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Riassunti diritto dello sport:

Responsabilità civile e penale negli sport ad alto rischio.

Con la legge n. 363 del 24 dicembre 2003, il legislatore ha posto una serie notevole di «strozzature», al fine
di orientare le modalità di tutela a favore del rispetto del valore supremo della persona umana. Questa
legge irrompe nel liberalismo che imperava nel settore, laddove l’esito della singola vicenda era affidato alla
sensibilità dell’imprenditore di turno.
Con la disposizione normativa si è optata una sorta di balance tra interessi configgenti e cioè tra esigenze di
profitto che assumono ruolo vicario e servente rispetto alla tutela dell’utente sciatore.
Le nostre Corti solo di recente sono state investite di numerosi casi di lesioni occasionate sui campi da sci.
Negli anni 70-80 era rarissimo che simile infortunio si traducesse in pretesa risarcitoria. Si credeva che uno
sport talmente pericoloso (dato dalla sintesi tra destrezza e velocità) esponesse di per sé al pericolo lo
stesso sciatore.
Al tempo, la FIS (Federazione Internazionale di Sci), avvalendosi della propria commissione giuridica e di
sicurezza, intese precisare, in un testo allegato al Regolamento della FIS, il corretto modo di comportarsi
dello sciatore in determinate circostanze (incrocio, sorpasso, svolta, attraversamento...). Sebbene non si
trattassero di vere e proprie norme di legge tout court, le stesse hanno assunto ruolo centrale nel giudizio di
responsabilità adottato dal singolo giudicante. Diverse sentenze della Corte di Cassazione prendono spunto
da queste regole o addirittura «la sentenza dovrà essere annullata ed il processo sarà rinviato ad altro
giudice», qualora il giudicante non si attenga alle suddette prescrizioni (Cass. Pen., 23 febbraio 1966, n.
497).
Tuttavia, all’adeguatezza o meno della singola risposta giudiziale, si avvertiva la deficienza del sistema,
specialmente in tema di sicurezza delle piste da sci. Si pensi alle reti di protezione che suddette piste
devono avere allocate lungo la pista. L’avvedutezza del gestore delle piste consisteva nel proteggere gli
alberi con balle di fieno; quest’ultime, alle temperature tipiche della montagna, si ghiacciavano,
sottraendosi alla «nobile» funzione per cui erano state utilizzate.
In un simile scenario va collocata l’adozione della «Carta della sicurezza del bambino sulla neve», così come
sottoscritta ad Arabba il 29 novembre 2002. Il documento si inscrive nello spirito della Convenzione sui
diritti dell’infanzia, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989. Si tratta
dell’esigenza di garantire la qualità della vita del bambino, il quale si esprime e si rapporta con l’altro,
soprattutto attraverso l’attività ludica; quest’ultima deve svolgersi in un ambiente adeguatamente tutelato,
tale da proteggere la salute del fanciullo. Al punto 2 dell’art. 2 della suddetta Carta è chiarito che per il
bambino «lo sci deve essere un divertimento». Nei successivi punti 4 e 6 del predetto articolo si precisa che
«la sicurezza dei bambini nei primi anni di pratica sportiva è legata all’assistenza continua e amorevole,
affinché non si verifichino incidenti che possano provocare traumi fisici che psichici» e che «è opportuno
che venga curata particolarmente la visibilità dei bambini sulla neve mediante opportuno abbigliamento di
forte coloritura di modo che la loro presenza sia immediatamente percepibile soprattutto in caso di
abbondante innevamento, di grandi pertubazioni nevosi e scarsa visibilità».

La l. n. 363/2003 si sostanzia in un intervento a favore di due distinte prospettive:


a) la regolamentazione della "Gestione delle aree sciabili attrezzate";
b) la statuizione delle "Norme di comportamento degli utenti delle aree sciabili".

Sul punto a) va chiarito che le prescrizioni attengono unicamente alla pratica non agonistica. Ma ciò non
deve indurre che le esigenze di sicurezza individuate dal legislatore vengano meno in caso di competizione.
In tema va considerato il Regolamento della F.I.S.I. (Federazione Italiana Sport Invernali), laddove con
un'articolata procedura prevede l'indispensabile attribuzione della certificazione d'omologazione (può
essere nazionale o internazionale, a seconda del tipo di gara cui s'intende destinare la singola pista. La
distinzione comporta una differente efficacia temporale della stessa. In caso di discesa libera o di super-
gigante, la riomologazione dovrà essere richiesta trascorsi cinque anni da quella iniziale. Nel caso di slalom
gigante o speciale, il termine è di dieci anni. L'omologazione può essere revocata allorquando la pista

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necessiti di adeguamenti delle caratteristiche tecniche alla normativa federali o ai requisiti di sicurezza
minimi richiesti).
Ai sensi dell'art. 2 della l. n. 363/2003, le aree sciabili attrezzate sono spazi individuati dalle singole regioni,
consistenti in superfici innevate, anche artificialmente, aperte al pubblico e comprendenti piste, impianti di
risalita e di innevamento.
I successivi artt. 3 e 4 della predetta legge prevedono gli obblighi del gestore al fine di assicurare
l'incolumità e la sicurezza degli sciatori e l'istituzione di una forma di assicurazione obbligatoria.
Riguardo l'art. 3, non è condivisibile la scelta operata dal legislatore di delegare a livello regionale i criteri di
messa in sicurezza delle piste. Ciò fa venir meno un intervento aggregante e omogeneo.
Riguardo l'art. 4, è pienamente condivisa la scelta di una polizza assicurativa obbligatoria, in quanto
costituisce una condicio sine qua non per il rilascio delle autorizzazioni per la gestione di nuovi impianti.
L'art. 7 della legge prevede la manutenzione delle aree sciabili e l'adeguatezza dell'innevamento ai fini della
praticabilità delle singole piste. Il gestore di tali aree è tenuto a comunicare ogni possibile anomalia della
pista. La reiterata violazione della prescrizioni può comportare la revoca dell'autorizzazione rilasciata e
implica l'applicazione di una sanzione amministrativa consistente nel pagamento di una somma tra i 5 000 e
i 50 000 euro.
Inoltre, sempre con la legge n. 363/2003, il legislatore ha voluto elencare le norme di comportamento per
gli utenti delle aree sciabili. In particolare, all'art. 8, dal 1° gennaio 2005 è fatto obbligo agli sciatori
infraquattordicenni di indossare il casco protettivo, la cui violazione comporta una sanzione amministrativa
di tipo pecuniario.
In merito alla velocità, il legislatore ha disposto che gli sciatori devono tenere una condotta che, in relazione
alle caratteristiche della pista e alla situazione ambientale, non costituisca pericolo per l'incolumità altrui. La
velocità deve essere particolarmente moderata nei tratti a visuale non libera, in prossimità di fabbricati o
ostacoli, negli incroci, nelle biforcazioni, in caso di nebbia, di foschia, di scarsa visibilità o di affollamento,
nelle strettoie e in presenza di principianti.
L'art. 13 è destinato alle ipotesi di stazionamento lungo le piste. Fermo restando il divieto del transito e
della risalita a piedi delle piste da sci (art. 15), la sosta voluttuaria del solo sciatore (e non del c.d. pedone) è
unicamente tollerata lungo i bordi della pista e in zona ove non si crei pericolo per gli altri utenti (art. 13,
punto 1.); essa è assolutamente impedita nei passaggi obbligati, in prossimità di dossi o in luoghi ove non
v'è visibilità (art. 13, punto 2.). In caso di caduta o incidente, il malcapitato deve al più presto liberare la
pista; qualora non sia possibile, incomberà su ognuno l'obbligo di segnalare la presenza dell'infortunato con
il mezzo a tal uopo più idoneo (art. 13, punti 3 e 4).
Infine è inibito ai mezzi meccanici l'utilizzazione delle piste da sci (art. 16, punto 1.). L'accesso è consentito
per sole esigenze di servizio e di manutenzione delle piste, fuori dagli orari di apertura delle stesse (art. 16,
primo alinea). In caso di necessità e d'urgenza, il divieto testè evocato potrà essere lecitamente violato, a
condizione che il mezzo utilizzi congegni di segnalazione acustica e luminosa. In questa eccezione, gli
sciatori dovranno dare assoluta precedenza, per una rapida ed agevole circolazione (art. 16, punti 2. e 3.).

L'attività del maestro di sci è regolata nell'ambito nazione dalla legge quadro n. 81/1991.
All'art. 2 punto 1. Il legislatore ha individuato la figura del maestro di sci: è chi insegna professionalmente,
anche in modo non esclusivo e non continuativo, a persone singole e a gruppi di persone, le tecniche
sciistiche, in tutte le loro specializzazioni.
Per l'esercizio dell'attività occorre l'abilitazione, conseguibile mediante la frequenza di corsi di formazione
ed il superamento di prove d'esame di tipo tecnico, didattico e culturale (art. 6 e 9).
Dopo l'abilitazione occorre l'iscrizione negli appositi albi professionali tenuti dalle singole regioni (art. 3
punto 1.). Allo scadere dei tre anni, il maestro dovrà comprovare la persistenza dell'idoneità fisio-psichica e
dovrà aver frequentato i corsi di aggiornamento tenuti nelle singole regioni (art. 11, punti 1.,2. e 3.).
Va da sé che il collegio regionale dei maestri di sci si atteggia come organo di autogoverno e di
autodisciplina. A livello nazionale è istituito il collegio nazionale dei maestri di sci che rappresenta l'ultimo
grado della giustizia disciplinare (ovvero d'appello avverso le violazioni deontologiche acclarate dai collegi
regionali) (art. 16 e 17). Le sanzioni disciplinari sono in progressione le seguenti: ammonizione scritta;
censura; sospensione dall'albo per un periodo da un mese a un anno; radiazione (art. 17 punto 1.).

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Chi è abilitato all'insegnamento dello sci alpino può tranquillamente accedere ai «gradini» ulteriori rispetto
a quello del maestro di sci. Si tratta delle figure dell'allenatore e dell'istruttore. Quest'ultimo rappresenta
l'eccellenza nell'interpretazione e nell'applicazione dello standard riconosciuto dalla moderna tecnica
sciistica.
Il legislatore ha voluto poi ascrivere l'attività del maestro di sci nel novero della categoria prevista agli artt.
2229 ss. c.c., cioè nelle «professioni intellettuali».
Questa identificazione è supportata da due interventi giudiziali distinti: secondo Pret. Trento del 1997, il
maestro di sci che esercita l'attività senza l'abilitazione è punibile per il delitto di esercizio abusivo di una
professioni ai sensi dell'art. 348 c.p.; secondo Pret. Cavalese del 1981, il maestro risponderà degli infortuni
subìti dagli allievi alla stregua dell'art. 2236 c.c., che disciplina la prestazione d'opera intellettuale.

È opportuno affermare che il maestro di sci dovrà tenere la condotta che sia orientata:
1) a impartire l'insegnamento tecnico;
2) a vigilare sulla condotta dell'allievo.

Si parta dal presupposto che l'attività considerata espone a pericolo. Ne deriva che in merito a quelle lesioni
che rientrano nel normale rischio del caso alcun giudizio di responsabilità potrà essere formulato.
Si consideri anche che il maestro di sci è libero di scegliere se esercitare la propria attività in maniera
autonoma o rientrare a far parte di una scuola di sci.
Nel primo caso, tra il professionista ed il cliente nascerà un vero e proprio vincolo contrattuale, ai sensi
degli artt. 1176, 2° comma, e 1218 ss. c.c.
Nell'altra ipotesi alcune problematiche interpretative vanno considerate. Una prima soluzione potrebbe
essere offerta dall'identificazione della scuola di sci come un'associazione non riconosciuta. Da tanto
conseguirebbe un vincolo di solidarietà nella fase rimediale. Ma in ragione dell'indiscutibile rapporto
contrattuale sorto tra la scuola ed il cliente sembra difficile sostenere che il maestro abbia operato «in
nome e per conto» dell'associazione. Si tratta di un professionista del quale si avvale la scuola, laddove
quest'ultima svolge un ruolo di coordinamento amministrativo.
L'idea che appare maggiormente convincente induce a fondare la responsabilità della scuola di sci sul
disposto dell'art. 1228 c.c. secondo cui il soggetto che si avvale dell'attività di altri risponde dei danni da
questi cagionati. Nulla impedisce che la parte condannata al ristoro patrimoniale proponga un'azione di
rivalsa nei confronti dell'incauto maestro.
La diversa modalità di esercizio dell'attività da parte di chi insegna a sciare non può affievolire la consistenza
del connesso dovere di vigilanza.
Circa l'esigenza di vigilanza che incombe sul maestro, occorre distinguere la lezione individuale da quella
collettiva. Mentre nel primo caso, l'obbligo di vigilanza raggiunge la massima estensione, nel secondo caso,
invece, v'è un deciso affievolimento, connesso all'oggettiva impossibilità di un controllo globale ed
individuale.
La distinzione appena tracciata subisce un ulteriore ridimensionamento nel caso in cui al maestro sia
«affidato» un minorenne; al riguardo, s'impone una stretta sorveglianza ed il professionista risponderà del
danno cagionato dal bambino a terzi, a condizione che non dimostri di aver fatto tutto il possibile per
evitare il predetto danno e che l'evento era assolutamente imprevedibile.
Data la complessità della figura in esame, è interessante notare come una sentenza del Tribunale di Torino
del 1994 abbia tracciato una sorta di «decalogo» del maestro di sci. Secondo la Corte costui deve essere
padrone di precise cognizioni tecniche (estese alla meteorologia e al primo pronto soccorso), deve agire
costantemente con adeguata prudenza, deve saper apprezzare la resistenza fisica di ognuno, deve scegliere
il pendio adeguato, deve valutare, in determinate situazioni, di astenersi dall'eseguire la lezione.

In tema di responsabilità dei gestori degli impianti sciistici si è pronunciata la Corte di Cassazione con la
sentenza n. 2216/2001, laddove è stato disposto che «i gestori degli skilift non sono responsabili della
percorribilità delle piste da sci. Quello tra lo sciatore ed il gestore di un impianto di risalita è un contratto di
trasporto atipico; di conseguenza, in assenza di una clausola espressa sulla sicurezza integrativa, non è
possibile rivendicare alcun diritto a indennizzi in caso di eventuale infortunio».

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La Suprema Corte ha condiviso la natura atipica del contratto di trasporto dello sciatore, posto che si tratta
di trasporto funzionale all'attività sciistica su piste sicure; deve escludersi l'esistenza di una clausola
espressa o implicita da cui desumere sia l'assunzione di una responsabilità del gestore, anche per la
manutenzione delle piste, sia l'applicabilità delle disposizioni positive, disciplinanti l'esercizio delle sciovie.
Nel caso concreto, i giudici del merito hanno escluso l'esistenza del fatto illecito imputabile all'ente gestore,
sotto il profilo del nesso di causalità tra evento e situazione di pericolo (insidia) imputabile a colpa o dolo
dell'ente gestore.
Ancora più recente è la pronuncia emessa dalla Corte Suprema n. 16090/2003, con cui è stato stabilito che
«in tema di contratto di viaggio turistico, l'organizzatore di viaggi è tenuto a tutelare con ogni possibile
mezzo i diritti e gli interessi dei viaggiatori ad esso affidati, rispondendo direttamente del fatto colposo
dell'ausiliare nell'esercizio delle sue mansioni, salvo che non provi di aver adottato tutte le ordinarie misure
suggerite dalla comune prudenza e diligenza come idonee ad impedire il danno. Ne consegue che, in
relazione ad un viaggio in 'settimana bianca' di minorenni adolescenti, la società organizzatrice è tenuta ad
approntare un adeguato servizio di sorveglianza e un preciso programma di rientro in albergo dopo la
conclusione delle esercitazioni sciistiche, con un numero di accompagnatori congruo rispetto a quello dei
partecipanti, idoneo a scongiurare iniziative rischiose dell'uno o dell'altro partecipante».
La vicenda processuale trae origine da un incidente sciistico occorso ad un minorenne durante un soggiorno
in montagna all'estero, organizzato dall'Associazione Nazionale Ricreativa Culturale e Assistenziale dei
dipendenti dell'Enel e riservato ad adolescenti dai 14 ai 17 anni: lo sfortunato viaggiatore, al momento del
rientro in albergo, dopo aver sciato nel corso della mattinata con altri giovani e con gli accompagnatori, si
era allontanato dal gruppo per continuare a sciare e, in tale situazione, aveva percorso una pista chiusa al
pubblico, sì cadendo rovinosamente e fratturandosi il cranio.
I genitori del minore hanno convenuto in giudizio la suddetta Associazione e l'accompagnatore per ottenere
il risarcimento dei danni; l'Associazione e l'accompagnatore si sono costituiti respingendo tale richiesta,
sostenendo che il sinistro fosse imputabile «al comportamento imprudente e sconsiderato» del giovane che
ignorava la segnaletica che evidenziava la chiusura della pista pericolosa, avventurandosi spericolatamente.
Sia in primo grado che in appello la domanda degli attori è rigettata, atteso che se i giudici di merito, da un
lato, hanno escluso la responsabilità contrattuale dell'Associazione, in quanto né per iscritto, né per fatti
concludenti, quest'ultima aveva assunto impegni di custodia e sorveglianza dei minori partecipanti al
soggiorno, dall'altro, non hanno ravvisato alcuna responsabilità dell'accompagnatore, sia contrattuale, per
mancanza di impegno, sia extracontrattuale, per difetto di un qualsiasi suo comportamento colposo.
La Cassazione con la suddetta sentenza ha accolto il ricorso, cassando la sentenza con rinvio alla Corte
d'Appello di Firenze, evidenziando il fatto che il fenomeno sociale del turismo organizzato ha subìto,
secondo i giudici, importanti trasformazioni. Il legislatore ha sotteso tutelare le esigenze dell'utente-turista,
al fine di garantire il pieno godimento del servizio richiesto.
Tale intervento del legislatore è più marcato rispetto ad altri settori del mercato dei servizi: è dal 1977 che
l'Italia, con la ratifica della Convenzione di Bruxelles sul contratto di viaggio del 1970 si è dotata di una
disciplina peculiare del fenomeno, tramite la legge di recepimento n. 1084/1977; circa vent'anni dopo è
stato completato l'itinerario normativo con l'entrata in vigore del d. lgs. n. 111/1995, in attuazione della
direttiva 90/314/CEE, concernente i viaggi e le vacanze tutto compreso.
Il d. lgs. n. 111/1995 prevede,in caso di mancato o inesatto adempimento delle obbligazioni assunte dal
predetto organizzatore e dal venditore, il risarcimento dei danni a favore del viaggiatore.
L'esonero da responsabilità per gli operatori è consentito solo in caso di colpa del consumatore o
allorquando il numero o inesatto adempimento dipendano da caso fortuito o forza maggiore o dal fatto
imprevedibile del terzo.
La vicenda giudiziale di cui sopra si è verificata nel 1993, quindi prima dell'entrata in vigore del suddetto
decreto. Tuttavia è stata risolta mediante l'applicazione della l. n. 1084/1977. La Suprema Corte, ai sensi
degli artt. 3 e 13, 1° comma, della suddetta legge, ha osservato che l'Associazione, quale organizzatore del
viaggio, fosse tenuta a tutelare, con ogni possibile mezzo, «i diritti e gli interessi dei viaggiatori» ad essa
affidati. E giacché si trattava di minori, il servizio di sorveglianza che l'Associazione doveva approntare
sarebbe dovuto essere più intenso.
L'errore in cui sono incorsi i giudici di merito, ad avviso della Corte, va ricercato nell'aver valutato
unicamente la condotta del minore in modo sommario.

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La portata innovativa di questa sentenza si rinviene nel fatto che la Suprema Corte ha rilevato che l'indagine
sulla condotta dell'accompagnatore convenuto sia ai fini della responsabilità contrattuale dell'organizzatore,
che in merito al profilo della responsabilità aquiliana.
Nel primo punto, la Suprema Corte ha ritenuto necessario l'accertamento di un comportamento colposo,
attivo o omissivo dell'accompagnatore, che non ha assolto la sua complessa funzione di tutela sul soggetto
«incapace».
Nel secondo punto, la Corte ha rilevato che la responsabilità personale dell'accompagnatore potrà
configurarsi solo con un accertamento di colpa in concreto, ai sensi dell'art. 2043 c.c., precisando che non si
tratta di una responsabilità presunta, ex art. 2048 c.c. come sostenuto dai ricorrenti, considerando
l'accompagnatore alla stregua di un precettore. I precettori stessi e gli insegnanti sarebbero responsabili
oltre dei danni cagionati dai minori, sottoposti alla loro vigilanza, a terzi anche dei danni che i medesimi si
autoprocurano.
Va ricordata un'altra vicenda giudiziale. Si tratta della sentenza emessa dal Tribunale di Bassano del Grappa
del 2002, laddove lo sci è qualificato come «veicolo particolare con conseguente applicabilità per analogia
delle norme che regolano la circolazione stradale».
Con atto di citazione, la parte attrice esponeva di aver patito lesioni personali, consistenti nella rottura dei
legamenti, allorquando, trovandosi su una pista da sci, nel corso di una lezione di tale pratica da parte di un
maestro, aveva subìto l'impatto nella parte posteriore dello sci sinistro, con la conseguente innaturale
rotazione del ginocchio corrispondente, ad opera del soggetto convenuto in giudizio, il quale, nell'esercizio
dello stesso sport, si era immesso nel gruppo a forte velocità e senza controllare la sciata; ciò premesso,
l'attrice proponeva, nei confronti del convenuto, domanda di risarcimento dei danni conseguenti.
Costituendosi in giudizio, il convenuto deduceva di aver superato il gruppo di allievi, che procedevano
tagliando in senso orizzontale la pista, formando una sorta di serpentina, senza urtare l'attrice, né alcun
altro dei presenti, e di aver proseguito la sua discesa normalmente, interrompendola solamente alla
percezione delle grida di una ragazza, per chiedere spiegazioni al maestro, e concludeva, quindi, il rigetto
della domanda.
La domanda è stata accolta dal Tribunale adìto in quanto le testimonianze assunte non lasciano dubbi sulla
causalità dell'infortunio: il maestro che impartiva la lezione di sci ha confermato quanto esposto dall'attrice,
sottolineando che il convenuto non si era fermato nell'immediatezza dell'infortunio.
In questo caso la responsabilità del maestro di sci è stata scongiurata, giacché quest'ultimo si è trovato nella
materiale impossibilità di evitare l'evento dannoso.
Paragonando, quindi, lo sci ad un «particolare veicolo», applicando per analogia le norme che regolano la
circolazione stradale, si applica quanto stabilito dall'art. 141, 4° comma, del Codice della strada, dove è
disposto che il conducente deve ridurre la velocità e, occorrendo, anche fermarsi, fra l'altro, quando i pedoni
che si trovino sul percorso tardino a scansarsi o diano segni di incertezza. Similmente avrebbe dovuto fare il
convenuto, trovandosi nel gruppo di coloro che apprendevano. Pertanto è tenuto all'integrale risarcimento
dei danni cagionati.
Un'ulteriore sentenza merita considerazione, trattandosi di un caso di lesioni subìte da uno sciatore
agonista (quindi impegnato in una gara) su di una pista con regolare certificato di omologazione. Nella
specie, l'attore lamentava il mancato rispetto di prescrizioni tecniche, nonostante ci fosse l'omologazione. In
concreto, le lesioni erano state determinate dall'assenza di zone (sicure) di caduta all'esterno della curva,
prive di ostacoli non protetti.
Sul caso, la Corte ha chiarito un principio fondamentale in tema di diritto sportivo: il rapporto tra
Federazioni e C.O.N.I. A dispetto della richiesta di estromissione dal giudizio avanzata dal C.O.N.I. in danno
della F.I.S.I., poiché quest'ultima aveva di fatto rilasciato l'omologazione, la Corte ha stabilito che la F.I.S.I. si
atteggia come organo del C.O.N.I., quale ente pubblico, pertanto l'omologazione è rilasciata anche dal
C.O.N.I. Inoltre, secondo la Corte, l'emanazione del regolamento e l'accertamento ed il controllo della
regolarità della pista sono compiute dalla F.I.S.I. nella qualità di organo del C.O.N.I.
Infine, vanno poste in evidenza alcuni interventi comunitari in materia. In particolare si ricorda quanto
disposto dalla Corte di Giustizia dell'UE nel 2002, laddove è stato stabilito che le autorità italiane non
possono precludere l'accesso alla professione di maestro di sci ai cittadini di altri Stati membri che abbiano
conseguito l'abilitazione.

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2.
Il nostro ordinamento giuridico rivolge particolare attenzione al fenomeno sportivo.
In particolare, la legge n. 426/1942 istituisce il C.O.N.I. (Comitato Olimpico Nazionale Italiano) come ente
pubblico, sorto sin dal 1907, come Comitato per le Olimpiadi Nazionali, aveva il compito di selezionare gli
atleti da inviare ogni quattro anni ai Giochi Olimpici. Solo nel 1914 acquisisce carattere permanente,
costituendo una sorta di «federazione delle federazoni» con compiti di coordinamento e di controllo di tutte
le attività sportive. Nel 1934 per decreto ministeriale il C.O.N.I. ebbe il riconoscimiento della personalità
giuridica privata. La summenzionata legge eleva il C.O.N.I. ad ente pubblico, affidandogli, ai sensi dell'art. 2
della stessa disposizione normativa, il compito di «organizzazione e potenziamento dello sport nazionale»,
nonché «l'indirizzo di esso verso il perfezionamento atletico». In particolare, l'art. 4 stabilisce che il C.O.N.I.
svolge il suo ruolo grazie «ai contributi dello Stato e degli altri enti, con erogazioni e lasciti da parte di
privati, con i proventi del tesseramento degli iscritti alle Federazioni sportive e con i ricavati delle
manifestazioni sportive», ma i contributi dello Stato sono venuti meno quando con il d. lgs. N. 496/1948 si
assegna al C.O.N.I. la gestione del Totocalcio.
La legge n. 426/1942 è stata abrogata dal d. lgs. N. 242/1999 che ha attuato il riordino del C.O.N.I. Nel
nuovo regime si conferma la personalità giuridica di diritto pubblico dell'ente, utile per l'espletamento degli
incarichi conferiti. Si delinea anche la struttura delle Federazioni sportive nazionali e si sottolinea la valenza
pubblicistica di specifici aspetti della attività sportiva da esse svolta in armonia con le deliberazioni e gli
indirizzi del C.I.O. e del C.O.N.I. Si stabilisce anche che le federazioni sportive nazionali hanno natura di
associazione con personalità giuridica di diritto privato, che non perseguono finalità di lucro e sono
disciplinate dal codice civile e dalle disposizioni di attuazione del medesimo.
Il nuovo statuto del C.O.N.I., approvato con il d. m. 19 aprile 2000, ha permesso la costituzione di società di
capitali sotto il controllo del medesimo Ente, che di fatto esercita poteri legislativi, organizzativi e di
garanzia.

Nella Costituzione trovano legittimazione anche norme attinenti alla disciplina del fenomeno sportivo.
In realtà, nei 139 articoli non si ha alcun riferimento diretto allo sport: il che potrebbe indurre a ipotizzare
un disinteresse del legislatore.
Se si pone mente al contesto storico in cui nacque la nostra Costituzione, non può negarsi che la volontà del
legislatore non sia stata condizionata da una sorta di ripudio. Appare fondata l'ipotesi per cui sia stato
intenzionalmente ignorato quanto poteva riferirsi allo sport, esaltato per fini competitivi, ma anche militari,
e come strumento atto «a perseguire il miglioramento fisico e morale della razza», in quanto il C.O.N.I. era
diventato articolazione del partito fascista.
Per questo motivo la nostra Costituzione col suo silenzio sembra affermare che lo sport è un bene che lo
Stato non può in nessun caso sottrarre o gestire per perseguire interessi diversi da quello dell'individuo.
La tutela costituzionale di questo fenomeno sportivo è da considerarsi indiretta, ma non per questo meno
efficace, percorrendo gli oltre cinquanta articoli dedicati alle libertà e ai diritti della personalità, fino all'art.
2 Cost. che racchiude in una «norma di chiusura a fattispecie aperta» tutte le istanze di libertà
fondamentale sui diritti inviolabili dell'uomo, come singolo e nelle formazioni sociali in cui svolge la sua
personalità.

Complessa è la problematica sorta con riguardo alla lettura in chiave ordinamentale del fenomeno sportivo:
basta solo accennare la ricostruzione teorica a base privatistica degli statuti e dei regolamenti delle
federazioni e delle associazioni.
Secondaria risulta la problematica connessa alla qualificazione delle Federazioni sportive, definite dal
legislatore «organi» del C.O.N.I.
La dottrina non è concorde e accanto alla tesi che estende alle Federazioni, la natura pubblica del C.O.N.I., si
è affermata la tendenza a riconoscere alle stesse una esclusiva natura privatistica.
Oggi la questione sembra risolta, in virtù dell'opinione emergente che definisce le Federazioni sportive
organi indiretti dell'ente pubblico C.O.N.I.
Si ravvisa l'opportunità di accennare ulteriori provvedimenti legislativi, con particolare riferimento alla l. n.
91/1981 che, da una parte, ha ribadito la libertà dell'attività sportiva, considerandola una esplicazione

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della personalità dell'individuo, meritevole di essere tutelata dallo Stato, dall'altra ha definito la distinzione
tra livello dilettantistico e livello agonistico della pratica sportiva: la prima categoria non è soggetta a
vincoli giuridici, la seconda qualifica professionisti gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico - sportivi che
esercitano l'attività sportiva a titolo oneroso e con carattere di continuità.
La stessa legge ha disposto la trasformazione in S.p.A. o in S.r.l. delle associazioni che stipulano contratti
con atleti professionisti al fine di avvalersi delle loro prestazioni.
Successivamente, il d.p.r. n. 157/1986 ha aggiornato il regolamento interno del C.O.N.I., elencando le
Federazioni riconosciute e prevedendo l'aumento delle stesse, qualora uno sport non sia ancora
riconosciuto ufficialmente dall'Ente, con la sola limitazione che per uno stesso sport può essere costituita
una sola federazione (art. 30 2° co. del summenzionato decreto).
Infine al C.O.N.I. è attribuita la facoltà di riconoscere le associazioni, le società e gli enti sportivi che, in virtù
di tale riconoscimento e senza fini di lucro, «esercitano le loro attività secondo le norme e le consuetudini
sportive». La l. n. 138/1992 ha attribuito al C.O.N.I. il compito di «deliberare le norme di funzionamento e di
organizzazione, l'ordinamento dei servizi, il regolamento organico e il regolamento di amministrazione e
contabilità»; ed ancora il d. lgs. N. 112/1998 che trasferisce alcune funzioni in materia di sport alle regioni
riservando però allo Stato la vigilanza sul C.O.N.I. e sull'Istituto per il credito sportivo (sorto nel 1957,
modificato con d.lgs. n. 112/1998, col fine di agevolare la diffusione degli impianti sportivi).

Riguardo al problema di armonizzazione tra ordinamento sportivo e ordinamento giuridico, non può negarsi
che le questioni giuridiche dello sport possano avere una duplice rilevanza.
Dalla Costituzione, il fenomeno sportivo riceve legittimazione indirettamente.
Se dunque gli artt. 2 e 3 Cost. rinviano a tutte le altre disposizioni normative da cui lo sport riceve tutela,
l'art. 18 garantisce la tutela dell'esercizio sportivo nelle forme associative, mentre l'art. 35 tutela l'attività
degli atleti professionisti.
Se si considera l'insieme dei diritti personalissimi si rileva le caratteristiche generali proprie della categoria
di diritti a cui appartiene. Carattere distintivo è quello per cui quando si discorre di diritto alla vita o
all'integrità fisica, non si intende diritto al conseguimento della vita. Si tratta del diritto erga omnes, alla
conservazione della vita e dell'integrità fisica. Si configura un diritto all'astensione dei terzi da azioni lesive.
I diritti essenziali sono quelli che hanno per oggetto i beni più elevati.
Anche se è condivisibile che la vita umana può essere solo quella che non sia priva di altri beni fondamentali
quali l'identità, la dignità, la libertà. In loro assenza, la vita non avrebbe valore concreto.
Il diritto soggettivo alla vita gode di una tutela penale, costituita dalle previsioni degli artt. 575 ss. c.p. e di
una tutela civile, che culmina con la sanzione del risarcimento.

Il diritto alla vita è intrasmissibile, imprescrittibile e indisponibile e questa indisponibilità prevede


l'inefficacia del consenso del titolare. Infatti il consenso non potrebbe sopprimere l'antigiuridicità della
lesione di questo diritto.
Al di là delle note dispute, la questione se il diritto del soggetto su di sé o alla vita possa estendersi fino alla
facoltà di soppressione è stata a lungo oggetto di dibattito.
Sul finire dell'Ottocento già il Ferri risolveva il problema in senso positivo, riconoscendo all'individuo tanto il
diritto di vivere quanto il diritto di morire.
Per altri, il fatto che l'art. 580 c.p. comprenda la previsione del reato di istigazione o di aiuto al suicidio, e
che i terzi (funzionari, agenti, sanitari) sono obbligati a prevenirlo o ad impedirlo, dimostra l'insussistenza di
un diritto o di una facoltà di suicidio.
L'ordinamento giuridico quindi non riconosce mai un interesse contrario alla vita, che resta il bene primario.

Il diritto all'integrità fisica, parimenti al diritto alla vita, è un diritto innato.


L'integrità fisica può definirsi come presenza integrale di tutti gli attributi fisici della persona, ossia assenza
di menomazioni fisiche, percepibili mediante i sensi.
Per alcuni il diritto all'integrità fisica parrebbe configurarsi come diritto complementare al bene della vita.
Sicuramente rappresenta un bene giuridico distinto.
Tuttavia la tutela predisposta dall'ordinamento è minore rispetto al diritto alla vita, con sanzioni meno gravi
per lesioni alla medesima integrità.

7
Non tutte le lesioni dell'integrità fisica sono incriminate dalle norme del diritto penale.
L'interesse pubblico da tutelare rileva limitatamente a quei danni e a quelle menomazioni arrecati
all'integrità fisica che impediscono o limitano l'esercizio dell'attività produttiva o una normale convivenza.
Altra autorevole opinione sottolinea l'unitarietà della stessa integrità della persona fisica, da estendere
anche alla sfera psichica, dato che la psiche governa e dirige l'intero organismo che risulterebbe
danneggiato da qualunque sua alterazione.

L'art. 5 c.c. stabilisce che «gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una
diminuzione permanente dell'integrità fisica o quando (...) siano contrari alla legge, all'ordine pubblico o al
buon costume».
Questa previsione normativa introduce la problematica concernente gli atti di disposizione in cui rileva il
consenso dell'avente diritto.
Il legislatore civile ha sancito la generale disponibilità del diritto all'integrità fisica ovviamente nei limiti
previsti dalla tutela penale.
Sono riconducibili alla disciplina dell'art. 5 c.c. anche gli atti di disposizione del proprio corpo e della propria
integrità fisica compiuti da chi pratica, da dilettante o da professionista, una attività sportiva che lo espone
alle offese dell'avversario o al rischio per la pratica stessa o per la pericolosità del mezzo o delle modalità
adottate.

Per via della pratica sportiva avviene che l'individuo debba prestare il proprio consenso non solo a subire
lesioni, ma anche ad arrecarle a terzi: è il caso classico del pugile che concede per contratto tale consenso.
La pratica del pugilato consiste in comportamenti che, commessi al di fuori dell'attività sportiva, certamente
costituirebbero reato: si tratta di uno sport definito anche «a violenza necessaria».
Va considerato il fatto che il pugile si obbliga per contratto ad un'attività squisitamente agonistica, che
comporta all'accettazione del pericolo di subire lesioni.
È indubbio che durante l'incontro il pugile può subire lesioni, il che è ben al di là della previsione dell'art. 3
c.c., nella prima ipotesi, e richiama anzi l'assoluta indisponibilità dello stesso diritto alla vita, nella seconda.
Anche la causa di giustificazione prevista dall'art. 50 c.p. («Non è punibile chi lede o pone in pericolo un
diritto, col consenso della persona che può validamente disporne») verrebbe a collidere col limite posto
dall'art. 5 c.c. e comunque dell'art. 32 Cost. che tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo.
Simile accettazione del rischio ricorre anche negli altri sport come nelle gare automobilistiche o nel calcio.

Occorre definire quali siano i limiti della liceità dell'attività sportiva.


È noto che le norme che regolano l'organizzazione e l'esercizio dell'attività sportiva hanno un' efficacia
giuridica interna, mentre sono indifferente per l'ordinamento statale.
Ciò vale anche per i regolamenti di gioco che sono finalizzati a garantire un comportamento leale e corretto
nei confronti degli altri partecipanti.
Ma in alcuni casi una condotta sportiva non rispondente alle regole interne né ai principi di correttezza,
parità e lealtà, può provocare la reazione dell'ordinamento statale e l'irrogazione di sanzioni civili e penali.
Quando la menomazione dell'integrità fisica deriva dalla stessa azione di gioco, il giudice opera una duplice
valutazione, con riferimento alle regole tecniche e di gioco e al combinato disposto degli artt. 2043 c.c. e 43
c.p. (quest'ultimo evidenzia l'elemento psicologico del reato: dolo, preterintenzione, colpa).

In taluni casi, però, negli sport «a violenza necessaria» l'uso della stessa non costituisce una violazione delle
norme, ma l'essenza dell'attività sportiva.
In questo caso, si verifica un contrasto tra gli artt. 2 e 32 Cost. rispetto all'art. 50 c.p.
La Suprema Corte ha affermato ripetutamente «che nelle competizioni sportive nelle quali la violenza fisica
costituisce elemento essenziale (...), sono lecite le lesioni prodotte nello esercizio e nei limiti dell'attività
sportiva e si risponde a titolo di colpa solo per quelle cagionate dalla violazione colposa di tali limiti».
La liceità di tale decisione è fondata dalla prevalenza di un interesse della comunità sociale (esercizio di uno
sport) rispetto agli interessi individuali suscettibili di essere esposti a pericolo o lesi da una competizione.

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Nel caso specifico del pugilato, l'atleta è ben consapevole del rischio che affronta e le lesioni che può
riportare rientrano nel «rischio professionale» che si è assunto volontariamente.
Il Tribunale di Milano, con una sentenza del 1985, nega che il pugile che sale sul ring consenta la lesione
della propria integrità fisica: al contrario egli accetta il combattimento ponendo in essere una
determinazione opposta, in quanto cerca la vittoria colpendo l'avversario e soprattutto cercando di evitare
di prendere colpi.
La citata corte di merito, richiamando la decisione della Suprema Corte del 1957 definisce i confini della
scriminante nella attività sportive ad alto rischio: essa ricorre purché sia riscontrabile: l'assoluto rispetto del
regolamento sportivo, l'esclusivo perseguimento delle finalità agonistiche, il fatto che l'azione rientri
nello stretto esercizio e nei limiti dell'attività sportiva.
Nel caso del pugilato, consistente attività che svolge all'infuori della pratica sportiva costituirebbe di certo
reato, l'esito dannoso si verifica nel caso di violazione delle regole da gioco, per dolo preterintenzionale o
per colpa.
La soluzione è diversa se l'esito dannoso si verifichi senza che siano state violate le regole del gioco. Ogni
sport ha un suo regolamento: trattasi di regole di condotta.
Le corti non mancano di sottolineare che è indispensabile che la tutela delle esigenze sportive non giunga a
conseguenze estreme. Pertanto, secondo la Suprema Corte, rientrano nella categoria dell'illecito sportivo
quelle azioni che non superano la soglia del c.d. «rischio consentito».
Diviene arduo valutare il limite stesso del rischio consentito. Le regole tecniche prevedono che nel
combattimento il pugile colpisca l'avversario «con i pugni ben chiusi e con la parte imbottita del guanto» e
in una zona precisa del corpo: «la parte anteriore e le parti laterali della testa e del tronco dell'avversario al
di sopra della cintura».
Se i colpi violenti inferti al corpo possono arrecare solo «sanguinazioni o irritazioni gravi dei reni o del
fegato», senza far conto delle eventuali fratture delle coste, della mano o della mascella, sono le lesioni
prodotte dai pugni nelle parti consentite del capo che risultano sempre gravi, e, per taluni, illecite e
ingiustificabili.
Infatti, soprattutto il pugile professionista non è tenuto ad indossare il casco protettivo. Ad ogni colpo
ricevuto al capo subisce una inevitabile lesione e lacerazione delle cellule cerebrali che, per effetto
dell'improvviso e violento spostamento della massa dell'encefalo, vanno a urtare contro la struttura ossea
della teca cranica. Quando ciò accade, si determina «lo stiramento, fino alla rottura, delle fibre nervose che
formano la materia bianca, la spaccatura delle piccole vene irroranti il cervello e la morte delle cellule
compromesse». Anche se non si verifica la perdita di conoscenza, un colpo alla testa «lascia il segno»
provocando delle microemorragie.
A fronte di queste conseguenze, sono predisposte dagli Organi sportivi, ripetuti «accertamenti obbligatori».
Ai sensi del d.m. del 1984, viene approvato il Regolamento stabilito dalla Federazione pugilistica italiana,
con l'aggiunta per i pugili di controlli speciali (tra cui, controlli medici annuali; entro le 48 ore che precedono
un combattimento, viene effettuata una visita medica composta da un medico specialista in medicina dello
sport, uno in neurologia, uno in ortopedia e traumatologia. Ogni pugile professionista che abbia subito un
K.O. per colpi al capo o abbia subito una sconfitta prima del limite, sospendere l'attività pugilistica, anche di
allenamento, per un periodo minimo di trenta giorni. Se trattasi di 2 K.O. consecutivi, deve osservare un
periodo di riposo di tre mesi, al termine del quale dovrà sottoporsi a visita di controllo da parte della
commissione medica nazionale della Federazione pugilistica italiana. Obbligatoriamente, tra la data della
visita medica di controllo e quella del combattimento successivo, deve intercorrere un periodo di quindici
giorni, necessario per l'idoneo allenamento).
Per alcuni, il contratto con cui il pugile professionista si impegna a sostenere un combattimento è da
ritenersi nullo in quanto costituisce un'attività illecita (colpire e ledere l'avversario) e punibile penalmente.
Per altri, è il carattere di lavoro subordinato, al quale è sottoposto il pugile professionista, ad essere
contestato, in quanto mal si concilia con gli obblighi di garanzia e di tutela che le norme di sicurezza
pongono a carico del datore di lavoro.
Allo stato attuale, la liceità del pugilato è riconosciuta e disciplinata dalle leggi dello Stato.

Per alcuni, la liceità dei comportamenti lesivi si fondano sulla consuetudine, per altri sul requisito del
consenso, per altri ancora sul diritto della persona all'esercizio dell'attività sportiva.

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Con riguardo alla liceità di tali comportamenti fondati sulla consuetudine, non si riscontra seguito, in quanto
è autorevolmente rilevato che la consuetudine non può avere alcun effetto abrogativo sulle norme che in
campo penale prevedono fattispecie di reato.
Il requisito del consenso ad eventuali lesioni si pone in contrasto con l'indisponibilità dei diritti alla vita e
all'integrità fisica. Tra l'altro, il consenso preventivo risulterebbe prestato in maniera talmente generica da
non corrispondere al dettato previsto dall'art. 50 c.p.
Per altri, il requisito del consenso supera l'opposizione delle norme relative all'indisponibilità dei diritti
personalissimi, proprio in forza della consuetudine. Altra opinione sembra vincolare l'efficacia di
quest'ultima scriminante alla duplice condizione, del rispetto delle regole dello sport e dell'impiego da parte
dell'atleta di una carica agonistica non eccedente la c.d. «violenza base».
Altri ancora riconducono la non punibilità del «delitto sportivo» all'ambito dell'esercizio del diritto ed alla
previsione dell'art. 51 c.p. (che sancisce «L'esercizio di un diritto o l'adempimento di un dovere imposto da
una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità»). A tal proposito
Caianiello sostiene che l'atleta è titolare di un vero e proprio diritto soggettivo, i cui fondamenti sono
radicati nella nostra carta costituzionale.
Il De Cupis non ammette che il diritto all'integrità fisica possa essere ulteriormente sacrificato al di fuori
degli atti personali e volontari di disposizione che la legge riconosce efficaci.
Egli per di più nega che gli atleti o gli spettatori abbiano l'intento di consentire ad eventuali lesioni della
propria integrità fisica. De Cupis aggiunge che se l'ordinamento giuridico rinuncia alla tutela dell'utilità
pubblica di beni fondamentali come l'integrità fisica o la vita potranno venir meno le sanzioni penali.
Il fatto che lo Stato «per l'esaltazione sportiva che ha pervaso la società» rinunci alla sua facoltà di punire
non comporta che lo sport assurga a causa di piena giustificazione delle lesioni causate nell'attività.

Per tutti gli altri sport diversi dal pugilato, non si parla di «violenza necessaria», ma di « violenza eventuale».
È questo il caso del calcio.
La recente sentenza di una corte di merito (Trib. Venezia 1999) ha affermato che nel caso specifico degli
sport «a violenza eventuale», come il calcio, i regolamenti determinano il quantum di violenza tollerabile,
ossia il limite in cui le conseguenze della violenza sono scriminate dal consenso; oltre, va affermata la
responsabilità penale.
Anche la Suprema Corte, in una sentenza assai risalente, aveva stabilito che «l'atleta, nelle competizioni
sportive, deve seguire scrupolosamente tutte le regole stabilite per la data attività sportiva e mantenere
nella sua azione il senso vigile e prudente del rispetto dell'integrità fisica e della vita dell'avversario e dei
terzi». Nell'ipotesi di un «portiere gettatosi a tuffo sulla palla minacciante la rete, se il giocatore attaccante
carica il portiere a terra con un calcio diretto a togliergli la palla di mano e colpisce, invece, il portiere, non
può essere affermata la responsabilità per colpa dell'attaccante, se non dopo aver accertato, in base a tutte
le modalità dell'azione, se questa era permessa dalle regole del gioco e se, pur essendo tale, non fu
controllata da quella umanitaria avvedutezza consentita dalle finalità del gioco». Per alcuni, questa
pronunzia ha stabilito l'obbligo del rispetto dell'integrità fisica dell'avversario e dei terzi.
Parte della giurisprudenza di merito precisa che il calciatore risulterà responsabile delle lesioni prodotte se
la sua condotta risulti essere trasmodante.
Tuttavia la Suprema Corte ritiene configurabile la colpa dell'atleta «quando vi è il superamento del rischio
consentito in quella determinata pratica sportiva». Per la Corte questo superamento si verifica quando il
fallo, oltre che volontario, sia di durezza tale da comportare la prevedibilità del pericolo serio dell'evento
lesivo a carico dell'avversario.
Naturalmente il relativo accertamento è da risolvere caso per caso in relazione al tipo di gara in un
determinato sport.
Nella stessa decisione la Suprema Corte aveva ben chiarito che «è configurabile il cosiddetto illecito
sportivo, con esclusione dell'illecito penale doloso per la ricorrenza dell'esimente del consenso dell'avente
diritto, nell'ipotesi di lesioni di un partecipante quando la condotta produttiva dell'evento sia connessa
all'esercizio di un'attività sportiva in svolgimento, trattandosi di azione finalisticamente inserita nello
svolgimento di una gara quale quella dell'azione di diretto controllo del tiro del pallone, di tentativo di
impossessarsi dello stesso e di contenderlo all'avversario ed anche di cercare di inserirsi nell'azione
nell'attesa di ricevere il pallone».

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In base a questi principi, risulta agevole individuare l'ipotesi dolosa nella quale lo svolgimento della gara è
solo la cornice dell'azione volta esclusivamente a cagionare lesioni all'avversario.
Meno agevole risulta la distinzione tra fatto penalmente irrilevante e fatto colposo. Va rilevato che ogni
violazione di dette regole, che abbia occasionato lesioni, può costituire in colpa il concorrente quanto alle
lesioni medesime. Vi sono infatti norme del regolamento dettate proprio per salvaguardare l'incolumità dei
partecipanti e norme che hanno di mira la salvaguardia della natura di quel determinato sport.
Ma neppure la violazione di regole dettate per la salvaguardia dell'incolumità dei partecipanti, può
comportare automaticamente la sussistenza di una colpa per inosservanza dei regolamenti.
Emerge dalle decisioni della giurisprudenza di legittimità il principio del «rischio consentito», in quanto il
rischio sportivo accettato da ogni calciatore che scende in campo è tale da assorbire anche il c.d. rischio
generico del fallo.
Peraltro molte attività sportive comportano una dose più o meno elevata di rischio per l'incolumità fisica.
La ratio della sentenza storica del 1950 sembra evidenziare che l'esercizio dell'attività sportiva costituisce
una causa di giustificazione non codificata, nel senso che il soddisfacimento dell'interesse collettivo a
svolgere attività sportiva può consentire l'assunzione del rischio della lesione di un interesse individuale
relativo all'integrità fisica. Ciò che si richiede è che l'atleta adegui la propria condotta alle norme generali di
prudenza e diligenza. Il fatto lesivo non può essere cagionato da colpi inferti per dolo o per colpa con una
violenza eccessiva rispetto alla c.d. 'di base'»
Risulta consolidata l'opinione che ritiene il calciatore responsabile per un comportamento illecito che sia
estraneo allo svolgimento dell'azione ed all'agonismo, con una volontaria aggressione con l'intento di
arrecare pregiudizio all'altrui integrità fisica.
Anche nelle decisioni più recenti (Cass. Pen. del 2000) la Suprema Corte aderisce alla tesi tradizionale che
configura nella pratica dello sport una causa di giustificazione non codificata. Infatti, «il soddisfacimento
dell'interesse della collettività a svolgere attività sportiva per il potenziamento fisico di giovani e meno
giovani, e come tale tutelato dallo Stato, può consentire l'assunzione del rischio della lesione di un interesse
individuale relativo all'integrità fisica. Sotto tale profilo non costituirebbe un limite neppure il disposto ex
art. 5 c.c.».
Un'altra recente pronunzia della Suprema Corte (Cass. Pen. del 1999) evidenzia che «Durante una
competizione sportiva, la condotta lesiva tenuta da un giocatore ai danni dell'avversario in violazione delle
specifiche regole del gioco, non rientra nell'ambito applicativo della causa di giustificazione o non codificata
dell'esercizio della c.d. violenza sportiva, ed è penalmente perseguibile».
Nella stessa pronuncia la Suprema Corte definisce chiaramente la nozione di causa di giustificazione atipica
o non codificata che «trova la sua ragion d'essere nel fatto che la competizione sportiva è non solo
ammessa, ed anzi incoraggiata per gli effetti positivi che svolge sulle condizioni fisiche della popolazione,
dalla legge e dallo Stato, ma è anzi ritenuta dalla coscienza sociale come un'attività assai positiva per
l'armonico sviluppo dell'intera comunità».
Questo è il fondamento della non punibilità dei comportamenti considerati. Ecco allora che in virtù di un
procedimento di interpretazione analogica è possibile individuare delle cause di giustificazione non
codificate.
Tanto premesso, la Suprema Corte non manca di rilevare che «non è sempre agevole individuare i
comportamenti scriminati dalla causa di giustificazione considerata. Tuttavia possono essere individuati dei
criteri generali, e, precisamente, l'illecito sportivo che non esula dalla tipologia dell'usuale fallo di gioco
viene sanzionato dal solo arbitro dell'incontro, ed eventualmente dal giudice sportivo, ma l'illecito sportivo
posto in essere volontariamente, in una situazione avulsa dal normale svolgimento del gioco o nel corso di
un'azione ma con violenza sproporzionata e tale da ledere consapevolmente l'integrità fisica dell'avversario
si instaurerà anche il procedimento penale».
Ovviamente, per qualsiasi comportamento violento che si manifesti prima o dopo la partita, oppure « a
gioco fermo», l'atleta risponderà penalmente in modo conforme ai principi generali dell'ordinamento
giuridico. La Suprema Corte stabilisce anche gli altri criteri di valutazione della condotta dell'atleta: «Il
giocatore autore dell'evento lesivo, che sia stato però rispettoso delle regole del gioco, del dovere di lealtà
nei confronti dell'avversario e dell'integrità fisica di costui, certamente non sarà perseguibile penalmente,
perché non può dirsi superata la soglia del rischio consentito».

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Talvolta si possono verificare violazioni involontarie delle norme regolamentari del gioco dovute alla foga
agonistica e alla incapacità di interrompere tempestivamente la propria azione o corsa al fine di non
ostacolare l'avversario, ad esempio il c.d. fallo di ostruzione. In queste fattispecie si versa in ipotesi di illecito
sportivo sanzionato dalle norme regolamentari ma non perseguibile penalmente.
Quando però il fatto lesivo si verifichi nel corso di un'azione di gioco al fine di impossessarsi della palla o di
impedire che l'avversario ne assuma il controllo e il mancato rispetto delle regole di gioco sia, in realtà
dovuto all'ansia di risultato, certamente il fatto avrà natura colposa.
Una responsabilità per dolo sarà ravvisabile quando la gara sia soltanto l'occasione dell'azione volta a
cagionare l'evento oppure quando il comportamento posto in essere dal giocatore autore del fallo lesivo
non sia immediatamente rivolto all'azione di gioco, ma piuttosto ad intimorire l'antagonista e a dissuaderlo
dall'opporre un qualsiasi contrasto oppure a punirlo per un fallo involontario subito, c.d. fallo di reazione.
L'atteggiamento della Suprema Corte in questa pronunzia (Cass. Pen. n. 1951/1999) appare piuttosto
rigoroso, prospettando la responsabilità penale per lesioni colpose in presenza della volontarietà del fallo di
gioco.
Appare opportuno precisare che la Corte di Cassazione, nella medesima decisione, ricostruisce in una
sintesi assai chiara quello che è oggi l'orientamento giurisprudenziale consolidato in tema di violenza
sportiva, specificando che «sia la dottrina che la giurisprudenza hanno da tempo individuato nella attività
sportiva o meglio nell'esercizio della c.d. violenza sportiva una scriminante dei fatti lesivi che tale violenza
possa cagionare.
Il problema è presente in altri molti altri sport, singoli o di squadra, che richiedono una notevole carica
agonistica, il compimento di movimenti rapidi, che non permettono il massimo controllo.
È stata costruita man mano la categoria dei c.d. 'illeciti sportivi' nella quale rientrano tutti i comportamenti,
che, pur potendo costituire infrazione delle regole del gioco comportanti penalizzazioni per il giocatore e/o
per la sua squadra, non sono penalmente perseguibili, perché non superano la c.d. soglia del ' rischio
consentito'. Solo il superamento di tale soglia, renderebbe perseguibili tali comportamenti.
Molto si è discusso in dottrina e in giurisprudenza se tale ipotesi possa essere inquadrata nel paradigma del
consenso dell'avente diritto, ex art. 50 c.p., o se si dovesse parlare di una causa di giustificazione non
codificata. La soluzione del problema non è semplice, perché se è vero che una parte della giurisprudenza
parla esplicitamente di consenso dell'avente diritto non può non considerarsi che riesce davvero difficile
riportare la causa di non punibilità di un evento lesivo verificatosi nel corso di una manifestazione sportiva
nell'ambito di una causa di giustificazione tipica come quella di cui all'art. 50 c.p. senza forzare il limite
normativo della tutela di un bene per principio indisponibile quale è appunto quello alla vita o all'integrità
fisica».
La decisione della Suprema Corte 1951/1999 non manca di far menzionare anche dell'incidenza del caso
fortuito: «secondo una parte della dottrina, l'indagine dell'interprete dovrebbe riguardare una fase
precedente, poiché il limite della punibilità dei fatti andrebbe ricercato negli elementi costitutivi della
fattispecie e nell'incidenza del caso fortuito. Il fortuito resta fuori dallo schema delle cause di giustificazione
perché incide sul rapporto di causalità».
In materia di risarcimento danni per responsabilità civile conseguente ad un infortunio sportivo, la Suprema
Corte stabilisce «qualora siano derivate lesioni personali ad un partecipante all'attività a seguito di un fatto
posto in essere da un altro partecipante, il criterio per individuare in quali ipotesi il comportamento che ha
provocato il danno sia esente da responsabilità civile sta nello stretto collegamento funzionale tra gioco ed
evento lesivo, collegamento che va escluso se l'atto sia stato compiuto allo scopo di ledere, ovvero con una
violenza incompatibile con le caratteristiche concrete del gioco».
La responsabilità non sussiste invece se le lesioni siano la conseguenza di un atto posto in essere senza la
volontà di ledere e senza la violazione delle regole dell'attività e non sussiste neppure se l'atto sia a questa
funzionalmente connesso.
La valutazione del danno trova una collocazione sistematica nell'ambito della previsione dell'art. 2043 ss.
c.c., come ribadisce il Tribunale di Bolzano: «sebbene ai fini della valutazione della responsabilità civile in
ambito sportivo debba tenersi in considerazione la particolarità della condotta in relazione alle regole del
gioco la giurisprudenza riconduce il fenomeno della responsabilità sportiva alla regola generale di cui all'art.
2043 c.c.».

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La Suprema Corte, inoltre non ravvisa responsabilità per l'atleta che ha provocato un danno all'avversario in
un'azione fallosa collegata funzionalmente al gioco.
Generalmente il gioco del calcio non viene ritenuto attività di per sé pericolosa, come esclude, il Tribunale
di Firenze, sia pure con riguardo al gioco del calcio in costume: diversamente, il Tribunale di Ascoli Piceno
ritiene pericoloso lo sport del calcio, ma riguardo alla gestione dello stadio. Infatti, in una decisione della
Corte d'Appello di Milano, si cita il d.m. 25 agosto 1989 (recante Norme di sicurezza per la costruzione e
l'esercizio di impianti sportivi), che elenca i requisiti base per un impianto sportivo: settore 'dimensionato'
per gli ospiti, separazione di ciascun settore con 'setti di materiale non combustibile con altezza non
inferiore a 2,20 metri'.
Queste considerazioni prescindono dalla riflessione che individua la ratio delle diverse previsioni di
presunzione di responsabilità nella necessità di bilanciare contrapposti interessi meritevoli di tutela
favorendo le posizioni più deboli; per cui tra integrità fisica degli spettatori e aspetto economico degli
organizzatori, coloro più penalizzati sono i primi che si ritrovano esposti al rischio di subire lesioni alla
persona per assistere ad una partita, per la quale hanno corrisposto una somma di danaro alla società
organizzatrice per acquistare il tagliando d'ingresso e quindi accedervi.

Anche le gare automobilistiche sono considerate attività sportive ad alto rischio: va precisato, però, che,
oltre al rispetto delle regole tecniche, il corridore deve impiegare il massimo impegno e la necessaria perizia,
a tutela dell'altrui incolumità.
Se l'audacia rivela quale «dato indefettibile dello sport automobilistico», l'imprudenza non può essere
valutata in base ai comuni criteri che sorreggono i comportamenti umani, ma va riportata alle stesse
caratteristiche delle competizioni sportive
Anche la Suprema Corte riconosce che in queste gare i corridori sono obbligati al rispetto del regolamento di
corsa e delle norme di prudenza e di perizia richieste per la sicurezza e l'altrui integrità fisica, e il
comportamento deve essere valutato non alla stregua dei normali criteri, ma alla luce delle caratteristiche
tipiche e delle specifiche esigenze della competizione.
Il Tribunale di Perugia, in una pronuncia del 1987, ha affermato che in questi casi non trova applicazione
l'art. 2054 c.c. in quanto trattasi di gare di velocità effettuate in circuiti chiusi; la colpa del conducente deve
essere valutata non secondo i comuni parametri di diligenza del buon padre di famiglia, ma secondo i
parametri di consapevolezza adattati alla particolare fattispecie. Trova applicazione l'art. 2043 c.c. perché
ne deriva che l'accertamento della responsabilità dei guidatori va rilevato tenendo presenti parametri di
imprudenza e imperizia.

La nozione di responsabilità del pilota differisce se trattasi di competizioni «in circuito aperto» o «in circuito
chiuso».
La costante interpretazione della giurisprudenza esclude l'applicabilità della normativa del codice stradale.
Con una pronuncia del 1965 del Tribunale di Monza, riguardante la tragica collisione tra la Ferrari n. 4,
condotta da Wolfang Von Trips e la Lotus n. 36, guidata da James Clark, avvenuta nel corso del XXXII Gran
Premio Automobilistico d'Italia, che ebbe come conseguenza la morte del pilota della Ferrari e di 15
spettatori, ha fatto ampia chiarezza sulla responsabilità del corridore, confermando l'inapplicabilità delle
norme del codice della strada.
Il pilota sarà responsabile di ogni evento lesivo cagionato per non aver osservato i doveri di diligenza,
prudenza e perizia ex art. 43 c.p.
Secondo la su citata corte di merito, afferma che «non può rivolgersi a Clark alcun rimprovero per la
condotta tenuta: condotta che può ritenersi forse eccessivamente audace, ma l'audacia è un dato
indefettibile dello sport automobilistico». Pertanto, Clark fu assolto dai reati di omicidio colposo e di disastro
colposo a lui ascritti, non con la formula del non aver commesso il fatto, «poiché la morte di Von Trips e
quella di 15 spettatori fu dovuta alla collisione fra le auto di Clark e Von Trips, quindi dalla loro condotta »,
ma semplicemente perché «nella condotta di Clark non può essere ravvisata alcuna colpa».
Secondo una pronuncia del Tribunale di Trento del 1980, «il pilota non è responsabile nemmeno in caso di
collisione con un altro partecipante, quando abbia parcheggiato la propria vettura, a seguito di un guasto,
secondo le indicazioni dei commissari di percorso». Lo stesso tribunale afferma l'inapplicabilità delle

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disposizioni del codice della strada in questi casi, uniformando la condotta al principio generale del
neminem laedere e della comune prudenza.
I ploti, invece, che partecipano a competizioni sportive in circuito aperto, ossia su strade aperte al traffico,
hanno l'obbligo di osservare le norme del codice della strada. Va considerato che in questi casi occorre
contemperare le esigenze agonistiche con quelle della circolazione.
È costante la giurisprudenza nel ritenere che «nelle gare su strada a circuito aperto sia i partecipanti alla
competizione sportiva che i terzi eventualmente danneggiati da quest'ultimi hanno l'obbligo di uniformare
la loro condotta alle norme del codice della strada oltre che a quelle della comune prudenza » e
«l'organizzatore di una gara motociclistica è responsabile per i danni arrecati dai concorrenti ai fondi ubicati
lungo il percorso, a meno che non fornisca prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il
danno».

Nell'ordinamento giuridico un soggetti incorre in responsabilità oggettiva quando risponde di un


determinato evento anche in assenza di dolo o colpa, o indipendentemente da essi. In ambito penale, tale
responsabilità trova applicazione negli artt. 83 e 116 c.p. (83 «il colpevole risponde dell'evento non voluto» e
116 «reato commesso diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti anche questi ne risponde»).
In ambito civile tale responsabilità si configura nelle ipotesi previste dall'art. 2049 c.c. («I padroni e i
committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi
nell'esercizio delle incombenze a cui sono adibiti»).
In ambito sportivo tale responsabilità non coinvolge i singoli atleti, ma esclusivamente le società. Attraverso
questo istituto l'ordinamento sportivo rende corresponsabile la società degli accadimenti che, posti in
essere da terzi o da parte degli spettatori, arrechino grave turbativa al regolare svolgimento della
competizione e all'ordine pubblico. Lo scopo è di moltiplicare l'impegno e le precauzioni poste in essere
dalle società stesse per prevenire gravi incidenti.
Parte della dottrina ritiene perfettamente compatibile la responsabilità oggettiva così come delineata
dall'ordinamento sportivo. Per altri, non è paragonabile tale responsabilità alla luce dell'art. 2049 c.c., tanto
più che la società sanzionata non può rivalersi dell'autore del fatto, legata al vincolo di giustizia, che impone
ai soggetti dell'ordinamento sportivo di rinunciare alla possibilità di adire il giudice statale a tutela dei propri
diritti e consentendo al giudice sportivo di comminare sanzioni efficaci e definitive.
Proprio quest'ultima peculiarità motiva forti critiche. Generalmente le società incorrono nella responsabilità
oggettiva, e nelle sanzioni connesse, in tutti i casi in cui sul proprio campo di gioco e immediate pertinenze
si verificano fatti estranei al gioco che, oltre ad impedire il regolare svolgimento della gara, comportino
anche turbative dell'ordine pubblico. Le decisioni della Corte d'Appello Federale sono basate sulla
impossibilità della prevenzione dei disordini da parte delle forze dell'ordine, data l'enorme sproporzione tra
numero degli addetti e numero degli spettatori, e sulla obiettiva estrema difficoltà di individuare i
responsabili nella moltitudine del pubblico.
Le società rispondono dell'operato dei propri accompagnatori e dei propri tifosi non solo nel proprio campo
di gioco, ma anche nello stadio delle società avversarie, durante le trasferte, purché vi sia l' identità del
centro d'interesse e di profitto tra l'operato del responsabile subiettivo e la sfera d'azione del responsabile
oggettivo.
Una recente decisione della C.A.F. Calcio sancisce che «le società di appartenenza dei calciatori non sono
responsabili degli eventi dannosi dei sostenitori delle squadre di calcio se tali eventi sono dovuti al caso
fortuito. Le società non potendoli prevedere non hanno potuto adottare misure di prevenzione per evitarle ».
Ciò tra l'altro comporta la riduzione delle sanzioni, non l'esonero della responsabilità oggettiva.
Infine è utile ricordare il rilievo di Frattarolo allorquando prende in esame una decisione di un giudice
statale che ha condannato un tifoso facinoroso e violento al risarcimento del danno patito dalla società, per
le conseguenze dell'invasione di campo e l'irrogazione di sanzioni, tra cui la sconfitta a tavolino della gara e
la squalifica del campo.
Alla responsabilità oggettiva si affiancano altre due tipologie di responsabilità a carico di società sportive:
- la responsabilità diretta, per cui in conformità con i principi che regolano la rappresentanza, esse
rispondono direttamente del comportamento dei propri affiliati, soci e dirigenti;
- la responsabilità presunta, in base alla quale rispondono, fino a prova contraria, degli illeciti sportivi
perpetrati da terzi ad esse estranei, a loro vantaggio.

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Il gestore dell'impianto sportivo ha l'obbligo di garantire l'idoneità e la sicurezza degli impianti e la
sicurezza e l'integrità delle persone che accedono agli impianti.
L'attività del gestore consiste nel porre a disposizione di terzi spazi e impianti per lo svolgimento di una
manifestazione sportiva. Ha l'obbligo di vigilare sulla sicurezza delle attrezzature e degli impianti, e di
adottare tutte le misure di sicurezza necessarie ad evitare danni agli utenti.
Spesso la figura del gestore degli impianti e quella dell'organizzatore della manifestazione sportiva vengono
a coincidere, e quindi il gestore di un impianto in caso di evento dannoso incorre in una duplice
responsabilità: sia come responsabilità dell'organizzatore dell'attività sportiva (ex art. 2043 c.c.), sia come
responsabilità del committente (ex art. 2049 c.c.), munito di obblighi di vigilanza.
Il gestore ricade in questa duplice responsabilità se per esempio consente l'ingresso ad un numero di
spettatori superiore a quello previsto dalla capienza dell'impianto.
Inoltre, rileva, quale opinione consolidata della giurisprudenza, la qualifica di pericolosità attribuita
all'attività di gestione degli impianti sportivi, con riferimento all'art. 2050 c.c.
Il gestore utilizza la struttura in base all'esistenza di un contratto di locazione o di comodato, o in virtù di un
diritto reale di godimento, all'uso o all'usufrutto: ne consegue che il rapporto con il proprietario
dell'impianto è regolato dalle norme vigenti nella fattispecie.
In caso di cedimento strutturale di impianti sportivi, con conseguente danno alle persone, la giurisprudenza
applica costantemente l'art. 2051 c.c. («Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in
custodia, salvo che provi il caso fortuito»), in quanto la presunzione di colpa per i danni cagionati dalla cosa
in custodia si fonda sull'«esistenza di un effettivo potere fisico di un soggetto sulla cosa, al quale potere
inerisce il dovere di custodire la cosa stessa in modo da impedire che provochi danni a terzi» e sul dovere di
«badare a che dalla cosa stessa, per sua natura o per particolari contingenze, non derivi danno a terzi».
La responsabilità ex art. 2051 c.c. del gestore dell'impianto sportivo rileva quale responsabilità oggettiva in
quanto è sufficiente il nesso causale tra la cosa in custodia ed il danno arrecato. Nesso che viene escluso se
è frutto di caso fortuito.
Sulla responsabilità del proprietario è ammessa la prova liberatoria in base alla quale, ad esempio, il
cedimento di una struttura destinata ad accogliere gli spettatori non è connesso ad un vizio di costruzione ,
ma al superamento dei limiti di capienza dell'impianto stesso. In tal caso, la responsabilità ricade
sull'organizzatore della manifestazione.
Una sentenza della Suprema Corte (n. 7710/1998) ha dichiarato tra l'altro beni indisponibili ai sensi
dell'art. 826, 3° comma c.c. gli stadi di calcio, spesso teatro di intemperanze da parte dei tifosi.
«La sentenza afferma che gli impianti sportivi, di proprietà comunale, appartengono al patrimonio
indisponibile del Comune ai sensi dell'art. 826, 3° co., c.c.» essendo essi destinati ad un pubblico servizio: il
soddisfacimento dell'interesse, proprio dell'ente esponenziale e dell'intera collettività allo svolgimento delle
attività che in essi svolgono. La decisione della Corte di Cassazione ha posto fine alla controversia nata tra
l'Amministrazione comunale di Genova e le società calcistiche di Genoa e Sampdoria, e riguardante la
concessione da parte della suddetta amministrazione comunale dei diritti di pubblicità all'interno dello
stadio. Più precisamente, nel corso dei lavori di ristrutturazione dello stadio «Luigi Ferraris» di Genova,
effettuati in vista del campionato mondiale di calcio del 1990, il Comune del luogo, ente proprietario della
struttura, indisse un concorso per la costruzione e la gestione dei tabelloni elettronici, nonché per l'esercizio
esclusivo della pubblicità nello stesso stadio, ed all'esito affidò tale concessione alla società Pubblilancio.
Successivamente il medesimo Comune rinnovò la concessione dell'uso dello stadio alle società Genoa 1983 e
U.S. Sampdoria. Le censure elevate trascurano di considerare il dato fondamentale della controversia, la
quale attiene alla pretesa di svolgere attività pubblicitaria nel contesto del patrimonio indisponibile di ente
pubblico, patrimonio il quale, se non utilizzato direttamente, deve essere oggetto di concessione
amministrativa in favore di terzi. Con la necessaria conseguenza che questa attività o aveva formato
anch'essa oggetto di concessione a favore della società di calcio, ed in tal caso scattava la giurisdizione
amministrativa, o, in caso contrario, nessuna tutela, risarcitoria o inibitoria, queste società potevano
pretendere dal giudice ordinario in considerazione della insussistenza del diritto del concessionario, dal
momento che, in tal caso, le facoltà di godimento, presupposto dello sfruttamento pubblicitario, erano
rimaste nel patrimonio dell'ente concedente. Invero, costituendo la proprietà, secondo la definizione ex art.
832 c.c., nel diritto di godere e disporre della cosa in modo pieno ed esclusivo, peraltro nei limiti e con

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l'osservanza degli obblighi imposti dall'ordinamento, la concessione può legittimamente trasferire a terzi
tutte o parte delle facoltà di godimento ritraibili dalla cosa, e comunque può comprendere, o non, lo
sfruttamento pubblicitario. Nel primo caso, il diritto allo svolgimento di attività pubblicitaria trova la sua
fonte proprio nella concessione, e non già in maniera automatica.
La Corte del merito ha rettamente distinto tra pubblicità strettamente inerente, o non, allo svolgimento del
gioco del calcio: oggetto di contestazione era, infatti, solo quest'ultima, con la conseguenza che, proprio per
la sua non stretta inerenza, essa era esercitabile in quanto fosse stata anch'essa oggetto di concessione. Né
vale l'argomento che il gioco professionistico del calcio si svolge normalmente alla presenza di un folto
pubblico di spettatori, talché la concessione dello stadio comporta necessariamente anche lo sfruttamento,
a fini pubblicitari, di tale presenza.
Del resto, il biglietto pagato dalla società di calcio al pubblico che accede allo stadio, è il corrispettivo dello
spettacolo, cui assiste e che è esso interessato a seguire, e non certo della pubblicità, che all'interno
dell'impianto può nell'occasione essere esercitata. La presenza degli spettatori è soltanto occasione per lo
svolgimento della pubblicità, tanto più appetibile e redditizia quanto più vasta è la platea dei possibili
destinatari.
Sul piano giuridico, questo fattore può essere o non oggetto di intese tra ente proprietario e concessionario.
Conseguenze identiche si verificano anche nel rapporto tra le attuali ricorrenti e la Pubblilancio: o infatti le
prime erano abilitate a svolgere attività pubblicitaria dalla propria concessione o non lo erano, e in tal caso
esse non potevano dolersi dell'avvenuta precedente concessione a detta società. La Corte rigetta il ricorso.»
Fino agli anni '90 la giurisprudenza, di merito e di legittimità, in caso di danni riportati dallo spettatore di
una partita di calcio, riteneva applicare l'art. 2043 c.c. che lo obbliga all'adozione delle misure idonee a
garantire la sicurezza e l'incolumità degli atleti e degli spettatori. Nelle sentenze degli anni '60 era
generalmente esclusa la responsabilità del gestore per danni riportati dallo spettatore. Rileva tra tutte la
decisione della Corte d'Appello di Milano del 1974.
I gestori degli impianti di sport estremi sono invece sempre ritenuti responsabili dell'idoneità e della
sicurezza di tali strutture, ai sensi degli artt. 42 e 589 c.p., ed hanno l'obbligo di garantire la massima
sicurezza dell'utente generico.

Altro profilo di responsabilità coinvolge quei soggetti che organizzano le manifestazioni sportive, ossia «le
persone fisiche, giuridiche, le associazioni, i comitati» o comunque gli enti che, «nell'ambito del
regolamento giuridico dello Stato, promuovono, assumendosene tutte le responsabilità l'incontro di uno o
più atleti con lo scopo di raggiungere un risultati in una o più discipline sportive, indipendentemente dal
pubblico spettacolo». Autorevole dottrina distingue l'«organizzatore di diritto», ossia l'ente federato e
regolarmente autorizzato, dall'«organizzatore di fatto», cioè l'ente non federato e non autorizzato, e
dall'«organizzatore pro tempore», ossia l'ente non federato ma regolarmente autorizzato. Questa
distinzione ha rilevanza sportiva interna, in quanto i risultati della competizione saranno omologati, e
avranno validità erga omnes, secondo la situazione giuridica dello stesso ente organizzatore: allo stesso
modo gli atleti che prendono parte a gare non autorizzate possono essere perseguiti dalla giustizia
disciplinare sportiva.
Sugli organizzatori delle manifestazioni sportive incombono specifiche responsabilità civili, penali,
amministrative.
La responsabilità che si configura per l'organizzazione di gare sportive in caso di danni occorsi agli atleti o in
genere ai gareggianti, ricorre in un triplice ambito: 1) per inidoneità degli impianti; 2) per inidoneità dei
dispositivi tecnici; 3) per inidoneità fisica degli atleti.
L'organizzatore di competizioni sportive è infatti spesso risultato responsabile per la mancata certificazione
di «agibilità» del luogo di «esercizio dell'attività sportiva». Pertanto, l'organizzatore ha l'obbligo di
richiedere alla competente Federazione sportiva nazionale l'omologazione dell'impianto, mentre, in caso di
competizione che si svolga in luoghi normalmente destinati all'uso della collettività, e cioè in circuito aperto,
l'organizzatore è tenuto a richiedere preventivamente un provvedimento autorizzato alla pubblica autorità
competente (per gare automobilistiche, al prefetto; per competizioni nautiche, all'autorità marittima).
In una sentenza della Cassazione Penale del 1975, il rilascio di tale autorizzazione risulta ininfluente in
relazione all'accertamento di responsabilità civile o penale imputabile all'organizzatore per accadimento di
danni conseguenti all'effettuazione di una manifestazione sportiva, in quanto, in assenza dei suddetti eventi

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dannosi la mancanza di autorizzazione fa sorgere responsabilità esclusivamente ai fini contravvenzionali o
amministrativi, né il possesso dell'autorizzazione può esonerare lo stesso organizzatore da responsabilità o
colpa alcuna per il mancato rispetto delle prescrizioni di pubblica sicurezza, dei regolamenti federali e di
tutte le altre disposizioni.
Rileva in proposito la decisione della Corte d'appello di Milano del 1980 che individua anche la
responsabilità della Federazione sportiva competente. La Federazione Italiana Sport Ghiaccio (F.I.S.G.)
quale organo del C.O.N.I. ha il compito istituzionale di vigilare sulla idoneità delle attrezzature sportive
occorrenti per lo svolgimento della gara non solo ai fini sportivi ma anche dell'incolumità dei giocatori e dei
terzi (spettatori). La F.I.S.G. risponde per l'omesso controllo della pericolosità del campo di gioco in concorso
con l'organizzatore.
Ottenuta l'omologazione da parte della federazione sportiva competente, l'organizzatore sarà tenuto alla
regolare manutenzione dei luoghi e degli impianti per conservarli nelle medesime condizioni e per impedire
che il loro eventuale degrado costituisca causa di danni per atleti spettatori e qualsiasi altra persona. Tra i
compiti dell'organizzatore rientra l'obbligo a predisporre tutte le cautele necessarie ad evitare il verificarsi di
incidenti o danni: dovranno quindi essere innalzate transenne, predisposti cartelli segnaletici e manifesti
informativi, oltre all'istituzione di idonei sistemi di protezione e sorveglianza.
Va rilevato a questo proposito che può configurarsi responsabilità civile per l'organizzatore anche ex art.
2049 c.c. (padroni e committenti responsabili per danni di domestici e commessi), per condotta colposa
degli ausiliari, dei collaboratori e di coloro che abbiano incarichi di vigilanza.
Gli strumenti tecnici utilizzati dai partecipanti ad una competizione sportiva devono essere conformi ai
regolamenti federali e comunque «efficienti e sicuri» e tali da escludere il verificarsi di eventi dannosi.
L'organizzatore è tenuto anche a verificare la regolarità dei mezzi tecnici di proprietà degli atleti: ma è
esente da responsabilità qualora, nonostante l'accertata conformità, i dispositivi impiegati cagionino un
danno all'atleta stesso o ai terzi per l'uso improprio che viene fatto di essi, o anche se l'atleta, con dolo,
abbia eluso il controllo o sostituito il mezzo già sottoposto alla prescritta verifica. Qualora gli atleti siano
stati sottoposti a tutti i rituali accertamenti sanitari previsti dai regolamenti delle Federazioni nazionali e
siano risultati fisicamente idonei allo svolgimento della competizione sportiva, se sussistono ulteriori
particolari obblighi per l'organizzatore, questi non risulta responsabile di eventuale effettiva idoneità fisica e
atletica del partecipante. Resta invece la responsabilità civile e penale dell'organizzatore di una
competizione sportiva che, pur essendo a conoscenza delle precarie condizioni fisiche dell'atleta o del
parere negativo rilasciato dal medico, consenta all'atleta di gareggiare.
Ovviamente sugli organizzatori di competizioni sportive incombe sempre l'obbligo del rispetto del principio
del neminem laedere; e maggiori cautele vanno impiegate nell'organizzazione di gare a cui partecipino
anche atleti minorenni.
Non può essere invocato, ai fini di un esonero da responsabilità, il c.d. principio dell'assunzione del rischio
da parte dello spettatore.
Più specificamente «sussiste responsabilità contrattuale ed extracontrattuale dell'organizzatore di un
incontro di calcio professionistico per i danni subiti da uno spettatore colpito da oggetti lanciati da parte di
altri tifosi in quanto l'attività di gestione di uno stadio di calcio costituisce attività pericolosa in relazione alla
sua stessa natura e per le caratteristiche dei mezzi adoperati».
Per la Suprema Corte l'organizzatore è responsabile ai sensi dell'art. 2050 c.c. anche nel caso in cui il danno
sia stato subito da un atleta che partecipava alla gara sportiva.
Nel caso in cui la competizione coinvolga dei minori, la Suprema Corte ritiene gli istruttori - organizzatori
responsabili ai sensi dell'art. 2048 c.c., a meno che essi non dimostrino di non aver potuto impedire il fatto.
Inoltre, «l'organizzatore di un torneo di calcio non è responsabile per i danni subiti da un calciatore durante
una partita a causa di un colpo ricevuto da un avversario, trattandosi di un evento prevedibile ma non
prevenibile mediante l'osservanza dei regolamenti sportivi e delle altre regole della prudenza e diligenza».
Va infine osservato che le clausole di esonero che frequentemente gli organizzatore di manifestazioni
sportive fanno sottoscrivere ai gareggianti e agli atleti partecipanti, nonché agli spettatori al fine di sottrarsi
da eventuali responsabilità, sono per la dottrina dominante affette da nullità assoluta, in quanto la
fattispecie rientra nell'ambito applicativo dell'art. 1229 2° co. C.c. («È nullo qualsiasi patto che esclude o
limita preventivamente la responsabilità del debitore per dolo o per colpa grave. È nullo altresì qualsiasi
patto preventivo di esonero o di limitazione di responsabilità per i casi in cui il fatto del debitore e dei suoi

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ausiliari costituisca violazione di obblighi derivanti da norme di ordine pubblico»). Anche le clausole di
esonero contenute nei regolamenti sono prive di effetti nei confronti degli spettatori e dei terzi in genere.
Altra opinione rileva che anche le clausole di esonero eventualmente stampate sui biglietti di ingresso sono
prive di effetto.
Agli istruttori è conferito un potere direttivo e di controllo, nell'ambito dell'attività di insegnamento e di
avviamento ad una pratica sportiva. Nei confronti dei soggetti indicati, per i danni riportati dagli atleti e
dagli allievi per comportamenti negligenti o imprudenti si configura responsabilità ai sensi degli artt. 2047 e
2048 c.c. Ovviamente, la responsabilità sarà tanto maggiore quanto maggiore è la pericolosità dello sport
insegnato. In caso di minore età dell'atleta, saranno proporzionalmente maggiori e più ampie le misure
prudenziali e le cautele poste in essere da istruttori e allenatori.
La Suprema Corte ravvisa la responsabilità dell'organizzatore della competizione sportiva in caso di mancata
osservanza, da parte degli istruttori, delle dovute e necessarie cautele al fine di evitare possibili danni al
minore.
Anche altre corti di merito individuano la responsabilità dell'istruttore ex artt. 2043 e 2048 in tutti i casi in
cui l'evento dannoso sia oggettivamente e soggettivamente prevedibile, e venga agevolato dalla mancanza
di cure e cautele da parte dello stesso. In particolare, si ravvisa il ricorrere della previsione dell'art. 2048
c.c., in quanto essa «impone a chi abbia in affidamento allievi con mansioni di insegnamento nei loro
confronti, l'obbligo di vigilare non solo affinché gli alunni stessi non abbiano ad arrecar danni a terzi, ma
anche a che non abbiano a restar danneggiati da fatti o atti compiuti da essi medesimi, da loro coetanei o
da altre persone».
La Suprema Corte stabilisce i criteri per la valutazione dell'incidenza del caso fortuito: un evento dannoso
non può dirsi fortuito quando colui che è chiamato a rispondere doveva e poteva comunque tenerne conto.
L'accertamento essenziale riguarda la causalità del delitto commissivo mediante omissione, ex art. 40 c.p..
Individuato il nesso di causalità interviene la valutazione della colpevolezza: il comportamento
dell'istruttore viene esaminato alla luce di quelli che sono i compiti dell' homo eiusdem condicionis, ossia di
un istruttore responsabile che sia in grado di «riconoscere le situazioni di pericolo e di individuare ed
osservare le norme di comportamento stabilite nel caso specifico, per prevenire la lesione di beni giuridici».
La prova di non aver potuto impedire il fatto che l'istruttore deve fornire in base all'art. 2048 c.c. per
eludere la presunzione di responsabilità non può basarsi sulla semplice dimostrazione dell'impossibilità di
adottare in intervento correttivo utile ad evitare l'inizio della serie causale sfociata nella produzione del
danno, ma deve estendersi alla dimostrazione di aver adottato preventivamente le misure organizzative o
disciplinari idonee ad evitare una situazione di pericolo favorevole all'insorgere di detta serie causale.

È opportuno accennare al caso di chiamata in giudizio, da parte di un atleta, del proprio sodalizio sportivo,
per risarcimento del danno subito, in azione di gioco, da parte di un avversario.
La decisione del Tribunale di Bari del 1960, pur riconoscendo la sussistenza del rapporto di lavoro, così
come ormai recepito da dottrina e giurisprudenza, ne definisce la particolare specificità per la quale tra le
parti si originano solo rapporti di credito, mentre manca il fondamento per una qualsiasi responsabilità della
società di appartenenza ex art. 2049 c.c.
Infatti la Corte esclude la culpa in vigilando, in quanto per la peculiarità dell'attività stessa questa poteva
essere esercitata solo dall'arbitro della partita; come pure esclude la culpa in eligendo, dato che
notoriamente l'assunzione dei calciatori ha una disciplina propria che limita estremamente la possibilità di
una libera scelta.
Peraltro la Cassazione (Cass. n.85/2003) ritiene le società sportive obbligate alla tutela della salute
psicofisica degli atleti professionisti, e, in caso di inottemperanza, responsabili ai sensi degli artt. 1218 e
2049 c.c. In tal senso, anche la decisione della Suprema Corte: «Nell'esercizio di attività sportiva a livello
professionistico, le società sportive sono tenute a tutelare la salute degli atleti sia attraverso la prevenzione,
sia attraverso la cura degli infortuni».
Nella medesima decisione la Suprema Corte ribadisce l'obbligo al risarcimento del danno ex art. 2087 c.c.:
«Incombe sulla società sportiva l'obbligo di risarcire i danni al calciatore professionista, che abbia subito un
infortunio preceduto da altri dello stesso genere e dal quale sia derivata la totale inabilità al gioco del calcio,
ove la società dopo gli infortuni precedenti e prima dell'ultimo abbia chiesto ad un istituto di medicina dello
sport l'accertamento e la certificazione dell'idoneità del calciatore all'attività sportiva e l'istituto abbia

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accertato l'idoneità, perché caduto in errore in seguito ad indicazioni incomplete fornite dalla società». Nel
caso di specie, la Suprema Corte afferma anche che precise disposizioni normative sanciscono tali doveri a
carico delle società sportive di appartenenza, e delle Federazioni, con riguardo alle competizioni cui
prendono parte le compagini nazionali.
Inoltre la medesima decisione ribadisce come «la verifica delle condizioni fisiche del giocatore
professionista deve essere in via continuativa operata dai sanitari della società di calcio di appartenenza».
Quindi la Corte ritiene opportuno aggiungere «alcune precisazioni intorno alla individuazione degli obblighi
incombenti sulle società calcistiche a livello professionistico a tutela della salute dei propri atleti».
L'acquisita consapevolezza che nell'esercizio dell'attività sportiva a livello professionistico l'integrità
psicofisica dell'atleta costituisce elemento predominante per il successo nelle competizioni ha portato negli
ultimi anni le società calcistiche professionistiche ad inserire nel proprio organico un sempre maggiore
numero di persone (massaggiatore, medico sociale e, almeno per i grossi club, anche psicologo dello sport,
specialista nell'alimentazione, ecc) addette tutte a tutelare la salute degli atleti.
Al riguardo è opportuno ricordare come la dottrina specialistica ed anche la giurisprudenza a fronte di
eventi subiti dagli atleti in occasioni di competizioni sportive e per effetto di non diagnosticate anomalie
fisiche abbiano fatto riferimento ai criteri generali fissati in relazione all'esercizio della professione sanitaria,
con applicazione dei principi fissati dall'art. 2236 c.c. (responsabilità del prestatore d'opera) ed
evidenziando come la prudenza e la diligenza non debbano mai difettare nel medico sportivo.
Si è anche sottolineato come la condotta del medico sportivo debba essere valutata con maggiore rigore di
quanto richiesto in relazione all'operato di un medico generico. La Cassazione stabilisce che «è compito del
giudice stabilire in che misura abbiano influito sull'errore diagnostico e sulla verificazione dell'evento lesivo,
le false informazioni rese dagli atleti, o dai loro allenatori, per il timore di vedere interrotte la fonte di lauti
guadagni e l'agognata aspettativa di successi e notorietà». Circostanze queste che devono indurre gli
operatori sportivi a "diagnosticare" anche la dissimulazione dell'atleta ed ad accertare le sue effettive
condizioni e le eventuali controindicazioni.
Sul piano poi della individuazione dei soggetti responsabili degli eventi lesivi subiti dall'atleta, per carenza
dei necessari accertamenti sanitari e/o per errori nelle diagnosi e nelle terapie prescritte, si è evidenziato in
dottrina come le società sportive (o la Federazione ove si tratti di sinistri accaduti nello svolgimento delle
competizioni di squadre nazionali) possano essere chiamate a rispondere alla stregua dell'art. 2049
(responsabilità dei committenti per fatti illeciti dei loro commessi) e come le suddette società nella sfera
contrattuale possano essere assoggettate anche al disposto dell'art. 1228 c.c. in base al quale il debitore
che, nell'adempimento dell'obbligazione, si avvale dell'opera di terzi è tenuto a rispondere anche dei fatti
dolosi o colposi di costoro.
L'accertamento dello stato di salute dell'atleta va condotto a tutto campo sperimentando a fronte di
situazioni dubbie tutte le più aggiornate tecniche idonee a disvelarne l'effettiva condizione.
A tale riguardo, ogni disciplina sportiva che, come il calcio, rende frequente lo scontro fisico tra contendenti
(Cass. n. 85/03) giustifica una ampia operatività nel settore in oggetto del citato art. 2087 c.c. dovendosi le
cautele a tutela della salute parametrare sulla pericolosità dell'attività svolta dallo sportivo professionista,
che deve essere controllato e seguito a livello medico con continuità per impedire la consumazione di eventi
lesivi di particolare gravità e ad evitare sinanche la morte dell'atleta.
L'art. 7 della legge n. 91/1981 sul professionismo sportivo statuisce che l'attività degli atleti è svolta sotto il
controllo medico secondo le modalità previste dalle federazioni sportive nazionali ed approvate dal
Ministero della Sanità, istituendo una scheda sanitaria per ogni atleta, da aggiornare periodicamente e da
custodire a cura della società sportiva.
Il d.m. 15 marzo 1995 (in tema di tutela sanitaria degli sportivi professionisti) stabilisce:
- che l'esercizio dell'attività professionistica è subordinata al possesso del certificato di idoneità; che il
medico sociale è tenuto all'effettuazione periodica dei controlli ed accertamenti clinici previsti;
- che lo stesso professionista è anche obbligato alla custodia personale della cartella clinica per l'intero
periodo di rapporto di lavoro tra l'atleta e la società sportiva.
Incombono sulle società di appartenenza anche gli oneri riguardanti l'assicurazione obbligatoria a favore dei
soli atleti professionisti.

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Infine il Tribunale di Napoli in una decisione del 1996 ha negato la responsabilità della società in una ipotesi
di presunto danno ad un atleta per mancanza di tempestiva assistenza sanitaria a causa dell'assenza del
medico sociale.

Con appropriata definizione, autorevole dottrina definisce «ufficiale di gara l'individuo o il collegio di
individui abilitati da una Federazione a dirigere e controllare una competizione sportiva, a giudicare della
sua regolarità e a risolvere le controversie proprie di tale competizione».
L'ufficiale di gara o l'arbitro assicura il rispetto delle regole tecniche proprie di una competizione sportiva
esercitando un proprio potere disciplinare. Egli tutela l'integrità fisica degli atleti gareggianti, prevenendo o
limitando il ricorso ad atti lesivi derivanti da un eccessivo e non corretto impegno agonistico.
Sulla natura della funzione arbitrale, la giurisprudenza di merito ha a lungo considerato l'arbitro un pubblico
ufficiale: si ricordano le decisioni dei tribunali di Ivrea del 1949 e di Velletri del 1977.
Il giudice di merito fa riferimento all'art. 357 c.p. («sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una
pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa»). Ma la dottrina è divisa, mentre gli specialisti in
materia di diritto sportivo sono favorevoli a questo riconoscimento.
Ritiene il Collegio di affrontare il problema risalendo a principi fondamentali di diritto pubblico.
Quando l'art. 357 c.p. tali considera i soggetti che «esercitano una pubblica funzione legislativa,
amministrativa e giudiziaria», è necessario risalire alla determinazione della nozione di «pubblica
funzione», nel caso, amministrativa.
L'attività pubblica amministrativa è, secondo principi ormai acquisiti, quella che, in sede esecutiva,
permette allo Stato di raggiungere suoi fini istituzionali. La moderna dottrina pubblicistica ha distinto tra
fini essenziali dello Stato e fini accessori: ritiene il Collegio che «non può in alcun modo escludersi che
l'attività sportiva sia da ascrivere tra i fini certamente rilevanti dello Stato».
Tali fini lo Stato raggiunge prevalentemente a mezzo di una organizzazione pubblicisticamente rilevante, che
trova la sua massima espressione in un ente pubblico autarchico parastatale, che è il C.O.N.I., e trova un
diretto controllo in un organo al vertice della P.A. (il Ministero dello Sport e dello Spettacolo) e in un organo
di Governo (il relativo Ministro).
Gli organi degli enti pubblici esplicano una pubblica funzione. A tale conclusione è giunta la decisione del
1974 della Corte di Cassazione, sul ricorso Amato, quando ha affermato: «I comitati regionali della
Federazione Italiana Atletica Pesante (F.I.A.P.) hanno natura giuridica di enti pubblici. Pertanto, il Presidente
di tali comitati è pubblico ufficiale». Il collegio conclude: «l'arbitro non può considerarsi un semplice
tecnico incaricato di decidere le sorti di un privato incontro sportivo, ma esercente un'attività di pubblico
interesse, la quale - siccome delegatagli da un ente pubblico attraverso i suoi organi di categoria (C.O.N.I.
attraverso Lega Calcio e organi collegati) - costituisce una pubblica funzione ed è quindi pubblico ufficiale».
Non può condividersi l'opinione espressa in alcune pronunce, con la quale si è sostenuto che l'arbitro regola
una controversia inter privatos (quali sono le società calcistiche), perché l'arbitro applica la volontà dell'ente
pubblico (C.O.N.I. e collegata Federazione Gioco Calcio).
L'orientamento della giurisprudenza di merito è ribadito in successive decisioni, tra le quali notoriamente
rileva quella della Pretura di Castelfranco Veneto del 1985.
In proposito il pretore osserva quanto segue. Il dato normativo cui deve farsi riferimento per la risoluzione
del quesito è costituito dall'art. 357 c.p. Esso recita testualmente: «Agli effetti della legge penale, sono
pubblici ufficiali: 1) gli impiegati dello Stato o di altro ente pubblico che esercitano, permanentemente o
temporaneamente una pubblica funzione legislativa, amministrativa o giudiziaria; 2) ogni altra persona che
esercita, permanentemente o temporaneamente, gratuitamente o con retribuzione, volontariamente o per
obbligo, una pubblica funzione legislativa, amministrativa o giudiziaria».
Occorre quindi accertare: 1) cosa si intende per funzione pubblica amministrativa; 2) se l'attività svolta
dall'arbitro federale possa costituire funzione pubblica amministrativa.
Secondo la norma predetta è la funzione esercitata che «fa» il pubblico ufficiale e non la qualificazione
dell'agente a fare pubblica la funzione esercitata.
Scendendo all'esame dei due punti del quesito, per il significato di «funzione pubblica amministrativa» si
rileva che il termine «funzione» ha il significato di «potere vincolato» o «attività finalizzata».
Tale funzione può svolgersi nel campo privatistico o in quello pubblico. La distinzione posa sulla diversa
rilevanza dei fini e degli obiettivi perseguiti.

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In altri termini, è pubblico quell'interesse che lo Stato riconosce come tale, e di conseguenza «pubblica» è la
funzione che tende alla realizzazione di tale interesse.
Tra le «funzioni pubbliche» enumerati dal numero 2 art. 357 c.p. è «amministrativa quella che non è né
legislativa né giurisdizionale».
La figura del pubblico ufficiale non va confusa con quella del pubblico funzionario, che ha un ambito più
specifico ristretto, cui solo competono poteri di rappresentanza della pubblica amministrazione o la capacità
a concorrere a formare o manifestare la volontà stessa.
In conclusione è «funzione pubblica amministrativa» quella attività non legislativa né giudiziaria di
qualunque soggetto volta alla realizzazione di interessi riconosciuti dallo Stato come socialmente rilevanti e
quindi pubblici.
Ciò stabilito, occorre ora verificare il secondo punto del quesito e cioè se l'attività svolta dall'arbitro federale
di calcio sia una attività finalizzata alla realizzazione di interessi pubblici come sopra identificati.
Questo pretore ritiene che sia impossibile giungere ad una negazione di tale effetto. È convincimento
generale incontestato che lo sport costituisca un interesse socialmente rilevante come tale riconosciuto
dallo Stato. La prova più imponente di tale rilevanza è data dalla esistenza di un apposito Ministero.
L'interesse alla promozione e allo sviluppo dello sport, nonché alla sua organizzazione e all'ordinato
svolgimento delle sue manifestazioni è interesse che lo Stato riconosce come socialmente rilevante e quindi
«pubblico». Deve concludersi che la funzione arbitrale è funzione pubblica amministrativa. Ne consegue che
l'arbitro è sicuramente pubblico ufficiale, ai sensi dell'art. 357 c.p. n. 2.
In proposito è da precisare che l'arbitro fa parte di un organismo complessivo di dimensione nazionale,
strettamente collegato, al più alto organismo sportivo nazionale: il Comitato Olimpico Nazionale Italiano,
ente pubblico.
Formalmente, il collegamento si sviluppa nel seguente modo. Organo del C.O.N.I. è la Federazione Italiana
Gioco Calcio. Detta federazione si articola a sua volta in vari settori. L'A.I.A. Settore arbitrale è un settore
tecnico della Federazione Italiana Gioco Calcio. La Cassazione ha riconosciuto natura di ente pubblico non
solo alle Federazioni Nazionali, ma anche ai loro comitati regionali e di conseguenza natura di pubblico
ufficiale al Presidente dei comitati regionali.
Gli arbitri sono selezionati, ammessi, formati, inquadrati in ruoli ordinari, ruoli speciali e «fuori quadro» ed
infine controllati sulla base di precise norme regolamentari. Non può quindi definirsi l'arbitro un privato che
risolve controversie tra privati; se si tiene conto che egli: 1) non è scelto dalle società in gara; 2) non sceglie
le gare da arbitrare; 3) non è compensato dalle società cui presterebbe i pretesi servigi; ma obbedisce alla
designazione effettuata dagli organi competenti del Settore.
Infine, nella sua attività, l'arbitro è tenuto ad osservare e far osservare i regolamenti federali superiormente
approvati, onde può concludersi che l'arbitro federale opera in nome e per conto dell'ente pubblico
Federazione Nazionale Gioco Calcio, di cui è organo tecnico. Anche per tale motivo gli compete la qualifica
di pubblico ufficiale.
Sostanzialmente il collegamento tra l'A.I.A. - settore arbitrale - e il C.O.N.I. si sviluppa nel campo che, per
antichissima regola, vale egregiamente a conferire natura pubblicistica ad ogni attività: la spesa pubblica.
Tutte le attività sportive del Paese trovano il più alto compendio nel C.O.N.I. Tale ente pubblico conferisce
fondi dell'Erario alle varie Federazioni sportive di cui è composto sulla base di bilanci di previsione da queste
presentati. Gli stessi fondi sono poi variamente distribuiti dalle Federazioni ai settori nelle quali quelle si
articolano. Gli stessi fondi che per tale via pervengono all'A.I.A. sono gestiti in forme predeterminate e
controllate ai sensi del Regolamento del Settore arbitrale.
Questa regolamentazione dell'uso dei fondi pubblici non può evidentemente essere priva di significato
giuridico. E il significato è che l'attività di tali enti pubblici è pubblica funzione e coloro che agiscono
istituzionalmente in nome e per conto di tali enti pubblicamente finanziati, quali appunto gli arbitri federali,
sono pubblici funzionari.
Si può osservare che sulla configurabilità dell'arbitro quale pubblico ufficiale rileva, negli anni, opporsi alle
decisioni del giudice di merito le massime della Suprema Corte che negli anni 1971 e 1973 negano di fatto
all'arbitro federale tale funzione.
Nel 1971 e nel 1973, la Suprema Corte conclude affermando che «l'arbitro designato dalla Federcalcio a
dirigere una partita non può essere considerato pubblico ufficiale». Tra queste si inserisce la decisione della
Pretura di Trento che nega all'arbitro federale tale funzione. Ma quest'ultimo caso fa riferimento specifico

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anche alla natura di atto pubblico del referto arbitrale. La qualità di pubblico ufficiale fa configurare il
referto arbitrale, ai sensi e per gli effetti dell'art. 2700 c.c., valere probatorio.
Il pretore di Trento osserva: «il problema non è quello di ritenere l'arbitro federale pubblico ufficiale o meno,
attesa l'insussistenza dell'attitudine pubblicistica di colui che disciplina lo svolgimento di un'attività
socialmente utile, ma non di interesse pubblico. Anche quando volesse ritenersi che il referto arbitrale è un
atto pubblico, la giurisprudenza ritiene che il valore di piena prova dell'art. 2700 c.c. non si estende a quelle
circostanze che si risolvono in apprezzamenti personali, in quanto non vi è motivo di ritenere il pubblico
ufficiale dotato di una percezione sensoriale di maggiore indiscutibilità di quella normalmente presente in
ogni soggetto».
Va analizzato il tipo di responsabilità in cui l'arbitro di una competizione sportiva può incorrere: tale
responsabilità si configura diversamente secondo le diverse tipologie dello sport praticato dai gareggianti.
È opinione dominante in dottrina che l'arbitro nella direzione di una gara in cui o in seguito della quale si
siano verificati eventi dannosi abbia omesso di adottare i provvedimenti disciplinari e/o cautelativi previsti
dai regolamenti, sia chiamato a rispondere penalmente e civilmente, anche a titolo di colpa concorrente, se
la sua condotta omissiva ha avuto una efficacia causale nel concretizzarsi dell'evento dannoso.
Maggiore si configura la responsabilità nel caso di sport ad alto rischio o «a violenza necessaria» come il
pugilato: qualora il direttore di gara ometta di adibire la necessaria vigilanza al fine di garantire che
l'incontro si svolga sempre nella massima correttezza e non provvede ad interrompere la competizione
quando uno dei contendenti sia in condizioni di manifesta inferiorità fisica.
Tuttavia è condivisibile l'autorevole opinione in base alla quale, stante l'amplissima discrezionalità di
carattere tecnico di cui gode l'arbitro, è assai difficile e problematico sostenere la responsabilità del
medesimo per un eventuale comportamento colposo, o per negligenza o imperizia nel corso della direzione
di un incontro. Ne è prova la decisione della Corte di Appello di Bologna del 1985, intervenuta sul caso del
decesso, in seguito a lesioni gravissime riportate nel combattimento per il titolo europeo di categoria, di un
giovane pugile italiano.
La Corte interviene riformulando la decisione del Tribunale di Bologna del 1983 che contestava all'arbitro
francese Baldeyron una condotta colposa, in quanto «avrebbe dovuto provocare l'interruzione del match
prima del K.O., subito dopo il gancio sinistro subito dallo Jacopucci, che questi era in balìa dell'avversario e
non più in grado di difendersi, lasciando intercorrere l'apprezzabile lasso di tempo di 18-20 secondi».
Il tribunale riteneva che non potesse stabilirsi con certezza se fossero stati questi colpi precedenti oppure
quelli successivi a determinare la lesione cerebrale, causa della morte del pugile, non potendosi affermare
in modo sicuro che l'interruzione del combattimento al momento su indicato avrebbe evitato la lesione.
La Corte di Appello concorda col Tribunale di Bologna. Considerate le specifiche qualità di Baldeyron
(arbitro) e di Rocco (manager di Jacopucci), i prevenuti avrebbero dovuto prudenzialmente provocare
l'interruzione dell'incontro dopo il gancio sinistro subito dallo Jacopucci, evitando la serie finale di colpi che
determinarono l'atterramento.
Lo spazio di tempo di 18-20 secondi appare sufficiente a consentire di intervenire tempestivamente.
Ciò in cui la corte non concorda col tribunale è la conclusione alla quale esso è pervenuto dopo aver
espresso il dubbio sul rapporto di causalità esistente fra la suddetta serie finale di colpi e la lesione
cerebrale.
Il dubbio è senz'altro giustificato, attesi i colpi piuttosto duri ricevuti dal pugile italiano, colpi che potrebbero
aver cagionato, ancor prima di quelli finali, la lesione cerebrale di cui trattasi. Trattasi di dubbio che si risolve
in una mancanza di prova sulla causa che ha determinato l'evento.
Infatti si rientra nel caso della carenza di elementi per ritenere che siano stati i colpi finali provocare
l'edema cerebrale in questione.
In definitiva, non essendo provato che l'evento sia stato conseguenza dell'omissione degli imputati, il Rocco
e il Baldeyron vanno assolti con la formula perché «il fatto non sussiste».
Altra responsabilità può configurarsi per l'arbitro di una competizione sportiva nel caso di mancata verifica
della conformità delle caratteristiche di strutture ed eventuali attrezzi (armi schermitori, tacchetti scarpe). Il
direttore di gara è responsabile per non aver posto le preventive ispezioni e verifiche cautelari.
Rileva anche la responsabilità del direttore di gara riguardo al referto erroneo o intenzionalmente non
veritiero.

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Parte della dottrina riconosce natura amministrativa a tale attività certificativa e ritiene ammissibile
un'azione di risarcimento da parte del danneggiato nei confronti dell'arbitro. Nel caso siano ravvisabili gli
estremi della diffamazione potranno essere risarciti anche i danni morali.
D'altro canto la giurisprudenza ha costantemente ribadito che configurandosi per l'arbitro, nella redazione
del rapporto di gara l'esercizio di un diritto, tale redazione non comporta addebito di responsabilità e
scrimina eventuali reati. Viene introdotto il criterio del c.d. errore scusabile, che non costituisce titolo per
pretendere dall'arbitro il ristoro dei danni conseguenti a una sospensione dall'attività sportiva o
all'espulsione di una squadra inflitte sulla base di un referto contenente una falsa rappresentazione della
realtà. Infine, il direttore di gara può incorrere in una responsabilità di tipo disciplinare con conseguenti
provvedimenti comminati dagli organi di giustizia sportiva qualora pone in essere comportamenti tali da
ledere i principi di lealtà e probità sportiva o violi l'obbligo di tenere una condotta adeguata alla propria
funzione.

Nell'equitazione la nozione di responsabilità assume una connotazione diversa rispetto alle altre attività
sportive.
Infatti, nella pratica dell'equitazione hanno grande incidenza l'indole e il comportamento dell'animale,
definito «oggetto animato e dotato di volontà».
Rileva quindi la concorrenza di due condotte: quella del cavallo e quella dell'uomo.
Proprio sulla imprevedibilità delle reazioni dell'animale si è basata l'opinione a lungo dominante nella
giurisprudenza che ha qualificato come pericolose tanto la pratica dell'equitazione che la gestione di un
maneggio (sent. Cass. 5341/98: costituiscono 'attività pericolose' ai sensi dell'art. 2050 c.c. non solo quelle
che tali sono qualificate dalla legge di pubblica sicurezza o da altre leggi speciali, ma anche quelle che, per
la loro stessa natura o per le caratteristiche dei mezzi adoperati, comportino la rilevante possibilità del
verificarsi di un danno).
Peraltro i casi giurisprudenziali riguardano questioni di responsabilità per eventi dannosi verificatisi nella
pratica non agonistica, nell'ambito delle scuole di equitazione.
Rileva la risalente decisione della Corte d'Appello di Catania che nel 1982 osserva: «la giurisprudenza della
Cassazione ha più volte affermato che il proprietario od il possessore di animali, il quale, oltre ad averne la
custodia, li utilizzi per l'esercizio di un'attività pericolosa, è soggetto alla presunzione di responsabilità
fissata dall'art. 2050 c.c. In un infortunio accaduto ad un allievo durante un corso di equitazione è
ravvisabile una responsabilità del gestore, essendo tale attività da qualificare come pericolosa ai sensi
dell'art. 2050 c.c.».
Ulteriore contributo è offerto dalla Corte d'Appello di Perugia, intervenuta sul caso di un'allieva che per la
caduta occorsale durante una lezione di equitazione, aveva riportato «gravissime lesioni». La Corte,
ravvisando la duplice ipotesi di responsabilità contrattuale e responsabilità ex art. 2050 c.c., così osserva:
«La concreta specie di causa è agevolmente da inquadrare nel paradigma specifico della responsabilità ex
contractu, ovvero nello schema tipico della specifica responsabilità da fatto illecito ex art. 2050 c.c.
a) Quanto alla prima ipotesi è pacifico il rapporto contrattuale intercorso tra l'attrice che ha seguito le
lezioni a pagamento dell'istruttore a servizio del Club Ippico e il Club medesimo, che, ha messo a
disposizione dell'allieva amazzone le strutture, il cavallo e l'istruttore.
Dovendo poi trovare applicazione le regole generali degli artt. 1218 e 1176 c.c., all'attrice incombeva
unicamente dimostrare il fatto, operando la presunzione di colpa a carico del debitore che doveva fornire la
prova liberatoria della non impunibilità del suo inadempimento, prova in alcun modo offerta dal convenuto
appellato.
b) Quanto all'altra ipotesi prevista dall'art. 2050 c.c. è certo e difficilmente confutabile:
1) che costituisce attività pericolosa, per sua natura intrinseca o per la natura dei mezzi adoperati, la
gestione di una scuola di equitazione»;
2) che l'utilizzazione di animali per l'esercizio di un'attività pericolosa come quella svolta dalla scuola di
equitazione rileva la responsabilità di cui all'art. 2050 c.c.;
3) che, per vincere la presunzione di responsabilità a carico del gestore della scuola di equitazione,
quest'ultimo deve fornire la prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno.
La responsabilità del Club Ippico è sicura ed incontrovertibile:

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- nel primo caso, derivando dall'assoluto difetto della prova liberatoria gravante sul debitore - contraente,
prova rigorosa in tema di pratica equestere;
- nel secondo caso, scaturendo dalla carenza di prova circa l'adozione di tutte le misure idonee ad evitare il
danno;
- ed in entrambi i casi sopra menzionati, mancando la prova dell'asserita condotta imprudente e distratta
dell'allieva di cui, secondo il club ippico in via unica sarebbe riannodabile la caduta da cavallo».
La suddetta decisione della Corte è ribadita dal Tribunale di Terni nel 1993, intervenuto sul caso in cui
l'attore riportava lesioni gravi in seguito ad una caduta da cavallo dovuta alla rottura della staffa. Il Collegio
osserva: «La gestione di una scuola di equitazione può ritenersi ricadere nella fattispecie dell'art. 2050 c.c.
Poiché l'art. 20509 c.c. stabilisce che un soggetto ivi previsto è responsabile dei danni ove non riesca a
provare di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno subito dal terzo, il gestore avrebbe
dovuto dimostrare o il caso fortuito o la forza maggiore o il fatto del terzo, ovvero il fatto dello stesso
danneggiato. Ma questi si è limitato ad asserire che la rottura della staffa sia imputabile al caso fortuito. A
causa della pericolosità dell'attività del cavalcare, il proprietario o gestore del maneggio deve mettere
particolare cure nel controllo periodico delle staffe, le quali, sorreggendo il cavaliere, non dovrebbero mai
usurarsi al punto da potersi spezzare.
Dunque il convenuto è responsabile dell'evento e delle sue conseguenze».
Intorno alla metà degli anni '90 rileva in giurisprudenza una attenzione maggiore alla qulaità del
cavallerizzo. La Corte di Cassazione giunge a distinguere tra l'equitazione praticata da un principiante e la
presenza di un cavaliere esperto. Per la Suprema Corte , «la gestione di un maneggio non è di per sé attività
pericolosa, tale risultando solo in relazione alle capacità di colui che la pratica: dei danni verificatisi durante
l'esercizio della stessa, il proprietario - gestore di un maneggio risponderà ex art. 2050 c.c., se trattasi di
cavaliere principiante o esperto; mentre ex art. 2052 c.c. se trattasi di cavaliere esperto».
Questo viene riproposto dalla Suprema Corte anche in una decisione 1380/1994, mentre le Corti di merito,
come il Tribunale di Vercelli nel 1996, stabiliscono che l'art. 2050 c.c. trattasi di «norma aperta», capace di
regolare fattispecie nuove, scaturita da innovazioni tecniche e per le quali non intervenga la legislazione
speciale, ritenendo che «l'attività di equitazione svolta all'interno di un circolo ippico, alla presenza di un
istruttore, con cavalli collaudati e addestrati ad essere montati da persone non esperte, in tracciati
predeterminati e noti al cavallo e al cavaliere, da parte di persone che vengono portati a conoscenza delle
regole fondamentali dell'equitazione, non possa in linea di principio essere annoverata tra le attività
pericolose di cui all'art. 2050 c.c.».
Infine la Suprema Corte precisa che «il giudizio di pericolosità dell'attività, deve essere dato secondo una
prognosi postuma, sulla base delle circostanze di fatto che si presentavano al momento stesso dell'esercizio
dell'attività».

L'art. 1 della legge n. 376/2000 afferma al 1° co. che l'attività sportiva non può essere svolta con l'ausilio di
tecniche, metodologie o sostanze di qualsiasi natura che possano mettere in pericolo l'integrità psico-fisica
degli atleti.
Taluni sottolineano come la tutela disposta dalla legge citata vada oltre il semplice intento di preservare lo
stato di salute degli sportivi: infatti al 2° co., il medesimo art. 1 estende l'abito dell'illecito alla
«somministrazione o assunzione di farmaci o sostanze biologicamente o farmacologicamente attive », e
all'«adozione o sottoposizione a pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche, e idonee a
modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell'agonismo, al fine di alterare le prestazioni degli atleti».
La l. 376/2000 rappresenta un momento fondamentale nella lotta ad un fenomeno che costituisce «una
delle piaghe sociali più largamente diffuse oggi nel mondo».
Il provvedimento legislativo funge per così dire da spartiacque tra la disciplina precedente e una nuova
visione nella strategia di lotta all'uso di sostanze dopanti.
Gli organismi sportivi, nella loro autonomia ordinamentale, hanno affrontato per tempo il problema che
rilevava, in ambito internazionale, alle soglie degli anni '90, con i casi dell'olimpionico Ben Johnson (1988),
dei calciatori Peruzzi e Carnevale (1990), di Maradona (1991), del pugile Gianfranco Rosi, della
campionessa di salto in alto Antonella Bevilacqua (1996).
Il C.O.N.I. con il provvedimento 487 del 22 Luglio 1988 si era adeguato alle istruzioni del C.I.O., che forniva
gli elenchi delle sostanze e dei trattamenti vietati, dettando una disciplina uniforme per tutte le federazioni

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sportive nazionali. Ne derivarono i primi provvedimenti avverso campioni e sodalizi deferiti in prima istanza,
alla Commissione di disciplina federale, e, in appello, alla C.A.F.
Suscitarono scalpore le prime decisioni della Commissione federale che, generando un insieme di
precedenti ed integrando così i codici di giustizia sportiva diedero origine ad una sorta di diritto
giurisprudenziale.
Rileva la decisione della Commissione d'Appello Federale del 30 Novembre 1990, che, ai sensi degli artt.
32 e 34 del Codice di giustizia sportiva della F.I.G.C., allontanò per una anno dalle competizioni i già citati
calciatori Peruzzi e Carnevale, condannando la società di appartenenza (A.S. Roma) ad una consistente
ammenda (£ 150 milioni), perché «avevano assunto 'fentermina', sostanza vietata dal regolamento dei
controlli antidoping dell'U.E.F.A. e compresa negli elenchi compilati a cura della Federazione medico-
sportiva italiana». I due calciatori avevano affermato, peraltro con alcune incongruenze circa il tempo di
assunzione, di aver ingerito alcune capsule di un farmaco dimagrante, il lipopill, presente in casa Peruzzi, al
termine di un abbondante pranzo ivi consumato. La C.A.F. respinge anche il ricorso dell'A.S. Roma relativo
alla eccessività della sanzione pecuniaria, osservando anche nella ricerca delle caratteristiche delle sostanze
vietate non vi è alcuna distinzione tra sostanze più stimolanti o meno stimolanti. Pertanto, sul piano del
trattamento sanzionatorio, non ha alcuna influenza l'accertamento della maggiore o minore efficacia della
'fentermina' sulle capacità agonistiche dell'atleta.
La Commissione conclude: «il divieto di sostanze dopanti è stato disposto, oltre che a tutela della salute
dell'atleta, soprattutto dalla determinazione di una concreta difesa contro la slealtà e la rettitudine sportiva.
I tesserati, i tifosi, gli spettatori, tutti attendono che gli atleti gareggino con quella lealtà attinente non solo
alla dimensione materiale, ma soprattutto a quella morale».
Nell'ambito della responsabilità per doping, la pronuncia della Commissione d'Appello federale ha ribadito
la necessità dell'esistenza dell'intenzionalità e della volontarietà del fatto commesso.
Rileva anche il richiamo alla buona fede, principio richiamato anche dall'art. 5 del medical code emanato dal
C.I.O. e recepito dal C.O.N.I. e dal giudice federale, in base al quale all'atleta in buona fede non possono
essere irrogate sanzioni disciplinari per il solo fatto materiale della presenza di sostanze dopanti nei suoi
liquidi organici.
Un ruolo importante nella disciplina del doping sportivo ha svolto certamente il caso che vide protagonista il
calciatore dell'A.S. Napoli Maradona, che aveva assunto cocaina in piccola quantità, alcuni giorni prima
della partita, per fatto proprio e non col fine specifico di migliorare le proprie prestazioni atletiche.
L'organo di giustizia federale in questo caso sembra creare il diritto. L'atleta contesta nel suo ricorso
l'interpretazione data dal giudice sportivo di primo grado dell'art. 32 del codice di giustizia sportiva che ha
ritenuto punibile l'assunzione di sostanze proibite «in sé e per sé», e senza che esse abbiano avuto l'effetto
di modificare la prestazione sportiva. La Commissione federale ammette che «essendo avvenuta
l'assunzione della sostanza alcuni giorni prima della gara, e in lieve entità, è da escludere il fine specifico di
migliorare la prestazione atletica». Inoltre rileva che: «il vecchio testo dell'art. 32 individuava l'azione
vietata con la locuzione 'prima o durante la gara'. La nuova norma non contiene tale specificazione, e
l'omissione non è dovuta a una dimenticanza del legislatore sportivo, ma alla necessità di ampliare il campo
di azione della normativa antidoping».
Non è esatto ciò che si afferma nell'appello proposto che, essendo l'ingestione avvenuta non
nell'immediatezza della gara, essa non sia punibile. Il riferimento alla gara non è elemento essenziale per la
sussistenza dell'infrazione disciplinare in esame. La sostanza rinvenuta in seguito alle analisi produce effetti
euforizzanti e un forte senso di potenza fisica.
Poiché l'art. 1 del codice di giustizia sportiva fa obbligo alle persone soggette all'osservanza delle norme
federali di mantenere una condotta conforme ai principi sportivi della lealtà, della probità e della rettitudine,
l'art. 32 è norma speciale rispetto a suddetto articolo perché punisce la slealtà consistita nell'uso di
sostanze che mirano alla modifica della condizione dell'atleta.
Casi eclatanti di doping si sono registrati anche in altre discipline sportive. I casi del pugile Gianfranco Rosi e
della saltatrice Antonella Bevilacqua furono al centro di accesi e laceranti dibattiti.
Il giudice federale aveva afflitto due anni di sospensione, con revoca del titolo mondiale, al pugile italiano
che, nel 1995, al termine di un incontro vittorioso, era risultato positivo al controllo antidoping.

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Subito dopo il provvedimento, in seguito ad accertamenti effettuati dalla Commissione d'indagine, emerse
che accanto alla responsabilità personale dell'atleta, sussisteva anche quella dei terzi che lo avevano indotto
a doparsi.
La stessa Commissione del C.O.N.I., in considerazione della collaborazione fornita dal pugile, proponeva la
riduzione della sanzione alla metà.
Intanto Rosi adiva il T.A.R. del Lazio per ottenere l'annullamento della squalifica, ma il Tribunale
amministrativo rigettava il ricorso non ravvisando la propria competenza a decidere.
Il Consiglio di Stato però in seconda istanza accoglieva parzialmente il ricorso del Rosi e sospendeva
l'efficacia del provvedimento, osservando che «la posizione di interesse legittimo lesa deve trovare tutela
necessariamente anche davanti all'autorità giudiziaria».
Invece nel caso Bevilacqua la Procura Federale della Federazione Italiana di Atletica Leggera, avendo
accertato che l'atleta, risultata «positiva», nel 1996, a due controlli antidoping, il primo, effettuato al
termine di una manifestazione preolimpica, l'altro operato durante i Campionato Italiani Assoluti di
Bologna, aveva assunto in perfetta buona fede dei prodotti terapeutici (efedrina e pseudoefedrina), non
ritenne poter incolpare né sanzionare l'atleta.
Diversamente, la Federazione Internazionale di Atletica Leggera (I.A.A.F.), avvalendosi dell'autonomia
riconosciuta alle federazioni internazionali, giudicò invece l'atleta colpevole, in base a proprio regolamento.
La Bevilacqua partecipò sub iudice ai Giochi Olimpici di Atlanta del 1996, conquistando un brillante quarto
posto: ma a fine settembre la Commissione arbitrale della I.A.A.F le inflisse la sanzione definitiva della
squalifica di tre mesi, a decorrere dal secondo episodio di doping, cancellando di fatto tale risultato.
Le vicende di cui sopra rilevano la contraddittorietà dei criteri e delle procedure adottati dalle varie
Federazioni internazionali in materia di doping.
Questa diversità rileva anche la Suprema Corte in alcune decisioni: «Scopo della l. 401/1989 è quello di
evitare l'irruzione nel mondo dello sport delle attività di gioco e di scommesse clandestine. Non rientra nella
ipotesi di questa legge l'assunzione di sostanze droganti da parte dei corridori. Pertanto non risponde il
presidente della Federazione sportiva che ometta di denunciare alla A.G. l'atleta che abbia assunto tali
sostanze per migliorare le proprie prestazioni sportive».
Rileva ancora la diversità di nozioni tra illecito penale e illecito sportivo. L'illecito penale fonda la propria
tassatività sul brocardo nullum crimen, nulla poena sine lege (nessun reato, nessuna pena senza legge),
l'illecito sportivo sovente si allontana dal principio di tipicità: ne è prova l'insieme delle norme del codice di
giustizia sportiva e dei regolamenti delle varie federazioni, che solo in parte è composto da norme
precettive e da chiare disposizioni sanzionatorie, lasciando al giudice federale il compito di integrare quelle
indicazioni previsionali assai generiche con la scelta e la determinazione di una sanzione.
Il legislatore sportivo si pone in contrasto con il legislatore dell'ordinamento statale, in cui vige l'esigenza
della certezza del diritto e della tipicizzazione degli illeciti penali.
In primo luogo la giustizia sportiva ha superiori esigenze di abbreviare al massimo ogni procedimento, onde
riaffermare l'autorità dell'istituzione e reintegrare l'ordine giuridico violato. Ne consegue la scelta di affidare
al giudice sportivo il compito di creare diritto.
Anche il Consiglio di Stato ha riconosciuto la legittimità della scelta operata in tal senso dal legislatore
sportivo.
Va osservato che le iniziative poste in essere dal C.O.N.I. in ambito regolamentare e disciplinare non hanno
inciso sulla gravità del problema, né hanno contributo ad arginare la pratica del doping nell'attività sportiva.
Può dirsi che oggi il fenomeno ha assunto proporzioni allarmanti.
L'ordinamento giuridico italiano, già nel 1950 con la l. n. 1055, aveva affidato la tutela sanitaria delle attività
sportive alla Federazione medico - sportiva italiana, affiliata al C.O.N.I.
Il medesimo provvedimento normativo, all'art. 3 e successivi stabiliva per gli aspiranti atleti un controllo
sanitario obbligatorio e limiti relativi all'età e al sesso, fissando ammende pecuniarie in caso di
inosservanza.
Il Legislatore italiano riservava ad un organismo statale la facoltà di disporre altrimenti affidando ad altro
ente statale la tutela sanitaria in ambito sportivo.
Negli anni '70, nel tentativo di contrastare il fenomeno del doping emergente in ambito sportivo, veniva
promulgata la l. 1099/1971, che si rivelava del tutto inadeguata, in quanto affidava la lotta al fenomeno in
discorso a semplici sanzioni pecuniarie.

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Peraltro la l. 1099/1971 aveva previsto sanzioni per gli atleti partecipanti a competizioni sportive, per coloro
che somministravano agli atleti sostanze proibite e per le società o associazioni sportive di appartenenza.
Per queste ultime la sanzione amministrativa risultava triplicata, così come se si commetteva reato nei
confronti dei minori di 18 anni.
I reati previsti da questa legge vennero depenalizzati con la successiva l. 689/1981. In effetti agli inizi degli
anni '80 il problema del doping era diventato di esclusiva competenza dell'ordinamento sportivo.
Peraltro, sul finire di quegli anni, ci fu un intervento più alto della storia del doping, la Convenzione di
Strasburgo del Consiglio d'Europa, firmato il 16 novembre 1989, ratificato in Italia solo nel 1995, con la l.
522/1995. Questa Convenzione, oltre alla definizione del doping nello sport (art. 2: somministrazione agli
sportivi o l'uso da parte di questi ultimi di classi farmacologiche di agenti di doping o di metodi di doping ), e
soprattutto impegnava i Paesi sottoscrittori ad incoraggiare le organizzazioni internazionali e nazionali ad
una lotta senza quartiere, elencando gli obiettivi della lotta stessa (art. 7).
La dottrina sottolinea il valido contributo offerto dalla l. 376/2000, approvata dopo un lungo iter dal
Parlamento Italiano, che coinvolge ed armonizza sia organismi statali che organismi sportivi, nella lotta al
doping, superando l'autonomia ordinamentale di questi ultimi.
Questa legge, sin dal 1° co. dell'art. 1, include tutte le «tecniche, metodologie o sostanze di qualsiasi natura
che possano mettere in pericolo l'integrità psicofisica degli atleti». Il doping, in questa legge, viene a
costituire non solo l'assunzione di farmaci o sostanze, ma anche integratori alimentari e pratiche mediche
non giustificate da condizioni patologiche.
La l. 376/2000 indica con chiarezza che sono consentiti specifici trattamenti dettati dalla presnza di
condizioni patologiche «documentate e certificate dal medico». Impone la duplice condizione 1) che la
sottoposizione ai trattamenti in questione sia attuata secondo le modalità e i dosaggi indicati 2) che la
partecipazione dell'atleta sottoposto ad uno specifico trattamento ad una competizione sportiva «non
metta in pericolo la sua integrità psicofisica».
La legge integra agli artt. 2-8 la risposta all'esigenza del «controllo dei controllori», con l'istituzione della
Commissione per la vigilanza e il controllo sul doping e per la tutela della salute nelle attività sportive,
istituita presso il Ministero della Sanità. La suddette Commissione è composta da due rappresentanti del
Ministero della Sanità, uno dei quali con funzioni di presidente; due rappresentanti del Ministero per i beni
e le attività culturali; due rappresentanti della Conferenza dei presidenti delle regioni e delle province
autonome; un rappresentante dell'Istituto superiore di sanità; due rappresentanti del C.O.N.I.; un
rappresentante dei preparatori tecnici e degli allenatori; un rappresentante degli atleti; un tossicologo
forense; due medici specialisti di medicina dello sport; un pediatra; un patologo clinico; un biochimico
clinico; un farmacologo clinico; un rappresentante degli enti di promozione sportiva; un esperto in
legislazione farmaceutica.
L'art. 6 al 4° co. obbliga i tesserati a dichiarare in modo esplicito la propria conoscenza dei regolamenti in
materia di doping e l'accettazione delle norme in essi contenute. Assai rilevante l'importanza dell'art. 9, con
il quale vengono reintrodotte nell'ordinamento italiano disposizioni penali in materia di doping.
La previsione normativa individua un triplice ordine di responsabilità, la prima delle quali comprende
molteplici categorie di soggetti, corrispondenti alla condotta di chi procura ad altri, somministra o
comunque favorisce l'utilizzo di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive.
La seconda ipotesi di reato riguarda l'atleta che assume i suddetti farmaci o utilizza le suddette tecniche. La
norma non precisa se detta condotta si riferisce in via esclusiva a prestazioni agonistiche o ricomprenda
anche gli episodi relativi ai momenti di allenamento o a pratiche non agonistiche. L'orientamento della
C.A.F. sembra integrare la disposizione. La norma non accenna alla eventuale assunzione in buona fede, ma
è automatica una integrazione interpretativa in tal senso, in quanto la buona fede è una clausola generale
presente nel nostro ordinamento.
L'art. 9 della l. 376/2000 al 2° co. prevede dunque il reato di chi si sottopone a pratiche mediche, non
giustificate dalle proprie condizioni psicofisiche, al fine di modificare le proprie prestazioni agonistiche.
Le circostanze aggravanti, di cui al 3° co. dell'art. 9, portano ad una maggiorazione della pena se dal fatto
deriva un danno alla salute (a), se la persona coinvolta nel doping è un minore (b), se l'illecito è commesso
da un dipendente o componente del C.O.N.I., di una Federazione, di una società o di un'associazione
riconosciuta (c).

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Se poi l'autore del reato esercita una professione sanitaria (medico, infermiere professionale) o da uno dei
soggetti elencati al 3° co. lett. c) andrà incontro a pene accessorie quali l'interdizione temporanea
dall'esercizio della professione e l'interdizione permanente dagli uffici direttiva, oltre alla confisca dei
farmaci e di quant'altro utilizzato o predisposto per commettere il reato.
Il 7° co. dell'art. 9 punisce chi commercia illegalmente farmaci e sostanze farmacologicamente o
biologicamente attive.
In conclusione la l. 376/2000 ha segnato un momento notevole nell'abito della lotta all'illecito e della tutela
di principi cardine del nostro ordinamento, con riferimento soprattutto all'art. 32 Cost. e alla tutela della

persona.

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