Sei sulla pagina 1di 12

Daniela Piscitelli

Dal Basic alle narrazioni


Tracce

Premessa. Il giardino dei sentieri che si biforcano.


Nel suo testo Confessione Creatrice Paul Klee ripone nel concetto di
movimento la nascita dell’opera figurativa: «Il movimento sta alla
base di ogni divenire. Nel Laocoonte di Lessing, sul quale ci per-
demmo in tante giovanili meditazioni, si dà grande importanza alla
differenza tra arte temporale e arte spaziale; il che a considerare me-
glio, non è che dotta illusione, perché anche lo spazio è una nozione
temporale. Un punto si fa movimento e linea: ma questo richiede
del tempo»1. Klee va ancora più in profondità definendo il Tempo
quale ambito dell’opera d’arte e il Movimento quale carattere della
stessa. Precorrendo di molte decadi le attuali riflessioni e sperimen-
tazioni sul concetto di movimento che si spingono anche “oltre”
includendovi l’idea della permanenza intesa come la capacità – per-
manente appunto – del progetto a essere un’opera in perenne dive-
nire. “Un’opera aperta”, come anticipava Umberto Eco nel ’62 pro-
muovendo altresì stimoli all’interdisciplinarità e all’apertura verso
codici che potessero lasciare libero accesso al fruitore nell’opera
come coautore. Nel suo immaginare i «Testi estetici», Eco si spinge
ad auspicare quella cultura in grado di promuovere, come afferma
1 — P. Klee, Confessione creatrice e altri scritti, trad. di F. Saba Sardi, Abscondita, Collana
Miniature, Milano 2004, p. 16.
135

anche Pousseur nelle sue parallele ricerche in campo musicale,


«atti di libertà interpretativa nella mente di chi legge»2 introdu-
cendo il concetto di partecipazione nell’opera d’arte. Volendoci
rapportare al nostro contemporaneo ambito disciplinare, si rende
necessaria una riflessione sul rapporto tra tecnologia e progetto
laddove l’interconnessione, la sovrapposizione, e l’esigenza di pen-
sare sempre di più a sistemi aperti ci portano inevitabilmente a
prestare attenzione alla progettazione del processo piuttosto che a
quella del prodotto finito. Un progetto di comunicazione fonda-
to, quindi, sul processo e sull’interpretazione così come teorizza
Luna Mauer – docente di Interaction Design al Sandberg Institute
di Amsterdam – la quale arriva ad estremizzare: «Il processo è il
prodotto». Alla luce di questi nuovi contributi teorici, che hanno
accompagnato se non a volte anticipato le possibilità offerte dalle
nuove tecnologie ci siamo chiesti come il Basic Design ne potesse
seguire i destini e, lontani dall’aver immaginato un percorso defi-
nito, si è provato, invece, a segnare delle tracce, «diversi futuri» di
riflessione pensando, come Borges, «ai sentieri che si biforcano».

La nutrita e consolidata letteratura, gli scritti, le riflessioni e gli “e-


serciziari” propri del Basic Design tradizionale segnano un percorso
ben definito – a partire dal Grundkurs del Bauhaus e passando per
la revisione di Maldonado alla Hochshule fuer Gestaltung di Ulm –
mentre il Basic Design per gli eventi cinetici è un terreno ancora
tutto da investigare e tutte le esperienze, italiane o internazionali, ad
oggi realizzate, (dobbiamo a Giovanni Anceschi la definizione di
Basic Design Eidomatico e Basic Design Cinetico) lasciano ancora
campo aperto alle riflessioni e alle sperimentazioni3.
Sappiamo che «il Basic intreccia propedeutica, (cioè la pratica del-
l’insegnamento di un saper fare) e la fondazione disciplinare (cioè il
pensiero teorico e metodologico che le sta alla base)»4 ma sappiamo
anche che, alla luce di tutte le sperimentazioni contemporanee, sia il
“saper fare” che il fondamento disciplinare si confrontano rispetti-
vamente con nuove discipline, nonché pratiche, in profonda trasfor-
mazione. Computergrafica, Motion graphics, Computer Animation,
Video Arts rappresentano solo alcuni dei territori di confine nel
progetto, campi di sperimentazione nei quali provare a ripensare
l’ortodossia della disciplina, riformularne gli esercizi, rimodularne la
metodologia. La ricerca avviata nel terzo anno del laboratorio di
2 — H. Pousseur (a c. di), La musica elettronica, Feltrinelli, Milano 1976.
3 — S. Guerini, Il corpo risponde. Le sinestesie nella didattica multimediale, tesi di Laurea
del Politecnico di Milano, III Facoltà di Architettura, Corso di Laurea in Disegno
Industriale, relatore Giovanni Anceschi, correlatori Dina Riccò e Antonio Camurri, a.a.
1999-2000.
4 — G. Anceschi, www.newbasicdesign.it
136

Design Multimediale, nel Corso di Laurea in Disegno Industriale


della Seconda Università degli Studi di Napoli, tenta proprio di
investigare tutte quelle esperienze significative nel campo degli
eventi cinetici legate alle nuove tecnologie per cercare di affrontare,
con consapevolezza, questi nuovi scenari. Le esercitazioni a essa
relate, poi, diventano il campo di applicazione prima e di sperimen-
tazione poi, in linea con l’approccio più ortodosso del Basic, quello
cioè che ritiene che il Basic Design sia il cuore disciplinare del desi-
gn; disciplina propedeutica e basica che si occupa dei fondamenti
propri del design, «cioè dell’individuazione e dell’insegnamento
degli elementi che lo costituiscono (forma, colore, texture) e delle
regole ricettive e percettive con cui essi interagiscono col destinata-
rio (contrasto, equilibrio, ritmo…)»5.
La domanda che ci siamo posti, quindi, è quanto la presenza delle
variabili tempo, spazio e velocità, condizionino il piano della speri-
mentazione e della ricerca nel basic. Ma ci siamo soprattutto chie-
sti come il Basic Design possa diventare strumento di progetto al-
lorché nel “processo del fare” entrano in gioco il concetto di tem-
po, di spazio in movimento e di velocità: struttura compositiva,
ritmo, movimento, sinestesie visivo/uditive, interpretazione seman-
tica e storyboarding sono tutti elementi che concorrono nel Basic
Design Cinetico e che possono offrire, come risultato, un artefatto
che sta proprio sulla linea di confine tra Motion Graphics, Compu-
tergraphics, Computer animation, Interaction Design e la Proget-
tazione di Film, e che segna la funzione registica del designer6.
Gli esercizi propri del Basic assumono quindi caratteri più articolati
proprio perché gli aspetti sintattici, morfologici, percettivi e senso-
riali si complessificano. Ed è per questo che vorremmo iniziare a
parlare di Basic Design e narrazioni.

Appunti n 1. Movimento e cinema


«Nella parte inferiore della scala, sulla
destra, vidi una piccola sfera cangiante, di
quasi intollerabile fulgore. Dapprima cre-
detti ruotasse; poi compresi che quel movi-
mento era un’illusione prodotta dai vertigi-
nosi spettacoli che essa racchiudeva»,
J.L. Borges, L'Aleph

Per definizione il video non ha definizione. Anche con un gioco di


parole viene subito da pensare al numero di linee che danno forma
5 — DESIGN & BASIC DESIGN (LABORATORIO DI TENSIONE PT 3), cmgk made,
6 Febbraio 2008, in http://www.cianomagentagiallonero.com/2008/02/03/design-basic-desi-
gn-laboratorio-di-tensione-pt-3/#more-306
6 — S. Guerini, cit.
Piscitelli: Dal Basic alle narrazioni 137

alla sua immagine: se solo ci si avvicina di più quello che si vede è


costituito da una fittissima e impenetrabile rete che apre a nuove
forme del visibile: nasce così per l’opera visuale un nuovo dispositi-
vo spaziale – escheriano – che contiene al suo interno le due dimen-
sioni della pagina, le tre dimensioni del luogo, le quattro del tempo
e dell’anamorfosi. Il testo e le immagini fanno ritorno allo spazio-
tempo e la scena si apre su una nuova disputa delle immagini che
data già agli inizi del secolo scorso: «Proviamo a pensare al debutto
del cinema. Era dominato dall’ansia di mostrare che le fotografie si
muovevano»7 : sono del 1879 Horses in Motion di Muybridge e del
1882 Running di Marey, ma bisognerà aspettare il 1902 per avere il
primo prodotto cinematografico con Meliès che rappresenta uno
dei rari esempi dell’uso di una serie di trucchi come mezzo espressi-
vo: i disegni si animano e le persone reali vivono “immerse” in que-
sta spettacolare quanto prima espressione di realtà virtuale. La ca-
panna dello zio Tom di Porter del 1903, composto da 14 scene e da
un prologo, prevede l’inserimento di brevi testi tra una scena e l’al-
tra, e subito dopo le sperimentazioni di Griffith con l’uso delle di-
dascalie e il lavoro che si svolgeva nella società cinematografica ame-
ricana Vitagraph danno inizio a quella prolifica stagione nella quale
la grafica di animazione convive con la struttura narrativa, introduce
al film, talvolta ne svela il senso. Stagione poi proseguita da maestri
quali Saul Bass, Jan Lenica e Norman Mc Laren dei cui progetti il
movimento e il suono diventano elementi costruttivi. La stagione
della Pacific Wave è stata poi segnata dalle sperimentazioni di
Carson nei titoli di testa e coda ma anche nei film dove la “fine della
tipografia” ha segnato, in realtà, gli esordi della tipografia cinetica.
A queste indagini si affiancano tutte quelle legate alla musica visi-
va che nel cinema prende corpo grazie al lavoro di Arnaldo Ginna
e Bruno Corra, i quali realizzano «filmati che, seguendo scansioni
temporali divise in battute (i fotogrammi) e dai ritmi ripresi dai
brani musicali, intendono verificare gli effetti di miscela e intera-
zione dei colori nella proiezione luminosa. Con interventi cromati-
ci diretti sulla pellicola, slegati quindi dai vincoli della ripresa ci-
nematografica, Ginna e Corra inaugurano una tecnica in seguito
ripresa e perfezionata da Moholy-Nagy, Fischinger, e soprattutto
da Len Lye e McLaren»8. Affiancano queste sperimentazioni scritti
teorici e riflessioni che porteranno Germane Dulac a parlare di
“cinégraphe” e di «scrittura dell’immagine in movimento che ha
come fine la symphonie visuelle»9. (E questi possono essere dei
primi appunti.)
7 — F. Colombo, Nel personal c’è un’anima può darsi che sia d’artista, in “Teléma”, Arte te-
lematica segni e linguaggio, II, n. 6, autunno 1996, Fondazione Ugo Bordoni, Roma, p. 14.
8 – D. Riccò, Musica Visiva e sinestesia, in D. Riccò e M. J. de Còrdoba (a c. di), MuVi.Vi-
deo and muving image on synesthesia», Edizioni Poli.Design, Milano 2007, p. 25.
138

Appunti n 2. Movimento e cinetismo

Il monitor fa parte dell’ambiente e si ade-


gua ai suoi criteri costruttivi, come un
tavolo o la palma nel vaso. Vi si ritrova la
stessa dialettica tra immagine e luogo.
Umberto Eco, Il pendolo di Foucault

Attualmente il Basic sta includendo sempre più esercitazioni cineti-


che, sequenziali, interattive e multimodali tanto da renderla discipli-
na rigorosa ma, come sostiene Anceschi, anche vivente e metamorfi-
ca. Precursore e anticipatore di questo approccio, il movimento
dell’arte cinetica programmata che prendeva spunto da Vasarely, dal
GRAV – Groupe de Recherche d’Art Visuelle – e da Agam, e aveva
in sé elementi davvero originali ma soprattutto anticipatori di una
ricerca che deve poter andare oltre il Basic Design canonico: l’idea
che l’opera stessa fosse in movimento (per effetti ottici, per il movi-
mento del fruitore, o in movimento essa stessa) pone una attenzione
molto intensa per la relazione del fruitore/utilizzatore con l’oggetto
e in secondo luogo, con l’avvento degli ambienti – di cui proprio il
Gruppo T è stato promotore e anticipatore – l’attenzione per l’in-
clusione dello spettatore nell’opera. Il primo approccio prevede una
rilettura degli esercizi propri del Basic per includere nuove possibi-
lità suggerite dalle tecnologie e costruire inusitate possibilità di mo-
vimento e di interazione, mentre il secondo immagina l’esercizio co-
me un’opera aperta, «come un genere formato da una costellazione
di elementi, in modo che l’osservatore può rivelare, attraverso una
scelta di ‘interpretazioni’, differenti combinazioni possibili dunque
differenti possibilità di distinte configurazioni: al limite, l’osservato-
re interviene effettivamente modificando la modificazione reciproca
degli elementi». In Italia Bruno Munari e Umberto Eco definiscono
così l’arte cinetica: «Un genere di arte plastica in cui il movimento
delle forme, dei colori e dei piani è il mezzo per ottenere un insie-
me mutevole. Lo scopo dell'arte cinetica non è dunque quello di
ottenere una composizione fissa e definitiva»10. Siamo quindi agli
albori di tanti rivoli che, oggi, tentano di strutturarsi in discipline:
Design Partecipativo, Design dei Processi, fino ad arrivare al
Conditional Design della Mauer. Esperimenti precursori, tutti, di
ciò che oggi chiamiamo interattività e immersività, e sono due
nozioni, queste, che vengono praticate continuamente quando si
progettano interfacce e ambienti virtuali e che entrano in gioco in
maniera dirompente quando si parla di Basic Design Cinetico11.
Non solo: i temi della virtualità hanno ri-posto al centro dell’atten-
9 — D. Riccò, cit. p. 27.
10 — M.A. Tomassini in http://www.net-art.it/magazine/old-articles/cinetica/index.html
Piscitelli: Dal Basic alle narrazioni 139

zione il corpo poiché vengono invocati e convocati tutti i sensi: le


sperimentazioni di Stelarc realizzate grazie all’aiuto di protesi corpo-
ree, quelle di Robert Rockeby nella sua più importante opera Very
Nervous System e infine la trilogia di Tamas Waliczky anticipano12 le
attuali indagini di Emily Gobeille dove la tecnologia sparisce per
lasciare spazio a una immersività più poetica e suggestiva. (E questi
possono essere ancora appunti.)

Appunti n 3. Movimento e generativa


Le ventidue lettere fondamentali le incise,
le plasmò, le combinò, le soppesò le per-
mutò e formò con esse tutto il creato e
tutto ciò che c’è da formare nel futuro.
Sefer Jesirah 2.2

Sono degli anni ’50 le prime sperimentazioni di computergrafica


con le Oscillazioni di Ben Laposky e quelle di Herbert W. Frank in
cui lo schermo diventa così un dispositivo accessibile. Laposky lavo-
rava utilizzando strutture analogiche attraverso le quali, però, riusci-
va a “programmare” variazioni di forma dei modelli, simulando i
modelli esistenti in natura e ponendosi, come egli stesso sostiene,
come il prosecutore, grazie alla sua Oscillographic art, della musica
visuale. Allo stesso tempo se volessimo realizzare un raccordo pin-
darico (anche questo) potremmo immaginare in Laposky il precur-
sore dell’attuale Hybrid Design13, il design bioispirato che dall’imi-
tazione dei fenomeni naturali, per Laposky fisici soprattutto, trae
ispirazione per progettare nuovi modelli, nuovi processi, nuovi ar-
tefatti. Partendo dalla musica e dalla fotografia, invece, si approda
(di nuovo) ai film e al lavoro di John Whitney Sr. e ai suoi primi
film in 16mm per la televisione tra i quali, a detta di tutti, il suo
capolavoro è Arabesque prodotto nel 1975. Ognuno dei film pro-
dotti con il programma di Citron è formato da migliaia di piccoli
punti che ballano letteralmente di fronte agli occhi dell’osservatore,
formando intricate e colorite configurazioni ipnotiche. Whitney, che
spesso disegna un’analogia tra gli effetti visuali nei suoi film compu-
ter-generati e l’esperienza dell’ascolto della musica, ha spiegato: «Io
sto usando il computer come se fosse un nuovo genere di pianofor-
te. Usando il computer per generare azione visuale periodica, con

11 — G. Anceschi, cit.
12 — Intervista di C. Sottocorona a Derrick De Kerkhove, Il virtuale ha un'estetica che lo
rende ancora più umano, in “Teléma”, n. 6 cit., p. 18.
13 — C. Langella, Hibrid Design. Progettare tra tecnologia e natura, FrancoAngeli, Collana
Culture del Design, Milano 2007.
140

una mente per rivelare armonici, contrapposti ad anarmonici feno-


meni. Creare tensioni e risoluzioni e formare strutture ritmiche fuori
dai modelli ripetitivi e in serie in corso. Creare armonie in movi-
mento che l’occhio è probabile che percepisca e goda». Il lavoro di
John Whitney è poi continuato nei film della sua prima assistente,
Larry Cuba, che fece la programmazione per Arabesque. I film della
Cuba, incluso 3/78 e Two Space, sono limitati a un vocabolario di
punti bianchi su un campo nero. Nel suo più recente lavoro, Calcu-
lated Movement (1985), ha usato un personal computer con uno
schermo raster che per la prima volta gli ha permesso di utilizzare
aree solide di colore invece di soli punti. Ma visto che le immagini
sono generate tramite algoritmi scritti con il linguaggio del compu-
ter, si verifica un paradosso nel tentare di usare delle parole per de-
scrivere immagini per le quali non ne esistono. Come Raphael
Bassan ha scritto nel 1981 in un articolo de “La Revue du Cinéma”,
«La computer animation stabilisce un parallelo tra la percezione
visuale e una struttura di ordine linguistico o matematico: e la ricer-
ca di Larry Cuba si pone all’origine di una nuova direzione che non
ha ancora un nome…»14 e che tende a fare del dinamismo e dell’au-
togenerazione delle forme, la sua massima espressione. Le contem-
poranee ricerche su questo sentiero si muovono sul confine della
Net Art e sono rappresentate dalle sperimentazioni di Martin Wat-
tenberg, Sand Shrimp; di Arola e Salminen, It came from the petridi-
sh; di Case Reas, O-cell15; solo per citarne alcuni e sicuramente la
ricerca di Daniel Brown spicca per originalità e poeticità poiché si
scoprono nelle sue sperimentazioni le suggestioni dei lavori di Fi-
schinger e Anceschi fino a concepire una propria letteratura bio-
ispirata. (E questi possono essere altri appunti.)

Appunti n 4. Movimento, struttura narrativa e regia


Ma siccome ero ubriaco, mi rimisi alla
tastiera e digitai SOPHIA. La macchina mi
richiese con cortesia: “Hai la parola d’ordi-
ne?” Macchina stupida non ti emozioni
neppure al pensiero di Lorenza.
Umberto Eco, Il pendolo di Foucault

Abbiamo provato a tracciare degli appunti, pindarici, che avevano


solo lo scopo di offrire una panoramica veloce e frammentaria sui
tanti approcci e sulle derive del progetto del movimento. E potrem-
mo forse dire che, come per il Faust di Goethe, c’è questo desiderio

14 — R. Bassan in http://www.wikiartpedia.org/index.php?title=Cuba_Larry
15 — C. Langella, cit. p. 25 sgg.
Piscitelli: Dal Basic alle narrazioni 141

di liminarità tra anima e sensi, il desiderio di navigazioni virtuali


oltre il tempo, lo spazio, il corpo16. «Ma il progetto globale del vir-
tuale, come hanno intravisto non senza preoccupazione Baudrillard
e Virilio, è destinato a diffondersi quanto la televisione e a banaliz-
zarsi e a demonizzarsi quanto l‘automobile17». Il rischio che si corre
è quello cioè di esaltare l’interattività o la virtualità o il cinetismo
fini a sé stessi. Torna assai utile allora, affrontare la questione dal
punto di vista dei linguaggi espressivi, delle estetiche e delle poeti-
che laddove questi possono diventare strumenti per la costruzione
di narrazioni. Abbiamo l’esperienza delle reti e dei cibernauti dove
si rinnova il mito del viaggio e la creazione simbolica dell’altro.
Abbiamo ipertesti con cui ridisegnare emotivamente la memoria,
stabilire le proprie icone, costruire i propri magazzini18. Abbiamo
un sistema visivo e segnico che non si pone più come opera chiusa
ma come processo nel quale il proprio contributo è solo un elemen-
to intermedio di una traiettoria aperta verso sentieri che si biforca-
no. «Oggi, nel progettare si ha la consapevolezza che quel progetto
è l’inizio o la parte di un processo, di una traiettoria che in qualche
modo sarà modificata dalla parte attiva dello spettatore: veicolo di
esperienza piuttosto che rappresentazione delle cose ed è per questo
che il design potrebbe divenire componente decorativa, ininfluen-
te». Ed è per questo motivo che gli strumenti del Basic design pos-
sono avere un ruolo fondamentale, costituendosi come “nuova pra-
tica”– il new basic design – entro cui poter costruire un progetto in
divenire, strumento per poter costruire narrazioni aperte. «Finiamo
allora da dove avremmo dovuto cominciare: il desiderio delle forme.
Il bisogno di abitarle e di tramandarle19».
La pratica della narrazione, non solo come rottura artistica, ma
anche come progetto e come condivisone di regole o di visioni si
rende necessaria per immaginare nuovi scenari e la disciplina del
new basic design può rappresentare quella pratica in grado di
distinguere la verosimiglianza del racconto dalla manipolazione
delle percezioni. O per lo meno può aiutare a costruire un punto di
riflessione.

16 — A. Abruzzese, È un’occasione per tutti diventare attori, e artisti, in “Teléma”, n. 6 cit.


p. 21.
17 — Intervista di C. Sottocorona a Derrick De Kerkhove, cit. p. 19.
18 — A. Abruzzese, cit. p. 23.
19 — Ivi, p. 24.

Potrebbero piacerti anche