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3-01-2020

THE SUBMISSION TRAP

Lo sgretolamento del padre

Interrogandomi sulle differenze di genere mi è sembrato di poter

fare poco conto sulla simmetria. L’evoluzione biologica, la storia

culturale e, quindi, anche la psicologia di uomini e donne seguono

cammini complementari ma diversi. Come junghiano sono abituato a

pensare le principali situazioni psichiche all’interno di due poli: giovane

- vecchio, uomo - donna. Ma il dualismo non è simmetria. L’identità

della donna è a sua volta rappresentabile da due poli: madre e

compagna (partner). Queste due forme della femminilità sono i piatti di

una bilancia funzionante: esistono e si alternano non solo in ogni società

umana, ma praticamente ad ogni stadio della evoluzione dagli animali

più semplici agli umani.

Se invece passiamo all’identità maschile vediamo che padre e

compagno di coppia (partner) sono ben lontani dall’essere simmetrici e

interscambiabili. Il padre - colui che non solo feconda la madre, ma

(come dice l’etimologia) nutre il figlio e assume una responsabilità nella

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sua crescita - esiste nelle società umane, mentre in quelle animali è quasi

assente. Anche i maschi degli animali più vicini all’uomo (le scimmie

antropomorfe) si accoppiano e generano figli non sulla base di un

rapporto stabile con la femmina o con la prole, ma quando prevalgono

nelle lotte con altri maschi. Portando all’estremo l’argomento, Margaret

Mead diceva: la maternità ha basi genetiche e si manifesta sin quando

una cultura non insegna il contrario; la paternità, invece, manca se una

cultura non la insegna. Semplificando un argomento complesso, si può

dire che il padre sia una costruzione civile, un recente

addomesticamento del maschio. Quindi non è affatto saldamente

ancorato negli istinti: non bilancia quelli del maschio competitivo e

animale, ma si sovrappone a loro e li spinge giù, nel buio dell’inconscio.

Le due polarità maschili non hanno una relazione orizzontale ma verticale.

Ciò ha una conseguenza. Nella psicologia collettiva, quando si

toglie il pesante tappo del patriarcato la prima cosa che emerge non è -

come vorrebbero un principio di giustizia - una psicologia più femminile

e accogliente (che supponiamo storicamente e biologicamente più

attento alla relazione e al dialogo). È - per la legge che la psicoanalisi

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chiama “ritorno del rimosso” - soprattutto un maschile più arcaico,

aggressivo e precivile. La legge del padre, fredda ma di massima

portatrice di stabilità, viene sostituita dall’orda dei fratelli, il principio di

autorità verticale dalla competizione orizzontale. Potenzialmente tutti

sarebbero in lotta con tutti. In concreto, il branco trova un suo ordine

fatto di gradi di forza, dal maschio alfa all’ultimo: finché una nuova

violenta competizione non rimescolerà ancora i ruoli. La civiltà - hanno

detto Freud, Jung e l’antropologia - è una crosta piuttosto tenue, sotto la

quale, nell’inconscio individuale e collettivo, la ferocia degli istinti non è

molto diversa da quella preistorica. Il patriarcato ha dominato

l’occidente storico: e da esso, attraverso la globalizzazione, gran parte

del mondo. La critica a millenni di abusi di autorità paterna è però

ancora recente e incompleta (anche se sembrava aver raggiunto il

culmine negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso).

Il ritorno degli istinti maschili pre-paterni è rinforzato dalla

dinamica economica vincente nella società postmoderna: sotto ogni

aspetto essa è divenuta più competitiva, quindi premia l’arcaica

psicologia dei maschi in lotta fra loro e tende anzi a imporla anche alle

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donne. A fronte di una maggior consapevolezza dei problemi di genere

e dei successi del femminismo sta una mascolinizzazione di molte donne

emergenti: in questo senso, per la società nel suo complesso nel XXI

secolo il riferimento interiore o “ideale dell’Io” tende quasi a diventare

ancor più maschile (anche in quello esteriore, si potrebbe aggiungere,

sono state le donne ad scegliere gradualmente i pantaloni, non gli

uomini ad adottare le sottane).

La civiltà, dunque, creando il padre aveva cercato di piegare la

natura in senso costruttivo. Ma la sua apparente stabilità, già macchiata

da tanti abusi dei padri, potrebbe volgere al termine e rivelarsi solo una

tregua nei cataclismi della storia. Le circostanze socio-culturali possono

deviare gli impulsi maschili, che già contengono aggressività, in

direzioni ancor più distruttive.

Come tutti gli animali, anche gli umani sono capaci di usare le altre

specie come preda: infatti uccidiamo diversi tipi di bestie e ci nutriamo

della loro carne senza molti sensi di colpa. L’istinto, invece, impedisce di

solito di predare i membri della stessa specie. Solo l’essere umano si è

trasformato in una scimmia assassina dei propri simili. La civiltà ha

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sovrapposto tante differenze culturali che gli uomini possono non

percepire più l’altro come parte della specie umana. Se appartiene a una

popolazione diversa da noi, per il colore della pelle - ma soprattutto per

le vesti, la lingua incomprensibile, i costumi sconosciuti - non ci sembra

più un uomo: non a caso la rappresentazione degli altri come animali è

tipica delle forme peggiori di razzismo ed è stata la premessa di

genocidi. La civiltà, sovrapponendo troppi costumi alla nostra parte

animale, può dunque deformare l’istinto di relazione in istinto di

predazione. Il percepire, per motivi culturali, l’altro come appartenente a

un’altra specie è stato chiamato pseudo-speciazione (pseudospeciation)

da Erik Erikson e Irenäus Eibl-Eibesfeldt.

Violenza di genere

In pratica tutte le civiltà sono “innaturali” anche in un altro senso:

hanno sottolineato le differenze tra uomo e donna, rendendoli più

lontani di quanto siano in natura e assegnando loro compiti molto

distinti. Solo nell’ultimo secolo i ruoli maschile e femminile sono tornati

più vicini e in molti casi sono diventati interscambiabili. Di regola, fra gli

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animali predatori sia maschi che femmine cacciano. Di regola, fra gli

umani la caccia è stata invece riservata ai maschi. Questo ha favorito

un’altra, estrema deformazione della specie umana. Fra gli animali, per

quanto la sessualità del maschio possa avere tratti di brutalità, non esiste

il vero e proprio stupro. Fra gli umani non solo è diffuso questo crimine:

in prevalenza di una psicologia di gruppo e in situazioni di regressione

collettiva (guerra, diffusa criminalità, estrema povertà culturale) può

diventare comune la violenza di gruppo (gang-rape). In questa

situazione (a differenza dello stupratore individuale, che sa bene di

commettere un reato e si nasconde) la percezione della colpa è eliminata

dal sentimento del “noi”, con la sua approvazione reciproca.

Essendo difficilissima da punire, sembra che la violenza collettiva si

sia ultimamente diffusa in modo spaventoso nelle zone più prive di

diritto del mondo (anche se, come per lo stupro individuale, è difficile

distinguere quanto il fenomeno sia oggettivamente aumentato e quanto

invece ne sia aumentata la percezione, perché finalmente non è più tabù

parlarne).

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Questa vera e propria possessione collettiva (che ho chiamato

centaurismo per il precedente mitico: i centauri conoscevano solo lo

stupro come forma di accoppiamento) è a sua volta un caso di pseudo-

speciazione. In guerra questo è provocato dal fatto che la vittima può

appartenere a un popolo molto diverso, ma per giunta è femmina: un

essere ormai radicalmente “altro” per il soldato-stupratore, che può

esser militare da anni senza più aver incontrato una donna,

sopravvivendo in completa immersione nella più maschilista delle

psicologie, quella dell’esercito.

Del resto, una “animalizzazione”, per così dire, soft della figura

femminile si manifesta anche in tempo di pace: cosa sono le immagini

pubblicitarie ipersessualizzate, le sfilate di prostitute, le stesse bambole

gonfiabili? Sono trasformazioni in “oggetti disponibili” che,

nell’inconscio collettivo, possono preludere alla disumanizzazione della

donna e quindi alla possibilità di brutalizzarla e, al limite, di ucciderla.

Si tratta, ovviamente, di esempi estremi. Il punto è che la cultura

(occidentale e globale) funziona comunque da divaricatrice di quello che in

natura sono l’uomo e la donna. Quasi sempre questo “allontanamento”

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favorisce una prepotenza del primo e una sottomissione della seconda:

lo vediamo, per esempio, nelle forme estreme dei tre monoteismi. In un

ipotetico stato naturale, proprio come gli archetipi (tendenze

psicologiche innate) anche gli istinti (tendenze fisiologiche innate) sono

bipolari. Per comprenderli davvero dobbiamo pensare coppie di opposti.

Complementare all’aggressività è la sottomissione. Anche le loro

espressioni malate sono una coppia, anzi spesso formano una parola

composta: il sado-masochismo. Con una teoria che è stata in parte

seguita, in parte criticata dalla cultura europea e dalla stessa

psicoanalisi, Freud descrive il masochismo come inerente alla natura

femminile.

È quasi impossibile verificare quanto questa come altre ipotesi di

Freud e di Jung siano letteralmente vere: possiamo invece constatare se

esse hanno senso (make sense). Certamente sia gli uomini che le donne

contengono potenzialmente due poli bisessuali, sia della psicologia che

dell’istinto. È verosimile (dal momento che lo osserviamo negli animali)

che l’impulso all’aggressione sia relativamente più forte nei maschi,

quello alla sottomissione nelle femmine. Ciò che in particolare ci

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interessa è il fatto che la cultura patriarcale non ha fatto che accrescere

questo squilibrio.

Distinguere quanto negli impulsi umani sia naturale e quanto

culturale è, ci accorgiamo, oltre che difficilissimo anche pericoloso. Nei

dibattiti sullo stupro è frequente sentir ricordare che non poche donne

hanno fantasie di essere violentate e che in qualche caso possono

provare piacere nella violenza. La professione analitica può offrire

qualche verifica a queste affermazioni, ma sarebbe fuori posto,

soprattutto per un analista uomo, dedurne quale grado di violenza e di

sottomissione sia “naturale”, quindi ammissibile o addirittura sano.

Possiamo supporre che infinite potenziali differenziazioni degli istinti

siano presenti in ognuno di noi: ma che la cultura, accentuando la

contrapposizione maschile-aggressivo rispetto a un femminile-

sottomesso e premiando questi ruoli, eserciti ed esalti gli impulsi

corrispondenti negli individui. In questo modo li favorisce non solo

negli individui, ma nella stessa selezione della specie.

Il “vantaggio” evolutivo

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Si obbietterà che la selezione evolutiva ha bisogno di tempi molto

lunghi per lasciare qualche traccia concreta: gli umani attuali sono

infatti, per ossatura, praticamente uguali a quelli di Cro-Magnon (da cui

ci separano alcune decine di migliaia di anni). Per questo presumiamo

che anche gli istinti (espressione del sistema nervoso che però i resti

preistorici non preservano) non siano mutati molto. In realtà, quel

complesso indistinguibile di impulso ed educazione che chiamiamo

sottomissione, ha una variabilità rapidissima per altri motivi.

In linea del tutto generale, si può presumere che già nella

lunghissima transizione dai pitecantropi all’homo sapiens le femmine

dal comportamento più sottomesso avessero più figli. Ma questa

maggiore prolificità rispetto ai temperamenti più indipendenti si è

drammaticamente accentuata nei tempi storici, fino a esplodere negli

ultimissimi decenni. (Non dimentichiamo che, quando parliamo di

temperamento, ci riferiamo soprattutto alla componente istintuale e

innata - non misurabile ma certamente presente - al di là dell’influsso

familiare e della educazione ricevuta).

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Si tratta di una selezione regressiva che favorisce il carattere femminile

sottomesso mentre tende ad eliminare quello indipendente. Quest’ultimo

porterebbe alle scelte femministe o quanto meno alla coscienza di un

proprio ruolo indipendente, al miglioramento del livello culturale e

professionale, alla assunzione di compiti pubblici. Ma una simile forma

di femminilità moderna corrisponde ad un tasso di fecondità

decisamente minore di quello tradizionale.

Permettetemi un riferimento alla mia professione, che può essere

significativo. Ho fatto lo psicoanalista in tre paesi e per 43 anni, durante i

quali circa la metà dei miei pazienti sono stati donne. Oltre che per

provenienza socio-culturale e tipo di interessi, esse erano nella quasi

totalità persone piuttosto indipendenti. Andavano alla ricerca di scelte

individuali per educazione ma pure per temperamento: in altre parole,

anche nei non pochi casi in cui avevano fatto un matrimonio tradizionale

e si erano trovate bene in esso, non si trattava certo di donne

caratterialmente sottomesse. Di queste non poche centinaia di donne,

una parte molto consistente, forse un terzo, non aveva figli (anche se

diverse possono averli avuti più tardi). La netta maggioranza aveva

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avuto un figlio, una netta minoranza due, pochissime tre e, che ricordi,

solo una quattro.

Ora, noi sappiamo che la demografia fa le proprie previsioni

basandosi proprio sulla fertilità delle donne: perché una popolazione sia

stabile occorre che in media ogni donna abbia un poco più di due figli

(un poco più per compensare il fatto che alcuni possano morire senza

aver raggiunto a loro volta un’età fertile).

Immaginiamo, semplificando per comodità, una popolazione di 100

di queste donne dal “temperamento indipendente”. Supponendo che

circa la metà dei loro figli siano femmine, poiché hanno in media poco

meno di un figlio per una dopo una generazione saranno fra le 40 e le 50,

dopo due si saranno ridotte a una ventina.

Immaginiamo invece un gruppo di 100 donne decisamente

tradizionale, dove per motivi culturali e religiosi la scelta femminile, e in

particolare il controllo sulla propria sessualità, è in sostanza assente

malgrado vi entrino quasi tutti gli altri irresistibili prodotti della

modernità (medicina moderna, auto, computer). Queste donne avranno,

come un tempo, molti figli: a differenza di un tempo, però, per le

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migliorate condizioni sanitarie difficilmente moriranno di parto o

vedranno i figli morire bambini. Se in media ne avranno 8 ciascuna, in

una generazione saranno 800, di cui 400 donne, e con la seguente 3.200,

di cui circa 1.600 donne: per giunta, sicuramente avranno raggiunto

questo successo numerico in poco tempo, perché si sposeranno e

cominceranno a far figli assai presto, intorno ai 20 anni, mentre quelle

indipendenti possono spesso avere il primo figlio a 40. In due

generazioni scarse, partendo da una condizione di parità, il

temperamento sottomesso sarà diventato 80 volte più numeroso di

quello delle donne che caratterialmente e/o culturalmente cercano la

propria autonomia.

Naturalmente pochissime, in questa massa, raggiungeranno

posizioni di responsabilità, in cui è possibile diffondere la propria

visione del mondo. Ma ci penseranno i loro mariti, i quali a loro volta

saranno ancor meno favorevoli all’autonomia femminile. Certo, quelle

dei ceti più colti avranno un ruolo maggiore nella società e si

presteranno a diffondere idee laiche e cultura: ma potranno davvero

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vincere la forza dei numeri? L’estinzione di una popolazione mette fine

nei fatti ai diritti che pure si sono conquistati.

Il potere dei numeri e dell’economia

Se ci interroghiamo su quello che è il potere reale della donna nel

mondo in questo secolo XXI non possiamo comunque rinchiuderci nelle

oasi relative dell’America Settentrionale o dell’Europa Occidentale.

Quello che abbiamo proposto non era un esempio così astratto. Basta

considerare l’andamento demografico di Israele dalla sua nascita. I ceti

colti e laici di origine euro-americana si sono fatti sottili, mentre la

crescita numerica degli Haredim (che raddoppiano ogni 15 anni circa: e

così, per le leggi della democrazia, la loro rappresentanza parlamentare)

ha sconvolto la cultura e la politica del paese.

Israele è uno stato piccolo, ma non è un capitolo di geopolitica

minore. Il maggiore, come sappiamo, sarà poco la Cina. Quanto peserà

sull’andamento mondiale della condizione femminile il passaggio di

questo paese a prima potenza del mondo, previsto già prima del 2030?

Persino nelle classi alte (dirigenza del Partito Comunista Cinese, finanza)

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le donne restano quasi assenti. Nei ceti più deboli, i due terzi di secolo

con governo comunista (quindi ugualitario nelle questioni di genere)

sembrano aver lasciato ben poca traccia. Del resto, basta considerare

quanto la donna sia sottovalutata anche nel nuovo e relativamente colto

ceto medio. Per motivi di costo, l’ecografia fetale in gravidanza è

praticata soprattutto da questa neoborghesia che sta rapidamente

crescendo, ma è ancora nettamente minoritaria. Eppure, fra le nuove

nascite i maschi sono già circa un 18% in più rispetto alle femmine. Cosa

avverrà man mano che anche le classi rurali si arricchiranno e avranno

anch’esse accesso a queste moderne tecnologie mediche che consentono

di abortire il feto femminile? In teoria, dicono i principî del libero

mercato, la scarsità fa aumentare il valore di un bene. Crescerà forse il

valore dell’identità femminile? La sottomissione è purtroppo una

trappola culturale (e, ipotizziamo, in parte persino genetica) in cui la

donna cinese è rinchiusa non da secoli ma da millenni. Il mercato

permette al valore di un “oggetto” di variare anche in poco tempo: ma

senza che questo cambi necessariamente la sua condizione di “oggetto”.

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Riassumendo ciò che è stato brevemente detto, per diversi motivi

che possono rinforzarsi tra loro (cultura e biologia, selezione evolutiva,

demografia e psicologia) il genere femminile può venir rinchiuso in una

“submission trap” che ha dalla sua parte una spaventosa inerzia

dell’inconscio collettivo e che il progresso delle idee non è sufficiente a

spezzare. Tematizzarla e discuterla mi sembra almeno tanto urgente

quanto compilare programmi ottimistici.

Luigi Zoja

luigizoja@fastwebnet.it

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