bene e lo si sapeva da secoli quali danni
produca l’uso della coca. A cominciare dalle persone che
vivono o lavorano nelle piantagioni di questo arbusto...
Nel 1977, il prof. Manuel Jimenez si augurava: “... Il
giorno nel quale il Perù riuscirà a liberare la maggior parte
della popolazione dagli effetti nefasti della coca, avrà ottenuto
la rigenerazione di una razza vigorosa ed esuberante... E’ un
dovere patriottico redimere l’indio dalla schiavitù della coca”.
Mettiamo a due mani la firma sotto questo augurio.
Sarebbe, pensiamo, in gran parte risolto il problema religioso
in generale e quello della lacrimevole scarsità di vocazioni in
particolare. Da masticatori di coca sarebbe una illusione
aspettarsi una pratica cristiana fervorosa e un miracolo il
sorgere di vocazioni alla vita consacrata e apostolica...».

Considerazioni sulla gioventù malgascia

Padre Carlo Berton invia notizie sulla gioventù malgascia.


«Nel 1973 i giovani di Tamatave misero a soqquadro la
città, esplodendo in una convulsione tribale: rivoluzionarono
tutta la città e misero in fuga disordinata la popolazione degli
altipiani. Più di 12.000 persone fuggirono con tutti i mezzi.
Con l’avvento del nuovo governo e la proclamazione della
Repubblica Democratica Malgascia, il 30 dicembre 1976, i
giovani rivoluzionari stanno spuntando come funghi in ogni
angolo dell’isola. È vero che la parola “rivoluzionario” è tinta
di acqua di rosa e spesso può essere una manovra dei Grandi:
incanalare le forze pericolose dando loro un luogo controllato
di sfogo. Una cosa è certa: la gioventù malgascia ora è sempre
187
più coscientizzata, ha una grande aspirazione all’autenticità,
alla libertà, ad essere informata, ad avere un lavoro, ad
imparare. Spesso questo non è accompagnato dal desiderio
concreto di sgobbare. Purtroppo il livello scolastico scende
sensibilmente e l’alcoolismo, con i balli notturni, rischiano di
affogare tutte le aspirazioni più legittime e valide di questa
gioventù.
I giovani nel lavoro hanno portato agli altri operai più
anziani due cose: una competenza tecnica più grande e una sete
rivendicativa basata su un senso più acuto della giustizia.
Nella pastorale della città abbiamo sempre fatto attenzione
alle aspirazioni del mondo operaio. Con i Giovani Operai
Cristiani abbiamo lanciato delle inchieste sulle condizioni di
lavoro. Proclamare la dignità di figli di Dio è nostro preciso
dovere. È il Vangelo annunciato agli umili ed ai poveri! Con
altri missionari sono stato schedato dalla polizia, ma questo
non mi spaventa. Cerchiamo attualmente di preparare dei
responsabili nelle varie organizzazioni operaie.
I disoccupati sono il tasto debole del paese, come di tanti
altri paesi africani. La gioventù fugge la brughiera con il
miraggio di una vita migliore in città. Le “bidonville”
aumentano ed i latrocini ancora di più. Per aiutare i disoccupati
in città abbiamo aperto, anche con l’aiuto di tanti benefattori
italiani, due corsi professionali per giovani e ragazze. Hanno
dato al paese degli artigiani che ora lavorano per il progresso
del paese.
Esiste anche una gioventù impegnata per Cristo. Se venite
nelle chiese di Tamatave, alla domenica, sarete strabiliati di
vedere i due terzi dei presenti tutti giovani. Sono loro i più
generosi, i più impegnati nei gruppi di Azione Cattolica, nella
catechesi, nella liturgia, nelle corali, nell’animazione dei
quartieri. Questa gioventù, anche se irrequieta e incostante, ha
un fondo di generosità e di sincerità che affascina! È su questa

188
nuova generazione che la Chiesa e il Paese contano per
l’avvenire...».

Tre fratelli missionari sulla Cordigliera delle Ande

“Tre fratelli missionari sulla Cordigliera delle Ande”: Così


Padre Tarcisio Zanga titola la sua corrispondenza dal Perù.
«...La nostra residenza di Huanuco è nella zona di
Paucarbamba. Circondata da numerose conifere, la proteggono
dal polverone che solleva il vento del mezzogiorno. Un grande
salone funziona da chiesa e c’è anche un bel campo da pallone
per i ragazzi. Alcuni locali servono per le riunioni.
La casa dei Padri è semplice ma pulita. Poco distante si
trova la casa delle Suore. Il lavoro non è limitato alla sola
Parrocchia: i tre Padri e le due Suore si spostano nelle vallate,
in numerosi piccoli paesi: Paucarbamba, Lliqua, La Esperanza,
Malconga, S. Maria della Valle, Chullqui, ecc.
A Paucarbamba P. Ernesto si è prestato molto perché la
zona avesse la luce elettrica. A Chullqui sta facendo collocare
un acquedotto per portare nel paese l’acqua potabile.
Le Suore, oltre la catechesi, riunioni di gruppo, ritiri,
visitano gli ammalati e le persone anziane e sono a
disposizione del Vescovo...».

La popolazione del fiume

P. Achille Valsecchi informa sul particolare rapporto dei


malgasci con il fiume.
«Con l’acqua del fiume si lava il neonato. La partoriente si
purifica nel fiume. Molte cerimonie culturali si svolgono nel
fiume. L’acqua del fiume è utilizzata per riannodare amicizie
per rimettere certe colpe. È ancora l’acqua del fiume che
purifica il cadavere prima di portarlo al sepolcro, dove avviene
l’incontro con gli antenati.

189
L’acqua del fiume è anche medicina per diverse malattie,
se usata in determinate ore del giorno, con gesti rituali e
preghiere propiziatorie. I malgasci venerano l’acqua. Per essi
l’acqua è o calda o fredda e mai si permettono di dire che è
sporca o inquinata.
La ricchezza per la famiglia malgascia dipende dal fiume.
È il fiume che dà l’acqua per irrigare le risaie. È l’acqua che
permette la cottura del riso. Un proverbio recita: “L’acqua è
inseparabile dal riso sia nella risaia che nel paiolo”. Il fiume
permette il trasporto dei prodotti locali: la canna da zucchero
allo stabilimento, le arance e le banane al centro di raccolta, la
legna e il carbone dalla foresta al villaggio. Nel fiume si
passano le ore di svago con il nuoto. Nel fiume si prende il
pesce per rendere più appetitoso il riso.
Anch’io vado a pesca. I pesci grossi li prendo con
l’arpione, quelli più piccoli con l’amo e i granchi e i gamberi
con il cestello di vimini ove colloco conchiglie come esca.
Come missionario, lavorando in una zona dove i fiumi
sono numerosi, comprendo il successo di Gesù che parlava alle
folle. Era sul lago che avveniva l’incontro...».

Eppure la lebbra non è una malattia ereditaria

Suor Alessandra Clara Martini, nella sua dedizione alla


causa dei lebbrosi, annota con rammarico: «...eppure la lebbra
non è una malattia ereditaria!». E aggiunge:
«...La scienza lo dice e bisogna pur crederci. I bambini,
figli di mamma e genitori lebbrosi non nascono tali e forse non
saranno mai dei malati. Purtroppo spesso, per l’intimo contatto
di vita vale il principio: per prendere la lebbra, non basta
mangiare con un lebbroso, bisogna dormire con lui... I bambini
si contagiano se non hanno le difese immunitarie nel loro
organismo...».

190
Il Piccolo Cottolengo di Kankao

Padre Giovanni Losa parla del “Piccolo Cottolengo di


Kankao”.
«... Sei mesi, anche per uno che non sta in vacanza come me,
passano alla svelta; eppure Fra Stefano, con la sua squadra di
operai è riuscito a mettere in piedi non solo due maternità: una
a Kankao e una a Phalula, ma anche un bel complesso capace
di ospitare fino a quaranta tra ragazzi e ragazze poliomielitici.
Quando mi scriveva, mi diceva semplicemente: “Il ‘Centro
Giovanni XXIII’ cresce benino e i tuoi ragazzi pure crescono in
numero e felicità”. Basta! Al ritorno tutto mi aspettavo e cioè
un complesso tale da fare invidia non dico a un villaggio ma ad
una città africana.
Venite a vedrete con i vostri occhi se dico il vero o se
esagero. Troverete tre bei fabbricati, anzi quattro... Non c’è che
dire: bisogna levar tanto di cappello a Fra Stefano e alla sua
équipe…».

Lima: La morte di Fratel Domenico

P. Pasquale Buondonno, con una lettera datata il 4 maggio


1978, parla della morte di Fratel Domenico e dei suoi funerali.
«...Con sofferenza, ieri pomeriggio abbiamo accompagnato
all’ombra del cimitero di Lima il nostro caro Fratel Domenico
Maria.
Lui stesso ripeteva di frequente in questi ultimi tempi:
“Andrò a riposare nell’Angel” (nome del cimitero). Sembrava
volesse scherzare: così noi l’abbiamo preso, specialmente dopo
che il dottor Tomassini, amico di casa, per ben due volte gli
aveva fatto un controllo generale, pronosticando almeno altri
17 anni di vita: ma a condizione che si curasse.
Il medico aveva imposto un suo programma con dieta,
medicine appropriate e visite di controllo a scadenze fisse: sia
per combattere prima di tutto il diabete che raggiungeva a volte

191
i 280, quasi al limite di sopportazione, sia per seguire poi
eventuali disturbi cardiaci e disordini circolatori.
Il nostro caro Fratello ha obbedito a queste prescrizioni,
ma solo in parte; preso dal suo attaccamento al lavoro di
oratorio non faceva i controlli con la frequenza prescritta. Un
infermiere che gli passava le pastiglie per reumatismi,
concorreva a deviare l’attenzione dai disturbi al cuore, come la
mancanza di respiro nel muoversi con palpitazioni al cuore
accelerate; Domenico attribuiva tutto questo malessere ai
dolori reumatici. In queste circostanze siamo arrivati alla
conclusione repentina e dolorosa della sua vita missionaria.
Difatti la mattina di martedì, 2 maggio, fra Domenico si è
alzato come sempre alle 5.30. Stava bene, senza grossi disturbi.
Quella mattina, e qui è l’ispirazione del Signore, aveva voluto
accostarsi al sacramento della riconciliazione. Era sceso poi ad
aprire la chiesa. Partecipò alla Messa con noi, alle 7.00 e con
noi fece la sua colazione. Come al solito si era avviato al suo
oratorio per le pulizie.
Più tardi, con la sua borsa, si era recato alla vicina Plaza de
Mayo per comperare il pane. Al rientro, infilando il corridoio,
si sentì mancare il respiro. Si sedette sulla panca. Pochi istanti.
È crollato prima in ginocchio e poi lungo disteso sul
pavimento. Un giovane che passava davanti all’oratorio lo ha
visto e, intuendo la gravità, è corso a chiamarci. Quando è
arrivato P. Gheno, e subito dopo tutti noi della parrocchia, il
caro fratello era già senza vita. Abbiamo portato subito la
salma in casa e poi in chiesa, ove è incominciata una vera
processione di amici e di estimatori...».

Il seminario di Nankunda

P. Gioacchino Sangiorgo, in una rara corrispondenza dal


Malawi, parla del seminario di Nankunda.
«Nel 1924, il vescovo Mons. Auneau, pensò fosse giunto il
tempo di dare al Seminario l’indipendenza spettante a chi ha
192
ormai raggiunto il pieno sviluppo di una sana adolescenza. A
Nankunda c’erano costruzioni rimaste libere in seguito al
trasferimento della missione di Nankunda a Zomba. Qui si
aprirà e crescerà il nostro Seminario. Si chiamerà “Seminario
del Bambino Gesù”.
In quell’anno il Seminario iniziò con 40 studenti e nel
1938 si ebbe l’ordinazione dei primi seminaristi malawiani. Da
allora notevoli progressi sono stati fatti dalla Chiesa.
Attualmente ci sono più di cento sacerdoti indigeni che
lavorano assieme a circa duecento missionari.
Quando si incominciò, Nankunda era il solo seminario in
tutto il Malawi. Adesso ci sono quattro seminari minori e due
seminari maggiori.
Dopo i primi passi incerti dell’inizio, non si è tardato a
procedere e progredire con passi da gigante. Lo sviluppo di una
Chiesa missionaria è sempre stato giudicato soprattutto in base
al numero di sacerdoti indigeni che è riuscita a produrre. Così è
per il Malawi.
Al riguardo, Vescovi passati e presenti sono concordi nel
ritenere grande il bisogno dei seminari. Qui i giovani chiamati
al sacerdozio, vengono preparati al difficile compito di saper
affrontare le crescenti esigenze di una Chiesa in costante
sviluppo.
Adesso il seminario di Nankunda prende cura solo dei
candidati di due Diocesi: Zomba e Mangochi. In questa ultima
diocesi lavorano i Padri Monfortani Italiani, in quella di Zomba
lavorano i Padri Monfortani Inglesi e Francesi. In ambedue le
Diocesi ci sono sacerdoti malawaiani.
Vale la pena farlo rilevare. Mentre in Europa diverse
nazioni sollevano dubbi sulla validità o meno dei seminari, può
sorprendere che qui i seminari sono considerati validi e
destinati a sostenere una parte importante nella formazione del
clero. In una nazione come il Malawi, dove solo il 5% di quanti
vanno scuola è ammesso ai corsi superiori statali, la Chiesa non

193
può pretendere che il Governo si addossi la spesa e la fatica di
educare anche i ministri della religione.
D’altronde si sa che la vita e la missione del sacerdote
richiedono una particolare preparazione e questa, pensano i
Vescovi del Malawi, può essere data solo nel seminario...».

Alluvione nella missione di Nankwali

P. Francesco Perico parla dell’alluvione avvenuta nella sua


missione di Nankwali.
«...A Nankwali l’alluvione fu spaventosa e arrivò di notte.
Il fiume Tsangasi che viene a lambire la collinetta sulla quale è
posta la missione, straripò sorprendendo nel sonno i villaggi
sottostanti. Grida di panico si levarono nella notte, la gente,
svegliata di sorpresa dal fragore delle acque cercava
disperatamente l’unica via di scampo arrampicandosi sugli
alberi, mentre la furia dell’acqua portava via le loro capanne.
In Italia, se viene l’alluvione, alla più disperata ci si rifugia
al piano superiore e qualcosa si riesce a salvare, ma qui si resta
puliti, senza casa, senza vivande, fortunato chi riesce a salvare
la vita.
Quell’alba di marzo non fu salutata dal consueto canto dei
galli, ma dalle grida della gente appollaiata sugli alberi. Alla
missione, unico posto rimasto all’asciutto, fu subito
organizzata un’opera di soccorso. Il Padre, assieme alle buone
Suore Sacramentine ed ad altra gente della missione,
raggiungeva gli alluvionati con l’acqua talvolta alla cintura,
talvolta alla gola.
Nell’opera di soccorso fu data la precedenza ai bambini e
agli anziani che furono subito trasportati alla missione. Intanto
l’acqua, dopo la prima violenta ondata incominciava a
diminuire rendendo così più facile il trasporto delle persone e
delle poche cose rimaste... La furia delle acque si è calmata, il
sole è tornato a splendere ma gli alluvionati sono ancora qua
sulla collina di Nankwali in attesa di sistemazione...».
194
Ottimismo circa il futuro dei giovani malgasci

P. Carlo Berton volentieri di “profumo di giovinezza


malgascia”, e si mostra ottimista circa il futuro della sua
missione. I catechisti volontari sono «... divisi in gruppi vari
secondo del numero degli allievi, seguono prima di tutto corsi
di pedagogia e di catechesi. Non abbiamo ancora dei testi
preparati dalla commissione diocesana. Due anni di studio sono
necessari per il Battesimo e per l’Eucaristia. Dopo il Battesimo
si approfondisce la fede ed alla fine dei corsi si rinnovano le
promesse battesimali.
Ancora due anni di catechismo portano gli adolescenti o i
giovani alla Cresima: sarà una scelta più cosciente, fatta all’età
in cui di capisce meglio, nella propria vita, quanto significa
vivere l’impegno di militanti di Cristo.
Tre giorni di ritiro alla malgascia precedono
l’amministrazione dei sacramenti. Pensate a 350 battezzati e
comunicandi in un solo giorno: giovani ed adolescenti, con
famiglie al completo, riempiono già da soli la chiesa pur
capace di 2000 posti in piedi. Il resto si pigia alle pareti, nel
piazzale e seguono le cerimonie, i canti, le spiegazioni
trasmesse dagli altoparlanti.
Le celebrazioni sono accompagnate dalle danze
tradizionali, da tamburi, da battimani, da chitarre... Non ci
facciamo delle illusioni. La famiglia viene visitata e consultata
e si capisce se l’educazione cristiana del giovane sarà seguita
per l’avvenire...».

Fervore di progetti a Balaka

P. Mario Pacifici dalla missione di Balaka fa sapere che


“mattone su mattone” procede la realizzazione di alcuni
progetti.
«Se con chi ‘sta bene’ il nostro impegno è condividere la
bontà della vita, riconoscendo Dio datore di ogni bene, con chi

195
‘non sta male’ il nostro impegno è condividere con generosità
quanto Dio ha messo nelle nostri mani, anzitutto quello che
siamo, la nostra vita e poi quello che abbiamo. Questi
atteggiamenti provocano la vera pace nei nostri cuori e nel
nostro mondo che tanto la desidera.
Una parola sull’operazione Mandebvu, che sta diventando
una realtà, “mattone su mattone”. L’altro giorno P. Giancarlo è
andato a portare le porte della scuola e con grande
soddisfazione ha visto molta collaborazione da parte della
gente: “mettiamo anche le porte?”.
Ciò che sembrava impossibile, ora, collaborando, si è
realizzato».

Quest’Africa mi sta prendendo...

Padre Angelo Maffeis manifesta alcune considerazioni


sulla nuova realtà in cui vive da poco tempo.
«Dopo otto mesi d’Africa sento la realtà di questa terra,
misteriosa e semplice, un po’ alla volta mi sta prendendo, come
quelle melodie della nostra infanzia che sono stampate nel
cuore e non ci lasciano più.
C’è un ospite strano, misterioso, ma conosciuto da tutti,
che si aggira per le belle vallate di Nankwali, sulle rive del lago
Malawi, nelle povere capanne della mia gente. Frate Francesco
la chiamava “sorella morte”. E questa sorella, per tanti di noi
bizzarra e crudele, ha una simpatia particolare per la gente in
questo inverno africano.
Terminate ormai da mesi le grandi piogge, prima del
torrido caldo autunnale, una temperatura fredda interessa un
po’ tutta l’Africa dell’est. Se per noi europei è una bellezza la
brezza serale e il freddo della notte gustato sotto le coperte, per
l’africano, specie per i bambini, mal protetti dai pochi stracci e
dalle capanne di fango, diventa un’arma micidiale.
Provate a chiedere a Suor Luciana, l’infermiera del nostro
piccolo ospedale, quanti bimbi ha visto morire. Il morbillo con
196
complicazioni polmonari, l’anemia, la bronchite, sono alcuni
dei modi con cui ‘sorella morte’ visita la mia gente. Il grido
delle madri che piangono i figli morti riempie ormai con triste
puntualità le nostre vallate.
Per il missionario la tentazione di abituarsi alla morte è
forte, ma quando senti nella tua carne il brivido di dolore non
puoi fare a meno di chiederti: Perché? E non te lo chiedi solo
per te, ma cerchi di entrare nella mente e nel cuore del fratello
africano, per trovare un po’ di luce nel dolore dell’uomo. Ecco,
è qui il punto dove volevo arrivare: cosa è la morte per gli
africani? Cosa può dire a noi?
Stupisce profondamente la straziante scena di dolore che
accompagna la morte della gente. Anche questa mattina, prima
di celebrare la Messa, l’ho sentito, inconfondibile, penetrante e
quasi disumano, il grido di una madre che piangeva la morte
del suo piccolo: “Figlio, figlio mio..., vengo anch’io, vengo
anch’io!”.
Al villaggio il lamento si allarga, altre donne si uniscono
alla madre per formare un unico coro di dolore. Dopo due
giorni è la volta del funerale. Se il morto è cristiano, tra canti e
preghiere, viene portato a sepoltura; se è pagano il tutto finisce
in pochi minuti...
Quando chiedete ad una madre di che malattia il bimbo è
morto, vi sentirete rispondere: “Non so...So solo che...così ha
voluto Dio”. Quanto è forte per noi la voglia di gridare in
faccia a questa mamma: “Tuo figlio è morto per morbillo,
anemia, bronchite, denutrizione, malaria, freddo...”.
E domani? Il sole che nasce ancora, più puntuale della
morte, colorerà di luci il lago Malawi. E la mia gente
ricomincerà a vivere e sperare perché: “Kufuna kwa Mulungu”.
“Così vuole Dio!"».

197
Due cose importanti: la Bibbia e la vanga

P. Carlo Berton fa sapere dal Madagascar che i nuovi


focolari che stanno nascendo nella loro missione dispongono di
due cose importanti: la Bibbia e la vanga.
«... Come i monaci benedettini che con questi due
strumenti hanno dissodato le terre d’Europa, devastate dalla
invasioni barbariche ed hanno salvato dalla carestia i popoli
latini, così vogliamo che avvenga qui da noi. Creare su un
regno di miseria, di superstizione e di carestia, una tribù
affratellata da una nuova solidarietà, capace d’autogestirsi,
assetata di progresso economico, morale e spirituale. La gloria
di Dio è l’uomo vivente!».

Piergiorgio Gamba viene consacrato sacerdote

Nella cattedrale di Mangochi Mons. Alessandro Assolari


ha consacrato diacono Piergiorgio Gamba. Il 9 dicembre
successivo verrà consacrato sacerdote. Dalla missione di Mpiri
scrive:
«... Inviato dalla Chiesa tra questi nostri fratelli del
Malawi, mi sento fortunato di dividere con loro la mia vita. E
sabato 9 dicembre 1978 sono diventato sacerdote. Questo dono
che mi riempie di gioia mi fa anche sentire che è troppo grande
per me. Tutti oggi dicono che le parole non bastano più ed è
con la vita che si testimonia il Vangelo e l’amore che ci ha
portato. Da solo sono sicuro che non ci riuscirò.
Ho voluto scrivere per chiedere di pregare per me. Dio mi
aiuti, mi dia tanto coraggio perché al primo posto della mia vita
metta sempre Lui e tutti i nostri fratelli, soprattutto i più poveri
e oppressi dall’ingiustizia...».

198
Sono felice di trovarmi di nuove ad Utale

P. Gianni Maggioni, rientrato dall’Italia, scrive dalla sua


nuova missione di Utale:
«Sono ormai trascorsi parecchi mesi dal mio rientro
dall’Italia e solo ora mi decido a farmi vivo, per rinnovare
ancora una volta a tutti voi, amici delle missioni, il mio grazie
per la vostra comprensione, per il vostro aiuto e per la vostra
generosità. Ho lasciato Mpiri, dove ho trascorso otto anni, per
una nuova destinazione: Utale.
Sono contento di trovarmi qui. Mi trovo come in mezzo ad
una grande famiglia. I cristiani sono molti, sparsi in 15
succursali. Il lavoro non manca, anzi. Ci vorrebbero più
braccia. Io sto bene e sono contento; non mi sento poi tanto
solo come alcuni pensano. Sono unito a voi, miei cari amici,
perché sono sicuro della vostra preghiera, del vostro ricordo e
della vostra collaborazione...».

La mia giornata di missionario novello

Dalla missione di Nsanama, Padre Battista Torri scrive per


parlare della sua giornata di missionario:
«...E’ da un po’ di tempo che anch’io andavo cercando
l’occasione per farmi vivo e mandarvi qualche notizia. Ecco la
descrizione della mia mezza giornata odierna.
Come tutte le mattine, da più di un mese, a Nsanama lo
svegliarino alle 5.30 mi viene dato dai primi raggi di sole, dal
fischiettare e trillare degli uccelli e dal bisbiglio degli operai
che arrivano davanti alla nostra casa per continuare la
costruzione della chiesa.
Sto facendo colazione e bussano alla porta. Entra il
catechista per dire che fuori c’è un giovanotto che chiede
l’urgente presenza di un Padre nel suo villaggio. C’è
un’ammalata che desidera ricevere gli ultimi sacramenti. È la

199
prima volta che mi capita di amministrare il Viatico e
l’Estrema Unzione in terra africana.
Cerco una bicicletta. Il catechista pedala davanti, portando
sulla canna il giovanotto che è venuto a chiamarmi. Pedala!
Pedala! Comincio ad averne a sufficienza. Un’ora se n’è andata
e non ne posso più. Non mi ero mai sognato di allenarmi in
bici, e l’ultima volta deve perdersi nella notte dei tempi...
Pedala! Pedala! Ed ecco un branco di capre e pecore. Le
capre scattano prontamente con due salti nella scarpata, ma le
pecore no, rimangono lì, non si spostano. Qua finisce che ne
investo una.
Pedala! Pedala! Adesso cominciano a far capolino pensieri
cattivi. Chi me la fatto fare? Che peccato ho fatto?... Forse il
peccato più grosso è stato quello di aver chiesto di venire in
Africa e poi ti accorgi che di mani ce ne vogliono due e tutti i
piedi.
Pedala! Pedala! Mi sento come il cireneo che aiuta sì Gesù
a portare la croce, ma se c’è riuscito è solo perché Gesù stesso
glielo ha permesso e gli ha dato la forza per farlo...
Finalmente vedo che davanti si sono fermati. Siamo
arrivati! Smonto dalla bici e, mentre le gambe si fermano, la
testa fa per parecchie volte il giro del mondo. Ma ecco che il
giovanotto mi viene vicino, mi prende la bici e, spingendola,
taglia dentro, in mezzo ai campi. Dopo venti minuti noto che
vicino ad una capanna c’è un assembramento di persone.
Siamo arrivati! Alzo il polso per guardare l’orologio: sono le
9.30. Due ore tirate allo spasimo, senza un attimo di sosta...».

Inaugurazione di Maria Bhavan: casa di Maria

Dall’India P. Mario Belotti invia la cronaca


dell’inaugurazione (8 settembre 1978) della nuova fondazione
monfortana a Bangalore: Maria Bhavan (Casa di Maria).
«L’otto settembre scorso ricorreva il quinto anniversario
della venuta dei Padri Monfortani in India. Sembra appena ieri,
200
quando il Superiore Generale ci disse: “Andate ed incominciate
ad ogni costo”.
Sembra appena ieri quando, una volta giunti in India,
sentimmo il bisogno di visitare per conoscere il Nord e il Sud,
l’Est e l’Ovest, con la speranza di poter dire: “Ecco, adesso è
chiaro dove dobbiamo fermarci e che cosa dobbiamo fare”. Ma
ad ogni tappa la solita frase: “E’ inutile, siamo fuori tempo
massimo!”.
Sembra ieri quando, visto a Bangalore un barlume di
speranza, cominciammo le peregrinazioni negli uffici del
Commissariato di Polizia allo scopo di ottenere il visto di
permanenza. Quante sante bugie abbiamo dovuto dire!
Sembra appena ieri quando incominciammo a visitare zona
per zona, piede per piede, tutta la città, nella speranza di
trovare una pezzettino di ‘terra promessa’. Una pazienza, un
“teniamo duro” durato quattro anni.
Tutto questo fu vissuto nel segno della speranza e nella
certezza, perché davanti a noi camminava la ‘nube’ quando era
giorno, e la ‘colonna di fuoco’ quando era notte.
La prova più evidente fu l’otto settembre scorso: ricorreva
infatti non solo in quinto anniversario della nostra venuta in
India, ma anche la festa dell’inaugurazione della nostra prima
casa, che già raccoglie una trentina di persone, tra religiosi,
novizi e studenti. L’abbiamo chiamata ‘Maria Bhavan’, che
significa ‘Casa di Maria’. La sua identità fu chiaramente
spiegata durante la cerimonia stessa d’inaugurazione.
Davanti all’entrata il Vescovo accese il cero, lo mostrò alla
folla - più di 400 persone convenute un po’ da tutte le parti
dell’India - e proclamò ad alta voce: “Maria Bhavan è la casa
della Sapienza”. Prese poi un turibolo, lo caricò d’incenso e
disse alla gente: “Maria Bhavan è la casa della preghiera”.
Gli consegnarono un vassoio pieno di petali di fiori
profumatissimi. Ne prese una manciata, la lanciò in aria tra la

201
sorpresa della gente sempre più incuriosita e giustificò il gesto
dicendo: "Maria Bhavan è la casa della Madonna”.
Finalmente gli venne consegnata dell’acqua benedetta,
asperse i muri dell’entrata e disse dal alta voce: “Maria Bhavan
è la casa delle virtù”. Sapienza, preghiera, Maria, virtù: ecco
come è visto il Monfortano in India ed ecco quello che
facciamo concretamente.
Siamo fondamentalmente considerati dei Missionari e
perciò continuiamo ad annunciare con convinzione la Parola,
Sapienza Incarnata, a coloro che vivono nella ignoranza
evangelica. Lo facciamo non solo nelle zone della missione
classica, ma anche e soprattutto a casa, a Maria Bhavan, che
noi abbiamo aperto a tutti coloro che vogliono sentire parlare di
Cristo.
Siamo degli animatori di comunità cristiane e perciò
riceviamo numerose richieste di ritiri o catechesi da parte di
comunità parrocchiali e religiose. Una caratteristica, questa,
che i nostri candidati ammirano molto in noi. Ecco perché
Maria Bhavan sarà un cenacolo per coloro che vogliono
imparare a pregare.
Siamo devoti di Maria, che abbiamo scelto come modello
nel nostro cammino di fede. Assieme ai nostri candidati
abbiamo riscoperto l’eredità letteraria lasciataci dal Montfort,
ed abbiamo capito che il discorso sul mezzo di santificazione
“sicuro e facile” è molto vero.
Siamo particolarmente attenti a sviluppare le virtù della
carità e della attenzione ai poveri. È per questo che qui a
Bangalore nel giro di pochi anni siamo riusciti ad individuare
la presenza di circa 10.000 lebbrosi, non solo, ma siamo anche
riusciti ad eliminare in loro il senso della disperazione ed a farli
sperare nella possibilità di una riabilitazione integrale.
Abbiamo inaugurato Maria Bhavan non con delle idee
vaghe, ma con l’ansietà di dover farci conoscere, ma con una

202
identità chiara che fa spesso dire alla gente: “Ah, questi sì che
sono preti!”».

Dopo dieci anni di vita missionaria in Italia ecco il Malawi

Dalle pagine de “L'Apostolo di Maria” P. Santino


Trussardi annuncia:
«Dopo 10 anni di vita missionaria svolta in Italia, si apre
per me, per la prima volta, una nuova strada: la vita missionaria
in Malawi. Sarò con questi miei nuovi fratelli il 27 gennaio
prossimo.
Non ho nelle vene l’entusiasmo da quota mille. Sarei
bugiardo se lo affermassi. Sono solo sostenuto dalla volontà di
continuare ad essere missionario per i fratelli con la forza dello
Spirito di Cristo. Ho fiducia in Dio e nell’uomo, nell’amicizia
vera, sincera e leale. Porto sì nel cuore la croce del distacco da
tante persone care e amiche, ma sono anche certo che questa
croce produrrà frutti centuplicati, che Dio riverserà su tutti...».

Realizzato il progetto “Asima”

Dalla missione di Kankao, Padre Giovanni Losa fa sapere


che il suo progetto è diventato una realtà.
«Secondo quanto vi promisi l’altra volta, ora dovrei
illustrarvi la vita dei miei ragazzi e ragazze poliomielitici del
‘Centro Giovanni XXIII’ di Kankao.
Il ‘Centro Giovanni XXIII’ per ragazzi handicappati è
sorto o meglio ebbe inizio effettivamente in una giornata sulla
fine di luglio 1975. Sogno di mezza estate, quindi. Forse. Solo
che qui in luglio fa freddo. Per cui dovremmo dire: sogno di
mezzo inverno...
Varie vicende ritardarono fino al 1975 la realizzazione del
‘Progetto Asima’. Il 26 luglio, un po’ contro voglia, ma molto
opportunamente si diede inizio a quello che allora si chiamava
‘Villaggio Papa Giovanni’. Dovranno trascorrere due anni

203
prima che il progetto si trasformi in ‘Centro Giovanni XXIII’.
Ciò avvenne nella tarda primavera del 1977, quando, grazie ad
una bellissima spinta da parte delle Suore di San Pietro Claver,
Fratel Stefano ha potuto varare il piano. E in poco più di sei
mesi ha messo a punto il complesso di casette.
Ora è una felice realtà, non più un sogno di mezza estate. E
alla sera, quando mi affaccio sulla soglia della casa della
missione e spingo lo sguardo, nella profonda notte africana,
verso la casa illuminata del Centro, mi pare di sognare...».

Abbiamo vissuto momenti di gioia, speranza, ansia

P. Pierino Limonta e P. Pietro Lonni tracciano un primo


bilancio dell’anno trascorso in Madagascar.
“Un anno è finito, il nostro primo anno trascorso nel
Madagascar. Nel mondo e nella Chiesa abbiamo vissuto
momenti di gioia, di speranza, di ansia...
È in mezzo a questa travolgente realtà che ognuno di noi è
chiamato ad operare e a lottare, nelle fede, perché ogni uomo e
tutto l’uomo sia rispettato nella sua dignità e nella sua libertà. È
in questa prospettiva che ci hanno invitato a lavorare i vescovi
del Madagascar in una lettera rivolta a tutti i cattolici dell’isola,
nel novembre 1977, e questo nella linea degli obiettivi
fondamentali sanciti nella Carta della Rivoluzione Socialista
Malgascia: "Lo sviluppo economico, politico, sociale e
culturale, autonomo, equilibrato ed armonico; lo sviluppo di
una società più giusta dalla quale sarà bandito ogni
sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, sradicate tutte le
forme di ingiustizia, d’oppressione e di dominazione. In breve
lo sviluppo integrale di ogni uomo e di tutto l’uomo”.
Attraverso gli avvenimenti che hanno marcato in questi
ultimi anni la storia del popolo malgascio, molti cattolici, in
risposta alla chiamata dello Spirito, si sono impegnati e si
impegnano nella costruzione del loro paese. Manifestano così
la volontà di essere discepoli del Cristo...
204
“Noi abbiamo scelto di vivere nell’indipendenza, nella
libertà, nella dignità, nella giustizia e nella pace, costi quel che
costi. E nonostante le difficoltà e le minacce che possono
nascere per l’avvenire culturale e religioso dell’uomo
malgascio, noi dobbiamo rendere conto della speranza che c’è
in noi”.
È al servizio di questo popolo che si consacra l’équipe
missionaria di Mahanoro a seconda delle diverse responsabilità
di ognuno...».

205
1979
Dal freddo gelido al caldo tropicale

Prime notizie dopo il mio arrivo in Malawi

Da Mangochi invia le prime notizie P. Santino Trussardi.


«Dal freddo gelido di Bergamo al caldo tropicale di
Mangochi con un balzo incredibile di temperatura: il
termometro segna quasi trenta gradi in casa.
È quasi una settimana che sono in Malawi: nei primi
cinque giorni c’è stato bel tempo, con un sole che mi ha
abbrustolito le braccia e il viso. Ieri e oggi è incominciato una
specie di diluvio... piove, come si dice in Italia, a catinelle, ciò
nonostante la temperatura si mantiene oltre i venticinque gradi.
Prima di abituarmi a questo caldo dovrò sudare molte
magliette... Si suda sempre e sempre bisogna bere acqua, anche
per tenere in efficienza i reni.
Questo volo di 10.000 km. non solo ha mutato la
temperatura, ma anche la vita: forse è diventato più bella. Ho
lasciato Bergamo, salutato da un folto gruppo di parenti, amici
e confratelli. A Roma gli studenti mi hanno addirittura
accompagnato all’aeroporto di Fiumicino con il loro pullman
con canti e fisarmonica.
Sono sbarcato a Blantyre ancora accolto da un altro gruppo
di amici. Questi gesti ridanno veramente vita e coraggio!
Infatti, appena sceso dall’aereo, assieme alle Suore
Sacramentine, sulla terrazza ho visto molte persone che
sventolavano fazzoletti in segno di gioia per il nostro arrivo.
C’era il vescovo Mons. A. Assolari, con alcuni Padri. C’erano
le Suore con altri amici. Con le camionette, dopo altri 200 km.
di strada, abbiamo raggiunto le nostre destinazioni.
Domenica 28 gennaio il mio primo incontro con i fratelli
africani: quanti sorrisi, quante strette di mano, centinaia di

206
volte mi hanno rivolto la domanda: “Muli bwanji? (Come
stai?)”, cui rispondevo: “Indiri bwino” (Sto bene). Spero di
riuscire presto a diventare un po’ africano: capire la vita di
questo popolo, parlare la loro lingua e vivere con loro. Ora, per
i primi mesi, mi devo accontentare di vedere, sentire e
imparare. Devo considerarmi un bambino che va all’asilo e
impara a parlare, a scrivere e a vivere...».

Ultimato il “Progetto Mandebvu”

P. Mario Pacifici fa sapere: «La scuola in cemento e


lamiere del ‘Progetto Mandebvu’ è ormai ultimata; ancora una
settimana di lavoro e un centinaio di ragazzi vi potranno
entrare.
Non abbiamo ancora iniziato con la chiesa, ma con la
scuola e il pozzo. La scuola è pronta, per il pozzo ci vorrà
tempo: l’acqua è stata trovata, ma ora è necessario scendere più
a fondo, servendosi anche delle pompe per buttar fuori
l’acqua...».

La mia vita di vagabondo nei villaggi della brughiera

P. Pierino Limonta invia notizie sulla sua vita di


“vagabondo”, in giro per i villaggi della brughiera.
«Stasera la lampada a petrolio fuma come una ciminiera:
mi permette tuttavia, tra una sbuffata e l’altra di stendere
queste quattro righe. Sembrano un po’ più lunghe del solito
queste giornate. Pomeriggi e notti intere piove. Il fiume si alza
e forse domani non potrò raggiungere il villaggio seguente. È
la stagione delle piogge, mentre un caldo umido ti accolla alla
pelle i due stracci che porti.
L’acqua continua a battere sopra il tetto di ravenale,
creando un certo clima poetico, accresciuto dalla musica che la
radio malgascia alterna e comunicazioni di riunioni e incontri
nelle varie città dell’isola.

207
Penso alla gente che ho incontrato e che incontrerò, a tutti i
problemi piccoli e grossi che fanno parte della loro vita.
Mentre anche la mia lingua incomincia a sciogliersi un po’, mi
riesce di cogliere meglio la realtà di sofferenza e di speranza di
queste persone che guardano al loro riso, alle piantagioni di
caffè, uniche risorse per una vita serena. Sanno che tanta gente,
in villaggi più o meno lontani, non ha più riso e la vita diventa
dura. Anche in questi villaggi scarseggiano elementi
indispensabili e i medicinali sono difficili a trovarsi. Quali
prospettive?
Rivedo davanti a me le famiglie provate dal dolore per
l’improvvisa morte di un loro bambino. Perché? Non lo sanno.
Febbre alta e dopo poche ore... la morte. In questa stagione
calda i casi non sono isolati, ma numerosi; le parole si fermano
tutte dentro; in silenzio, penso a non so che cosa, mentre tanti
interrogativi mi arrovellano la testa...».

Dalla parrocchia di Ginosa (TA) alla missione del Perù

P. Santino Brembilla parte per il Perù. P. Severo


Agostinelli, da Ginosa, scrive:
«Ora, dopo tanto cammino insieme, le nostre strade si
dividono. Non senza un poco di tristezza, ma quello che
predomina è la gratitudine per quello che siamo stati insieme e
per quello che ora vai a fare in missione. Ti ringrazio di tutto:
della tua amicizia, fatta di poche parole, ma di profonda intesa
e comunione di ideali. La tua partenza per il Perù mi dice
chiaramente che Cristo non si è fermato a Ginosa, e tanto meno
a Bergamo, ma Cristo ci precede e ci attende là dove c’è
qualcuno bisognoso di solidarietà, di aiuto, di amore...».

Celebrazioni per le nozze d’oro del lebbrosario di Utale

Il lebbrosario di Utale celebra le nozze d’oro della sua


fondazione. P. Gianni Maggioni rileva i cambiamenti avvenuti:

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«Utale cambia aspetto. I lebbrosi ancora in forze
costruiscono le loro capanne nei dintorni della missione. Qui vi
restano solo i più poveri tra i poveri, i più colpiti, i veri
invalidi. Lo spirito però rimane: di carità e di amore. Le sue
porte si riaprono ogni qualvolta Cristo sofferente, sotto spoglie
umane, si presenta a bussare...
Parecchie casette sono andate in rovina e altre ne stanno
seguendo la sorte. Una trentina sono state riparate negli anni
scorsi. Ne restano ancora una ventina da sistemare. Per
ricordare i 50 anni di Utale ne ho costruite quattro nuove sulle
rovine di quelle cadute, aggiungendovi anche una piccola
veranda. E le altre? Quando passo vicino, prego il Signore che
me le tenga ancora in piedi, nonostante le crepe grosse, le
termiti, il tetto malandato...».

Prime delusioni della mia vita missionaria

P. Santino Trussardi confida una sua “delusione”.


«Alcuni mesi fa avevo incontrato una piccola e compatta
comunità cristiana, composta di lavoratori con le loro famiglie,
provenienti da diverse parti del Malawi. Dissi allora di aver
provato una grande gioia nel celebrare la loro prima Eucaristia
in una chiesetta di paglia.
Ad ottobre la sorpresa amara. Ritornai in quel villaggio.
Tra le mie capanne vi era una solo cristiano. Celebrai la S.
Messa con un folto numero di ragazzi musulmani e soltanto
quattro cattolici, due dei quali portati da me in macchina da
altre zone. Che cosa era successo? La gente mi diede subito la
spiegazione. “Se ne sono andati con le loro famiglie perché il
datore di lavoro sperperò tutto il denaro”.
Quei poveri avevano lavorato per mesi in una piantagione
di tabacco senza riscuotere il giusto stipendio. Avevano
pazientemente atteso fino al momento della vendita del
tabacco... ma inutilmente. Decisero di andarsene per cercare
altrove un nuovo lavoro e un padrone più onesto.
209
Non vedere i miei cristiani fu la mia prima delusione
missionaria africana. Benché la S. Messa da me celebrata sia
stata senza il tono allegro della prima, tuttavia mi ha ridato
speranza e fiducia...».

Prime avvisaglie della malattia di P. Felice Riva

La vigilia di Natale 1979, Padre Riva Felice rientrava in


fretta dalla sua missione di Huanuco, sulle Ande Peruane,
aggredito da un male crudele. Fu sottoposto subito alle varie
terapie nel reparto di Medicina Nucleare dell’ospedale di
Bergamo, ma presto ci si rese conto che il caso era
clinicamente irrecuperabile. Venne la paralisi e il successivo
deperimento organico.
Anche nel suo dolore, P. Felice ha saputo mantenere la
serenità sino alla fine. Morirà il 13 febbraio 1980, all’età di 44
anni.

210
1980
Si va delineando la missione dell’India

Bilancio dei miei anni di vita missionaria in Madagascar

P. Angelo Rota si lascia andare ai ricordi.


«Era l’agosto 1960 quando mi arrivò la tanto sospirata nomina
per le missioni. Una mezza pagina dattiloscritta nella quale in
poche parole era detto: Accolgo la tua domanda e ti mando in
Madagascar. Firmato: Il Provinciale.
Avevo trent’anni ed ero sacerdote da due. I monfortani
italiani, a quel tempo, non arrivavano ancora al centinaio. Ero
il 14° partente. La grande attività dell’istituto era la
predicazione in Italia: le missioni al popolo. Perciò ci si
riteneva fortunati se la nostra richiesta veniva accolta e si
poteva andare in missione all’estero.
Non avendo noi una zona particolare, si andava in aiuto ai
confratelli di altre Province. L’importante era partire. Gli anni
sessanta erano gli anni buoni. Il periodo dell’abbondanza, delle
vacche grasse.
Lo Studentato di filosofia e teologia contava una
sessantina di chierici e il noviziato una dozzina di aspiranti e le
classi delle medie e del ginnasio erano ben fornite. Si poteva
ben sperare. Così si era fatta strada l’idea di una missione tutta
nostra. Anzi si erano messi gli occhi sull’isola del Madagascar.
Poi le circostanze furono più favorevoli nel continente
nero e il Malawi ebbe la preferenza. Non si esclusero però gli
altri continenti perché si aprirono le vie dell’America Latina
(Perù) e dell’Asia (India).
Ora che i Padri italiani sono 220, di missionari all’estero ce
ne sono una cinquantina: 27 in Malawi, 11 in Perù, 8 in
Madagascar, 6 in India e uno nello Zambia.

211
Personalmente sono alla quinta partenza. Mentirei se
affermassi che c’è soltanto entusiasmo quando si parte. Posso
tuttavia assicurarvi che è proprio l’entusiasmo ad aiutarci a
ripartire. Naturalmente anche noi paghiamo il nostro contributo
al famoso detto: “Partire è un po’ morire”, proprio perché non
siamo diversi dagli altri. Ma questo morire un poco è vero nei
due sensi: di qui i legami del sangue, di là quelli dello spirito.
Verissimo perciò quello che la sapienza malgascia ha
stigmatizzato in uno dei suoi mille proverbi: “Many ny mody
(E’ dolce il ritornare)”.
Ciò che costa di più in queste partenze è che mentre noi
andiamo in su con gli anni, non vediamo un numero sufficiente
di giovani ‘in panchina’, pronti per il cambio quando occorrerà.
Sì, perché invece di voler entrare in campo, i giovani guardano
piuttosto ad altre squadre...Ed io mi domando: insufficienza di
giovani o mancanza di entusiasmo? Per questo si può dire
veramente che ‘partire è un po' morire’. Ciò nonostante noi
partiamo perché: “many ny mody”, è dolce il ritornare».

Sono tre anni che mi trovo in Malawi e sono felice

P. Mario Pacifici scrive: «Sono tre anni che mi trovo in


Malawi e di questo ringrazio il Signore. Tre anni vissuti con la
gente africana. Non una vita del tutto uguale alla loro, questo
non è possibile, ma certo una vita solidale. Del resto, non è
l’essere uguale, ma l’essere solidale l’impegno proprio del
cristiano: Gesù Cristo è stato con noi solidale fino a dare
qualcosa di se stesso, qualcosa della propria vita.
La gente che mi è stata attorno in questi tre anni è gente
che vive con semplicità e serenità nella sua povertà non scelta,
ma subita, trovata dalla nascita. Leggevo ultimamente un
articolo di cui non ricordo esattamente se il titolo fosse : “La
povertà per sconfiggere la miseria”, oppure: “La povertà come
ricchezza”. Comunque sia, è il senso che ha molto valore per
me e mi aiuta a continuare nel mio impegno, che a prima vista
212
risulta inutile. Per quanto fai, non è che la povertà sia sconfitta.
Ma quello che puoi fare è sconfiggere la miseria, e dopo la
miseria non viene la ricchezza, ma la povertà come capacità di
saper vivere con semplicità e nella serenità, senza quell’essere
imbottiti di cose o pensieri che rende ricchi e toglie appunto la
serenità e la semplicità.
L’impegno di noi che viviamo in missione è quello di
vivere la povertà con la nostra gente per sconfiggere insieme la
loro miseria. E la povertà la nostra gente la vive sulla propria
pelle: mancanza di case abitabili, mancanza di vestiti
sufficienti, mancanza di cibo che a volte diventa fame come in
questo periodo.
A noi tutto questo non manca: condividiamo la loro
povertà cercando di avere una vita più semplice, diversa da
quella che avremmo vissuto in Italia. Ma soprattutto nello
sforzo di accogliere la loro povertà, che a volte è pesante,
perché spinge continuamente a chiedere e rende incapaci di
reagire.
Noi alla nostra gente possiamo dare sempre fede, speranza,
carità, frutto della nostra vita cristiana. Ma siamo uomini e a
volte manchiamo nel saper accogliere la gente che viene con i
propri bisogni e per le lamentele. Non per cattiveria, ma per
mancanza di tempo, per impegni già stabiliti, per nervosismo
quando la gente è molta e sembra di non potere arrivare mai a
tutti, per l’esperienza del nostro limite che non ci permette di
trovare la risposta adeguata e i mezzi necessari per soddisfare
le loro richieste.
Tutto questo si trasforma in sofferenza dentro di noi, ma
anche in spinta a saper accogliere sempre più questa povertà
della gente e a saperla vivere da veri cristiani: cioè da persone
che sanno che Dio si è fatto uomo per condividere la nostra
vita, e che quindi vogliono a loro volta condividere la propria
vita con la gente che sta attorno».

213
Resoconto di una giornata in Kenya tra i Samburu

P. Luciano Marangon, in una sua rara corrispondenza,


parla della sua “Giornata fra i Samburu”. L'occasione gli è data
da un viaggio in Kenya.
«...Samburu: un popolo seminomade che vive al nord
del Kenya. Eccoli nei loro vestiti sgargianti, le loro collane
variopinte e numerose, appese al collo delle donne, i vecchi
con le lunghe tuniche che sono il loro unico vestito, i ragazzi
seminudi e infine la gioventù che forma la parte più
caratteristica di questa gente: i “morani” o guerrieri. Tunica
colorata appesa ad una spalla, alla romana, due lance lunghe
accuminate con la punta coperta da una striscia di cuoio che
serve da guaina o da protezione contro incidenti, un
coltellaccio lungo come una spada, appeso sotto i fianchi e un
bastone da usare come mazza. Aspetto fiero, capelli legati a
treccioline e tenuti assieme dietro la nuca, tutti intrisi di grasso
e colorati di ocra.. Personaggi che attirano subito lo sguardo, la
curiosità, ma anche rispetto e timore...
Niente sacchi di granoturco o di farina per la polenta,
niente scorta di fagioli, zucche o altri viveri. I Samburu non
lavorano la terra. Sono seminomadi e vivono del loro bestiame.
Mangiano carne in abbondanza e bevono il latte della mucca
mischiato a sangue, prelevato, mediante salasso, dalle stesse
mucche. La selvaggina abbondante non la toccano. Anche se
ammazzano una gazzella non la mangiano. Per loro è tabù,
pena qualche maledizione. E allora, che cosa fa questa gente, se
non lavora la terra? Niente. Non fa proprio niente. Bada solo al
bestiame, fonte del loro vivere. Un mondo ancora primitivo e
non intaccato dalla civiltà europea...
I Samburu non sono cristiani, ma neppure pagani e, tanto
meno, atei. Sono credenti in Dio, padrone supremo, monoteisti,
fedeli alla loro religione, secondo le tradizioni proprie. Ogni
mattina al levar del sole e al tramonto pregano. A volte prime
dei pasti, nelle loro assemblee e anche durante il giorno...».

214
Nuovo impegno missionario in Argentina

Dall’Argentina, dove si è trasferito, P. Mario Quadri,


scrive: «Dalla missione del Perù sono passato alla missione
dell’Argentina. Dalle coste del Pacifico, eccomi a quelle non
meno incantevoli dell’Atlantico, sul quale si affaccia
l’immensa metropoli di Buenos Aires. Ci vorrà un po’ di tempo
per ambientarmi, ma penso di cavarmela in fretta, conoscendo
già la lingua e le consuetudini.
Mi trovo in una parrocchia di 11.000 abitanti. Tutti portano
un volto nuovo per me e ognuno con un problema proprio. I
Superiori mi hanno messo accanto un bravo fratello coadiutore:
fra Michele, appena tornato dalla Francia, specializzato in
falegnameria. Per ora è impegnato in particolari lavori nella
capitale.
Sono inoltre coadiuvato da tre suore monfortane, Figlie
della Sapienza: una addetta all’infermeria e le altre due alla
catechesi a al ‘Club di Madres’. Da un po’ di tempo si è
aggiunta anche una giovane aspirante argentina, brava e buona,
che si dà anima e corpo per il bene di questa povera gente, non
dissimile per condizioni sociali a quella della “barriadas” di
Lima...».

In India la comunità va verso una maturità apostolica

P. Mario Belotti, dall’India, fa sapere che la Comunità


monfortana sta uscendo dalla sua fase adolescenziale e si
avviando verso una maturità apostolica.
«Mi trovo da circa due mesi assieme a P. Augusto in veste
di missionario. Obbedienti allo spirito del Montfort, ci siamo
messi in cammino verso quelle zone dell’India dove la Chiesa
ha particolarmente bisogno di aiuto.
Abbiamo viaggiato più di mille miglia e non si saremmo
mai sognati che il Signore ci avrebbe condotti in un’isola. Dico
isola perché il Delta del Godavary diventa letteralmente

215
un’isola quando il fiume è in piena. Quest’isola si trova nello
Stato dell’Andhra Pradesh e si estende su una superficie di
circa 1.500 kmq.
Fino a venticinque anni fa nessun missionario ebbe il
coraggio di attraversare il fiume: troppo rischioso, si diceva.
Inoltre, l’isola era infestata da troppi serpenti e da zanzare
portatrici di malaria e di elefantiasi. E così si chiuse ogni
discorso sull’isola con la fatalistica espressione: “E’ una terra
abbandonata da Dio”.
Nel 1955, un padre del Pime, dopo un ennesimo invito da
parte di qualche simpatizzante indù residente nell’isola, e dopo
aver fatto un atto di fede nella promessa di Cristo: “Ecco io vi
ho dato il potere di camminare sopra i serpenti e gli scorpioni;
e se berrete qualche veleno, non vi recherà danno”, un
missionario del Pime, dicevo, affittò una barca ed attraversò il
fiume. Sull’altra sponda l’aspettavano già in molti: gente
povera, semplice, ma soprattutto desiderosa di ascoltare un
messaggio di salvezza.
Nel giro di pochi anni si ottennero molte conversioni. Oggi
si contano più di 150 comunità cristiane, e moltissimi villaggi
indù chiedono di entrare nel catecumenato. Purtroppo
l’assistenza spirituale è povera: in tutta l’isola vi lavorano solo
cinque sacerdoti missionari. Ed è per questo che l’arrivo dei
Monfortani è stato giudicato provvidenziale.
Cosa stanno facendo i Monfortani in questa terra così
aperta al messaggio cristiano? Intanto stiamo studiando la
lingua del posto, si chiama Telegu, che ha un alfabeto
composto di circa 50 lettere: sembrano 50 pose di un serpente!
Quasi ogni giorno visitiamo le piccole comunità cristiane
sparse nel raggio di 30 km. attorno al centro della missione. Lo
facciamo generalmente in moto o con un calesse a due o tre
posti.
Svolgiamo prevalentemente un lavoro di evangelizzazione
e di promozione sociale. In questo siamo aiutati moltissimo

216
dalla presenza indispensabile dei catechisti e dai mezzi di
comunicazione. Occorrerà istituire altre piccole opere come
dispensari, scuole elementari e scuole per adulti: opere
attraverso le quali si stabilisce un primo contatto con la gente.
Non sappiamo ancora esattamente cosa il Signore ci stia
preparando in questa nostra nuova missione, ma possiamo dire
con fermezza che Egli ci ha chiamato qui per contribuire al
compimento della sua promessa: “Non ti chiamerò più
abbandonata!”».

Il fior di loto simbolo della presenza monfortana in India

Ancora P. Mario Belotti informa che il fior di loto,


simbolo della presenza monfortana in India, “ha aperto quattro
petali”. «....Non a caso i Monfortani hanno scelto il loto come
simbolo della loro presenza in India. Essi sono rimasti per sei
anni in posizione di bocciolo, ma in questi ultimi mesi la stella
che sovrasta il fiore ha manifestato la potenza del suo influsso
e ha dato a quattro petali la forza di aprirsi.
In termini concreti, il petalo numero uno è il nostro
Seminario di Bangalore, Maria Bhavan, dove attualmente
risiedono 4 padri, 9 scolastici e 10 liceali. Accanto alla
formazione e predicazione questa comunità offre una costante
assistenza socio-pastorale ai pazienti lebbrosi del nostro centro
di riabilitazione, Sumanahalli.
Il petalo numero due è Katrenikona, la nuova missione
dell’Adhra Pradesh, dove due padri ed uno scolastico teologo
svolgono una intensa attività di evangelizzazione tra gli
aborigeni. Attualmente in India questa è considerata la zona più
aperta al messaggio cristiano.
Il petalo numero 3 è il collegio di Santa Filomena, dove,
assistiti da un padre, 14 nostri studenti frequentano il liceo.
Questo collegio si trova a Mysore, ex capitale dello Stato del
Karnataka, a circa 190 km. da Bangalore.

217
Il petalo numero quattro è la casetta del Noviziato,
recentemente presa in affitto a Mysore, dove risiedono quattro
novizi con il loro padre maestro.
Bisogna ammettere che nel giro di pochi anni questo
nuovo fior di loto indiano s’è imposto all’attenzione del
pubblico, specialmente della Chiesa locale: “Questi Monfortani
hanno in loro qualche cosa di speciale”. Ma non c’è altro che
ringraziare il Signore per questa predilezione nei nostri
confronti. Indubbiamente Egli non ha dimenticato la “Preghiera
Infuocata” del Montfort.
Accanto al Signore sento di dover ringraziare tutti i nostri
benefattori che in un modo o nell’altro hanno fatto sì che il loto
indiano aprisse i suoi petali per proclamare la gloria di Dio».

218
Indice

1972: rose e spine del missionario ............................ p. 2

1973: nuova fondazione in India............................... p. 28

1974: un alternarsi di buone e cattive notizie ........... p. 57

1975: fervore di iniziative sociali.............................. p. 85

1976: arrivano nelle missioni i visitatori .................. p, 107

1977: grande fervore missionario .............................. p. 156

1978: realizzazione di opere importanti..................... p. 184

1979: dal freddo gelido al caldo tropicale.................. p. 206

1980: si va delineando la missione in India ............... p. 211

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