È normale che un bambino abbia difficoltà sociali, emotive e comportamentali, è il modo in cui
sono gestite a fare la differenza. Per i caregiver l’imperativo dovrebbe essere: come gestire
efficacemente queste difficoltà.
Quando le difficoltà sono trattate o gestite male allora diventano problemi, se non veri e
propri disordini o patologie. I sintomi delle difficoltà trattate male peggiorano. Quando il fare non
aiuta a risolvere i problemi, finisce per mantenere o anche peggiorare il problema. La difficoltà
trattata male comincia a essere vista e agita come un problema. Con tutte le buone intenzioni si crea
un pattern interattivo disfunzionale: il tentativo di risolvere la difficoltà finisce per peggiorarla.
Le modalità interattive disfunzionali sono quelle modalità che reiterano certi comportamenti
nonostante essi non diano risultati, irrigidendo il proprio sistema di percezione e di credenze.
Il linguaggio usato gioca un ruolo significativo sul come gli studenti si relazionano alle
difficoltà e come si approcciano ad esse. I termini depressione ADHD, fobia ecc.
trasformano il problema di oggi in un caso clinico domani. Mentre parole come tristezza,
mancanza di attenzione, comportamento scorretto ecc. fanno rientrare il comportamento del
bambino nella quotidianità, per cui genitori e insegnanti si sentono più capaci di gestirlo. Il
linguaggio usato per descrivere il comportamento del bambino dovrebbe evitare la
cristallizzazione in un problema permanente riconoscibile in un’etichetta.
Austin ha coniato il termine Linguaggio performativo, che crea e condanna, mentre per
Watzlawick citare qualcosa significa renderla una realtà, anche se non esiste.
Usare il termine difficoltà psicologica non è una scelta meramente lessicale: il suo utilizzo
implica un prospettiva funzionale orientata verso soluzioni che contrasta con la prospettiva
tassonomica orientata a definire sindromi, disturbi e malattie.
1. Definire il problema attraverso l’osservazione: dalla diagnosi medica a ciò che è in realtà
il comportamento. Come si manifesta l’attuale comportamento problematico? Qual è la
sensazione dominante? Occorre strappare l’etichetta e osservare il problema secondo le
cinque W (quela è il problema presente? Quali sono gli attori principali? Quando si verifica?
Dove si verifica? Come funziona?) e da diverse prospettive (insegnanti, genitori,
studenti…).
2. Definizione dell’obiettivo: occorre definire uno SMART Goal, ossia un obiettivo che sia
specifico, misurabile, attuabile, rilevante e temporale (con una scadenza). Occorre poi
interrogarsi sulle strategie migliori per raggiungerlo, andare cioè a interrogarsi su tutte le
previe tentate soluzioni
3. Occorre individuare delle eccezioni, e cioè chiedersi quando lo studente fa qualcosa di
diverso. Nessun problema infatti accade tutto il tempo. Identificare ed esplorare le eccezioni
già esistenti può essere un potente strumento da usare per aumentare le possibilità di
cambiamento e di successo. Per fare ciò occorre cambiare lenti, perché spesso gli agenti
intorno al bambino cercheranno indizi per confermare la loro tesi. Focalizzando l’attenzione
sulle eccezioni già esistenti si mette in discussione l’etichetta e la propria percezione rigida.
Inoltre, sapere che esistono delle eccezioni anche in sistuazioni apparentemente senza via
d’uscita fa considerare il possibile cambiamento avviandone il suo processo.
4. Come peggiorare: tecnica problem-oriented: se voglio deliberatamente peggiorare la
situazione cosa posso fare o non fare, dire o non dire, pensare o non pensare? Se voglio
raddrizzare qualcosa prima devo capire come storcerla ancora di più.
5. La domanda del miracolo: lo scenario oltre il problema: se accadesse un miracolo cosa
cambierebbe nello studente, nella classe e e nel mio comportamento? Occorre insomma
chiedersi quale sia lo scenario oltre il problema (che lo studente studi in maniera autonoma,
che confidi maggiormente nelle proprie capacità…).
6. Creare un piano d’azione con il quale procedere passo dopo passo secondo la tecnica dello
scalatore. Partire dall’alto verso il basso, dall’obiettivo finale smart fino a ciò che è
necessario per raggiungerlo.
Le 4 sensazioni di base sono paura, rabbia dolore e piacere, da esse derivano tutte le nostre
altre emozioni.
La aura è una sensazione primitiva umana fondamentale, che ha aiutato l’uomo nel suo processo
evolutivo e di adattamento in un ambiente a volte anche pericoloso. Tuttavia, quando la paura
persiste diventa ansia che si manifesta sottoforma di fobie, comportamenti compulsivi e
somatizzazioni.
Nei bambini così come negli adulti l’ansia cambia e non è più episodica quando interferisce sul
funzionamento o se inficia l’apprendimento. In questi casi si evolve divenendo problema e
addirittura disturbo.
Trascurare il disordine d’ansia aumenta i rischi nei bambini: basso profitto scolastico, riduzione
delle attività sociali, abuso di sostanze… l’eccessiva ansia in età scolastica sembra essere correlata
ai disturbi di ansia nella vita adulta.
La paura può dunque manifestarsi in varie forme: esperienze di ansia patologica, sintomi
psicosomatici, attacchi di panico.
La paura conduce al blocco della performance per paura del fallimento o la paura di commettere
errori e conseguente senso di vergogna e paura del giudizio: si cerca il controllo, ma ci si inceppa
quando si agisce e si perde il controllo. Non si riesce a fare quello che si faceva. Si evitano così
esami, di parlare in pubblico, di rispondere all’insegnante, di ultimare lavori, gare sportive, ecc.
Tra i disturbi d’ansia vi sono: le fobie specifiche di specifici oggetti, attività e situazioni; che
innescano comportamenti evitanti; l’agorafobia, rara in infanzia e presente in adolescenza, che è la
paura di restare soli in luoghi pubblici da cui la fuga è difficile; la fobia sociale che può verificarsi
in tarda infanzia o adolescenza e si presenta sotto forma di paura irrazionale del giudizio si
manifesta quando bisogna fare qualcosa in presenza di altri.
Anche il distrubo ossessivo-compulsivo rientra nei disturbi legati alla paura: si ha la presenza di
pensieri ossessivi e idee intrusive che persistono nonostante la consapevolezza della loro
irragionevolezza. Sono pensieri molto resistenti di solito accompagnati da azioni compulsive
finalizzate al controllo (pulizia, rituali magici…). Nessun argomento razionale e logico fa invertire e
convince di smettere di fare i rituali di che possono essere preventivi o riparatori.
I Tic sono noti anche con contrazioni o spasmi abitudinari ed involontari. Sono movimenti di
muscoli o gruppi di muscoli involontari e improvvisi, senza uno scopo evidente. Possono essere
anche accompagnati da suoni e insorgono tra i 4 e i 5 anni di età.
La balbuzie è invece l’interruzione ripetuta del flusso del discorso, con ripetizione, prolungamento
o blocco dei suoni. Nel discorso dei bambini e degli adolescenti ci sono spesso esitazioni e
irregolarità nel ritmo del discorso. La gravità della balbuzie varia dalla ripetizione occasionale del
discorso, delle parole, al grave blocco del discorso che interferisce seriamente con la
comunicazione. Le balbuzie possono avvenire in certe situazioni o possono essere generalizzate.
Dubbio: alcune domande si insinuano e si stabilizzano nella mente come un virus, conducendo a
uno stato di angoscia costante con picchi di ansia elevata. Il soggetto cerca di trovare la risposta alla
domanda che lo assilla e trovata una risposta subito nella sua mente contrappone argomentazioni
che si inseguono e si scontrano incessantemente.
Non tutti esprimono il loro dolore con il pianto. Altre forme per esprimere il dolore sono:
l’impazienza, l’intolleranza alla frustrazione, l’eccessivo attaccamento, l’avanzare eccessive
richieste e lamentele. In altri casi vi è la perdita di interesse per i giochi o le attività in precedenza
preferite, agitazione, stanchezza, difficoltà a pensare e a concentrarsi, oppure anche senso di
inutilità, di impotenza, di colpevolezza, bassa autostima, disperazione e talvolta pensieri suicidi.
Il dolore è una sensazione legata a qualche evento che ha avuto luogo in passato ma che
continua a infastidire il presente, come una ferita ancora aperta. Questa sensazionale abbraccia
varie dimensioni fisiche ed emotive ed è legata a una perdita. Non c’è modo di cancellare un
evento spiacevole, ma il modo in cui abbiamo a che fare con esso può aiutare a guarire o prolungare
il dolore.
Traumi e situazioni sgradevoli: non tutti i bambini reagiscono allo stesso modo di fronte alle
situazioni traumatiche. Ci sono anche bambini che l’attribuiscono un senso e che adattano a sé la
situazione rendendola funzionale al proprio processo di crescita: diventano resilienti.
Delusioni: le delusioni possono essere sperimentate in relazione a se stessi, agli altri (tradimento,
negligenza, abuso…), al mondo (catastrofi naturali, sfortuna…).
Anoressia nervosa sacrificante: solitamente sorge in particolari contesti familiari. Gli anoressici
sacrificano se stessi per una causa e mirano a ottenere vantaggi come impedire la separazione dei
genitori.
Anoressia nervosa astinente: solitamente sono molto intelligenti ma anche fragili. Mostrano
difficoltà nel controllare le emozioni. Attraverso l’astinenza dal cibo ed evitando le esperienze
piacevoli, gradualmente si anestetizzano sia dal punto di vista emotivo che percettivo.
Depressione: rinuncia alla vita. Senso di impotenza verso se stessi gli altri o il mondo. Una varietà
di sintomi accompagnano la sensazione di impotenza: irritabilità, disinteresse, perdita di piacere,
cambiamento nel ritmo del sonno, variazione di appetito e di peso, comportamenti di ritiro o episodi
di aggressività, diminuzioni della capacità di pensare e di concentrarsi, pensieri di morte…
La rabbia nasce da un senso di ingiustizia e si innesca per un circolo vizioso tra illusione,
delusione e rabbia. Mentre il dolore è l’incapacità di reagire, la rabbia è l’incapacità di non
reagire.
La rabbia si può rivolgere verso di sé (limiti veri o presunti, mancanza di competenze,
autolesionismo e auto-sabotaggi); verso gli altri (persone specifiche, rivalità conflitto, litigio,
tradimenti, provocazioni); verso il mondo (natura società, sistema, Dio…).
Si ha un effetto pentola a pressione: spesso tendiamo a trattenere e reprimere i nostri sentimenti
finché non c’è uno sfogo o un’esplosione. Occorre invece fare defluire la rabbia e non aver paura di
essa. Bloccarla non è salutare. l’espressione è una liberazione.
Si ha rabbia sia quando ci si trova in una one-up position, e cioè ci si sente al di sopra di tutti gli
altri, sia quando ci si trova in una one-down position, ossia quando ci si sente umiliati e inferiori
agli altri che si incolpano di qualcosa.
Sono comportamenti che attirano l’attenzione, sono autolesivi, impulsivi, trasgressivi o giochi di
potere. In sintesi, tutti quei comportamenti che offrono vantaggi secondari. I comportamenti che
offrono questi vantaggi non possono essere risolti se prima l’educatore non ha saputo eliminare
questi vantaggi secondari.
Per intervenire in questi casi è necessario vincere senza combattere e cioè eliminare i vantaggi
secondari (indifferenza alle provocazioni quando un alunno fa lo sbruffone); prescrivere il sintomo
e cioè prendere il controllo sul comportamento indesiderato.
Occorre intervenire con Interventi paradossali: sviluppati negli anni ‘50 al Mental Research
Istitute di Paol alto ora sono utilizzati nei casi più resistenti, quando gli altri interventi sono
insufficienti. La manovra di base è chiedere al bambino di fare quello che farebbe in ogni caso,
intrappolandolo in un correttivo doppio legame, o una win-win situation: se lo studente agisce
con il comportamento indesiderato, l’adulto risulta avere il controllo siccome ha dato il permesso;
in caso contrario non verrebbe messo in atto il comportamento indesiderato. Entrambe le risposte
portano alla saturazione del comportamento indesiderato. L’intervento paradossale è
particolarmente efficace per i comportamenti oppositivi e provocatori.