Sei sulla pagina 1di 6

Il Divulgatore n° 2-3/2006 vite & vino Biodiversità, turismo e tipicità: le direttrici di un possibile rilancio – pagg.

46-60

Le vigne dei padri


Un’indagine condotta dal Crpv e dall’Università di Bologna sta analizzando il patrimonio
genetico dei vitigni dell’Emilia Romagna per valutarlo, conservarlo ed eventualmente
valorizzare le varietà più interessanti. Fra i vitigni più antichi e più tipici dell’areale
bolognese figurano Albana, Montù, Angela,
Alionza e Negrettino; due viti centenarie sono state rinvenute a Imola e a Pianoro.
Marisa Fontana Crpv - Filiera vitivinicola
Ilaria Filippetti Università di Bologna Dipartimento di Colture Arboree

ANCIENT VINEYARDS
A survey run by the Research centre for Vegetable Productions and by the University of Bologna focussed on the genetic
patrimony of Emilia-Romagna vineyards in order to evaluate, to protect and eventually to valorise the most interesting cultivars.
Unfortunately, there is no official definition for “indigenous vineyard” although it is usually considered “indigenous” the vineyard
typical of a specific area or cropped there since a long time, that is, perfectly integrated with the traditional agricultural system of
that area. Starting from this definition, in Bologna area there are many different vine cultivars which can be considered minor
and/or indigenous: among the most ancient and typical ones, we find : Albana, Montù, Angela, Alionza and Negrettino;
moreover, two centenary vines were found in Imola and Pianoro. The latter one, the socalled “Fantini’s vine” was preserved
thanks to the foresight of some winemakers and to the acuity of a researcher and photographer from Bologna, who took a
picture of it in the sixties. During an excursion in Bologna area Apennines to catalogue the most ancienthouses, he was so
impressed by the extraordinary size of this centenary vine that he published its picture in one of the two books he was writing on
rural buildings.

Nel mondo biologico la diversità costituisce la regola, l’uniformità l’evento eccezionale” (A. Piazza), ma
evidentemente all’uomo questa diversità non deve essere mai piaciuta visto che ha sempre lavorato per arrivare
alla maggiore omogeneità possibile.
La semplificazione - perché omogeneità spesso significa anche semplificazione - ha portato indubbi vantaggi nella
gestione complessiva di una azienda agricola con finalità “industriali”, ma ha lasciato anche molti “cadaveri” strada
facendo. Infatti le scelte in termini di piante e animali fatte nei vari momenti storici hanno avuto finalità diverse,
orientate come erano a soddisfare bisogni contingenti: talora si sono preferite razze rustiche e resistenti, più
spesso razze molto produttive.
Oggi che la fame sembra qualcosa che non ci riguarda più da vicino, la voglia di alimenti particolari, che soddisfino
più la curiosità sensoriale e culturale che un reale bisogno fisiologico, ha iniziato a farsi strada.
In molti settori della produzione agroalimentare l’aspetto produttivo non è più fondamentale e per molte specie
coltivate si cercano gli aspetti peculiari delle antiche varietà; così è anche per la vite.
Purtroppo, oggi si trova ormai poco della varietà genetica presente sul territorio bolognese anche solo alla fine
dell’800. Bisogna fare poi una considerazione importante: anche se quello che ci siamo lasciati alle spalle non era
tutto buono, una collezione di germoplasma (banca genetica) si potrebbe rivelare utile in un futuro più o meno
prossimo.
In quest’ottica il Centro Ricerche Produzioni Vegetali, unitamente all’Università di Bologna, sta svolgendo
un’indagine sul germoplasma di vite ancora presente in Emilia Romagna al fine di valutarlo, conservarlo e anche
per proporre le varietà migliori per una valorizzazione.

Un’introduzione etrusca
La coltivazione sistematica della vite sul territorio bolognese sembra sia iniziata con la civiltà etrusca, anche se le
precedenti popolazioni villanoviane utilizzavano già l’uva per farne vino, visti i reperti rinvenuti appartenenti a
quell’epoca. Dopo il periodo gallico, l’arrivo dei Romani riportò in auge la coltura della vite, specie in collina e
secondo il sistema della vite maritata agli alberi di alto fusto (olmi, soprattutto).
Le invasioni barbariche e la fine dell’impero romano segnarono un rapido declino della viticoltura, che si conservò,
per il valore simbolico che aveva assunto il vino con il cristianesimo, all’interno dei monasteri.
Dopo l’anno Mille iniziò un nuovo periodo per la viticoltura, promosso dalla borghesia, in cui il vino era ritenuto un
bene prezioso, come testimoniano i vari contratti che prevedevano pagamenti in vino e i vari statuti che
regolamentavano l’accesso alle vigne, le sanzioni per chi rubava le uve, le vendite di uve e vino.
Il primo trattato che parla della viticoltura nel bolognese è quello di Pier De Crescenzi, scritto intorno al 1300, in cui
viene fatto il primo elenco delle varietà coltivate nel bolognese e nel Centro-Nord Italia.Tra le uve a bacca bianca
compare già allora l’Albana.
Tra alterne vicende si arriva fino all’800 quando l’Acerbi, nel 1825, propone l’elenco delle “viti dè contorni di
Bologna”: Montonego bianco, Paradisa, Forcella, Lugliatica, Moscatello, Malvasia, Bottona, Alionza, Albana,
Ruzzolotto, Torbiano, Malica, Querzola Angioli, Albana, Lambrusca Uva d’oro, Grilla (queste quattro sono nere, le
altre sono tutte uve bianche), Barbosina, Dorella, Pumoria, Lambrusca, Moscatello milanese, Sampiera,
Negrina,Vernazza. Già da questo elenco compaiono nomi familiari che sono arrivati fino a noi e tra i quali si può
notare anche la presenza di una Albana a bacca nera, oltre a quella a bacca bianca.

Verso la modernizzazione
L’evoluzione della viticoltura bolognese nel corso dell’800 è ben tratteggiata nel quadro che ne fa Francesco
Carega di Murice nel “Bullettino Ampelografico” del 1879: si distingue una viticoltura di pianura con viti allevate
alte, con potatura lunga, in filari e affidate agli alberi, e una viticoltura di collina, dove alle alberate si sostituiscono
spesso le “vigne” propriamente dette, con viti basse, potate corte, e distanziate 0,90-1,14 m tra di loro. In pianura le
varietà sono per lo più Alionza, Montù, Forcella, Pomoria e Uva d’Oro (nera), mentre in collina si pianta
prevalentemente Negrettino per la sua tolleranza all’oidio e per la produttività, anche se si è iniziato a introdurre
varietà francesi (Cabernet, Malbek, Pinot, ecc.), toscane e piemontesi. Queste introduzioni di materiali da fuori
regione hanno probabilmente contribuito alla scomparsa di parte del materiale autoctono, specie dopo la
sostituzione dei vigneti colpiti dalla fillossera.
Un ulteriore restringimento della variabilità genetica si è verificato negli anni ’70 del Novecento, quando i piani
Feoga favorirono un rinnovo dei vigneti in senso produttivistico.
Un lavoro della seconda metà degli anni ’80 (Silvestroni et al., 1986) aveva rilevato nel Bolognese un numero di
vitigni locali già ridotto rispetto al passato, tuttavia le indagini in corso stanno evidenziando una notevole difficoltà a
ritrovare tutte quelle varietà ancora presenti in campo. In compenso, però, sono state reperite due viti centenarie,
una con uva a bacca nera a Pianoro, la cosiddetta vite del Fantini (si veda alle pagg. 58-60) e una con uve a bacca
bianca a Imola, nel chiostro della chiesa di S. Maria in Regola, che viene indicata come Forcella.

Vitigni minori e autoctoni


I francesi hanno cercato di classificare i vitigni in funzione della loro diffusione:
1. vitigno diffuso (di importanza nazionale), quello coltivato su una superficie superiore a 1.000 ha;
2. vitigno d’importanza locale, coltivato su una superficie compresa tra 1.000 e 100 ettari;
3. vitigno poco coltivato quando interessa una superficie da 100 a 10 ettari;
4. vitigno in via di estinzione, coltivato su una superficie inferiore a 10 ettari.
Si desume perciò che si possono considerare “minori” i vitigni appartenenti alle ultime tre categorie. Viene
generalmente ritenuto autoctono un vitigno originario di una zona o introdotto in essa da lungo tempo e integrato
tradizionalmente nell’agricoltura di quell’area (legge 20 febbraio 2006 n.82).
Stando a queste definizioni, anche nel bolognese sono presenti diverse varietà di vite che si possono considerare
minori e/o autoctone, di seguito descritte.

IN CACCIA DEGLI ISOENZIMI CARATTERISTICI DEL VITIGNO


Manna Crespan
CRA, Conegliano Veneto (TV)

La vita è resa possibile da una serie di reazioni chimiche catalizzate da una classe di proteine particolari dette
enzimi, la cui struttura aminoacidica è determinata dalla sequenza del DNA corrispondente. Gli isoenzimi sono
forme molecolari diverse, per dimensioni o per carica elettrica, di enzimi che catalizzano la stessa reazione
biochimica. Le varie tipologie possono essere distinte mediante tecniche di elettroforesi, che sfruttano le differenze
di mobilità degli isoenzimi nella matrice usata per la separazione. La descrizione delle posizioni relative raggiunte
dalle diverse forme è detta “profilo” o “pattern” e viene codificata con un numero.
Per la caratterizzazione varietale della vite si usano soprattutto due sistemi isoenzimatici: quello della GPI (Glucose
Phosphate
Isomerase) e quello della PGM (Phosphogluco Mutase). Essi sono stati scelti per la loro affidabilità, infatti i dati che
forniscono sono sempre gli stessi, indipendentemente dal momento in cui si prelevano le foglie da analizzare
(annata, epoca fenologica) e dall’ambiente, in senso lato, in cui crescono le viti. Inoltre i sistemi GPI e PGM hanno
dimostrato di essere molto informativi per il loro elevato polimorfismo: in particolare sono stati ottenuti finora 14
profili GPI e 29 profili PGM, di cui 23 pubblicati.
Le analisi prevedono di macinare la lamina fogliare insieme ad un apposito tampone che consente di estrarre gli
enzimi, di seguito si esegue la separazione elettroforetica dell'estratto proteico usando come supporto un gel di
amido di patata.
Gli enzimi di interesse vengono evidenziati mediante reazione di colorazione specifica, che rende visibili le
posizioni raggiunte dalle diverse forme isoenzimatiche nel gel stesso. La descrizione delle posizioni raggiunte sul
gel prende il nome di “pattern isoenzimatico”.
Questo tipo di analisi consente di distinguere come vitigni sicuramente diversi quelli che hanno profili isoenzimatici
diversi, mentre non è detto che piante che hanno gli stessi profili isoenzimatici appartengano alla stessa varietà.
ALBANA B
Secondo i dati del Censimento del 2000, in Italia erano presenti circa 2.800 ettari di questa
varietà, ma dopo l’avvio dei piani di riconversione dei vigneti c’è stata una forte riduzione
delle superfici dedicate all’Albana, l’autoctono per eccellenza, che qualcuno ormai
considera il maggiore dei vitigni minori.
Non si può prescindere dal citare l’Albana, perché solo in Emilia Romagna, e in particolare
in una zona specifica della nostra regione, questa varietà riesce a esprimere al meglio
tutte le proprie potenzialità enologiche. Già Pier De Crescenzi nel 1300 aveva notato
questa predilezione dell’Albana per certi luoghi e Mariano Savelli, del Regio Laboratorio
Autonomo di Chimica Agraria di Forlì (Annuario 1922-1933), sintetizza perfettamente
questo aspetto: “I luoghi di Romagna ove l’Albana si coltiva, … sono: le colline di Dozza
(Imola), di Riolo, di S. Lucia delle Spianate nel Faentino, di Terra del Sole e Castrocaro, di
Bertinoro, di Cesena, di Longiano e Montiano. Tutta questa zona che trovasi ad una
pressoché identica latitudine ed appartiene ad una stessa epoca geologica, evidentemente
racchiude tuttora in se stessa il segreto della sua peculiare attitudine produttiva; infatti la
sua profondità è minima, non oltrepassando mediamente in linea retta quella di 2-3
chilometri, e tutti i tentativi fatti per l’impianto di vigne d’Albana oltre i limiti di questa zona,
sono rimasti infruttuosi; il vino che ne risulta perde il color d’oro, l’odore e la morbidezza, confondendosi con un
ottimo vino bianco comune”.
Per evitare che l’Albana continui a perdere i suoi spazi, il Comune di Imola ha iniziato un’attività di recupero e
valorizzazione di questo vitigno con la collaborazione di Crpv e Catev di Faenza. Per il momento sono stati
recuperati vecchi biotipi in vigneti in procinto di essere abbattuti e si è allestito un nuovo vigneto dove sarà
possibile confrontarli tra loro e prelevare materiale vegetale locale per il rinnovo degli impianti. In futuro verranno
valutate anche diverse tecnologie enologiche per arrivare alla predisposizione di una sorta di disciplinare e
produrre una “massa critica” di vino Albana secco con caratteristiche ben definite e identificabili con il territorio di
produzione.

MONTÙ B
Con i suoi circa 600 ettari coltivati in provincia di Bologna, non corre rischi di estinzione, anche perché si presta per
la realizzazione di vigneti meccanizzabili nelle aree di pianura.Viene citato perché si
tratta di un vitigno tipico dell’areale bolognese, anche se in passato, col nome di
Bianchino era piuttosto diffuso anche in Romagna. Diversi autori sono concordi nel
ritenerlo un vitigno coltivato da antica data nel bolognese, anche se indicato con nomi
diversi. Infatti il Tanara cita un Montenego che ha tutti i tratti del Montù, come pure
potrebbe essere Montù il Montonego bianco citato più tardi da Acerbi. Cavazza riporta
(1905) l’ipotesi formulata dal marchese Bevilacqua sull’origine del nome attuale; secondo
lui poteva derivare da una corruzione dialettale dell’espressione “molta uva” (molt’û, da
cui montù).
Nelle colline di Imola è stata trovata un vecchissima vite maritata a un acero, indicata
dalla proprietaria del fondo come Bianchino. Le analisi isoenzimatiche condotte dal CRA
di Conegliano hanno escluso che si tratti di Montù (GPI 2 PGM 4), ma il pattern
isoenzimatico riscontrato, GPI 9 PGM 1, è risultato uguale alle seguenti varietà iscritte al
Registro Nazionale delle Varietà di Vite: Malvasia del Lazio, Timorasso, Trebbiano
romagnolo e Vega. La descrizione ampelografica del Bianchino a confronto con quelle
delle varietà suddette, reperite in bibliografia, ha permesso di escludere la sinonimia con
tutte queste varietà tranne Timorasso, per il quale servirebbe un confronto
in campo o l’analisi del DNA. Potrebbe comunque trattarsi di uno di quei vitigni bianchi assimilabili al Trebbiano per
il tipo di vino ottenibile, ma indubbiamente meno produttivi e pertanto trascurati dalla selezione dell’uomo.

ALIONZA B
Nota con i sinonimi di Aleonza, Glionza, Uva Lonza, Aglionga bianca, è detta anche Uva
schiava, forse per la possibile provenienza da paesi slavi o per il tipo di potatura a filari,
talvolta usato in alternativa al “pergolato pensile”. Con buona approssimazione si può
affermare che questa varietà fosse presente nelle province di Modena e Bologna già in
epoca anteriore alla prima citazione storica del Tanara nel 1654. Successivamente viene
citata da Trinci (1723) e Acerbi (1825), ma bisognerà aspettare i lavori della Commisione
ampelografica bolognese del 1874 per avere la prima descrizione dettagliata della varietà.
Verso la fine del XIX secolo (1897), Jemina inserisce questo vitigno tra le migliori uve da
vino coltivate nel Bolognese e Modenese, unitamente all’Albana.Toni, nel 1927, annovera
l’Alionza fra i vitigni che hanno contribuito al miglioramento della viticoltura Bolognese,
tanto che è stata tenuta in una qualche considerazione anche dopo l’avvento della
viticoltura specializzata. Nel 2000 erano stati censiti 13 ettari di Alionza nel Bolognese (43
ha in Italia), quindi si tratta di un vitigno in via di estinzione.
ANGELA B
Quando si parla di Angela siamo già in zona “pericolo di estinzione”, visto che nel
2000 ne erano stati censiti appena 8 ettari in totale, di cui 6 in provincia di Bologna.
Di questa varietà esistono 2 biotipi, uno “bolognese” e uno “romagnolo”, con evidenti
differenze morfologiche, confermate anche dalle analisi isoenzimatiche. Peraltro i
risultati delle analisi hanno evidenziato per il biotipo di Angela bolognese,
conservato in un campo collezione a Tebano, valori non assimilabili a nessun vitigno
iscritto al Registro Nazionale.
Prima dell’entrata in vigore dell’ultima OCM vino (1999), Angela era presente
nell’elenco delle varietà di uve da tavola coltivabili in Emilia Romagna, poiché è da
ritenersi una varietà a duplice attitudine. All’inizio del Novecento (Toni, 1927), nelle
colline di Bologna venivano prodotti circa 50.000 quintali di uve da tavola, in gran
parte destinate all’esportazione, e tra le varietà impiegate a tale scopo erano
Chasselas, Negretto, Pagadebiti e in minore misura Angela e Paradisa, di notevole
resistenza alla conservazione. Nelle colline di Savignano (appena oltre il confine
con Bologna) è stato trovato un vecchio filare con diverse piante di Paradisa. Dalle
valutazioni morfologiche e dalle analisi isoenzimatiche si è visto che diverse
accessioni reperite sul territorio regionale sono simili a Paradisa pur essendo
identificate con nomi diversi (Verdea, Cellino, Uva della Madonna e forse anche Angela romagnola). Si dovranno
approfondire le valutazioni per chiarire le eventuali sinonimie.

NEGRETTINO BOLOGNESE N
Citato per la prima volta dal De Crescenzi, viene poi descritto nel 1867 da Agazzotti e da
diversi altri autori. In diversi lavori ampelografici si trova citata la Morina, ma
probabilmente si tratta di un altro termine con cui viene indicato il Negretto o Negrettino o
Neretto.
È inoltre da evidenziare che con il termine Negretto sono state indicate diverse varietà di
uve a bacca nera, particolarmente generose nel conferire colore al vino. In prima battuta
quindi è stato necessario cercare di mettere ordine e verificare se il Negretto iscritto al
Registro Nazionale delle Varietà di Vite era effettivamente quello ancora reperibile nel
bolognese: questo è stato accertato tramite la descrizione ampelografica e le analisi
isoenzimatiche.
Va sottolineato, però, che è stato piuttosto difficile trovare il Negretto, poiché negli ultimi
anni sono stati abbattuti quasi tutti i vecchi vigneti di questa varietà e bisogna ringraziare il
Consorzio Vini Colli Bolognesi per aver salvato alcuni biotipi interessanti facendo
intervenire i vivai Vitis di Rauscedo e il Consorzio Agrario di Bologna.
Nel periodo della ricostruzione post-fillosserica il Negrettino fu molto utilizzato per la sua
rusticità e in particolare per la sua tolleranza nei confronti dell’oidio, tanto che nel 1902
Cavazza riporta che dei circa 20.000 ettari di vigneti (escluse le alberate) presenti nel Bolognese, circa 14.000
erano di Negrettino. Ci si rese poi conto che questo vitigno non era particolarmente indicato per la vinificazione in
purezza, mentre per la sua ricchezza in colore poteva essere usato come vino da taglio.
Le numerose prove fatte all’inizio del ‘900 lo portarono a essere impiegato con Albana e Alionza, ma anche con
Sangiovese e Barbera, e in effetti gli ultimi vigneti rimasti erano per lo più misti di Negrettino e Barbera.
Siccome è stato possibile raccogliere l’uva sufficiente per una microvinificazione, nel 2004, presso il Centro di
Tebano di Faenza, si è ottenuto del vino in purezza che è stato valutato sia dal punto di vista chimico che
organolettico. Bisogna comunque dire che nonostante l’enologia abbia fatto passi da gigante rispetto all’inizio del
‘900, il vino ottenuto con il solo Negrettino non si è rivelato completo. Il vino si presentava di colore rosso rubino-
violetto intenso, con riflessi violetti intensi, e quindi molto attraente. Il profilo olfattivo era intenso e complesso con
note speziate, di bacche rosse e amarena, di erbaceo fresco e fenolico. Al gusto, però, è risultato astringente,
leggermente amaro, di media acidità e corposità, deludendo un po’ le aspettative che si erano create a seguito
della valutazione visiva e olfattiva.

ALBANA NERA N
Ne “L’Italia Agricola” del 1904, Domizio Cavazza scrive in merito all’Albana nera diffusa
nel Bolognese: “È noto che qui è pianta anticamente conosciuta e coltivata anche nelle
alberate della pianura, sebbene non diffusa. Pier De Crescenzi non fa menzione di
questo vitigno, bensì degli albatichi, che alquanto gli somigliano, e che si trovano ancora
nelle vigne del versante del Reno e della Limentra. L’Albana nera è vitigno che nel suo
generale aspetto, nel portamento e nel fogliame, somiglia abbastanza alla comune
Albana bianca per giustificare la sua denominazione. È vitigno abbastanza diffuso
nell’Appennino Bolognese, Modenese e Romagnolo; ed è conosciuto in quel di Porretta
e altrove col nome di Albanina, e nelle regioni elevate vien coltivato sovente come quello
che può maturare facilmente; infatti lo troviamo nel territorio di Montese, ad una
altitudine che supera i 500 metri, nonché a Riolo e lungo la valle della Limentra, mentre
è assai meno sparso nella pianura”.
Partendo da questa testimonianza e dalla descrizione che Cavazza fa della varietà è iniziata la ricerca dell’Albana
nera. Nella pianura imolese si è verificata una segnalazione, ma purtroppo non si trattava di Albana nera, come
pure lasciava dei dubbi una accessione ritrovata a Riolo Terme (RA), ma arrivata lì con la famiglia che si era
trasferita da Montecatone. Altre segnalazioni del Ravennate non avevano convinto, e si è dovuti arrivare nel
Forlivese per trovare un vitigno, segnalato come Albana nera, con caratteri abbastanza vicini a quelli descritti da
Cavazza. Le analisi isoenzimatiche hanno confermato che la maggior parte delle accessioni reperite erano simili
tra loro ed avevano pattern GPI 1 e PGM 1, mentre quella del Forlivese era diversa e aveva pattern GPI 2 PGM 6.
Sulla base dei caratteri ampelografici si era paventata l’ipotesi che, nel primo caso, si trattasse di Ciliegiolo. Le
analisi molecolari, hanno confermato questa sinonimia con il Ciliegiolo, mentre per quanto attiene l’accessione del
Forlivese, che potrebbe essere la “vera” Albana nera, le analisi molecolari a 12 loci SSR hanno permesso di
evidenziare una notevole affinità genetica con il vitigno Marzemino. Ulteriori analisi molecolari sono comunque
ancora in corso per verificare il grado di parentela tra Albana nera e Marzemino.

MALIGIA OMALISE B
Era una delle varietà a bacca bianca più diffuse sui colli imolesi, ed in particolare a Dozza,
dove era chiamata Malis. In Romagna e in altre zone del Bolognese, invece, veniva
chiamata Maligia, Malise o Malisia.
Già nel Medioevo, ci dice Pier De Crescenzi, era coltivata nei pressi di Bologna una
Malixia che per certi aspetti descritti ricorda la nostra Maligia. Il Tanara, a metà del 1600,
parlando delle viti coltivate in provincia di Bologna dice: “il Torbiano e il Montonego
posseggono alcuni caratteri comuni a quelli della Maligie, quali la maturazione piuttosto
tardiva del grappolo, la sua resistenza al marciume e la bontà del vino, che pur essendo
saporito rimane torbido per un certo tempo”.
Acerbi (1825) cita una “Malica” tra le varietà coltivate a Bologna e successivamente Berti
Pichat (1866) cita la “Malizia”. Nel Bullettino Ampelografico del 1879, la Commissione che
aveva lavorato alle varietà del Bolognese riporta il Malise o Malisia. Le accessioni reperite
nell’Imolese devono essere ulteriormente verificate.

FORCELLA B
Nel chiostro della chiesa di Santa Maria in Regola (già Convento benedettino), nel centro di
Imola, è stata reperita una vite centenaria. Si tratta della stessa vite di cui parla il Manaresi
in un libro del 1930, riferendo che si tratta di Forcella, ricopre una superficie di 240 m2 e
produce 6 quintali di uva. Zambrini, in un libro sui giardini di Imola, scrive che nel ‘700 era
già presente.
Occorre distinguere la Forcella, una varietà di uva a se stante, dall’Albana della Forcella,
che è un biotipo di Albana che si caratterizza per avere molti grappoli con la punta bifida,
carattere che spesso si associa alla presenza di particolari virosi. La Forcella viene citata
dall’Acerbi nell’elenco delle “viti de’ contorni di Bologna” (1825), poi dall’Agazzotti (1867),
che descrive una Forcelluta o Forcella bianca e successivamente da Cavazza (1904).
Al momento si sono fatte alcune osservazioni morfologiche sulla pianta del chiostro di
Imola e le analisi isoenzimatiche (GPI 2 PGM 1), ma bisognerà approfondire le valutazioni.
La vecchia signora dell’Appennino
P 350 ovvero la “vite del Fantini” è un esemplare ultra centenario, salvatosi grazie alla sagacia
di alcuni viticoltori nonché del noto ricercatore e fotografo bolognese che lo immortalò nel 1965.
Luigi Fantini è stato sicuramente un fine testimone del suo tempo (pubblicò il volume “Antichi edifici della montagna
bolognese”) e ci ha regalato un prezioso documento dell’esistenza di una vite ultracentenaria nel Podere
Terzanello di Sotto, in comune di Pianoro. La foto scattata dal Fantini in data 10 agosto 1965 ha rischiato di essere
tutto ciò che restava di un filare che conteneva “forse la più antica vite dell’Appennino bolognese”, se non fosse
stato per l’intervento tempestivo e la determinazione di un giovane del posto, Stefano Galli, e di Alessandro Galletti
dell’azienda Podere Riosto, che hanno salvato da sicura morte il vecchio ceppo e innestato qualche gemma su
giovani viti per evitare di perdere quel patrimonio naturale. La breve descrizione del Fantini riporta: “Dal grosso
tronco (cm 120 di circonferenza) si espandono in direzione nord e sud, rigogliosissimi tralci per una lunghezza
complessiva d’una trentina di metri. Produce annualmente dai 5 ai 6 quintali di ottima uva nera”.
Quando è stata ritrovata la vite, che qualcuno dice avesse avuto quasi 300 anni al momento della foto, era da
tempo sopraffatta dai rovi e parte del tronco si era rovinato, ma pesanti interventi di “restauro” e potatura hanno
permesso di salvaguardare la “vecchia signora dell’Appennino”, che ora ha anche una discendenza di giovani figlie
all’interno del Podere Riosto. Queste giovani viti serviranno per poter fare osservazioni sul comportamento
agronomico e sull’attitudine enologica di questa vite.
Di che varietà si tratta? Le analisi isoenzimatiche hanno messo in luce un pattern, GPI 3 PGM 1, che appartiene
anche ai seguenti vitigni iscritti al Registro Nazionale delle Varietà di Vite: Aleatico, Bonamico, Negretto, Nerello
cappuccio, Perticone e Uva di Troia. Si è quindi proceduto ad un primo confronto su base morfologica, che ha teso
ad escludere l’identità con Perricone, Nerello cappuccio e Uva di Troia, lasciando dei dubbi su Negretto, ma
soprattutto su Bonamico, un vecchio vitigno toscano che poteva essere anche arrivato a Pianoro, visto che questo
paese si trova sulla via che collega Bologna a Pistoia. Le successive analisi molecolari hanno escluso l’identità con
Negretto e Aleatico e non hanno trovato analogie genetiche con il Bonamico sulla base di verifiche condotte
direttamente su materiale proveniente dalla Toscana (dott. Bandinelli, Università di Firenze).
Esclusa la possibilità che si tratti di uno dei vitigni iscritti al Registro Nazionale delle Varietà di Vite, si può supporre
che si tratti di qualcosa di veramente molto antico, ma sarà difficile delineare il percorso che questa vite ha fatto
per arrivare fino a Pianoro. Le indagini proseguiranno, anche per cercare di individuare eventuali legami di
parentela, ma soprattutto per vedere se il “sogno di Riosto”, ossia avere un grande vino prodotto nelle particolari
terre intorno a Pianoro con una varietà autoctona, si potrà realizzare.

Una scoperta fortuita


L’eccezionale rinvenimento di questo antico esemplare è dovuto all’acuta intelligenza che caratterizzava la
personalità di Luigi Fantini, geologo, speleologo, archeologo, “ricercaro appenninico” come egli stesso si definì.
Egli diede un contributo determinante alle ricerche preistoriche in territorio bolognese, tanto che a lui è intestato il
Museo civico archeologico di Monterenzio, ma anche al rinvenimento di preziose testimonianze del vissuto delle
genti di montagna, come le case rurali.
Fu proprio durante una campagna svolta negli anni Sessanta alla scoperta delle antiche case dell'Appennino, che
attirò la sua attenzione la straordinaria mole di questa vite centenaria, tanto che ne
inserì l'immagine all'interno di uno dei due volumi dedicati agli edifici rurali
pubblicati successivamente. Attestano il fatto le immagini qui riportate, gentilmente
messe a disposizione dal nipote Enrico Fantini, che lo accompagnava nelle sue
spedizioni, eseguendo rilievi grafici dei particolari più interessanti.
La foto a fianco ritrae Enrico, con la cartella per disegnare, e lo zio Luigi, con
l'inseparabile macchina fotografica Zeiss a lastre, sul luogo del rinvenimento ossia
Terzanello di Sotto in comune di Pianoro.
Alla pagina precedente, lo stesso Luigi a fianco del grande fusto e in alto la pianta nel suo insieme con Enrico al
centro per renderne apprezzabili le proporzioni.

Potrebbero piacerti anche