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Il libro

M
e iamo che uno scri ore voglia
raccontare la favola di Cenerentola e
mettiamo che quello scrittore sia Chuck
Palahniuk, quale storia ci capiterebbe tra le mani? La storia
di Penny Harrigan, giovane impiegata dall'aspetto scialbo e
i desideri opachi che passa le sue giornate a servire caffè in
uno studio di avvocati. È lì che un giorno incontra
Cornelius Linus Maxwell, bellissimo, ricchissimo,
divorziatissimo. Sorprendentemente, Maxwell la invita a
cena nel ristorante più alla moda di New York e di lì nella
suite di un albergo da miliardari a Parigi dove, taccuino alla
mano, le fa sperimentare il più alto grado di piacere. Tutto
magnifico, vero? Non esattamente. Perché Penny scopre
presto di essere la cavia per il collaudo di "Beautiful You",
una linea di sex toys only for ladies che Maxwell sta per
lanciare sul mercato globale.
È un successo assoluto dalle conseguenze devastanti:
famiglie distrutte, bambini abbandonati, uomini ignorati,
donne inchiodate alla dipendenza pressoché ininterrotta
dai fantastici, e micidiali, giocattoli Maxwell. E Penny?
Deciderà di essere complice del più grande spacciatore di
piacere mai esistito o proverà a salvare il mondo dalla sua
dipendenza cieca da prodotti genialmente confezionati?

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L'autore

Chuck Palahniuk è nato nel 1962 a


Pasco, nello Stato di Washington. Dopo
essersi laureato in giornalismo
all'Università dell'Oregon e dopo aver
svolto diversi lavori, nel 1996 si impone al
pubblico grazie al primo romanzo
pubblicato, Fight Club, che diventerà
anche un film di grande successo. Da allora non ha più
smesso di scrivere le sue storie eccessive e disperate,
asciutte e ipnotiche, con le quali ha saputo dare voce a
un'intera generazione. Tra i suoi libri, tutti pubblicati da
Mondadori: Survivor (1999), Invisible Monsters (1999),
Soffocare (2001), Cavie (2005), Rabbia (2007), Dannazione
(2011), Sventura (2013).

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Chuck Palahniuk

BEAUTIFUL YOU
ROMANZO
Traduzione di Gianni Pannofino

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"Mille milioni di mariti stanno per essere rimpiazzati"

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Beautiful You

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Benché Penny stesse subendo un'aggressione, il giudice
restò a guardare. La giuria indietreggiò. I giornalisti
presenti si fecero piccoli piccoli. Nessuno in aula intervenne
a difenderla. Lo stenografo continuò scrupolosamente a
digitare sulla tastiera per mettere a verbale le parole di
Penny: "Qualcuno mi aiuti, mi sta facendo male! Fermatelo,
vi prego!". Quelle dita efficienti trascrissero un "No!". Poi
una lunga onomatopea mugolante, gemente, urlante,
seguita da un elenco delle invocazioni di Penny.
Le dita pigiarono sui tasti un "Aiuto!".
Poi un "Basta!".
Le cose sarebbero andate diversamente se in tribunale ci
fossero state altre donne, ma di donne non ce n'erano. Negli
ultimi mesi tutte le donne erano come sparite. Erano
totalmente scomparse dalla scena pubblica. Gli spettatori
della disperata resistenza di Penny -- il giudice, i giurati, il
pubblico -- erano tutti maschi. Un mondo di soli uomini.
Lo stenografo digitò: "Ti prego!".
Poi ancora: "Ti prego, no! Non qui!".
A parte lui, Penny era l'unica a muoversi. Aveva i
pantaloni scompostamente abbassati alle caviglie. Le cose
di sotto erano state strappate per mostrarla a chiunque
avesse il coraggio di guardare. Lei mulinava le braccia e le
gambe nel tentativo di sfuggire. Seduti in prima fila i
disegnatori ufficiali cercavano con tratti rapidi di rendere il
suo brancolare alle prese con l'aggressore, con gli

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indumenti laceri sventolanti e i capelli ingarbugliati che
sferzavano l'aria. Alcune mani esitanti si levarono tra il
pubblico, tutte armate di cellulare per una foto furtiva o
qualche secondo di filmato. Tutti gli altri sembravano
pietrificati dalle grida di lei, dalla sua voce straziata che
riecheggiava in quel vasto spazio altrimenti silenzioso. Non
era neanche più il grido di una sola donna che veniva
stuprata; quello che risuonava come in un vortice di suoni
distorti era il grido di nove, dieci donne che venivano
aggredite. Di un centinaio. Il mondo intero stava urlando.
Sul banco dei testimoni, Penny opponeva resistenza. Si
sforzava in ogni modo di chiudere le gambe e di scacciare
il dolore. Sollevò la testa per cercare lo sguardo... di
chiunque. Un tale si prese la testa tra le mani, tappandosi
gli orecchi, e serrò le palpebre avvampando in faccia come
un bambino spaventato. Penny guardò il giudice, che
sospirò partecipe ma si guardò bene dall'usare il
martelletto per ripristinare l'ordine. Un piantone chinò la
testa e mormorò alcune parole nel microfono che aveva
appuntato al petto. Con la pistola nella fondina, passava
nervosamente da un piede all'altro, trasalendo a ogni grido
di Penny.
Altri sbirciavano contegnosi l'orologio o un S M S , come
se si vergognassero per lei. Come se lei non dovesse
strillare e sanguinare in pubblico. Come se
quell'aggressione e quelle sofferenze fossero colpa sua.
Gli avvocati parevano rattrappirsi nei loro costosi
gessati. Si fingevano occupati a scartabellare. Persino il
fidanzato di Penny era immobile, a bocca aperta,
totalmente incredulo di fronte a quella violenza bruta.
Qualcuno doveva aver chiamato un'ambulanza, perché due

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infermieri arrivarono di corsa lungo il corridoio centrale
dell'aula.
Tra i singhiozzi, dimenandosi per autodifesa, Penny
cercò di non perdere i sensi. Se solo fosse riuscita ad alzarsi
in piedi, avrebbe potuto scavalcare il banco e tentare la
fuga. L'evasione. Il tribunale era affollato come un autobus
all'ora di punta, ma nessuno che bloccasse il suo aggressore
o cercasse di trascinarlo via. I presenti, anzi, avevano fatto
uno o due passi indietro e continuavano ad arretrare il più
possibile verso le pareti, lasciando lei e il suo stupratore in
un vuoto sempre più vasto, nella parte anteriore dell'aula.
Gli infermieri si fecero largo tra la calca. Non appena le
furono accanto, Penny, boccheggiante e agitata, ebbe una
crisi di nervi, ma quelli riuscirono a calmarla, dicendole di
rilassarsi. Che era al sicuro. Il peggio era passato
lasciandola raggelata, madida di sudore, in preda a brividi
di spavento. Da ogni parte, muri di facce, rivolte verso
punti in cui gli sguardi non potessero incrociare altri
sguardi colmi della loro stessa vergogna.
Gli infermieri la sistemarono su una barella, e uno dei
due stese una coperta sul suo corpo tremante, mentre l'altro
allacciava le cinghie di sicurezza. Solo a quel punto, il
giudice batté il martelletto a dichiarare sospesa la seduta.
L'infermiere addetto alle cinghie domandò: «Sai dirmi
che anno è?».
Penny si sentiva la gola riarsa, infiammata a furia di
gridare. La voce le uscì rauca, ma l'anno era quello giusto.
«Sai dirmi il nome del presidente?» domandò
l'infermiere.
Penny stava quasi per rispondere "Clarissa Hind", ma si
trattenne. La presidente Hind, prima e unica presidente

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donna degli Stati Uniti, era morta.
«E sai dirci il tuo nome?» Gli infermieri, ovviamente,
erano entrambi maschi.
«Penny» rispose lei. «Penny Harrigan.»
I due, chini su di lei, restarono di sasso, riconoscendola.
Le loro espressioni professionali svanirono per un attimo
trasformandosi in sorrisi estasiati. «Mi pareva che avessi
una faccia nota» disse uno, squillante.
L'altro schioccò le dita, scocciato perché non gli
venivano in mente le parole. Buttò lì: «Tu sei... sei quella del
"National Enquirer"!».
Il primo puntò un dito contro Penny, legata e inerme,
esposta a tutti gli sguardi maschili. «Penny Harrigan»
gridò come se fosse un'accusa. «Tu sei Penny Harrigan, la
"Cenerentola del Nerd".»
I due sollevarono la barella all'altezza dei fianchi. La
folla si aprì per lasciarli procedere verso l'uscita.
Il secondo infermiere annuì. «Quello che hai mollato
non era, tipo, l'uomo più ricco del mondo?»
«Maxwell» aggiunse il primo. «Si chiama Linus
Maxwell.» Scosse la testa, incredulo. Dopo lo stupro subito
in un tribunale federale affollato, senza che nessuno levasse
un dito per fermare l'aggressore, ora per soprammercato
Penny veniva additata come un'idiota da due portantini.
«Avresti dovuto sposarlo!» continuò a meravigliarsi il
primo fino all'ambulanza. «Cara mia, se avessi sposato quel
tizio, ora saresti più ricca di Dio...»
Cornelius Linus Maxwell. C. Linus Maxwell. Per via
della sua reputazione di playboy, i tabloid lo chiamavano
spesso "Climax-Well". Il megamiliardario più ricco del
mondo.

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A lei, invece, gli stessi tabloid avevano dato il
soprannome di "Cenerentola del Nerd".
Penny Harrigan e Corny Maxwell. Si erano conosciuti
un anno prima. Pareva un'altra vita. Tutt'altro mondo.
Un mondo migliore.
In tutta la storia dell'umanità non c'era mai stata epoca
migliore per essere donne. Penny lo sapeva.
Crescendo, se l'era ripetuto come un mantra: "In tutta la
storia dell'umanità non c'è mai stata epoca migliore per
essere donne".
Il suo mondo precedente era perfetto, o quasi. Si era da
poco diplomata alla law school, classificandosi ai primi
posti tra i compagni di corso, ma era stata respinta due
volte all'esame di avvocato. Due volte! Non dubitava di sé -
- non del tutto, almeno, ma un'idea aveva cominciato a
tormentarla. Penny era resa inquieta dal pensiero che forse,
dopo tutte le sofferte vittorie del movimento di liberazione
della donna, diventare un avvocato volitivo e ambizioso
non era poi un gran trionfo. Non più, perlomeno. Come
proposito non era certo più audace dell'idea di fare la
casalinga negli anni Cinquanta. Un paio di generazioni
prima, la società l'avrebbe incoraggiata a diventare madre e
casalinga. Ora, invece, la spinta era tutta orientata verso
una professione: avvocato; o medico; o ingegnere
aerospaziale. In ogni caso, la validità di quei ruoli aveva a
che fare più con le mode e la politica che con Penny come
individuo.
Da studentessa universitaria si era dedicata anima e
corpo a guadagnarsi l'approvazione dei docenti al
dipartimento di Studi di genere della University of
Nebraska. Aveva abbandonato i sogni dei genitori per i

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dogmi dei professori, ma nessuna delle due prospettive si
era dimostrata veramente sua.
La verità era che Penelope Anne Harrigan era sempre
stata una brava figliola -- obbediente, brillante, diligente --
che faceva quel che le veniva detto di fare. Si era sempre
rimessa ai consigli altrui. Nel profondo, però, aspirava a
qualcosa di più dell'approvazione dei genitori o di chi li
aveva rimpiazzati. Con buona pace di Simone de Beauvoir,
Penny non aveva voglia di far parte della terza ondata di
un bel niente. E, con tutto il rispetto per Bella Abzug, non
voleva neanche essere una post-qualcosa, non aveva voglia
di replicare le vittorie di Susan B. Anthony e Helen Gurley
Brown. Voleva una scelta al di là dell'alternativa tra
casalinga e avvocato, tra madonna e puttana. Un'opzione
non invischiata nei residui persistenti di un sogno d'epoca
vittoriana. Penny voleva qualcosa di follemente al di là
dello stesso femminismo!
A tormentarla era il pensiero che forse era stata qualche
causa profonda a impedirle di superare l'esame di
avvocato. Una parte sommersa di lei non voleva esercitare
quella professione, e lei continuava a sperare che qualcosa
intervenisse a salvarla dai suoi sogni prevedibili e modesti.
L'ideale da lei perseguito era quello di una donna radicale
di un secolo prima: diventare avvocato... competere alla
pari con gli uomini. Come ogni sogno di seconda mano,
però, per lei era un peso. Altri dieci milioni di donne lo
avevano già realizzato. Penny voleva un sogno tutto suo.
Non lo aveva trovato come figlia beneducata né
ripetendo a pappagallo l'ideologia rilegata in pelle dei suoi
professori. Si consolava pensando che tutte le ragazze della
sua generazione dovevano essere alle prese con quella

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stessa crisi. Avevano tutte ereditato un patrimonio di libertà
e avevano il dovere morale, nei confronti del futuro, di
prospettare una nuova frontiera per la prossima
generazione di donne. Di dissodare nuova terra.
Finché tale sogno tutto nuovo, inedito, originale non
avesse amabilmente fatto capolino, Penny avrebbe con
ostinazione perseguito quello vecchio: una posizione al
livello più basso in uno studio legale, dove servire brioche,
andare a raccattare sedie e sgobbare in vista di un nuovo
esame di avvocato.
Aveva venticinque anni e temeva che potesse essere già
troppo tardi.
Non si era mai fidata dei suoi impulsi e istinti naturali.
Tra le sue paure più grandi c'era quella di non riuscire a
scoprire e sviluppare le proprie intuizioni e doti più
profonde. I suoi doni speciali. Temeva di sprecare la vita
perseguendo obiettivi stabiliti per lei da altri. E invece
voleva acquisire un potere e un'autorità -- una forza
primitiva, irresistibile -- che trascendessero i ruoli di
genere. Sognava di impadronirsi di qualche magia pura,
più antica della stessa civiltà.
Mentre cercava il coraggio per tentare una terza volta
l'esame di avvocato, Penny cominciò a lavorare da Broome,
Broome & Brillstein, lo studio legale più prestigioso di
Manhattan. A dire il vero, non era un'associata a pieno
titolo, ma non era neanche una stagista. Okay, a volte
doveva correre da Starbucks, al piano terra, a prendere una
mezza dozzina di bicchieri di latte e cappuccini di soia
semidecaffeinati, ma non tutti i giorni. Altre volte veniva
spedita a recuperare sedie per qualche grande riunione.
Però non era una stagista. Penny Harrigan non era

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avvocato, non ancora, ma di certo non era una volgare
stagista.
Le giornate erano lunghe da B B &B , ma a volte anche
elettrizzanti. Un giorno, ad esempio, sentì rimbombare una
specie di tuono tra le torri della Lower Manhattan. Era il
rombo di un elicottero che atterrava proprio sul tetto del
loro palazzo. All'eliporto, sessantasette piani più in alto, era
arrivato qualcuno di straordinariamente importante. Penny
si trovava al piano terra, alle prese con una fragile scatola
di cartone contenente una mezza dozzina di bicchieroni di
caffè bollente. Stava aspettando un ascensore. Si vide
riflessa nelle porte di acciaio levigato che aveva di fronte.
Non una bellezza. Ma neanche brutta. Né bassa né alta. I
capelli erano a posto, puliti e posati ordinatamente sulle
spalle di una sobria camicetta Brooks Brothers.
Gli occhi castani erano grandi e sinceri. Un attimo dopo,
la sua faccia paciosa dalla pelle chiara scomparve.
Le porte scorrevoli dell'ascensore si aprirono, e una
mischia di omoni -- tipo squadra di football americano alla
carica, tutti in identici completi blu navy -- emerse dalla
cabina. Quasi stessero sgombrando il campo per la
maestosa avanzata del loro quarterback, si fecero largo a
forza tra la folla impaziente. Costretta a scansarsi, Penny
non poté fare a meno di protendere il collo per vedere chi
stessero proteggendo. Chiunque avesse una mano libera la
sollevò, armata di telefonino, per scattare foto o riprendere
la scena dall'alto. Penny non riuscì a penetrare con lo
sguardo la muraglia di serge blu, ma alzò gli occhi e vide il
volto noto negli schermi dei tanti apparecchi di
registrazione. L'aria risuonava di clic elettronici. Scariche
elettrostatiche e parole che uscivano dai walkie-talkie. Da

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dietro la muraglia umana giungevano, ovattati, dei
singhiozzi.
La donna inquadrata sui display di una miriade di
telefonini si stava asciugando le guance con l'angolo di un
fazzoletto, i cui pizzi e merletti erano già umidi di lacrime e
sporchi di mascara. Nonostante gli occhiali da sole
smisurati, quel volto era inconfondibile. Ci fosse stato
qualche dubbio, sarebbe stato fugato dallo sfolgorante
zaffiro blu adagiato tra i suoi seni perfetti. A voler credere
ai tabloid in esposizione alla cassa del supermarket, era lo
zaffiro puro più grande di tutti i tempi, quasi duecento
carati. Quella pietra aveva ornato il collo di antiche regine
egizie, di imperatrici romane, di zarine russe. Penny non
riusciva a immaginare che cosa avesse da piangere una
donna con un gioiello simile al collo.
All'improvviso, però, tutto le fu chiaro: l'elicottero con
megacelebrità a bordo che atterrava sul tetto proprio
mentre questa divina traumatizzata, a livello strada,
lasciava in tutta fretta il palazzo... I soci anziani stavano
raccogliendo deposizioni, quel giorno. Per la grande causa
di divorzio.
Una voce maschile in mezzo alla folla gridò: «Alouette!
Alouette! Lo ami ancora?». Poi una voce femminile: «Saresti
disposta a riprendertelo?». La folla parve trattenere
collettivamente il respiro, ammutolita come in attesa di una
rivelazione.
La bellezza piangente, incorniciata nei piccoli display di
cento telefonini, ripresa da ogni direzione e angolatura,
levò il mento elegante e disse: «Non mi faccio buttare via».
Frammentata in tutte quelle prospettive, deglutì. «Maxwell
è l'amante più meraviglioso che io abbia mai avuto.»

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Ignorando una nuova salva di domande, la squadra
delle guardie del corpo si aprì a forza un passaggio tra la
calca dei curiosi, verso l'uscita, dove un corteo di limousine
era in attesa.
La donna al centro di tutto quel trambusto era l'attrice
francese Alouette D'Ambrosia, sei volte vincitrice della
Palma d'Oro, quattro volte premiata con l'Oscar.
Penny non vedeva l'ora di scrivere ai genitori per
raccontare quell'episodio. Era uno dei vantaggi di lavorare
da B B &B . Anche se doveva solo servire il caffè, Penny era
felice di essersene andata da casa. Di star del cinema non se
ne vedevano mai, nel Nebraska.
Il corteo di auto si allontanò, e tutti stavano ancora
guardando nella direzione in cui era scomparso quando
Penny si sentì chiamare da una voce amica. «Ehi, Omaha!»
Era una collega dello studio, Monique, che schioccava le
dita e agitava le braccia per attirare l'attenzione di Penny. In
confronto a Monique, con le sue unghie di porcellana
lavorata tempestate di abbaglianti cristalli australiani e la
lunga chioma a trecce ornate di perline e piume, Penny si
sentiva sempre un po' grigia e insulsa.
«Hai visto?» balbettò Penny. «Era Alouette
D'Ambrosia!»
Monique le si fece più vicina e disse: «Ehi, Omaha, il tuo
posto è su, al sessantaquattresimo piano». Prese Penny per
un gomito e la trascinò verso un ascensore in attesa. I
bicchieroni di caffè caldo sciabordarono rischiando di
traboccare. «Il vecchio Brillstein ha riunito l'intera banda, e
chiedono a gran voce altre sedie.»
L'ipotesi di Penny, dunque, era corretta. Si trattava delle
deposizioni relative alla causa per alimenti "D'Ambrosia vs

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Maxwell". Lo sapevano tutti che era una causa pretestuosa.
Una trovata pubblicitaria. L'uomo più ricco del mondo era
stato fidanzato con la donna più bella del mondo per 136
giorni. Precisi. Penny era al corrente dei dettagli per essere
stata in coda al supermarket. A New York le cassiere erano
così flemmatiche e scontrose che, mentre aspettavi di
pagare il tuo barattolo di gelato Ben & Jerry's quasi
liquefatto, riuscivi a leggere il "National Enquirer" da cima
a fondo. Secondo i tabloid, il miliardario aveva donato alla
donna lo zaffiro più grande del mondo. Erano andati in
vacanza alle isole Figi. Le incantevoli Figi! Dopo di che lui
aveva rotto il fidanzamento. Si fosse trattato di altri, la
questione si sarebbe probabilmente chiusa lì, ma quella
coppia era sotto gli occhi del mondo intero. Forse
soprattutto per salvare la faccia, la donna ripudiata
chiedeva ora cinquanta milioni di dollari di danni per lo
stress emotivo.
Appena furono nell'ascensore, una voce garrula risuonò
nell'atrio: «Ehi, Hillbilly!». Le due ragazze si voltarono e
videro un giovane sorridente e ben rasato in completo
gessato che correva verso di loro. Scansando la gente,
arrivò a pochi passi e disse squillante: «Aspettatemi!».
Monique, invece, premette il pulsante per la chiusura
delle porte e ripeté più volte il gesto con il pollice
ingioiellato, come se stesse inviando un messaggio di
allarme in alfabeto Morse. Penny abitava nella Grande Mela
da sei mesi, e in nessuna occasione aveva visto premere un
pulsante d'ascensore meno di venti volte. Le porte si
richiusero a pochi centimetri dal naso aquilino del giovane
avvocato, lasciandolo a terra.
Il suo nome era Tad, e aveva flirtato con Penny tutte le

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volte che si erano incontrati. La chiamava affettuosamente
"Hillbilly", alludendo alle origini campagnole di lei, e
rappresentava quello che la madre di Penny avrebbe
giudicato "un buon partito". Penny ne dubitava. Nel
profondo, sentiva che lui le riservava tutte quelle attenzioni
solo per ingraziarsi Monique. Alla maniera in cui un uomo
potrebbe cercare i favori di una bella ragazza facendo i
complimenti al suo cane grasso e puzzolente.
Non che Penny puzzasse. Non era neanche esattamente
grassa.
Monique, in ogni caso, era indifferente. Con il suo stile
appariscente e mondano puntava a un manager di hedge
fund o a un oligarca russo di primo pelo. Diceva
sfacciatamente a tutti che la sua unica aspirazione era di
vivere in una bella casa nell'Upper East Side e di starsene
tutto il giorno a letto a mangiucchiare Pop-Tarts. Simulando
un gran sospiro di sollievo, Monique disse: «Omaha,
dovresti farglielo infilare, il vermiciattolo, a quel povero
ragazzo!».
Penny non era per niente lusingata dagli ammiccamenti
e dai fischi di lui. Sapeva di essere soltanto il cane bruttino.
Il trampolino di lancio.
In ascensore, Monique esaminò la tenuta da lavoro di
Penny. Con un guizzo laterale delle anche, puntò l'indice al
suo indirizzo. Sulle dita di quella ragazza alla moda non
c'era spazio neanche per un solo altro anello. Monique serrò
le labbra, mettendo in mostra tre diverse tonalità di
rossetto, e disse: «Amica mia, adoro le tue forme rétro!».
Scosse le trecce ornate di perline e piume. «Mi piace come
sai portare le tue cosce da ragazzona.»
Penny accolse il complimento con qualche esitazione.

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Monique era un'amica del lavoro, cioè non un'amica vera e
propria. La vita lì era diversa rispetto al Midwest. A New
York City bisognava adattarsi.
A New York ogni gesto era calcolato, finalizzato al
dominio. Ogni dettaglio dell'aspetto di una donna era
indicativo della sua condizione. Penny, improvvisamente in
imbarazzo, strinse a sé la scatola di cartone con i caffè caldi
come se fosse un orsacchiotto all'aroma di vaniglia.
Monique distolse di scatto lo sguardo, ritraendosi
disgustata alla vista di qualcosa sulla faccia di Penny. A
giudicare dalla smorfia sul suo viso, doveva esserci come
minimo una tarantola. «C'è un posto a Chinatown...» esordì
Monique. Arretrò di un passo. «Ti sistemeranno
quell'assurda peluria mannara che ti spunta intorno alla
bocca.» Aggiungendo, con un sussurro teatrale: «Così a
buon mercato che persino tu puoi permettertelo».
Cresciuta nella fattoria di famiglia a Shippee, nel
Nebraska, Penny aveva visto galline in cattività che si
beccavano all'ultimo sangue con più delicatezza.
C'erano donne, evidentemente, che non avevano mai
ricevuto il memorandum sulla sorellanza universale.
Quando furono al sessantaquattresimo piano, le porte
dell'ascensore si aprirono e le due giovani donne furono
accolte dai nasi indagatori di quattro pastori tedeschi. Cani
antibomba. Una corpulenta guardia in uniforme si fece
avanti per esaminarle con il metal detector.
«Da questo piano in su è tutto chiuso: hanno evacuato
tutti fino al tetto.» Con la sua solita eleganza, Monique
prese Penny per il gomito e comandò: «Le sedie, ragazza!
Muoviti!».
Ridicolo. B B &B era lo studio legale più potente

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d'America, ma non avevano mai abbastanza posti a sedere
per tutti. Come nel classico gioco delle sedie, se si arrivava
tardi a qualche riunione si rimaneva in piedi. Almeno finché
qualche subalterno come Penny non veniva mandato a
cercare una sedia.
Mentre Monique si precipitava alla riunione per tentare
di guadagnare tempo, Penny provò ad aprire le porte una
dopo l'altra, trovandole tutte chiuse a chiave. I corridoi
erano stranamente deserti, e dalle finestre situate accanto a
ogni porta chiusa Penny vedeva le sedie che i vari associati
avevano lasciato al sicuro in ufficio, dietro le rispettive
scrivanie. Nell'aria rarefatta dei piani dirigenziali regnava
sempre il silenzio, ma lì la situazione era spettrale. Non
c'erano voci né echi di passi che risuonassero tra quelle
pareti rivestite di legno o tra i raffinati dipinti di paesaggi
della valle dell'Hudson. Bottiglie aperte di acqua gassata
erano state abbandonate da così poco che ancora stavano
frizzando.
Penny aveva preso una laurea quadriennale in studi di
genere e fatto due anni di law school, ed eccola che andava
in giro a recuperare sedie per gente troppo pigra o
presuntuosa per procurarsele da sé. Era umiliante. Questa
non era certo tra le cose di cui si sarebbe vantata via e-mail
con i genitori.
Il suo cellulare cominciò a vibrare. Un S M S di Monique:
"Sorella, dove sono 'ste sedie?". A quel punto Penny stava
già correndo come una forsennata per i corridoi. Con la
scatola di cartone dei caffè in precario equilibrio su una
mano, si protendeva verso ogni porta e ne stringeva la
maniglia per il tempo necessario ad appurare che fosse
chiusa a chiave. In piena frenesia, aveva praticamente

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abbandonato ogni speranza e correva senza più fiato da un
ufficio chiuso all'altro. Alla fine, una maniglia ruotò,
cogliendola impreparata. La porta si aprì verso l'interno, e
lei perse l'equilibrio. Cadde al di là della soglia tra spruzzi
di caffè bollente, su una superficie morbida come una
distesa di trifogli. Riversa a terra, vide da vicino i verdi, i
rossi e i gialli intrecciati di bellissimi fiori. Tanti fiori. Era
atterrata in un giardino. Uccelli esotici appollaiati tra rose e
gigli. A pochi centimetri dalla sua faccia, però, incombeva
una scarpa nera lucida. Una scarpa da uomo, con la punta
nella posizione ideale per darle un calcio in faccia.
Non era un vero giardino. Gli uccelli e i fiori erano solo
motivi ornamentali di un tappeto orientale. Tinto e tessuto a
mano in pura seta, era unico nel suo genere da B B &B , e
Penny capì immediatamente in quale ufficio di preciso si
trovava. Si vide riflessa nella scarpa nera lucida: i capelli
intrisi di caffè che le penzolavano davanti agli occhi, le
guance arrossate, la bocca spalancata in cerca di ossigeno,
lì a terra, ansimante. Nella caduta le si era sollevata la
gonna, e aveva il sedere all'aria. Fortuna che le mutande
erano di cotone, vecchio stile, non trasparenti. Avesse avuto
addosso un perizoma osé sarebbe morta di vergogna.
Il suo sguardo risalì lungo la scarpa nera fino a una
forte e tonica caviglia fasciata da un calzino a rombi.
Neanche lo sbarazzino disegno verde-oro del calzino, però,
riusciva a nascondere i muscoli sottostanti. Poco più sopra,
l'orlo del pantalone con risvolto. Da quell'infimo punto di
vista seguì la piega netta della gamba dei pantaloni di
flanella grigia fino al ginocchio. Taglio e confezione
accuratissimi mettevano in evidenza una coscia poderosa.
Gambe lunghe. Gambe da tennista, pensò Penny. Da lì, la

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cucitura interna condusse il suo sguardo verso una
protuberanza notevole, come un grosso pugno racchiuso da
liscia e morbida flanella.
Sentì un calore umido tra sé e il pavimento. Stava
sguazzando tra i bicchieri rovesciati. Cinque litri di roba,
tra latte di soia magro, caffè semidecaffeinato, tè, latte
macchiato, stavano inzuppandole i vestiti e rovinando
quell'inestimabile arredo da pavimento.
Persino nel cuoio lucido ma scuro della scarpa Penny
vide il rossore delle proprie guance farsi più intenso.
Deglutì. Una voce giunse infine a spezzare l'incantesimo
ipnotico del momento.
Un uomo disse qualcosa. Il tono era sicuro, ma morbido
come il tappeto di seta. Cordiale e divertito, ripeté: «Ci
conosciamo?».
Penny guardò verso l'alto attraverso il velo delle lunghe
ciglia frementi. Un volto si stagliava in lontananza. Nel
punto di fuga di quella prospettiva di flanella grigia c'erano
i tratti che tanto spesso aveva visto sulle prime pagine dei
tabloid al supermercato. Aveva gli occhi azzurri, e a
incorniciare la fronte una frangetta bionda da ragazzino. Il
sorriso gentile creava due fossette, una per guancia, sul suo
viso ben rasato. L'espressione era bonaria, dolce come
quella di un bambolotto. Non aveva rughe sulla fronte né
sulle guance, forse perché non aveva mai avuto
preoccupazioni né ceduto al ghigno del sarcasmo. Dai
tabloid, Penny sapeva che quell'uomo aveva quarantanove
anni. E non c'erano zampe di gallina intorno agli occhi, a
riprova del fatto che non aveva sorriso tanto spesso.
Ancora scompostamente stesa a terra, Penny
boccheggiò: «È lei!». Starnazzò: «Lei è lui! Cioè lei è lei!».

22
Non era un cliente dello studio. Tutt'al contrario, era stato
denunciato in una causa per alimenti. Penny immaginò che
fosse lì solo per la deposizione.
Era seduto in una poltrona riservata agli ospiti, una
delle poltrone Chippendale preziosamente intarsiate e
rivestite di pelle rossa che arredavano lo studio. Gli odori
di cuoio e lucido da scarpe erano pungenti. C'erano
diplomi incorniciati e file di testi di diritto rilegati in pelle
contro le pareti.
Alle sue spalle c'era una scrivania di mogano che
luccicava rossastra dopo un secolo di lucidature e cera
d'api. In piedi, sul lato più lontano della scrivania, c'era una
figura curva la cui testa pelata risplendeva quasi altrettanto
rossa, punteggiata e chiazzata dal tempo. Su quella faccia
scarna gli occhi umidi fiammeggiarono sdegnati. Le labbra
sottili e tremanti rivelavano una dentiera intaccata da
macchie di tabacco. Su tutti i diplomi, i certificati e le
onorificenze, vergati con elaborate grafie goticheggianti,
campeggiava il nome di Albert Brillstein, Esq.
A mo' di cortese risposta al balbettio di Penny, l'uomo
più giovane domandò, per nulla imbarazzato: «E chi sarà
mai, costei?».
«Non è nessuno» ringhiò l'uomo dietro la scrivania, il
socio più anziano dello studio. «Non dovrebbe neppure
essere qui! È solo una lavorante di infimo livello. È stata
respinta due volte all'esame di avvocato!»
Queste parole colpirono Penny come uno schiaffo.
Vergognosa, distolse lo sguardo dagli occhi azzurri e di
nuovo si vide riflessa nella scarpa lucida dell'uomo più
giovane. Il capo di Penny aveva ragione. Lei era solo una
galoppina. Non era nessuno. Una stupida bifolca che si era

23
trasferita a New York con il sogno di trovare un... destino.
Qualcosa. La dura verità era che lei, probabilmente, non
avrebbe mai superato l'esame di avvocato. Aveva passato
la vita ad archiviare documenti, a prendere e portare il
caffè ad altri. Non le sarebbe mai accaduto nulla di
meraviglioso.
Senza aspettare che lei si rialzasse, Brillstein sibilò:
«Fuori!». Puntò un indice ossuto e tremante verso la porta
aperta e gridò: «Si tolga dai piedi!».
Nella tasca della gonna, il suo cellulare si mise a
vibrare. Non aveva bisogno di guardare per sapere che era
Monique, comprensibilmente irritata.
Brillstein aveva ragione. Non era lì che si sarebbe
dovuta trovare. Il suo posto era nei dintorni di Omaha.
Felicemente sposata a un membro belloccio ed equilibrato
della confraternita Sigma Chi. Con due figli più un terzo in
arrivo. Quello sarebbe stato il suo destino: ricoperta di bava
di neonato, non di costoso Double-shot Espresso.
Eccola lì, riflessa in quella scarpa, miniaturizzata come
l'immagine di Alouette D'Ambrosia sugli schermi di tutti
quei telefonini. Penny sentì salire le lacrime agli occhi e ne
vide una colare lungo la guancia. Fu sopraffatta dal
disprezzo di sé. Con una mano si deterse quell'umore, nella
speranza che nessuno dei due uomini se ne fosse accorto.
Divaricò le dita delle mani sul tappeto e cercò di rialzarsi,
ma la combinazione di panna montata, caramello e
sciroppo di cioccolato la teneva incollata a terra. E se anche
fosse riuscita ad alzarsi in piedi, temeva che quei liquidi
caldi avessero reso trasparente la sua camicetta.
Nonostante il loro colore allegro, gli occhi azzurri che la
guardavano erano concentrati e fissi come telecamere. La

24
stavano misurando e registrando. Lui non era in alcun
modo più bello di lei, ma aveva la mascella volitiva.
Emanava sicurezza.
Brillstein balbettando disse: «Signor Maxwell, non può
immaginare quanto io sia dispiaciuto per questa
disdicevole interruzione». Prese il telefono e, premendo
alcuni pulsanti, aggiunse: «Stia pur certo che questa
giovane verrà immediatamente espulsa dall'edificio». Al
telefono berciò: «Sicurezza!». A giudicare dalla veemenza
della sua voce, si sarebbe detto che non di cacciarla si
trattava, bensì di scaraventarla giù dal tetto.
«Posso darle una mano?» domandò il biondo,
chinandosi verso di lei.
Al dito Maxwell portava un anello con sigillo e una
grande e lucente pietra rossa. Penny avrebbe scoperto in
seguito che era il terzo rubino più grosso mai estratto nello
Sri Lanka. Era appartenuto a sultani e maharaja, e ora
interveniva in suo soccorso. Il suo scintillio era accecante.
Le dita che si chiusero intorno a quelle di lei la sorpresero
per com'erano fredde. Una forza altrettanto strabiliante la
sollevò, mentre le labbra, quelle labbra che lei aveva visto
baciare tante dive del cinema ed ereditiere, dissero: «Visto
che ormai è libera...». Lui le domandò: «Mi concederebbe il
privilegio della sua compagnia a cena, stasera?».
La commessa di Bonwit Teller squadrò Penny con aria
di sufficienza. «Posso mostrarle qualcosa?» domandò, con
una nota di derisione nella voce.
Penny aveva fatto di corsa i gradini e tutti gli otto isolati
dalla fermata del metrò al grande magazzino e non aveva
ancora ripreso fiato. «Un vestito?» farfugliò. Poi, più
risoluta, aggiunse: «Un abito da sera».

25
Gli occhi dell'addetta la radiografarono da capo a piedi,
senza farsi sfuggire un solo particolare. Né le tragiche
Jimmy Choo contraffatte che Penny aveva comprato in uno
spaccio aziendale a Omaha. Né la borsa con la tracolla
sfilacciata e le macchie di torta di noci pecan. Il suo trench
quasi-Burberry non riusciva a nascondere il fatto che i suoi
vestiti erano impregnati di caffè freddo e panna montata
appiccicosa. Alcune mosche avevano captato il dolce
profumo e l'avevano seguita dalla banchina affollata del
metrò. Penny cercò di scacciarle con disinvoltura. A chi non
la conoscesse doveva sembrare una squilibrata. La
valutazione della commessa sembrò durare un'eternità, e
Penny dovette resistere alla tentazione di girare i tacchi
scalcagnati e allontanarsi da quella snob schizzinosa.
Da parte sua, la commessa poteva sembrare una
frequentatrice del jet set arrivata nei bassifondi da Beekman
Place. Tutto Chanel. Unghie impeccabili. Niente mosche
fastidiose ad aggirarsi intorno alla sua perfetta treccia alla
francese o davanti all'immacolata pelle della fronte.
Terminato il freddo inventario, gli occhi della commessa
incrociarono quelli di Penny. In tono altero, le domandò: «È
per un'occasione speciale?».
Penny stava per spiegare la situazione, ma si trattenne.
L'uomo più ricco del mondo l'aveva invitata a cena per
quella sera. Le aveva proposto Chez Romaine, il ristorante
più esclusivo della città, forse del mondo, alle otto. La
gente, lì, prenotava i tavoli con anni di anticipo. Anni! Lui
aveva persino accettato di incontrarsi lì. Col cavolo che
Penny voleva mostrargli il monolocale al sesto piano senza
ascensore che condivideva con due amiche.
Certo, stava esplodendo, letteralmente morendo dalla

26
voglia di raccontarlo a qualcuno. Le belle notizie non
paiono vere finché non le si è comunicate ad almeno una
dozzina di persone. Quella sospettosa sconosciuta del
reparto abbigliamento di Bonwit Teller non le avrebbe mai
creduto. Una storia così incredibile sarebbe servita solo a
rafforzare nella commessa l'impressione che Penny fosse
una barbona fuori di testa, venuta lì a farle perdere tempo
prezioso.
Una mosca le si posò sul naso, e Penny la scacciò.
Decise di darsi una calmata. Non era pazza. E non sarebbe
fuggita. Depurando la voce da ogni paura, disse: «Vorrei
vedere l'abito a vestaglia dell'ultima collezione Dolce &
Gabbana, quello arricciato in vita».
Come per metterla alla prova, la commessa domandò:
«Quello di crêpe chiffon?».
«No, quello di satin» rispose svelta Penny. «Con l'orlo
asimmetrico.» Tutte quelle lunghe attese alla cassa del
supermarket si rivelavano ancora una volta utilissime. Il
vestito che aveva in mente era quello indossato da Jennifer
Lopez sul tappeto rosso all'ultima cerimonia degli Oscar.
La commessa guardò la figura di Penny e chiese:
«Taglia 48?».
«44» ribatté secca Penny. Sapeva di avere più di una
mosca posata tra i capelli, ma le sfoggiava come fossero
perle nere di Tahiti.
La commessa andò in cerca del vestito e scomparve.
Penny sperò quasi che non tornasse più. Era assurdo. Non
aveva mai speso più di cinquanta dollari per un vestito, e
quello che aveva chiesto di vedere non ne costava certo
meno di cinquemila. Con qualche clic sul telefonino poté
appurare che il suo credito era appena sufficiente. Se avesse

27
acquistato e indossato quel vestito per un paio d'ore,
restituendolo il mattino dopo, avrebbe avuto una storia da
raccontare per il resto dei suoi giorni. Non osava
immaginare altro al di là di quella serata. Sarebbe stata una
scommessa. Un azzardo. Cornelius Maxwell era noto per i
suoi gesti cavallereschi. Ecco qual era l'unica spiegazione
possibile. L'aveva vista umiliata su quel tappeto al cospetto
del capo inviperito e aveva cercato di salvarle l'onore. Un
gesto cavalleresco, più che altro.
Da quel che Penny aveva letto sui tabloid, Cornelius era
famoso per la sua galanteria.
Le loro storie non erano poi così tanto diverse. Lui era
nato a Seattle da madre single che lavorava come
infermiera. Il suo sogno era sempre stato quello di poterla
mantenere alla grande, senonché lei era morta su una
corriera, in un incidente stradale. Al momento della
tragedia, Cornelius stava facendo un dottorato alla
University of Washington. Un anno dopo, nella sua stanza
al pensionato, aveva fondato la DataMicroCom. Tempo un
altro anno, figurava tra gli imprenditori più ricchi al
mondo.
Tra le donne affascinanti cui inizialmente si era legato
c'era Clarissa Hind, improbabile candidata al senato dello
Stato di New York. Grazie al sostegno finanziario e agli
agganci politici di lui, Hind era stata eletta. Quando ancora
il suo primo mandato non era concluso, lei si era messa in
testa di diventare la più giovane eletta del suo Stato al
senato federale, a Washington, D.C. Il fatto che i media si
fossero infatuati della coppia certo non fu un ostacolo: la
statuaria e giovane senatrice e il miliardario terribile
dell'alta tecnologia. Con il denaro di lui e la propria

28
determinazione, Hind aveva vinto a mani basse. E poi
aveva realizzato il suo sogno e, insieme, quello di milioni di
altre donne: tre anni prima era diventata la prima donna
presidente degli Stati Uniti.
Fino a quel momento, Corny Maxwell le aveva sempre
fatto una propaganda instancabile, elogiandola e
sostenendola in ogni occasione, pubblica e privata. I due,
però, non si erano mai sposati. Si era parlato di un aborto
spontaneo. Girava addirittura la voce che lei gli avesse
chiesto di farle da vice, ma a elezione conclusa avevano
tenuto una conferenza stampa congiunta per annunciare la
risoluzione del loro rapporto. Fianco a fianco, in
conferenza, la presidente eletta e il suo affascinante
compagno avevano assicurato che l'affetto e il rispetto
reciproci erano immutati, ma che la loro storia d'amore era
conclusa.
Penny sapeva che un successo di quel tipo comportava
duro lavoro e sacrifici, ma dalle foto scattate dai paparazzi
sembrava una cosa semplice, ottenuta senza sforzo. Proprio
ispirata dalla presidente, Penny aveva deciso di diventare
avvocato. Osava forse sognare? E se Corny Maxwell fosse
stato in cerca di una nuova protegée? Non era impossibile
che lui avesse colto in lei un potenziale innato. Quella serata
poteva essere un'audizione, e Penny Harrigan,
superandola, si sarebbe magari avviata a rivestire un ruolo
di primo piano sulla scena mondiale. Stava per entrare nel
circolo femminile più esclusivo del mondo.
La fantasticheria fu interrotta da un moscone che le
entrò in bocca. E Penny, che sognava a occhi aperti nel
reparto abbigliamento di Bonwit Teller, cominciò a tossire
convulsamente.

29
Meglio così. Si stava facendo prendere un po' troppo la
mano dalla fantasia, e il futuro sa come spezzarti il cuore se
esageri con le aspettative. Bastava pensare al caso di C.
Linus Maxwell, sempre sorridente, pur passando da una
storia d'amore finita all'altra. Dopo Clarissa aveva avuto
una relazione con un'esponente della famiglia reale
britannica. Una principessa, nientemeno, e non di quelle
bruttine frutto di matrimoni tra consanguinei. Non certo
una sciacquetta. La principessa Gwendolyn era stupenda,
terza in ordine di successione, a due soli passi dal trono. Di
nuovo, pareva la combinazione ideale, questa volta tra
aristocrazia europea e know-how high-tech yankee. Il
mondo aspettava solo che fissassero la data. Quando il re
era stato abbattuto dalla pallottola di un anarchico, era
stato Corny a sorreggere la principessa piangente al
funerale del padre. E quando un bizzarro incidente -- un
frammento di satellite precipitato, addirittura -- aveva
ucciso l'erede al trono designato, fratello di Gwendolyn,
l'incoronazione di Gwendolyn era risultata inevitabile.
Di diritto, Corny Maxwell sarebbe diventato così un
principe dedito alla bella vita di Buckingham Palace, ma la
storia si era ripetuta. Il magnate e la nobildonna si erano
separati nella maniera più amichevole.
Per ben due volte Maxwell aveva sfiorato il matrimonio
con una delle donne più potenti del mondo.
A voler credere ai pettegolezzi, lui si era sentito
minacciato da donne il cui status poteva competere con il
suo. I tabloid l'avevano messo alla gogna. Penny però
sospettava, come molti altri, che C. Linus Maxwell sarebbe
sempre stato un orfano in cerca della madre perduta da
ricoprire di ricchezze e venerazione.

30
Nessuna delle sue ex fiamme sembrava aver risentito
della storia d'amore con lui. Clarissa Hind da timida
politica alle prime armi si era trasformata in leader del
mondo libero. Gwendolyn, quando Maxwell l'aveva
conosciuta, aveva un fisico da fattrice: bella, ma
sovrappeso; nel corso della loro relazione era dimagrita, e
da allora la principessa era sempre stata un esempio di
stile. Anche Alouette aveva dovuto lottare con i propri
demoni. I tabloid erano pieni delle sue disavventure
alcoliche e narcotiche. Maxwell l'aveva aiutata a
disintossicarsi. Il suo amore era riuscito là dove una decina
di trattamenti imposti dal tribunale aveva fallito.
Da Bonwit Teller, il cellulare di Penny si mise a vibrare.
Era Monique. Aveva smesso di rompere con la questione
delle sedie e aveva scritto: «C H I A M A M I ! ». Da B B &B , ormai,
la notizia doveva essere diventata di dominio pubblico.
Penny, per certi versi, sperava quasi che nessuno l'avesse
ancora saputo. Era imbarazzante essere associata, nella
testa delle persone, alla presidente Hind, alla regina
Gwendolyn e ad Alouette D'Ambrosia. Penny ripercorse
mentalmente le relazioni da lui avute in seguito. C'era stata
la poetessa vincitrice del Nobel. L'erede di una grande
acciaieria giapponese. La baronessa dell'impero della carta
stampata. Evidentemente, però, nessuna di loro aveva un
piede adatto alla scarpina di cristallo. Penny si sforzò di
non pensarci, ma quel che avrebbe fatto da quel momento
fino alla mezzanotte aveva l'aria di poter determinare il
resto della sua vita.
Non fece in tempo a rispondere all'S M S di Monique,
perché la commessa tornò con una distesa di chiffon rosso

31
adagiata su un braccio. Inarcando scettica un sopracciglio
disegnato a matita, disse suadente: «Ecco qua... Taglia 44».
Fece cenno a Penny di seguirla in camerino.
Presidente Penny Harrigan, moglie di C. Linus
Maxwell. La sua mente vacillò. L'indomani, sul "Post", il
suo nome sarebbe comparso in neretto tra quelli delle altre
celebrità sulla pagina di cronaca mondana. A quel punto, la
commessa sdegnosa avrebbe capito che Penny non stava
mentendo. Tutti, a New York, avrebbero imparato il suo
nome.
In ogni caso, Penny avrebbe indossato quel vestito con
molta, moltissima cautela.
Erano le tre del pomeriggio. La cena era alle otto. C'era
ancora tempo per depilarsi le gambe, sistemarsi i capelli e
telefonare ai genitori. Forse sarebbe servito a rendere la
situazione più reale.
Accodandosi in fretta alla commessa, Penny domandò
nervosamente: «Vale, da voi, il diritto di recesso e di
rimborso, vero?». E si augurò, incrociando le dita, che la
cerniera si chiudesse fino in cima.
Kwan Qxi ed Esperanza erano le persone ideali per
condividere uno striminzito appartamento a Jackson
Heights. Mesi prima, la madre di Penny, aiutando la figlia a
fare i bagagli per il grande trasloco, aveva suggerito
saggiamente: «Trovati una cinese e una latinoamericana,
come compagne di stanza».
I genitori di Penelope potevano sembrare, a volte, i tipici
mostri retrogradi e fissati sulla razza, ma in realtà avevano
soprattutto a cuore il bene della figlia. In una casa
multiculturale ed etnicamente varia, pensavano loro,
c'erano meno probabilità che le ragazze si fregassero i

32
trucchi a vicenda. I cosmetici costano, e la loro
condivisione può diffondere micidiali infezioni da
stafilococco. Era un consiglio sensato. L'herpes e le cimici
sono dappertutto. Il loro era un sano ed elementare
principio cui ispirarsi nella vita.
Nonostante le ottime intenzioni dei genitori alimentate a
granturco, le tre coinquiline dalle radici culturali tanto
differenti avevano scoperto di avere in comune più di
quanto avrebbero mai immaginato. In men che non si dica
avevano cominciato a condividere vestiti, segreti, persino le
lenti a contatto. Poche erano le cose off-limits. Fino a quel
momento, questa rilassata intimità non era mai stata un
problema.
Esperanza era una focosa latina dal seno prosperoso e
dagli occhi neri che lampeggiavano di malizia. Reagiva
spesso con plateale esasperazione alle più piccole
incombenze -- cambiare una lampadina, ad esempio, o
lavare un piatto -- esclamando "ay, caramba!", perché questa
manifestazione palesemente stereotipata non mancava mai
di far scompisciare Penny dalle risate. Evidentemente, non
era così rigida da non saper ridere un po' di sé. Il fatto che
Esperanza potesse gettare sul pavimento del soggiorno un
sombrero dai vistosi ricami, per poi inscenare una vivace
danza intorno alla tesa del copricapo, indicava che la sua
evoluzione, sul piano dell'identità personale, si era spinta
ben al di là della "correttezza politica".
Kwan Qxi, silenziosissima e altrettanto implacabile,
faceva da contrappunto ideale alla señorita tutto pepe.
L'asiatica si muoveva senza far rumore nell'appartamento
sovraffollato e spolverava i battiscopa... rifilava il suo
bonsai... ripiegava l'estremità penzolante della carta

33
igienica a mo' di origami per l'utente successiva e, più in
generale, tramutava il caos in ordine. La sua faccia e i suoi
modi placidi avevano l'effetto di un balsamo su Penny. La
fitta coltre dei suoi capelli neri era qualcosa di meraviglioso
in confronto alla riccia coda di cavallo anni Cinquanta che
Penny adottava quasi tutti i giorni.
Penny implorò entrambe affinché, nelle ultime ore prima
della cena da Romaine, contribuissero come sapevano al
perfezionamento del suo aspetto. A Esperanza chiese di
farle risplendere le palpebre come tramonti all'Avana. A
Kwan Qxi chiese capelli che ricadessero come sontuosi
covoni di pesante seta. Le compagne si dedicarono alla
missione senza riserve, coccolandola come avrebbero fatto
due damigelle d'onore con una sposa ansiosa. Insieme, la
agghindarono e la vestirono di tutto punto.
Penny era splendida con quell'abito: un miraggio. A
completare la mise, Kwan Qxi aveva riesumato un
elegantissimo pendente di giada verde brillante a forma di
drago, con due perle al posto degli occhi. Un vero cimelio
di famiglia. Esperanza, invece, recuperò i suoi orecchini
preferiti, a forma di minuscole piñatas tempestate di strass.
Che credessero o meno alla storia della cena con l'uomo più
ricco del mondo, le amiche avevano tutt'e due le lacrime
agli occhi davanti alla trasformazione stilistica di Penny.
Suonarono al citofono. Il taxi che avevano chiamato era
arrivato e la aspettava.
All'ultimo momento, Penny trattenne il respiro e andò in
cerca di una scatoletta di plastica grigia nascosta tanto
tempo prima in bagno che conteneva il suo diaframma. "Un
briciolo di previdenza" pensò. Non ne aveva più avuto
bisogno dalla festa invernale all'ultimo anno del corso di

34
laurea. Mentre rovistava negli armadietti si domandò se il
tempo trascorso dall'ultimo utilizzo non potesse aver
danneggiato quello strumento anticoncezionale. La gomma
poteva essersi seccata, diventando meno elastica e più
fragile, come succede notoriamente con i preservativi. O
magari si era crepata. Peggio, poteva essersi coperta di
muffa. Estrasse la custodia grigia da un cassetto ingombro
e, aprendola, trattenne il respiro. La custodia era vuota.
Tamburellando a terra con un piede a simulare sdegno,
Penny prese di petto le amiche in cucina. Mostrò la
custodia vuota con aria accusatoria. Sulla scatola,
un'etichetta recitava: "Penelope Harrigan", con nome e
indirizzo del suo medico di famiglia a Omaha. Posò la
scatola sul tavolo, accanto al tostapane arrugginito e
incrostato di formaggio, e disse: «Adesso spengo la luce e
conto fino a dieci, okay?». L'espressione delle due amiche
era indecifrabile. Non erano arrossite né si sottraevano
intimidite allo sguardo di Penny. «Non farò domande»
disse. Le bastò premere l'interruttore, e la stanza sprofondò
nel buio pesto. Cominciò a contare.
Un suono indistinto, come di bagnato, fu seguito da un
ansito. Poi da un risolino.
Penny stava contando: «... otto, nove, dieci.» La luce
tornò svelando la custodia aperta e, al suo interno, un
oggetto rosaceo dall'aria familiare. Il diaframma luccicava,
fresco e rugiadoso, imperlato del sano umore vaginale
altrui. Appiccicato, c'era un unico pelo pubico tutto
arricciato. Penny si ripromise di risciacquarlo più tardi,
qualora se ne fosse presentata la necessità.
Come al solito. Il taxi, destinazione Chez Romaine, era
in ritardo. Il traffico era bloccato, nel tunnel, e i telefonini

35
erano inservibili per mancanza di campo. Andava bene lo
stesso. Il tassista continuava a guardare nello specchietto
retrovisore per scusarsi. E per dirle che era stupenda.
Penny sapeva che si trattava di complimenti di
circostanza. Del resto, con tutti i soldi che aveva speso quel
pomeriggio, non poteva che essere stupenda. Con buona
pace della commessa, il vestito le era andato a pennello,
fasciando perfettamente il suo giovane corpo. Anche le
nuove Prada che si era comprata, in un raptus dell'ultimo
minuto, facevano la loro figura. Penny, però, era abbastanza
intelligente da sapere che non sarebbe mai diventata una
bellezza sconvolgente.
Se non altro, non c'erano mosconi a ronzarle intorno. E
questo era meglio di niente. Qualunque cosa sarebbe stata
meglio di una vita nel Midwest.
Il Nebraska non le si era mai attagliato granché. Già da
ragazza, a Omaha, e persino da bambina, quando abitava a
Shippee, Penny si era sempre sentita una outsider. Per
cominciare, non assomigliava in nulla ai genitori, massicci,
piriformi, con i piedi piatti. Mentre loro erano i classici
membri della diaspora irlandese, rossi di pelo e pieni di
efelidi, Penny aveva un colorito panna e pesca. Pallida
come corteccia di betulla. I suoi avevano entrambi
giudicato folle la sua decisione di trasferirsi a New York.
Poco prima, appena salita sul taxi, aveva telefonato a
Omaha per dare la grande notizia. Sentendo rispondere la
madre, Penny le aveva domandato: «Sei seduta, mamma?».
«Arthur!» aveva gridato sua madre, lontano
dall'apparecchio. «C'è tua figlia al telefono.»
«Ho una notizia davvero fantastica» aveva detto Penny,
quasi incapace di trattenersi. Aveva verificato che il tassista

36
la stesse guardando. Voleva che origliasse.
«Anch'io!» aveva esclamato la madre.
Si era udito un clic, e la voce del padre di Penny si era
aggiunta alla conversazione. «Tua madre ha coltivato un
pomodoro che assomiglia a Danny Thomas sputato.»
«Ti manderò una foto» aveva promesso la madre. «Fa
impressione.»
Il padre aveva domandato: «E qual è la buona notizia,
dolcezza?».
Penny aveva indugiato per accentuare l'effetto. Poi
aveva parlato con voce abbastanza forte da farsi sentire dal
tassista. «Ho un appuntamento con C. Linus Maxwell.»
I genitori non avevano risposto. Non subito, almeno.
Per risparmiare tempo, di mattina, il padre di Penny
beveva il caffè seduto sul gabinetto. Sua madre, invece,
sognava un materasso ad acqua. A ogni compleanno,
spediva alla figlia una Bibbia con una banconota da venti
dollari infilata tra le pagine. Questi, in sintesi, erano i suoi
genitori.
Penny li aveva imbeccati, domandando: «Sapete chi è
Maxwell?».
«Certo che lo sappiamo, tesoro» aveva risposto la
madre, imperturbata. «Tuo padre e io non abitiamo più a
Shippee!»
Penny si era immaginata che avrebbero urlato di gioia,
boccheggiato increduli, fatto qualcosa.
Alla fine, suo padre le aveva detto: «Ti vogliamo bene
comunque, Pen-Pen. Non devi inventarti storie per far colpo
su di noi». Le aveva dato della bugiarda.
A quel punto il taxi si era infilato sotto il fiume. Era
caduta la linea. E neanche le sue coinquiline le avevano

37
creduto, ma si erano date comunque da fare, aiutandola a
stendere l'ombretto e a disegnare il contorno labbra.
L'indomani non avrebbero più dubitato. Di solito Penny
non si dava tutta quella pena per il suo aspetto. Non si era
agghindata solo per Maxwell, però: quella sera tutto il
mondo l'avrebbe guardata. Penny sarebbe entrata al
ristorante da completa sconosciuta, ma al dessert sarebbe
già stata una celebrità, in quel locale. Persino l'idolo di
Penny, la presidente Hind, avrebbe conosciuto il suo nome.
Imbottigliati nel traffico accanto a lei, Penny notò due
uomini a bordo di una berlina nera. Come le guardie del
corpo che avevano scortato Alouette D'Ambrosia,
indossavano entrambi completi blu navy fatti su misura e
occhiali a specchio. I loro tratti duri e scolpiti non tradivano
la minima emozione. Nessuno dei due si voltò verso Penny,
ma lei capì grazie alla sua lunga esperienza che quei due la
stavano tenendo d'occhio in incognito.
Persino nei suoi ricordi più antichi era presente la
sensazione di essere sorvegliata da uomini misteriosi di
quel tipo. Talvolta in auto l'avevano seguita a passo d'uomo
o tenuta d'occhio, parcheggiati davanti alla sua scuola
elementare. Talaltra a piedi l'avevano pedinata con
ostinazione, ma sempre a una discreta distanza. Erano
quasi sempre in due, qualche volta in tre, tutti in completo
scuro e occhiali a specchio. Portavano i capelli corti e in
perfetto ordine. Ai piedi, wingtip lucidissime, anche
quando arrancavano come segugi a due zampe per i campi
da football fangosi di Cornhusker e le spiagge di sabbia del
lago Manawa.
Quante volte nei pomeriggi invernali, con il calare della
sera, quegli chaperon avevano fatto ombra ai suoi passi per i

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terreni di sperdute fattorie, zigzagando tra i fusti morti
delle piante di granturco sferzati dal vento, lungo la strada
per tornare a casa da scuola. Uno, magari, sollevava un
risvolto della giacca e bisbigliava qualcosa in un microfono
lì appuntato. Un altro, magari, alzava un braccio come a
segnalare qualcosa a un elicottero che a sua volta scrutava
dall'alto ogni passo di Penny. In più di un'occasione aveva
notato un pallone aerostatico volteggiare sopra di lei,
giorno dopo giorno.
Per quel che Penny poteva ricordare, questi chaperon
incombevano da sempre sulla sua vita. Sempre ai margini
del suo campo visivo. Sempre presenti sullo sfondo.
C'erano ottime probabilità, anzi, di trovarli persino quella
sera, da Romaine, seduti in disparte, ma sempre in guardia.
Non si era mai sentita minacciata da loro. Semmai,
protetta e rassicurata. La prima volta che si era accorta di
essere seguita, Penny aveva immaginato che fossero agenti
dell'Homeland Security. Tutti gli americani, diceva a se
stessa, godevano dello stesso tipo di diligente supervisione.
Anzi, era a tal punto affezionata a quelle sue guardie del
corpo da esser giunta a considerarle come angeli custodi.
Un ruolo che avevano assolto in più di una circostanza.
In una tetra giornata preinvernale, Penny tornava verso
casa facendosi strada attraverso ettari di insilato in
decomposizione. Il cielo vespertino era cupo e livido.
L'odore dell'aria fredda era gravido di presagi rovinosi. In
un batter d'occhio, una tromba d'aria assassina era scesa
dal cielo e aveva preso a rimestare il paesaggio sollevando
una lurida schiuma di terriccio e mucche da latte volanti.
Accessori agricoli affilati come rasoi le sferragliavano

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intorno da ogni parte. Chicchi di grandine grossi come
pugni percuotevano il suo giovane cranio.
Proprio mentre pensava di non poterla scampare, una
forza l'aveva gettata a terra a pancia in giù tra i solchi, e lei
si era sentita addosso un peso gentile, ma fermo. Il tornado
aveva esaurito in breve la sua furia. Il peso si era sollevato,
e Penny aveva constatato che a intervenire era stato uno dei
suoi sorveglianti anonimi. Con il completo gessato sporco
di fango, si era rialzato e allontanato senza neanche darle il
tempo di ringraziarlo. Più che un osservatore passivo, un
eroe. Quello sconosciuto le aveva salvato la vita.
Anni dopo, quando Penny era al college, un membro
della confraternita Zeta Delt l'aveva trascinata giù per una
rampa di scale in una cantina dal pavimento lurido. Era
accaduto nel corso di una festa iperalcolica durante la
Settimana dell'Affiliazione. A posteriori, ammetteva di aver
forse promesso a quel giovanotto più di quanto fosse
realmente disposta a concedere. Esasperato, lui l'aveva
gettata a terra e le era montato sopra, le ginocchia piantate
ai lati del tronco di lei che si dimenava. Le mani forti di lui
si erano messe all'opera per strapparle selvaggiamente il
vestito a fiori sgargianti. Poi era passato a trafficare con la
cerniera dei propri pantaloni di tela, rivelando un'erezione
di un rosso rabbioso. La situazione pareva compromessa,
ma ancora una volta Penny aveva avuto fortuna.
Grazie al cielo ci sono gli agenti della Homeland
Security, aveva pensato, quando uno sconosciuto in
completo grigio di flanella era sbucato dall'ombra. Aveva
sferrato all'aggressore di Penny un violento colpo di karate
alla trachea. E Penny, mentre l'aspirante stupratore
boccheggiava a terra, era corsa via mettendosi in salvo.

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Penny aveva poi lasciato il Nebraska, ma gli angeli
custodi avevano continuato a tenerla d'occhio. Li aveva
visti anche nella Grande Mela, le luci al neon riflesse nelle
lenti dei loro occhiali scuri, mentre la osservavano da una
certa distanza. Da Bonwit Teller. Persino allo studio B B &B
vegliavano su di lei, con gli occhiali scuri anche al chiuso.
Dovevano essere agenti dell'Homeland Security, aveva
concluso, e vegliavano su tutti gli americani. Senza sosta.
Mentre era assorta nei suoi pensieri, il traffico aveva
ricominciato a scorrere. Ed ecco che il taxi si stava
fermando proprio davanti alla passatoia coperta di Chez
Romaine. Un valletto si fece avanti ad aprirle la portiera.
Penny pagò il taxi e fece un respiro profondo. Guardò l'ora
sul telefonino. Un quarto d'ora di ritardo.
Si controllò un'ultima volta il vestito e le braccia. Niente
mosche.
Sulle pagine del "National Enquirer" Jennifer Lopez e
Salma Hayek non percorrevano mai il tappeto rosso da
sole. Penny Harrigan non aveva scelta. Non c'era traccia di
Climax-Well. Un plotone di fotografi era raccolto dietro un
cordone di velluto, ma nessuno la degnò di un secondo
sguardo. Nessuno la fotografò. Nessuno che, munito di
microfono, le andasse incontro per complimentarsi con lei e
domandarle del vestito. Un'altra auto accostò al
marciapiede; il valletto andò ad aprire la portiera, e a quel
punto lei non poté esimersi dall'avviarsi da sola verso il
dorato ingresso del ristorante.
Nel foyer attese che il maître de salle si accorgesse di
lei, ma quello non se ne accorse. Nessuno le badò. Uomini e
donne in abiti eleganti attendevano lì che arrivasse la loro
auto o che qualcuno li accompagnasse ai tavoli. Il chiasso

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delle risate e delle conversazioni la fecero sentire ancora
più sola, se possibile. In quel contesto, il suo vestito
risultava appena decente. I suoi gioielli attirarono sguardi
perplessi. Penny provò, come al cospetto della sprezzante
commessa di Bonwit Teller, il desiderio di fuggire. Avrebbe
riavvolto quel meraviglioso vestito rosso nel suo involucro
originale e l'indomani mattina l'avrebbe riportato indietro.
Gli uomini come Maxwell non uscivano con ragazze come
lei.
Eppure c'era qualcosa che le bruciava. Si pentiva di
essersi vantata di quell'appuntamento. Le sue coinquiline...
i suoi genitori... persino il tassista: tutti l'avevano presa per
una bugiarda. Doveva dimostrare di non esserlo. Se una
sola giornalista di cronaca mondana l'avesse vista con
Corny Maxwell o un paparazzo avesse scattato loro un
foto, Penny si sarebbe accontentata. Questo pensiero la
indusse ad attraversare il foyer verso la porta della sala da
pranzo principale. Oltre la porta, una scala scendeva
rivestita da un tappeto. Chiunque, entrando, avrebbe
attratto lo sguardo di tutti, in quello spazio vasto e
affollato.
In cima a quella scala Penny si sentì come sull'orlo di un
precipizio. Davanti a sé, il futuro che la chiamava. Alle
spalle, i ricchi e potenti già imbottigliati che cercavano di
fare retromarcia come auto in un ingorgo. Qualcuno si
schiarì platealmente la gola. Sotto di lei, la sala era gremita.
I tavoli erano tutti occupati. Un ammezzato accoglieva altri
occhiuti clienti. Il luogo in cui si trovava Penny, in cima a
quella scala, era una sorta di palcoscenico, visibile da ogni
altro punto della sala.
Al centro del locale, sedeva un uomo tutto solo. I suoi

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capelli biondi riflettevano la luce del lampadario. Aperto
sul tavolo aveva un piccolo taccuino su cui stava
velocemente scarabocchiando appunti con una penna
d'argento.
Il respiro di uno sconosciuto sfiorò Penny all'orecchio.
Una voce cerimoniosa alle sue spalle mormorò: «Mi
perdoni, signorina...». Il parlante inspirò con forza dal naso.
Nel ristorante gli occhi erano tutti sul tizio solitario che
scribacchiava, ma con discrezione, alla newyorkese,
sbirciando da dietro il menu. Spiando il suo riflesso sulle
lame d'argento dei coltelli da burro.
Con insistenza crescente, la voce cerimoniosa alle spalle
di Penny, sussurrò: «Dobbiamo tenere libero il passaggio».
Disse: «Devo chiederle di farsi da parte».
Raggelata, Penny sperò con tutte le forze che il cliente
solitario alzasse gli occhi e la vedesse. E vedesse quant'era
bella. La calca che si stava formando alle sue spalle
rumoreggiava inquieta. Penny era incapace di muoversi. Il
portiere, il valletto del parcheggio, qualcuno si sarebbe
visto costretto a sollevarla di peso e a portarla fuori come
un sacco di patate.
Alla fine, però, l'uomo che scriveva sul taccuino alzò la
testa. I suoi occhi incontrarono quelli di Penny. Tutte le teste
di quell'immenso locale si mossero per seguire lo sguardo
dell'uomo. Questi si alzò, e il rumore prodotto dai tanti
presenti si attenuò. Come quando a teatro si alza il sipario,
tutti tacquero.
Gli occhi negli occhi di lei, l'uomo raggiunse il piede
della scala e cominciò a salire. Quando fu a due gradini da
lei, si fermò e le porse la mano. Così come sul tappeto

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dell'ufficio era stata lei a trovarsi in posizione inferiore,
toccava a lui questa volta protendersi dal basso verso l'alto.
Anche lei allungò il braccio. Le dita di lui erano fredde
come Penny le ricordava.
C. Linus Maxwell la accompagnò come lei l'aveva visto
fare sul "National Enquirer". Come aveva già fatto con tante
donne elegantissime. Gli ultimi gradini. Attraverso la sala
ammutolita. Lui le allontanò la sedia dal tavolo e la fece
sedere. Quindi, prese posto e chiuse il taccuino. Solo a quel
punto il volume delle voci tutt'intorno riprese a salire.
«Ti ringrazio per aver accettato il mio invito» le disse.
«Sei splendida.»
E per una volta Penny ci credette davvero.
Un istante dopo, la mano scattò. Come per tirarle uno
schiaffo si sporse in avanti, e il braccio vibrò così fulmineo
da risultare quasi invisibile. Lei si irrigidì, strizzando gli
occhi.
Quando li riaprì, davanti alla faccia vide il pugno
chiuso di lui, enorme, fermo, le nocche che quasi le
toccavano la punta del naso.
«Perdonami se ti ho spaventato» le disse, «ma credo di
averla presa.» Corny Maxwell riaprì la mano a mostrare il
nero cadaverino di una mosca.
L'indomani mattina, Penny attese per una mezz'ora
abbondante, fuori da Bonwit Teller, l'orario d'apertura. Non
poteva permettersi di pagare neanche un giorno degli
interessi previsti dalla carta di credito sul prezzo di quel
vestito da sera. A rischio di arrivare tardi al lavoro, doveva
restituire il vestito al più presto.
Nelle favole, Cenerentola non doveva alzarsi all'alba per
andare a restituire abito e scarpe, con la paura che

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un'occhiuta commessa notasse una macchia e si rifiutasse
di riconoscerle un rimborso pieno.
Nonostante il cibo e il vino straordinari, la cena non era
stata di quelle esattamente magiche. I presenti in sala non
avevano mai smesso di guardare. È impossibile rilassarsi se
si è in vetrina. Non era dipeso da Maxwell. Lui si era
sorbito per tutta la sera ogni parola di lei con molta
attenzione, persino troppa. In diverse occasioni aveva
addirittura aperto il taccuino e annotato qualcosa con una
stenografia sbrigativa e criptica, come sotto dettatura. Più
che un appuntamento romantico era sembrato un piacevole
colloquio di lavoro. Lui aveva detto di sé poco o nulla di
cui lei non fosse già stata informata dalle cronache
mondane dei giornali. Penny, invece, per l'agitazione aveva
parlato dimenticandosi quasi di respirare. Disperatamente
ansiosa di colmare ogni silenzio, gli aveva raccontato dei
genitori, Myrtle e Arthur, della loro vita di provincia.
Aveva rievocato le lunghe ore da lei trascorse alla law
school. Aveva sproloquiato dell'amore della sua vita, un
terrier scozzese, Dimples, che era morto un anno prima.
Per tutta la durata del monologo, Maxwell aveva sorriso
placidamente. Per fortuna ogni tanto arrivavano i camerieri
a concederle un attimo di pausa per riprendere fiato. «Se la
signora consente...» aveva detto un cameriere, con uno
gesto vezzoso della mano guantata di bianco «il sushi
kobashira è una specialità della casa.»
Penny sorrise trionfante. «Dev'essere una delizia.»
Max le rivolse uno sguardo interrogativo. «Lo sai che si
tratta di capesante aoyagi crude, vero?»
Lo ignorava. Anzi, Maxwell le aveva probabilmente
appena salvato la vita. Lui non lo sapeva, ma Penny soffriva

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di una gravissima allergia ai frutti di mare. Un solo
succulento morso, e Penny si sarebbe accasciata a terra,
gonfia e senza vita. L'allarme doveva essere apparso
evidente nell'espressione di Penny, perché lui aveva
prontamente revocato l'ordinazione dicendo: «La signora
prenderà il pollo Divan».
Grazie a Dio qualcuno aveva fatto attenzione. La bocca
di Penny riprese inarrestabile il nervoso monologo.
Stava facendo una figura penosa, lo sapeva. Eppure non
riusciva a fermarsi. Nessuno aveva mai mostrato interesse
per lei a New York. Lei che era il piccolo miracolo venerato
dai genitori si era dovuta abituare all'anonimato e
all'invisibilità. Di sera, il più delle volte, usciva anche se
controvoglia e si aggirava per il quartiere, finché le vie non
si svuotavano e lei non era abbastanza stanca da andare a
dormire. Vagava per l'Upper East Side tutta sola, se si
eccettuano gli uscieri di palazzi eleganti che in piedi dietro
le porte a vetri la guardavano passare. Le schiere di case
imponenti, i sontuosi palazzi, era lì che tutti volevano
andare a vivere. In un certo senso, anche lei si era allenata a
desiderarlo. La verità, però, era che lei non lo desiderava.
Penny fingeva soltanto di volere i gioielli in vetrina da
Cartier e le pellicce di Bloomingdale's.
Non era interessata ai meri ornamenti del successo.
Penny bramava il potere, quello vero. Ai suoi stessi orecchi
suonava come un'ambizione folle.
Soprattutto, Penny non desiderava ciò che le altre donne
affermavano di volere. Sembravano possedute, sciamavano
tutte verso identici allettamenti mondani. E Penny era
preoccupata, perché si sentiva esclusa da certi ambienti. Se

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al cinema non si entusiasmava per il solito polpettone cuore
e batticuore, finiva sempre per sentirsi in difetto.
Ogni giorno vedeva donne che lavoravano come
avvocati o dirigenti, furiosamente produttive e sempre
impegnate ad abbaiare qualcosa al telefono. Nessuna di
loro sembrava possedere più la benché minima ispirazione
progressista. La loro non sembrava più la via meno battuta.
Penny voleva seguire una carriera che si emancipasse dalle
pavloviane strettoie ideologiche dell'identità di genere.
Degustando il dessert, Penny ammise di non sapere
quel che voleva.
Diventare avvocato non era il sogno della sua vita. Da
ragazza, quand'era al liceo, le avevano detto tutti -- i
genitori, i docenti, il prete -- che una persona, nella vita,
deve avere un obiettivo a lungo termine e un progetto per
raggiungerlo. Dicevano tutti che doveva dedicare la vita a
qualcosa. E lei aveva scelto la carriera di avvocato con
noncuranza, come se l'avesse pescata, alla cieca, da un
cappello. Malgrado la presidente Hind, fare l'avvocato, per
Penny, era allettante quanto andare ad ascoltare Verdi al
Met con addosso una pelliccia di zibellino e al guinzaglio
due levrieri afghani con il collare tempestato di diamanti.
Ecco, a dire la verità, Penny non sapeva quel che voleva, ma
una cosa la sapeva: presto il suo destino di gloria le si
sarebbe manifestato.
Maxwell non le aveva fatto domande su niente, ma
aveva ascoltato tutto con attenzione. L'aveva osservata
come se volesse memorizzarla. A un certo punto, tra gli
antipasti e l'insalata, aveva preso il taccuino su cui stava
scrivendo al momento dell'arrivo di Penny. Lo aveva aperto
su un foglio bianco e si era messo a scrivere come se stesse

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prendendo nota delle paure da lei confessate. Penny non
poteva esserne certa, perché la grafia era molto fitta e quasi
microscopica. Tutto quello scarabocchiare poteva
significare due cose: o era un cafone di prima riga o una
persona straordinariamente sensibile e affettuosa.
Il fatto che qualcuno trascrivesse le sue parole l'aveva
messa in imbarazzo, ma non era bastato a impedire che la
sua ansia repressa debordasse. Non l'aveva mai rivelato a
nessuno, ma la sua vita sembrava essersi bloccata. Dopo
venticinque anni di ottimi voti e di buone maniere, si
trovava in un vicolo cieco spaventoso. Era arrivata al limite
del suo potenziale. In tutto quel parlare, Penny aveva
pensato che con tutta probabilità non avrebbe mai più
rivisto quell'uomo, il che aveva fatto di lui il confidente
ideale.
Il sollievo di Penny doveva essere apparso evidente:
risplendeva, sotto lo sguardo rapito di lui; si lisciava le
piume. Imbaldanzita da tutta quell'attenzione, aveva scosso
la testa per far ballare gli orecchini a piñata, si era portata
una mano al petto, sfiorando con la punta delle dita le
forme sinuose del drago di giada. I due accessori le
ricordavano la fortuna avuta in fatto di amiche.
Gli occhi azzurri di Max parevano incantati da ogni
gesto di Penny. Sorrideva, ma senza interromperla. Non le
staccava gli occhi di dosso, ma la mano continuava a
scrivere.
Sembrava quasi innamorato. Era più di una semplice
infatuazione. Più di un amore a prima vista. Maxwell
pareva stregato dal suono della voce di lei. Tutto il suo
corpo le era sembrato fremente e smanioso. Qualcosa

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nell'espressione del suo viso diceva che lui l'aveva cercata
per tutta la vita.
Penny voleva dal mondo proprio quel genere di
attenzione. Voleva essere riconosciuta e amata da tutti.
Ecco, lo aveva ammesso ad alta voce. Ma che cosa poteva
fare per giustificare tutto quell'interesse da parte
dell'opinione pubblica? Le serviva un mentore, un maestro,
un pigmalione.
Davanti al grande magazzino ancora chiuso, Penny
teneva la confezione del vestito ben sollevata, per evitare
che strisciasse sul marciapiede. Ricordò una per una le
deliziose portate di quella cena che non si era goduta.
Troppa era la paura di farsi cadere del cibo in grembo. Una
sola minuscola macchiolina, e avrebbe passato i cinque anni
successivi a scontare la sua mancanza di attenzione.
Quando le porte furono finalmente aperte, Penny raggiunse
di corsa il reparto in cui aveva acquistato l'abito.
In attesa alla cassa c'era la stessa commessa che l'aveva
aiutata meno di ventiquattr'ore prima.
Porgendole l'abito impacchettato, con la voce più ferma
di cui era capace, Penny disse: «Vorrei restituire questo».
La commessa prese la confezione per la gruccia. La
distese sul banco e aprì la cerniera dell'involucro, per
esaminare con cura il satin rosso.
«A casa l'ho provato» disse Penny. Con una mano fece
un gesto che, nelle sue intenzioni, doveva sembrare
liquidatorio. «Non è per niente come me l'immaginavo.»
La commessa scosse e lisciò la gonna, osservandone da
vicino le cuciture, l'orlo. Quindi domandò: «Insomma, non
l'ha usato, o sì?».
«No» rispose Penny. Trattenne il respiro, terrorizzata

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all'idea che un punto lievemente allentato o una minima
traccia di traspirazione potessero smascherare la bugia.
La commessa per nulla sorridente insistette: «Neanche
per una cenetta veloce?».
Penny dedusse che la commessa doveva aver trovato
uno schizzo di vino. Una macchia di mousse al cioccolato.
O magari aveva subodorato qualche fragranza, o fumo di
sigaretta, tra le fibre del vestito. Sarà stata la sua
immaginazione, ma a Penny parve, inoltre, che il piano si
fosse improvvisamente riempito di clienti, di addetti alle
vendite... c'era persino una guardia giurata, e tutti
sembravano intenti a origliare la conversazione. «No»
ribadì Penny. Ormai stava sudando.
«Magari da Romaine...»
«No» rispose Penny, con voce strozzata.
La commessa la fissò con uno sguardo severo e disse:
«Devo mostrarle una cosa». Risistemò il vestito all'interno
della confezione e si chinò per prendere qualcosa da sotto il
banco. Era un giornale: il "New York Post" di quel giorno.
In prima pagina, un titolo: Principe dei Nerd pesca anonima
Cenerentola.
E accanto a quelle parole enormi c'era una foto a colori
di lei sottobraccio a Maxwell. Inutile negarlo: Penny aveva
addosso quel vestito.
«Se posso permettermi, signorina» disse la commessa,
con un'espressione sdegnata, «è una cosa inaccettabile!»
Penny era stata beccata. In pieno. Fece un rapido calcolo
tra sé. Considerando il prezzo e il tasso di interesse della
sua carta di credito, avrebbe finito di pagare quel vestito
più o meno al compimento del quarantesimo anno.
«Con questo genere di pubblicità» ammonì la commessa

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«Dolce & Gabbana dovrebbero pagarla per aver indossato
questo vestito.» Sporgendosi verso Penny con aria da
cospiratrice aggiunse: «Prada, Fendi, Hermès... farebbero
qualunque cosa per una visibilità del genere». Le strizzò
l'occhio. «Mi permetta di fare qualche telefonata a suo
nome. Se nei prossimi tempi uscirà con il signor Maxwell,
lei potrebbe guadagnare una fortuna accettando di
promuovere certi stilisti.»
Questo poteva essere un problema. Maxwell le aveva
chiesto il permesso di richiamarla, ma Penny, per
esperienza, sapeva che poteva trattarsi di mera cortesia.
Non c'era garanzia di un secondo appuntamento. Non
avevano preso accordi precisi. Penny non lo disse, ma
poteva anche darsi che non si sarebbero più rivisti.
Guardandosi intorno, Penny vide tanti sconosciuti
gravitare intorno a loro. Uomini. Donne. Chi in uniforme.
Chi in pelliccia. Stringevano tutti in mano l'ultima edizione
del "New York Post". E le sorridevano.
La commessa che il giorno prima era stata così
antipatica le rivolgeva ora un timido sorriso. Con gli occhi
scintillanti e vispi, sospirò. Mettendo una mano sul petto
come per placare un'improvvisa tachicardia, disse: «La
prego di perdonare il mio comportamento poco
professionale, ma...».
Penny notò che la commessa, nonostante lo spesso
strato di trucco che aveva sul viso, stava arrossendo.
Porgendo a Penny la copia del "Post" le domandò:
«Potrebbe autografarmi la foto per mia figlia?».
C. Linus Maxwell non si fece sentire. Né l'indomani né
due giorni dopo. Passò una settimana.
Penny tornò al lavoro e lasciò cadere nel vuoto le

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smaniose domande di Monique sulla cena.
Dopo il lavoro, andò alla filiale di Jackson Heights della
Chase Manhattan Bank e affittò una cassetta di sicurezza, la
cui apertura richiedeva due chiavi. Osservò l'impiegato
aprire con la sua chiave e poi usò la propria, dopo di che lui
la lasciò sola in un'apposita saletta appartata. Non appena
si fu allontanato, Penny tolse dalla borsa una cosa piccola e
rosa e la infilò nella cassetta che poi richiuse alla svelta.
Quindi, richiamò l'impiegato. Le sue compagne di stanza
inclini alla condivisione di tutto non avrebbero mai più
potuto prendere in prestito il suo diaframma.
Tornata a casa restituì gli orecchini e la collana. Ogni
volta che il suo telefono trillava per una chiamata o un S M S ,
Kwan Qxi ed Esperanza la seguivano ansiose con lo
sguardo, ma a scrivere e a telefonare erano sempre i suoi
genitori. O la commessa di Bonwit Teller, per dirle che
aveva trovato uno strepitoso abito di Alexander McQueen o
un paio di vertiginose scarpe di Stella McCartney per
un'eventuale altra serata da Cenerentola.
In coda alla cassa del supermercato, dov'era andata a
comprare del gelato, cercava di ignorare i titoli dei tabloid
che la scrutavano: Cenerentola incassa il due di picche!
Un'altra prima pagina mostrava un'enorme foto di lei
mentre comprava il gelato, sotto il titolo: La Cenerentola
ripudiata si sfoga sul cibo! C'era un che di surreale: era lì in
coda a comprare il gelato e davanti agli occhi aveva una
foto del giorno prima in cui comprava del gelato. A
peggiorare la situazione, nelle foto più recenti Penny
appariva già più grassa! L'avevano riconosciuta tutti, al
supermarket, ed erano pronti a darle una pacca di
consolazione sulla spalla. La cassiera le fece cenno di

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passare senza pagare, dicendo: «Oggi è gratis, tesoro». Era
oggetto di compassione a New York, la città senza pietà per
antonomasia: ecco quant'era caduta in basso.
Pochi giorni dopo non riusciva quasi più ad
abbottonarsi i pantaloni. Troppe abbuffate consolatorie. Per
questo fu colta di sorpresa quando Tad le propose di andare
a pranzo alla Russian Tea Room. Lì seduti a un tavolo
appartato, in quell'ambiente di classe, lui la fece ridere con
le sue storie di rocamboleschi furti di mutande a Yale. Tad
declamò per intero il proprio curriculum vitae, ovviamente
intimidito dal confronto con l'ultimo accompagnatore
miliardario di Penny. Si vantò di essere stato il capitano
della squadra di canottaggio a Yale. A mo' di prova le
mostrò la maglietta verde sgargiante che aveva addosso.
Per quanto fosse noioso, Penny gli era grata. Le chiacchiere
e i rossori di Tad la distraevano dalle sue umiliazioni
pubbliche e dai suoi opprimenti rovesci di fortuna. Tad non
era male di aspetto -- più bello del biondo sbiadito Max -- e
c'era la possibilità che un qualche paparazzo vagante del
"Post" scattasse loro una foto, da pubblicare sotto il titolo: Il
riscatto di Cenerentola!
Con sua grande sorpresa, Penny si ritrovò a stringere la
mano di Tad sopra la candida tovaglia di lino. Lei voleva
solo dare a chi guardava l'impressione che stessero
flirtando, ma... stava succedendo qualcosa di magico.
Vibrazioni. Attrazione. Incanto. Le loro dita erano già
intrecciate. Penny si domandò se avrebbe fatto in tempo a
passare dalla banca per accedere alla cassetta di sicurezza
prima della chiusura.
Penny non era una bigotta. Non apparteneva al tipo
sussiegoso e rigido della maestrina di campagna. Per lei,

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l'intimità al di fuori del matrimonio non era peccato... solo
che non riusciva a vedere dove fosse il guadagno nel sesso
occasionale. Nei suoi studi sulle questioni di genere aveva
scoperto che il 30 per cento circa delle donne era totalmente
anorgasmico, e lei, evidentemente, rientrava in questa
fascia. Per fortuna c'erano altri piaceri, nella vita. La musica
salsa, ad esempio. Il gelato. I film di Tom Berenger. Non
aveva senso rischiare herpes, escrescenze veneree, epatite
virale, H I V e gravidanze indesiderate per inseguire un
irraggiungibile appagamento sessuale.
Le dita di Tad, però, avevano un buon profumo. Si era
sbagliata sul suo conto. In pieno. L'ambizioso giovane
avvocato voleva lei, non Monique. Questo, almeno,
esprimeva il suo sguardo. Magari si sbagliava anche
riguardo al sesso. Con l'uomo giusto, forse anche lei
avrebbe trovato quell'abbandono da cuore in gola.
«Penny» balbettò lui.
«Sì?» Penny deglutì. Per calmarsi posò uno sguardo
casto sul cestino dei grissini al formaggio. Quando trovò il
coraggio di guardarlo di nuovo in faccia, ripeté: «Sì, Tad?».
La mano di lui intensificò la stretta. "Il vermiciattolo."
Quel semplice pranzo stava diventando tutto quel che la
favoleggiata cena Chez Romaine non era riuscita a essere:
appassionata... sensuale... carica di suggestioni erotiche.
In fondo alla borsa di Penny, il telefonino si mise a
squillare. La suoneria la colse alla sprovvista.
«Penny» stava dicendo Tad, «io ti ho sempre a...»
Il telefono squillò di nuovo. Penny cercò di ignorarlo,
ma non poté fare a meno di irrigidirsi.
Tad fece appello a tutto il coraggio che aveva. «Se non
stai più uscendo con...» Protese le labbra sporgendosi verso

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di lei. Sempre più vicino. Lei sentì il suo delizioso alito al
vitello Orloff, ma schivò il bacio. Non poteva ignorare la
chiamata in arrivo. «Scusa» disse in tono scherzoso,
recuperando il telefono.
Stando alla suoneria, doveva essere Max.
Non era giusto. Penny ci provava sempre a spiegarlo: C.
Linus Maxwell era più di un precoce genietto di Internet.
Molto di più! Gestiva una galassia multinazionale di
imprese leader mondiali nel campo delle reti informatiche,
delle comunicazioni satellitari e dei servizi bancari.
Convinta, raccontava a Monique di come le aziende di
Maxwell dessero lavoro a più di un milione di persone,
servendone altre centinaia di milioni. Ogni anno le sue
fondazioni di beneficenza versavano un miliardo di dollari
a favore di una decina di cause di rilievo, dalla lotta contro
la fame nel mondo alla ricerca medica, passando per i
diritti delle donne. Come la presidente Hind avrebbe
potuto confermare, l'uguaglianza di genere era un sogno a
cui Maxwell teneva molto. Gestiva scuole in Pakistan e in
Afghanistan, dove le bambine potevano sperare in un
futuro migliore. Finanziava campagne politiche per portare
personalità femminili alle cariche più alte in tutto il mondo.
Tutto questo orgoglio -- diceva Penny, con chiunque
parlasse, -- tutto questo orgoglio e questo altruismo
facevano di Maxwell ben più di un nerd pieno di soldi.
A se stessa raccontava che le piaceva stare con lui.
Un falso difficile da spacciare. Soprattutto a se stessa.
In ufficio, Monique le domandò: «Ehi, Omaha, hai per
caso un diaframma?». Scosse la testa con un'aria sfacciata,
con acciottolio di trecce ornate di perline. Senza attendere
risposta, aggiunse: «No, perché se ce l'hai... devi togliertelo!

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Brucialo! Butta nel cesso tutti i tuoi metodi anticoncezionali
e fatti ingravidare da quell'uomo!».
Non erano affari di Monique, ma Penny lo frequentava
da un mese, ormai, e non erano ancora andati a letto. A
notte fonda, i genitori le telefonavano. Penny sospettava che
nutrissero la speranza di coglierla in flagrante con Maxwell.
Lei, assonnata, rispondeva: «Che ora è?».
Al telefono, in interurbana, la madre gridava: «Come
puoi non amarlo? È talmente ricco!».
All'altro apparecchio di casa, il padre aggiungeva:
«Fingi di amarlo!».
«Tuo padre e io non abbiamo mai incontrato Maxwell»
sbrodolò sua madre, «ma lo consideriamo già uno di
famiglia.»
Penny riagganciava. Staccava il telefono e si rimetteva a
dormire. Non voleva fare la figura di quella facile. Aveva
visto tante sorelle e compagne di studi percorrere la navata
di una chiesa. Troppi di quei matrimoni si erano avvitati in
una squallida vita di "serate galanti" obbligatorie. Come
quando uno è condannato all'ergastolo, e le visite coniugali
sono poche e molto distanziate tra loro. Prima che ricchi o
poveri, lei e Maxwell erano ancora due persone che
avevano bisogno di passione ricambiata per decidere di
vivere insieme.
Un fatto le si era impresso nella mente: nessuna delle
celebri relazioni da lui avute era mai durata più di 136
giorni. Non poteva essere una coincidenza. Anzi, erano
durate tutte esattamente 136 giorni.
E non è che Maxwell, da parte sua, avesse insistito per
fare sesso. Era così distaccato, così affabile, ma anche così
distante, che Penny fu indotta a domandarsi se Alouette

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D'Ambrosia non avesse mentito quando lo aveva definito
l'amante più meraviglioso da lei mai conosciuto. La diva
francese doveva essere stata con uomini migliori, uomini
tremendamente appassionati. Non si poteva dire che
Maxwell fosse aggressivo. Faceva ben poco, a parte
osservare, ascoltare e prendere appunti sul suo taccuino.
Alle feste sugli yacht, donne che Penny non conosceva la
guardavano male. Supermodelle magre come chiodi
trattavano con sarcasmo i fianchi normali di Penny.
Scuotevano incredule le loro teste dagli zigomi alti. Gli
uomini la guardavano con lascivia. Sospettavano che
possedesse qualche talento erotico tale da stregare
Maxwell. I loro sguardi libidinosi lasciavano trasparire le
scene di sodomia sfrenata e di fellatio esperta che si
figuravano. Che risate, se avesse detto loro che l'uomo più
ricco del mondo l'aveva portata a sciare in Svizzera e alle
corride a Madrid, ma non se l'era mai portata a letto.
Penny non era vergine quando aveva conosciuto
Maxwell. Aveva fatto sesso con qualche ragazzo al college,
pochi. Ma sempre e solo uno alla volta. E solo ragazzi. E mai
da dietro! Non era una pervertita, e non era una sgualdrina.
I suoi fidanzati se li era scelti perlopiù tra i membri della
Sigma Chi, cui piaceva giocare a fare i gentlemen,
aprendole la portiera dell'auto. Le portavano mazzolini di
fiori che le appuntavano al vestito con dita impacciate.
Sulla base della sua esperienza, tutti gli uomini si
credevano, per natura, grandi ballerini e bravissimi a letto.
La verità era che per la maggior parte conoscevano un solo
modo di ballare -- di solito il pogo -- e tra le lenzuola erano
come scimmie da documentario che frughino in un
formicaio con un bastone.

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Aveva avuto rapporti sessuali, ma non aveva mai
provato un orgasmo. Non un orgasmo vero, perlomeno, di
quegli orgasmi tellurici che ti anestetizzano i denti e di cui
aveva letto tante volte su "Cosmopolitan".
No, quando si era diplomata alla law school, Penny non
era vergine, ma neppure aveva intenzione di accasarsi.
A Parigi, a una cena esclusiva sulla terrazza più alta
della Torre Eiffel, Penny ebbe l'occasione di conoscere
Alouette D'Ambrosia di persona. Con un jet supersonico
perennemente a loro disposizione, Parigi non sembrava
tanto più lontana di Midtown. Maxwell poteva portarla in
un lampo quasi dappertutto nel mondo per una cenetta
tranquilla e poi riportarla al suo squallido appartamento di
Jackson Heights prima di mezzanotte. A furia di incontrare
sempre la stessa schiera di facce rancorose e lascive del jet
set internazionale, una sera dopo l'altra, alle feste e alle
prime cinematografiche, il mondo sembrava ancora più
piccolo di com'era. Persino in cima alla Torre Eiffel, con la
scintillante Parigi ai suoi piedi, Penny sorbiva champagne
troppo schiva per intrattenersi con gli altri ricchi e potenti.
L'aria era tiepida, ma Penny aveva brividi freddi che le
correvano lungo la schiena, lasciata scoperta dalla
vertiginosa scollatura del suo abito di Vera Wang. Maxwell,
di solito premurosissimo, era stato chiamato altrove, e lei si
sentì addosso uno sguardo ostile. Si guardò intorno e si
rese conto di non essersi sbagliata. Come due laser gemelli,
quegli occhi lampeggiavano dal lato opposto della terrazza
all'aperto. Era la diva del cinema, vincitrice di quattro
Oscar e candidata a un quinto, con ottime probabilità di
vittoria, di lì a qualche settimana. Era la donna che Penny
aveva visto scomposta sui minuscoli display di una

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miriade di telefonini. Ora la vedeva ricomposta, che
torreggiava statuaria.
Il confronto era imminente, e tutti i presenti seguirono
con malcelata gioia Alouette, che si avvicinava aggirando
la preda. L'attrice si muoveva come un felino nella tutina
intera attillata. Le sue adorabili narici fremevano. Mostrava
i denti e ribolliva di rabbia.
La commessa di Bonwit Teller, come d'accordo, aveva
messo Penny in contatto con gli stilisti d'alta moda che la
vestivano in modo favoloso, ma in confronto a quella
mangiauomini che le veniva incontro si sentiva una
barbona. Come sempre, dovette combattere l'istinto di
abbandonare il campo. Ah, se solo Maxwell fosse tornato.
Monique avrebbe certamente saputo tenere testa a
un'amazzone infuriata. Jennifer Lopez o Penelope Cruz
sarebbero state prontissime a prenderla a calci in culo, una
francese. Penny, invece, non poté far altro che volgerle le
spalle e chiudersi a riccio in attesa dell'attacco.
«Topolina» disse una voce dall'inflessione marcata,
sentita in tanti film.
Le punte affilate delle lunghissime unghie afferrarono
una spalla di Penny e con una lenta trazione la costrinsero a
voltarsi. I tratti della diva, soignés all'inverosimile,
apparivano in quel momento sfigurati dall'odio.
«Hai paura, topolina?» Alouette D'Ambrosia protese il
mento in avanti. «Fai bene ad averne, perché sei in serio
pericolo.»
Penny serrò la mano intorno al bicchiere di champagne.
Se le cose si fossero messe male, avrebbe gettato quel vino
delizioso e frizzante negli occhi dell'attrice. E poi sarebbe
scappata a gambe levate.

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«Puoi fare quello che vuoi...» disse Alouette. Agitando
un lungo e curatissimo dito davanti alla faccia di Penny,
avvertì: «Ma non devi andare a letto con Max. Non
azzardarti mai a fare sesso con lui».
Gli astanti rimasero molto delusi quando la diva del
cinema, voltate le spalle a Penny, riattraversò la terrazza,
fendendo la calca. Prima che qualcuno potesse dire
alcunché, era già salita sull'ascensore ed era scomparsa.
Non c'era il minimo dubbio, pensò Penny, Alouette era
furiosamente gelosa. La divina francese era ancora molto
innamorata. Penny rise tra sé. Lei, la normalissima Penny
Harrigan, suscitava l'invidia del più allettante sex symbol
femminile al mondo.
Un minuto dopo, Maxwell fu di ritorno e le si mise al
fianco. Come al solito, stava prendendo appunti sul suo
taccuino. Sembrava un po' un marziano.
Visto che Penny non diceva nulla, le domandò: «Tutto
bene?».
Lei gli descrisse la scena che si era perso. Gli raccontò
di come Alouette l'aveva affrontata e minacciata.
Uno strano sguardo balenò sul volto solitamente
impassibile di Maxwell, un'espressione che Penny non
aveva mai visto: di rabbia, mista a un altro sentimento.
Forse amore. Il vento tiepido gli scompigliava i capelli.
Di qualunque cosa si trattasse, Penny non riusciva a
resistere: che fosse attrazione fisica o l'idea di far arrabbiare
Alouette, smaniava dalla voglia di andare a letto con Max.
Gli prese una mano nelle proprie. «Non ripartiamo
stasera.» Si portò la mano fredda di lui alle labbra e la
baciò, aggiungendo: «Restiamo qui, stanotte. Ripartiremo
per New York domattina».

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A letto, il tocco di Maxwell si rivelò di un'esattezza
quasi clinica. Le dita, per come le usava, parevano calibri la
cui unica funzione fosse quella di misurarla. Come un
medico o uno scienziato, la afferrava con la punta delle dita
come per valutare la sua pressione sanguigna. Spesso
lasciava a metà una carezza, si sporgeva di lato verso il
comodino e scarabocchiava qualcosa con una sua
misteriosa e minuta stenografia.
Quella prima notte a Parigi, Penny si ritrovò
leggermente ubriaca, nuda nel letto di lui che le stava
inginocchiato tra le gambe spalancate.
Il ripiano del comodino accoglieva una strana varietà di
oggetti. C'erano sfaccettati flaconi di cristallo, simili a
boccette di profumo, pieni di liquidi dai colori diversi, ma
tutti vivaci. Parevano enormi rubini, topazi e smeraldi.
Ricordarono a Penny lo strabiliante zaffiro che aveva visto
al collo di Alouette D'Ambrosia. Tra le boccette c'erano
anche comuni becher e provette del tipo che Penny aveva
sempre associato alle lezioni di chimica a scuola. C'era
anche una piccola scatola di cartone, simile a quelle dei
fazzolettini di carta, ma sembrava piena di guanti di lattice,
dato che dalla scatola ne spuntava uno, pronto all'uso. Un
piccolo vaso di vetro conteneva un assortimento di
preservativi confezionati. E tra tutti quegli oggetti trovava
spazio anche il taccuino di Maxwell. Ovvio. Quel taccuino
era quasi una sua appendice. Un altro oggetto che Penny
riuscì a identificare fu un piccolo registratore audio
digitale, di quelli a cui un dirigente indaffaratissimo
potrebbe dettare i propri pensieri. La cosa più a portata di
mano, però, era una bottiglia di champagne.
Maxwell era già in erezione, ma non sembrava badare a

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quel suo stato. A pochi centimetri dalle nudità di Penny, si
sporse per metà dal letto. Prima stappò la bottiglia di
champagne, versando in un becher un po' di vino che frizzò
roseo. Champagne rosé. Porse il becher a Penny. Sollevando
la bottiglia fece un brindisi: «All'innovazione e al
progresso». Bevvero ognuno un po' di quel vino.
«Non trangugiarlo tutto, mia cara.» Maxwell schioccò le
dita a indicare che voleva indietro il becher. Vi aggiunse
ancora un po' di champagne e posò la bottiglia. Con gesti
sicuri, scelse alcune boccette di cristallo, da cui versò nel
becher di vino rosato gocce e spruzzi di sciroppi dai colori
sontuosi. Ogni tanto sfogliava avanti e indietro il taccuino
come se stesse consultando una ricetta in codice.
Mentre lavorava assorto, Maxwell ragionava ad alta
voce: «La gente si sbaglia di grosso. Studia qualunque cosa
tranne le più importanti». Le sue labbra si piegarono in un
amaro sogghigno. «Ho indagato i recessi più profondi del
mondo dei sensi. Ho studiato presso medici ed esperti di
anatomia. Ho sezionato cadaveri, di uomini e donne, per
capire la meccanica del piacere.»
Agitando il becher per miscelarne il contenuto, Maxwell
rivolse a Penny uno sguardo corrucciato e le domandò:
«Hai mai provato un orgasmo?».
«Certo» rispose Penny rapida. Troppo rapida. Era una
bugia, e si era capito.
Maxwell, con un mezzo sorriso, proseguì. «Sono stato
discepolo dei più grandi esperti mondiali di sesso.» Non
c'era vanteria nelle sue parole, solo una risolutezza
irriducibile. «Ho studiato con gli sciamani tantrici in
Marocco. Ho imparato a padroneggiare l'energia della
kundalini. A comprendere il coefficiente di attrito tra i

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diversi tipi di pelle. Ho consultato i più apprezzati luminari
mondiali di chimica organica.»
Penny lasciò vagare lo sguardo sul corpo nudo di lui.
Aveva letto sul "National Enquirer" che aveva quarantanove
anni. Era abbastanza vecchio da poter essere suo padre, ma
la sua struttura asciutta lo faceva assomigliare quasi a un
insetto. Le sue membra erano tutte definite e ben
proporzionate come quelle di una formica o di un
calabrone. La pelle pallida e glabra gli stava a pennello
come gli abiti che indossava, senza una grinza o la minima
imperfezione. Gli osservò le spalle e le mani, in cerca di
lentiggini o di nei, ma non ne trovò. Per come parlava delle
sue indagini sul sesso, si sarebbe aspettata di vederlo con i
capezzoli trafitti, il torso pieno di tatuaggi o di cicatrici
frutto di torture consensuali. E invece non c'era nulla di
tutto questo: aveva la pelle immacolata di un bambino, tesa
a rivestire la muscolatura di un uomo adulto.
«La mia ricetta segreta» disse lui, offrendole il becher
da annusare. Il vino, mescolato a misteriosi additivi.
Era meno frizzante ma aveva pur sempre l'aspetto di
uno champagne rosé. Profumava deliziosamente di dolce.
Come di fragole. Penny osservò dubbiosa il becher ricolmo
e disse: «Vuoi che beva questa roba?».
«Non esattamente» rispose Maxwell. Da un cassetto del
comodino estrasse un oggetto che sembrava una peretta.
Una palla ovoidale fatta di morbida gomma rossa, grossa
più o meno quanto un pompelmo. Da un'estremità
dell'ovoide spuntava una specie di lungo beccuccio bianco.
«Un irrigatore vaginale» disse Maxwell, avvicinandoglielo
perché potesse ispezionarlo. Svitò il beccuccio e le mostrò il
buco filettato dell'ovoide di gomma. In quel buco versò la

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miscela a base di champagne rosé. Mentre lui riavvitava il
beccuccio, Penny si rese conto di quali fossero le sue
intenzioni.
«È una lavanda?» domandò, con una lieve ansia.
Max annuì.
Penny si ritrasse a disagio. «Pensi che io non sia pulita?»
Maxwell indossò i guanti di lattice, dicendo: «Meglio
evitare che questa roba tocchi la pelle».
A Penny questa osservazione non piacque. Maxwell non
aveva forse intenzione di spruzzargliela dentro, quella
roba?
«Non preoccuparti.» Ridacchiò sommessamente. «È
solo un leggero stimolante neurale, con effetti euforizzanti.
Ti piacerà, vedrai.» Le spinse con delicatezza il sottile
beccuccio tra le gambe.
Il beccuccio le entrò in profondità. «Divertiti!» le disse, e
cominciò a comprimere la palla ovoidale. La siringa.
Penny si sentì riempire dal liquido freddo ed
effervescente.
Con la mano libera, Maxwell la tenne ferma,
massaggiandole la pancia con un lento moto circolare.
Tutto il corpo di lui era gelido e duro come le sue dita.
Svuotata la peretta, Maxwell la ritirò. Con una morbida
salvietta pulita le asciugò un rivoletto rosaceo che colava.
«Bravissima» le disse. «Trattienilo un po', adesso.» Aprì con
i denti la confezione di un preservativo che si srotolò sul
pene eretto. «Stai andando benissimo.»
Penny cercò di scacciare l'immagine dell'austera
presidente Hind che si lasciava praticare una simile
lavanda magica allo champagne.
Ancora inginocchiato tra le gambe aperte di lei,

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Maxwell disse: «Ti amo perché sei il massimo della
normalità».
Ammesso che fosse un complimento, Penny ne aveva
sentiti di migliori.
«Ti prego, non offenderti» disse lui, suadente. «Guarda:
hai una vagina da manuale. Le grandi labbra sono
perfettamente simmetriche. Il rafe perineale è magnifico. Il
frenulo del clitoride e quello delle piccole labbra...»
Sembrava a corto di parole e si premette una mano sul
cuore, sospirando. «Dal punto di vista biologico, gli uomini
apprezzano immensamente questa regolarità. Le
proporzioni dei tuoi genitali sono perfette.»
Sotto il suo sguardo, Penny, più che una donna, si
sentiva un esperimento scientifico. Una cavia o un topo da
laboratorio.
La sensazione non migliorò quando Maxwell aggiunse:
«Le donne della tua fascia d'età e del tuo ceto sociale sono
consumatrici e target della maggior parte delle merci
prodotte nel mondo».
Forse dipendeva dalla lavanda, ma Penny si sentiva
come se i denti le si stessero sciogliendo in bocca. Anche le
ossa delle gambe sembravano sul punto di squagliarsi.
«Questo accentuerà il tuo divertimento.» Maxwell
divaricò le ginocchia costringendola ad aprire ancora di più
le gambe. Il suo pene eretto si impennò sopra di lei, già
avvolto dal preservativo. Maxwell se ne infilò un altro, tra
chiacchiere oziose.
Mentre parlava, volgendosi di nuovo verso il comodino,
osservò la serie di provette piene di liquidi frizzanti. Ne
scelse una e si versò alcune gocce sul palmo di una mano. A
queste aggiunse altre gocce prese da un secondo e poi da

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un terzo recipiente. «Il pH della tua pelle è leggermente
acido. Sto preparando il lubrificante più adatto alle tue
esigenze erotiche.»
Passò con delicatezza la mano piena di unguento
intorno e sopra la vulva, facendo attenzione a non infilare le
dita troppo in fondo. Quel che rimase se lo spalmò sul
membro in erezione.
Penny ridacchiò, molle come una bambola di pezza.
Maxwell prelevò qualcosa dal comodino. Era il
miniregistratore digitale. Premette un pulsante e disse: «Se
non ti dispiace, vorrei registrare la nostra seduta ai fini
delle mie ricerche». Sull'apparecchio si accese una lucina
rossa. Maxwell se lo avvicinò alle labbra e disse: «Sulla
base dell'atteggiamento per certi versi giocoso del soggetto,
si può affermare che la lavanda vaginale ha sortito l'effetto
previsto».
Dopo di che le montò sopra, affondando la propria
durezza contro la pressione interna del fluido. Lo spingeva
sempre più su, dentro di lei, mentre lo rimescolava e lo
sbatteva.
Penny ansimò. Le sfuggì un grido, di disagio e insieme
di piacere. Sentì fuoriuscire dell'umido che andò a
impregnare le lenzuola. Sentì il liquido espandersi dentro di
lei. Invano provò a contorcersi, per liberarsi di quella
sensazione. Mentre il piacere cresceva, impadronendosi di
lei, Penny capì perché Alouette si era mostrata così
rabbiosa. Qualunque cosa fosse quel liquido rosato, i lombi
di Maxwell che pompavano e il suo cazzo che la sondava
sembravano spingerglielo a forza in circolo nel sangue. Le
gambe le si rilassarono al punto che le pareva fluttuassero.
Questa sensazione si propagò alle braccia. Le parve che il

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seno le si stesse gonfiando. La sua mente si espanse per far
posto a un godimento della cui esistenza Penny non era mai
stata al corrente.
Aveva solo una vaga coscienza di Maxwell che con i
fianchi sgroppava lentamente e intanto la guardava fisso in
faccia per leggere le sue reazioni. Lui si leccò le dita e le
torse delicatamente i capezzoli, concentrato come uno
scassinatore. Senza perdere un colpo, prese la penna e
scrisse qualcosa sul suo taccuino.
Le sfiorò l'interno delle cosce e il clitoride. Con il bacino
praticava aggiustamenti infinitesimali dell'angolazione e
della frequenza delle spinte. Osservando la reazione di lei,
calibrava la profondità di ogni colpo. Rivolto verso il
registratore, disse: «Il pavimento pelvico del soggetto è
completamente rilasciato». Le mise una mano inguantata di
lattice dietro la schiena, nella parte bassa, tastandogliela
finché non trovò quel che cercava. In quel punto preciso, i
polpastrelli intensificarono il massaggio.
«Perché tu capisca quel che sta succedendo» disse
Maxwell «sto usando due dita per comprimere l'arteria di
Hibbert anteriore. È una semplice tecnica tantrica che mi ha
gentilmente insegnato uno yogi in Sri Lanka.» Parlava come
un cicerone, loquace e con un vago tono di sufficienza.
«Riducendo l'afflusso di sangue al bacino, ti sto
anestetizzando il clitoride.» Qualunque cosa stesse facendo,
non aveva bisogno di guardare: le sue dita sapevano cosa
fare. E i suoi occhi erano sempre fissi in quelli di lei.
«Il tuo feedback è fondamentale in questo processo»
disse Maxwell. La sua voce cominciava a giungere confusa
all'orecchio di Penny, che fece uno sforzo per concentrarsi.

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«Hai capito?» le domandò. «Fa' un cenno con la testa se
capisci.»
Penny annuì.
«Devi prepararti. Non temere» disse lui. «Non aver
paura di piangere. Devi lasciarti attraversare dal piacere.»
Il suo sguardo si fece più grave. «Se trattieni il flusso
dell'appagamento, c'è il rischio che tu muoia.»
Penny annuì. Non era quasi più di questo mondo.
Sommersa dal piacere, aveva perso la cognizione del
passato e del futuro. Nulla esisteva all'infuori di quel
momento di sensazioni estreme. Non c'era altro mondo che
l'energia montante dentro di lei.
«Tra un attimo, quando allenterò la pressione, il sangue
affluirà di colpo all'uris major e proverai un piacere che non
hai mai neanche sognato di provare.» Al che, Penny sentì i
polpastrelli di Maxwell allontanarsi dalla spina dorsale.
Qualcosa di sfolgorante ed enorme avvampò dentro di
lei.
«Grida!» le ingiunse Maxwell. «Non trattenere la tua
estasi. Non fare la stupida bigotta, Penny. Urla!»
Penny, però, non ce la faceva. Una lunga sfilza di
oscenità le si stava formando in gola, ma aveva i denti
serrati. Gli arti si agitavano in preda a spasmi totalmente
fuori dal suo controllo. Un torrente di inarticolati versi
animaleschi e sconcezze minacciava di traboccare, e il
registratore digitale era ancora in funzione. Ricacciò in gola
gli ululati. Una mano gelida le si posò su un lato del collo e
lì rimase.
Maxwell dichiarò: «Per la cronaca, la pulsazione del
soggetto è rapida e irregolare». Stava parlando al
registratore. «La respirazione è estremamente superficiale,

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e tutto sembra indicare che il soggetto sta entrando in coma
erotico.»
A Penny pareva di morire. L'immagine di lui si
cristallizzò e cominciò a scurire ai margini.
Maxwell prese qualcosa dal comodino. Con il
polpastrello di un pollice rivestito di lattice le sollevò una
palpebra cadente e proiettò sull'iride la luce intensa di una
torcia a stilo. «La dilatazione della pupilla è scarsa»
registrò. In tutto questo, lui non aveva smesso neanche per
un attimo di pompare con i lombi, infilando e ritraendo con
ritmo costante l'erezione d'acciaio.
«Perché non dovrebbe valere anche per il sesso?»
esclamò Max. «Tutto -- il cinema, la musica, la pittura -- è
concepito per influenzarci e suscitare emozione.» Si umettò
due dita e le applicò, divaricate, sulle turgide parti intime
di Penny titillandole con piccoli e rapidi tocchi. Qualunque
pensiero, nella mente di lei, svanì all'istante. «I farmaci
vengono prodotti con l'obiettivo della massima efficacia
possibile» disse lui. «Perché non dovremmo riservare al
sesso la stessa attenzione fin nei minimi dettagli?»
Penny si dimenava come una criminale sulla sedia
elettrica. Aveva le membra scosse, la carne sobbalzante,
pareva una marionetta impazzita. Con la bocca spalancata
e la lingua che lappava nell'aria.
«Non perdere i sensi» le ordinò. «Stai per avere uno
shock.»
Penny sentì posarsi qualcosa sulla fronte.
«La temperatura del soggetto sta precipitando... 36,9...
36,3...» Era un termometro temporale. Una bocca fredda
premette sulla sua. Le labbra di Maxwell. Il suo fiato
tiepido le riempì la gola e le gonfiò i polmoni. «Il soggetto

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ha smesso di respirare» annunciò. Di nuovo con il proprio
fiato le riempì i polmoni. Così come il suo pene riempiva
lei. «Sto cercando di rianimare il soggetto
dell'esperimento.» In tutto questo, Penny aveva vagamente
coscienza del fatto che lui la stava ancora scopando con la
stessa cadenza, con movimenti fluidi e profondi. Le stava
controllando la pulsazione sul collo. «Usa il mio fiato» le
disse. «Usa il fiato che ti infondo per urlare. Esprimi la tua
esaltazione.» Con voce piana, inespressiva, aggiunse: «Non
morire, c'è ancora tanto di quel godimento che ti aspetta...».
Penny aveva capito, alla fine, perché i tabloid lo
chiamavano "Climax-Well".
Non lo avrebbe mai più rivisto nudo. C'era tanto sesso
che la aspettava, forse troppo, ma gli organi sessuali di
Maxwell non avrebbero più avuto alcuna parte in tutto
questo.
Non appena Maxwell si era ritirato in bagno, Penny
aveva avvolto il registratore per ascoltare il proprio grido.
Per cancellarlo. Le schifezze che le erano uscite di bocca
erano degradanti. Era parso a lei stessa di ascoltare un
essere posseduto da un demone. Completamente fuori di
testa. Più che la sua stessa voce, le era sembrato di sentire
l'ululato di una bestia in calore levato all'indirizzo di una
luna primordiale.
Se era vero quel che le aveva detto Climax-Well, era
stata proprio quell'esplosione belluina a salvarle la vita.
Urlando aveva lasciato fluire, senza conseguenze
permanenti, quell'orgasmo che altrimenti avrebbe rischiato
di ucciderla. La funzione di una donna, aveva affermato lui,
non sarebbe quella di trattenere, bensì quella di far fluire.

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Per la sua sopravvivenza è fondamentale che tutto la
attraversi.
Tra una lunghissima seduta di stimolazione e l'altra,
tutte culminanti in orgasmi sconvolgenti, Maxwell la istruì
a dovere. Le fece scivolare dentro un dito umido e disse,
impassibile:
«Questa è l'uretra.» Quindi, ruotando il dito, aggiunse:
«E questa... questa è la spugna uretrale, spesso chiamata
"punto G"».
Il giro turistico delle dita di Maxwell le dava brividi in
tutto il corpo.
Lui si unse le mani con un gel rosato al profumo di rosa
e le infilò dentro due dita. «Quando massaggio la parete
posteriore della volta vaginale...»
E, senza che lei vedesse, fece proprio questo,
evidentemente, perché Penny prese a scattare e fremere di
piacere incontrollabile. Qualunque cosa lui stesse facendo,
lei spinse il bacino verso la sua mano, insaziata.
«Questa» spiegò lui «è la spugna perineale, una massa
di tessuto erettile collegata al clitoride per mezzo del nervo
pudendo.»
Penny non ebbe bisogno di guardare per sapere che il
clitoride si stava indurendo. Benché non fosse stato toccato,
si era inturgidito e pulsava fin quasi a far male.
Massaggiando quel punto che aveva trovato, Max le
stimolava il clitoride a distanza. «La spugna perineale è ciò
che permette alle donne di avere un orgasmo durante il
rapporto anale.» Le infilò un terzo e un quarto dito.
«Ragazza mia, la tua vagina si sta gonfiando come un
palloncino.» Nel momento dell'eccitazione, le spiegò,
l'interno della vagina si espande e si allunga a formare un

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vicolo cieco dietro la cervice. Maxwell le aveva ormai
messo dentro tutta la mano.
Penny guardò in basso e vide solo il polso liscio e
pallido di lui che si perdeva dentro di lei. A quella vista, le
sfuggì un gemito.
Lo sguardo di Maxwell era velato, come perso in
lontananza, nel vuoto. Con la mano, però, stava
decisamente esplorando un mondo nascosto. «Questa credo
sia la cervice» disse. «Se applico una pressione costante...»
Penny si portò d'istinto una mano alla bocca e prese a
mordicchiarsi le nocche, mugolando. Chiuse gli occhi,
imbarazzata dal guaiolare che le montava in fondo alla
gola. Era terribile sentirsi trasportata tanto al di là del suo
controllo razionale. Era spaventoso -- proprio come lei si
era sempre immaginata un attacco di cuore -- ma non
avrebbe mai voluto smettere.
Con voce soffocata dall'ammirazione e dalla meraviglia,
Maxwell disse: «È straordinario! Eiaculi sempre così
tanto?».
Penny riaprì gli occhi e diede una sbirciata. Un rivoletto
di succo luccicante stava erompendo dalla parte alta della
vagina e colava lungo il braccio di Maxwell per poi
sgocciolargli dal gomito. «Scusami» mormorò lei, subito
vergognosa.
«Di che cosa?» le domandò Maxwell, muovendo la
mano in profondità dentro di lei.
«Ti sto pisciando addosso.»
Lui scoppiò a ridere. Con la mano libera raccolse una
minuscola quantità di quell'umore. Se la strofinò tra due
dita, che poi si avvicinò al naso. Annusò e poi assaggiò con
la punta della lingua. «Enzimi» sentenziò «prodotti dalle

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ghiandole di Skene. È per questo che ti esce dall'uretra e
non dalla vulva.» Le avvicinò le dita umide alla bocca e
disse: «Vuoi assaggiare anche tu?».
Per quanto eccitata fosse -- uggiolava e si dimenava
come una bestia --, Penny non ce la fece a leccargli le dita.
Non era obbligata a farlo.
Lui allora gliele cacciò in bocca, impedendole di
deglutire, facendola quasi soffocare. Il sapore delle sue
emissioni vaginali era metallico e salmastro. Per una
brevissima eternità non poté parlare né respirare.
Nella voce di Maxwell risuonò una nota di rimprovero.
«Non avevi detto che avevi il diaframma?»
Non ce l'aveva. Il diaframma di Penny si trovava a
Jackson Heights, chiuso nella cassetta di sicurezza della
Chase Manhattan. Penny non l'aveva fatto per rimanere
incinta. Semplicemente, non aveva pensato che avrebbero
fatto sesso quella sera.
Le dita si ritirarono dalla bocca, lasciandola di nuovo
respirare.
«Non credere di potermi ingannare, signorina.» L'altra
mano di lui continuava a frugare, a disegnare la mappa di
quel mondo segreto. «Se e quando deciderò di sposarmi,
sarà solo per amore. Mi sono sottoposto a vasectomia tanti
anni fa.»
Penny avrebbe voluto spiegare, ma era sfinita. Decise,
quindi, di lasciarsi andare, di sprofondare ancora di più
nella voluttà, mentre lui le titillava il glande del clitoride.
Lui descrisse il modo in cui l'asta del clitoride si addentra
sottopelle. Con una pressione delicata, seguì l'asta fino al
punto in cui si biforcava in due radici o "crura". Queste

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radici o gambi, spiegò Maxwell, avvolgono la cavità
vaginale.
Disse molte altre cose, un lungo e tormentato diario di
viaggio in un territorio che Penny non aveva mai visitato.
Una lezione di storia sul mondo che era dentro di lei.
Maxwell le spiegò che i medici, dai tempi di Ippocrate
fino agli anni Venti del XX secolo, erano sempre stati
formalmente istruiti sul modo di portare le pazienti al
"parossismo". Era pratica comune, tra i dottori e le levatrici,
curare l'isteria, l'insonnia, la depressione e una serie di altre
affezioni con l'uso di dita e lubrificante. Praefocatio matricis
era chiamata questa condizione patologica, ossia
"soffocamento dell'utero". E persino il grande Galeno
raccomandava di manipolare con vigore la vagina fino a
farne sgorgare il fluido accumulato.
I vibratori, secondo Maxwell, erano stati tra i primi
apparecchi domestici alimentati a energia elettrica. Nel
1893, un certo Mortimer Granville aveva guadagnato una
fortuna inventando il vibratore a batteria. Una vasta
gamma di giocattoli erotici del genere veniva normalmente
venduta attraverso i rotocalchi popolari a diffusione
nazionale e il catalogo Sears, Roebuck & Co. Solo dopo il
loro utilizzo in film pornografici espliciti, negli anni Venti, i
dildo-vibratori erano diventati qualcosa di cui vergognarsi.
Galeno, Ippocrate, Ambroise Paré... Penny faticava a
tenere a mente nomi e date come si deve. Dopo il XVI
secolo prese sonno. Sognò di saltare dalla cima della Torre
Eiffel. E precipitava nel vuoto perché Maxwell l'aveva
spinta.
Quando si svegliò, il letto dal lato di Maxwell era vuoto.
Da dietro la porta del bagno chiusa giungeva il rumore

74
dell'acqua corrente.
Era Betty Friedan o Gloria Steinem? Penny non se ne
ricordava, ma le pareva che fosse una delle due ad aver
scritto della "scopata senza cerniera", un tipo di rapporto
sessuale fisicamente appagante che non comportava alcun
legame emotivo. Il sesso con Maxwell poteva essere
esattamente quel che l'autrice aveva in mente. Penny si
sentiva fiacca, come se si fosse presa l'influenza. Ma durò
pochi minuti, passati i quali le venne una fame da lupi.
Mangiarono e scoparono e rimangiarono e riscoparono.
Senza fine. Senza cerniera.
Era ufficiale. Fino a quel momento, Penny non aveva
mai sperimentato un vero orgasmo come quello che
Maxwell era riuscito a estorcere, con le sue blandizie, al
corpo bramoso di lei. Una volta tanto, le descrizioni di
fuochi d'artificio e di convulsioni di cui così spesso aveva
letto su "Cosmopolitan" le parvero un'attenuazione e non
un'esagerazione del vero.
Maxwell, accarezzandole il pube, disse: «Mi piacerebbe
raderti. Gioverebbe all'accuratezza del test». Penny
acconsentì. Sai che roba. Le era già capitato di depilarsi e di
farsi la ceretta per sfoggiare il bikini durante le vacanze di
primavera. «Questa volta, però» aggiunse, «i peli non
ricresceranno.» Usò un preparato speciale la cui formula
era tramandata da millenni in certe tribù uzbeke, una
lozione di aloe vera e crema di pinoli che le avrebbe
lasciato la pelle liscia come quella di una neonata.
Penny guardò desolata i riccioli tosati e gettati tra le
lenzuola. Disse a se stessa che non le era mai piaciuto avere
tutti quei peli.
L'aspetto del sesso che Maxwell sembrava preferire era

75
trovare dei modi per spingerla a una soddisfazione sempre
maggiore. Questa sembrava essere la sua unica fonte di
piacere. Ogni volta che Penny gli domandava se voleva
venire, lui si stringeva nelle spalle e diceva: «Magari al
prossimo giro». Dopo la prima volta, lui non si era mai
neanche preso la briga di togliersi la camicia. In breve
tempo aveva cominciato a indossare un camice bianco da
laboratorio per proteggersi i vestiti.
Per una donna meravigliosa come Alouette, abituata a
rendere gli uomini folli di desiderio, doveva essere stato
esasperante. Penny cercò di non pensare alla bellezza
francese che l'aveva minacciata di morte, ma non era facile.
Alouette aveva trascorso 136 giorni di intimità con
Maxwell. Idem per Gwendolyn. Il "National Enquirer" non
mentiva mai. A meno che non avesse sbagliato il conto, a
Penny rimanevano ancora 103 giorni. Se l'attività sessuale
fosse proseguita a quei ritmi, dubitava di poter arrivare
viva alla fine. Ma quello sì che era un modo stupendo di
morire!
Se solo fosse riuscita a recuperare e cancellare la
registrazione delle proprie grida, la felicità di Penny
sarebbe stata completa. La porta del bagno era ancora
chiusa. E l'acqua continuava a scorrere.
Prese il registratore dal comodino e schiacciò il tasto
per riavvolgere. Premette "play" e udì: "... non fare la
stupida bigotta". Penny si sentiva ipocrita, ma non voleva
che altri umani ascoltassero quella folle giaculatoria che le
era uscita di bocca. Premette di nuovo "play". Questa volta
risuonarono delle grida.
L'acqua, in bagno, stava ancora scorrendo, e Penny
sperava che Maxwell non si fosse accorto di nulla.

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Qualcuno che gridava in francese. Penny non lo capiva,
ma era convinta, sulla base dell'esperienza, che la lingua
fosse quella. Era Alouette, sotto l'effetto dello champagne
rosato e dei misteriosi ingredienti. Penny mandò avanti e
premette "play". "Non perdere i sensi, Penny" diceva la
registrazione.
Mentre ascoltava incantata, dal dispositivo che aveva in
mano partì una suoneria acutissima. Non era soltanto un
registratore: era anche un telefono! Penny ne fu così
sorpresa da farselo quasi sfuggire di mano. Decise di
rimetterlo sul comodino, dove continuò a squillare senza
tregua. Cercò di leggere il nome di chi chiamava, ma sul
display c'era scritto soltanto: "Numero privato".
Penny saltò giù dal letto. Bussò alla porta del bagno.
«Max, il tuo telefono!» Provò a ruotare la maniglia, ma la
porta era chiusa a chiave. Sentiva il rumore della doccia e la
voce di lui che cantava una canzone che Penny non
riconosceva. Dopo un altro paio di squilli, la curiosità ebbe
la meglio. Portò il telefono all'orecchio e disse: «Pronto!».
Silenzio.
La porta del bagno si aprì e Maxwell ne uscì con un
asciugamano avvolto in vita. I capelli grondavano acqua.
Quando vide il suo telefono all'orecchio di Penny, aggrottò
le sopracciglia infuriato e schioccò le dita, facendole segno
di mettere giù.
«Pronto? Corny?» diceva una voce all'altro capo. Una
voce nota. Di donna. «Max, non l'ho fatto apposta» disse
Penny supplichevole. «Ti prego, non farmi del male.»
Consegnò l'apparecchio a Maxwell. La voce dentro al
telefono, intanto, continuava concitata a parlare fortissimo.
Implorante. Maxwell accostò il telefono all'orecchio e si

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mise in ascolto. A poco a poco il suo sguardo vagò verso il
pavimento. Quanto più ascoltava, tanto più la sua
espressione rabbiosa si faceva cupa e preoccupata.
«Non dovrebbe essere un problema» disse. «I principi
attivi non compaiono nelle tabelle federali delle sostanze
pericolose o soggette a restrizioni.» Riprese ad ascoltare,
scuotendo la testa. «Bene, allora trova un nuovo presidente
per la F D A . Nomina qualcuno che garantisca una corsia
preferenziale ai prodotti.»
Penny si rese conto di averla già sentita in televisione,
quella voce. Le riportò alla mente un'acconciatura ordinata,
capelli lunghi fino alle spalle. Un tailleur blu. Una collana
di perle. Una donna che parla da dietro una selva di
microfoni.
Parlando al telefono, ma guardando Penny, Maxwell
disse: «Sono nella fase finale della sperimentazione, al
momento. Abbiamo calibrato la produzione di massa per il
lancio in estate. Entro un mese saremo in mezzo milione di
punti vendita». Volse le spalle a Penny e rientrò in bagno.
«Sai bene qual è la posta in gioco, qui. Non costringermi a
prendere provvedimenti che ti dispiacerebbero.» La porta si
chiuse. Forse proprio per impedire a Penny di ascoltare, la
doccia riprese a gettare acqua a tutta forza.
A meno che Penny non si fosse sbagliata, la voce di
donna al telefono era quella della presidente degli Stati
Uniti, Clarissa Hind.
Penny si domandò quale fosse la nuova brillante
invenzione che avevano quasi finito di sperimentare.
Un continuo e acrobatico esercizio sessuale: questo
sarebbe stato il loro schema, giorno e notte. Max aveva

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sempre qualche nuovo accessorio, qualche pozione, qualche
fantastico lubrificante da usare su di lei.
La portava all'orgasmo finché la schiena le doleva e le
gambe non le funzionavano più, al che lui la stuzzicava,
dicendo: «Abbiamo quasi finito. Un ultimo
aggiustamento». Per poi far presente: «Abbiamo una tabella
di marcia da rispettare...».
La sondava con una mano affondata dentro di lei. «Sto
cercando il plesso pudendo. Dovrebbe essere proprio qui.»
In qualche caso, contrariatissimo, con la mano libera
dispiegava accanto a lei, sul letto, una tavola di anatomia,
come fosse una cartina stradale. Era mancino e aveva
sempre le dita della mano sinistra infilate nella vagina di
Penny come se stesse tenendo il segno in un libro. Voi siete
qui. Con una mano dentro di lei e l'altra che lisciava le
pieghe della carta seguendo con un dito l'itinerario,
Maxwell borbottava, ad esempio: «Le radici dei nervi
pelvici splancnici, ecco, accanto ai nervi erigentes...». Quando
trovava la meta cercata muoveva le dita dentro di lei e
trionfante diceva, magari: «Penny! Sapevi di avere il plesso
coccigeo spostato in avanti di un paio di centimetri?». Dopo
di che, tastando alla cieca, aggiungeva: «Non c'è da
preoccuparsi. A quanto pare, lo scostamento rientra nei
parametri normali».
Ogni tanto ritraeva lo strumento di piacere che stava
sperimentando, di plastica o di metallo che fosse, lo
appoggiava di punta su un angolo del comodino e lo
fletteva leggermente. A volte usava delle tenaglie o dei
morsetti che teneva nel cassetto del comodino. Il peggio era
quando per ottenere la curvatura desiderata percuoteva

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ripetutamente con lo strumento in questione il ripiano del
comodino, sfregiando il lussuoso mobiletto.
Quel che accadeva in quella camera da letto ricordava a
Penny certe foto seppiate del laboratorio di Thomas Edison
a Menlo Park o dell'officina di Henry Ford. Da parte sua,
Penny si sentiva più assistente di laboratorio che fidanzata.
Come un Watson, un Igor. O come un cane di Pavlov.
Mentre Max continuava a trafficare, trascinandola a sempre
nuove convulsioni e raptus di voluttà, Penny, nonostante il
cattivo umore, nonostante il distacco e il risentimento
crescenti, si aspettava quasi che lui a un certo punto
esclamasse: "Eureka!".
Maxwell si dedicava al suo compito, concentrato come
un orologiaio svizzero o un neurochirurgo. Spesso chiedeva
al suo cameriere o maggiordomo di avvicinare al letto un
vassoio di strumenti sterili, in modo da permettergli di non
distogliere l'attenzione dalla procedura in corso. «Calibri!»
berciava, tendendo una mano, e il cameriere/aiutante gli
sbatteva sul palmo lo strumento richiesto. «Asciugami!»
ordinava Max, e il servitore, con un fazzolettino di carta
ripiegato, gli tamponava la fronte per tergerla dal sudore.
A volte Max si chinava tra le ginocchia di Penny con una
torcia elettrica tra i denti, una lente da gioielliere all'occhio
e si dava da fare, la faccia inespressiva tanto era
concentrata. «Ho scelto te» le spiegava, «perché non avevi
mai provato un orgasmo. Un uomo lo capisce. Tu sei
addormentata, e nessuno ti ha ancora risvegliato. Sei
l'esemplare perfetto del tipo di donna che io sto cercando di
aiutare.»
«"Fin troppo a lungo"» recitava Max «"le donne sono
state escluse da tanta parte del piacere che il loro corpo è

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capace di provare."» Stava leggendo da un foglio stampato.
Un comunicato ufficiale. «"Noi riteniamo, confortati in ciò
dal parere di molti medici di professione, che una
grandissima parte delle sofferenze croniche -- fisiche e
mentali -- da cui le donne sono afflitte dipenda da un
accumulo di stress che potrebbe essere smaltito in modo
semplice e rapido avendo a disposizione gli strumenti
adeguati..."»
Persino all'orecchio poco smaliziato di Penny quel
discorso suonava come una sfilza di eufemismi. Maxwell
sosteneva che così doveva essere. Quel discorso serviva a
vendere sesso. Il punto più controverso, però, era che si
volevano vendere alle donne i mezzi per ottenere un
godimento sessuale superiore a quello mai sperimentato
con un uomo. Ad alcuni, quell'annuncio sarebbe sembrato
una panzana, la trita pubblicità di uno spray per l'igiene
intima femminile. Ad altri, però, in particolare agli uomini
cui importava soltanto della propria avidità sessuale, quel
discorso sarebbe suonato come la fine del mondo.
Erano seduti a letto. Da qualche tempo erano sempre a
letto. Penny non indossava mai più di un accappatoio, e
solo quando il maggiordomo serviva loro qualche piatto
prelibato.
«"Proprio per questo"» proseguì Maxwell «"siamo
orgogliosi di presentare la linea di prodotti per la cura
personale Beautiful You..."»
C. Linus Maxwell si apprestava a espandere la sua già
ramificata attività imprenditoriale per entrare alla grande
nel campo delle vagine vuote. Tutti quei gel e quei liquidi
dai colori brillanti sul comodino. La magica lavanda di
champagne rosé. I fluidi concepiti per modulare il

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coefficiente di attrito. Avrebbe messo tutto questo a
disposizione della consumatrice solitaria.
La confezione sarebbe stata rosa, ma non di un rosa
fastidioso. L'intera gamma sarebbe stata commercializzata
con il marchio Beautiful You. Premendo pulsanti sullo
smartphone, Maxwell mostrò a Penny le bozze di alcune
pubblicità, su cui le parole "Beautiful You" campeggiavano
a lettere bianche tutte grazie e svolazzi. Al piede di ogni
immagine, lo slogan era: "Meglio dell'amore". La lavanda,
spiegò Maxwell, sarebbe stata poi venduta in bustine di
polvere solubile in acqua o champagne. E questo era solo
uno di una serie di nuovissimi e strabilianti prodotti per la
cura personale. Presto ogni donna sarebbe stata in grado di
provare orgasmi sconvolgenti a prezzi modici.
Il risultato di tutti gli studi e dell'addestramento
compiuti da Maxwell nel campo dell'erotismo con l'aiuto di
guru e stregoni e cortigiane -- tutti i più antichi segreti del
sesso -- stava per essere messo, sotto forma di merce, a
disposizione della donna moderna. Qualunque ragazza, da
Omaha a Oslo, avrebbe assaporato i tempestosi e spaziali
orgasmi che Penny aveva appena scoperto. C'era da restare
storditi al pensiero di come questa novità avrebbe potuto
cambiare il mondo. Come dimostrato dalle precedenti
fidanzate di Maxwell, con un'adeguata soddisfazione
sessuale le donne possono rifiorire, perdere peso, smetterla
con i farmaci. All'appagamento personale di tutte le donne
mancavano solo poche settimane.
Già solo in quei pochi giorni, rinchiusa nell'attico
parigino di Maxwell, Penny aveva perso quattro chili.
Dormiva come una bambina. Non era mai stata così
rilassata e a suo agio.

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In segreto, era anche un po' orgogliosa di aver
contribuito al progetto. Max stava ancora aggiustando
alcune formule. Era agli ultimi ritocchi. In un futuro molto
ravvicinato le ragazze come lei, ragazze normali, con un
corpo e un viso senza niente di eccezionale, avrebbero
avuto accesso a quel genere di piacere squagliaossa che,
fino ad allora, solo le star del cinema avevano sperimentato.
Passando in rassegna foto di prototipi di accessori
erotici, lubrificanti e camicie da notte, Penny domandò:
«Perché "Beautiful You"?».
Maxwell si strinse nelle spalle. «I maghi del marketing
hanno fatto dei test e dicono che è il migliore. E poi non ha
bisogno di traduzione.»
Giovani o vecchie, grasse, basse... Miliardi di donne
avrebbero imparato ad amare il corpo che si ritrovavano. I
prodotti Beautiful You sarebbero stati una vera benedizione
per il genere femminile. Penny sapeva che se quei prodotti
destinati al consumo di massa avessero funzionato anche
solo la metà di quanto avevano funzionato i prototipi
sperimentati su di lei, C. Linus Maxwell avrebbe ben presto
raddoppiato il suo immenso patrimonio. Scherzando, gli
domandò: «Non ne hai ancora abbastanza, di soldi?».
Eccolo di nuovo, per un istante, quel triste sorriso sulle
sue labbra. «Non lo faccio per il profitto» rispose. «Lo
dimostra il prezzo base a cui ho intenzione di vendere i
prodotti.»
Questa sua impresa aveva a che fare con la madre,
dedusse Penny. Non è forse il sogno di ogni ragazzino
onorare la mamma che ha tanto sofferto? La madre di
Maxwell aveva sgobbato come un mulo per garantire al
figlio una buona posizione di partenza nella vita ed era

83
morta prima che lui potesse dimostrarle la propria
gratitudine. Un po' disturbava l'idea che lui volesse onorare
la madre sommergendo le donne di esperienze sessuali
fantastiche... ma l'intento era nobile e commovente.
All'improvviso le venne una curiosità. Non erano affari
suoi, ma gli domandò: «Senti ancora la sua mancanza? Di
tua madre, dico».
Maxwell non rispose. Riprese a leggere in silenzio il
comunicato stampa.
D'impulso, lei si sporse verso di lui e gli diede un
bacino su una guancia.
«Perché?» le domandò Max.
«Perché sei un figlio tanto amorevole.»
E rieccolo, ancora, quel vago e furtivo sorriso da
orfanello solitario.
«Non è come la cantaride. Non c'è paragone» precisò
lui.
Era una delle loro rare apparizioni pubbliche in coppia.
Stavano cenando in un ristorante chic nel quartiere di Saint-
Germain, nel VI arrondissement. Come al solito, il loro
tavolo al lume di candela era il centro dell'attenzione
generale. Persino gli alteri parigini li scrutavano senza
pudore.
La cantaride o Lytta vesicatoria, le stava spiegando
Maxwell, è uno scarabeo verde smeraldo da cui si ricavava
il favoleggiato afrodisiaco. Gli insetti morti ed essiccati
venivano ridotti in polvere finissima che poi veniva
mescolata a una bevanda. La miscela era causa di una
grave infiammazione del tratto urinario. Era questo il
leggendario effetto che si presumeva inducesse nelle donne
la smania di essere penetrate. In realtà, l'effetto era

84
eccitante quanto un avvelenamento per ingestione di
tossicodendro.
«Questa» disse Maxwell, rigirandosi tra le dita una
capsula rosa «è tutt'altra cosa.»
Aveva estratto la nuova invenzione da una tasca pochi
istanti prima. Come tutti gli altri oggetti, la pillola rosa era
un prodotto della nuova linea Beautiful You. Grossa più o
meno quanto un uovo di pettirosso, pareva una caramella.
Un qualcosa da mettere in una cesta pasquale. Aveva il
colore delle gomme da masticare.
Penny gliela tolse dalla mano. «E io dovrei ingerirla?»
Maxwell rise della sua ingenuità. Scosse la testa e disse:
«Ma no, cara, è una supposta vaginale pensata apposta per
accrescere il desiderio femminile».
Guardando Penny che si rigirava l'ovulo tra le dita,
aggiunse: «Se noti, è leggermente appiccicosa all'esterno.
C'è uno strato di silicone impregnato di un leggero
stimolante alle erbe. Anche il pene, entrando nella cavità
vaginale, se viene a contatto con la supposta beneficerà del
piacevole effetto».
Penny la schiacciò tra le dita. Era morbida. E nel palmo
della mano si rivelò più pesante del previsto. Sorrise con
aria maliziosa, raccolse il tovagliolo posato in grembo e si
tamponò delicatamente gli angoli della bocca. A un
cameriere di passaggio domandò: «Excusez-moi, dov'è la
toilette?».
Di ritorno dal bagno, Penny scorse la sua nemica
giurata: Alouette. Era seduta a una banquette in un angolino
appartato, per non esporsi all'attenzione dei presenti. Aveva
la faccia smunta, le guance più scavate di quel che Penny
ricordava. Gli occhi dell'attrice parevano infossati.

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Le acrobazie da camera da letto della settimana
precedente, invece, avevano donato a Penny una tranquilla
fiducia in se stessa. Si avvicinò sfacciatamente al tavolo
della rivale. L'ovulo rosa era dentro di lei, a compiere le
magie che Maxwell vi aveva infuso. Penny guardò
Alouette, così sciupata, e disse: «Ti trovo bene».
«No, ti sbagli» ribatté l'attrice. «Sto malissimo, ed è
tutta colpa di Max.»
Penny le rivolse un'occhiata indagatrice: «Mi stai
pedinando?».
Alouette sospirò. Si passò una mano tra i lunghi e
sontuosi capelli.
Penny non poté fare a meno di notare che piccole
ciocche si erano staccate restando impigliate tra le dita. E il
tavolo, come la parte vuota del sedile, era già coperto da
una ragnatela di capelli caduti.
«All'inizio volevo salvarti, topolina» rispose Alouette,
«ma vedo che ormai gli hai permesso di ridurti a una
stupida troia.»
Penny a quella parolaccia ebbe un sussulto.
«Malgrado i miei avvertimenti, ti sei lasciata stregare
da Maxwell.» Gli occhi di Alouette traboccavano di
compassione. Non c'era rancore nel suo tono di voce. «Eri
qualcuno, prima. Ci hai messo poco a buttare via i tuoi
sogni per lasciarti ridurre alla tua connasse affamata.»
Penny fece per andarsene, ma Alouette le domandò:
«Di' un po': te l'ha già data la supposta nera?».
«Quale supposta nera?» domandò Penny, insospettita.
L'attrice, però, si limitò a sbuffare divertita. «Ci sarà da
ridere» tagliò corto.
Quando Penny fu di nuovo al tavolo, Maxwell non si

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alzò per aiutarla a sedersi. Le fece invece segno di
avvicinarsi e di porgergli la mano. Gliela prese e la tenne
teneramente per un istante. Ne baciò il dorso per poi
posarle qualcosa sul palmo. Penny aprì le dita ed eccolo lì:
un ovulo nero. Sembrava identico all'altro per dimensioni e
forma. Solo il colore era diverso.
«Rosa per la vagina» spiegò Maxwell «e nero per il tuo
bel culetto. Meglio semplificare le cose: tutta la gamma di
prodotti Beautiful You si baserà su questo codice
cromatico.»
Da brava, Penny si diresse per la seconda volta in
bagno.
Prima ancora che tornasse al tavolo, i due ovuli stavano
già cominciando a fare effetto. Maxwell la aiutò a sedersi e
si riaccomodò. Consultarono il menu.
Tutto cominciò con un piacevole bruciore in mezzo alle
gambe seguito da deliziose contrazioni sempre più intense,
finché Penny sentì dentro qualcosa di famelico che con
denti meravigliosamente teneri la mordeva e la divorava.
Le sfuggì un sospiro abbastanza forte da attirare
l'attenzione dei presenti. Teste ben acconciate si girarono a
guardare. Per salvare la faccia, Penny si portò il tovagliolo
alla bocca e finse un colpo di tosse. Preferiva che la si
pensasse tubercolotica piuttosto che in preda a una serie di
orgasmi multipli.
«Non preoccuparti» disse Maxwell. «Non ci saranno
conseguenze permanenti. Il rivestimento di silicone è molto
soffice.»
Qualcosa si agitava e risaliva dentro di lei. «I due ovuli
sono magneti in terre rare» spiegò Max. «Non potevo
darteli tutt'e due insieme perché la loro attrazione reciproca

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è fortissima.» Prese la penna e si preparò a buttar giù
qualche appunto. «Presso l'antica tribù peruviana dei
Chichlachi venivano dette "pietre sposate", perché quando
si avvicinano è quasi impossibile separarle.»
In effetti, l'ovulo nero premeva contro la parete
anteriore del retto di Penny. Quello rosa si era bloccato
contro la parete posteriore della vagina. Benché rivestite di
silicone e inserite in due orifizi ben distinti, quelle pietre si
erano ritrovate. In quel preciso istante, la sottile parete di
muscoli che separa le due cavità, con tutta la sua fittissima
rete di terminazioni nervose, era schiacciata, compressa tra
quelle due potenti calamite che sfregavano contro la
sensibilissima membrana intermedia.
Gustandosi la reazione di Penny, il genio gongolante
fece un cenno a un cameriere. «Solo la tua sensibilissima
spugna perineale li separa. Sei inerme. Tutto il tuo sistema
nervoso erogeno è sotto pressione.»
Per non gridare, Penny cominciò a mordicchiarsi
meticolosamente le unghie. I capezzoli le si drizzarono al
punto che i seni parvero quasi levitare dalle coppe del
reggiseno imbottito.
«Sei ancora una ragazzina» disse Maxwell. Osservava
con studio ogni sua reazione. «Se non riesci a reggere tutto
il potenziale del tuo corpo di donna, ti capisco.» La stava
provocando, sfidandola ad affrontare quella prova in
pubblico. Mentre coppie di gente raffinata, tutt'intorno,
cenavano e chiacchieravano tranquille, Penny era scossa da
ondate di orgasmi, da un'alluvione di energia erotica.
Al tavolo si presentò un cameriere che disse: «La
signora vuole forse ordinare?».
Le pareva di avere dentro, all'altezza del bacino, pianeti

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che vorticavano e collidevano. Un'enorme marea montava,
minando il suo equilibrio mentale. Serrò le gambe, nel vano
tentativo di bloccare il fiotto che minacciava di prorompere.
In tono divertito, Maxwell disse al cameriere: «Questa
sera, la signora apprezzerebbe una bella bistecca molto
spessa». Poi, rivolto a lei, aggiunse: «O gradisci piuttosto
una porzione di lingua sugosa?».
Mentre gli spasmi la facevano fremere da cima a fondo,
Penny sentì la punta di una scarpa di Maxwell che risaliva
tra le sue gambe. Dalla caviglia al ginocchio, la levigata
durezza si insinuò sempre più su fino a stuzzicarle il pube.
Le tornò in mente il loro primo incontro: lei riversa sul
tappeto a guardare la propria immagine tutta scarmigliata
nella punta lucida della scarpa su misura di Maxwell.
Penny non riusciva a parlare. Con mani tremanti prese
l'orlo del vestito e lo sentì bagnato. Anche il tovagliolo che
aveva in grembo era zuppo. Ignorando il cameriere,
allontanò il piede di Maxwell e sia pur a fatica si alzò in
piedi. Aggrappandosi agli schienali delle sedie,
disturbando i danarosi occupanti, arrancò per la terza volta
verso i bagni. Le gambe le cedevano, fiaccate dalle
convulsioni di piacere. Quando era quasi alla porta, le
ginocchia le si piegarono, e Penny cadde a terra. Era sfinita.
Con i capelli davanti alla faccia, salì a quattro zampe gli
ultimi gradini per rifugiarsi in quel santuario piastrellato.
Chiusa al sicuro in un cubicolo, si sollevò la gonna fradicia
e si infilò dentro due dita. Lo sentiva, l'ovulo rosa, ma non
riusciva ad afferrarlo. Il silicone era troppo viscido.
Inarcando la schiena, Penny si infilò due dita nell'ano e
tentò invano di localizzare l'ovulo nero.
Una voce alle sue spalle disse: «Non puoi farcela a

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toglierteli da sola». Era Alouette. La diva del cinema
l'aveva seguita ed era nel cubicolo con lei. Se ne stava lì a
osservare con distacco il travaglio erotico di Penny. «L'anno
scorso» confessò Alouette «mi trovavo esattamente in
questi bagni, ed è stato un aiutante di sala a salvarmi. Che
ragazzino coraggioso! Come si fa con il veleno dei serpenti,
mi ha risucchiato l'ovulo nero dal derrière.»
Spingendo in avanti il pube denudato, Penny con una
voce ridotta a un guaito disse: «Ti prego».
Alouette esaminò la sua vulva nuda e commentò con un
fischio sommesso. «Si capisce perché Maxwell è tanto
attratto da te, topolina. Hai la passera più bella che io abbia
mai visto.» Si inumidì le labbra. «Stupenda.»
Le secrezioni di Penny sgocciolavano a terra, dove
cominciavano a formare una pozza.
«Lasciati andare» la esortò Alouette. «Solo con il flusso
più intenso dei tuoi umori femminili puoi scalzare la pietra
dell'amore dalla sua sede!» Alouette si inginocchiò sulle
piastrelle e serrò le mani sui fianchi di Penny. Applicò la
sua bocca di diva del cinema alla vagina grondante della
più giovane donna e cominciò a succhiare. Penny si spinse
in avanti, sistemandosi su quel bel faccino come in sella a
un cavallo. Sentiva le dita di Alouette che le esploravano il
retto.
A poco a poco, la stimolazione si attenuò. Alouette
staccò la bocca dal pube di Penny e sputò l'ovulo rosa nella
tazza del gabinetto. Privato dell'ovulo corrispondente,
quello nero scivolò fuori senza difficoltà, preso tra le dita
dell'attrice. Alouette lo mostrò a Penny, perché lo
esaminasse, prima di gettarlo come l'altro nell'acqua. Le
due calamite si accoppiarono con una forza spaventosa, e

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Alouette tirò l'acqua. Facendo una stima dei danni subiti
dal masque di Penny, disse: «Non ringraziarmi, topolina. Un
giorno rimpiangerai che io non ti abbia lasciata morire di
piacere». Andò davanti a uno specchio e ripulendosi dal
rossetto sbavato disse: «È già troppo tardi per te. Tra poco
sarai anche tu, come tutte noi, sua schiava».
Quando non erano intenti a degustare cibi raffinatissimi
in mezzo a gente illustre, facevano la spola, con autista, tra
l'attico parigino di Maxwell e il suo château nella valle della
Loira, dove lei vagabondava per saloni echeggianti e
osservava antichità preziosissime appartenute in
precedenza a chissà quante persone famose. C'era un che di
claustrofobico nell'essere celebri. Gironzolava nel giardino
a parterre dello château, sorvegliata a vista da uomini
armati di mitraglietta appostati sul tetto e da telecamere a
circuito chiuso che documentavano ogni suo movimento.
Penny si era morsicata a sangue le nocche a furia di
soffocare grida estatiche. Pensava che crogiolandosi per
alcuni mesi in un'overdose di piacere sarebbe rimasta
appagata a vita. Di tanto in tanto le capitava di meditare su
qualche questione più importante, tipo la carestia in Sudan,
ma poi Max le infilava di soppiatto qualche altra nuova
diavoleria, e la mente di Penny ridiventava una tabula rasa.
L'euforia cancellava ogni cosa. Non le restavano più
energie per piangere sull'impasse della sua carriera di
avvocato o sul fosco futuro dei suoi genitori che
invecchiavano nel Nebraska. O sui cambiamenti climatici
globali. Era come incagliata dentro il suo corpo, in
quell'istante presente fatto di meravigliose sensazioni. Il
passato non esisteva, il futuro neanche, e Max aveva il
potere di tenerla in quello stato. Sotto le sue mani, il mondo

91
crollava. Non c'era nulla al di là di Parigi, del letto, del suo
clitoride pulsante.
Stava ottenendo tutto quello che, secondo quanto aveva
imparato nella vita, avrebbe dovuto renderla felice -- vestiti
di Gucci, sesso da urlo, notorietà internazionale --, eppure
si sentiva ogni giorno peggio. Non era certo d'aiuto il fatto
che tutti si aspettassero di vederla in stato di grazia.
Nessuno era interessato ai problemi di una Cenerentola
delusa: si presumeva che lei vivesse per sempre felice e
contenta. Questo, però... non aveva nulla a che fare con la
grande missione che lei aveva sempre sperato di trovare
nella vita.
Era con una certa ansia che faceva il conto alla rovescia.
Restavano solo 87 giorni.
Alla sua età Penny avrebbe dovuto lasciarsi andare,
aprirsi al mondo e vivere le sue piccole disavventure. Si
sarebbe voluta trovare a una delle feste devastanti che la
sua amica Monique stava probabilmente organizzando in
quel preciso istante e sbronzarsi all'inverosimile. Si sarebbe
persino adattata a una festa mista della Sigma Chi, con
barilotti di birra e affiliati che minacciavano le compagne di
studi con le proprie erezioni permanenti.
Nell'attico o allo château, quando erano soli, Max non
aveva mai voglia di parlare. Voleva soltanto testare su di lei
quei suoi aggeggi tantrici. Penny concluse che doveva
essere stressato. A un mese dal lancio sul mercato della
linea Beautiful You, bisognava curare tutto nei minimi
dettagli. Lei, però, cercava di risollevargli l'umore. Faceva
battute di spirito. Si complimentava con lui per le auto, i
capelli, i vestiti, ma lui pareva insensibile alle lusinghe.
Neppure il favoleggiato shopping nella capitale francese

92
era tanto divertente. Anche perché erano settimane che
entrava e usciva da tutte le boutique eleganti. I più
importanti stilisti facevano a gara per farle indossare i
propri vestiti. Qualunque abito provasse, le dicevano
sempre che stava benissimo. Le offrivano persino del
denaro purché sfoggiasse la loro griffe in occasione di
eventi mondani esclusivi. Era tutto così fasullo... Penny
sapeva di essere orribile: quella gente era solo in cerca di
pubblicità. Aveva il collo troppo corto e grosso. E le tette
troppo piccole. Anzi, non erano neanche grandi uguali. E
aveva i fianchi troppo larghi. Gli specchi dei camerini non
mentivano.
Prima che lei diventasse famosa, diverse persone a New
York l'avevano esplicitamente derisa per il suo aspetto
fisico, ma almeno avevano detto la verità.
L'unica parte del suo corpo davvero bella era quella più
intima, ma Penny non poteva certo chiedere a Christian
Lacroix di disegnarle qualcosa che gliela valorizzasse.
Quand'era in giro a far compere, cercava regali per
Max, per farlo un po' contento, ma era un'impresa ardua.
Che cosa poteva donare a un uomo che possedeva già tutto
e tutti? Lui sembrava di buon umore solo se un prototipo o
una nuova formula scatenavano in lei un piacere ancora più
intenso. Quanto più lei si eccitava, tanto più lui era
soddisfatto. Penny, allora, si risolse a fargli l'unico regalo
possibile.
Una sera, un certo giocattolino -- simile a una pigna e
progettato per espandersi dopo l'introduzione, ispirato a un
qualche gingillo precolombiano -- non produsse i risultati
previsti, ma Penny non lo diede a vedere. Era piacevole, ma
niente di più. Penny temeva quasi di essere ormai

93
assuefatta. Forse soffriva di una specie di affaticamento dei
centri del piacere. Quando si avvide della delusione di
Max, non poté fare a meno di forzare un po' la propria
performance. Prese ad agitarsi per il letto come un leone
marino, sbatacchiando le braccia. Latrava come una cagna
e starnazzava come un galletto.
Al culmine dell'orgasmo simulato a fin di bene,
Maxwell le disse: «Smettila».
La guardò severo. Tirò il cordoncino di seta cui era
fissato il giocattolo, che scivolò fuori tra le gambe di Penny.
Come un bambino imbronciato, riavvolse il cordoncino
intorno a quell'oggetto, dicendo: «Non credere di potermi
mentire. Uno scienziato è prima di tutto un acuto
osservatore. La tua pulsazione non è mai salita oltre i 105
battiti al minuto. La tua pressione arteriosa non si è scostata
di una tacca da quando abbiamo iniziato».
Chiaramente deluso, posò il dispositivo malriuscito sul
comodino. «La cosa più preziosa, per me, è il tuo riscontro
sincero e senza filtri.» Premette un pulsante per chiamare il
maggiordomo. «Lasciamo perdere, per stasera. Una serata
sprecata.»
Maxwell prese il telecomando e accese la T V . La
spaziosa camera da letto fu invasa da rumore di spari e
stridio di pneumatici. Senza staccare gli occhi dallo
schermo, disse: «Non devi mai più fingere, con me. Mai
più».
Sempre fissando la T V , aggiunse: «Se avessi voluto
risultati fasulli, avrei continuato a condurre i test sulle
prostitute».
In seguito, quella stessa notte, qualcosa riscosse

94
bruscamente Penny dal sonno. Un rumore soffocato.
Trattenne il respiro, con l'orecchio teso nel silenzio della
camera da letto. L'aria condizionata muoveva le tende
davanti alle finestre. Max era disteso accanto a lei,
addormentato tra le lenzuola di satin, e l'orologio sul
comodino segnava le tre e diciotto. Prima che lei potesse
risprofondare nel mondo dei sogni, il rumore si fece sentire
di nuovo: una voce maschile che biascicava.
Maxwell stava parlando nel sonno. Con parole che
erano poco più di grugniti, disse:
«Vieni.» O aveva forse detto: "Vivi"? Penny non era
sicura di aver capito bene. Si rialzò, appoggiata a un
gomito, e gli si avvicinò. Maxwell riprese a borbottare.
«Fìdati» disse.
Gli si avvicinò ancora un po'. Troppo. Come allarmata,
la voce di lui, rauca, nel panico, gridò: «Phoebe!». E la forza
della sua angosciosa invocazione la lasciò stordita. Quella
parola le risuonava nella mente. "Phoebe." Maxwell non
disse altro.
A quanto pareva, dunque, sotto l'apparenza tranquilla
di C. Linus Maxwell si agitava qualcosa di oscuro. Nel
petto scarno e pallido di quello scienziato batteva un cuore
sensibile. Se solo fosse riuscito a confidare i suoi segreti,
pensò Penny immalinconita, forse dalla loro relazione fatta
solo di sesso, per quanto grandioso, sarebbe sbocciata una
vera storia d'amore.
Non finiva mai di stupirsi per la rudezza del
comportamento di Maxwell. In apparenza, come uomo, era
rimasto un ragazzino secchione fissato con la scienza. Un
despota inaccessibile, che soffocava le emozioni e gli affetti.
La sua pelle era inodore e fredda come metallo, come se

95
fosse un robot di un film di fantascienza. Ma quando la
stimolava...
Quando Max la stimolava era come ascoltare un grande
tenore all'Opéra di Parigi, come cenare all'aperto in un
delizioso ristorante italiano. Anche se non la amava,
quando le stimolava le ghiandole Penny non poteva farci
niente. Nonostante la freddezza e la crudeltà di Maxwell,
almeno in quei momenti lei sentiva di essere innamorata di
lui. Quando con i prodotti Beautiful You risvegliava in lei la
passione, Penny lo guardava nei remoti occhi azzurri e
sentiva di non desiderare altri che lui al mondo. Era come
se lui l'avesse stregata.
Penny, però, era portata a credere che far l'amore fosse
qualcosa di più del semplice trafficare con le terminazioni
nervose fino a far schizzare sostanze chimiche in giro per il
sistema limbico. Il vero amore, secondo lei, era qualcosa di
profondo e duraturo. Un sentimento che dava sostegno e
nutrimento. L'"amore" che Max suscitava in lei sembrava
evaporare insieme agli effetti degli orgasmi. Per quanto
deliziose e potenti fossero quelle sensazioni, i prodotti
Beautiful You offrivano solo un surrogato dell'amore.
La più grande paura di Penny era che le donne del
mondo non sapessero distinguere le due cose.
L'indomani le venne l'ispirazione. Telefonò a sua madre,
a Omaha.
«Com'è Parigi?» La domanda della madre era ironica.
«Ti prego, dimmi che non ti sono venute le mestruazioni!»
«Come fai a sapere che sono a Parigi?» domandò Penny.
Nella chiamata internazionale, la madre schioccò la
lingua. «Tesoro, sei tutti i giorni in prima pagina sul
"National Enquirer" con la Torre Eiffel sullo sfondo!»

96
Penny rabbrividì. Settimane prima aveva telefonato in
ufficio e si era data malata. Aveva detto a quelli di B B &B di
essersi presa l'epatite C. Dovevano proprio vivere tra le
nuvole per non aver scoperto che lei aveva detto il falso.
«Ti chiamano "la Cenerentola del Nerd"» urlò la madre.
Gridava sempre durante le telefonate internazionali.
«Mamma...»
«Hai visto la foto della presidente Hind che hanno
pubblicato la settimana scorsa?» riprese a gridare la madre.
«È sciupatissima!»
«Forse ha l'epatite» ipotizzò Penny.
«E quell'altra, Alouette D'Ambrosia, sembra conciata
persino peggio.» La madre la mise in guardia. «Non
lasciartelo scappare. Le donne che rompono con lui
finiscono male.»
Penny cercò di rimettere in carreggiata la
conversazione. «Proprio per questo ho telefonato, mamma.
Hai per caso qualche vecchio numero del "National
Enquirer"?»
«Dimmi una data» rispose fiera la madre. «Ho la
collezione completa dal 1972 a oggi.»
«Mi prendi in giro.»
«È il capolavoro della mia vita» disse la madre,
orgogliosa.
«Voglio fargli una sorpresa» disse Penny «ma non so
granché di lui: della sua infanzia, di quel che gli piace o non
gli piace, cose così.»
«Perché non usi il wikirobo, lì?»
«Wikipedia, ma'. Non serve a niente.» Con voce cupa e
rassegnata Penny spiegò che "Climax-Well" aveva un'intera
équipe di hacker dedita unicamente a setacciare Internet e a

97
gestire la sua immagine pubblica. Controllava ogni minima
informazione reperibile sul suo conto. «Mi interessano
piccoli aneddoti di quando Internet non esisteva ancora.»
La madre pareva dubbiosa. «È l'"Enquirer", mica il
"New York Times".»
«Ti prego, mamma.»
«Che cosa ti interessa, di preciso?»
Penny ci pensò su un attimo. «I nomi degli animali
domestici che aveva da bambino. Vecchi hobby. Magari
qualcosa di tenero che abbia a che fare con sua madre. Si
chiamava Phoebe?»
«È morta.»
«Lo so» disse Penny. «Ma sarebbe carino scoprire
qualche nomignolo. Il suo gusto di gelato preferito. Una
ninnananna. Qualcosa del genere.»
La madre di Penny pareva galvanizzata, felicissima di
essere stata reclutata per quella causa. «Corro subito in
cantina.»
«Grazie, mamma.»
La verità era che Penny, simulato un orgasmo, si ritrovò
a metterli in dubbio tutti. Non si fidava più delle proprie
reazioni fisiche. A ogni nuova sessione notturna, temeva di
reagire troppo o troppo poco alle applicazioni di Maxwell.
Non l'aveva mai amato veramente, ma amava quel che lui
riusciva a suscitare nel suo corpo. Ora, però, persino gli
orgasmi cominciavano ad avere meno presa su di lei.
Si domandò se non fosse stato proprio questo a mettere
fine alla sua storia con Clarissa Hind. E con la principessa
Gwen. E con Alouette.
Mancavano solo 67 giorni.
Volente o nolente, Penny continuava di tanto in tanto a

98
fingere. Certe sere neanche il torrido ricordo della bocca
rovente di Alouette attaccata tra le cosce la portava
all'orgasmo. A volte era convincente, ma il più delle volte
no. Lui la conosceva più di quanto lei conoscesse se stessa.
Quando veniva scoperta -- tradita da una pulsazione
bassa, dal pH della sua traspirazione, dalla lividezza della
pelle -- Maxwell sfilava sommariamente il prototipo in uso.
Strappava i relativi fogli dal taccuino e li riduceva
platealmente a pezzettini che poi rovesciava nel cestino dei
rifiuti accanto al letto. Accendeva il suo computer portatile
e si metteva a rivedere la bozza del materiale pubblicitario
della linea Beautiful You.
Una volta, per disinnescare la rabbia silenziosa di lui,
Penny indicò il suo taccuino e domandò: «Ci sono tutte, lì
dentro?».
«Chi?» domandò Max, senza alzare gli occhi da una
versione provvisoria di uno spot pubblicitario per la T V . A
Penny quei filmati parevano tutti uguali: donne dal sorriso
maniacale e dagli occhi luccicanti che tornavano a casa dal
negozio o dall'ufficio postale con la stessa confezione fucsia
di Beautiful You dal logo a ghirigori. La soave voce
femminile fuori campo, alla fine di ogni spot, miagolava tra
le fusa: "Mille milioni di mariti stanno per essere
rimpiazzati!".
«Tutte le tue amanti» chiarì Penny. «Sono catalogate lì
dentro?» Accennò con la testa al taccuino, pieno di
incomprensibili appunti stenografici. «La presidente, la
principessa, l'ereditiera dell'acciaio...»
Penny già sapeva che la risposta era affermativa.
Maxwell accumulava dati come un forsennato.
«Quello è solo l'ultimo di una lunga serie» rispose lui,

99
continuando a far scorrere sullo schermo del computer
copie delle pubblicità che sarebbero comparse su tutte le
riviste femminili del mondo. Il logo Beautiful You in basco,
francese, hindi, afrikaans, mandarino... «Sei sicura di voler
sapere tutto?» le domandò freddamente.
Non ne era sicura, ma annuì.
«Possiedo, indicizzati e classificati, tutti i dati scientifici
relativi a settemilaottocentoventiquattro individui di sesso
femminile di età compresa tra i sei e i duecentosette anni.»
Si voltò a guardarla e aggiunse: «Prima che tu possa
telefonare alle autorità preposte alla difesa dei minori,
preciso che al momento dell'esperimento con la bambina di
sei anni io avevo la sua stessa età e si giocava al "dottore"
nella cantina della sua casa di famiglia a Ballard». L'ultra-
bicentenaria, invece, era una mistica che viveva quasi in
cima all'Everest.
Maxwell sorrise. «Ho appreso tecniche capaci di dare
piacere a qualsiasi donna» disse, senza enfasi. Non stava
vantandosi, non era sua intenzione. «Giovani e vecchie.
Grasse e magre. Di qualunque origine etnica. Di qualunque
cultura. Io sono in grado, in modo rapido ed efficace, di far
provare a qualunque donna un godimento mai neanche
sognato.»
Tornando a guardare lo schermo del computer, riprese:
«Ho raccolto dati sulla reattività sessuale di liceali,
universitarie e giovani professioniste. Ho studiato gli
stratagemmi erotici di prostitute sacre tagike, di
sessoterapeute tedesche, di danzatrici del ventre sufi... Le
donne di cui tu sei a conoscenza, le ricche e famose, sono
solo la punta del mio iceberg sessuale. Quando mi sono

100
portato a letto loro ero già a conoscenza di migliaia di
metodi per procurare piacere».
Penny calcolò che con cifre del genere, ben poche delle
partner di Maxwell dovevano aver ricevuto più di qualche
minuto della sua attenzione. «È per questo che hai fatto la
corte a Clarissa Hind?»
«No, quando stavo con Clarissa e Alouette le mie
ricerche erano ormai concluse. Su di loro ho condotto i miei
test. E ho approfittato dei loro agganci. Per non parlare
della pubblicità. È stato molto utile conoscere intimamente
la presidente e la regina d'Inghilterra. E il prestigio dato dal
fatto di conoscerle ha attratto nella mia orbita molti altri
soggetti su cui condurre i test.»
«Soggetti come me?» domandò Penny, onorata e,
insieme, disgustata al pensiero.
Maxwell la guardò con simpatia. Era seduto a gambe
incrociate sul letto, con il computer aperto davanti a sé.
«No, mia cara, tu sei il mio giro d'onore.»
Lui aveva concepito la più straordinaria collezione di
accessori erotici di tutti i tempi e sapeva che funzionavano.
Certi, anzi, funzionavano troppo bene. Una donna normale
rischiava persino di non sopravvivere al piacere che
davano. Quell'ultimo giro di test in vivo aveva il fine di
attenuare la potenza dei giocattoli più pericolosi. Ora la
linea Beautiful You poteva essere lanciata sul mercato senza
timore di denunce. «Prima che tu possa sentirti
strumentalizzata» proseguì Maxwell, «pensa al grande
piacere che hai provato in mia compagnia. Sei stata
coccolata dalla stampa di tutto il mondo. E il tuo
guardaroba ha assunto dimensioni di tutto rispetto.»
Penny non poteva certo negare queste affermazioni, ma

101
capiva anche perché una donna come Alouette avesse
deciso di chiedere un risarcimento di 55 milioni di dollari
per il danno emotivo e biologico. «Se può servire a farti
sentire orgogliosa» disse Maxwell «pensa a quante vite
innocenti hai contribuito a salvare.» Premette alcuni tasti
sul computer, caricando un'altra serie di pubblicità. «Anche
se "innocenti"» aggiunse «è da intendersi in senso lato.»
Dopo ogni maratona di beatitudine sessuale, nel giro di
qualche ora, Penny cominciava a sentire i muscoli tesi e
indolenziti. Come se avesse scalato l'Everest o attraversato
a nuoto la Manica. In alcuni casi, i più estremi, si sentiva
come in preda alla sindrome post-polio. Fare sesso, in
quello stato, era fuori discussione; doveva prima rimettersi,
e Maxwell lo sapeva. Non la costringeva. Per adottare certe
posizioni, le gambe di lei dovevano essere sciolte come
quelle di una contorsionista da circo. Uno strappo
muscolare o la rottura di un tendine avrebbero causato
l'interruzione dei test per molte settimane.
L'attico di Maxwell era frequentato da un esercito di
fisioterapisti. Per accelerare il recupero, c'erano
massaggiatori che lavoravano per ore su di lei con oli
profumati, affondando nella sua carne le loro mani forti e
sapienti. Esperti agopuntori facevano miracoli
sforacchiandola con i loro sottilissimi aghi. Solo quando era
pienamente ristabilita Maxwell la sottoponeva al successivo
accessorio o afrodisiaco. Le infliggeva quella dolce e
consensuale tortura, lasciandola ad ansimare dolorante,
dopo di che toccava all'équipe medica rimetterla in
condizioni tali da affrontare un nuovo round di piacere
invalidante.
«Non voglio che l'affaticamento ti ottunda i sensi» le

102
disse Maxwell. Mentre un turco corpulento conficcava
brutalmente le dita nel dolente interno coscia di Penny,
Maxwell se ne stava lì vestito di tutto punto con un
completo su misura da dodicimila dollari e la esaminava
da capo a piedi in cerca di eventuali lividi. «È di
fondamentale importanza che tu sia perfettamente riposata
e reattiva nel momento della sperimentazione.»
Si avvicinò ulteriormente al lettino da massaggio su cui
Penny giaceva supina, luccicante di unguento. Le grandi
labbra erano arrossate e gonfie per gli eccessi della notte
precedente. Maxwell si chinò su di lei e posò le labbra sul
clitoride infiammato.
Penny ebbe un sussulto.
«L'acido lattico dev'essere smaltito. Sei ancora troppo
sensibile» concluse Max. «Non faremo altri test per almeno
un paio di giorni.»
Nel corso delle settimane, Penny aveva perso il conto di
quanti prodotti Beautiful You avesse testato su di lei. Ben
pochi tra questi si erano rivelati mediocri, scialbi, non degni
di nota. Tutti gli altri l'avevano fatta godere fino allo
sfinimento. Temendo per la propria incolumità, aveva
chiesto a Max di ridurre gli effetti di certi ritrovati. Lei era
una ragazza tonica, sana, appena laureata in legge. Su una
donna più anziana o con qualche problema di salute
pregresso, i più potenti tra quei prodotti rischiavano di
essere fatali.
Le sere in cui era troppo provata per insistere con le
sperimentazioni erotiche, Penny se ne stava a letto e
chiedeva a Max di leggerle dai taccuini i risultati delle sue
ricerche. Fresca di massaggio, gustando un calice di Côtes
du Rhône, si raggomitolava nel suo nido di seriche

103
lenzuola, e Max, seduto su una sedia accanto al letto, in
smoking e papillon, si umettava un polpastrello e sfogliava
i suoi quadernetti finché non trovava un soggetto adeguato.
«"Data: 17 giugno 20..."» attaccò lui, una volta. «"Sede
dell'esperimento: centro commerciale Mall of America,
Minneapolis, Minnesota. Prodotto: Beautiful You, articolo
216, detto 'Modella-ortaggi', un apparecchio per il
trattamento del cibo che trasforma rapidamente qualsiasi
vegetale crudo in un giocattolo erotico."» Con voce piatta e
robotica, Maxwell spiegò di essersi trovato in piedi accanto
al suo banchetto pieghevole, con un flusso ininterrotto di
clienti che gli passavano davanti. Alcuni si fermavano a
guardarlo mentre inseriva carote e zucchine crude in un
apposito vano di plastica. Con un unico e svelto movimento
abbassava una leva, e lame invisibili scolpivano gli ortaggi,
finché dalla macchina non sbucava un fallo progettato per
dare il massimo della soddisfazione. Con i passanti che
cominciavano a formare una piccola folla, Maxwell aveva
fatto osservare che le lame interne potevano essere regolate
in modo da produrre un giocattolo erotico più o meno
lungo, più o meno grosso. Altre lame incidevano solchi e
creste che avrebbero stimolato l'orifizio vaginale. Dal
pubblico si levavano sghignazzi e gridolini divertiti, ma
nessuno sembrava volersene andare. Una voce dal fondo
aveva gridato: "Funziona anche con le melanzane?".
Maxwell aveva assicurato di sì.
"E con le patate?" aveva domandato un'altra cliente.
Max aveva cercato tra il pubblico una volontaria.
Sempre seduto sulla sedia accanto al letto, con il
taccuino posato sulle gambe compostamente accavallate,
proseguì nella lettura. «"Soggetto numero 1769, Tiffany

104
Jennifer Spalding, 25 anni, madre di tre figli, casalinga.
Altezza: 170 cm. Peso: 61 kg."»
Nel bel mezzo del Mall of America, aveva regolato le
lame tramite manopole. «Quanto dev'essere grossa?» aveva
domandato, ammiccando lascivo. «La patata, intendo.»
Lei era arrossita. «Non troppo grossa. Media.»
«Liscia o lavorata?»
Tiffany Jennifer aveva per un attimo tamburellato
pensosa con un dito su una tempia. «Lavorata.»
«Creste o nodi?»
«Tutt'e due non si può?» aveva domandato lei.
La folla tratteneva il fiato. Lui aveva sollevato il
coperchio dell'apparecchio e inserito il tubero nel vano
apposito. Come un mago sul palcoscenico, aveva chiesto
cerimoniosamente alla volontaria di abbassare la leva che
metteva in funzione le lame. «È la prima volta, per lei?» le
aveva domandato Maxwell.
Lei aveva annuito, tremante. La realtà aveva preso
l'andamento rallentato di quando si fa sesso.
Per calmarla, le aveva cinto i fianchi con un braccio, le
aveva preso le mani e le aveva posate entrambe sulla leva e
le aveva coperte con la propria. «Deve azionarla con un
movimento rapido e fluido.» Lui aveva contato fino a tre e
poi, insieme a Tiffany Spalding, aveva abbassato la levetta,
tra spettatori a bocca aperta.
Quindi, Maxwell aveva sollevato il coperchio ed estratto
un fallo perfetto. Elegante e leggermente curvo, non aveva
più nulla del grezzo tubero dell'Idaho inserito poco prima
nell'apparecchio. Aveva aggiunto che, con adeguate
precauzioni igieniche e previa cottura, i vegetali potevano
passare tranquillamente dal campo alla camera da letto e di

105
lì alla tavola imbandita. Una giovane madre con un budget
risicato avrebbe ammortizzato la spesa nel giro di poche
settimane.
«Adesso» aveva proclamato «potete spassarvela e poi
preparare un bel pranzetto!»
Alcuni avevano ridacchiato, ma l'applauso era stato
unanime. Contanti alla mano, si erano fatti avanti per
comprare. Nessuno l'aveva riconosciuto. Nessuno lo
riconosceva mai. I travisamenti che adottava in quelle
situazioni erano semplici ed efficaci. Neanche quando gli si
staccavano i baffi finti durante un cunnilingus, come spesso
accadeva, i soggetti degli esperimenti capivano chi era quel
tizio con cui erano lì a fare i numeri. Non era possibile che
lo sconosciuto in cerca dei suoi peli facciali posticci tra le
lenzuola fosse proprio C. Linus Maxwell, l'uomo più ricco
del mondo.
Nell'attico parigino, mentre leggeva, Maxwell si accostò
con la sedia al letto. Mentre con una mano teneva aperto il
taccuino, infilò l'altra tra le lenzuola e con le dita trovò
l'inguine esausto di Penny.
«Il Modella-ortaggi vendette alla grande. Una volta
esaurite le scorte, però, c'era ancora una cliente da
accontentare.» Il soggetto numero 1769 gli aveva
domandato: «E io?». La voce ridotta a un mormorio basso,
intriso di sesso.
Nella camera da letto dell'attico, Maxwell seguì con la
punta delle dita i morbidi profili della passerina
sovraffaticata di Penny. Con piccoli movimenti circolari, le
fece scaturire dall'intimo un profluvio di umori.
Il soggetto 1769 aveva ancora in mano il suo tubero
scolpito. Occhieggiando da sotto le lunghe ciglia

106
sventolanti, gli aveva detto: «Sei bravissimo come
piazzista». Sfoggiava un rossetto Pink Palace della Avon e
teneva la patata fallica vicino alle labbra con aria allusiva.
Dal tono della pelle, Maxwell aveva stimato che
mancassero diciassette giorni all'estro. Stando ai suoi
appunti, lei gli aveva domandato: «Non è che hai
qualcos'altro di interessante da farmi vedere? Qualche altro
accessorio che fa risparmiare».
Maxwell, continuando a leggere con voce piana e
finanche monotona, affondò le dita, mungendo le calde
secrezioni di Penny. A differenza di quanto accaduto fino a
poco prima, però, Penny non si irrigidì. Anzi, gemendo,
sospinse il proprio pube strapazzato contro la mano di lui.
«"Il soggetto 1769"» proseguì Max, leggendo ad alta
voce «"ha partecipato con grande disponibilità e trasporto
alle prime sperimentazioni della lavanda a base di
champagne..."»
E non finiva lì. Maxwell andava avanti a leggere per ore,
ma quando la sua mano cominciava a fare le solite magie,
Penny smetteva di ascoltare.
Un'altra sera che erano in pausa, Maxwell avvicinò una
sedia al letto su cui Penny era distesa. Quella sera, tra
ricordi di geishe, cantanti e cortigiane, le lesse anche di
un'anonima casalinga reclutata praticamente a caso.
«"Soggetto numero 3891"» esordì. «"Sede dell'esperimento:
auditorium della Hillside Elementary School, Bakersfield,
California. Data: 2 ottobre 20..., ore 19.00."»
Per sottoporre a test l'articolo 241, era in cerca di una
donna più robusta della media. I tessuti vaginali hanno una
capacità di assorbimento straordinaria e per sfruttare
questa particolarità, Maxwell aveva inventato il Burst

107
Blaster, un vibratore dotato di quattro cavità, o serbatoi, da
riempire di fluidi di vario tipo. L'utente poteva
programmare il dispositivo perché rilasciasse, durante
l'utilizzo, quantitativi predeterminati di caffè, ad esempio,
per una rapida botta di energia, o sciroppo per la tosse, se
si desiderava un effetto più euforizzante. O antibiotici,
addirittura. O magari un olio essenziale per lubrificare
meglio, secondo necessità. Dalla punta del vibratore il
fluido sarebbe sgorgato nel momento desiderato. Per
verificare l'efficacia del sistema, Maxwell aveva attaccato
bottone con una madre single. Per separarla dal branco
delle altre madri, le aveva fatto qualche complimento sul
suo aspetto. La tattica aveva avuto successo, e in breve
Maxwell se l'era portata in un'aula vuota della scuola.
«"Lì, tra i gerbilli in gabbia"» lesse Maxwell «"ho
blandito il soggetto."»
Penny ascoltava a occhi chiusi e sospirava. Conosceva
bene l'articolo 241, le cui secrezioni alla caffeina l'avevano
aiutata a restare presente a se stessa in tante notti di test di
resistenza.
«"Nonostante il suo indice di massa corporea, il
soggetto dell'esperimento ha reagito con grande
entusiasmo all'articolo."» La voce di Maxwell era
monotona, come sempre. La dizione priva di enfasi. «"Sin
dalla prima applicazione dell'articolo, il soggetto ha
cominciato inspiegabilmente a invocare un certo Fabio, a
intervalli regolari."»
Penny sorrise, perché Maxwell, evidentemente, non
aveva colto il riferimento culturale.
«"La frequenza cardiaca del soggetto è salita in breve a
157 battiti al minuto"» proseguì Max. «"La conduttività

108
della sua pelle è aumentata bruscamente."» Si interruppe
per voltare pagina. «"Va osservato qui che lo scienziato
responsabile dell'esperimento ha fatto molta fatica a
mantenere il pieno controllo del prodotto. Il soggetto
numero 3891 ha dimostrato una forza eccezionale a livello
pelvico e ha cercato di impadronirsi dell'articolo per
completare da sé il protocollo."»
Penny si figurò la scena. Una donna sola che lottava con
il pallido e scheletrico Maxwell per il controllo su un
giocattolo sessuale sputacchiante. E una docile platea di
criceti e conigli in gabbia che assisteva alla pantomima.
«"Proprio al culmine dell'orgasmo del soggetto -- 25
respiri al minuto, pressione arteriosa 175/102 -- le
condizioni del test hanno subito una profonda
alterazione."» Decifrando la propria scrittura ormai
sbiadita, Maxwell continuò a leggere. «"L'applicazione del
prodotto può dirsi riuscita su tutta la linea, ma la sede
dell'esperimento si è dimostrata al di sotto degli standard
di privacy richiesti."»
Era entrato qualcuno. «"Nell'aula hanno fatto il loro
ingresso inaspettato i decani della scuola religiosa"» disse
Max, «"probabilmente messi in allarme dal trambusto
causato dalla procedura."»
In una nota scientifica a margine aveva scritto: «"Per la
cronaca, il soggetto del test doveva essere dotato di un
corpus spongiosum eccezionalmente sviluppato. All'ingresso
degli ospiti inattesi, il soggetto 3891 ha cominciato a
espellere dall'uretra un fiotto copioso di umori, investendoli
in pieno"».
Picchiettò rapidamente con le nocche glabre sul
clitoride ipersensibile di Penny, in un modo che la portò

109
sull'orlo della follia. Le salì una sommessa risata. La
poveraccia di Bakersfield aveva inondato di fluidi i
dirigenti della scuola religiosa della figlia. Penny si
domandò se almeno il fugace piacere provato grazie
all'articolo di Maxwell l'avesse adeguatamente
ricompensata e, avendo sperimentato di persona la potenza
del Burst Blaster, concluse che quella donna di certo non si
era pentita del furtivo incontro.
Nella camera da letto dell'attico entrò il maggiordomo
con un vassoio d'argento. Adagiata tra i cuscini e le
morbide lenzuola di satin, Penny prese una flûte di
champagne e, bevendo un sorso di quel vino gelato e
frizzante, fece un cenno con la testa verso il taccuino che
Maxwell teneva aperto sulle ginocchia. «Leggimene
un'altra» supplicò.
Infortuni e sfinimento non erano gli unici ostacoli
possibili per le sperimentazioni di Maxwell. Quando
arrivava il periodo mensile di Penny, lui si regolava di
conseguenza. Vedendola in preda ai crampi, interveniva
con compresse di morfina e bicchierini di dolcissimo sherry.
Lei, allora, sprofondava in un dormiveglia crepuscolare,
ignara di tutto, a parte di Maxwell che, seduto accanto a lei,
continuava a leggere ad alta voce dal suo taccuino.
«"Soggetto numero 3828. Sede dell'esperimento:
Zuccotti Park, Lower Manhattan. Data: 17 settembre 20..."»
Era la descrizione di come Maxwell aveva sedotto una
giovane idealista arrivata pochi giorni prima
dall'Oklahoma per partecipare alle iniziative di Occupy
Wall Street.
«"Il soggetto ha dichiarato di avere 19 anni, età che le ho
chiesto di dimostrare esibendo la patente, perché non

110
volevo certo pregiudicare i miei campioni statistici con dati
raccolti su genitali pre-adulti e non ancora pienamente
formati."»
La scena si era svolta a tarda notte. Mentre la maggior
parte dei contestatori dormiva, Maxwell aveva illustrato al
soggetto dell'esperimento l'articolo numero 223 della linea
Beautiful You, denominato Love Lizard. Era una semplice
ma efficace prolunga linguale a telescopio. Una protesi di
silicone da applicare alla lingua, pensata appositamente per
accrescere il raggio d'azione durante il coito orale e
arrivare a sollecitare con vigore la cervice.
La mente di Penny, nonostante la deriva narcotica, lasciò
emergere un chiaro ricordo di quell'ingegnoso e innovativo
prodotto e di come aveva consentito all'appendice orale di
Maxwell, relativamente poco sviluppata, di raggiungere
profondità sbalorditive. La memoria delle attenzioni di
Max suscitò in lei uno spasmo di lussuria incontrollabile.
«"In una simbolica rappresentazione di teatro politico di
strada"» proseguì Maxwell «"il soggetto ha chiesto allo
scienziato di essere sottoposto all'esperimento incatenato a
gambe e braccia divaricate ai cancelli di sicurezza del
palazzo della Bank of America."»
Le immagini scorrevano vivide nella mente alterata di
Penny. La ragazza era nuda sotto la luna, con le membra
lisce divaricate. Il soggetto 3828 si offriva come tenero
sacrificio sull'altare del capitalismo. Maxwell si era
inginocchiato ai suoi piedi e, dopo aver regolato la protesi
alla massima estensione, aveva applicato la bocca
spalancata al pube del soggetto.
«"Il trucco consisteva nel muovere la lingua come
quando si canta"» leggeva Maxwell. «"Per non stancare i

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muscoli delle guance, bisogna tenere la mandibola
rilassata. Già dopo una brevissima applicazione del
prodotto, il soggetto ha manifestato approvazione
gridando: 'Offro il mio corpo a voi, il 99 per cento!'."»
Max raccontò di come tali grida avessero attirato una
folla di barbuti militanti antagonisti, tutti smaniosi di
partecipare al test. «"Sono bastate poche istruzioni"»
declamava Maxwell, leggendo i suoi appunti, «"dopo di che
tutti i presenti si sono dimostrati perfettamente in grado di
utilizzare l'articolo 223."»
Nella mente di Penny i confini tra fantasia e realtà
evaporarono. Immersa nei sogni indotti dalla morfina, si
sentiva slinguazzata da legioni di irsuti attivisti politici. La
voce di Maxwell si faceva strada in un'allucinazione dove
sul posto arrivava una squadra della polizia antisommossa
di New York. Senza volto, dietro le visiere in kevlar dei
caschi, sguainavano i manganelli e minacciavano la sagoma
spudoratamente nuda del soggetto dell'esperimento.
«"Al termine dell'esperimento"» concluse Maxwell «"il
soggetto era in grado di intendere e di volere e ha
dichiarato di aver ingerito una quantità imprecisata della
droga comunemente nota come L S D . Ha chiesto di essere
liberata dalle catene e il denaro necessario ad acquistare un
biglietto aereo di sola andata per Tulsa, Oklahoma..."»
Sedi di allenamenti olimpici. Ignari club di lettrici.
Circoli del ricamo. Era in posti del genere che Max reperiva
i soggetti dei suoi esperimenti, ed era a questa élite
femminile che anche Penny, ormai, apparteneva.
Dopo che Maxwell, per l'ennesima volta, l'ebbe
rimproverata per aver simulato un orgasmo, Penny si
sorprese a fare l'esatto opposto. Per quanto Maxwell si

112
desse da fare per appagarla, lei cominciò a trattenere gli
abituali e rassicuranti gemiti di piacere. Evidentemente,
voleva punirlo, ma non le importava: Penny cominciava a
nutrire un certo risentimento. Nel mondo di Max le pareva
di essere un mero strumento il cui unico scopo era quello di
registrare il grado del successo di lui.
Una sera Maxwell stava provando su di lei un paio di
morsetti per capezzoli, sottoponendola a scosse a basso
voltaggio che le sparavano su e giù per la spina dorsale
onde sinusoidali di eccitazione diramantisi poi lungo le
gambe e le braccia. Scintille di estasi elettrica le partivano
dalla punta delle dita e raggiungevano la sommità del capo
illuminandolo come un'aureola. Penny, però, si era
ripromessa di restare in silenzio per tutta la durata di
quell'ordalia e cercava di distrarsi pensando alle poche
domande dell'esame di avvocato che ancora ricordava. Si
costrinse a recitare a mente il Discorso di Gettysburg,
parola per parola.
A un certo punto, senza preavviso, lui disattivò le
batterie e fece apposta a rimuovere senza riguardi le
pinzette dai capezzoli. Senza dire nulla, riavvolse i cavi in
un ordinato gomitolo e ripose l'apparecchio. Solo a quel
punto le rivolse la parola. «Sei arrabbiata con me, vero?»
«Non dare la colpa a me» rispose Penny. «Magari è quel
tuo aggeggio che è un bidone.»
«Un bidone?» Gli uscì una risata nasale. Consultando
gli appunti che aveva preso sul taccuino, disse: «Signorina
Harrigan, lei aveva una pulsazione di 187 battiti al minuto.
La temperatura anale era di 37,9 °C. Se questo "aggeggio"
fosse anche solo di pochissimo più potente, ti avrebbe

113
causato una trombosi coronarica o un'embolia cerebrale
mortale».
L'ultima volta che Penny vide Alouette D'Ambrosia di
persona fu a una festa in boulevard St Germain. L'attrice
era accompagnata da un romanziere molto attraente, Pierre
Le Courgette, che aveva ricevuto proprio quell'anno il
premio Nobel per la letteratura, e i due formavano una
coppia di grande impatto. Penny li perse di vista, ma verso
la fine del ritrovo Alouette le si avvicinò. Guardandosi
intorno nervosamente, la diva francese le domandò: «Dov'è
Max?». Senza attendere risposta, le sussurrò: «Ho sbagliato
a non fidarmi di te. Noi, tu e io, dobbiamo essere alleate. Se
non ci alleeremo, saremo in gravissimo pericolo».
Era la prima volta che le due donne si incontravano
dopo l'episodio delle pietre sposate. La francese aveva
un'aria denutrita, era ridotta al solo involucro della persona
di un tempo. Non c'era il minimo sentore di alcol nel suo
alito, ma era chiaramente molto agitata. Il pesante zaffiro
che portava al collo luccicava sulla scollatura smagrita.
«Non potrai più andare con altri uomini.» Maxwell, intanto,
aveva fatto il suo ingresso da una porta all'altro capo del
salone. Aveva come sempre il capo chino, dato che stava
prendendo appunti sul suo quadernetto. Non si era ancora
accorto di Alouette, quando lei disse a Penny: «Noi, la
nostra comunità di sorelle, cioè tutte le amanti ripudiate,
siamo il suo harem sparso per il mondo».
Irrigidendosi, dato che Maxwell era sempre più vicino,
aggiunse: «Sono stata candidata a un nuovo Oscar, perciò
devo partire, ma il mese prossimo parleremo più
approfonditamente, va bene?».
Penny farfugliò: «Mi farebbe piacere». Le tornò

114
spontanea alla memoria la sensazione dell'adorabile bocca
di Alouette premuta contro di lei.
«Non ti piacerà quel che ho da dirti» avvertì l'attrice.
Ma lo sguardo che rivolse a Penny era affettuoso.
«Diventeremo amiche per la pelle, vero?» Quando Maxwell
era ormai a pochi passi da loro, Alouette baciò Penny su
entrambe le guance e tornò in tutta fretta dal proprio
cavaliere.
Senza togliere gli occhi dal corpo sinuoso di Penny,
Maxwell aprì un cassetto del comodino da cui prese
qualcosa che si portò davanti a un occhio come una specie
di maschera. Era una videocamera, con cui eseguì una lenta
panoramica, andata e ritorno, delle carni nude di lei.
Penny non aveva nulla da temere. In un certo senso,
sapeva di essere al sicuro. Se quelle immagini fossero
divenute di dominio pubblico, a trovarsi in imbarazzo
sarebbe stato soprattutto Maxwell. Spesso, di mattina,
risvegliandosi, lo trovava intento a preparare un nuovo
apparecchio per soddisfarla. Infilandoglielo da qualche
parte, poi, le illustrava i rituali magico-sessuali delle tribù
sudanesi. C'erano anche strumenti più elementari. Certe
ganasce rosa imbottite, ad esempio, con cui le allargava le
natiche tenendole divaricate secondo necessità.
Scrutandola attraverso la lente della videocamera, la
rassicurò: «Non agitarti, mia cara. La videocamera non sta
filmando». Le disse: «Voglio solo che tu abbia la sensazione
di essere osservata». Che lui la stesse filmando o meno,
Penny si godette il piacere di essere oggetto di così tanti
riguardi. Si domandò se tutti i soggetti degli esperimenti di
Maxwell avessero apprezzato quelle attenzioni al pari (se
non più) delle sensazioni fisiche da lui scatenate.

115
Durante il giorno, la luce del sole ricadeva sul letto
filtrando da alte finestre, e Penny si accoccolava sotto le
lenzuola lisce, nuda, mangiucchiando una brioche,
sorbendo latte da un bicchiere e studiando i suoi vecchi
libri di testo sulla responsabilità civile. Le case di moda,
ormai, si premuravano di portarle i vestiti a domicilio.
Erano gli stilisti in persona che si presentavano per le
prove. Se lei glielo chiedeva, Maxwell la portava all'opera o
a teatro; per il resto, solo di rado Penny lasciava l'attico.
Al lancio della linea Beautiful You mancavano poche
settimane, e lei si domandò se Maxwell, a quel punto,
avrebbe ancora avuto bisogno di lei. Non si faceva illusioni.
Come era evidente dalla sua studiata freddezza, Maxwell
non l'aveva mai amata. A lei era bastato avere una persona
tanto brava a cogliere d'intuito i suoi bisogni. Spesso Max
congedava l'équipe di massoterapisti e provvedeva lui
stesso al trattamento. Era capace di accarezzarle i muscoli
tesi e di indovinare con precisione il suo umore. Maxwell
ascoltava il respiro di Penny con la stessa attenzione che
riservava alle sue parole.
Era arrivato a conoscerla così bene che Penny raramente
aveva bisogno di parlare.
Ecco un uomo che la trovava estremamente affascinante
e che si dilettava a condurla a vertiginose esperienze di cui
lei non aveva neanche mai sospettato l'esistenza. Godeva di
lei e le era riconoscente.
Miliardi di persone lo ammiravano -- gli uomini più
ricchi e, presumibilmente, più potenti al mondo -- e lui
guardava Penny. Lo sguardo della sua videocamera, gli
scarabocchi stenografici dei suoi appunti attribuivano alla
vita di Penny un valore ancora più grande. Sotto l'occhio

116
attento di Maxwell, si sentiva sicura. Apprezzata. Amata,
però, no.
A due settimane dal lancio della gamma Beautiful You,
Max si interruppe all'improvviso nel corso di una seduta
erotica. Con rassegnata lentezza estrasse delicatamente
l'apparecchio in uso e lo posò sul comodino. Togliendosi i
guanti di lattice, disse: «Non mi sei più di alcuna utilità».
Prese il taccuino. «L'integrità... l'autenticità... la veridicità
delle tue reazioni è ormai compromessa.»
Mentre prendeva appunti, guardò l'orologio che aveva
al polso. «Il mio jet è già pronto. Troverai tutti i tuoi vestiti
e gli effetti personali, già imballati, a bordo dell'aereo che ti
aspetta.»
Maxwell si voltò verso di lei, che aveva il capo ancora
reclinato sul cuscino di satin bianco. Le premette due dita
su un lato del collo e le misurò la pulsazione. «Il pilota ha
l'incarico di portarti ovunque tu desideri.» Penny non ebbe
modo di obiettare. Non aveva avuto neppure il tempo di
chiudere le gambe.
Maxwell annotò gli ultimi dati statistici sul battito
cardiaco e la temperatura. «Ti ho depositato cinquanta
milioni di dollari su un conto svizzero cifrato. Ti darò gli
estremi del conto se mi assicuri che non proverai mai più a
rintracciarmi.» A rincarare la dose, guardandola, aggiunse:
«Non dovrai neanche parlare delle esperienze che hai fatto
con me, altrimenti bloccherò il tuo accesso al conto
svizzero».
Trascorse un silenzio eterno. Malgrado
quell'ostentazione di freddezza, Penny sentì che il cuoricino
del piccolo Maxwell si stava spezzando.
«Hai capito?» le domandò lui, dopo un po'.

117
Ricacciando indietro le lacrime, Penny chiuse le gambe
e non rispose. La repentinità di quel ripudio l'aveva colta di
sorpresa.
«Hai capito?» ripeté lui urlando. La violenza delle sue
parole la riscosse dallo shock e la indusse ad annuire.
«Il soggetto presenta una mancanza di reattività»
borbottò, annotando qualcosa. Non c'era dubbio: la sua
voce era rotta dall'angoscia.
Penny si rannicchiò dal suo lato del letto, voltandogli le
spalle. Era finita. Aveva sognato di essere Cenerentola, ma
all'improvviso era arrivata l'ora di svegliarsi.
«Sappi che il tuo contributo allo sviluppo della linea
Beautiful You è stato molto significativo» riprese Maxwell,
con voce piana. «Come segno della mia riconoscenza, ti ho
lasciato un piccolo regalo a bordo del jet. Spero possa
essere di tuo gradimento.»
Penny sentì muoversi il letto. Maxwell si era alzato. Lo
sentì avviarsi a piedi nudi sul tappeto. «Dovrai lasciare
questa casa entro un'ora.» La porta del bagno si richiuse.
Erano passati esattamente 136 giorni.
A bordo del Gulfstream, sull'unico sedile che non fosse
ingombro di pesanti valigie e altri bagagli, Penny trovò un
pacchetto avvolto da un nastro. Era stata cacciata
dall'attico così in fretta da avere appena il tempo di
mettersi addosso un cappotto di cincillà lungo fino ai piedi
e di calzare un paio di Prada dal tacco alto. Sola, nella
silenziosa cabina dell'aereo, prese il pacchetto e se lo posò
in grembo. Il pilota annunciò che il decollo era imminente, e
Penny si allacciò la cintura di sicurezza.
In volo, sciolse i nastri che chiudevano il pacchetto e lo
aprì. Conteneva una catenina d'oro. Quando la tolse dalla

118
confezione, una pietra oscillò a un'estremità. Era il rubino,
trasformato in pendente, che Maxwell aveva sempre
portato incastonato in un anello: il terzo rubino più grande
mai estratto nello Sri Lanka. La confezione conteneva anche
una libellula di plastica fucsia. Le ali erano spesse e
morbide e recavano impresso lo svolazzante logo Beautiful
You. Penny esaminò le antenne e la zona ventrale
dell'animaletto di plastica.
Quel souvenir a forma di libellula era un giocattolo
erotico. La versione industriale di un prototipo che Max
aveva testato più volte su di lei. E Penny non si stancava
mai degli effetti indotti dallo sbatacchiare di quelle alucce.
Quelle sedute scatenate figuravano tra i suoi ricordi più
intensi, e osservando quell'aggeggio sentì salire un rossore
alle guance.
Un fondo fiduciario di cinquanta milioni di dollari.
Vestiti sufficienti a riempire un grande magazzino. No,
concluse Penny tra sé, non era stata trattata poi tanto male.
Si mise al collo la catenina e sentì il peso del gelido rubino
tra i seni caldi. Poi, infilata la libellula di plastica in una
tasca del cappotto, cominciò a organizzare il primo giorno
della sua nuova vita. Una bottiglia di champagne già
stappata frizzava nel secchiello del ghiaccio, a portata di
mano. L'assistente di volo gliene versò un bicchiere e, su
richiesta di Penny, spense le luci della cabina.
Sorseggiando il vino secco effervescente, sentì una
punta di tristezza al pensiero di come, solo pochi mesi
prima, quel gusto avesse per lei qualcosa di speciale. Tra
orgasmi multipli a ripetizione e champagne, Max l'aveva
viziata fino a sfinirla.
Era viziata, ma non disperata. Per cominciare, le

119
prospettive future la elettrizzavano. Quella sera lo
champagne non le sarebbe bastato per addormentarsi.
Quando fu certa che in giro non ci fosse nessuno
dell'equipaggio, aprì il cappotto e si infilò la libellula tra le
gambe, sistemandola nella posizione prevista. Decine di
volte aveva visto Maxwell compiere quell'operazione. Tra le
varie caratteristiche, il prodotto si riscaldava
automaticamente fino alla temperatura ideale. Senza
bisogno di guardare, Penny trovò il pulsante che lo metteva
in funzione.
Penny si domandò in che modo Maxwell avrebbe
occupato il tempo dopo il lancio di Beautiful You sul
mercato. Magari stava già progettando altri prodotti da
aggiungere alla gamma. Magari avrebbe trovato un'altra
fidanzata dai genitali "perfetti" su cui testare i prototipi.
Una che non avesse remore a manifestare la propria
eccitazione.
"Fidanzata", però, non era il termine corretto. "Cavia"
piuttosto.
Nelle tenebre fitte sopra l'Atlantico, Penny si versò un
secondo bicchiere di champagne e si dispose a godere di
quelle deliziose vibrazioni tra le cosce.
Le prime settimane a New York, dopo il rientro,
trascorsero per Penny come in un turbine confuso.
Il denaro assegnatole da Maxwell le giungeva sotto
forma di rendita annua. Penny non poteva ritirare l'intera
somma, ma avrebbe vissuto alla grande per tutta la vita
anche solo con gli interessi che maturavano. Per
precauzione, investì in una piccola casa indipendente
nell'Upper East Side. Quando l'agente immobiliare le aveva
mostrato la soleggiata cucina a piastrelle, l'ascensore in

120
ferro battuto a volute e torciglioni e i caminetti in marmo
scolpito, Penny gli aveva firmato un assegno per l'intera
cifra richiesta. C'era tanto spazio per gli armadi, e il suo
strabordante guardaroba lo riempì quasi per intero.
Al rientro da B B &B , il primo giorno trovò qualcuno con
cui condividere la casa.
Monique, pur professandosi alternativa ed ecosolidale,
fu felicissima di lasciare lo squallido appartamento che
condivideva con due amiche etnicamente diverse sotto il
Kosciuszko Bridge. Prima che Penny potesse ripensarci,
Monique stava già trascinando i suoi scatoloni dal taxi
all'atrio di quella casa di lusso. Il profumo di legno di
sandalo era pervasivo, ma la strana musica di Monique,
tutta un sitar, contribuì a riempire un po' il vuoto. Per
celebrare la prima serata insieme, la neohippie appena
impiantata preparò un banchetto a base di tofu al curry.
Dopo mangiato, le due amiche si spaparanzarono sul
divano nella sala T V . Ciascuna con la sua porzione di pop
corn, guardarono la cerimonia di consegna degli Oscar,
trasmessa in diretta.
Ogni volta che le telecamere, al Kodak Theatre,
facevano una panoramica sul pubblico, Penny non poteva
fare a meno di cercare la faccia pallida da ragazzino e i fini
capelli biondi di Maxwell. Ecco seduto in platea Pierre Le
Courgette, il fidanzato di Alouette. Naturale che ci fosse: lei
era candidata al premio come migliore attrice protagonista.
Penny riconobbe altre facce, persone che l'avevano
snobbata o lumata con lascivia. Le era difficile credere di
essere stata gomito a gomito con quella gente. Quel periodo
della sua vita stava svanendo come un sogno ad alto tasso

121
erotico. Aveva permesso a Maxwell di isolarla in una
fantasia di voluttà che crea dipendenza senza attaccamento
emotivo, ma ora Penny era libera.
A furia di essere continuamente studiata da Maxwell e
giudicata dai riccastri purosangue che incontravano in
pubblico, Penny era diventata insensibile agli sguardi
altrui. A volte, magari, lo sentiva il clic delle macchine dei
paparazzi, ma non reagiva neanche più. Dava per scontato,
ormai, di avere gli occhi di tutti sempre addosso, e si
portava in giro con rilassata nonchalance.
Che dipendesse dalla fiducia in se stessa acquisita di
recente o dai nuovi abiti, si accorgeva spesso degli sguardi
insistenti degli uomini. Quando le capitava di passare per
Lexington Avenue, quasi non si riconosceva nelle vetrine di
Bloomingdale's: quella che vedeva camminare era
un'amazzone dalle gambe lunghissime. Lo strato di adipe
infantile era scomparso. I capelli le danzavano sulle spalle
come un'onda lucente.
A ripensarci, Penny era felice che nella Ville Lumière
non sapessero dell'esistenza del gelato butter brickle.
Davanti alla T V , lei e Monique litigavano
scherzosamente per il possesso del telecomando.
Lanciavano insulti allo schermo, dove cineasti e produttori
di seconda fila esprimevano la loro verbosa gratitudine. Il
vincitore dell'Oscar per il miglior documentario fu
accompagnato dietro le quinte e la rete televisiva mandò in
onda la pubblicità.
Sullo schermo comparve un gruppo di giovani donne
entusiaste e sorridenti radunate intorno a un tavolo. Al
centro dell'inquadratura, la più bella di tutte spegne con un
soffio le candeline di una torta di compleanno, e le amiche

122
le porgono ognuna il proprio regalo. Con un indubbio
effetto comico, si scopre che i regali sono, senza eccezioni,
scatole fucsia dal logo tutto ghirigori e svolazzi: Beautiful
You. Le ragazze si ritraggono sorprese e scoppiano a ridere.
Come chi condivida un segreto grandioso, serrano le labbra
e cominciano a bisbigliare l'una all'orecchio dell'altra. La
festeggiata lancia un grido, come se le confezioni rosa
contenessero il paradiso.
A Penny pareva improbabile che ragazze come quelle --
magre, occhi da cerbiatte, pelle chiara -- avessero problemi
a far innamorare qualcuno. Erano le ultime ad aver bisogno
di comprare quei marchingegni a vibrazione di Maxwell.
All'improvviso, Penny si figurò mille milioni di mogli e
donne single ammalate di solitudine che si strapazzavano
in rassegnato isolamento. Nei casermoni dei ghetti come
nelle fattorie cadenti. Senza più la voglia di incontrare
potenziali partner. Donne che vivevano e morivano senza
intimità né altra compagnia a parte i gingilli Beautiful You.
Invece di essere puttane o madonne, erano diventate zitelle
che si masturbavano in continuazione. A Penny questo non
pareva un progresso per la società.
La pubblicità si concludeva con il familiare slogan; una
voce flautata di donna disse: "Mille milioni di mariti stanno
per essere rimpiazzati!".
«Hanno un negozio sulla Fifth Avenue» disse Monique,
con la bocca piena di pop corn. «Non vedo l'ora che apra,
domani.»
Penny pensò a quel grande negozio. Una fila di donne si
stava già formando e si snodava per due isolati, fin quasi
alla 55 th Street. La facciata dell'edificio era stata rivestita
con uno specchio rosa, in modo che chiunque avesse

123
provato a sbirciare all'interno avrebbe visto soltanto un
lusinghiero e rosato riflesso di sé.
Penny sperava che i prodotti finiti fossero migliori di
quello che Maxwell le aveva lasciato a bordo del
Gulfstream. Si era addormentata per effetto delle sue dolci
pulsazioni. Al momento dell'atterraggio al LaGuardia,
però, si era svegliata e l'aveva trovato rotto. Le due ali della
libellula di plastica si erano staccate, e il corpo di silicone si
era aperto a metà per il lungo. Pareva quasi che
quell'aggeggio si fosse schiuso. Come se avesse subito una
metamorfosi, aveva pensato. Ma sono i bruchi quelli che si
trasformano in farfalle. Le farfalle muoiono e basta.
Depongono le uova sulle foglie dei cavoli e muoiono.
Mentre il pilota si preparava all'atterraggio, Penny aveva
estratto con discrezione i rottami di silicone e se li era
infilati in una tasca del cappotto.
Si ripromise solennemente di andare in cerca di un
amante reale, vero, in carne e ossa, prima di rassegnarsi a
mettersi in fila sulla Fifth Avenue.
«Ehi, fa' attenzione, Omaha!» l'avvertì Monique, prima
di investirla con una gragnola di chicchi di mais unti e
salati.
In T V , Alouette salì agilmente sul palco per ritirare il
suo premio come migliore attrice. L'abito lungo fino a terra
le volteggiava intorno alle gambe toniche. Con le spalle
nude ed erette, il seno proteso nel corpetto senza lacci, era
l'incarnazione della sicurezza di sé e del successo. Era
emozionante guardarla.
«Mio Dio, la adoro» sospirò Monique. «Quel gioiello
sarà vero?»
Nel solco tra i seni dell'attrice pendeva il gigantesco

124
zaffiro.
La telecamera zoomò su Maxwell seduto in platea, più o
meno in decima fila. L'adorabile fanatico sembrava
impegnato con un giochino elettronico. I suoi pollici
danzavano sui pulsanti della scatola nera che aveva in
mano, e lui pareva ignorare il trionfo di Alouette sul palco.
In stridente contrasto, i tanti grandi nomi tra il pubblico
applaudivano in segno di autentica ammirazione. In piedi
dietro il podio di plexiglas, la diva francese, raggiante,
accolse con gratitudine le acclamazioni. Alcuni spettatori si
alzarono in piedi, emulati da tutti i presenti. Una marea
adorante. Quando l'applauso si placò, dandole modo di
parlare, un'ombra di dolore sembrò offuscare per un istante
i tratti delicati di Alouette. Le labbra e la fronte le si
irrigidirono in maniera quasi impercettibile. L'ombra si
dissolse e tornò il sorriso. Nonostante il trucco, aveva la
faccia leggermente congestionata, e alcuni rivoli di sudore
cominciarono a incollarle ciocche di capelli alle guance.
Aveva un'aria leggermente sconvolta, pensò Penny, ma
chi non lo sarebbe stato?
L'attrice riuscì a dire: «Merci» ma ebbe come un
sussulto. «Alors» strillò. Cominciò a boccheggiare.
Stringendo al petto la statuetta d'oro, provò a fare un passo
verso le quinte, ma pareva insolitamente malcerta sui tacchi
a stiletto.
Provò a fare un secondo passo, ma inciampò e si
accasciò. L'Oscar cadde con un rumore sordo e rotolò a
qualche metro da lei. Un brusio allarmato si propagò per
l'auditorium.
«Qualcuno la aiuti!» gridò Monique rivolta allo
schermo.

125
Mentre Alouette era lì stesa sul palco che cercava di
sollevarsi sui gomiti, le gambe cominciarono a tremarle.
Uno spasmo la scosse a partire dai piedi per risalire rapido
alle ginocchia finché entrambe le gambe dalla vita in giù
parvero fuori controllo. Le caviglie a poco a poco si
allontanarono una dall'altra. Era rivolta verso il pubblico.
Le gambe, allargandosi, tendevano il tessuto del vestito.
Per quanto Alouette si sforzasse di tenere l'orlo entro la
soglia della decenza, il tessuto era sottoposto a una
tensione troppo forte e risalì del tutto fino a raccogliersi al
di sopra delle anche. Non portava biancheria intima, notò
Penny. Non la si porta mai con un vestito così stretto e
aderente.
«Ma stai vedendo?» domandò Monique con un filo di
voce. Una mano era sospesa immobile a mezz'aria tra il
contenitore dei pop corn e la bocca spalancata.
A Penny pareva che la pentavincitrice dell'Oscar fosse
in piena crisi epilettica. Scuoteva con violenza la testa da
una parte all'altra, sferzando il palcoscenico con i lunghi
capelli. Gli occhi le si rovesciarono all'indietro fino a
mostrare solo il bianco. Con il petto che sobbalzava e
inarcando la schiena, proiettava i fianchi verso l'alto come
incontro a un amante fantasma.
In un inglese dalla marcata inflessione straniera,
gridava: «No!». Strillava: «Ti prego, no! Non qui!». Lo
sguardo della diva sofferente sembrava fisso su C. Linus
Maxwell.
Fin troppo tardi, la regia interruppe la diretta con una
pubblicità.
In un lampo, la donna ansimante che da quel
palcoscenico squadernava il pube nudo davanti a milioni di

126
telespettatori fu sostituita da un nuovo gruppetto di
ridacchianti ventenni reduci dallo shopping e munite di
sacchetti color fucsia.
Da B B &B non si parlava d'altro. Alouette D'Ambrosia
era morta. Secondo la prima pagina del "Post", le si era
rotto un aneurisma cerebrale mentre si trovava in scena ed
era deceduta prima dell'arrivo dell'ambulanza.
Girava voce che dopo l'interruzione pubblicitaria
d'emergenza le telecamere avessero continuato a
riprendere. Davanti a quel folto pubblico di grandi
industriali, Alouette si era comportata come una bestia in
calore, arrivando al punto di abusare di sé con violenza
servendosi della statuetta dorata. Penny non poteva
crederci. O non voleva. Si diceva che la parte non trasmessa
della scena circolasse su Internet, ma lei non se la sentiva di
guardarla. Semmai, quello scioccante episodio rafforzò in
lei l'impressione che Alouette soffrisse di problemi mentali
molto seri. Era un pensiero triste, ma aveva probabilmente
ripreso a esagerare con le droghe e con l'alcol.
In ogni caso, era una tragedia. Da diversi punti di vista.
Brillstein meditava di fare di Penny un'associata a pieno
titolo. Aveva pensato di nominarla consulente principale
del collegio di difesa nella causa per alimenti intentata
contro Maxwell dalla loro cliente Alouette D'Ambrosia. Lo
studio ci avrebbe fatto un figurone: l'ultima amante
dell'imputato che difendeva l'altra amante ripudiata che lo
aveva denunciato. Questa scelta avrebbe conferito ad
Alouette l'aura di persona offesa e meritevole di
indennizzo. Lo studio B B &B avrebbe vinto la causa, non
senza aver accumulato, nel frattempo, un cospicuo numero

127
di ore lavorative fatturabili. Con la morte dell'attrice, però,
era andata in fumo anche la causa. Lo studio B B &B si
sarebbe dovuto cercare una nuova manna dal cielo, e
Brillstein avrebbe dovuto trovare una nuova vetrina in cui
esporre le doti forensi di Penny.
Brillstein non era l'unico che la teneva d'occhio, da
B B &B . Anche Tad era rientrato in gioco. Tad Smith, che
l'aveva sempre chiamata "Hillbilly". Era il giovane e
sbarbato specialista in leggi sui brevetti, il cui membro
virile era stato assimilato da Monique a un "vermiciattolo".
Dopo la metamorfosi avuta da Penny a Parigi, per effetto
della cura Beautiful You, Tad aveva fatto quasi fatica a
riconoscerla. Audace bellezza mozzafiato, priva di
qualsiasi pudore nel mostrarsi al prossimo, Penny non era
più il cagnolino grasso e puzzolente di nessuno. Ammesso
che Tad avesse ancora una cotta per Monique, a Penny non
aveva detto nulla quando l'aveva invitata a pranzo.
La portò da La Grenouille e la intrattenne con una serie
di aneddoti dei tempi in cui lavorava alla "Yale Law
Review". Dopo pranzo, presero a nolo una carrozza e fecero
un giro nel parco. Da un venditore ambulante Tad le
comprò qualche palloncino, un semplice gesto romantico
che a Maxwell -- con tutta la sua intelligenza -- non sarebbe
mai venuto in mente.
Tad non si curò neppure di alludere alla storia della
"Cenerentola del Nerd". Il "New York Post" era passato da
tempo a tutt'altro. La morte di Alouette, ad esempio.
L'incendio di una foresta in Florida. La regina d'Inghilterra
aveva avuto un attacco di convulsioni nel corso di un
negoziato sui dazi da applicare alle merci prodotte in Cina.

128
Quando la loro carrozza, procedendo al passo, arrivò in
Fifth Avenue, Penny cercò di ignorare l'edificio a specchio
rosa che incombeva all'altezza della 57 th Street. C'era una
fila di clienti in attesa di entrare. La coda si allungava a
perdita d'occhio.
«Guarda» disse Tad. «Non è Monique, quella?»
Penny seguì lo sguardo di Tad puntato su una ragazza
che scalpitava sul marciapiede, con le braccia incrociate sul
petto. La fila era formata da sole donne. Sul sedile della
carrozza, Penny incassò la testa nelle spalle e si lasciò
scivolare il più possibile. Era imbarazzata, delusa,
rassegnata, e abbassò anche i palloncini nel tentativo di
nascondersi.
Tad gridò: «Mo!» agitando le braccia finché gli occhi
della ragazza non lo ebbero individuato.
«Ma ti rendi conto?» strillò Monique. «È persino peggio
di quando ho comprato il BlackBerry!» Il sole di
mezzogiorno luccicava sulle unghie tempestate di strass e
sulle sgargianti perline tribali che le ornavano i capelli.
Tad chiese al cocchiere di accostare al marciapiede.
Come un tempo, Penny si sentì ignorata, relegata al
ruolo di botolo maleodorante della più appariscente amica.
Alzò gli occhi fingendo di essersi accorta solo allora della
sua presenza. Penny sapeva che Monique aveva fatto una
lista di articoli Beautiful You che era ansiosa di comprare e
provare. Le valutazioni messe online dalle primissime
utenti erano positive. Di più: entusiastiche. Nonostante le
scorte accumulate prima del lancio, gli stabilimenti
delocalizzati faticavano a stare al passo con gli ordini. I
pareri elogiativi si diffondevano a macchia d'olio. Sui
media, i commentatori sostenevano che così tante donne

129
cominciavano a darsi "malate" e se ne stavano a casa per
prendersi cura di sé, che a breve termine il prodotto interno
lordo avrebbe fatto registrare un sensibile calo.
Penny era infastidita dai giornalisti televisivi maschi,
che trattavano l'argomento come se fosse una barzelletta
oscena, riferendone con ammicchi e impliciti "aùmm-
aùmm" a ogni pausa.
«Risparmia quei soldi» gridò Tad a Monique. «Jerald
dell'ufficio copyright ha una cotta per te.» Il cavallo si
mosse, irrequieto. Un taxi alle loro spalle suonò il clacson.
«Come, non lo sai ancora?» gridò Monique a mo' di
risposta. «Gli uomini sono obsoleti!»
Quel proclama suscitò una piccola ovazione tra le
donne in coda.
Monique stava dando spettacolo. «Qualunque cosa
possa farmi un uomo, io posso farla meglio!» Schioccò le
dita, sprezzante, facendo scintillare al sole i cristalli
incollati su ogni unghia.
Le spettatrici commentarono con un boato
d'approvazione. Sghignazzi e fischi si levarono a
incoraggiarla.
Il taxi suonò di nuovo. La fila delle aspiranti compratrici
cominciò a muoversi. «Ma un sex toy non ti inviterà mai
fuori a cena!» obiettò Tad, flirtando senza pudore.
«Posso pagarmela da me, la cena!» Un altro passo, e
Monique, insieme alle donne a lei più prossime, fu
inghiottita dal grande negozio rosa.
Come se avesse avuto bisogno di una prova del suo
ritorno nella infida e selvaggia New York, Penny dopo
meno di un mese fu aggredita. In piedi su una banchina
deserta del metrò, tornava a casa dopo aver lavorato fino a

130
tarda sera. Stava pigramente decidendo se fosse meglio
ordinare del cibo thailandese oppure una pizza, quando
due braccia la afferrarono da dietro. La stretta al torace e al
collo le mozzò il fiato, e la sua visione si ridusse a una
flebile coscienza delle soprastanti lampade al neon.
Era a terra supina, con i pantaloni larghi Donna Karan
abbassati sulle Jimmy Choo. A posteriori, dell'aggressore le
sarebbe rimasto impresso soprattutto il fetore di urina
stantia e di vino aromatizzato alla pesca. Non sarebbe mai
riuscita, però, a capacitarsi della rapidità dell'accaduto. Era
lì che pensava al pollo alla citronella, e un istante dopo si
era sentita penetrare dal membro eretto di quello
sconosciuto.
Le tornò in mente Maxwell. Non perché l'aggressore
avesse mostrato curiosità o un approccio clinico, ma per la
totale impersonalità dell'assalto.
Si era ormai quasi arresa, e sentiva la rabbiosa durezza
di quell'uomo farsi largo dentro di lei, quando
all'improvviso lo udì urlare.
Più veloce che ad aggredirla, il tizio balzò in piedi, con
le mani intorno al lurido pene che pendeva dalla patta
aperta dei calzoni logori. Guaiva come un dannato, con le
lacrime agli occhi, e a capo chino si esaminava il membro.
Di primo acchito, Penny pensò che qualche pieghina di
pelle tenera gli si fosse impigliata nella cerniera. Prima
ancora di ritrovare la forza di gridare o di fuggire, Penny
vide una grossa goccia di sangue che si gonfiava in
prossimità di una ferita puntiforme sul glande dell'uomo.
L'uomo spostò l'attenzione da sé e dal sangue per
rivolgerla a lei. Con voce impaurita, piagnucolò:
«Che cos'hai in quella sorca? Una tigre del Bengala?»

131
Penny osservò la goccia di sangue ingrandirsi fino a
formare un rivoletto. Si allontanò indietreggiando dal
punto in cui il sangue, colando sulla banchina, stava
formando una pozza in espansione. Vide che l'aggressore si
era messo il preservativo, ma anche il lattice era lacerato.
Un attimo dopo arrivò un treno e l'aggressore
scomparve. Penny non seppe dire altro al poliziotto che
rispose alla sua richiesta di soccorso.
La dottoressa da cui andò a fare gli esami necessari per
eventuali malattie veneree le disse che non c'erano segni di
infezione, ma la invitò a tornare di lì a sei settimane per
ulteriori accertamenti. La dottoressa, una simpatica signora
dai capelli crespi e leggermente brizzolati, volle visitarla e
farle il tampone in cerca di tracce di D N A . Chiedendo a
Penny di appoggiare i piedi alle staffe del lettino
ginecologico, la dottoressa si infilò i guanti di lattice. Disse
a Penny di espirare mentre le inseriva lo speculum.
La dottoressa accese una piccola torcia elettrica. Non
appena l'accurata ispezione ebbe inizio, Penny chiese di
essere sottoposta a una radiografia del bacino.
«Di solito non è necessario» le assicurò la dottoressa.
«La prego» insistette Penny. All'origine della sua
richiesta c'era un'ondata montante di panico.
«Che cos'è che la preoccupa?» domandò la dottoressa,
sempre scrutando dentro di lei con lo speculum e
orientando ora qui ora là il sottile fascio di luce.
Penny le disse del pene ferito del violentatore, del buco
che c'era nel preservativo.
«Be', io non vedo nulla, qui, che possa aver causato quel
tipo di ferita» disse la ginecologa. «La sua prima
impressione era giusta, credo: dev'esserselo impigliato

132
nella cerniera dei pantaloni.» Cominciò lentamente a
ritrarre lo speculum. «Ben gli sta.»
Fissarono l'appuntamento per la radiografia.
Ma la radiografia non segnalò anomalie.
Penny disse a se stessa che non era nulla. Forse solo i
denti acuminati della cerniera di quel bastardo. Soltanto in
seguito Penny si rese conto dell'aspetto peggiore di tutta la
vicenda. I suoi angeli custodi, in completo elegante e
occhiali a specchio... per la prima volta nella sua vita non
erano arrivati a salvarla.
In ufficio, Penny sgobbava come una dannata per
passare l'esame di avvocato. Brillstein era ancora in cerca
della class action ideale da affidarle, ma lei doveva prima
diventare avvocato. Intanto, le capitava ancora di fare
numeri da circo con i bicchieri del caffè e di dover andare a
recuperare sedie per le riunioni importanti.
Il fatto che Monique continuasse a darsi malata non le
era certo di aiuto. Da quando era arrivata a casa con quei
due sacchetti fucsia, l'amica si era barricata in camera da
letto. Per quel che le risultava, non ne era uscita neanche per
mangiare. Giorno e notte, da dietro la porta giungeva un
fioco ronzio. Quando Penny si decise a bussare, il ronzio si
interruppe.
«Mo...» Penny attese una risposta. Quel ronzio le era fin
troppo familiare. Bussò di nuovo.
«Vattene, Omaha.»
«Brillstein mi ha chiesto di te, oggi.»
«Ti ho detto di andartene.» Il ronzio riprese.
Penny desistette.
A un certo punto, forse il mercoledì, Monique si
presentò in cucina, con gli occhi socchiusi per difendersi

133
dalla luce del sole, come se fosse rimasta per mesi sotto le
macerie di una miniera. Cercando a tentoni il cartone del
latte nel frigo, borbottò: «Quel maledetto catorcio». Bevve
direttamente dalla confezione. Prendendo fiato prima di un
secondo sorso, aggiunse: «Non vedo l'ora che me ne diano
un altro».
Penny alzò la testa dal libro che stava sottolineando. «Si
è rotto?»
«Così pare» rispose Monique. «Le ali, perlomeno, si
sono staccate.»
Penny si irrigidì. Era seduta al tavolo della colazione,
ingombro di libri e blocchi per appunti. «Era la Libellula?»
Senza smettere di trangugiare latte, Monique grugnì in
segno affermativo. Tutti i luccicanti cristalli austriaci le si
erano staccati dalle unghie. Le treccine erano sfatte e tutte
ingarbugliate.
Cauta, Penny domandò: «Si è aperto a metà?».
Monique annuì. «Io stavo dormendo».
Penny si ripromise di parlarne con Brillstein. Quello
poteva essere proprio il caso di alto profilo che serviva a
Penny. Visto che la linea Beautiful You andava a ruba, se
anche solo una piccola percentuale dei prodotti fosse stata
difettosa, c'erano forse gli estremi per ritirarli dal mercato.
Se fosse riuscita a provare dei danni reali e a mettere
insieme un numero sufficiente di denunce di donne che in
tutto il mondo erano state in qualche modo danneggiate
dalla rottura delle libellule, si sarebbe probabilmente
trovata per le mani una class action di massa. L'idea non
era priva di precedenti: risultava che all'uscita di ogni
nuovo tampone o farmaco contraccettivo c'erano donne che
morivano. Shock anafilattico. Lacerazione delle pareti

134
vaginali. Erano uomini quelli che inventavano quelle cose,
ma erano sempre le donne a pagarne le conseguenze.
Alouette, ad esempio. Era stata a lungo una specie di
cavia da laboratorio, per Maxwell. Chi poteva affermare
con certezza che il suo aneurisma non fosse l'effetto a lungo
termine di certi rivestimenti di silicone impregnati di
stimolanti? Non si poteva escludere neppure che a
testimoniare fossero chiamate persino la regina
d'Inghilterra e la presidente degli Stati Uniti. Penny già si
vedeva come la nuova Erin Brockovich. Quella era la causa
che le avrebbe fatto fare carriera.
Certo, Maxwell si sarebbe infuriato. Le avrebbe
probabilmente tolto l'accesso al fondo fiduciario, ma i
guadagni e il prestigio che lei avrebbe tratto da
un'eventuale vittoria legale con gigantesco indennizzo
avrebbero più che compensato la perdita.
Mentre sottolineava brani di un testo che trattava di
leggi sui brevetti, Penny disse: «Credevo fossi morta, in
quel letto».
«Solo due o tremila volte» scherzò Monique.
«Hai usato anche la lavanda?» le domandò Penny.
Monique aprì un vasetto di yogurt e ne mescolò il
contenuto con un cucchiaino.
«Se la usi» consigliò Penny «leggi bene le istruzioni.
Utilizza champagne d'importazione, non un frizzantino
locale qualsiasi. Evita assolutamente il brut. E la
temperatura dev'essere compresa tra i 4 e i 10 gradi
centigradi.» Chissà se Maxwell, quando la istruiva, si era
sentito come si sentiva lei in quel momento, si domandò
Penny.
Mentre annotava una citazione a margine di una pagina,

135
si sentiva proprio come Maxwell. Sfuggendo allo sguardo
incuriosito di Monique, disse: «Quando userai l'articolo
numero 39, parti da quindici oscillazioni al minuto e sali
lentamente fino a 45, dopo di che per massimizzare gli
effetti dovrai attestarti fra 27,5 e 35,5».
Monique era sbalordita. Non aveva ancora portato un
solo cucchiaino alle labbra. Allontanò la sedia dal tavolo e
ci si sedette. «Che cos'è il prodotto numero...?»
Penny rispose prima che l'amica terminasse la frase. «La
Happy Honey Ball.» E domandò: «Sai dove si trova la tua
spugna uretrale?».
«In bagno?» azzardò Monique. «Sulla mensola accanto
alla vasca, forse.»
Penny le rivolse uno sguardo avvilito. «Hai per caso
comprato un paio di quelle tremende pietre sposate
peruviane?»
«Un paio di cosa?»
«Bene» disse Penny, ripensando alla scena penosa al
ristorante, quando Alouette le era venuta in soccorso. «Non
farlo.»
Monique posò lo yogurt sul tavolo, evitando con cura il
materiale didattico di Penny. «Si direbbe che sia stata tu a
progettare questa roba.»
Penny pensò: "L'ho più o meno inventata", ma evitò di
dirlo. Il risentimento nei confronti della compagna svanì. La
vita è troppo breve. Per qualche giorno di piacevoli
strapazzi Monique non sarebbe certo morta. Era puro
piacere senza coinvolgimento affettivo: se ne sarebbe resa
conto anche lei e sarebbe andata oltre. «Ascolta» disse
Penny. «Quando userai la Daisy Love Wand, fa' attenzione

136
al coefficiente d'attrito e usala soltanto con la Glassy Glide
Cream.»
L'espressione del viso di Monique era di totale
sconcerto. «Questa cazzo di roba» disse sbalordita «finirà
per alterare il tessuto sociale.»
Penny strappò un foglio bianco da un block-notes e
impugnò una biro. «Non preoccuparti» disse all'amica. «Ti
metto tutto per iscritto.»
Quel giorno stesso Penny si presentò nell'ufficio di Tad e
gli propose di andare a pranzo insieme. Come esemplare
fidanzabile, Tad aveva più determinazione che talento. Era
spiritoso e spontaneo e tentava più che altro di rubarle
qualche bacio fugace o di infilarle un dito dentro mentre si
trovavano, magari, su un vagone affollato della
metropolitana. Mangiando un hot dog su una panchina del
parco, Penny gli sottopose il problema. Forse era lei che ci
faceva troppo caso, ma le pareva che una donna su due, per
strada, avesse in mano il sacchetto fucsia di Beautiful You.
Anche ammettendo che la metà di quei sacchetti contenesse
solo il cibo della pausa pranzo, era chiaro che le donne
liberate e volitive di Union Square avevano un nuovo status
symbol.
Penny, riflettendo, concluse che il più grande risultato di
Max non stava tanto negli oggetti in se stessi quanto
nell'aver combinato i due piaceri prediletti dalle signore:
shopping e sesso. Era come Sex and the City, senonché le
quattro protagoniste non avevano più bisogno di cinture
Gucci o di problematici partner con cui gingillarsi. Non
dovevano neanche più sorseggiare un Cosmo né
spettegolare tra loro.
«A livello puramente ipotetico» esordì Penny, eludendo

137
lo sguardo di Tad, «mettiamo che venga lanciato sul
mercato un nuovo prodotto di grande successo. Il suo
inventore farebbe una montagna di soldi, giusto?»
Tad ascoltava con attenzione, quasi coscia contro coscia
con Penny.
Lei cercò di non pensare al processo di produzione
degli hot dog.
Da quando i giocattoli di Maxwell erano stati messi in
vendita, le newyorkesi avevano un'aria estremamente
rilassata; o, perlomeno, quelle tra loro che si erano fatte un
giro al negozio rosa per lasciarci i loro soldi. La sola
tensione sembrava provenire dal digrignare dei denti e dal
tamburellare dei piedi delle donne in attesa. La fila
diventava ogni giorno più lunga. Il "Post" di quel giorno
riportava in prima pagina un articolo su una donna che
aveva cercato di saltare la fila. Le altre donne in coda,
esasperate dall'attesa, l'avevano picchiata fin quasi a
ucciderla.
«Supponiamo» azzardò Penny «che una potenziale
cliente abbia avuto un ruolo fondamentale nella
sperimentazione e nello sviluppo di questo prodotto.»
Quei sacchetti fucsia erano dappertutto. Davanti a loro
sfilò un autobus la cui fiancata era coperta dallo slogan:
"Mille milioni di mariti stanno per essere rimpiazzati!".
Penny non smaniava dalla voglia di riferire a Tad i
particolari più truci di quel che aveva fatto con Maxwell,
ma c'erano in gioco valori più importanti.
«Poniamo che la persona in questione sia una donna»
ipotizzò, «una giovane ingenua che concede a un uomo il
permesso di sperimentare su di lei svariati prototipi di
giocattoli erotici.»

138
«A livello puramente ipotetico» disse Tad, con una
vibrazione bassa nella voce e sopracciglia interrogative,
«direi che è molto eccitante.»
«A livello puramente ipotetico» disse Penny,
raddrizzando il timone «credi che il soggetto coinvolto
nella sperimentazione possa rivendicare un diritto di
proprietà sui brevetti che ne derivano?»
Tad leccò una goccia di senape che minacciava di colare
dall'hot dog sui suoi pantaloni di Armani. «La querelante
ha più di 21 anni?»
Penny piluccò con discrezione una fettina di cipolla dal
suo würstel. «Non molti di più.»
«La conosci di persona?»
Penny annuì cupa.
«È molto bella?» disse lui, per stuzzicarla. «Pelle
perfetta e una mente giuridica fuori dal comune?»
Penny reagì. «Lascia perdere le lusinghe. Non è una
sgualdrina. Questa ragazza avrebbe proprio bisogno di un
solido patrocinio legale.» Forse era una sua impressione,
ma a Penny sembrava che alcune delle donne con il
sacchetto fucsia zoppicassero. Le venne in mente che,
rivendicando una paternità anche parziale dei prodotti
Beautiful You, avrebbe dovuto rispondere nel caso quei
giocattoli -- la Libellula, in particolare -- fossero stati
giudicati difettosi e pericolosi. Una fetta dei profitti
avrebbe significato una quota di responsabilità giuridica.
Tad la guardò preoccupato e si rabbuiò. «La cliente è
pronta a presentarsi in tribunale e a descrivere
pubblicamente le procedure sperimentali in questione?»
Penny deglutì. «Sarebbe indispensabile?»
«Temo di sì.» Le domandò: «C'è qualche testimone a

139
favore?».
Penny ci pensò su. C'era il personale di volo del jet
privato di Max. Il personale di servizio dello château e
dell'attico. I vari autisti e gli assistenti amministrativi che di
tanto in tanto, quando lei perdeva completamente il
controllo, in preda alle convulsioni, venivano reclutati per
tenerla ferma a gambe spalancate sul letto. Si poteva
richiedere la loro testimonianza, ma sarebbero stati
testimoni a lei ostili. Illuminandosi, Penny disse: «Però ci
sono documenti autografi di cui possiamo chiedere
l'acquisizione».
«Che tipo di documenti?»
Penny pensò a tutti i nomi che potevano esserci sui
taccuini di Max. Le donne qualunque accanto alle
professioniste del sesso e alle principali leader mondiali.
«Sarebbe un problema se la divulgazione di quei documenti
venisse considerata una minaccia per la sicurezza
nazionale?»
«Intendi dire» disse Tad con aria mesta «che potrebbero
riferirsi a situazioni compromettenti che vedono coinvolta
la presidente degli Stati Uniti?»
Lui era già oltre. Tad Smith aveva un approccio solare e
volitivo alla vita, e Penny si scoprì contenta di lavorare con
quell'idealista pronto all'azione.
Visto che lei taceva, fu lui a parlare. «Se la querelante
sottoscriverà un esposto, potremo presentarlo alla
magistratura e dare inizio alle indagini.» Bevve un sorso di
bibita gassata. «Se riusciamo ad acquisire i documenti
autografi dell'imputato e confermare così il contenuto della
denuncia, la tua ipotetica cliente dovrebbe vincere la causa
a mani basse.»

140
Penny non frenò la propria reazione. Non ce n'era
bisogno. «Qual è la nostra prima mossa?»
Meno di quarantotto ore dopo, Penny fu convocata
nell'ufficio di Brillstein. Allo studio B B &B era arrivata una
soffiata, evidentemente. Qualcuno aveva informato i grandi
capi di una possibile causa, e Brillstein non ne era per niente
contento. A complicare la situazione, poi, c'era a New York
la presidente degli Stati Uniti, che doveva tenere un
discorso all'O N U , sicché il traffico cittadino era paralizzato.
Squadre di agenti antiterrorismo armati fino ai denti
pattugliavano la metropolitana con i cani antibomba. Tra la
cittadinanza, le poche persone che non manifestavano
nervosismo erano le pacifiche e rilassatissime signore con i
loro sacchetti fucsia. A guardarle passare per strada,
tranquille e imperturbate, Penny ebbe l'impulso di andare a
mettersi in fila sulla Fifth Avenue.
Di contro, i cittadini maschi -- più precisamente i
maschi etero -- erano più malmostosi che mai. Nessuno di
loro poteva competere con Maxwell, che alle tecniche
erotiche aveva dedicato la vita, e con i risultati dei suoi
studi tantrici, acquistabili per mezzo di una vivace carta di
credito fucsia con sopra il logo Beautiful You.
Tad propose di cominciare immediatamente a
raccogliere denunce. Avrebbero diffuso una serie di spot in
televisione per cercare di censire le consumatrici che
avevano acquistato la Libellula difettosa. Le telefonate di
reclamo furono una marea. In tutto il mondo, milioni di
utenti erano scivolate nel sonno, cullate dalle sue profonde
e piacevoli pulsazioni, e al risveglio l'avevano trovata rotta.
Tutte le dichiarazioni raccolte erano identiche fin nei

141
dettagli: le ali si erano staccate; il corpo si era aperto in due.
Proprio com'era accaduto a Penny e a Monique.
Sarebbe stato difficile dimostrare il danno, perché
nessuna utente aveva riportato il minimo graffio. Molte
donne erano andate dal medico, ma in nessun caso erano
stati trovati frammenti dell'oggetto.
Nell'ufficio di Tad, Penny infilò i fogli degli appunti in
una cartelletta marrone che poi ripose nella sua sportina di
Fendi, per portarsela a casa. Dopo di che, si diresse in fretta
verso l'ufficio di Brillstein, all'ovattato sessantaquattresimo
piano dalle pareti rivestite di legno, il santuario con tappeto
del suo primo incontro con Max.
Penny bussò alla porta e dall'interno giunse una voce
familiare. «Venga avanti, prego.» Era una voce di donna.
Penny ruotò la maniglia, varcò la soglia e si ritrovò di
fronte una persona già vista in un'infinità di notiziari in T V .
Aveva zigomi alti e larghi che, uniti al mento piccolo e
appuntito, davano sempre l'impressione che stesse
sorridendo. I suoi occhi castano-dorati brillarono di
affettuosa solidarietà.
Lo scorbutico boss di Penny era seduto alla sua
scrivania lucidata.
La presidente Hind si rivolse a lui con il suo sorriso
sereno. «Le dispiacerebbe lasciarci parlare per qualche
minuto a quattr'occhi?»
«Signorina Harrigan» esordì la presidente.
«Mi chiami pure Penny» propose la più giovane donna.
La presidente le fece cenno di sedersi. Aveva più o meno
l'età della madre di Penny, ma era tenuta molto meglio. Il
completo su misura le calzava preciso come un'uniforme.
Portava una spilla in filigrana d'argento appuntata come un

142
distintivo al risvolto della giacca. Attese che il boss di
Penny lasciasse l'ufficio. Chiuse la porta a chiave. Fece di
nuovo cenno a Penny di accomodarsi in una poltrona a
orecchioni rivestita in pelle rossa e prese posto nella
poltrona di fronte. Parevano vecchie amiche che si ritrovino
per una bella chiacchierata.
«Mia cara» disse Clarissa Hind, suadente, «sono qui per
una serissima questione che tocca la sicurezza nazionale.»
Parlava come se stesse tenendo un discorso nello Studio
Ovale. «Devo pregarla di non intraprendere alcuna azione
legale nei confronti di C. Linus Maxwell.»
Penny l'ascoltò, sconcertata. Era impossibile figurarsi
quella leader risoluta soggetta alle torride pratiche erotiche
di Maxwell. Penny faticava a capire come una donna così
elegante e dall'eloquio sofisticato potesse essere ridotta a
scarabocchi su un taccuino. Clarissa Hind era stata un
modello di comportamento per Penny, ma la coraggiosa
leader che Penny aveva sempre avuto in mente non aveva la
minima somiglianza con la persona che guardava furtiva la
porta chiusa a chiave di quell'ufficio, che le stava parlando
con voce tanto sommessa.
«Sono avvocato anch'io» riprese la presidente. «Posso
capire il desiderio di veder trionfare la giustizia, ma questo
confronto non può svolgersi in un ambito pubblico. La
prego di credermi: milioni di persone in tutto il mondo
saranno in grave pericolo per effetto della causa che lei sta
per intentare. Un'eventuale class action o una contestazione
della titolarità dei brevetti di Maxwell metterebbe a rischio
la loro vita e anche la sua, Penny.»
Non era più la bella donna che sorrideva dalla copertina
del "National Enquirer". I tre anni alla Casa Bianca le

143
avevano inciso più di una ruga sulla fronte. La presidente
disse: «Ho saputo che è stata aggredita sulla banchina della
metropolitana, qualche settimana fa». Il tono della
presidente era esitante, infuso di empatia. «Dev'essere stato
orribile, ma, mia cara, non si inganni: quell'aggressione non
è stata casuale. Chiunque abbia ingaggiato, Max non aveva
l'intento di farle del male.» Lo sguardo della presidente era
sincero, implorante. «Maxwell voleva semplicemente
dimostrare il suo potere. Per il resto della sua vita dovrà
tenere presente che, dovunque lei andrà, lui potrà decidere
di distruggerla.»
Penny se ne rese conto all'improvviso: la presidente era
seduta sulla stessa poltrona occupata da Max il giorno in
cui lei si era prostrata ai suoi piedi. Sul tappeto però non
c'erano macchie a testimoniare il diluvio di bevande alla
caffeina. Ripensò all'ultima volta che aveva udito quella
voce pacata. Il sospetto affilò il tono di Penny come un
dardo.
«Quanto ti paga?» la accusò Penny. «Tu l'hai aiutato.
Quando io, a Parigi, ho risposto per sbaglio al telefono,
all'altro capo c'eri tu!» Attese una smentita che non venne.
«Tu hai convinto l'F D A ad autorizzare la distribuzione dei
suoi... articoli per la cura personale.» Penny era livida. «C'è
gente che compra giocattoli erotici difettosi e pericolosi, e
tu hai la tua parte di responsabilità.»
La presidente riprese, imperterrita. «In cambio della tua
cooperazione sono pronta a favorire il tuo ingresso in
politica come mia pupilla.»
Penny capì all'istante qual era il loro piano. Per evitare
di essere scoperti, Max e la presidente le stavano offrendo
una fetta della torta politica globale. L'avrebbero allevata

144
come erede della loro corrotta dinastia. Una persona più
debole avrebbe magari accettato. Ma Penny non provò altro
che disgusto per quell'offerta.
«Quale che sia la carica cui deciderai di candidarti»
spiegò la presidente, «se starai dalla nostra parte potrai
contare sul voto di tutte le donne tra i diciotto e i
settant'anni.»
Al di là della questione politica, Penny sapeva bene che
quella promessa era assurda. «Chi può garantire una cosa
del genere?» disse.
«Non io, certo» ribatté Clarissa Hind. «Max sì, però.»
La presidente sollevò un braccio, tirò indietro la manica
della giacca e consultò l'orologio. «Devo parlare alle
Nazioni Unite. Possiamo continuare la conversazione in
auto?»
Il grigio panorama stradale di Manhattan scorreva lento
oltre i finestrini della limousine. La presidente Hind chiuse
gli occhi per un attimo, massaggiandosi le tempie con la
punta delle dita, come se avesse un'emicrania.

145
«Prima ti rende famosa» disse la presidente con voce
stanca, «così famosa che non puoi neanche più mostrarti in
pubblico.» Sosteneva che Maxwell, sin dal primo scatto dei
paparazzi, aveva incaricato la stampa di seguire Penny a
ogni passo. Aveva attizzato la curiosità dell'opinione
pubblica. Aveva creato le condizioni per poterla
intrappolare a casa. La presidente sorrise mesta, con l'aria
di chi sa. «Alla fine, l'unico posto in cui ti senti al sicuro è il
suo attico. Ti isola. Diventa l'unica persona di cui puoi
fidarti, e ti offre l'unica consolazione che conosci.»
E i tabloid che, con tutta evidenza, lo criticavano?
Secondo la presidente Hind, Max era il padrone di tutti i
giornali. Li aveva comprati alcuni anni prima, quando i
giornalisti avevano cominciato a scavare un po' troppo a
fondo. Con questo sistema, in quanto proprietario occulto,
poteva depistare tutti. Si faceva accusare di cose incredibili,
creando una cortina di fumo che nascondeva la verità e
minava al contempo la credibilità dei media.
«Quand'anche tu scoprissi la verità sul conto di
Maxwell» ammonì la presidente, «non riusciresti mai a
divulgarla. Qualunque cosa si possa dire di lui, nessuno ci
crede più, ormai.» Saltando di palo in frasca, Clarissa Hind
farfugliò, come tra sé: «Io non volevo diventare presidente
di niente».
Lungo il tragitto verso il Palazzo di Vetro, il cellulare
della presidente si mise a suonare. Sul sedile di pelle,
isolato dall'autista per mezzo di un pannello insonorizzato,
Penny tacque e guardò fuori dal finestrino oscurato.
«Sto cercando di farla ragionare» disse Hind a chi
l'aveva chiamata. «Ti prego: non infliggerle punizioni

146
ingiustificate.» Tacque per un istante. «No, non potrei mai
dirglielo. E se anche glielo dicessi non mi crederebbe.»
Senza aver udito una sola parola dell'interlocutore della
presidente, Penny capì che era Max.
Il corteo di auto si muoveva per le vie cittadine
incurante dei semafori e senza altri veicoli a ostacolarlo.
All'altezza di Bryant Park, Penny scorse una lunga fila di
persone che aspettavano di entrare da Bootsy, un negozio
sulla Sixth Avenue. Più o meno lo stesso segmento
demografico di consumatrici che aveva fatto follie per
Beautiful You stava ora accorrendo a comprare un nuovo
modello di scarpe. Penny, quest'ultima moda, non riusciva
proprio a capirla. Quelle scarpe le parevano orrende,
troppo grosse, con quei cinturoni sulla tomaia e i tacchi
enormi, ma evidentemente si era scatenato qualche
processo dinamico collettivo. Lo stesso gruppo di donne in
tutta America stava facendo di un banale romanzo d'amore
sui vampiri un mega-bestseller.
La presidente terminò la conversazione e si rimise in
tasca il cellulare. Il suo sguardo vagò verso la folla di
donne in attesa di comprare scarpe. «La mia relazione con
Maxwell è cominciata come tutte le dipendenze» disse.
«Era divertente. Avevo la tua età. All'epoca credevo che
Max fosse tutto ciò di cui avrei mai avuto bisogno al
mondo.»
C'era un che di tragico nell'espressione che assunse
mentre parlava della sua naïveté giovanile. La voce
trasudava disprezzo di sé. «Mi sono fidata di lui.»
Penny si mosse a disagio sul sedile. Mentre la
presidente parlava, il corpo della donna più giovane
sembrava reagire a qualche sollecitazione sessuale.

147
Qualunque fosse lo stimolo, i capezzoli le si indurirono fin
quasi a dolerle, così eretti che il reggiseno in pizzo di seta le
sembrava di carta vetrata. Forse era il movimento
dell'automobile o l'odore di cuoio dei sedili, sta di fatto che
aumentava tra le sue gambe una sensazione di calda
umidità.
La presidente Hind le domandò: «Hai provato ad avere
rapporti sessuali dopo di lui?».
Penny pensò allo stupratore, ma scosse la testa. "No."
«Lui pensa di proteggerci, e invece ci controlla. Per
Maxwell non c'è differenza.»
All'altezza di Lexington Avenue, il respiro di Penny era
così rallentato e faticoso da costringerla a spalancare la
bocca in cerca di aria.
La presidente Hind la guardò con aria triste. «L'avevo
pregato di non farlo.» Con un gesto che contraddiceva
l'idea di malvagia congiurata che Penny si era fatta di lei, le
si avvicinò e le prese la mano tremante e febbrile. «Respira.
Continua a respirare» le disse.
Clarissa Hind aveva una voce ipnotica. «Fa' finta che sia
una perturbazione, come un temporale improvviso. Non
puoi farci niente. Tanto vale rassegnarsi, aspettare che
passi.» Posò due dita calde su un lato del collo di Penny e
contò in silenzio. «Ecco» disse. «Stai già tornando alla
normalità.»
Prendendo la mano di Penny, la presidente disse con
voce implorante: «Ascoltami! C'è una sola persona che può
salvare le donne di tutto il mondo. Questa persona vive in
una grotta ad alta quota sulle pendici dell'Everest. Si
chiama Baba Barbagrigia: è la più grande tra le mistiche
dell'erotismo viventi». La presidente tirò a sé Penny e la

148
strinse in un abbraccio affettuoso. Guancia contro guancia,
Clarissa Hind sussurrò all'orecchio di Penny: «Va' da lei!
Impara le sue arti! Allora sì che potrai combattere Maxwell
ad armi pari!».
Hind allentò l'abbraccio e tornò ad accomodarsi al suo
posto.
Quale che ne fosse stata la causa, l'eccitazione di Penny
si stava placando. Era ancora confusa, ma si era del tutto
ricomposta quando l'auto arrivò a destinazione. In
compagnia della presidente Hind, eluse indisturbata i
controlli. Agli occhi di Penny, gli agenti dei servizi segreti
alle Nazioni Unite erano indistinguibili dalle guardie del
corpo che scortavano Alouette nel giorno in cui lei aveva
reso la sua deposizione. Condussero le due donne in una
specie di camerino, dove una truccatrice fece accomodare
la presidente davanti a uno specchio per poi mettersi al
lavoro su di lei.
Riflessa nello specchio, Clarissa Hind guardava Penny.
«Di più non oso dirti. Se ti dicessi altro, ci ucciderebbe
entrambe.» Con sguardo d'acciaio prese la sua borsa
Dooney & Bourke dal ripiano su cui era posata e ne tirò
fuori una boccetta. Ingoiò due pillole e rimise la boccetta
nella borsa chiudendone poi la cerniera. «Un giorno
capirai.» Ruotando lo sguardo in modo da vedere solo il
proprio riflesso, la presidente disse: «Capirai che la scelta
che sto per fare è l'unica possibile, e la migliore».
La presidente non disse altro finché non fu sul podio di
fronte ai delegati di tutte le nazioni del mondo. Il brusio dei
giornalisti si smorzò quando lei, presentata alla platea, fece
con passo sicuro il suo ingresso in sala.
Maturando, soprattutto negli anni difficili della law

149
school, Penny aveva sempre avuto una venerazione per
quella donna. Come riferito dai tabloid, Clarissa Hind era
stata una coraggiosa attivista di base e aveva lottato per
l'aumento dei finanziamenti alle scuole pubbliche di
Buffalo. Si era fatta promotrice di una campagna per
l'intervento di sponsor privati ed era andata direttamente
da C. Linus Maxwell a chiedergli una cospicua donazione.
Erano subito diventati materiale buono per le rubriche di
gossip. Lui aveva visto in lei qualche talento naturale e
l'aveva cresciuta perché primeggiasse.
Eccola, sotto gli occhi del mondo, l'impavida leader
internazionale che Penny aveva sempre idolatrato.
«Cittadini del mondo... cittadini degli Stati Uniti»
principiò la presidente, «mi presento umilmente al vostro
cospetto. Tre anni fa ho assunto la mia carica e ho giurato di
servire e proteggere.»
La voce amplificata echeggiava nella vasta sala
dell'assemblea generale. «Ebbene, ho fallito.»
La reazione a queste parole fu un mormorio di
sgomento che crebbe di intensità a mano a mano che gli
interpreti traducevano il messaggio nelle cuffie di tutti i
presenti.
«Il fallimento e la viltà sono da ascrivere a me soltanto.»
Come di fronte a un plotone d'esecuzione, la leader del
mondo libero teneva la testa alta. «Prego solo che il disastro
da me temuto non si verifichi.»
Si sbottonò la giacca e infilò una mano all'interno, vicino
al cuore. «Concludo chiedendo perdono a Dio.» Guardò
verso Penny, rimasta dietro le quinte, per poi tornare a
rivolgersi alla platea come se scrutasse nell'eternità.
«Gli errori commessi in gioventù» disse con aria solenne

150
«si scontano per tutta la vita.»
Non ci fu da dibattere su quel che accadde subito dopo.
Con le telecamere della T V che trasmettevano le immagini
in tutto il mondo, Clarissa Hind, quarantasettesimo
presidente degli Stati Uniti, estrasse una pistola calibro 35
dall'interno della giacca. Se la puntò alla testa. E premette il
grilletto.
Nell'ufficio che da B B &B si occupava di responsabilità
per danni da prodotti difettosi cominciava a profilarsi uno
strano scenario. Tra confezioni di cibo cinese ordinate a
tarda notte, Tad stava spiegando che il 70 per cento delle
donne che avevano inizialmente sottoscritto la class action
aveva revocato il proprio sostegno. Del rimanente 30 per
cento, neppure una potenziale querelante aveva depositato
dichiarazioni. Ciò significava che il numero di donne in
cerca di indennizzo era pari a zero. Da alcuni milioni a
zero.
Anzi, secondo Tad la situazione si era capovolta.
Stringendo tra le bacchette un involtino primavera,
disse: «Ancora più strano è il fatto che tutte le donne che
avevano risposto al nostro appello hanno acquistato una
nuova Libellula della linea Beautiful You».
Penny intinse una strisciolina di maiale grigliato in una
specie di senape piccante e la mangiucchiò ascoltando il
collega.
«La loro fedeltà al marchio» continuò Tad «si manifesta
in tutti i settori del mercato. Le stesse donne accorrono a
comprare la stessa marca di colonia per mariti e fidanzati.
Comprano tutte gli stessi romanzi della stessa casa
editrice.» Forni a microonde, cibo per cani, sapone, non

151
faceva differenza. Come spiegò Tad, tutti questi prodotti
erano riconducibili alla galassia DataMicroCom.
Penny stava per strozzarsi. «La società di Maxwell!»
Tad annuì. «Questo movimento tettonico nelle abitudini
d'acquisto ha portato tutte le sussidiarie di DataMicroCom
in testa alle vendite nei rispettivi settori.»
Penny non capiva. Come aveva potuto la vendita di
prodotti per la cura personale a 150 milioni di donne
influenzare a tal punto tutti i settori industriali?
«A queste donne» disse Tad «è riconducibile il 90 per
cento di tutte le spese per consumi del mondo
industrializzato.» Bevve un sorso dal suo cartone di zuppa
all'uovo. «È la mano che muove la culla quella che decide in
che modo dev'essere speso il denaro in quasi tutte le
famiglie.»
Penny, con fare scherzoso, gli agitò davanti al naso un
gamberetto fritto. «Be', qualunque lavoro facciano, le
ragazze se li guadagnano, quei soldi.»
Tad addentò al volo il gustoso crostaceo,
strappandoglielo dalle dita. Meglio così, vista la grave
allergia di Penny ai crostacei. Con la bocca piena, Tad disse:
«Aspetta, senti quest'altra: secondo il nostro ufficio che si
occupa di diritto di famiglia, i divorzi sono aumentati del
400 per cento dal lancio di Beautiful You. Le ragazze
preferiscono quegli aggeggi agli uomini in carne e ossa!».
Stupefatta, Penny scoppiò a ridere. «Io no!»
«Dimostramelo!» ribatté prontamente lui.
Tad voleva portare il loro rapporto a un altro livello, ma
Penny non poteva rischiare. Da settimane respingeva le sue
avance. Visto quello che era successo con il violentatore nel
metrò, aveva ancora il timore che ci fosse qualcosa che non

152
andava dentro di lei. Tad era carino e non insisteva troppo.
Era aperto e sincero nei suoi sentimenti per lei. L'esatto
opposto di Max. L'ultima cosa che Penny desiderava era
affettare i genitali dell'unico pretendente serio avuto dai
tempi del college.
Per cambiare discorso, Penny domandò: «Insomma, non
ci sarà una class action?».
Tad si strinse nelle spalle. «Niente denunce, niente
causa.»
Penny leccò il sugo alle mandorle rimasto sulle
bacchette e disse: «Però possiamo sempre presentare il mio
esposto per rivendicare la contitolarità del brevetto».
Tad sospirò. La guardò con le sopracciglia arcuate che
esprimevano preoccupazione. «La deposizione potrebbe
rivelarsi umiliante, per te. Brillstein non avrà pietà. Vorrà
conoscere nei minimi particolari, anche scabrosi, tutti gli
esperimenti a cui ti sei sottoposta.»
Brillstein... Penny lo odiava, ma sapeva che avrebbe
perorato la sua causa. Lo studio avrebbe incassato una
fortuna se lei fosse riuscita a ottenere anche solo una
minuscola parte dei profitti che Maxwell traeva dal suo
impero tecnoerotico.
Lo sguardo di Tad si posò sul grosso rubino che le
pendeva sul petto. Quel souvenir... Per evitare sofferenze
inutili, Penny poteva anche lasciarlo a casa. Decise di
depositare la pietra preziosa nella cassetta di sicurezza
insieme al diaframma.
Si chinò sul tavolo e cominciò a raccogliere i moduli per
le dichiarazioni sui danni causati da prodotti difettosi.
«Non abbandoniamo l'idea della class action.» Impacchettò
i moduli con un elastico e si avviò alla porta. «Se domani

153
mi lasci la giornata libera, ti prometto che troverò chi
presenterà le denunce di cui abbiamo bisogno!»
L'indomani, Penny uscì di casa a piedi. Stivali Gucci,
un'ingombrante massa di tavolette portablocco sotto il
braccio, si avviò con andatura disinvolta per la Fifth
Avenue. Le tasche del cortissimo minitrench Donatella
Versace erano strapiene di biro. Sotto il trench portava una
spiritosa micro-minigonna iridata Betsey Johnson.
Gli uccelli cinguettavano. Il sole mattutino faceva un
bell'effetto sulle sue gambe nude e lisce, così come gli
sguardi di apprezzamento di certi uomini attraenti che per
strada la fissavano con insistenza. Circondata da tanta
lusinghiera attenzione, le era difficile non distrarsi dalla
missione di raccolta dati a fini legali. Il bel tempo la
indusse inevitabilmente a fare una deviazione per Central
Park, dove le trasformazioni del tessuto sociale non
potevano essere ignorate.
Le abituali legioni di efficienti tate britanniche e di
impeccabili ragazze alla pari svizzere, quelle giovani e
slanciate collaboratrici familiari che custodivano i figli
privilegiati dei ricchi abitanti di Manhattan, tutte costoro
erano penosamente assenti. Al loro posto, branchi di
monelli dalla faccia sporca e moccicosa vagavano per lo
Sheep Meadow come coyote allo stato brado. In quello
scenario arcadico latitavano anche le solitamente
immancabili schiere di donne del Terzo Mondo, profughe
per ragioni economiche, che servivano da premurose
infermiere e badanti. Alcuni anziani pazienti costretti sulla
sedia a rotelle sembravano essere stati abbandonati sul
posto. Evidentemente, quei poveri disgraziati erano stati
lasciati lì, a cavarsela da soli, sul ciglio di qualche vialetto

154
asfaltato del parco. Quando Penny passò davanti a quelle
masse informi coperte dai plaid, l'odore dei pannoloni da
cambiare e delle sacche colostomiche la indusse ad
accelerare il ritmo già spedito del suo brioso passeggiare.
Sembrerà assurdo, ma le poche persone di sesso
femminile che si vedevano erano o bambine prepuberi
incustodite o vegliarde bavose. A parte le giovanissime e le
malatissime, le sole donne visibili erano quelle che
sorridevano dalle foto degli innumerevoli volantini affissi
durante la notte ovunque Penny volgesse lo sguardo.
Lampioni... pensiline degli autobus... recinzioni di legno dei
cantieri... qualunque superficie verticale nella Grande Mela
era tappezzata di poster fotocopiati, tutti incentrati su foto
di donne, ogni volta diverse. Sotto ogni foto, a mo' di
didascalia, le parole: "Chi l'ha vista?" seguite da "cara
moglie" o "figlia adorata" o "tenerissima madre" o "amata
sorella" e ancora: "Scomparsa dal..." con relativa data, mai
più vecchia di due settimane. A Penny parevano lapidi,
campi pieni di pietre tombali, come se la città stesse
diventando un enorme cimitero di donne. Era davvero
deprimente. Spaventoso, persino.
Circolavano voci oscure che attribuivano la
responsabilità di tutto questo ai nuovi prodotti Beautiful
You. Si sussurrava che le prime acquirenti si fossero ritirate
a vivere da eremite, sotto i ponti o in cunicoli della
metropolitana in disuso. Avevano abbandonato famiglia e
carriera. Senza più casa, tutta la loro fedeltà era riservata ai
nuovi prodotti per la cura personale.
Penny stava considerando questa agghiacciante ipotesi,
quando due uomini esageratamente leccati le passarono
accanto correndo. L'improvviso passaggio dei podisti, così

155
da presso, le fece quasi cadere di mano le tavolette
portablocco. Al suo occhio di ragazza del Midwest i
pantaloncini da corsa erano un po' troppo aderenti:
mettevano volgarmente in evidenza le chiappe ipertrofiche
e le parti intime maschili poco sostenute e, perciò, in
continuo movimento. Con uno stravagante tono da
bambina di dieci anni, uno dei due uomini commentò,
rivolto all'altro: «Che si divertano pure, le ragazze!». Il suo
pimpante compagno di corse aggiunse: «Sai quanto me ne
frega se non si fanno più vedere!». E corricchiarono via, in
una nuvola di costosa acqua di colonia.
Mentre guardava quei due che si allontanavano, Penny
si ritrovò di colpo la strada sbarrata. Di fronte a lei c'era
uno sconosciuto. I capelli corti e ben tagliati erano
spettinati, e sul davanti del cappotto spiegazzato e
sbottonato penzolavano i due capi di una cravatta slacciata.
A giudicare dal cappotto, dai pantaloni e dai capelli,
l'uomo doveva aver dormito vestito. «Puoi aiutarmi?»
supplicò. Aveva la faccia ombreggiata dalla ricrescita della
barba. Con una mano le stava porgendo un foglio di carta
verde pallido. Sotto l'altro braccio teneva una risma di fogli
identici. «Si chiama Brenda» gemette. «È la mia fidanzata!»
Facendo attenzione a non lasciar cadere il suo carico di
tavolette portablocco, Penny prese il foglio. Mostrava
l'ennesima donna sorridente in una foto a mezzobusto
ingrandita così tante volte con la fotocopiatrice che i tratti
apparivano confusi. Indossava una camicetta di Jil Sander e
rivolgeva all'obiettivo un sorriso smagliante. Sotto
l'immagine c'era scritto: "Direttore finanziario Allied
Chemical Corp.". C'era un numero di telefono
accompagnato da un appello: "Chiunque la veda è pregato

156
di chiamare a qualsiasi ora del giorno e della notte". Ancora
più in basso un'altra parola: "Ricompensa". Penny si infilò il
volantino nella tasca del trench, in mezzo al carico di
penne.
Lo sconosciuto mal rasato la afferrò per un polso. Così
stretto da farle male. Aveva le dita sudate. «Tu sei una
femmina» disse lui meravigliato. «Devi aiutarmi!» Stava
quasi gridando. «Come donna, devi prenderti cura di me!»
Gli sfuggì un breve sghignazzo isterico. Il suo sguardo
percorse famelico, da capo a piedi, l'avvenente figura di
Penny. «Ah, tu non sai da quant'è che non vedo una donna
vera!»
Per sfuggirgli, ci volle un rapido e ben assestato calcio
dei suoi stivali Gucci. La punta acuminata della calzatura
gli centrò in pieno i testicoli, e Penny poté così allontanarsi.
Prima di sferrare il colpo invalidante, aveva notato un
ultimo particolare dello sconosciuto. La sua faccia, le
guance, in particolare... La pelle luccicava, bagnata di
lacrime. Quell'uomo stava piangendo.
Spaventatissima, Penny non arrischiò una seconda
occhiata. Si allontanò correndo a rotta di collo verso la
rastremata torre rosa della Fifth Avenue.
Da qualche tempo, le acquirenti dei prodotti Beautiful
You avevano dato a quell'edificio rosa a specchio il
nomignolo di "Mother Ship", Nave ammiraglia. Ogni
giorno all'alba, le fedeli clienti uscivano in massa. Benché le
porte fossero ancora chiuse, una fila di donne impazienti si
snodava per almeno un paio di isolati cittadini. Spostavano
di continuo, nervosamente, il peso da una gamba all'altra e
tutte portavano quelle orribili scarpe grosse. Aspettavano,
come aveva fatto Penny fuori da Bonwit Teller. Avevano

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tutte con sé, dalla prima all'ultima, lo stesso romanzo
d'amore sui vampiri. Molte si erano portate dietro il
pranzo, rigorosamente tenuto in un sacchetto fucsia, a
indicare che erano clienti affezionate. Alcune di loro
apparivano esauste, avevano i capelli trasandati e il colorito
giallognolo. Le riportarono alla mente il bel faccino di
Monique, che nelle ultime settimane si era ridotto a un
teschio. Per non parlare dell'odore di poco pulito che
filtrava dalla stanza della povera amica... Ormai Monique
non telefonava neanche più in ufficio per darsi malata, e ci
pensava Penny a inventare giustificazioni per l'amica, nel
tentativo di salvarle il posto di lavoro.
Più o meno a metà della fila, un uomo di mezza età che
indossava una maglietta dei Promise Keepers,
un'associazione di mariti fedeli, si avvicinò a una donna.
Penny riconobbe la maglietta perché anche suo padre ne
aveva una identica. Come un rozzo troglodita, con una
mano prese la donna per i capelli e cercò di trascinarla
verso un taxi in attesa lì vicino. La donna si era
accovacciata e cercava di sfruttare il suo peso per non
perdere il posto nella fila delle clienti più mattiniere.
Quando Penny passò accanto alla coppia che litigava,
l'uomo stava dicendo: «Per favore, torna a casa!». La sua
voce era rotta dai singhiozzi. «Johnny e Debbie sentono la
mancanza della loro mamma!»
Quella donna, dedusse Penny, doveva essere la moglie.
Nel contesto della lite coniugale, la donna continuava a
percuotere il marito con un oggetto fucsia. L'arma era
elastica, flessibile, e molto lunga. A un esame più accurato,
Penny lo riconobbe: era il prodotto 6435, l'Honeymoon
Romance Prod, la Stanga della Luna di Miele. Di norma,

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conteneva sei batterie D, e Penny sentiva il peso di
quell'oggetto che urtava contro le costole dell'uomo come
un randello, mentre la moglie strillava: «Questo pezzo di
plastica è più uomo di quanto tu potrai mai essere!».
Penny, cauta, girò alla larga dai due litiganti e si affrettò
verso l'inizio della fila. Tra le braccia aveva un mazzo di
tavolette portablocco, già provviste di penna e di modulo
da compilare. Cominciò la sua opera di convincimento con
le donne dall'aria più smunta. Queste disgraziate dagli
occhi spenti erano lì in piedi davanti all'ingresso con
l'espressione, l'afrore e la postura stanca e svaccata di chi ci
aveva passato la notte.
«Scusami» cinguettò, porgendo la tavoletta con il
modulo alla prima delle donne. «Hai avuto problemi a
causa del malfunzionamento di qualche prodotto Beautiful
You?»
Si sentiva un'arruffa-utenti di giocattoli erotici, ma il
fine giustificava i mezzi.
Tremante, malgrado la mattinata tiepida, la mano
emaciata di quella donna prese la penna. Neppure un
barlume di intelligenza brillava nell'espressione della
sconosciuta quando posò lo sguardo vitreo sul foglio da
compilare. Penny notò che era molto giovane, ma sembrava
che qualcosa le avesse risucchiato ogni linfa vitale. Sotto la
pelle di carta velina del viso si intravedevano le ossa.
Penny conosceva bene quello sguardo. Dopo estenuanti
sedute di estasi lei stessa allo specchio si era vista ridotta a
uno spettro. Quando arrivava a quel livello di esaurimento,
veniva massaggiata e curata con spremute di frutta fresca.
Max si affidava all'agopuntura e all'aromaterapia per

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aiutarla a ristabilirsi. Quelle ragazze non avevano nulla.
Stavano morendo di piacere.
Avevano gli occhi lucidi, iniettati di sangue, infossati
nelle orbite. I vestiti pendevano sformati e appesantiti dal
sudore ormai secco. Le labbra erano smorte. Quelle erano
ragazze che non molto tempo prima camminavano
tranquille e sicure di sé per Union Square. Penny non aveva
dubbi: i nuovi giocattoli avevano scatenato in loro una
compulsività pericolosa.
Penny, affrettando un po' troppo i tempi, disse alla
donna: «Stiamo organizzando una class action, una causa
per danni contro la Beautiful You».
La donna rispose con voce rauca. Anche quello era un
sintomo ben noto a Penny. Spesso, dopo lunghe sedute di
sperimentazione, i gemiti estatici avevano lasciato la gola
riarsa e inservibile anche a lei.
Altre donne si avvicinarono, barcollanti, malcerte sulle
gambe, con l'esile collo proteso per capire quel che stava
succedendo. Quegli zombi curiosi, Penny lo vedeva
chiaramente, avevano i capelli che si stavano spezzando
alla radice, sicuramente a causa della malnutrizione. Sul
cuoio capelluto cominciavano a mostrare chiazze glabre.
Non sfuggì a Penny l'analogia con l'altra orda di scheletri
ambulanti creata dalla precedente rivoluzione sessuale.
Non tanto tempo prima, quelle anoressiche claudicanti e
rachitiche sarebbero state vittime dell'A I D S .
Per aizzarle, Penny disse: «Voi non avete bisogno di altri
giocattoli erotici». Distribuendo le tavolette portablocco,
aggiunse: «Dobbiamo costringere la Beautiful You a pagare
per i crimini contro le donne». Ormai stava gridando:

160
«Dobbiamo chiedere la chiusura dell'azienda e pretendere
un indennizzo!».
La ragazza cadaverica in testa alla fila deglutì. Le sue
labbra sottili si mossero nello sforzo di dare forma a
qualche parola. «Tu... vuoi... che... chiudano?» La sua voce
era un miagolio terrorizzato. Lungo la fila si propagò
invece un cupo ringhio omicida.
Una voce gridò: «Aspetta almeno che mi diano la mia
nuova Libellula. Poi, se vuoi, fagli pure causa».
Un'altra voce rincarò: «Chiunque sia, questa qui è
contraria al diritto di noi donne ad avere la nostra
soddisfazione sessuale».
Una tavoletta portablocco tagliò l'aria, mancando la
testa di Penny per un pelo, e atterrò sul marciapiede. Si
levarono in coro fischi di disapprovazione: «È
un'antifemminista che disprezza se stessa e il corpo delle
donne!».
«Mollaci, sorella! E vattene in fondo alla fila con quel
tuo culone!»
«Dobbiamo difendere il nostro diritto di comprare i
prodotti Beautiful You!»
Una dolorosa gragnuola di tavolette portablocco
bersagliò Penny da ogni lato. L'aria era fitta di penne a
sfera e di urla di vituperio e rabbia femminile.
Quell'esercito di donne frustrate la stava lapidando con i
romanzi sui vampiri. Presto si sarebbero sfilate le loro
enormi scarpacce e l'avrebbero finita senza pietà. Ormai
impotente, gridò: «Maxwell vi sta manipolando!». Le
braccia levate a deviare i libri volanti, strillò: «Vi sta
rendendo sue schiave!».
La folla si scatenò contro di lei e un'infinità di mani

161
afferrarono Penny per i capelli e per quella sua sgargiante
micro-mini Betsey Johnson. Dita feroci la ghermirono ai
fianchi e alle caviglie, e lei ebbe la sensazione di essere
smembrata. Le gridavano «proibizionista!» e «bigotta!» e la
tiravano da tutte le parti per farla a pezzi.
Una voce follemente stridula disse: «Grazie a Beautiful
You mi sono disintossicata dalle droghe!».
Un'altra strillò: «Grazie a Beautiful You ho perso 35
chili!».
Quasi impercettibile tra gli strepiti belluini della calca,
una serratura scattò.
Quasi impercettibile. «Il negozio...» rantolò Penny. Allo
stremo delle forze, nel tentativo di salvarsi, aggiunse
ansante: «Hanno aperto il negozio...».
Quell'annuncio fu la sua salvezza, perché le migliaia di
clienti impazzite si voltarono di colpo e assaltarono in
massa il grande palazzo rosa. Accasciata sul marciapiede,
Penny si rannicchiò in posizione fetale nel trapestio di una
moltitudine incalcolabile di scarpacce grosse e orribili che
andavano incontro al loro infausto destino.
Quella sera Penny indossò un comodo pigiama di
flanella L.L. Bean e andò a letto presto, con un buon
bicchiere di pinot grigio e un non piccolo numero di lividi a
forma di tavoletta portablocco. Dopo aver fallito la
missione di raccolta denunce, era tornata a casa depressa.
Con dolori dappertutto. La sua eccentrica micro-mini era
piena di manate lerce, e il trench Versace era stato ridotto in
brandelli dalla folla inferocita. Inutile cercare di ripararlo,
aveva concluso, e dopo aver rovistato nelle tasche in cerca
di monete o chewing gum l'aveva buttato nella spazzatura.

162
Appallottolato in una tasca c'era il volantino verde pallido
che le era stato dato da quell'uomo sconvolto.
"Chiamare a qualsiasi ora del giorno e della notte"
diceva. "Ricompensa."
Lì a letto, Penny lisciò come meglio poté il volantino.
Posò il bicchiere e prese il cellulare dal comodino. Una voce
maschile rispose al primo squillo. «Brenda?» Era lo
sconosciuto. A Penny faceva ancora un po' male il polso,
dove lui gliel'aveva stretto.
«No» rispose Penny, dispiaciuta. «Ci siamo incontrati
stamattina.»
«Al parco» disse lui. Se ne ricordava perché Penny era
l'unica donna normale che avesse visto in tutto il giorno,
aggiunse. In tutta la settimana, anzi.
«Ogni giorno» gemette disperato «passo in rassegna
quella fila di donne, in Fifth Avenue, e cerco... e cerco... ma
Brenda non c'è mai.»
Scegliendo con cura le parole, Penny lo incoraggiò a
parlare. «Raccontami di quando è scomparsa... Com'è
andata?»
L'uomo raccontò la sua storia angosciosa. Ad aggravare
la sofferenza c'era il senso di colpa. Era stato lui quello che
le aveva comprato il primo prodotto Beautiful You. Doveva
essere il regalo di compleanno: l'articolo 2788, la Sonda
Instant Ecstasy. Brenda era arrossita per l'imbarazzo
quando aveva aperto il pacchetto a cena in un ristorante
gremito, ma lui l'aveva teneramente incoraggiata a
provarlo. «Non lì al ristorante, eh!?» disse, per poi
aggiungere: «Solo una sgualdrina accetterebbe di utilizzare
un giocattolo erotico in pubblico, al ristorante».
La memoria di Penny tornò in un lampo all'episodio del

163
ristorante francese, con le pietre sposate peruviane. Soffocò
una fitta d'imbarazzo con un lungo sorso di pinot. Adagiata
sul letto, osservò i recenti lividi sulle braccia che passavano
dal rosa al rosso, al viola. Ripensò ai tempi di Parigi e le
pareva di aver trascorso metà della propria vita a bere
vino, stesa a letto, coperta di ematomi. Ecco, concluse, era
così che doveva sentirsi Melanie Griffith.
«Fino a poco fa» proseguì l'uomo al telefono «Brenda
era la più influente intermediaria nel settore dell'industria
chimica, e da un giorno all'altro...» La voce si smorzò,
stanca e rassegnata. «È scomparsa.» Lui aveva perquisito
l'appartamento in condivisione che lei aveva in Park
Avenue e aveva scoperto che l'unico oggetto mancante era
la Sonda Instant Ecstasy. Questo risaliva a due settimane
prima. Da allora diverse persone gli avevano telefonato per
segnalare avvistamenti. In un caso l'avevano vista tra i moli
putridi dalle parti di Hoboken. Un'altra volta, le telecamere
di sicurezza di un negozio l'avevano ripresa mentre rubava
delle batterie a Spanish Harlem.
Ascoltando quel racconto, Penny finì il suo il vino. Si
allungò per prendere la bottiglia dal comodino e se ne
versò un altro bicchiere. E mentre l'umore di quell'uomo
solitario passava dalla speranza alla paura e poi alla furia
selvaggia, lo bevve fino all'ultima goccia.
La si sentiva anche per telefono, questa rabbia. Benché
fosse prostrato, Penny se lo vedeva con la faccia
congestionata e il corpo scosso dai tremiti. «Se mai dovessi
incontrare chi ha inventato quei diabolici giochini erotici...»
Si interruppe, soffocato dall'ira. «Dio mi è testimone, lo
strangolo con le mie stesse mani!»
Le scarpe orrende e i romanzi fantasy erano solo la

164
punta di una nuova tendenza che cominciava a emergere.
Ogni giorno, Tad seguiva questa fluttuazione nelle abitudini
di consumo. Un lunedì, quasi sedici milioni di casalinghe
abbandonarono i detersivi per lavatrice che acquistavano
da decenni e passarono a Sudso, una marca lanciata sul
mercato solo una settimana prima. Allo stesso modo,
un'intera generazione di appassionate di musica accorreva
ai concerti di una nuova boy band, gli High Jinx.
Svenivano. Strillavano. Guardando quelle ragazze alla T V ,
Penny notò che il loro comportamento non era tanto diverso
dall'attacco convulsivo che aveva colpito Alouette alla
serata degli Oscar.
Gli esperti di psicologia comportamentale e di
marketing non riuscivano a venire a capo del fenomeno. Era
come se un'ampia fascia di consumatrici reagisse in modo
uniforme agli stessi stimoli. A causa dell'ombra proiettata
dal suicidio della presidente degli Stati Uniti, i mercati
erano sulle montagne russe. In borsa, le quotazioni di quasi
tutte le società pubbliche erano precipitate. Come faceva
notare Tad, però, quelle di tutte le sussidiarie di
DataMicroCom stavano andando alle stelle.
«La Henhouse Music, soprattutto» sottolineava Tad.
Quando la gente con cui stava parlando lo guardava
perplessa, aggiungeva: «È l'etichetta discografica per cui
incidono gli High Jinx. Hanno già sei pezzi nella top ten
della settimana».
Gli investitori più previdenti, spiegava Tad, stavano
prendendo d'assalto il mercato delle materie prime.
Manganese e potassio, soprattutto. E lo zinco, anche. Tutti
ingredienti essenziali per produrre batterie alcaline. Gli
speculatori si contendevano il rame per cifre esorbitanti. La

165
mancanza di batterie aveva già dato luogo a tumulti, e un
fiorente commercio illegale stava spingendo i ladri a
fregare le batterie semiusate dalle torce elettriche e dai
giochi a pile dei bambini. E così, come un tempo i furti di
autoradio avevano indotto gli automobilisti a esporre
cartelli con la scritta "No Radio", ora davanti alle case si
vedevano vistosi cartelloni che dicevano "No Batterie" nella
speranza di scoraggiare i ladri.
In tutto il mondo si faticava a spiegare quello che nella
cultura popolare era ormai noto come "effetto Beautiful
You". In televisione, i commentatori e gli analisti
chiacchieravano scherzosamente di dipendenza da
eccitazione. Prima di allora nessuno se n'era curato, perché
il fenomeno era rimasto circoscritto alla vita dei ragazzi.
Negli ultimi decenni erano stati perlopiù i giovani maschi le
vittime dei debilitanti piaceri dell'eccitazione compulsiva.
Erano stati sedotti dalla quantità di endorfine generate
giocando ai videogame e frequentando siti web
pornografici. Una generazione di giovani era rimasta
affascinata dal richiamo dell'appagamento senza amore ed
era finita nel dimenticatoio. Giovani ingobbiti nelle loro
stanzette seminterrate pervase dal fetore della loro
dissipatezza, insensibili al bisogno di intrattenere rapporti
reali con partner in carne e ossa.
Penny provò a derubricare quel reportage a mera isteria
maschile, ma quell'idea era difficile da ignorare. Secondo
gli esperti, il problema era sorto quando i nostri primordiali
impulsi animali erano stati manipolati dalle innovazioni
della tecnologia moderna. Il gelato butter brickle costituiva
un ottimo esempio. La sua bontà zuccherosa e lipidica era
precisamente ciò a cui la parte animale del nostro Io più

166
ambiva per sopravvivere. Per questo Penny non riusciva a
smettere di mangiarlo finché non arrivava alla fine del
barattolo. I suoi istinti evolutivi venivano usati contro di lei
dagli esperti di marketing. Fino a quel momento, tramite la
vista, con videogame forsennati e pornografia ad alta
velocità via Internet, la dipendenza da eccitazione aveva
riguardato perlopiù gli uomini, ma la nuova linea di
prodotti di Maxwell sembrava aver dato luogo a un
fenomeno simile anche tra le donne.
Non faceva una grinza! La sempre mutevole
stimolazione stava a poco a poco riprogrammando il
cervello delle donne. La porzione limbica della mente era
investita da profluvi di dopamina. La regolazione
ipotalamica delle gratificazioni veniva neutralizzata, e la
corteccia prefrontale perdeva il controllo della situazione.
Ah, pensava Penny, consultando testi di medicina, era così
complicato eppure così ovvio!
Una volta cadute nella dipendenza, le donne abusavano
di quel piacere. L'effetto Beautiful You. Le normali attività
del tempo libero le annoiavano. Gli abituali passatempi
perdevano qualsiasi interesse. E senza la costante
eccitazione dei prodotti per la cura personale venduti da
Maxwell le donne sprofondavano in una grave depressione.
I sociologi sui media fecero ben presto notare che la
pubblicità già da tempo sfruttava i naturali impulsi sessuali
degli uomini. Per vendere una certa marca di birra, era
sufficiente associarla a corpi femminili idealizzati, e la
clientela di sesso maschile abboccava. Questa antica tattica
sembrava sfruttare le donne e favorire gli uomini, ma alcuni
avveduti commentatori rilevavano che il cervello degli
uomini intelligenti era di continuo annichilito -- le idee, la

167
capacità di concentrazione, le facoltà intellettive -- ogni
volta che questi vedevano un seno provocante o delle cosce
sode e lisce.
Allo stesso modo la sperimentazione dei prodotti
Beautiful You aveva cancellato dalla mente di Penny sogni e
aspirazioni, qualunque progetto, l'amore per la sua
famiglia. La cultura dominante aveva a lungo e
sconsideratamente sfruttato il sesso per attaccare la mente
dei giovani maschi, e quella subdola pratica era stata a
poco a poco sdoganata.
Forse proprio per questo il mondo era tanto svelto ad
accettare che schiere di donne scomparissero nel medesimo
abisso. L'iperstimolazione artificiale doveva essere
sembrata il sistema ideale per soffocare una generazione di
giovani che volevano sempre di più in un mondo che
offriva sempre di meno. Che le vittime fossero uomini o
donne, la dipendenza da eccitazione sembrava essere la
norma, ormai.
In una delle rare serate trascorse fuori dall'ufficio,
Penny e Tad erano andati a una festa allo Yale Club. Lui,
circondato dai sangue blu della Bucks County, sembrava
immerso nel suo elemento. No, non aveva rinunciato
all'idea della class action, nonostante il doloroso fallimento
del tentativo di Penny di raccogliere qualche denuncia. Tad
aveva adottato la saggia tattica dell'attendismo. Entro
breve, altre donne si sarebbero fatte avanti per denunciare
Maxwell. Nel frattempo lui era pronto a procedere con la
causa intentata da Penny per la titolarità dei brevetti
Beautiful You.
Anche per questo avevano deciso di uscire a divertirsi
un po', quella sera. L'indomani Penny avrebbe incontrato i

168
soci anziani dello studio B B &B e sarebbe stata costretta a
depositare la denuncia.
Allo Yale Club, Penny ammirò la disinvoltura con cui
Tad indossava lo smoking. Salutò da vecchio amico alcune
delle persone più ricche di New York. Era sicuramente un
ottimo partito. Se solo non avesse continuato a premere per
avere un rapporto vaginale. Tutto il resto, praticamente,
l'avevano fatto, ma Penny non voleva rischiare di fargli del
male. E non aveva neanche voglia di parlargli della paura
che le montava dentro.
Assorta in questi pensieri, urtò un invitato. Qualche
goccia di champagne si rovesciò, ma senza danni
permanenti. L'uomo alto e barbuto aveva un'aria familiare.
«Tu sei Penny Harrigan, vero?» Le tese la mano. «Io
sono Pierre La Courgette.»
Il romanziere premio Nobel che stava con Alouette
quando lei era morta.
«È stata una grande tragedia» disse lui.
Penny gli diede un'affettuosa stretta al braccio. «Chissà
quanto ti manca... Era adorabile.»
Lui rispose malinconico: «Non credere... Non ci siamo
mai amati fino in fondo».
Penny aspettò che lui proseguisse.
«Ci abbiamo provato tante volte» ammise «ma non sono
mai riuscito veramente a conoscerla in quel senso.»
Penny fu presa dal terrore. Ripensò al sangue che
sgorgava dal pene eretto del suo aggressore nel metrò.
«C'era qualcosa... dentro la mia Alouette...» provò a
dire lui, ma la voce sfumò nel dolore.
Penny provò a indovinare la conclusione. «C'era come
qualcosa che pungeva?»

169
«Che pungeva?» domandò lui, forse in difficoltà con la
traduzione.
«Come un arpione» suggerì lei. «C'era qualcosa che ti
ha trafitto il pene?»
Gli occhi di lui si illuminarono. «Oui!» esclamò. «Mon
Dieu! Era nascosto lì, nella sua chatte. Lei era convinta che
Maxwell le avesse lasciato dentro qualche strumento, anche
se i dottori non sono mai riusciti a trovare niente.» La
afferrò con una mano per un gomito, e disse: «Mia cara, che
cosa sai del problema che aveva Alouette?».
Penny barcollò. La stanza vorticava. Era forse quello il
segreto che Alouette aveva in mente di rivelarle?
A quel punto Tad si materializzò e le cinse
possessivamente i fianchi con un braccio. «Credo che per
qualcuno sia arrivata l'ora di andare a letto.» Le stava
addosso al punto che lei sentì il pene eretto attraverso la
tela sottile dei pantaloni dello smoking.
Eccolo che tornava alla carica. Premeva perché
scopassero. Sempre più irritata, Penny era quasi pronta a
concedergliela, quella pericolosa occasione.
L'indomani, al sessantaquattresimo piano, seduta in una
sala riunioni dove in passato aveva portato un numero
incalcolabile di sedie, Penny rese la sua deposizione. La
sola assente, tra i dipendenti dello studio, era Monique,
ancora barricata nella sua camera da letto. Penny era
circondata da soci e associati da ogni lato. I loro occhi in
attesa la scrutavano in cerca di tracce di falsità. Il minimo
tic avrebbe potuto significare che stava mentendo. Un
microfono raccolse le parole con cui descrisse la sera in cui
Maxwell, per la prima volta, l'aveva riempita con quella
lavanda di champagne rosé. Uno stenografo trascriveva

170
non meno rapido di Max quando scarabocchiava sui suoi
taccuini.
I colleghi la ascoltarono perlopiù incantati, la bocca
spalancata per l'incredulità, quando lei spiegò la procedura
con cui Maxwell le aveva strapazzato la cervice portandola
a sfibranti spasmi di godimento.
Di tanto in tanto Brillstein sparava una domanda
insidiosa. «Signorina Harrigan, lei ha detto poc'anzi che
Maxwell le avrebbe introdotto una mano nell'orifizio
vaginale. Com'è possibile?»
Penny restò scossa e, al contempo, si eccitò al pensiero
di quell'episodio. Sotto gli occhi di tutto il personale dello
studio, balbettò: «Non ne ho idea».
«Sta' tranquilla, dolcezza» le disse Tad, per rassicurarla.
Le fece l'occhiolino e le mostrò fugace un pollice. «Te la stai
cavando alla grande!»
Senza tregua, senza pietà, Brillstein la incalzò. «Intende
dire, signorina Harrigan, che la sua anatomia è
particolarmente adatta a una così profonda e ampia
esplorazione?»
Penny si adombrò. «Mi sta domandando se sono una
zoccola?»
«Voglio capire» replicò Brillstein, sarcastico «se lei ha
contribuito con le sue particolarità uniche al lavoro di
ricerca.» Disse "uniche" come se fosse una parolaccia.
«Ci sono stati momenti in cui ho rischiato di morire»
ribatté Penny. Si sforzò di non dare segni di nervosismo
sotto quello sguardo penetrante.
«Per il dolore?» Brillstein la odiava.
«Non proprio.» Circondata da sguardi, il solo luogo per
lei sicuro dove puntare gli occhi era il pavimento.

171
Brillstein cambiò argomento. «Lei ha detto che il signor
Maxwell aveva compiuto studi approfonditi su tutto ciò che
riguarda l'erotismo...»
Penny, allora, raccontò quel che ricordava dei vari guru
e delle cortigiane di cui Max le aveva parlato. Nominò Baba
Barbagrigia, la principale guida di Max, e spiegò che quella
santona viveva da eremita in una grotta sulle vette
dell'Himalaya, dove lui era andato a scovarla. Penny riferì
come l'antica maestra avesse iniziato lo studente
miliardario a tecniche erotiche che risalivano agli albori
dell'evoluzione umana. Penny non fece parola di Clarissa
Hind e di come la sventurata presidente avesse sollecitato
Penny ad andare a sua volta a studiare presso la mitica
vegliarda. A che pro trascinare nel fango il nome e il
ricordo della tormentata presidente?
Di nuovo Brillstein la interruppe. «Se le mie domande le
paiono troppo ostili, signorina Harrigan, tenga presente che
le sto facendo un favore. Il collegio di difesa del signor
Maxwell non le userà tanti riguardi.»
Penny si fece forza. Con le spalle dritte e il mento
proteso, aspettò l'affondo.
Brillstein socchiuse gli occhi beffardo. «È vero che lei ha
consentito al signor Maxwell di stimolarla analmente in un
raffinato ristorante francese?» Ci godeva a torchiarla. Con
lo sguardo dissezionava il suo corpo alla maniera dei ricchi
sconosciuti che alle feste parigine avevano cercato di
decifrare i suoi sensuali segreti. L'implicita ma lampante
convinzione di Brillstein era che lei, a letto, fosse una
ninfomane svitata.
Rispose gelida: «Maxwell e io eravamo ricercatori con
pari dignità». Sentiva che Brillstein stava preparando il

172
colpo di grazia. Malgrado il flusso costante dell'aria
condizionata, la sala riunioni era una sauna. Gli uomini si
allentarono la cravatta. Le associate, invece, sembravano
sciogliersi per empatia con lei, e si facevano vento con il
primo documento legale a portata di mano.
«È vero» disse Brillstein consultando alcuni appunti
«che in data 17 aprile, tra le ore 19 e le ore 21, lei ha
dichiarato al signor Maxwell di aver provato quarantasette
diversi orgasmi a causa di quella che lei ora chiama
"ricerca"?»
Penny si bloccò. Era vero, ma com'era possibile che
Brillstein disponesse di quei dati? Lei non ne aveva parlato.
La sola risposta possibile era che doveva aver parlato con
Maxwell in persona. Questa deduzione la raggelò: Brillstein
si era segretamente alleato con Max.
Imbaldanzito, il legale rincarò la dose. «Per un'ora
intera ha avuto una pulsazione media di 180 battiti al
minuto.» Rifacendosi agli appunti, disse: «La sua
respirazione era arrivata a 91 respiri al minuto». Quelle
notizie provenivano chiaramente dai taccuini di Max. «Non
le pare una ricompensa sufficiente per la sua partecipazione
a questo, diciamo, "esperimento"?» Sorrise compiaciuto e
con quei suoi occhietti luccicanti la sfidava a smentire
quanto da lui sottinteso.
Senza attendere la risposta, il socio anziano premette un
pulsante installato sul tavolo della sala riunioni. Uno
schermo per proiezioni calò rapidamente dal soffitto. Un
altro pulsante mise in funzione un proiettore, e da
altoparlanti invisibili giunsero grida inarticolate. Lo
schermo era occupato dalla figura di una donna nuda
mostruosamente ingrandita. Si dimenava supina tra cuscini

173
di satin bianco, con le dita che stringevano lenzuola di satin
bianco. L'impugnatura di un oggetto rosa acceso le
spuntava tra le gambe. Quando il suo dibattersi frenetico
sembrò sul punto di espellere lo strumento, la mano di un
uomo fuori campo entrò nell'inquadratura e risospinse al
suo posto l'utensile. A un dito di quella mano era infilato un
anello con un grosso rubino incastonato.
Era la mano di Max. La donna sullo schermo era Penny,
che ansimava come un'ottentotta infoiata.
«E questo, signorina Harrigan» domandò Brillstein,
accennando beffardo al filmato, a voce altissima per farsi
udire in quel profluvio di grugniti registrati, «come lo
spiega?»
Penny si voltò verso Tad in cerca di sostegno, ma lui si
era girato dall'altra parte. Con i gomiti puntati appena
sopra le ginocchia, la faccia nascosta tra le mani, scuoteva
la testa disperato.
Un conto era discutere delle procedure di
sperimentazione facendo uso di un altisonante legalese, ma
vedere Penny che si voltolava sull'orlo della follia in preda
a un orgasmo da animale selvatico... proferendo oscenità
irripetibili... be', non sembrava esattamente una scienziata
scrupolosa e stakanovista. In quei momenti di bruciante
umiliazione, mentre decine di esperti avvocati si
domandavano se lei fosse la contitolare di un brevetto
vittima di una truffa o semplicemente una baldracca
libidinosa, Penny udì un rimbombo familiare. Un cupo
ronzio riverberò tra i grattacieli circostanti. Un elicottero
stava per atterrare sul tetto del palazzo, tre piani sopra di
loro.
Penny non ebbe bisogno di domandare. Sapeva chi c'era

174
su quell'elicottero.
Il filmato si interruppe. Lo schermo scomparve nel
soffitto.
«Signori» propose Brillstein, «vogliamo procedere?
Abbiamo un'altra lunga deposizione da raccogliere, questo
pomeriggio.»
Mentre gli stanchi avvocati si alzavano in piedi per
lasciare la sala, Brillstein tese a Penny la mano. «Se posso
permettermi di darle un piccolo consiglio, signorina» disse,
«credo che sarebbe molto sciocco da parte sua persistere
nel proposito di intentare causa.»
Penny si lasciò guidare da lui verso la porta.
Prima di congedarsi, in corridoio, Brillstein le chiese un
favore.
Stordita, muta, Penny annuì.
«Mi faccia una cortesia, se possibile» disse, con un tono
che grondava disprezzo. «Dica alla sua amica Monique che
è licenziata!»
«Ti prego, non essere arrabbiata con me, tesoro.» Era la
madre di Penny, al telefono da Omaha.
Penny era seduta al tavolo della cucina quando il
telefono aveva squillato. I notiziari, quel giorno, non
parlavano d'altro che della compianta presidente. La Casa
Bianca non aveva fornito spiegazioni ufficiali, ma la
commissione d'inchiesta aveva reso pubbliche le sue
conclusioni. Secondo i protocolli di sicurezza, la
comandante in capo veniva solo di rado perquisita o fatta
passare attraverso i metal detector. Si era sempre pensato
che lei potesse essere il bersaglio, non l'autrice di un
attentato. E invece lei era una cosa e l'altra. Il
vicepresidente -- maschio, ovviamente -- aveva prestato

175
giuramento in tutta fretta. I magniloquenti commentatori
dei talk show radiofonici attribuivano il suicidio alla
menopausa.
Con la pistola così vicina ai microfoni, il fragore era
stato assordante. A Penny fischiavano ancora le orecchie,
ma doveva concentrarsi su quel che sua madre le stava
dicendo da Omaha.
Soppesando con cura le parole, la casalinga del
Nebraska disse: «Ho comprato qualcuno di quegli aggeggi
Beautiful You».
Penny restò senza fiato.
La confessione trasformò la voce della madre in uno
squittio da ragazzina. «Perché non me l'hai detto? È una
sensazione incredibile!» esclamò. «È per questo che Dio mi
ha fatto donna!»
Penny cercò di interloquire, ma non ci riuscì.
«Tuo padre è tutta la settimana che se ne sta immusonito
nel suo laboratorio a lavorare il legno.» Poi, più
timidamente, aggiunse: «Non sono fatti per durare a lungo,
vero?».
Penny domandò: «Qual è quello che si è rotto?».
La madre arrossì così forte che Penny se ne accorse al
telefono. «Sa Dio come lavorano i tecnici che fanno le prove
di durata. Certo, io l'ho un po' torturato. Peggio di John
Cameron Swayze nella pubblicità degli orologi Timex.»
Penny ricordava vagamente lo slogan che reclamizzava
quell'orologio: "Lo puoi strapazzare e continua a
funzionare".
«Finché ha resistito» continuò la madre, allarmata, «me
la sono spassata da matti!»
Penny incrociò le dita. «Che articolo era?»

176
"Fa' che non sia la Libellula" pregò.
«La Libellula.»
«Mamma!» sbottò Penny, indignata.
Incurante, la madre proseguì: «Ti sei comprata quelle
nuove scarpe per cui tutte vanno pazze?». Con l'entusiasmo
logorroico di un'adolescente, aggiunse: «Be', penserai che
sono pazza anch'io... Quelle scarpe sono orribili, ma le
pubblicità in televisione mi stuzzicano qualcosa dentro.
Solo a vederle, vado in solluchero».
Poco prima, Penny aveva bussato alla porta della
camera dell'amica. Non aveva avuto il coraggio di darle la
brutta notizia del suo licenziamento per assenteismo. Era
rimasta in corridoio a girare la maniglia della porta chiusa
a chiave, e a ripetere: «Apri». Aveva appoggiato l'orecchio e
aveva sentito quell'inquietante ronzio. «Apri» aveva
insistito. «Hai bisogno di aiuto.»
La porta, a un certo punto, si era schiusa un filo. Ne era
uscito un fetore terrificante. Attraverso la fessura Penny
aveva intravisto un teschio incorniciato da ciocche di
capelli lerci. «Amica» aveva detto il teschio, «devi andare a
prendermi delle batterie.» La porta si era richiusa di botto.
E Penny aveva sentito quel ronzio ovattato che
ricominciava.
Era pazzesco che anche sua madre fosse ora minacciata
dalla stessa spaventosa ossessione. Cercando di deviare
l'attenzione dell'anziana donna, Penny domandò: «Hai
cercato su quei vecchi numeri del "National Enquirer" di cui
si era parlato?».
Come per un riflesso, Penny si portò due dita sul collo.
La pulsazione era a 127. Da quando era stata con Max era
fissata con il controllo delle proprie funzioni vitali.

177
La madre ci mise un po' a rispondere. Forse era pura
suggestione, ma Penny ebbe l'impressione di udire un
ronzio attraverso il telefono. «Mamma» domandò Penny, «il
papà sta per caso usando la sega elettrica?»
«Ah, era un po' che volevo dirtelo» rispose la madre.
«Tuo padre potrebbe telefonarti.» La voce si ridusse a un
bisbiglio. «Vuole farmi mettere la camicia di forza e
rinchiudere in manicomio.» Quindi, esasperata, sibilò:
«Solo perché io me la godo alla grande».
«Mamma... e quella ricerca sui tabloid?» insistette
Penny. «Dovevi cercare notizie sull'infanzia di Maxwell!»
La madre cambiò discorso. «Che cosa fai stasera?»
Penny contò 131 battiti al minuto. «Stasera?» Doveva
verificare una cosa. «Ho invitato a casa mia un amico per la
serata.»
«Un amico speciale?» domandò la madre.
«Sì» rispose Penny, senza la minima ironia. «Passerò la
sera con una persona molto speciale.»
Brillstein doveva aver visto comparire il nome di Penny
sul display del telefono, perché rispose al secondo squillo.
Con voce suadente, rauca di desiderio, sospirò: «Sì?».
Sullo sfondo, una voce matronale domandò: «Tesoro, chi
è che chiama così tardi?».
«Bah, nessuno» rispose lui ad alta voce, allontanando la
bocca dal microfono. «Cose di lavoro. Forse devo tornare in
ufficio per qualche ora.»
Quando mancava ormai pochissimo all'arrivo di
Brillstein, Penny accese il gran lampadario nel foyer della
casa e prese posto in modo da rendere visibile la propria
sagoma attraverso la grande porta di vetro smerigliato.
Nell'attesa prese a muovere i fianchi per conferire alla

178
propria ombra, vista dalla strada, un che di ancora più
provocante.
Eccola ondeggiare su tacchi incredibilmente alti: un
altro acquisto fatto nel tentativo di stuzzicare la fantasia di
Maxwell. La trappola era pronta. Il campanello suonò: ding-
dong.
«È aperto» disse Penny con la voce più sensuale di cui
era capace.
Brillstein fece irruzione ansimando, come se avesse
corso per tutto il tragitto. Vedendola in quel trionfo di
piume, fece schioccare le labbra con grande compiacimento
e disse: «Be', proprio come sospettavo... Una puttanella
tutto pepe».
Penny schivò l'assalto. Mentre lo guidava per gli ampi
locali della casa, lasciò che le mani di lui vagassero su e giù
sulle sue curve di seta. «Oh, signor Brillstein! Oh!»
Simulando qualche risolino, eluse un secondo assalto. «Da
quanto tempo desideravo che succedesse!»
Lo stupido depravato si stava già togliendo il soprabito,
la camicia, i pantaloni. La seguiva intorno a tavoli e divani,
sempre a un passo dall'afferrare quella carne giovane e
levigata.
Tormentandolo, Penny domandò, civettuola: «Lei lavora
per Maxwell?», e ridendo vezzosa si dileguò.
Brillstein fece un mezzo sorriso. Si asciugò la bava alla
bocca con il dorso di una mano giallastra. Un gatto pronto
a sbranare una canarina molto sexy.
Facendo il broncio per fingersi offesa, Penny sfuggì a un
altro attacco e domandò: «Come ha saputo tutti quei
particolari degli appunti di Max?».
I boxer Brooks Brothers di Brillstein erano tesi verso di

179
lei, e i fianchi porcini e villosi già sgroppavano trepidanti.
Le natiche vizze contratte, spingeva in avanti il pube
congestionato, emettendo piccoli grugniti gutturali di
frustrazione. «Se ti fai prendere» promise «ti dirò tutto.»
Penny lo portò di sopra, in camera da letto. Lì si mostrò
eccitata, tra miagolii e contorsioni, nella stessa maniera
fasulla che tanto faceva arrabbiare Maxwell. Brillstein non
sembrò accorgersi che le pulsazioni di Penny erano rimaste
immutate. Che lei non stava sudando. Le salì sopra, sul
letto. Le aprì le gambe a forza. Si liberò dei boxer e non fece
neppure finta di voler dare piacere anche a lei. Un filamento
di bava trasparente colò dal pene eretto, quando lui glielo
strofinò addosso e imbrattando con questa secrezione la
pelle depilata di lei, si mise a canticchiare «Che liscia! Che
liscia!».
Si sputò su una mano e le spalmò rudemente la
disgustosa bava tra le gambe. Siccome lui faticava a
centrare il bersaglio mobile, Penny tenne fermo il bacino
per permettergli di entrare.
Con un unico colpo entrò tutto dentro di lei. Penny si
aggrappò alla carne sfatta di lui e serrò la presa,
preparandosi al peggio. Sin dall'inizio aveva pregato che la
sua teoria fosse corretta.
Lo era. Prima di potersi ritrarre per dare una seconda
spinta, Brillstein cominciò a urlare come un porco del
Nebraska appena castrato. Prese a dimenarsi per togliersi
da quella situazione, ma le mani forti di Penny lo tennero
fermo dov'era. Qualunque cosa fosse, dentro di lei c'era
qualcosa che gli stava facendo male: Brillstein implorava
pietà. Le sue mani maculate spingevano e la colpivano, ma
Penny non mollava.

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«Dimmelo!» intimò lei, spingendo in avanti il bacino per
tenerlo prigioniero nella sua camera di tortura vaginale.
«Dimmi che cosa sta facendo Maxwell!»
Brillstein ululava. Qualunque cosa Maxwell le avesse
impiantato, stava facendo il suo lavoro di cane da guardia.
«Maxwell ha qualcosa a che fare con la morte di
Alouette?» lo incalzò lei. «L'ha uccisa perché lei voleva
fargli causa?»
«Sì» strillò Brillstein. «Mi fai male!»
Era rosso in faccia, stravolto. Penny insistette, gridando
a sua volta: «Tutto questo ha qualcosa a che fare con
Beautiful You?».
«Non lo so!» Singhiozzava e si contorceva come se uno
sciame di calabroni stesse accanendosi contro il suo
membro virile sepolto.
Le stava sanguinando dentro, ma a Penny non
importava. La sua migliore amica e la sua carissima madre
erano in pericolo. Milioni di donne correvano un grave
rischio. Continuando l'interrogatorio, torchiandolo come lui
aveva torchiato lei durante la sua deposizione, domandò:
«Qual è il piano malvagio architettato da Maxwell?».
«Non lo so!» rispose lui con un pietoso guaito.
A quel punto, Penny allentò la presa letale su quel culo
sudato, e fra i gemiti il socio anziano si liberò dal suo
abbraccio. Sanguinando copiosamente, a denti stretti disse:
«Devi avere la spirale o qualcos'altro fuori posto».
Mentre si avviava in bagno in cerca di disinfettante e
tamponi di cotone, Penny si compiacque di aver visto
giusto. La piccola confessione di Brillstein aveva
confermato i suoi peggiori sospetti. C'era davvero
un'oscura trama in atto. Quando lei versò l'antisettico

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alcolico sulle parti intime danneggiate del suo capo, quello
si mise a urlare ancora più forte, e andò avanti a lungo. Con
il sangue di lui che ancora le colava tra le cosce, Penny
prese una valigia da una cabina armadio e cominciò a
riempirla di capi Vera Wang. Al contempo ordinò al
telefono: «Siri, prenotami un volo dal J F K per il Nepal, con
scalo a Omaha, Nebraska. Per quando? Per stasera!».
Prima di abbandonare in tutta fretta il suo domicilio,
Penny aveva cacciato Brillstein fuori dalla porta nudo,
sanguinante, con i vestiti appallottolati tra le braccia. Era
anche andata a bussare alla porta di Monique, sempre
chiusa a chiave. «Mo, mi senti?» Aveva infilato sotto la
porta delle Pop-Tarts ai mirtilli. «Mangia qualcosa» la
esortò. «Cerca di non disidratarti. Torno prima possibile.»
Per tutta risposta, le era giunto soltanto il familiare e
sommesso ronzio che risuonava in quella stanza da giorni.
Percorrendo in fretta l'atrio dell'aeroporto J F K , Penny
notò di sfuggita che non c'erano donne in giro. Dagli
addetti alle biglietterie ai viaggiatori, solo maschi. Le
donne avevano chiaramente smesso di esistere nella sfera
pubblica.
Per non attirare l'attenzione di uomini ostili -- New York
City si stava trasformando in una polveriera sessuale! --
aveva indossato per prudenza un tailleur pantalone vintage
di Yves Saint Laurent. Un look leggermente maschile,
accentuato dal dolcevita bianco a coste che attenuava il
profilo del suo seno stupendo. Aveva raccolto la folta
chioma sotto un berretto di lana fatto a mano e si era messa
appena un velo di lucidalabbra con brillantini.
Camminando, muoveva le spalle ostentando sicurezza. Se

182
avesse attirato lo sguardo di qualcuno, sarebbe sembrata
semplicemente un giovane marinaio alla moda in licenza.
La stessa fonte interna allo studio B B &B che aveva
parlato alla presidente Hind della causa che Penny era
decisa a intentare doveva aver passato le ultimissime
notizie ai tabloid. Nelle edicole dell'aeroporto, i titoli di
testa strillavano: Penny "Cenerentola" Harrigan inventrice di
giocattoli erotici! Gli articoli in prima pagina riferivano con
dovizia di particolari che Penny aveva dichiarato di aver
contribuito con le sue zone erogene al perfezionamento
dell'armamentario sessuale Beautiful You. A corredo degli
articoli, ogni giornale mostrava una foto di Penny con la
testa affondata in un cuscino di satin bianco. Dagli occhi
incrociati e la lingua di fuori si capiva che erano
fotogrammi del video girato da Max a Parigi. Erano
immagini straordinariamente sexy, ma non le davano
quell'aria da grande esperta di ergonomia descritta dai
tabloid.
Seduta al sicuro nella lussuosa cabina di un jet preso a
nolo, Penny accese il suo computer e si collegò a Internet.
Bastarono pochi titoli per confermare le sue peggiori paure.
Per la prima volta dalla fondazione, la National
Organization of Women aveva annullato il suo convegno
annuale per mancanza di partecipanti. Sei settimane prima,
il programma degli interventi era già quasi completo, ma
dopo il lancio dei prodotti Beautiful You, tutte le delegate
avevano dato forfait. Alcune avevano parlato di interessi
più personali da curare. Le altre sostenevano di essere
impegnate nell'esplorazione di vie alternative
all'autoappagamento. In ogni caso, senza più iscritte attive

183
e senza più convegno, la N O W era sull'orlo della
dissoluzione. Allo stesso modo, quando Penny telefonò alla
sede nazionale della League of Women Voters, un
messaggio registrato le disse che l'organizzazione si
trovava temporaneamente a corto di personale e che
sarebbe rimasta chiusa fino a data da destinarsi. Le donne
elette al Senato e alla Camera dei Rappresentanti
mancavano all'appello da almeno una settimana.
Per quanto intimorita, Penny continuò a cercare
informazioni.
In un articolo che in apparenza trattava di tutt'altro si
diceva che tutte le atlete della squadra olimpica americana
si erano ritirate. Tutte le migliori atlete -- dalle hockeiste su
prato alle ginnaste, alle pattinatrici artistiche -- preferivano
restarsene a casa e rinunciare alla possibilità di vincere una
medaglia d'oro. Un altro sito di notizie spiegava che tutte le
cantanti alto e soprano del Coro del Tabernacolo dei
Mormoni erano assenti senza giustificazione.
Si parlava di un 100 per cento di assenteismo tra le
donne in tutti i servizi di cura alla persona.
Nel frattempo, secondo alcuni siti di finanza, le
quotazioni di DataMicroCom erano schizzate alle stelle.
Tutte le sue sussidiarie, Beautiful You in particolare,
stavano facendo registrare vendite record.
A Omaha, un anonimo furgoncino bianco la attendeva
presso l'area arrivi dell'aeroporto.
«Penny!» esclamò l'uomo seduto al volante. Era suo
padre. Poi, perplesso, le domandò: «Pen-Pen, perché sei
vestita come un marinaio?».
La portiera sulla fiancata si aprì scorrendo. Uno
sconosciuto lì appostato le gridò: «Salta su, presto!». Le

184
fece cenno di passargli la valigia e disse: «Dobbiamo
andare a salvare tua madre!».
Lo sconosciuto si chiamava Milo ed era il capo della
sezione locale dei Promise Keepers, quella a cui era iscritto
anche il padre di Penny. Il furgone era di Milo, e il retro era
vuoto, se si escludevano una valigetta di pronto soccorso,
alcune coperte ripiegate e un inquietante rotolo di corda di
nylon. Mentre il padre di Penny guidava per le strade di
Omaha nel silenzio di quelle ore notturne, lei e Milo
perlustravano con lo sguardo marciapiedi e vicoli in cerca
della scomparsa. Milo infilzò l'ago di una siringa nel tappo
di gomma di un flacone, da cui aspirò un liquido
trasparente. In un quartieraccio infame scorsero una figura
in accappatoio che spingeva uno sferragliante carrello della
spesa. I capelli le ricadevano disordinatamente davanti alla
faccia. Aveva gli occhi acquosi e gonfi. Le gambe nude
erano striate di fango. Nel carrello, un assortimento di
logori accessori fucsia Beautiful You che sbatacchiavano
uno contro l'altro. Su un lato del carrello c'era un pezzo di
cartone su cui stava scritto: "Lavoro × batterie".
«Fermati qui» disse Milo sottovoce. «Non spaventarla.»
Aprì la portiera scorrevole sulla fiancata quando il
furgone non si era ancora fermato. La donna con il carrello
non fece in tempo a rendersi conto del loro arrivo: Milo le si
avventò contro con una coperta spiegata tra le mani e gliela
gettò addosso, finendo a terra con lei. La donna si mise a
urlare e cercò di liberarsi dal placcaggio di Milo, che a sua
volta si mise a gridare: «Dammi la corda! E anche il rotolo
del nastro isolante!».
Penny si ritrasse in un angolo del furgone, ma suo padre
saltò giù e prese la corda arrotolata. Lui e Milo legarono la

185
donna in accappatoio e la caricarono alla svelta sul furgone.
Lei, intanto, strillava: «No! I miei giocattoli! Non voglio
separarmi dai miei giochini!».
Milo richiuse la portiera scorrevole, mentre il padre di
Penny, dando gas, ripartì sgommando. Alle loro spalle, il
carrello abbandonato e il suo triste carico scomparvero in
lontananza.
Il rapimento aveva richiesto meno di novanta secondi.
Nella penombra, sul retro del furgone, la donna rapita
continuava a inveire, finché Milo non le affondò la siringa in
un braccio.
Ancora affannato, ma guidando più lentamente, il padre
di Penny disse: «Mi spiace che tu abbia dovuto assistere a
questa scena, mia cara».
Solo allora Penny riconobbe la disgraziata sotto sedativi
immobilizzata dalla corda.
Era sua madre.
«Povera donna» disse Milo con un moto di
compassione, tappandole la bocca con il nastro isolante.
«Dobbiamo deprogrammarla.» Attraversarono vie e
quartieri pittoreschi di cui Penny conservava ricordi
infantili.
Suo padre le raccontò di come la madre fosse
rapidamente sprofondata nella follia. Lui e altri aderenti
alla loro chiesa avevano deciso di intervenire e di parlare
con la madre di Penny del suo uso compulsivo dei prodotti
Beautiful You, ma lei non aveva voluto ammettere di avere
un problema. Ora l'avrebbero riportata a casa per
sottoporla, con l'aiuto dei tranquillanti, a una serie di
trattamenti ipnotici e di terapie dell'avversione, per aiutarla
ad abbandonare il suo comportamento autodistruttivo.

186
Penny non era stupita: ovvio che non avesse
riconosciuto quella pazza farneticante. La madre aveva una
faccia itterica e segnata dallo sfinimento. A casa fu
trasportata con riguardo, tutta legata, su per i gradini della
veranda. Quando la paziente, per il suo bene, fu finalmente
privata degli indumenti e legata per i polsi e le caviglie alle
colonne di un letto che c'era in solaio, Penny scese in
cantina, dove le annate del "National Enquirer" conservate
dalla madre riempivano diversi scaffali dal pavimento al
soffitto. Ogni scaffale era classificato per anno e mese e
ospitava i fascicoli corrispondenti, ma Penny non dovette
cercare a lungo. In una pila a parte c'erano i numeri che
contenevano notizie su C. Linus Maxwell. "Che cara, la
mamma..." pensò Penny. La povera sciagurata era riuscita
almeno a fare qualche ricerca, pescando quelle preziose
pubblicazioni tra le migliaia ammassate nel precedente
mezzo secolo.
Penny portò i giornali in soggiorno, accanto alla sua
poltrona prediletta e iperimbottita davanti al caminetto, e
dopo essersi preparata una meritata tazza di cioccolata
cominciò a leggere.
Non c'erano particolari novità da racimolare. Cornelius
Linus Maxwell era nato il 24 gennaio 19... all'Harborview
Medical Center di Seattle. Non si avevano notizie del
padre. La madre l'aveva cresciuto da sola e non aveva
avuto altri figli.
Maxwell aveva frequentato la University of Washington,
ma aveva abbandonato gli studi al penultimo anno, dopo
l'uccisione della madre. Si vociferava che avesse lasciato
l'università per seguire gli insegnamenti di una qualche
santona himalayana. Pettegolezzi meno gustosi lo davano

187
in qualche remoto bordello o in una clinica segreta, dove si
vendeva di tutto. Sesso sfrenato... droghe da stilisti...
Comunque fosse, Maxwell era scomparso per sei anni.
Pochi mesi dopo la sua ricomparsa sulla scena pubblica, si
era alleato con la giovane e ambiziosa Clarissa Hind.
In un numero di dieci anni prima, la pagina economica
dell'"Enquirer" aveva pubblicato un reportage in dieci
puntate sui progetti della DataMicroCom. Per dieci numeri
consecutivi, il tabloid descriveva Max come un pioniere nel
campo delle tecnologie microrobotiche. Questi "nanobot",
detti anche "nanità", erano robot così piccoli che venivano
misurati in milionesimi di metro. Erano grandi all'incirca
come molecole. Penny aveva sempre trovato noiosa la
scienza, ma quella lettura fu molto interessante. Le
principali ricadute delle nanotecnologie erano attese nel
campo della medicina. Indicati con il nome più specifico di
"nanomedibot", questi robot medici erano di dimensioni
così microscopiche da potersi muovere liberamente nel
sangue o lungo le reti neurali per riparare tessuti
danneggiati a livello molecolare.
Un approfondito articolo pubblicato sulla pagina
scientifica del giornale completò il quadro. Alcuni nanobot
erano progettati per percorrere vene e arterie e rimuovere
pericolosi accumuli di placca. Altri sciami di nanobot
andavano in cerca di tessuti cancerosi e li distruggevano
con il calore o con una chemioterapia mirata.
Una vocina nella testa di Penny sussurrò: "E alcuni
nanobot fuoriescono da prodotti per la cura personale e si
impossessano dei crura del tuo clitoride!".
Cercò altre notizie sullo sviluppo dei nanobot, ma gli
articoli del giornale portavano in un vicolo cieco. Dopo un

188
decennio di ricerche pionieristiche nel campo dei robot in
miniatura, la DataMicroCom a quanto pareva aveva
abbandonato il settore. Stando a un ultimo articoletto, Max
aveva dichiarato che i nanobot non erano convenienti in
termini di costi/benefici. Aveva chiuso il settore
microrobotica e dirottato le risorse nello sviluppo della più
redditizia linea di prodotti Beautiful You.
Scioccata, Penny si ricordò dell'episodio sulla limousine
della presidente. Senza stimoli apparenti, si era sentita
sempre più eccitata. Anzi, non soltanto eccitata, bensì
sull'orlo dell'orgasmo. Tutta la sua coscienza di sé si era
ridotta alle punte dei capezzoli eretti e del clitoride.
C'erano volute le tenere rassicurazioni della presidente per
superare quell'ondata di frenesia erotica.
Ripensò alla crisi fatale avuta da Alouette sul palco del
Kodak Theatre. Al tormento di sua madre, legata al letto al
piano di sopra. Era sempre lo stesso accessorio che si
guastava: la Libellula. L'idea poteva sembrare assurda, una
teoria del complotto che solo una femminista assatanata
avrebbe potuto sostenere. Poteva darsi, però, che quel
giocattolo non si fosse guastato, bensì avesse deposto le uova.
Il corpo della Libellula si era aperto, liberando sciami di
microscopici robot abbastanza piccoli da poter risalire
attraverso la cervice fino all'utero. Abbastanza minuti da
riuscire a oltrepassare la barriera tra sangue e ovaie e
muoversi attraverso il sistema nervoso. Finanche al
cervello, magari. Non si poteva prevedere in che modo
avrebbero influenzato il suo comportamento e le sue
percezioni.
Durante il volo da New York, Penny aveva letto di una
ventina di compratrici che avevano scatenato una rissa in

189
Times Square per accaparrarsi un nuovo profumo. Allo
stesso modo, a Roma, le maniache dello shopping si
azzuffavano per impossessarsi di una crema per il viso
pubblicizzata a martello.
Naturale che la radiografia cui Penny si era sottoposta
dopo l'aggressione nel metrò non avesse evidenziato nulla.
I nanomedibot sfuggivano a qualsiasi normale strumento
diagnostico. E ormai, concluse Penny, erano impiantati in
decine di milioni di donne in tutto il mondo
industrializzato.
Se Brillstein aveva detto il vero, se Max cioè aveva
davvero causato la morte di Alouette, allora forse i nanobot
potevano non solo dare piacere, ma anche la morte.
Penny finì la sua tazza di cioccolata e risalì in solaio.
Nella penombra trovò il padre e Milo in piedi accanto alla
figura nuda della madre legata che si dimenava con gemiti
soffocati a causa del nastro isolante sulla bocca.
«Non possiamo curarla» disse Milo con coraggio, «ma
possiamo contenere le sue abitudini autolesionistiche.» I
due uomini si inginocchiarono ai lati del letto e
cominciarono a pregare in silenzio con le mani giunte.
Siringhe nuove e flaconi di tranquillante occupavano il
ripiano di un comodino.
Osservando impotente la scena, Penny cominciava a
convincersi delle proprie conclusioni: forse all'origine delle
smanie sessuali di sua madre c'erano i nanobot.
«Papà» disse, «io devo andare.»
Il padre la guardò allarmato. «Sai, Pen-Pen, quando tua
madre e io vivevamo a Shippee, i dottori ci avevano detto
che lei non avrebbe mai potuto avere figli.»
Penny era incuriosita. Questa non l'aveva mai sentita.

190
Guardò l'orologio. Il jet la stava già aspettando sulla pista
di decollo.
Rivolto verso la moglie narcotizzata e inerte, il padre di
Penny disse: «Tutti gli specialisti che avevamo consultato ce
l'avevano ripetuto».
Penny si avvicinò al padre e gli cinse le spalle in un
abbraccio.
Ancora inginocchiato, le sorrise. «Sei stata un dono di
Dio, per noi.» Con una professione di fede, aggiunse: «Se
Dio ha potuto darci una figlia meravigliosa come te...» le
scompigliò i capelli «... allora magari libererà anche tua
madre da questa orribile malattia».
Anche Milo la guardava, con un'espressione illuminata
dalla fede. La madre nuda e fuori di senno era in buone
mani. «Resta» le disse in tono vivace. «Resta con noi e
cucinaci qualcosa!»
Penny lesse un S M S . «Il pilota dice che il tempo volge al
brutto. Dobbiamo decollare entro un'ora.»
«Dove vai?» le domandò il padre, sconsolato. Il suo
mondo stava crollando.
Con voce fredda e risoluta, la voce di un'estranea,
Penny disse: «In Nepal». E lo ripeté. «Devo andare in
Nepal.»
Lo yak poté portare Penny solo fino a un certo punto
delle pendici rocciose dell'Himalaya. Dopo lo sperduto
villaggio di Hop Tsing, per gli ultimi quattro-cinque
chilometri, quasi in verticale, fu costretta a cavalcare le esili
e ossute groppe degli sherpa. E neanche loro poterono
portare Penny a destinazione. Quando in lontananza
cominciò a profilarsi una grotta, presero a tremare di
paura. Pronunciando scongiuri per tenere alla larga il

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malocchio, la depositarono sul terreno cotto dal sole e
tornarono sui loro passi. Penny provò a protestare, ma uno
sherpa tarchiatello indicò la grotta lontana e prese a
farfugliare isterico nel suo idioma nativo.
Penny non poté fare altro che proseguire sola.
Mentre scalava la friabile parete di pietra, pensava che
Maxwell, da giovane, doveva aver compiuto lo stesso
pellegrinaggio. A Parigi le aveva raccontato di aver
trascorso anni con quella stramba e vecchia santona. Si era
presentato come volenteroso discepolo, e lei aveva
accettato di iniziarlo alle più esoteriche pratiche tantriche.
Maxwell aveva confessato a Penny che, nonostante il suo
vigore giovanile, gli anni passati con la vegliarda a studiare
le arti magico-erotiche lo avevano quasi ucciso.
Anzi, le aveva rivelato un dettaglio raccapricciante: la
grotta in cui la santona abitava era disseminata di scheletri
di donne e uomini morti di sesso. Le ossa fissate in
posizioni del Kama Sutra di una contorsione erotica
intollerabile.
Con il trolley di Vuitton sulle spalle, avanzava un
centimetro per volta, reggendosi a minimi appigli della
liscia parete rocciosa. Ripensando alle storie di agonia
orgasmica che Max le aveva raccontato, Penny quasi si
augurò che la santona fosse deceduta. Da dieci anni
nessuno la vedeva più. I venti gelidi e secchi rischiavano di
farle perdere la presa sulle sottili fessure cui si aggrappava.
Gli uccelli la prendevano di mira, beccando e graffiando
per difendere i luoghi dove nidificavano. Il fetore di guano
era da svenimento.
Che alternative aveva? Anche la presidente aveva
assicurato che quello era l'unico modo per opporsi alla

192
trama concepita da Maxwell. Assassinando Alouette sotto
gli occhi di tutti, Max aveva dimostrato di poter uccidere
chiunque, ovunque. Teneva in ostaggio milioni di donne,
che lo sapessero o no. Se anche si fosse scoperto che
dipendeva dai nanobot, era ormai troppo tardi.
Solo Baba Barbagrigia poteva fornire un antidoto... una
cura... consigliare una pratica che potesse contrastare
l'azione dei microrobot impiantati nell'organismo.
Penny fu investita da una folata di vento che rischiò di
strapparla dalla parete di roccia. Con un gesto disperato,
sganciò la valigia che aveva sulle spalle, fissata per mezzo
di una cintura di Prada, e la guardò precipitare vorticando
nel vuoto, per un'eternità, finché non esplose in una nuvola
di coloratissimi completi Vera Wang. Più leggera, Penny
poté accelerare. A mezzogiorno, esausta, arrancò fino
all'accesso della grotta. Non c'era nessuno.
Secondo Max, Baba Barbagrigia trascorreva la maggior
parte delle sue giornate solitarie strisciando sulle rocce
scoscese dove raccoglieva i muschi e i licheni che
costituivano la sua misera dieta. Sopravviveva razziando le
uova dai nidi degli uccelli sui dirupi. Molti dei suoi balsami
e cataplasmi afrodisiaci erano fatti con i funghi selvatici da
lei raccolti. Le notti, aveva detto Max, le passava da sola.
Per due secoli aveva vissuto in quella solitudine,
esplorando metodi sempre nuovi e più potenti di darsi
piacere. Erano queste le tecniche che Baba aveva insegnato
a Max e che lui aveva trasferito nella produzione su scala
industriale della linea Beautiful You.
Era vero: la grotta era popolata di scheletri e cadaveri
essiccati di persone apparentemente spirate nella morsa di
orgasmi estremi. Accanto ai defunti c'erano alcuni oggetti.

193
Di fattura artigianale. Si trattava dei rozzi prototipi che
Max aveva perfezionato e sperimentato su Penny. Eccole,
ricavate da palchi di renna essiccati e tenute insieme da
corde di budello, le invenzioni erotiche della solitaria Baba.
Per sopportare le innumerevoli notti solitarie, aveva
progettato e perfezionato tutti quegli strumenti per
l'autostimolazione. Nella sua sconfinata solitudine aveva
accumulato un tesoro di utensili per il piacere dei sensi.
Penny attraversò l'antro e andò a esaminarli. Alcuni, di
pietra viva, levigata fino a diventare liscia come vetro,
erano chiaramente progettati per ottenere lo sfregamento
della spugna perineale. Altri erano ossa di uccelli modellati
per eccitare i crura clitoridei che circondano la vagina. Altri
ancora erano chiaramente per uso rettale.
Perfido Maxwell. Al primo sguardo gettato sugli
ingegnosi giocattoli erotici, invenzione della vecchissima
eremita, doveva aver capito che il loro potere avrebbe
sopraffatto e schiavizzato la donna civilizzata. Quegli
strumenti erano uno più strabiliante dell'altro, e Penny restò
incantata a guardarli, al punto di non accorgersi che sulla
soglia della grotta era comparsa una figura macilenta che si
mosse barcollando verso di lei.
Una voce stridula, tremolante, disse: «Ho ospiti».
Penny si voltò di scatto e vide una megera che
assomigliava nettamente agli utensili e agli scheletri
circostanti. Baba Barbagrigia era lei stessa una scultura di
ossa e tendini, un groviglio di muscoli rinsecchiti e capelli
grigi. Gli occhi risplendevano come pietre di luna,
interamente imbiancati da una densa cataratta. Il suo corpo
scarno era nudo, e l'abbondanza di schifosa peluria pubica

194
bianco sporco da cui derivava il suo nome era cresciuta
tanto da ripiegarsi a terra tra i piedi scalzi.
Maxwell aveva detto che era cieca. La Baba, aveva
spiegato, trovava la strada fra le rupi, si arrampicava e
cacciava con il solo aiuto del tatto e dell'olfatto. Conosceva
la consistenza di ogni fenditura e crepaccio di quei monti.
Conosceva l'odore particolare di ogni lurida fessura.
Alzò il naso e annusò l'aria stantia. Con voce provata
dalle tante stagioni disse: «Sento odore di fichetta giovane e
fresca o sbaglio?».
Penny non si mosse di un millimetro e fece tacere
persino il respiro.
«Non cercare di nascondere il tuo odore» disse la
vegliarda in tono di rimprovero. «È passato tanto tempo
dall'ultima volta che ho avuto un discepolo.» Posò a terra
un cencioso fagotto che aveva sulle spalle e cominciò a
toglierne zolle di muschio. Con grande cura estrasse
piccole uova d'uccello, dicendo: «Già solo dall'odore si
capisce che arrivi da New York, via Omaha».
Maxwell gliel'aveva detto: la Baba era capace di
dedurre l'intera vita sessuale di una persona semplicemente
dal sapore dei genitali.
«Spogliati» disse la vecchiarda con un cenno. «Lascia
che il tuo aroma mi parli di tutte le verità che tu non puoi
rivelare.» Fece un altro passo avanti e si dispose all'attesa.
Penny sapeva di non avere scelta. Sua madre e la sua
migliore amica rischiavano di morire. A un nutrito
segmento della popolazione era stato inoculato un agente
alla cui esistenza nessuno voleva credere. Si sfilò
lentamente le scarpe Christian Louboutin. Poi i pantaloni e
la camicia D K N Y . Infine, si abbassò anche le mutandine

195
Agent Provocateur. Ripiegò e posò tutto con cura su una
grossa pietra.
Nuda, a eccezione del Miracle Bra di Victoria's Secret,
Penny aspettò a sua volta.
Baba Barbagrigia le si avvicinò. La vegliarda tutta
macchie la carezzò tra le cosce con una mano tremante ed
esclamò: «Ah!». Meravigliata, sussurrò: «Sei senza peli. È
forse una delle malefatte di Maxwell?».
Aveva indovinato, ma Penny era troppo spaventata per
proferire parola. Annuì. Aveva usato quel metodo tribale
uzbeko con aloe e pinoli.
La Baba si diede con la punta del dito vizzo qualche
colpetto sulla pelle screpolata del petto. L'azione incessante
dei venti gelidi e secchi le aveva allungato i seni che
sbatacchiavano come bisacce di cuoio. Annuì e sorrise tra
sé. «Sono stata io a insegnargli quel metodo.»
Senza lesinare carezze, la megera allungò lo stesso dito
verso Penny. Gliene infilò soltanto la punta rugosa e disse:
«Piccola mia, la tua vagina è succosissima!».
Come un rametto secco, nodoso e ruvido, il dito scivolò
dentro fino alla nocca. La vecchia sghignazzò: «E anche
molto ricettiva! Sarai un'ottima allieva, mia cara!».
Mentre la reclusa pluricentenaria la sondava, Penny si
sforzò di ricordare tutte le cose che aveva amato in vita
sua. Ad esempio il giro in carrozza per Central Park in
compagnia di Tad. Il gelato butter brickle. E i film di Tom
Berenger. Pensò alle borse Fendi e alle fiere estive, con la
ruota panoramica e lo zucchero filato. Con una nota di
tristezza ripensò a quanto avesse sempre ammirato Clarissa
Hind e all'emozione provata nel giorno in cui, prima donna
in assoluto, aveva prestato giuramento come presidente.

196
Quando ebbe raschiato fino in fondo il barile dei
pensieri piacevoli, Penny rabbrividì, come per resistere,
invano, al dito della vecchia stregona, che sembrava
esplorarle i più profondi recessi della psiche.
Dopo un lungo tastare, il dito si ritrasse. Scintillò per un
attimo nella luce fioca della grotta e poi scomparve tra le
labbra protese della vegliarda. Succhiandolo, la Baba
mugolava, mentre le diventava tutto chiaro. Si tolse il dito
dalla bocca e lo leccò più volte con la lingua grigiastra
prima di pronunciarsi. «C. Linus Maxwell è stato il tuo
maestro.» Cominciò a dedurre tutto di Penny sulla base di
quell'unico campione. «Ti ha iniziato a tutte le arti che io gli
avevo insegnato. È stato il migliore dei miei discepoli. Un
maestro non vede l'ora di avere studenti del genere. Al
giorno d'oggi sono tutti troppo impazienti: cercano solo la
via più breve per arrivare all'orgasmo. Non hanno tempo
da perdere con una vecchia maestra. Maxwell, invece, di
tempo ne aveva.»
L'accurato esame soddisfece la curiosità della vecchia
mistica. Mentre con le mani rosse e scabre continuava ad
accarezzare Penny, disse: «Sì, ho insegnato a Maxwell la
sapienza erotica degli antichi». La voce strideva come i
cardini arrugginiti di una porta che stesse aprendosi su
qualcosa di veramente spaventoso. «Quelle pratiche sono
andate ormai quasi perdute. Nessuno si dedicherà mai più
abbastanza a lungo e con la diligenza necessaria
all'apprendimento delle arti dei sensi.» Maxwell l'aveva
fatto. La Baba era felice di avere un'allieva dopo tanti anni.
«Prima di Max, il mio ultimo allievo l'avevo avuto
sessant'anni fa. Si chiamava Ron Jeremy.»
Parlando, continuava a leccarsi il dito, a saggiarlo.

197
«Maxwell ha appreso tutto ciò che avevo da insegnare.
Secoli passati ad autostimolarmi il grembo, e lui trae
profitto da tutto quel che ho scoperto.» L'espressione della
megera si velò di sgomento. «Ora Maxwell sfrutta la
sapienza erotica millenaria per fare del male a tante donne
per puro egoismo.»
Penny era scioccata dalle divinazioni della santona.
Quando questa le avvicinò quello stecchetto di dito, lei ci
montò sopra con entusiasmo.
Assaggiando il nuovo campione, la Baba declamò: «Tu
covi un grande senso di colpa. Hai tradito una donna che ti
è sorella. Hai aiutato Maxwell a calibrare le sue armi di
controllo. Numerose sono le schiave di Maxwell a causa
dell'opera da te svolta».
A queste parole, Penny scoppiò a piangere. Era vero. Ma
era così orribile che lei non aveva mai osato ammetterlo.
La Baba si succhiò il dito, per poi estrarlo dalla bocca
con uno schiocco. «Tu, Penny Harrigan, sei giunta da me
nella speranza che io ti insegni come combattere Maxwell.»
La lingua grigia accarezzava il dito, sorbendo le verità
annidate tra le sue rughe.
«Conosci anche il mio nome?» domandò Penny
incredula. Era la prima volta che parlava in quella grotta, e
la sua voce riecheggiò acuta. «E l'hai indovinato dal sapore
dei miei umori?»
Le labbra avvizzite di Baba Barbagrigia sorrisero. «Io so
molte cose.» Fece un cenno verso una stuoia di licheni e di
capelli intrecciati che le erano caduti. «Vieni, accomodati.
Avrai bisogno di forza per il tuo addestramento erotico.
Preparo del tè.»
Così come si era sottoposta alle sperimentazioni di Max,

198
confinata nel suo sontuoso attico, Penny si concesse alla
Baba nel chiuso della grotta.
Penny non era mai stata con una donna, ma quello era
un caso diverso. Si sentì più desiderabile che mai quando la
sua carne tenera e soda si ritrovò a contatto con quella
avvizzita della vecchissima strega. La Baba la stava
istruendo, iniziando ai fasti della magia erotica. La
vegliarda la diteggiò senza tregua finché Penny non
cominciò a gridare, come se quelle parole fossero le ultime
da lei pronunciate su questa Terra. La rugosa vecchiarda
raramente le chiedeva di ricambiare, ma in quei casi Penny
si dedicava al compito di farla godere con la massima
reverenza. Ed era per lei il supremo trionfo quando riusciva
a strappare alla maestra anche il più piccolo gridolino di
piacere.
Prima di lasciare la grotta per andare a caccia del
necessario, l'anziana maestra invitò Penny a fare uso delle
ossa e delle pietre a disposizione per modellare i propri
strumenti erotici. Brandendo un oggetto fatto di piume
fissate a certi bastoncini per mezzo di stringhe di robusto
cuoio, la Baba disse, vantandosi: «Potranno sembrarti una
versione estrema degli oggetti imbastarditi
commercializzati da Maxwell, ma questi che vedi sono
concepiti per accrescere le energie delle donne. Non ti
indeboliranno, bensì ti renderanno più forte». Strizzando un
occhio oscurato dalla cataratta, rassicurò la ragazza: «Non
ti sfiniranno». Si avvicinò e con aria maliziosa aggiunse:
«Però dovrai essere disciplinata!».
La Baba ammonì: «Non tutti coloro che cercano la
sapienza erotica degli antichi sono in grado di
sopportarla». Con un sorriso malinconico aggiunse: «I

199
discepoli si avventurano fin qui per apprendere queste arti.
Molti muoiono per le fatiche del viaggio; ma i più si
uccidono con le loro stesse mani». Raccontò di come lei gli
aveva procurato uova che avevano tralasciato di mangiare.
Li invitava nel suo letto di muschio e piume, ma quelli si
rifiutavano di dormire. «Così va il mondo.» Si strinse nelle
spalle rassegnata. «Io li inizio a qualche elementare pratica
sensuale, e loro finiscono quasi subito consumati dal
piacere autoinflitto.»
Con sua grande sorpresa, una sera Penny portò la sua
maestra a un prolungato e violentissimo orgasmo.
Trafficando abilmente con le labbra e la lingua, stuzzicò
l'astuta vegliarda fino a cavarle una serie di sonori e febbrili
guaiti. La scheletrica maga del sesso sobbalzava
furiosamente sul suo giaciglio di rametti. Le gengive
sdentate biascicavano cose incomprensibili.
Penny portò quel dolce tormento fino all'orlo della
crudeltà, prima di ridurre, a poco a poco, l'intensità
dell'assalto alle parti intime della sua precettrice, per poi
allontanare la faccia grondante dal suo campo d'azione. Si
asciugò il mento sgocciolante con una zolla di muschio
assorbente. Con aria scherzosa, guardò la Baba negli occhi
e disse: «Rivelami un segreto, vecchia mia. Se non lo farai,
riprenderò a leccarti fino a farti impazzire».
Penny sapeva che la maestra era decisamente
soddisfatta. L'anziana donna sembrava ebbra di piacere.
Senza più fiato, infatti, scosse la testa per scongiurare la
minacciata raffica di orgasmi.
«Allora, devi rivelarmi un segreto» pretese Penny.
«Un segreto» concesse la Baba. Supina com'era, si rialzò
sui gomiti. «Maxwell ti ha detto perché è venuto a

200
cercarmi?»
Penny alzò le spalle. «Per la tua sapienza?»
«No» rispose la Baba, scuotendo mesta il capo. «Per
distrarsi. Per dimenticare un grande lutto che l'aveva
colpito.»
«La morte della madre» disse Penny. Non era certo un
segreto: era tutto ampiamente documentato sul "National
Enquirer".
Di nuovo, la mistica corresse la discepola. «Max si è
imbarcato nel suo viaggio di addestramento erotico per
dimenticare la morte di sua moglie.»
Fu Penny, questa volta, a mostrarsi smarrita. Cadde
dalle nuvole. «Di sua moglie?»
La Baba annuì a mo' di silente conferma. Maxwell aveva
avuto una moglie. Al college aveva conosciuto una ragazza
che studiava per iscriversi poi alla law school. Si erano
innamorati. A quei tempi lui non era ancora l'uomo gelido e
asettico con cui si era intrattenuta Penny. Aveva nutrito una
devozione totale nei confronti della neomoglie. Due amanti
sulla soglia di una vita da vivere beatamente insieme.
La stregona del sesso sospirò: «I dettagli della morte
della ragazza non hanno importanza. Una grave reazione
allergica. Senza di lei, anche la vita di Max perdette ogni
significato».
Quando era giunto alla grotta della Baba, era vedovo da
poco. Pieno di amarezza, aveva come unico fine quello di
scialacquare il resto della sua esistenza dedicandosi a ogni
sorta di acrobazia edonistica.
Penny era ansiosa di conoscere la storia per intero, ma
non pareva quello il momento migliore per cercare di
estorcere particolari alla sua maestra. «Come si chiamava?»

201
si limitò a domandare. Fece delicatamente scivolare le dita
nelle parti basse della vecchia. Le stuzzicò giocosamente i
fragili tessuti del buco del culo. Sputò a profusione per
lubrificare il logoro orifizio.
La Baba rispose: «Lo vuoi sapere?». Finì lentamente per
arrendersi alle carezze. La voce le si addolcì come se stesse
sprofondando in un sogno. «Si chiamava Phoebe.»
Phoebe. Quel nome riecheggiava da un pezzo nella
mente di Penny. Phoebe Maxwell. Era probabile che i
dipendenti di Maxwell avessero espunto qualsiasi
riferimento a Phoebe dai giornali di sua proprietà, da
Internet, dalla storia. Doveva essere il suo tallone d'Achille.
Quella donna era la prova che anche Max aveva un cuore.
Mentre rifletteva su questo nuovo aspetto della sua
biografia, si chinò sulla chioma di peli bianco sporco che
attendeva e, anzi, continuava a spingersi in avanti, avida
della sua attenzione.
Tornando a immergersi nei propri pensieri, Penny
avrebbe voluto sapere per quanto tempo Max e Phoebe
erano stati sposati, ma poi, senza domandare, ebbe la
sensazione di saperlo già.
Erano stati sposati per 136 giorni esatti.
Per darle sollievo, la Baba applicò dell'unguento sulle
mucose infiammate di Penny. La sciamana dell'erotismo la
sistemò amorevolmente in un letto di muschio secco e andò
a fare incetta di uova e funghi. Preparò infusi ricostituenti
che la ragazza sorbiva direttamente dal palmo grinzoso
della maestra. Le insegnò a triturare ragni con le pietre per
produrre un efficace lenitivo capace di accentuare, al
contempo, la sensibilità dell'ano di Penny. Le giornate
passavano così tranquille, si era creato un legame così

202
profondo, che Penny finì per dimenticarsi della legione di
robot maligni che probabilmente aveva nel sangue. L'oblio
non durò a lungo.
Come se Max stesse mettendo alla prova il proprio
potere, un giorno Penny sentì i capezzoli indurirsi e
cominciare a pulsare. I capezzoli e il clitoride. Erano scossi
da una tensione violenta. La vecchia maestra, quella
mattina, le aveva procurato un numero incalcolabile di
orgasmi, prima di andare a caccia di uova e lucertole,
perciò questa sensazione giungeva del tutto inaspettata.
Così strana che Penny non poté ricondurla che
all'intervento di Max. Era seduta a gambe incrociate sul
pavimento della grotta e stava bevendo una tazza di tintura
di licheni. La seconda ondata di eccitazione la investì senza
lasciarle il tempo di rialzarsi in piedi.
Penny si sentiva posseduta da una forza demoniaca.
Non aveva il controllo esclusivo sul proprio corpo. Era
come se una forza indipendente le si stesse formando ed
espandendo in mezzo alle gambe. Il seno le doleva dal
desiderio. Le pulsazioni cominciarono ad accelerare. Penny
aveva la pelle d'oca.
Max le aveva spiegato in estrema sintesi questo
fenomeno. La vagina eccitata si stava allargando e
allungando come per accogliere un fallo eretto. Si sarebbe
espansa fino a formare una tasca sopra l'apertura della
cervice, la cui funzione naturale consisteva nell'accogliere e
trattenere lo sperma fino alla fecondazione dell'ovulo. In
natura, questo fenomeno era normale e bello, ma quel che
stava accadendo a Penny era l'effetto della manipolazione a
distanza da parte di Max. Non era difficile figurarsi
squadre di robot microscopici intenti a incantare le sue

203
terminazioni nervose. Anche in quel luogo remoto
sull'Himalaya, Max era in grado di attivarli. Stava facendo
sexting con lei... ma era sesso vero. Come se per farla eccitare
avesse un'applicazione sul suo smartphone! Quale che fosse
il metodo usato, la stava stimolando come aveva fatto con
Alouette su quel palcoscenico. Era una specie di crudele
violenza sessuale via satellite.
Poco dopo, quando la Baba tornò alla grotta, Penny
stava ancora rantolando e contorcendosi per un piacere non
richiesto. La vecchia maliarda si liberò del suo bagaglio di
muschio e corse a dare conforto alla giovane che si rotolava
per terra.
«Resisti» disse la Baba per incoraggiarla, chinandosi
accanto a lei. «Quel che ti viene fatto puoi restituirlo.» Si
umettò un esile dito nella bocca sdentata e lo infilò nella
vagina congestionata di Penny. «Non devi rimanere
passiva» gridò la Baba. «Rinvia questa energia alla sua
fonte maligna!»
Dicendo questo, lanciò uno strillo e ritrasse il dito che
già sanguinava. «Cos'è questa mostruosità?» Osservò la
trafittura sul polpastrello del dito raggrinzito. Il sangue
colava nelle rughe e nei solchi incisi dai secoli sulla sua
mano. «Che cosa ti ha impiantato, quel demonio?»
Penny aveva ormai perso qualunque ritegno, posseduta
com'era dallo spirito di una pazza furiosa con la bava alla
bocca. In preda al delirio, inarcava la schiena e spalancava
le gambe, slanciandole ritmicamente verso l'alto. Con le
mani si frugava il corpo nudo al di là di qualsiasi controllo
razionale, strapazzandosi e sfregandosi con le dita come
una squilibrata, in una frenesia masturbatoria, la testa

204
rovesciata all'indietro, la bocca spalancata, la lingua che si
muoveva lasciva sulle labbra gementi.
La Baba gridò: «Vomita il piacere, lascia che ti attraversi
come se avessi mangiato o bevuto troppo».
Afferrò la ragazza per le braccia e la scosse. «Lo
specchio non resta bruciato dal sole!» Le urlò: «Rinvia il
male alla fonte!».
Mentre sprofondava sempre di più in quel coma erotico,
Penny continuava a sentire la vecchia che la incitava: «Non
si può trattenere tutta l'acqua del mondo nella vescica».
Offuscata dalle sensazioni, percepiva vagamente la
veneranda voce: «Non si può mangiare fino a ingerire il
mondo intero. Il piacere, come il cibo, deve attraversarti. Se
si accumula non lascia spazio a nient'altro. Ti fa esplodere.
La sola speranza sta nel sostituire un piacere con altro
piacere. Come il cibo elimina le tossine dal corpo, così tu
dovrai usare l'amore per scacciare la magia erotica che
Max sta praticando. Se ti concentrerai su quel che ami
potrai liberarti dal suo incantesimo erotico».
Non sapendo più cos'altro fare, Baba Barbagrigia
impugnò un ramificato palco di renna e cominciò a usarlo
con garbo sulle parti intime della ragazza sofferente. «Non
cercare di contrastare le sensazioni» diceva, a mo' di
incoraggiamento. «Figliola, lascia che ti attraversino o farai
la fine di tanti miei discepoli dai cui scheletri sei
circondata.»
Gli occhi di Penny erano rovesciati all'indietro. Dalle
labbra le sfuggivano goccioline di saliva insieme a un
incontenibile profluvio di oscenità.
«Ecco» esortò la Baba. «Dillo forte! Sfoga l'eccitazione!»
Manovrando con delicatezza e ritmicamente le escrescenze

205
ossee di renna, la incoraggiava: «Non trattenere l'energia
dentro di te!».
Con voce arrochita dalla libidine, Penny si abbandonò al
più sconcio degli sproloqui. Con il corpo saturo di piacere,
grugniva e starnazzava sguaiatamente.
«Lasciati travolgere dal piacere!» gridò la megera.
Penny tirò il fiato. Il fiume di lascivia si esaurì.
Lentamente rientrò in se stessa.
La stregona ritrasse con cautela le ramificate
protuberanze di renna. «I tuoi tormenti non cesseranno»
disse. «Solo se sconfiggerai Maxwell, o se lui riuscirà a
distruggerti, troverai requie.» Prese ad applicare ai lividi
che già cominciavano a manifestarsi tra le gambe di Penny
un balsamo rinfrescante di centopiedi triturato.
«Dovrai diffondere i miei insegnamenti» disse la Baba
«presso tutte le donne del mondo, affinché possano
difendersi da questa forza maligna.»
Nella voce di Baba Barbagrigia non c'era traccia di
amarezza. Nuda, si distese sul confortevole letto di
muschio e piume e divaricò le gambe, esponendo senza
vergogna la carne raggrinzita del suo sesso, che lei stessa
cominciò ad accarezzare e a picchiettare lievemente, mentre
si lasciava andare ai ricordi. Ogni tocco sembrava produrre
reminiscenze, come se lei stesse leggendo le storie tra le
pieghe della sua pelle ingrigita. «Rimasi orfana a un'età
crudele. La trovai un mattino all'alba: il corpo di mia madre
giaceva scomposto ai piedi di un alto dirupo dov'era
andata di certo per raccogliere uova di piviere.» Lo
sguardo velato della Baba era rivolto alla storia. «Presi la
mano fredda di mia madre e me la posai sul petto, come a
supplicarla.» A quel modo, la piccola derelitta aveva

206
cercato accudimento ancora per qualche ora dalla genitrice
perduta. «Per un breve periodo trattenni l'energia sessuale,
impedendole di sfogarsi con grida e convulsioni.»
Non c'era voluto molto perché gli spietati cercatori di
sesso del suo villaggio la trovassero: sola, indifesa, a loro
disposizione. Già la prima notte trascorsa dalla piccola
Baba in solitudine nella sua capanna erano arrivati ad
aggredirla.
Con voce arrochita dalla nostalgia, la Baba disse:
«Tracciarono per me una mappa completa della mia
femminilità interna. Mi sarebbe tornata utile. A ogni brutale
colpo inferto, mi insegnavano qualcosa sul mio corpo».
Raccontò di come un numero incalcolabile di selvaggi
l'avesse penetrata, quella notte. In tanti si erano tolti ogni
soddisfazione con il suo tenero corpo di bambina, ma lei
aveva deciso di sottrarre qualcosa a loro, in cambio. Pur
non potendo fermarli, poteva imparare a condizionarli,
accrescendo o riducendo il loro piacere. Da ragazza aveva
avuto a che fare con un migliaio di quegli aggressori e li
aveva usati per i propri fini. Quegli episodi atroci erano
stati la sua scuola. Dalle proprie sofferenze, la Baba aveva
tratto un tesoro di ineffabili pratiche erotiche.
«Cominciai a diventare avida: gli occhi mi brillavano di
smania quando ne vedevo uno che tirava fuori il pene
carnoso. Capii che in ognuno di quei casi avevo l'occasione
di sperimentare e perfezionare le mie arti erotiche.» Chiuse
gli occhi assorta in una rievocazione semionirica. «Tra i
miei brutali istruttori ci furono anche donne, che mi
massaggiavano la testa con i palmi delle mani, mentre con
le dita intrecciate dietro la mia nuca mi costringevano a
leccarle tra le gambe fin quasi a soffocare.» Non c'era

207
sofferenza nella sua voce. Fuori dalla grotta, infuriava una
tremenda bufera di neve. Al riparo, su un focherello da
campo, sobbolliva un brodo di piccoli sauri. La Baba diede
una mescolata e disse: «Tale fu la mia infanzia, ma si trattò
solo di una manciata di anni. Mentre la mia forza cresceva,
quella dei miei sempre più anziani insegnanti scemava. A
quel punto li avevo ormai asserviti con le mie abilità
erotiche: ero diventata depositaria di un tale repertorio di
tecniche erotiche che quelli non trovavano più altra
soddisfazione, e io avevo appreso da loro tutto quel che
avevano da insegnarmi. Mi donavano oro e gioielli, ma io
non sapevo che farmene. Alla fine, in una serie di scene
intrise di pietà e vendetta, portai tutti i miei antichi
aggressori a vette di piacere che finirono per ucciderli».
La Baba si alzò in piedi e, camminando per la grotta
gocciolante, proseguì nel suo racconto. «La mia
reputazione di maestra delle arti del sesso era tale, ormai,
che discepoli di ogni tipo -- giovani, vecchi, donne, uomini -
- ambivano ad avermi come loro guida.» Quand'era una
giovane stregona del sesso, era assediata da pretendenti
desiderosi di apprendere i suoi segreti, il suo vero tesoro,
accumulato nel corso di un'infinità di corpo a corpo in notti
di dolore. «Per ridurre drasticamente il loro numero mi
sono ritirata a vivere in questa grotta. Qui, solo i più forti e
i più giovani possono raggiungermi. I deboli e i vecchi
muoiono durante il pellegrinaggio, e il cammino che
conduce alla mia grotta è pressoché lastricato dalle loro
ossa.» Scoppiò a ridere.
«Gli sherpa stanno alla larga da me e dalla mia dimora»
disse la Baba. «Credono che io uccida i miei pretendenti,
ma chi muore si uccide da sé...»

208
Solo i più sani raggiungevano la grotta. Non c'erano
invalidi tra quegli scheletri. Né gente deforme. I teschi
appartenevano ai più belli, a esemplari umani dalla
dentatura perfetta. Erano venuti in cerca di piacere per se
stessi, spiegò la Baba. «Solo Max era arrivato con
l'intenzione di dare piacere al prossimo, ma quando si rese
conto del potere conferito da questa capacità, fu tentato
dall'idea di dare sì piacere agli altri, ma per il suo
tornaconto personale!»
Indicò gli scheletri, parlando con voce solenne e tetra.
«Si consumano e muoiono.» L'astinenza dal cibo e lo
sfinimento logoravano il loro organismo, e in breve i
discepoli parevano più vecchi della loro sconcertata
maestra, finché un giorno, tornando alla grotta dopo la
caccia quotidiana, li trovava senza vita.
Se la Baba si invaghiva dell'insolita curvatura della
cresta iliaca di un apprendista defunto, poteva
espiantargliela. Nulla andava sprecato, perché usava a mo'
di legacci anche le corde vocali, i tendini, le budella
essiccate. Pertanto, quei giovani amanti le davano più
piacere da morti che da vivi. Con un po' di fortuna, a volte,
riusciva ad approntare un nuovo strumento di piacere
prima dell'arrivo alla grotta di un nuovo discepolo.
Sgomenta, Penny le domandò: «Hai usato quelle ossa?».
Tutti i prodotti Beautiful You erano ispirati a oggetti
ideati dalla Baba. La curvatura di un accessorio era quella
di una costola. Il diametro di un altro giocattolo era quello
della testa del femore umano.
Indicando un groviglio di ulne e tendini, gli occhi
inquieti per l'emozione, la Baba disse: «Una volta Max ha
cercato di uccidermi con quella roba! Aveva acquisito una

209
grande abilità e brandiva quello strumento da me creato
per portarmi a un tale parossismo estatico che ho rischiato
di morirne!».
Raccontò di come Max l'avesse sfidata a duello, ma un
duello erotico. L'aveva affrontata, nudo come un animale
maschio giovane e prepotente, in piedi a gambe ben
divaricate. Aveva spinto a forza verso il basso il suo
membro eretto per poi lasciarlo scattare verso l'alto
facendolo schioccare sonoramente contro gli addominali
tesi. Con aria vagamente burlesca, aveva ondeggiato i
fianchi facendolo dondolare da una parte all'altra, e aveva
detto: «Vieni, vecchia, vieni a impalarti, a godere di questo
pezzo di carne che hai addestrato così bene!».
Penny domandò: «Come hai fatto a salvarti?».
Sorridendo al ricordo, la vecchia disse: «L'arma da lui
usata è schizzata fuori dal mio corpo ed è andata in pezzi.
L'ho sparata fuori come un tappo di sughero da una
bottiglia, e il rinculo mi ha scaraventato di testa contro la
parete della grotta. Quando mi sono svegliata, Max non
c'era più. Era scomparso con gran parte della mia
tecnologia».
«Ma come hai fatto a liberarti?» domandò Penny.
La Baba si toccò solennemente. «Ho sostituito un
piacere con un altro. Ho pensato a quanto era bella mia
madre, a quanto l'adoravo. Ho urlato.»
Penny sgranò gli occhi. «Con la vagina?»
Quasi gridando, la Baba rispose: «Figliola, puoi
espellere energia da qualsiasi apertura del corpo!».
Penny, sorbendo il tè di licheni, ponderò la questione.
«Ecco» disse la stregona del sesso, pescando qualcosa
dalle sue umide profondità, «questo è tutto ciò che mi

210
rimane di mia madre.» Era un oggetto brunastro, come di
legno levigato, come una matita priva di vernice, e lei lo
estrasse lentamente. L'operazione produsse un fioco
risucchio. «Era il suo dito più lungo» spiegò la Baba con
voce sommessa. «Glielo staccai mentre belve feroci già la
stavano sbranando.» Lo porse a Penny perché lo
esaminasse. Il dito luccicava bagnato, e la superficie era
scanalata dalle rughe. La punta più stretta, su un lato, era
incrostata da un'unghia scolorita. Dall'estremità meno
appuntita, invece, fuoriusciva un moncone di osso ingiallito
e spezzato. Faceva un effetto di caldo e di vivo, impregnato
degli afrosi umori naturali della Baba. La luce fioca della
grotta non impedì a Penny di coglierne la bellezza.
Penny soppesò la reliquia nel palmo. Si intristì al
pensiero della propria madre nuda, legata al letto a braccia
e gambe divaricate, che si dimenava in quel tetro solaio del
Nebraska. La vide mentre farfugliava nel vortice della crisi
d'astinenza sessuale, contorcendosi tra lenzuola fradice di
sudore come una bestia selvatica. Questa immagine gettò
Penny nello sconforto.
Quando la ragazza fece per restituire il prezioso
oggetto, la Baba non allungò la mano per riprenderlo.
Inarcò la schiena, invece, e spinse in avanti l'antico pube.
Intuendo le intenzioni della maga del sesso, Penny sputò
sul dito per lubrificarlo, avvicinandone poi la punta
raggrinzita al centro del canuto pagliaio. Quando lo
risistemò al suo posto, la vecchia emise un gridolino di
piacere.
«Questo è il sapere che ti devo infondere» giurò la
vegliarda. «Io mi sono salvata incanalando il disprezzo di
Max verso la sua stessa fonte. Quando mi svegliai, se n'era

211
andato, quel demonio, e molti dei miei strumenti preferiti
erano scomparsi con lui.» Ciò che non era riuscito a rubare,
Max l'aveva ricreato sulla base del ricordo, ad esempio i
preparati ricavati da erbe con cui aveva prodotto i suoi
abominevoli balsami e clisteri. «Come una pallottola
rimbalza contro una roccia. Come l'eco riverbera contro le
pareti di un canyon. Così devi riflettere la sua energia
maligna.»
Un giorno, quando la sua permanenza alla grotta era
ormai agli sgoccioli, Penny posò il tè che stava bevendo e si
mise a cercare tra le ossa scarnificate e i gusci d'uovo rotti e
vuoti sparsi a terra un po' dappertutto. La Baba era a fare
provviste, sarebbe stata via per un po', e Penny aveva da
riparare un terribile torto. Frugando tra quei resti trovò
quel che cercava: il suo cellulare. Da un'icona sul display
stimò che la batteria sarebbe durata per qualche istante
ancora. Chiamò un numero di New York già memorizzato
nel telefono.
Al primo squillo le rispose un uomo. «Brenda?» La voce
era roca, come dopo mesi di pianti.
Penny, a malincuore, dovette deluderlo. «No.» In tono
comprensivo, aggiunse: «Ci siamo incontrati qualche
settimana fa...».
«A Central Park» disse lui. Sembrava affranto, quel
povero disgraziato. La sua fidanzata era ancora tra le
milioni di donne precipitate nell'emarginazione sociale.
Penny dovette fare uno sforzo per ricordare la ragione
della sua telefonata. Voleva scusarsi e, almeno in parte,
ammettere le proprie responsabilità nella diffusione del
flagello Beautiful You. Voleva rassicurare l'afflitto
sconosciuto privato della sua amata, dirgli che lei era quasi

212
pronta a sfidare Cornelius Linus Maxwell. Presto si sarebbe
laureata stregona del sesso, abbastanza potente da
affrontare Max e smascherare il complotto dei nanobot.
Voleva che le sue parole gentili avvolgessero quello
sventurato in un bozzolo consolante. Sul momento, però, le
mancò il coraggio. Gli domandò, invece: «Come ti
chiami?».
All'altro capo, l'uomo tirò su con il naso e disse: «Yuri».
La sua voce rotta sembrò placarsi. Le domandò: «E tu?».
Una domanda dal tono stranamente e improvvisamente
acuminato.
Penny valutò se dargli il nome vero. Guardò, sentendosi
in colpa, l'apertura della grotta e seguì con gli occhi
l'aggraziato volteggio di un uccello nell'azzurro cielo del
Nepal. Alla fine, disse: «Mi chiamo Shirley».
Dopo un lungo silenzio l'uomo ripeté: «Shirley...». La
voce si era fatta tesa. «Dimmi un po', Shirley, come mai sul
mio display c'è scritto "Penny Harrigan"?»
Colta a mentire, Penny ammutolì, mortificata. Le sue
pulsazioni salirono a 165 battiti al minuto.
«Cosa credi?» disse quel tale, Yuri, in tono crudelmente
derisorio. «L'ho letto, il "National Enquirer"!» La sua voce
era carica di astio, ormai. «Lo so che tu, Penny Harrigan,
rivendichi la contitolarità dei brevetti Beautiful You! Ho
visto al telegiornale che dovrai comparire in tribunale la
prossima settimana!» Sbottò in una risata isterica. «Mi hai
portato via la mia Brenda! Hai portato via la moglie a
milioni di uomini! La madre a milioni di bambini!»
Inveiva così forte che Penny fu costretta ad allontanare
il telefono dall'orecchio. La grotta riecheggiò delle minacce

213
di quell'uomo. Penny percepì chiaramente il disprezzo
omicida in quella voce. Era quasi palpabile.
Furibondo, Yuri urlò: «A New York non c'è uomo degno
di questo nome che non sogni di ammazzarti con le sue
mani!».
Il cellulare di Penny emise un segnale che indicava
l'imminente esaurimento della batteria.
«Se ti azzardi a mostrare la faccia al processo sulla
titolarità dei brevetti» giurò Yuri «ti facciamo a pezzi,
letteralmente. Stasera... stasera andremo a bruciare casa
tua...»
Questa minaccia lasciò Penny senza fiato. "Monique!"
L'amica era sola, incapace di intendere e di volere, nella sua
camera, armata soltanto di Pop-Tarts e di acqua. Penny
doveva chiamarla e avvertirla. Se una folla inferocita avesse
dato fuoco a casa sua, Monique sarebbe finita arsa viva.
E a quel punto la batteria del telefono si scaricò
definitivamente.
Durante il lungo volo dal Nepal a New York, Penny
pensò alla sua migliore amica. E a pensarla -- lei che era
sempre stata così vivace -- intenta a strapazzarsela come
un'ossessa in quella stanza buia e chiusa a chiave,
servendosi di un coccige umano realizzato in qualche
polimero avveniristico, le veniva da piangere. Povera
Monique, con le sue parti intime maltrattate e tumefatte, di
certo era sprofondata in un crepuscolo in cui il piacere
preludeva alla morte. Penny pregò in silenzio le antiche
divinità tantriche di farle trovare l'adorabile compagna e
convivente ancora in vita.
Per ingannare il tempo nel corso del lungo viaggio, si
esercitò nelle pratiche di autoappagamento che la Baba le

214
aveva inculcato a forza e senza requie. Si stimolava fino
all'orlo dell'orgasmo, per poi sostituire quella elettrizzante
sensazione con pensieri di sincero affetto per suo padre.
Torcendosi i capezzoli arrivava fin quasi
all'iperventilazione, e allora deviava rapidamente la
pulsione erotica montante rivolgendo teneri pensieri ai gatti
abissini.
Nelle lunghe giornate trascorse insieme, l'anziana
sapiente aveva scelto apparentemente a caso tra le armi
erotiche sparse per la grotta. Quei rudimentali assemblaggi
di ossa e pietra e piume erano stati da lei usati come cunei o
leve per forzare i più inaccessibili e roventi terminali
tantrici di Penny. Trovato l'accesso, la stregona l'aveva
ripetutamente stimolata fino a farla impazzire di
eccitazione, incoraggiandola di continuo a sfogare il
godimento, a dimenarsi, ad abbandonarsi a un gioioso
turpiloquio. Poi, dopo ogni seduta, aveva sempre deterso il
sudore dal corpo di Penny con manciate di muschio
fragrante.
Bevendo tè di licheni, Baba Barbagrigia le aveva esposto
la sua teoria secondo cui il piacere sarebbe un'energia
immortale che può essere orientata e incanalata. Il piacere,
le aveva spiegato, viene attratto dalle persone che hanno
allenato i propri organi ricettivi ad accoglierlo. Il piacere,
però, aveva avvertito, non può essere trattenuto o
accumulato. Deve fluire attraverso il suo bersaglio,
altrimenti per il bersaglio è la fine.
Brandendo un corno d'ariete, da lei accessoriato con una
quantità di ciottoli e unguenti di erbe iperstimolanti, la
vecchia faceva cenno a Penny di stendersi e diceva:
«Riprendiamo la lezione, mia cara?».

215
Era vero. I 136 giorni con Max a Parigi avevano
insegnato a Penny il piacere senza amore. Le settimane di
clausura nella grotta umida della Baba, invece, le avevano
dimostrato che quell'intensa estasi poteva coesistere con un
affetto ancora più forte. La profondità del suo attaccamento
alla stregona era un fatto di cui persino Penny si stupiva. Se
n'era resa conto soltanto l'ultima mattina, quando si era
svegliata nel loro letto di vegetali secchi e aveva capito di
dover tornare nel mondo.
Quel mattino, Penny aveva fatto colazione in silenzio
con un porridge di serpente macinato grosso. Aveva messo
i suoi pochi effetti personali in una comoda vescica di
pecora. Viveva nuda da così tanto tempo che il tailleur
pantalone di Norma Kamali le aveva fatto uno strano
effetto addosso. Si era chinata a dare un bacio d'addio alla
Baba addormentata e poi, prima dell'alba, aveva iniziato
l'improba discesa per le impervie pareti dell'Everest.
Seduta a bordo di un jet privato preso a nolo,
deliziosamente vestita Versace da capo a piedi, Penny
sorbiva un tè che aveva preparato con germogli e latte di
yak procurato dalla vetusta stregona. Aveva controllato la
posta elettronica e appreso che l'udienza del processo sulla
titolarità dei brevetti era fissata di lì a pochi giorni. Come
primo passo nella sua lotta, Penny avrebbe contestato la
proprietà esclusiva rivendicata da Max sulla linea Beautiful
You. Lo avrebbe costretto ad affrontarla in un'aula di
tribunale. Se le fosse andata male, sarebbe stata la fine, per
lei. La morte, però, non le faceva paura, ma le dava la
speranza di ricongiungersi a Baba Barbagrigia nel piacere
eterno.
E se invece lei, Penny Harrigan, avesse vinto la sua

216
audace battaglia? Se fosse riuscita a liberare davvero il
mondo dalla cospirazione di C. Linus Maxwell, sarebbe
tornata a vivere come la vecchia santona: in quella grotta
isolata in cima ai monti più impervi, a inventare sempre
nuovi mezzi per darsi piacere e per istruire i discepoli
giunti a lei in cerca di illuminazione.
Di ritorno a casa, nell'Upper East Side, Penny trovò la
porta d'ingresso in vetro smerigliato imbrattata dai teppisti.
Con vernice spray rosso vivo, qualcuno aveva scritto:
P E N N Y H A R R I G A N C I U C C I A C A Z Z I A L L 'I N F E R N O !!! a
caratteri ben più che cubitali. La scritta oltrepassava i
battenti della porta sfigurando l'elegante facciata in
muratura. Lunghi rivoli di vernice erano colati da ogni
lettera come nell'effetto speciale di un film horror. Salendo i
gradini in marmo bianco della veranda vide che erano
ingombri di bambole di pezza. Grandi più o meno come
bambolotti, calzavano décolleté Ferragamo in miniatura. I
tratti del viso erano cuciti e sagomati in modo da
assomigliare a quelli di Penny. Un accurato lavoro di
ricamo aveva riprodotto il caldo castano degli occhi e il
musetto rosa vezzosamente proteso. Fu inquietante notare
le mutilazioni cui le bambole erano state sottoposte e la
foresta di spilli che le trafiggeva. Penny rabbrividì,
raggelata dalla conclusione: erano bambole vudù.
Ammucchiati, tra quei malefici manufatti, c'erano anche
polli in decomposizione, con la gola malamente squarciata,
le penne insudiciate da sangue e interiora. I vitrei occhi dei
volatili fissavano Penny con aria accusatoria. Quegli
animali erano stati chiaramente sacrificati sul posto. La
soglia di casa sua era diventata altare di un odio estremo. Il

217
sangue versato aveva attratto le sue antiche persecutrici: le
mosche. Sorvolavano in tondo mozziconi di candele spente.
Intanto, le sirene dei pompieri echeggiavano da ogni
parte. Una coltre di fumo nero oscurava il cielo e la fece
tossire con la sua puzza. Un razzo sfrecciò sibilando sopra
di lei, come un colpo di artiglieria, e tracciò una bassa
parabola diretto a Midtown. Scomparve dietro alcuni
palazzi. Si udì poco dopo un botto attutito. La città si era
inspiegabilmente trasformata in un campo di battaglia.
Immediatamente, Penny pensò a Monique.
La sua coinquilina e migliore amica doveva essere al
piano di sopra quando la casa era stata posta sotto assedio.
In Penny un'ondata di amorevole preoccupazione subentrò
alla paura e sgombrò il campo da quella grottesca natura
morta. Infilò la chiave nella serratura.
All'interno, era un crocchiare di schegge di vetro a ogni
passo delle sue Kate Spade dal tacco basso. I vandali
avevano spaccato i vetri di diverse finestre. I proiettili usati
-- pietre avvolte in fogli con messaggi rabbiosi
scarabocchiati sopra -- erano sparsi in giro. Per fortuna, le
solide oltre che decorative inferriate di sicurezza in bronzo
modellato a stampo avevano impedito agli assedianti di
penetrare fisicamente in casa.
Penny corse su per le scale, due gradini alla volta,
gridando: «Monique! Monique, tutto bene?».
Brandì un'ascia antincendio e abbatté la porta della
camera dell'amica. La ragazza un tempo piena di vita era
stesa sul materasso lurido, moribonda. La stanza puzzava
di bava e di Pop-Tarts al mirtillo stantie. Penny si affrettò a
soccorrerla avvicinandole alle labbra secche una tazza di tè
di licheni. Se le batterie dei suoi articoli Beautiful You non si

218
fossero scaricate, Monique sarebbe morta di sfinimento e
disidratazione già da un pezzo. Comunque, la ragazza un
tempo sempre elegante rispose con un flebile uggiolio
quando Penny le cosparse le membra indebolite con un
balsamo ricavato da ghiandole d'aquila e grasso di renna
purissimo.
Penny preparò per l'amica un brodo a base di uova e
midollo fermentato di piviere e la imboccò. Quando la
compagna sofferente provò a dire qualcosa, Penny la zittì.
«Non devi vergognarti della tua condizione di atroce
degrado» le disse. «Sei rimasta vittima di piaceri
primordiali cui nessuna donna può resistere, se non dopo
adeguato addestramento.»
Penny trasportò la coinquilina denutrita e in catalessi
nella sala T V e la sistemò a peso morto su una comoda
sedia a sdraio. Come quella volta che avevano seguito la
serata degli Oscar, Penny preparò i pop corn e li condì con
sale e burro in abbondanza. Ne diede lei stessa a Monique,
uno alla volta, lentamente, posandoglieli piano tra le labbra
screpolate, e intanto, insieme, guardarono il notiziario della
CNN.
Sotto i loro occhi, sullo schermo piatto al plasma da
settantadue pollici ad alta definizione si squadernò un
panorama di disordine globale. I titoli principali non erano
più riservati a guerre e calamità naturali. L'effetto Beautiful
You aveva la precedenza su ogni altra disgrazia. C'erano
uomini che si erano rapidamente ritagliati nuovi ruoli in
quel mondo in vertiginosa evoluzione. La maggior parte,
però, non ci era riuscita.
Del primo gruppo facevano parte i viscidi marpioni.

219
Sedicenti trainer dell'intimità affermavano che le donne
cadute nel vortice dei prodotti Beautiful You non avrebbero
più trovato soddisfazione con le sole manipolazioni di un
partner sessuale maschile. D'altro canto, però, se un uomo
era in grado di manovrare una Rotating Relaxation Rod, la
Sbarra Rotorilassante, articolo numero 3447, non gli
sarebbe mai mancata la compagnia del gentil sesso. La
battuta giusta per rimorchiare non era più: "Vuoi che ti
mostri la mia collezione di farfalle?". Per rimorchiare con
facilità, all'aspirante seduttore bastava dire di essere in
possesso dei più rari tra i prodotti Beautiful You.
Qualunque manovale capace di usare un trapano o una
sega elettrica era in grado di far funzionare la Jiggle Whip,
la Frusta Solleticante, o il Trembling Love Snake, o
Vibroserpente dell'Amore. Insomma, gli operai edili
disoccupati stavano trovando nuovi sbocchi come
rappresentanti dei prodotti per la cura personale messi in
commercio da Max. O come venditori porta a porta.
Le telecamere della C N N mostrarono immagini riprese
all'interno del grande negozio della Fifth Avenue. Gli affari
procedevano spediti, con gli impeccabili commessi che
rifilavano con garbo alle clienti miriadi di articoli. E non
vendevano soltanto prodotti Beautiful You, bensì anche
costose garanzie. E piani di finanziamento, spiegava il
giornalista. Secondo gli analisti, DataMicroCom stava
ricavando enormi profitti grazie alle commissioni che i
clienti accumulavano usando le carte di credito color
fucsia. Se una donna disperata e libidinosa entrava in quel
covo di mascalzoni senza scrupoli, concluse Penny, non
aveva via di scampo! Era il lavoro più ambito di ogni
maschio in città.

220
Sullo schermo, ci fu un cambio di inquadratura. Le
telecamere mostrarono la fila chilometrica di clienti fuori
dal grande negozio rosa. Tra loro Penny riconobbe la
commessa di Bonwit Teller, senza più neanche l'ombra della
raffinatezza di un tempo, ormai ridotta a una zombi
sdentata e inebetita. C'erano anche Kwan Qxi ed Esperanza,
le ex coinquiline di Penny, gli occhi cisposi e, tra le mani,
consunte carte di credito fucsia.
Da qualche settimana, secondo la C N N , la composizione
della clientela non era più esclusivamente femminile. Anzi,
si divideva quasi equamente tra uomini e donne. Gli uomini
erano profittatori.
Tra i più rapidi nell'adattarsi, questi profittatori
cercavano di accaparrarsi il maggior numero possibile di
nuovi prodotti. Erano come bagarini che poi, con un
ricarico astronomico, rivendevano i giocattoli erotici alle
donne. Per le donne ricche, invalide o soltanto impazienti,
che non potevano o non avevano voglia di mettersi in fila
fuori dal negozio, era una costosa manna dal cielo.
Vibratori e dildo erano diventati una sorta di nuova valuta
informale in tutto il mondo. Non passava giorno senza che
arrivasse notizia di furti di camion che trasportavano
prodotti Beautiful You. C'erano magazzini saccheggiati.
Guardie giurate uccise in sparatorie. Prodotti consegnati ai
negozi con veicoli blindati. Donne che avevano appena fatto
acquisti venivano rapinate alla luce del sole, a mano
armata, da balordi di strada che poi rivendevano i prodotti
al mercato nero.
Gang rivali si contendevano il territorio. Laboratori
clandestini con manodopera in condizioni schiavistiche

221
inondavano il mercato con prodotti taroccati che non
davano il piacere promesso.
A Penny la situazione pareva assurda, quasi come ai
tempi dei Beanie Babies o delle Nike Jordan. Quasi.
Mentre Monique cominciava svogliatamente a
masticare il suo mais soffiato ad alto contenuto calorico, il
giornalista della C N N si alzò in volo a bordo di un
elicottero che dal centro di Manhattan mosse verso nord in
direzione di un'enorme colonna di fumo nero che si levava
dal Bronx. New York vista dall'alto apparve a Penny come
un conteso campo della morte del Terzo Mondo. Il cielo, in
quella zona, sembrava attraversato da proiettili di mortaio
che appiccavano incendi ai grattacieli. Auto della polizia e
ambulanze inondavano le strade di luci rosse intermittenti.
Il traffico era bloccato da automezzi in fiamme.
La telecamera sull'elicottero inquadrava la East 122 nd
Street ma era in movimento costante verso l'Harlem River
Drive e lentamente si inoltrò nei cieli del Bronx. Sospeso
sopra la griglia delle strade, l'elicottero ebbe uno scarto e si
inclinò, per schivare una specie di razzo o di missile
sparato nella sua direzione. Il proiettile pareva grosso più o
meno come quelli dei bazooka. Sprigionava fiamme e si
lasciava dietro una scia arcuata di fumo nero. Un altro
proietto puntò verso il velivolo, e il pilota scese in picchiata
per evitarlo.
Nella sala T V , lo schermo mostrava i cieli della città
solcati da un gran numero di questi proiettili infuocati.
Dovunque atterrassero, esplodevano come bombe
incendiarie, appiccando le fiamme a edifici, auto, alberi e
trasformando l'isola in una zona di guerra. Seguendo le

222
parabole di quei proietti, Penny notò che partivano tutti
dalla base di quella colonna di fumo nero.
Il fumo si levava dal centro dello Yankee Stadium. Lì, a
quanto pareva, sul monte di lancio, era stato acceso un
gigantesco falò.
L'inquadratura dall'alto fu sostituita da una scena
ripresa da terra, dove una troupe trasmetteva in diretta dal
campo. C'erano il caos e una massa di gente invasata. Non
si vedevano che uomini, quasi tutti con la maglietta dei
Promise Keepers. Penny vide lunghe catene umane che
riempivano lo stadio simili a raggi di una ruota di bicicletta
incentrati sul falò. Erano una versione interamente maschile
delle file che si snodavano davanti a ogni rivenditore
Beautiful You nel mondo.
Quegli uomini cantavano una canzone che Penny
sentiva quand'era bambina. Un inno religioso. Kumbaya si
chiamava. Si passavano oggetti di mano in mano, come
forzati alla catena, con movimenti misurati, scanditi dal
ritmo del canto. E quando quegli oggetti arrivavano in
fondo venivano gettati tra le fiamme.
Le telecamere zoomarono, e Penny vide una scena che
qualunque maschio avrebbe descritto come un inferno.
Quantità incalcolabili di peni mozzati si contorcevano in
quel crogiolo. Falli che si rattrappivano per l'intensità del
calore, enfiandosi e accartocciandosi come in un tormento
protratto. Avvolti dalle fiamme, alcuni di quei membri
maschili sembravano strisciare come vermi, quasi per
allontanarsi e mettersi in salvo. Sbatacchiavano, si
rivoltolavano, in balia di spasmi e convulsioni.
Agonizzanti, venivano raccolti dagli uomini intorno al falò
e gettati di nuovo sommariamente verso il loro destino.

223
Altri peni incandescenti eruttavano, sputacchiando lava
fusa color fucsia.
Erano tutti prodotti Beautiful You, dedusse Penny. Le
sagome che si agitavano e cantavano intorno alla bolgia
infernale erano uomini che sacrificavano i loro comuni
rivali. Come le generazioni del passato avevano bruciato
libri e dischi, così quegli uomini ululavano in un catartico
abbandono passandosi di mano in mano pungoli e
bacchette magiche dell'amore da ammucchiare tra le
fiamme ribollenti e sfrigolanti. La puzza e il fumo nero di
quella pira incombevano sulle strade, acri come le velenose
esalazioni di un interminabile incendio di pneumatici.
Tra i falli si afflosciavano Libellule e scoppiavano
clisteri. Nessun prodotto si salvava. Le batterie
esplodevano con stridii orrendi come di coniglietti
macellati.
Altri falli partivano come razzi. Decollavano in verticale
dal centro del falò. Erano quelle le torce volanti che
avevano quasi abbattuto l'elicottero della C N N . Come una
pioggia di missili, spargevano fiamme tra i cittadini della
metropoli.
Il giornalista della C N N spiegava che quegli accessori
per il piacere erano stati comprati, chiesti in prestito o
rubati. In ogni caso, non sarebbero usciti intatti dallo
Yankee Stadium. In tutti gli stadi del mondo, dalle arene
più grandi ai campi da calcio più spelacchiati, annunciò il
giornalista, orde di uomini imbufaliti alimentavano le
fiamme di identici roghi di utensili erotici.
All'improvviso, la telecamera ebbe uno scarto. Smise di
inquadrare il giornalista. Qualcuno, qualche balordo fuori

224
campo, se ne era impossessato e dirottò l'obiettivo su un
uomo solo e in condizioni deplorevoli. Aveva la faccia
annerita dalla fuliggine della gomma combusta. Una lunga
barba incolta gli nascondeva il viso per intero, tranne gli
occhi iniettati di sangue. Solo a quel punto Penny lo
riconobbe.
Era Yuri.
«Penelope Harrigan» prese a inveire dallo schermo
piatto al plasma della lussuosa sala T V , «presto ti
trascineremo fuori dal tribunale e ti bruceremo su questa
pira come la strega che sei!»
La Manhattan cui Penny aveva fatto ritorno era un
habitat di soli maschi. In giro non si incontravano che
uomini. Alla guida di auto e camion solo uomini, come sui
treni della metropolitana. I posti ai tavoli dei ristoranti
erano occupati unicamente da natiche maschili. Penny,
aggirandosi tra loro, attirava molto l'attenzione. Dopo il
semidigiuno a base di colture micotiche e le lunghe e
strenue sedute di autoappagamento, il suo corpo era
meravigliosamente scolpito. Ogni più piccolo muscolo
vibrava invitante sotto la sua pelle liscia e diafana, mentre
camminava sicura di sé.
Per evitare di essere riconosciuta aveva adottato un paio
di enormi occhiali da sole e un berretto da baseball portato
al contrario. La montatura degli occhiali, marca Fetch,
garantiva il giusto equilibrio tra il "guardami" e il
"mollami". Aveva rinunciato a indossare il massiccio rubino
che era diventato il simbolo della Cenerentola del Nerd.
Penny era camuffata, ma non faceva alcuna fatica a
immaginarsi un fiume di lividi vigilantes fuoriuscire dai
grattacieli. Uomini come Yuri. Un mondo di peni obsoleti e

225
infuriati. Gli stessi uomini che avevano sacrificato il
pollame davanti alla porta di casa sua avrebbero invaso le
strade. Se li figurava armati di torce e cappi. Se quella
canaglia tutta maschile pronta al linciaggio l'avesse
riconosciuta, l'avrebbe trattata alla stregua del mostro di
Frankenstein.
Il fumo che si levava dallo Yankee Stadium incombeva
sull'area metropolitana come un drappo funebre. Dildo
infuocati solcavano stridenti il cielo, mentre cadeva cenere
come neve. La fuliggine, acre al gusto e all'olfatto, bruciava
negli occhi e nella gola di Penny. Il lerciume colava
appiccicoso lungo i muri rosa del palazzo Beautiful You.
Ammantandolo. Facendo di quella torre una tetra parodia
del paradiso innevato che Penny aveva appena
abbandonato.
I volantini fotocopiati delle donne scomparse
continuavano a tappezzare tutte le superfici pubbliche
disponibili. Risalivano come il kudzu muri e pali telefonici.
Esposte all'impietosa luce del sole, però, le fotografie
sorridenti delle mogli e madri adorate cominciavano a
sbiadire. Tutte quelle direttrici finanziarie e manager di
successo... La pioggia stava lavando via i traguardi da loro
raggiunti in carriera. I loro nomi a poco a poco
scomparivano, già mezzo dimenticati.
Con loro, le sofferte conquiste sociali e politiche di tutte
le donne sembravano ridursi. Svanire.
All'angolo tra Broadway e la 47 th Street, Penny scorse
una faccia conosciuta. Una donna giaceva scomposta sul
marciapiede con la schiena appoggiata alla base di un
lampione. Da più vicino Penny vide che la sconosciuta in
ambasce aveva una spilla in oro e diamanti disegnata da

226
Paloma Picasso per Tiffany. La colorazione dei capelli era
impeccabile, anche se le ciocche pendevano luride sulle
rovine impiastricciate di un viso un tempo truccato senza
badare a spese. Indossava quel che restava di un completo
Chanel rosa, con la giacca sbottonata e il seno esposto allo
sguardo di chi passava. Aveva la gonna sollevata sui
fianchi e si stava stantuffando le parti intime con un
prodotto Beautiful You. Con le gambe sudicie aperte,
impugnava l'attrezzo a due mani, le unghie bordate di
sporcizia, e lo ruotava, imbrattato di umori, ora
affondandolo ora ritraendolo. Come una reclusa di un
manicomio vittoriano, ridacchiava e bofonchiava tra sé,
incurante dei passanti, che distoglievano lo sguardo.
Penny si avvicinò a quella disgraziata e azzardò:
«Brenda... Ti chiami per caso Brenda?».
Senza rallentare i suoi traffici carnali, la donna alzò gli
occhi e guardò Penny con un vago barlume di
comprensione.
«Dovevi sposare Yuri, ricordi?» Mostrava le mani aperte
e vuote come se con ciò potesse restituire a quella donna la
vita passata. «Tu eri la direttrice finanziaria della Allied
Chemical Corp.» L'utensile erotico, notò Penny, era
l'articolo Beautiful You numero 2788, la Sonda Instant-
Ecstasy. Il suo rivestimento in silicone e lattice era così
consunto e macchiato da renderlo quasi irriconoscibile.
Persino Yuri avrebbe fatto fatica a identificare lo speciale
regalo di compleanno che le aveva così ingenuamente
offerto. Penny cercò il numero di Yuri nella memoria del
proprio telefonino. Premette il pulsante di chiamata e sentì
suonare il telefono all'altro capo della linea.
Allo stesso tempo, si affrettò a soccorrere Brenda,

227
risistemandole addosso quel che restava della giacca per
coprirle il seno. Sempre nel tentativo di restituirle un
minimo di dignità, Penny le tirò verso il basso l'orlo della
gonna per coprirle un po' le gambe, sussurrandole parole
rassicuranti. Nessuno si fermò ad aiutarla. Tutti andavano
di fretta. Solo uomini, che lanciavano occhiate furtive e
mortificate, senza neanche rallentare il passo. Il telefono di
Yuri, intanto, continuava a squillare.
«Qualcuno chiami il 911» supplicava Penny, cercando
intanto di combinare bottoni e asole. «Per piacere.» Non
poté fare a meno di notare che quella creatura sudicia e
delirante portava al collo un doppio giro di perle
stupendamente assortite. Dopo 136 giorni di frequentazione
del jet set, non ebbe difficoltà a rendersi conto che i brillanti
grossi come cubetti di ghiaccio che le pendevano dai lobi
erano impeccabili diamanti da due carati.
La reazione di Brenda fu di serrare la presa sul fallo
artificiale, portandosi le ginocchia al petto, chiudendosi a
riccio come per difendere il suo trofeo. Snudò i denti in un
ringhio feroce.
«Aiuto!» implorò Penny, rivolta a un uomo d'affari in
completo gessato che la guardò inorridito e si allontanò in
tutta fretta. Stava cercando, con le buone, di togliere
quell'oggetto dalle mani della donna, quando
all'improvviso sentì una trafittura sul lato di una mano. La
pazza sconosciuta aveva affondato i denti incapsulati nella
carne di Penny. Con le guance schizzate di sangue mordeva
la tenera carne vicina al pollice di Penny come una bestia
inferocita.
Un fattorino in bicicletta si fermò giusto il tempo di
dire: «Spero per lei, signora, che abbia fatto

228
l'antitetanica...».
Per lo spavento e il dolore Penny lasciò cadere il
telefonino, non prima, però, di aver captato una voce che
dall'apparecchio diceva: «Pronto! Brenda?». Era Yuri, ma il
telefonino rotolò giù dal marciapiede, irraggiungibile.
Penny cercò di divincolarsi, ma i denti della donna non
mollavano la preda. Ansimando, spruzzava il sangue di
Penny dagli angoli della bocca. Solo allontanandosi a tutta
forza Penny riuscì a liberarsi dal morso della pazza. E
mentre lei ricadeva all'indietro, la demente balzò in piedi e
batté barcollante in ritirata. Con il sangue che ancora le
colava dalla faccia, Brenda si allontanò vacillando lungo la
Broadway, le mani sporche strette intorno a quella forma di
plastica fucsia oggetto della sua insaziabile ossessione. La
gente per strada -- tutti maschi -- si fece da parte per
lasciarla passare.
Le sole altre donne visibili in giro erano le zombi
macilente che formavano la coda chilometrica davanti alle
porte della rastremata torre fucsia in Fifth Avenue. Le
invasate derelitte sembravano tutte identiche. I capelli unti
arruffati, le unghie masticate fino alla carne viva. Dalla
prima all'ultima portavano la stessa borsa, le stesse scarpe,
gli stessi vestiti. Questi articoli di abbigliamento non erano
poi così belli né ben fatti, notò Penny, ma erano tutti
prodotti dalla DataMicroCom e dalle sue consociate.
Un gruppo di uomini dall'aria sconfitta con addosso le
magliette dei Promise Keepers, le spalle curve, stavano
attuando un presidio di protesta davanti all'entrata del
negozio. Marciavano in tondo, impugnando cartelli con la
scritta: "L'appagamento personale non crea una famiglia!".
Altri cartelli dicevano: "I figli dovrebbero venire prima

229
degli orgasmi!". E giravano e giravano in tondo, depressi,
ignorati.
Decisa ad affrontare la massa di donne davanti al
negozio, Penny si piazzò a gambe divaricate, il busto eretto,
i pugni piantati sui fianchi. «Sorelle! Donne!» gridò.
«Ascoltatemi! Dovete smetterla di abusare dei vostri organi
sessuali!»
Le donne la squadrarono con occhi socchiusi e ostili. Si
strinsero al petto i sacchetti fucsia come talismani. Nessuna
proferì parola, ma i sibili di odio risuonarono forte.
«Vi è stato dato un potere che va al di là della vostra
capacità di comprensione» strillò. «Un'antica pratica di
autostimolazione che richiede decenni di studio prima di
potervi ricorrere senza riportare danni permanenti.» Penny
guardò impavida la schiera di facce sbavanti e ringhiose.
«Oltretutto» continuò «siete state tutte infettate da colonie
di minuscoli robot.»
Per tutta risposta, molte presero a inveire. Altre le
sputarono addosso. Deboli com'erano tutte quante, però,
neanche una di loro si risolse ad aggredirla.
«Domani» proclamò Penny «denuncerò pubblicamente i
piani con cui C. Linus Maxwell si è appropriato dei segreti
erotici del passato al fine di rendere schiave tutte le donne.»
Reagendo alle sempre più violente insolenze, gridò:
«Beautiful You fa strage delle vostre endorfine. Dobbiamo
boicottare tutti i prodotti della DataMicroCom». Con
parole incoraggianti: «Vi insegnerò a creare artigianalmente
oggetti per la cura personale usando la materia grezza
offerta dalla natura». In tono allettante: «Conosco unguenti
che daranno sollievo alle vostre vulve iperstimolate!».
La folla non si unì a lei, ma questa volta neppure le si

230
rivoltò contro. Le imprecazioni si stemperarono in un
generale borbottio. Anche questo stratagemma aveva
fallito.
Penny aveva chiaramente sopravvalutato quella massa
di gente, il cui unico interesse stava nel tornare al negozio
per comprare altri prodotti Beautiful You. Riconsiderò
allora il proprio approccio e cambiò tattica. «Sorelle!»
gridò. «Il piacere è un diritto universale! Dobbiamo
assaltare i bastioni del piacere per prenderci quel che ci è
dovuto!» Agitò in aria un pugno, e la mano mostrava
ancora i segni dei morsi e le chiazze del suo stesso sangue
ormai secco.
Questa tattica suscitò una reazione positiva. Molte, tra
le donne in fila, esultarono.
«Non aspettate, passive come un gregge, che i padroni
vi ammanniscano qualche briciola di estasi!» comiziò.
«Prendetevela! Abbattete quelle porte e prendetevela tutta!»
Penny, insomma, trasformò quella fila di sbrindellate in
un esercito in rivolta. Fece montare la loro libidine
cavandone una furia incontenibile. Quelle migliaia di donne
disperate insorsero e sfondarono la facciata a specchio
color fucsia del palazzo, picchiando contro la vetrata con i
tacchi abnormi delle loro orribili scarpe, brandendo i loro
giocattoli erotici a mo' di manganelli. Percossero la vetrata
finché le crepe non si diramarono in ogni direzione e porte e
finestre si piegarono all'interno fin quasi al punto di rottura.
Inosservata, una limousine nera si era avvicinata intanto
al marciapiede accanto a Penny. Il finestrino posteriore si
abbassò svelando gli zigomi alti di un volto pallido e quasi
rettiliano. A bordo c'era Maxwell. Rivolto a Penny, disse:
«Sali».

231
«Ah-ah!» ridacchiò lei, indicando la folla inferocita.
Proprio in quel momento la vetrata del grande negozio
cedette e venne calpestata dalle assalitrici imbestialite che
sciamarono all'interno per saccheggiare scaffali ed
espositori. «Non puoi far nulla contro la nostra superiorità
numerica!» Penny, trionfante, gongolava. «Ci riprendiamo
quel che ci appartiene!»
La figura seduta sul sedile posteriore della limousine si
limitò a sollevare un piccolo apparecchio elettronico nero.
Era squadrato e poteva essere facilmente scambiato per un
telefonino o un aggeggio per videogame. Era il dispositivo
con cui Max aveva giochicchiato, in platea, a teatro, la sera
in cui Alouette era morta. Max premette alcuni pulsanti
come se stesse scrivendo un S M S . Continuò ancora un po' a
digitare.
«Fa' pure» lo sfidò Penny. «Chiama la polizia o i tuoi
tirapiedi. Neanche loro potranno contenere questa
rivoluzione!»
«Sali, troia» disse Max. «È l'ultima volta che te lo dico
gentilmente.»
«Vaffanculo!» gli urlò Penny.
«No, mia cara» ribatté Max, senza alterarsi. «Vaffanculo
tu.» Detto questo, premette un pulsante, e le saccheggiatrici
parvero esitare all'improvviso.
Alcune, tra cui Penny, si rannicchiarono e, cadendo in
ginocchio, si portarono le mani tra le gambe. Un attimo
dopo erano lì che si contorcevano a terra, tra bramiti voraci,
senza più un minimo di ritegno. L'armata rivoluzionaria
ruppe le righe e cadde in preda a un dimenarsi voluttuoso.
Al posto delle valorose ribelli c'era ormai un tappeto
semovente di corpi femminili. Le loro grida di vittoria

232
sfumarono in un coro di gemiti di piacere sincronizzati con
violenti movimenti pelvici verso l'alto.
Alla pressione di un altro pulsante alcune donne
cominciarono a sbavare, scosse da convulsioni
spasmodiche. Stavano per morire com'era morta Alouette,
di arresto cardiaco o per aneurisma cerebrale causato da un
eccesso di stimolazione erotica.
Nonostante gli spasmi di piacere che la paralizzavano,
Penny implorò: «Lasciale in pace!». Cominciò a strisciare
verso l'automobile. Dentro di sé cercò di bloccare quella
forza erotica, di bloccarla e di respingerla al mittente.
Trasformò il proprio pavimento pelvico in un pugno
serrato. Meditò come le aveva insegnato la Baba. Provò
tutti i metodi tantrici, ma nulla sembrava funzionare.
Trascinandosi sul marciapiede, raggiunse l'auto. Vinta, con
un filo di voce, disse: «Lasciale andare, Maxwell. Smetti di
tormentare quelle donne, e io verrò con te».
La portiera della limousine si aprì, e Max disse: «Sali,
altrimenti premo un altro pulsante e moriranno tutte».
Arrancando all'interno dell'abitacolo, Penny vide la
propria faccia riflessa nella scarpa lucida di Max. "Respingi
la sua forza", disse a se stessa, ma non ottenne nulla.
Quando lei, ormai totalmente incapace di reagire, percorsa
da brividi, sfinita, fu sul fondo dell'auto rivestito di
moquette, Max chiuse la portiera e disse all'autista di fare
un giro a passo d'uomo per Central Park.
L'insostenibile pressione a poco a poco si ridusse. Era
stato Max ad attenuarla per mezzo del suo piccolo
telecomando. A prima vista, poteva sembrare che stesse
pigiando i tasti di un videogioco. Non più soggetta alla
massima intensità della stimolazione, Penny si rialzò e si

233
sedette accanto a lui. Max le versò un bicchiere di
champagne preso dal minibar della limousine e glielo
porse. Champagne rosé. Lei lo guardò sospettosa.
«Non temere, mia cara» disse lui, suadente. «Non ho
bisogno di drogarti. Ho già un controllo assoluto sul tuo
corpo.»
Penny accettò il bicchiere. Il vino aveva un gusto strano
dopo le innumerevoli bevute di sano tè ai licheni e ai topi
rupestri sott'aceto. Le pareti della vagina le si rilassarono,
esauste. «Ho scoperto il tuo segreto dei nanobot» ansimò.
«So che entrano in circolo con la rottura della Libellula.»
«Ragazza perspicace» disse Max. «Sarai perfetta come
presidente di DataMicroCom.»
«Non sarò mai il tuo burattino» giurò Penny.
«Povera Clarissa...» disse Max. «Neanche lei voleva
diventare presidente. Io però l'ho costretta.»
Spiegò di aver conosciuto Clarissa quand'era una
semplice rappresentante della Avon che vendeva rossetti
porta a porta. Non era nulla per lui. Un numero. Lui però
aveva scoperto, con il potere di vita o di morte che aveva su
di lei, di poterla trasformare in qualunque cosa. Trascorsi i
136 giorni d'amore, lei non aveva più avuto scelta. Le aveva
impiantato i nanobot. La sola scelta che le era rimasta era
tra l'obbedienza e la morte. Non voleva diventare senatrice,
tanto meno presidente, ma se si fosse rifiutata -- o se non
avesse vinto le elezioni -- Max l'avrebbe uccisa e avrebbe
ricominciato la procedura con un'altra donna.
«È andata così anche con Alouette» disse lui, nostalgico.
«Aveva un bel faccino, era felice di essere una semplice
modella...»
Dopo l'impianto di battaglioni di nanobot, neanche lei

234
aveva più avuto scelta. Se non eccelleva nelle sue
interpretazioni, Max la puniva con livelli di piacere
debilitanti. La portava sull'orlo della follia sottoponendo il
suo clitoride a un'estasi che durava per giorni e giorni,
senza interruzioni, tanto che lei non riusciva né a mangiare
né a dormire. Alouette non poteva permettersi di sbagliare
e aveva sviluppato un vero terrore per i propri genitali.
«Per sopravvivere, sono diventate entrambe quel che io
avevo stabilito. E se avessero rivelato a qualcuno quale
potere avevo su di loro» disse Max «le avrei eliminate.»
«Per questo hai ucciso Alouette?» domandò Penny.
«Aveva intenzione di rivelarti il segreto» confermò Max.
L'autista di Max continuava a ripercorrere lo stesso
tragitto in quel fumoso scenario di guerra. Parevano passati
secoli dal romantico giro in carrozza con Tad per l'identico
percorso alberato.
Attraverso i finestrini oscurati della limousine, Penny
guardò il parco. Frotte di bambini vagavano incustoditi,
abbandonati dalle loro baby sitter ammutinate. I vecchi in
sedia a rotelle erano sempre parcheggiati come eschimesi in
là con gli anni lasciati a morire su banchi di ghiaccio alla
deriva. Tra questi, in piedi, c'era anche Yuri, il ripudiato,
l'uomo abbandonato dalla fidanzata ossessionata dal
piacere. Con la barba lunga, solo nella sua rabbia, i vestiti
in disordine, continuava a distribuire ai passanti volantini
verde pallido. La foto di Brenda, come il ricordo che lui ne
conservava, doveva essere sempre più sbiadita a ogni
nuova serie di fotocopie. Penny avrebbe voluto saltare giù
dall'auto e corrergli incontro. Sognava di mostrargli il
segno del morso sulla mano come prova del fatto che la sua

235
amata Brenda era ancora viva da qualche parte. Le cicatrici
di quel morso gli avrebbero instillato nuova speranza.
Max seguì lo sguardo da lei rivolto a quel derelitto e
scosse la testa, con disprezzo. «Non ti lascerò ammazzare
da un demente.» Fece con la mano un gesto ampio che
sembrò includere l'intera città. Forse l'intero mondo.
«Dovunque tu vada... in ogni istante della tua vita da
quando sei nata... le mie forze di sicurezza ti tengono
continuamente d'occhio. Le mie guardie hanno impedito a
quei balordi di bruciarti la casa... Una volta ti hanno
persino salvata da un tornado.» Meno calorosamente,
aggiunse: «Tu appartieni a me. Se qualcuno metterà fine alla
tua vita, quel qualcuno sarò io».
Penny sospirò rassegnata: «E quale sarebbe il mio ruolo
nel tuo grandioso disegno?».
Max sorrise con uno strano miscuglio di pietà e affetto.
«Sarai l'amministratrice delegata a vita della
DataMicroCom. Ogni giorno per il resto della tua vita ti
metterai i collant e avrai con te una ventiquattr'ore. Avrai
un'acconciatura che sembrerà un elmo e mangerai insalata.
Presenzierai a riunioni talmente noiose da mettere alla
prova il tuo equilibrio mentale.»
Max la fissò con il suo sorriso compiaciuto. «Qualunque
donna al mondo sogna di diventare mia moglie.»
«Ci stai provando con me?» domandò Penny, sbalordita.
«Non essere sciocca. Ti sto proponendo di sposarmi.»
Scrollò le spalle, come per liquidare qualsiasi discussione.
«Sarai una fedelissima consorte. Non c'è ragione per cui io
e te si debba passare la vita da soli.»
La regina d'Inghilterra, la magnate dei media cinese,
l'erede dell'impero dell'acciaio, tutte le sue precedenti

236
conquiste conducevano una vita casta e dedita a lui, e a lui
soltanto. Attraverso quella rete di donne potenti Maxwell
aveva il dominio sull'intero genere umano.
«Per mezzo della linea Beautiful You» disse, orgoglioso,
«ho impiantato con successo quei nanobot nel 98,7 per
cento delle donne adulte del mondo industrializzato.»
Questo, confermò, era il metodo da lui usato per
controllare le loro abitudini di acquisto. Durante gli spot
pubblicitari dei prodotti DataMicroCom, trasmetteva
segnali che innescavano sensazioni erotiche. Che si trattasse
di scarpe, di un film o di un romanzo sui vampiri, le donne
associavano immediatamente le offerte all'eccitazione
sessuale e correvano a comprare.
«Le donne sono le nuove padrone, ma ora io» proclamò
Max vantandosene «sono il padrone delle donne.»
Penny sapeva che le parole di Max erano la verità. La
sua verità, almeno.
«Non ridurre la questione a una sfida da parco giochi,
però» ammonì Max. «Non è una partita a maschietti contro
femminucce. La posta in palio è il potere. Viviamo in
un'epoca in cui le donne detengono gran parte del potere.
Al governo o nelle decisioni d'acquisto tra i consumatori,
sono le donne a muovere il mondo, e la loro maggiore
speranza di vita le ha rese proprietarie di enormi
ricchezze.»
Guardò ammirato il congegno che aveva in mano. Girò
quel dispositivo in modo che Penny potesse osservarlo
meglio. La superficie era un mosaico di pulsanti neri,
ognuno contrassegnato da una lettera o da un numero. Una
tastiera. «Ti immagini se questo telecomando finisse nelle
mani di un tredicenne?»

237
«Ci è già finito» commentò Penny, secca.
I pollici di Max lavorarono sui pulsanti, e lei lanciò un
grido sentendosi il clitoride colpito da una scossa elettrica
di eccitazione.
Reprimendo l'orgasmo, Penny disse: «Hai creato un
ottimo deterrente alla procreazione». Pensava alle ferite
inferte a chiunque avesse cercato di penetrarla.
Maxwell sorrise enigmatico. «Se la tua gravidanza mi
garba, posso permetterti di procreare. Gli esseri umani
sono incapaci di controllare la propria riproduzione, perciò
devo occuparmene io. Nella mia utopia solo le donne più
intelligenti e produttive avranno il permesso di generare.»
Penny ora capiva come mai la presidente si fosse
ammazzata. Maxwell aveva in mente di controllare i tassi
di natalità in tutto il mondo industrializzato.
«Sovrappopolazione» disse Penny. «È per questo che hai
messo il cane a guardia della mangiatoia.»
Maxwell annuì con malcelato orgoglio. «Se alludi alla
funzione di controllo all'accesso, sì, certi nanobot possono
emettere una scarica ustionante di energia al plasma. Sono
stati inventati per distruggere le cellule cancerose, ma
funzionano altrettanto bene sull'erezione maschile.»
Con amara ironia, Penny disse: «Sarai felice di sapere
che funzionano anche sulle dita delle santone himalayane».
Max alzò un sopracciglio. «Ah, sei andata a trovare
Baba Barbagrigia...» Con un mezzo sogghigno, domandò:
«Come sta la ragazza?».
«Ti disprezza!» rispose Penny, e vide che Maxwell se ne
dispiacque, nonostante il suo tentativo di dissimularlo. Per
approfittare del momento aggiunse: «La Baba è disgustata

238
perché ti sei appropriato dei segreti erotici degli antichi al
solo fine di lucrarci su».
Senza dire nulla, Max azionò una levetta sul
telecomando, e Penny si sentì percorrere da un'ondata di
vertiginoso piacere.
Vacillò, ma riuscì a ricomporsi alla svelta. Lo guardò in
tralice. «Armata dei suoi insegnamenti, potrei rivelarmi
meno manovrabile delle tue precedenti schiave.»
Max notò che stava aprendo e richiudendo i pugni per
la rabbia. «Non sei più la bambina vulnerabile cui per
prima ho mostrato le vie del piacere... Sento che grazie agli
insegnamenti della Baba sei diventata pericolosa: una
donna.» Negli occhi di Max un brillio come di
ammirazione. «Se dovesse venirti in mente di farmi del
male, sappi che la mia morte scatenerebbe conseguenze che
vanno al di là delle tue più sfrenate fantasie!»
«Domani» sibilò Penny «il mondo intero ti disprezzerà.»
Bevve un sorso di champagne. «Alla prima udienza del
processo sulla titolarità dei brevetti, ho intenzione di
rivelare a tutti i tuoi luridi piani.»
Max lavorò sul telecomando.
Penny sentì dei brividi di piacere in prossimità dell'ano.
Un avvertimento. Che ignorò.
Max premette un altro pulsante, e lei sentì che i
capezzoli cominciavano a ingrossarsi.
«Di certo» provocò lei «puoi fare di meglio.»
«E ti giuro che lo farò» avvertì Max. «Se proverai a
smascherarmi, ti farò strisciare e latrare come una cagna
idrofoba in calore, in quell'aula di tribunale. Ti farò
impazzire di piacere. E ti ucciderò.»
Quella sera Penny costruì un altare dedicato alle antiche

239
divinità tantriche cui sacrificò un infuso fatto con un pugno
di terra raccolta dalla grotta di Baba Barbagrigia. Con un
cataplasma freddo di licheni inumiditi, deterse la fronte
febbricitante della sua migliore amica e coinquilina. Quella
notte sarebbe forse stata l'ultima per Penny, ma meglio
morire che vivere come schiava di Maxwell. Si figurò i
nanobot che già si ammassavano prima di sferrare l'attacco
al cervello e a livello inguinale. Telefonò al padre, a Omaha.
Le condizioni della madre non erano migliorate, ma
neppure peggiorate. L'avevano pesantemente sedata e la
alimentavano a forza attraverso una sonda gastrica, per
mantenerla in vita.
A quanto pareva, l'unico rimasto a sostenerla era Tad.
Le bastò chiamarlo, e lui corse a casa sua, portandosi dietro
i documenti relativi alla causa da riguardare insieme.
Mentre mangiavano una pizza in cucina, lei gli parlò del
viaggio in Nepal. Gli disse del guardiano annidato in
milioni di donne. Della debilitante scarica di maligna
energia al plasma anti-pene.
Penny gli spiegò tutto. Allora, e solo allora, avrebbero
potuto consumare fino in fondo e senza reticenze la loro
romantica amicizia. Bevendo tazze del sacro tè di terra
della Baba, seduti al tavolo della cucina, parlarono di come
portare la loro relazione a quello stadio ulteriore.
Tad la guardava, con la pizza tra loro ormai fredda e
dimenticata. Aveva l'espressione di un bambino confuso e
spaventato. Gli occhi pieni di terrore. Da mesi vedeva
arrancare Brillstein per lo studio, chiaramente in preda a
sofferenze atroci. Deglutì ansioso. Non smaniava dalla
voglia di finire come lui. «Avevo immaginato che tu non
potessi avere rapporti vaginali.»

240
Come avrebbe detto la Baba, la vagina non era per
Penny l'unica via attraverso la quale i suoi poteri potessero
manifestarsi. Che fosse bella o brutta, magra o grassa,
giovane o vecchia, non aveva più importanza. Ormai aveva
ricevuto insegnamenti che facevano di lei una maga del
sesso dalla vastissima esperienza. Possedeva abilità
tramandate per mille generazioni da sapienti maestre di
arti erotiche. Quella strabiliante magia carnale era nelle sue
mani, nella sua bocca. Quel sapere era ormai
profondamente incarnato in ogni suo più piccolo muscolo.
Già solo il suo retto ben addestrato conosceva innumerevoli
modi di dare piacere.
Penny evitò di vantarsi con Tad di tutti questi suoi
talenti naturali. Si limitò ad annuire in direzione del
frigorifero Sub-Zero. «C'è una bottiglia di champagne in
fresco.» Con voce fremente di suggestioni erotiche, disse:
«Perché non la stappi, mentre io vado di sopra a mettermi
qualcosa di sexy?».
In camera da letto, Penny recuperò il négligé di piume
di marabù tinte di viola scuro. Molte delle piume erano
incrostate di sangue secco. Il sangue di Brillstein. Il colore
dell'indumento, però, mascherava alla perfezione le tracce
cruente della serata in cui aveva sedotto e interrogato il suo
malvagio boss. Indossata la vestaglia piumata, infilò i piedi
nel paio di Prada dal tacco più alto che aveva e rimirò
l'effetto nello specchio del camerino. Il ricordo del vecchio
capo dello studio legale in lacrime, intrappolato dentro di
lei, la fece ridere. La vista della sua magnifica vulva ormai
glabra suscitò in lei il ricordo dolceamaro di quando
l'aveva premuta contro il bel viso di Alouette in un cubicolo
del bagno di quel ristorante.

241
Dal piano di sotto Tad disse: «Lo champagne è pronto!».
«Concedimi solo un altro minuto» gli rispose Penny.
Corse nella stanza di Monique. L'amica dormiva sodo,
troppo sfinita per accorgersi di Penny che raccoglieva a
piene mani appiccicosi e usatissimi prodotti Beautiful You.
Li portò alla svelta in bagno e li gettò sotto la doccia.
Tad tornò alla carica: «Sei pronta? Sto portando su lo
champagne».
«Sono in camera da letto» gridò Penny. Concitata, stava
usando il soffione della doccia per ripulire da residui di
lubrificante e fluidi organici i vari accessori erotici presi in
prestito. Conoscendo ormai l'origine segreta dei prodotti di
Max non ebbe difficoltà a riconoscere in uno la versione in
plastica di una clavicola umana, in un altro la replica di una
scapola in fibra di vetro rivestita di gomma. Dopo averli
lavati per bene li asciugò a uno a uno con una salvietta e li
gettò sul letto. Penny sentì che Tad stava salendo ed ebbe
appena il tempo di darsi un tocco di mascara, depilarsi le
gambe e mettere qualche goccia di profumo dietro le
orecchie.
Intanto, frugava nella memoria in cerca di dati
sull'anatomia sessuale maschile. Max qualcosa le aveva
insegnato; Baba Barbagrigia molto di più, ma Penny non
aveva mai messo in pratica quegli insegnamenti. La sua
mente vacillava per lo sforzo di figurarsi il nervo rettale
inferiore e la tunica vaginale di Tad.
Come ultimo tocco, Penny percorse un ampio cerchio
per la stanza dell'amore in modo da spargervi il proprio
profumo. La Baba le aveva spiegato bene come fare per
emanare i potenti feromoni accumulati secondo natura
nella sua ghiandola di Howard, e infatti quell'ambiente

242
romantico si riempì di un'inconfondibile fragranza
ormonale.
A quel punto Tad era sulla soglia della camera da letto,
con una bottiglia di champagne, due flûte di Baccarat e gli
occhi colmi di un trionfante miscuglio di eccitazione e
vulnerabilità. In un fruscio di piume di marabù, lei lo
condusse a letto e lo spogliò alla svelta, ripassando tra sé le
sue cognizioni di anatomia. Con un paio di gentili carezze
localizzò il legamento puboprostatico. Esplorando con
delicatezza, le dita di Penny si fecero strada sempre più a
fondo nel retto di Tad. Penny seguì il canale inguinale fino
alle ghiandole bulbouretrali e al condotto eiaculatore. Tad
non sollevò obiezioni. Al contrario, il virile e spavaldo
avvocato si lasciò sfuggire un gridolino di trepidazione
quando vide Penny che mescolava lo champagne rosé con
la soluzione dalla formula segreta brevettata del pacchetto
Beautiful You. Il tocco di Penny trasmetteva alla vigorosa
carne di Tad fremiti di paura e attesa spasmodica.
Tad non lo sapeva, ma il sangue dell'uomo che aveva
sperato di possedere Penny ancora impregnava il
materasso su cui stavano amoreggiando. Per fortuna lei
aveva avuto l'accortezza di rivoltarlo.
Penny si compiacque della pelle d'oca da lei provocata.
Così doveva essersi sentito Max quando esercitava un
controllo assoluto sull'estasi crescente di lei. Quello era il
potere. Niente più nobili, verbose dichiarazioni d'amore.
Per Tad non esisteva nulla al di là delle sensazioni erotiche
che provava per la prima volta. Rabbrividì di malcelato
godimento, quando lei gli penetrò lo sfintere spaventato
con il beccuccio della peretta, e il vino rosé adulterato
cominciò a diffondersi e a entrargli in circolo. Penny lo

243
stava portando a un livello di godimento che avrebbe
messo a dura prova la struttura stessa della sua realtà.
L'eccitazione di Penny, se di eccitazione si trattava, era
di tipo intellettuale. I gemiti e i gridolini di Tad erano la
dimostrazione della padronanza da lei acquisita sui centri
del piacere nell'essere umano. Aveva visto tantissime donne
sottoposte a brutali manipolazioni. Era bellissimo avere per
una volta lo stesso dominio su un uomo. Max, però, su una
cosa aveva ragione: non era una guerra tra maschietti e
femminucce. Si trattava piuttosto di come la conoscenza del
proprio corpo conferisce potere sugli altri. Penny si era
trovata nel ruolo passivo di cavia. Quella sera era la
padrona. Era lei ad avere il potere.
Con destrezza gli compresse i tubi seminiferi per
bloccare la spermatogenesi. Penny Harrigan non era più il
tremolante pezzo di carne in attesa dell'azione altrui.
Nonostante il piumaggio tinto di viola, era l'impareggiabile
santona del sesso. A ogni carezza monitorava il battito del
cuore e la temperatura del giovane avvocato. Lui ansimava.
Le pulsazioni erano a 197 battiti al minuto. Il pavimento
pelvico di Tad cedette, e lei inserì abilmente un fallo color
fucsia trascelto dal considerevole arsenale di Monique.
Servendosi dell'articolo 371, la Daisy Love Wand, Penny
rimescolò e sbatté l'inebriante mistura nelle viscere del
fidanzato. Questo trattamento lo fece in breve precipitare in
un coma erotico -- con una temperatura interna sotto i 27
gradi e le pupille ormai fisse e totalmente dilatate, sicché
Penny fu costretta a rianimarlo con il proprio respiro. Così
come Max aveva stimolato lei fin sull'orlo della morte per
poi riportarla in vita, Penny risuscitò Tad, incitandolo:
«Non morire proprio adesso che hai scoperto quale

244
godimento può provare il tuo corpo. Aggrappati alla tua
misera vita...».
Questo non era il sesso di cui Tad aveva esperienza.
Non era il sesso come lo intendevano i Sigma Chi. Non
eiaculò. Con preciso tocco tantrico, Penny aveva compresso
l'arteria spermatica. Al posto della piena emissione di seme
caldo, solo una limpida perla di liquido seminale comparve
tremante sulla punta della sua stremata erezione di
modeste dimensioni. Con grazia, Penny prelevò quella
gocciolina con la punta di un dito e se la portò alla lingua.
Aveva l'abituale dolcezza fruttata dei fluidi prodotti dalle
ghiandole di Cowper, ma non mancava di un retrogusto
più lieve e sfumato.
Come aveva fatto la Baba con lei, Penny leccò e succhiò
ogni più piccola particella del campione. Vi lesse la cotta da
scolaretto che Tad aveva per lei. Colse i sogni di
matrimonio e di una prole numerosa e turbolenta. In
quell'unica stilla di secrezioni ghiandolari sentì il gusto di
una casa stile ranch in qualche sobborgo, con setter
irlandese di razza pura e una monovolume sette posti. Era
prigioniero di minuscoli sogni stereotipati; anche lei ne era
stata vittima. Nascosto fra tutti questi dettagli c'era
qualcosa di più elusivo. Penny si leccò le labbra,
assaporando gli ultimi residui. Alla fine, le pupille
gustative riconobbero l'elemento chiave di quel sapore. Era
vergogna.
Prostrato, Tad giaceva sul letto sfatto e ricambiava
terrorizzato lo sguardo di Penny, che con le mani gli stava
applicando un lenitivo a base di pesto di sanguisuga sulla
pelle infiammata ed escoriata dello scroto.
La verità del fluido di Tad lasciò Penny di sasso. Non

245
c'era ombra di dubbio, però. Sorridendogli, mite, disse:
«Conosco i tuoi segreti più oscuri, ora. Non ha senso che tu
li nasconda oltre». Tad chiuse gli occhi mortificato.
Lei gli promise: «Non lo dirò a nessuno... Tu, però, non
sei mai stato a Yale, vero?».
A queste parole, il giovane e ambizioso avvocato si
sciolse in lacrime.
Sotto giuramento, Penny avrebbe detto la verità per le
altre che non potevano più dirla, per Alouette e Clarissa.
Avrebbe dato voce alle orde di disperate che si affollavano
sulla Fifth Avenue. Entrando nell'aula del tribunale, si
guardò intorno e fu presa per un attimo dal panico. Non
c'erano donne tra i banchi della giuria né tra i giornalisti. E
neanche tra il pubblico. Solo maschi. Il fatto di essere
l'unica donna la elettrizzava e le incuteva timore. Si bloccò
per un istante sulla soglia dell'aula, giusto il tempo perché
tutti la individuassero. Tutto tacque. Sapeva di avere una
presenza mozzafiato, senza un solo muscolo meno che
tonico. Sollevò una mano perfettamente curata e si passò le
dita tra i capelli lucidi, scuotendo le pesanti ciocche in
modo che catturassero la luce. Tutti la guardavano; lei non
guardava nessuno.
Si decise a fare un passo, e tutti gli occhi la seguirono. Il
loro odio sembrava vorticarle intorno come nebbia
surriscaldata finché non raggiunse il banco dell'accusa.
Anche Brillstein entrò in aula, vistosamente claudicante.
Ferite come quella da lui patita ci mettevano molto tempo a
guarire in uomini non più giovani, e lui stava senza dubbio
soffrendo. Si sedette con estrema lentezza e con una
smorfia di dolore accanto a Penny, guardandola in tralice
con gli occhi cerchiati di rosso. A separarli, il solo Tad. Lo

246
studio aveva delegato a un avvocato più giovane il compito
di interrogare Penny al momento della testimonianza.
L'elenco dei testimoni era molto breve, perché Tad
intendeva chiedere di mettere agli atti i taccuini di
Maxwell.
Giunsero delle grida dal corridoio fuori dall'aula. Le
teste di tutti si voltarono in direzione del trambusto. Voci
maschili strillavano: «Maxwell, era ancora innamorato di
Alouette?». E in coro: «Come se la passa dopo il suicidio di
Clarissa?». Era quasi una replica della scena cui Penny
aveva assistito nell'atrio del palazzo sede dello studio
B B &B , quando Alouette D'Ambrosia era uscita
dall'ascensore. Ora, però, decine di giornalisti e blogger si
contendevano l'attenzione di Max. Tenevano tutti il
telefonino sopra la testa per filmarlo nel momento
dell'ingresso in aula.
Penny non riusciva a vederlo. Era circondato troppo da
presso dal pacchetto di mischia delle guardie del corpo.
Vedeva però i piccoli schermi dei telefonini che lo
riprendevano da tante angolature. Indossava un completo
Ralph Lauren formale, buono per un matrimonio o per un
funerale. Le mani pallide erano vuote: non c'era traccia del
telecomando nero con cui poteva tormentare chiunque
avesse subito l'impianto dei diabolici nanobot Beautiful
You. Un risolino divertito passò fugace sulle sue labbra
esangui.
Penny, da parte sua, indossava un intramontabile,
elegante tailleur pantalone Jil Sander. Meglio evitare la
gonna o un vestito. Non aveva intenzione di ripetere il
tragico, fatale spogliarello che Alouette era stata costretta a
inscenare sul palco alla consegna degli Oscar. Aveva

247
considerato l'eventualità di portarsi una pistola nella
borsetta Prada, come la presidente Hind, ma era troppo
tardi per uccidere Max. La sorveglianza, lì in tribunale, era
troppo rigida.
La muta dei giornalisti seguì Max fino al suo posto, sul
banco degli imputati. Lì, un membro del collegio di difesa
gli tirò indietro la sedia, e Max si accomodò senza gettare
neanche un'occhiata fugace dalla parte di Penny. Anche a
distanza, lei sentì la freddezza del suo atteggiamento, la
stessa freddezza delle sue mani. Scomparso, ormai, il
sorridente e gentile corteggiatore, sempre attento, che a
cena l'aveva indotta a confessargli tutte le sue
preoccupazioni. Era strano, inoltre, vederlo senza penna né
taccuino.
Fedele alla sua parola, C. Linus Maxwell aveva bloccato
il flusso degli interessi generati dal fondo fiduciario di
cinquanta milioni di dollari intestato a Penny. In caso di
bisogno, lei sapeva di poter sempre vendere il pesante
rubino pendente dalla catenina d'oro che aveva al collo.
Avrebbe dato fondo fino all'ultimo centesimo pur di
assistere alla rovina di Max.
All'ingresso del giudice, tutti si alzarono in piedi. Un
colpo di martelletto diede inizio all'udienza.
Tad si alzò in piedi. «In veste di consulente dell'accusa»
disse «convoco Penny Harrigan come mia prima
testimone.»
Penny si alzò in piedi, al centro dell'attenzione generale.
Si era abituata a essere di continuo osservata dai ricchi e
famosi del mondo: ormai quel tipo di esposizione pubblica
la lasciava indifferente. Mille sconosciuti stavano
giudicando il suo corpo, i capelli, persino il suo carattere.

248
Un fatto del tutto irrilevante. Si fece avanti come una
monarca verso la ghigliottina. Posò una mano sulla Bibbia
che le venne offerta. Solo allora concesse al proprio sguardo
di incrociare quello di Maxwell. Pareva tranquillo, per nulla
turbato. Un'aria di tedio supremo. Gli occhi semichiusi
davano l'impressione che stesse reprimendo uno sbadiglio.
Mentre Penny prendeva posto di fronte al microfono e
dichiarava il proprio nome, lui infilò una pallida mano nella
giacca e ne estrasse un oggetto nero. Tenendolo nel palmo
di una mano, cominciò a digitarci sopra come se stesse
scrivendo un messaggio.
"Un massaggio" pensò Penny "più che un messaggio."
Che fosse solo suggestione oppure realtà, Penny
cominciò a sentire una piacevole vampata di calore al seno.
L'effetto fu così dolce e di un tale conforto che Penny pensò
di essere vittima della propria immaginazione: non aveva
nulla a che fare con la brutale violenza sessuale che lui
aveva minacciato. La lieve e carezzevole sensazione tra le
gambe era più simile al tocco di Baba Barbagrigia. Penny
ebbe un leggero fremito. Forse erano questi gli stimoli che
Max utilizzava per indurre le donne a comprare certi libri e
certe scarpe. Era quello il modo in cui orientava le elettrici
verso le candidate da lui prescelte. Era come un solletico
che le riportò alla mente l'espressione usata da sua madre:
"in solluchero".
Tad si alzò in piedi e le si avvicinò. «Signorina
Harrigan» esordì, «lei è vergine?»
Penny non fu affatto sorpresa. Sapeva già quali
domande le avrebbe posto. La strategia era stata
concordata per farla apparire come una brillante

249
coinventrice, non come una giovane ingenua portata alla
perdizione. «No» rispose. «Non sono vergine.»
«Era vergine quando conobbe il signor Maxwell?»
Penny scosse la testa. «No, neanche allora.» Quelle
piacevoli sensazioni continuavano a percorrerla. Il cuore
aveva preso a batterle così forte che quasi riusciva a sentire
il grosso rubino rimbalzarle sul petto.
Tad la fissò severo. «Ha avuto relazioni sessuali con il
signor Maxwell?»
I polpastrelli di Max erano sospesi come in attesa
dell'eventuale tradimento da parte di Penny.
Penny annuì.
Il giudice intervenne: «Si metta a verbale che la
testimone ha risposto affermativamente».
Tad proseguì: «Ha liberamente accettato di far uso di
strumenti atti a intensificare l'esperienza erotica?».
Le piacevoli sensazioni telecomandate si interruppero di
colpo. Il caldo formicolio ai capezzoli e al pube non era
frutto della sua immaginazione. Era stato un avvertimento.
In risposta all'ultima domanda di Tad, Penny disse: «Sì, ho
espressamente consentito al signor Maxwell di
sperimentare su di me molte delle sue idee».
Senza toglierle gli occhi di dosso, Max toccò svelto
alcuni pulsanti.
Penny si sentì le ascelle improvvisamente umide. Il
tessuto del vestito sembrava incandescente, sul punto di
prendere fuoco. Un rivolo di sudore le colò nel solco tra le
natiche. Le si formò in gola un lungo gemito sensuale che
soffocò a fatica.
Tad le domandò: «Ha ricevuto un compenso per lo
sforzo da lei affrontato per conto del signor Maxwell?».

250
Alla parola "sforzo", Max rise sommessamente,
affondando il mento nel petto.
Penny rispose con rabbia: «No. Mi ha fatto alcuni regali
di natura personale -- capi d'alta moda, ad esempio --, ma
non ho ricevuto compenso né riconoscimento come collega
e collaboratrice».
Max la guardò storto. Non era difficile leggere la rabbia
nella sua espressione. Come aveva osato rivendicare quello
status di parità con lui? Premette alcuni tasti sul
telecomando.
Nello stesso istante, a Penny sfuggì un ansito. Il suo
cuore ebbe un sussulto. Il corpo era tutto teso come se
volesse liberarsi dei pur comodi vestiti. Si sentiva la pelle
ipersensibile al punto che persino la biancheria intima di
seta le pareva costrittiva come filo spinato. Le sue dita si
diedero da fare, senza dare nell'occhio, per aprire bottoni e
allentare cerniere e trovare così sollievo senza tradire la
propria eccitazione. Non poteva concedere a Max quella
soddisfazione. Inoltre, contorcendosi come una
spogliarellista al palo, difficilmente sarebbe riuscita ad
acquistare credibilità presso quella giuria tutta maschile.
Tad, apparentemente ignaro di tutto, le domandò: «Sa
che l'imputato è talvolta soprannominato "Climax-Well"?».
Penny cercò di contenere una nuova vampata di
passione. Prese a ruotare il bacino sulla sedia nella maniera
meno evidente possibile. Rispose: «L'ho letto sui tabloid,
ma il proprietario di quei tabloid è sempre lui!».
Tad proseguì l'interrogatorio: «Signorina Harrigan, qual
è secondo il suo parere strettamente personale la fonte
principale della vasta conoscenza delle arti erotiche di cui il
signor Maxwell dispone?».

251
Eccola, finalmente, l'opportunità di denunciarlo. Penny
deglutì la saliva bollente che le inondava la bocca. Con
discrezione si portò un fazzolettino alla fronte per
detergerla dalle gocce di sudore che la ricoprivano. Con il
mondo intero ad ascoltarla, avrebbe raccontato del viaggio
e dell'apprendistato compiuti da Maxwell in Nepal alla
scuola di Baba. Avrebbe spiegato che questa scelta era da
ricondurre al suo matrimonio finito tragicamente. Inoltre,
Penny avrebbe fatto mettere a verbale che i prodotti per la
cura intima Beautiful You avevano come modello le ossa
essiccate di pellegrini invasati che si erano dati piacere fino
a morirne. Il mondo avrebbe presto saputo in che modo
Maxwell aveva saccheggiato la sapienza erotica
accumulata nel corso di tutta la storia umana per asservire
le consumatrici e controllare le loro abitudini di spesa.
Quelle donne degradate erano prigioniere di un potere
erotico che andava al di là della loro comprensione, e Penny
le avrebbe salvate. Max sarebbe stato smascherato.
Proprio mentre si accingeva a parlare, la sua
respirazione si fece più lenta e affannosa. Le cosce si
agitarono per liberarsi dalle mutandine inumidite. I piedi si
sbarazzarono delle scarpe che parevano intrappolarli. Per
una reazione inconscia i presenti si mossero bramosi in
avanti sui loro sedili. La divoravano con occhi pieni di
lussuria.
«Ci dica» la incoraggiò Tad. Il ragazzo era proprio un
bel bocconcino, vestito da avvocato. Penny non vedeva l'ora
di sposarselo, appena terminato il processo. Il sesso,
durante la luna di miele, sarebbe stato fantastico.
Lei aveva solo una vaga percezione di Max che premeva
pulsanti, nel frenetico tentativo di impedirle di testimoniare

252
con una più intensa ondata di estasi. Forse stava addirittura
cercando di ucciderla con un attacco cardiaco causato da
un piacere eccessivo. Pestava i tasti con aria torva, senza
mai distogliere gli occhi dalle reazioni fisiche di lei.
I nanobot impiantati nel sistema nervoso di Penny
stavano probabilmente trasmettendo a Max tutti i dati sulle
sue funzioni vitali. Il congegno che lui aveva in mano gli
stava fornendo il battito cardiaco, la pressione arteriosa, i
livelli ormonali di Penny... tutto, insomma.
I poteri di Max andavano ben al di là di quanto lei
avesse immaginato. Lui schiacciò un tasto, e Penny sentì un
gusto di cioccolato, il miglior cioccolato fondente che
avesse mai assaggiato: la sua bocca era pervasa da quel
delizioso sapore. Max premette un altro bottone, e Penny
percepì l'inebriante fragranza di un sontuoso roseto. I
nanobot installati attraverso la famigerata Libellula si
unirono a stimolarle tutti i sensi. Grandi sinfonie di violini
le risuonarono all'orecchio. Gli sconvolgenti effetti della
lavanda di champagne rosé sembrarono rinnovarsi dentro
di lei.
Ciononostante, Penny si sforzò di parlare. Le mani,
senza che lei lo volesse, si muovevano tra i capelli. La
schiena si arcuò facendo sporgere il seno. «Maxwell
controlla il mondo...» disse con voce tremula. Puntò un dito
malcerto. «Guardate! Con il suo telefono!»
Rendendosi conto dell'agitazione di Penny, Tad
intervenne. «Vostro onore» disse rivolto al giudice, «direi
che la testimone sta avendo un mancamento.»
«Vi prego, fermatelo!» gemette Penny. «Ha il controllo
della mia mente!» Le sue stesse mani, come dotate di
volontà propria, le stavano strappando di dosso la

253
camicetta. Il suo forsennato strusciarsi e dimenarsi le fece
cadere i pantaloni, che le si raccolsero intorno alle caviglie.
Un'accozzaglia di gusti marcati -- foie gras, Grand Marnier,
latte al caramello -- le stuzzicava il palato. I suoi timpani
erano percossi da assordanti arie mozartiane. Si sentiva le
narici infiammate dai dolciastri aromi di gelsomino e
cuccioli. Agli occhi del mondo Maxwell poteva sembrare
impegnato in una partita a Tetris, e invece con quel digitare
da virtuoso del pianoforte in concerto era la causa di tutte
quelle raffinate sensazioni.
Inerme, Penny si sentì assalita in tutto il corpo da un
aggressore invisibile. Le doleva ogni orifizio, come se
centinaia di peni la stessero violando. Le gambe e le labbra
spalancate contro la sua volontà, sentiva il sapore e il
contatto di una moltitudine di lingue. Denti fantasma le
mordicchiavano giocosamente i capezzoli, e sentì persino
un respiro caldo e ansimante sul collo.
Lei urlava, ma nessuno si fece avanti a soccorrerla. Lo
stenografo ufficiale registrava le sue invocazioni. I
disegnatori presenti in aula raffiguravano il suo dimenarsi.
Tad la fissava, sgomento e incredulo. Penny non era più
l'esperta maga del sesso. Di nuovo, come un tempo, era
ridotta a un madido pezzo di carne soggetto al potere
erotico altrui.
Arrivarono gli infermieri che la caricarono su una
barella. Le domandarono che anno fosse, chi fosse il
presidente. Le chiesero come si chiamava e la riconobbero,
tutti contenti: «La Cenerentola del Nerd».
Per tutto il tragitto fino all'ospedale, uno dei due
continuò a ripetere, sconcertato: «Avresti dovuto
sposarlo...».

254
Nonostante la pioggia fredda e insistente, una fila di
clienti inzaccherate si snodava per la Fifth Avenue. Le
gocce avevano appiattito i capelli in ciocche disordinate che
pendevano davanti alla loro faccia, nascondendo gli occhi
spenti e vitrei. Attendevano nelle pozzanghere con le loro
scarpe rovinate, zuppe d'acqua. Ogni tanto un macabro
spaventapasseri, arrancando, avanzava di un passo. Un
capo della fila scompariva all'interno del negozio. L'altro
capo si perdeva in lontananza. Qua e là c'erano clienti
semisvenute a terra, ma anche queste, quando era il
momento, si spostavano in avanti, magari a quattro zampe.
Solo qualcuna di loro, o forse nessuna, fece caso alla
limousine extralunga che passò con due sposi a bordo,
diretta alla cattedrale di St Patrick, dove una passerella
coperta era stata montata a riparare gli ospiti in arrivo. Tra
questi, leader politici di tutto il mondo, la regina
d'Inghilterra, la magnate dei media cinese, artiste
pluripremiate e di ogni provenienza. Legioni di giornalisti
erano ammassate sul marciapiede. Era la notizia del
decennio: il matrimonio dell'uomo più ricco e potente del
mondo.
Per arrivare al luogo della cerimonia, Penny sfilò in auto
davanti alla fila multichilometrica di macilente maniache
dello shopping. Teneva il velo abbassato sul viso per non
correre il rischio di essere riconosciuta. Lei, Penny
Harrigan, non era riuscita a salvare proprio nessuno e stava
per pagarne il prezzo fino in fondo. Non avrebbe affatto
dissodato nuovo terreno per la successiva generazione di
donne. Non avrebbe spalancato nuovi orizzonti al
femminismo. Agghindata in un voluttuoso abito nuziale

255
Priscilla of Boston, si fece forza e percorse la navata per
giurare fedeltà a C. Linus Maxwell.
A ogni angolo di strada, i distributori di tabloid
esponevano la locandina con i titoli del giorno: Il re dei Nerd
sposa la sua regina cattiva. Un altro titolo: Lunga vita, Queen
Penny! Altri tabloid, però, titolavano: Le trame di Climax-
Well per impadronirsi del mondo; e ancora: Corny Maxwell
costruisce misteriosi robot erotici. Penny era l'unica persona a
conoscenza della strategia mediatica occulta. Aveva lui
stesso promosso la pubblicazione di quegli articoli, per
presentare la verità in forma di assurda barzelletta.
Maxwell intendeva minare, così, l'attendibilità delle
scoperte di Penny. Nessuno le avrebbe mai creduto.
L'abito nuziale vintage era, come di prammatica, molto
ingombrante. Penny era piegata dal peso di sottovesti e
falpalà. Ciò era indispensabile alla creazione del mito. A
qualunque altro osservatore, quella scena sarebbe sembrata
un fiabesco lieto fine: la Cenerentola che sposa il Principe
Azzurro. Max ne aveva bisogno, per cementare l'illusione
che da così tanti anni andava costruendo.
Più in generale, la città era coperta da un fumo nero di
gomma incendiata. I dildo in fiamme continuavano a
cadere, seminando morte a casaccio.
Le fan di Beautiful You si aggiravano come uno
sconfinato esercito in ritirata da qualche remoto campo di
battaglia, ferite, scoraggiate, con i vestiti fradici che
gocciolavano. Non avevano idea di essere pedine di un
complotto mondiale. Penny non solo non era riuscita ad
aiutarle, ma aveva contribuito attivamente alla loro
sconfitta. Nel suo letto erano state perfezionate le armi che
le avevano condotte all'abiezione. Le reazioni di Penny

256
erano servite ad affinare quegli strumenti che stavano
rovinando l'intero genere femminile. Il suo giuramento di
fedeltà a Max, dunque, era più che giustificato.
Le donne più intelligenti, dotate e determinate al mondo
erano ormai in balia dei capricci di Max. Con la sola
pressione di un pulsante, lui poteva far sentire a tutte
incredibili sapori. Poteva far ascoltare musiche grandiose
che neppure esistevano. Controllava la loro realtà. Quel
giorno segnava l'inizio di una nuova epoca buia per le
donne di ogni dove, e la speranza di Penny era che durasse
per una sola generazione. A poco a poco la verità sarebbe
emersa, e la nuova generazione di donne sarebbe forse
riuscita a stare alla larga dai prodotti Beautiful You.
Se però i nanobot erano in grado di moltiplicarsi, pensò
Penny, le madri avrebbero trasmesso quei microscopici
padroni alle figlie. Magari persino ai figli maschi. Nell'arco
di una generazione, l'intero mondo industrializzato sarebbe
appartenuto a lui, al malefico Max.
Se Max, come da lui stesso affermato, si era sottoposto a
vasectomia, nessuno avrebbe ereditato il suo potere.
Conoscendolo, Penny immaginò che le redini del suo
impero sarebbero passate a un supercomputer totalmente
automatizzato. In breve, qualche programma informatico
avrebbe determinato le sensazioni e i gusti di tutti,
distribuendo orgasmi artificiali e una melodiosa e fasulla
musichetta attraverso i robot presenti nel sistema nervoso.
A quel punto, comprese Penny, il sapore reale del cibo
non avrebbe più avuto alcuna importanza. Gli ingredienti
dei cibi prodotti e venduti da DataMicroCom non facevano
più alcuna differenza. Le sensazioni delle papille gustative

257
e la percezione dei prodotti da parte dei consumatori
sarebbero state determinate dai nanobot.
Penny ripensò a quando, in taxi, era andata al primo
appuntamento con Max, al ristorante Chez Romaine.
Diversamente da quella sua prima comparsa da
sconosciuta sul tappeto rosso, la mattina del matrimonio il
marciapiede era affollato di giornalisti e fotografi che
sgomitavano per immortalarla nel suo splendore nuziale.
Decine di servitori di Max le reggevano lo strascico del
vestito e impugnavano ombrelli neri per evitare che anche
solo una goccia di pioggia rovinasse il suo look. Un
pacchetto di mischia di guardie del corpo in completo blu
la scortò in mezzo alla calca.
Salendo in fretta gli scalini della cattedrale, Penny sentì
un sapore di bistecca speziata alla griglia. Udì uccellini che
cinguettavano. Sapeva che nulla di tutto ciò era vero. Max
le instillava queste percezioni. Per consolarla, immaginò lei.
Penny non sarebbe mai più stata padrona della propria
mente.
Entrando in chiesa scorse tre facce familiari, ma ritenne
d'acchito che si trattasse soltanto di ulteriori allucinazioni
indotte da Max. Le tre facce le rivolsero un sorriso, che lei
ricambiò domandando: «Ma siete qui in carne e ossa?».
Erano i suoi genitori e la sua migliore amica, Monique.
Quest'ultima e la madre di Penny avevano un'aria fragile
ed emaciata, ma evidentemente Max aveva concesso loro di
rimettersi abbastanza in forze da poter essere lì presenti.
Più che invitate al matrimonio, quelle due donne erano
ostaggi, condotti lì per assicurare che la cerimonia si
svolgesse senza intoppi. Penny avrebbe potuto tentare

258
un'estrema ribellione, se le persone a lei care non fossero
state costantemente in pericolo.
Colmo dell'ironia, non tanto tempo prima proprio la
madre e l'amica di Penny l'avevano sollecitata a rinunciare
ai suoi metodi contraccettivi per far finire Max in trappola e
costringerlo a sposarla. Ora era lei in trappola. Mentre loro
sembravano a un funerale. I quattro si abbracciarono con
affetto.
Quando gli addetti invitarono i suoi genitori a prendere
posto, la madre di Penny sussurrò alla figlia: «Ecco, prendi
questo». Le mise qualcosa in mano. «Leggilo.»
Penny notò con raccapriccio che i polsi della madre
erano scarnificati dalle funi. Le braccia nude erano
punteggiate di crosticine rosse, segno delle innumerevoli
iniezioni ipodermiche. Le consegnò un pezzo di carta
ripiegato. Dispiegandolo, Penny vide che era una pagina
ingiallita di un vecchio numero del "National Enquirer".
Non senza agitazione, domandò a una guardia del corpo
dove fossero i bagni.
Erano settimane che le pie donne della parrocchia
incaricate della pulizia non si facevano più vedere, notò
Penny, indignata. Non fu facile entrare nel lurido cubicolo
del bagno con tutta la gigantesca crinolina. A ogni
movimento l'elegante satin assorbiva acqua sudicia dal
pavimento puzzolente di urina. Con le prime note della
marcia nuziale in sottofondo, Penny scorse in fretta e furia
la pagina del tabloid. Il titolo dell'articolo era:
DataMicroCom scommette alla grande sulla clonazione.
L'autore del pezzo diceva che Max aveva fatto massicci
investimenti sulle ricerche nel campo della creazione e
clonazione di embrioni umani capaci di sviluppo. Tali

259
ricerche si erano svolte contemporaneamente a quelle sui
nanobot. Secondo il "National Enquirer", fine dichiarato
dell'azienda era la produzione di un clone microscopico che
potesse essere conservato in animazione sospesa e poi
impiantato in un utero surrogato, dove avrebbe seguito il
suo normale sviluppo.
Penny rilesse l'articolo prima di gettarlo nel water e
tirare lo sciacquone.
Se Max era in grado di inoculare nelle donne i nanobot
che controllavano la mente, perché non anche un embrione
clonato in animazione sospesa? Magari persino in lei. In tal
caso, si sarebbe trattato senz'altro di un clone di Maxwell.
Ecco, questo era l'obiettivo fondamentale. Controllare la
crescita della popolazione mondiale... per perpetuare il
potere della sua impresa globale... come una specie di
parassita, aveva intenzione di depositare migliaia, forse
anche milioni di propri cloni nell'utero di donne ignare.
Questo era il piano di Maxwell per donare la pace
all'umanità. Il suo mondo perfetto sarebbe stato popolato
da miliardi di sue repliche!
Maxwell era in piedi presso l'altare. I genitori di Penny
erano seduti al primo banco, in attesa, accanto a centinaia
di dignitari e persone famose, che la sposa percorresse la
navata.
Le donne presenti sorridevano tutte, in estasi. Max le
stava di certo bombardando con ogni genere di piacevole
sensazione. La madre di Penny sospirò come rapita da un
gusto di brownie appena sfornati. Monique chiuse
lentamente gli occhi come sollevata su un tappeto magico
in forma di valzer. Solo Penny era esentata dai piaceri

260
utilizzati da Max per ammansire le altre donne presenti alla
cerimonia.
Di lì a poco, Penny sarebbe diventata la moglie di C.
Linus Maxwell. Aveva trovato il suo destino, o forse era
stato il destino a trovare lei. Da quel giorno in avanti
sarebbe stata alla guida della più grande corporation
mondiale. Sarebbe stata la consorte dell'uomo più ricco del
pianeta. Penny prese posto al suo fianco. Velata. Inoculata.
Per amare, onorare, prendersi cura, ma soprattutto per
obbedire.
Il vescovo disse: «Se qualcuno ha fondato motivo di
ritenere che questa sacra unione non debba celebrarsi, parli
ora o taccia per sempre».
Un mormorio si levò dal fondo della chiesa. La
moltitudine di colli eleganti si volse a guardare la figura
ingobbita che stava percorrendo la navata centrale. Le sue
disordinate trecce grigie grondavano acqua piovana. Quel
corpo avvizzito e completamente spoglio avanzava a
piccoli passi. Un'abbondante crescita di pelo pubico grigio
pendeva fino a strisciare sul tappeto rosso. A giudicare
dall'espressione di sorpresa e paura, Max la riconobbe
all'istante. La vegliarda, sempre più vicina, levò gli occhi
sbiancati e ciechi verso di lui e cominciò a parlare.
Annusando l'aria con il naso rugoso, strillò: «Maxwell,
sento l'odore della tua paura!». Dalla bocca sdentata uscì
un gracidio rugginoso: «Metti fine a questa... farsa!».
Circospetto, Maxwell affondò una mano dentro la
giacca dello smoking e tirò fuori il telecomando nero. Con
un tocco avrebbe potuto torturare o uccidere milioni di
persone.
La megera, sempre più incalzante, ingiunse: «Dille la

261
verità, Maxwell!». La strega puntò un dito rinsecchito e
ordinò: «Se hai il coraggio di sposarla, devi almeno dirle la
verità! Rivela alla tua giovane sposa la vera natura della
sua esistenza!».
Max sgranò gli occhi, inorridito.
Ormai a metà della navata, quella donna malconcia e
cadaverica comandò: «Dille il segreto che io non ho potuto
rivelarle. Questa verità deve uscire da te. Diglielo!».
Penny si alzò in piedi, confusa, e guardava ora la
sgangherata accusatrice, ora l'uomo che stava per diventare
suo marito.
Quella vecchia era la Baba, ovvio, giunta a New York
direttamente dal Nepal. Schiuse le labbra e disse: «Spiegale
perché hai dedicato la vita allo studio dei modi di dare
piacere alle donne!».
Max sollevò il telecomando in modo che tutti lo
vedessero. «Un solo altro passo, vecchia madre, e la
responsabilità di un miliardo di donne morte ricadrà su di
te!»
La Baba frenò la propria avanzata.
Fu Penny, allora, a intervenire. «Baba» gridò impavida,
«io so perché Maxwell si è appropriato dei segreti erotici
degli antichi. E so anche perché ha passato la vita a
ricercare la compagnia delle migliori vagine del mondo!»
Tra i presenti, le donne erano tutte in deliquio, in balia di
sogni a occhi aperti. Gli uomini sembravano piacevolmente
sorpresi dall'inattesa interruzione dell'altrimenti noiosa
cerimonia nuziale. Non si erano accorti delle smanie delle
donne o forse le ignoravano deliberatamente. I più
corrispondevano al tipo del volgare marpione che

262
speculava sul mercato nero, sfruttando l'effetto Beautiful
You.
Mentre le dita di Max si libravano su pulsanti capaci di
un'ecatombe globale, Penny annunciò: «Ho saputo delle sue
ricerche sulla clonazione. Max ha impiantato suoi embrioni
clonati in tutte le donne che hanno usato i prodotti Beautiful
You, lo so, e presto li attiverà per dare inizio alla
gestazione». Avendo ormai catturato l'attenzione di tutti,
gridò: «Gli stessi nanobot che infliggono piacere o
sofferenze alle sue schiave serviranno anche a sopprimere
la funzione immunitaria che potrebbe portare al rigetto di
quei feti estranei. L'esercito dei microscopici robot
proteggerà lo sviluppo di quei feti, e milioni di donne fertili
daranno alla luce repliche esatte di Cornelius Linus
Maxwell!».
Alla fine del suo breve discorso, Penny urlava, agitando
come una pazza il bouquet nuziale. Quando tacque, i
convitati la guardarono increduli. Nel suo voluminoso
vestito a balze, Penny si aspettava una reazione di sdegno
della folla e si preparò ai tormenti cui Max avrebbe di certo
cominciato a sottoporla. Nulla di tutto questo accadde.
La Baba volse lo sguardo rannuvolato verso di lei. La
vecchia, perplessa, inclinò la testa di lato e disse: «Di che
accidenti stai parlando? Non si tratta affatto di questo».
Da qualche parte, nella cavernosa cattedrale, qualcuno
ridacchiò.
«Un'altra parola soltanto» minacciò Max «e scatenerò
sofferenze che non potete neppure immaginare!»
Incurante, la Baba osò parlare: «Il vestito che indossi,
Penny Harrigan, è lo stesso che lei indossava venticinque
anni fa. È l'abito nuziale che la defunta moglie di Max ha

263
messo quando aveva la tua stessa età!». Le sue parole
rimbombavano nella vasta cappella di pietra. «Domanda un
po' al tuo sposo come mai il vestito ti si attaglia tanto
bene!»
Il vestito, in effetti, le era andato subito a pennello. Già
la prima volta che l'aveva provato, Penny aveva avuto la
sensazione che fosse stato fatto apposta per lei.
Non ebbe tempo, però, di soffermarsi su questo
pensiero, perché Max cominciò a digitare sul suo aggeggio
elettronico. Da lontano, un satellite rinviò il segnale, e
Penny si sentì attraversata da una scossa lancinante. Come
lei, tutte le altre invitate al matrimonio caddero gridando
sul freddo pavimento della chiesa. Solo la Baba rimase in
piedi. Con aria di sfida continuava a guardare Max, che
appariva fuori di sé dalla rabbia. «Di' la verità a questa
ragazza» sibilò la vecchia. «Dovrà pur sapere qual è la
sorte a cui è destinata sin dalla nascita.»
«Giammai» sbottò Max.
Penny intuì vagamente che la Baba era ormai faccia a
faccia con Max. Come due avversari, il dandy con lo
smoking e la vecchia scheletrica ed emaciata si studiavano
girando in tondo guardinghi. Max ripose il telecomando
nella tasca interna della giacca e alzò minacciosamente le
mani, pronto ad attaccare se la vegliarda avesse provato a
dire altro.
Il vescovo, arrossendo con violenza, guardò Penny che
ai suoi piedi si contorceva e si dimenava, quasi impazzita
per i tormenti e i sollazzi sessuali, mentre un flusso di
gutturali e insensati barbugliamenti sgorgava ininterrotto
dalla sua bocca.
«Tu, piccola Penny» incitò la Baba, «devi riflettere e

264
respingere la sua energia maligna. Non è stato un caso il
tuo incontro con Maxwell. Solo tu puoi sconfiggerlo!»
Non appena la Baba ebbe finito la frase, Max si slanciò
in avanti e, afferrandola per la gola incartapecorita, disse:
«Muori, maledetta stregaccia!».
Pur ansimante, la Baba aggiunse: «Cerca! Cerca sui suoi
taccuini, nove mesi prima che tu nascessi, Penny...». La voce
ridotta a un sussurro ingarbugliato, suggerì: «Va' a vedere
chi stava corteggiando...».
Penny si rotolava tra i morbidi tessuti dell'imponente
abito nuziale. Sentiva fisicamente i nanobot che le
guizzavano nelle vene. Si sarebbe squarciata le arterie pur
di ripulirsi il sangue. Quei robot non si sarebbero mai
placati. Non se ne sarebbe mai liberata. Le minuscole
sentinelle di Max erano vive e sempre pronte a infliggerle
dolore dall'interno.
La Baba, il collo nella morsa delle mani gelide di Max,
ormai agonizzava. Dopo due secoli trascorsi a indirizzare
pellegrini sulla via dell'illuminazione sessuale, la cara
yogin stava spirando per mano del suo miglior discepolo.
Nonostante la trachea serrata, in un rantolo la vecchia riuscì
a dire: «Figliola, devi respingere la sua energia! Lasciatene
attraversare e restituiscigliela con ancora più forza!». In un
sussurro fioco, aggiunse: «Neanche i raggi del sole più
torrido possono appiccare il fuoco a uno specchio!».
Per deviare quell'attacco di falso piacere, Penny si
concentrò sulla sua famiglia tanto unita e sulla loro
semplice fede luterana. Assaporò la vera amicizia che si era
sviluppata tra lei e Monique. La mente di Penny abbracciò
tutto quel che amava al mondo. Il gelato butter brickle. Ron
Howard. Richard Thomas. Con una intensa meditazione, la

265
coscienza di Penny cominciò a deflettere i segnali inviati
dal telecomando di Max. Gli sciami di nanobot
cominciarono a poco a poco a ricadere verso il basso,
ammassandosi all'interno del suo bacino in attesa.
In quello stesso istante, si propagò per la chiesa un
fischio acutissimo. Debole, dapprima, poi sempre più forte,
si tramutò in sirena. Un lamento penetrante come un
allarme antiaereo, ma amplificato a tal punto da confondere
il cervello dei presenti. Gli invitati, il vescovo, tutti si
portarono le mani alle orecchie, piegati dal dolore.
Era Penny la fonte del fischio. Attutito solo da gonne e
crinoline, quel suono come di tromba aveva origine tra le
sue gambe. Riecheggiava contro le pareti in muratura. Le
altissime vetrate colorate presero a vibrare. Come per le
trombe che avevano abbattuto le grandi mura di Gerico,
sottili crepe si aprirono tra le pietre della cattedrale.
Cominciò a piovere polvere di malta. Trasformandosi in
rombo di tuono, quel rumore esplose tra il satin e le
sottogonne, sparando paillette e perline tutt'intorno come
shrapnel. Brandelli di pizzo volavano come coriandoli
bianchi, a svelare la sede di quel potere della sposa.
Penny si concentrò sull'amore che provava per la
grande Baba, e le labbra della sua vagina si protesero,
vibranti, emettendo un fragore insopportabile: un cannone
spara-rumore. Lo spostamento d'aria spense le candele
della chiesa.
Senza preavviso, il rosone della cattedrale esplose, ma
non verso l'esterno, bensì all'interno, investendo gli invitati
con frammenti affilati di vetro rosso, blu e verde, infranto
da un proietto che arrivava dalla parte dello Yankee
Stadium.

266
Come un fulmine... una palla di fuoco... una massa di
gomma fusa e batterie elettriche in fiamme attraversò l'aria
nel grande edificio sacro. Con la forza di una pallottola, il
razzo assassino trafisse Max proprio all'altezza della patta
dell'elegantissimo completo griffato. Quel fiammeggiante
prodotto per la cura personale, trasformato in granata di
mortaio incandescente, centrò le parti intime dello sposo,
piegandolo in due e facendolo cadere all'indietro.
La vegliarda multicentenaria era passata a miglior vita.
Maxwell era ferito a morte da un'arma proveniente dal
suo arsenale di avveniristici accessori erotici: un fallo letale
partito dal falò dei Promise Keepers! Il sangue sgorgava a
fiotti dal cavallo lacerato del suo smoking. Penny non ebbe
bisogno di guardare da vicino per capire che i genitali di
Max erano annientati. Come un personaggio di un libro di
Ernest Hemingway che le avevano fatto leggere al liceo, le
sue parti intime erano state fatte a pezzi dall'esplosione. La
Baba era morta, e Max stava morendo.
I nanobot dentro di lei avevano smesso di tormentarla.
A poco a poco Penny e le altre donne in chiesa si rialzarono
in piedi, sbattendo le ciglia stordite. Si tolsero i capelli
scarmigliati dalla faccia e aprirono le borsette per dare
inizio alla lunga e ardua impresa di rimettere a posto il
trucco. E la loro esistenza.
Le gelide dita di una mano morente si chiusero intorno
alla caviglia di Penny. Max la guardava da terra con occhi
supplici. La faccia solitamente già pallida era di un bianco
spettrale, ma le sue labbra si mossero per parlare.
«Ascoltami» disse. «Guarda.» La sua mano libera frugò in
una tasca della giacca e ne prese un pezzo di carta
spiegazzato. «È per te» disse, porgendoglielo.

267
Penny si chinò e lo prese: era un ritaglio di giornale che
risaliva esattamente a trent'anni prima. Era preso dal
"National Enquirer". In bella vista c'era una fotografia in
bianco e nero. Era sgranata e sbiadita dal tempo, ma fu per
lei come guardarsi allo specchio. Era la sua faccia, con un
velo e un abito identici a quelli che aveva indosso. Si dava
notizia di un matrimonio. Cornelius Linus Maxwell sposava
Phoebe Bradshaw. Allegato al primo articolo, ce n'era un
secondo, successivo di 136 giorni esatti: un necrologio. La
giovane consorte di Corny Maxwell era morta per una
reazione allergica ai frutti di mare.
La paura proiettò un'ombra nel cuore di Penny. Anche
lei era allergica ai frutti di mare. In occasione della loro
prima cena, da Romaine, lei aveva quasi ordinato un sushi
di capesante e Max l'aveva sconsigliata. Lui aveva
chiaramente mostrato di essere, chissà come, a conoscenza
della sua grave allergia.
«Mia moglie» disse Max. Dove un tempo lui aveva il
pene e i testicoli, Penny vide solo una raccapricciante ferita
da cui sgorgava sangue. La stessa mano morente che le
aveva porto gli articoli reggeva, immancabile, uno dei suoi
taccuini. Aprendolo a una pagina ben precisa, iniziò a
leggere: «"Soggetto numero 1148. Nome: Myrtle Harrigan.
Data: 24 marzo 19... Luogo: Shippee, Nebraska..."».
La madre di Penny prese a singhiozzare
sommessamente quando Maxwell cominciò a rievocare nei
dettagli la loro tresca. Ventisei anni prima, la giovane
sposina di provincia aveva partecipato a un'iniziativa di
beneficenza al centro civico locale. In un linguaggio
insolitamente galante, Max aveva annotato: "Il soggetto è
sembrato affranto quando mi ha confidato di non poter

268
avere figli. Come forestiero di passaggio, devo essere
sembrato la persona giusta con cui liberare il cuore da quel
peso". Circa un quarto di secolo prima, una giovane
ragazza del Nebraska aveva svelato i suoi segreti a Max
proprio come avrebbe fatto Penny al suo primo
appuntamento con lo stesso uomo. "La donna in questione è
alta un metro e sessantotto centimetri per cinquantaquattro
chili di peso..."
Poco lontano dal punto in cui Max, a terra con il
taccuino in mano, stava rievocando il passato, la madre di
Penny in lacrime rialzò la testa da una manciata di
fazzolettini e precisò: «Ne pesavo solo cinquantuno!».
Max, ormai allo stremo, proseguì: «"In cuor mio, sapevo
di poter fare, per quella povera donna impossibilitata a
procreare, ben più che stimolarla fino a un orgasmo
stracciabudella. Potevo darle l'erede che tanto
desiderava"».
Raccontò in che modo aveva sedotto il soggetto in
questione, tra un boccone e l'altro di torta di zucca. Il
marito non c'era: era andato per tutto il weekend a un ritiro
dei Promise Keepers. C'era voluto ben poco per convincere
quella giovane moglie lasciata sola. Avevano consumato il
rapporto sul sedile posteriore di un Ford Explorer preso a
nolo da Max.
«"Quando la frequenza cardiaca del soggetto ha
raggiunto i 163 battiti al minuto"» disse Max senza enfasi
«"ho impiantato nel suo utero uno zigote clonato insieme ai
nanobot di ultima generazione necessari ad assicurarne lo
sviluppo."»
Sempre tra i singhiozzi, la madre di Penny aggiunse:
«Non ho mai superato i 54 chili neanche dopo che mi hai

269
messo incinta!».
Nove mesi dopo era nata Penny. Un miracolo, in
apparenza.
Dall'espressione del padre, Penny dedusse che doveva
essere all'oscuro di tutto. Nessuno dei genitori sapeva di
avere un ruolo nel piano ideato da Max per creare una
replica della moglie defunta. Avevano covato, ignari,
l'esperimento di un essere diabolico. Avrebbe potuto
impiantare un embrione uguale in altre donne da lui
circuite. Avrebbe potuto impiantarlo in tutte.
Ancora più inquietante, per Penny, era l'idea,
concretamente possibile, di non essere se stessa. Già era
brutta l'idea di avere impulsi dettati da qualcuno che le
sollecitava a distanza le zone erogene. A quel punto, però,
doveva concludere che il suo stesso D N A era di seconda
mano, trasmessole da un genio impazzito che voleva solo
ricongiungersi con l'amata defunta. Lei, Penny Harrigan,
era Phoebe Maxwell risorta grazie all'ingegneria genetica.
In quel frangente di silenzioso sgomento risuonò una
voce. Impavida, come sempre, Monique strillò: «Omaha!
Che orrore!».
E ancora più indietro, Esperanza, tornata a essere la
sputafuoco latina di un tempo, esclamò: «Ay, caramba!».
«Per tutta la tua vita i miei agenti ti hanno sorvegliato»
disse Max, con voce sempre più flebile, mentre il sangue
continuava a uscire dallo squarcio in mezzo alle gambe. In
chiesa era calato un tale silenzio che tutti riuscirono a udire
la confessione. A Penny bastò guardare la fotografia
sbiadita del necrologio per capire che era tutto vero.
I suoi angeli custodi, dunque, non erano servizievoli
agenti dell'Homeland Security. Sin dall'infanzia, quelle

270
sentinelle in abito scuro e occhiali da sole l'avevano protetta
per conto di Max. Avevano fatto in modo di preservarla
incolume fino alla piena maturazione, perché potesse
rimpiazzare la sua moglie defunta.
«Tu sei la dimostrazione del fatto che la mia tecnologia
per la clonazione funziona» proseguì Max. «Ho speso una
vita per avere accesso a tutti gli uteri del mondo
civilizzato.»
Come gesto, persino agli occhi di Penny parve
commovente. Maxwell l'aveva davvero amata. L'aveva
amata al punto di resuscitarla.
Con un rantolo, Maxwell disse: «Tu, mia cara ragazza,
con i tuoi genitali perfetti sarai il dono che io offro a tutti gli
uomini!».
Il cadavere malconcio della Baba gli era così vicino che
il sangue da lui perduto bagnava anche lei. Mentre le sue
funzioni vitali rallentavano inesorabilmente, Max chiuse le
palpebre con un fremito. I polmoni esalarono l'ultimo
respiro. «Oh, Phoebe... Mi sei mancata così tanto in tutti
questi anni...» E poi più niente.
Sola nella sua caverna himalayana -- nuda, naturalmente
--, Penny aggiunse un pizzico di condimento alla lucertola
in brodo. Mescolò il contenuto della pentola che sobbolliva
e se ne portò una cucchiaiata fumante alle labbra. Il sapore
la colmò di una triste nostalgia per la Baba defunta. Dopo
che la vecchia sapiente e Max erano spirati sul pavimento
della cattedrale di St Patrick, Penny -- meno di un'ora dopo
-- era salita a bordo di un aereo privato diretto in Nepal.
Aveva scalato le impervie pareti dell'Everest senza neppure
togliersi i resti sbrindellati dell'abito nuziale. Non aveva
rivelato a nessuno la propria destinazione.

271
I genitori di Penny erano al sicuro. Monique era libera
dalla sua ossessione a pile. Anzi, a giudicare dagli S M S che
le mandava con cadenza oraria, avrebbe presto sposato
Tad. Abitava ancora nella grande casa nell'Upper East Side,
e ora godeva della venerazione di un bel fidanzato.
Penny stimava che a tempo debito, forse, qualche
discepolo sarebbe venuto a trovarla, attratto dall'antica
leggenda di una mistica esperta di arti amatorie capace di
trasmettere tutto il sapere erotico dell'umanità. Esemplari
fisicamente perfetti e determinati ad approfittare del suo
magistero sessuale si sarebbero presentati in un flusso
continuo per svolgere l'indispensabile apprendistato presso
di lei. Penny era o non era l'erede di tutte le tecniche
tantriche acquisite dalla notte dei tempi? Lei, Penelope
Anne Harrigan, avrebbe raccolto il testimone che le era
stato passato da figure quali Baba Barbagrigia e Bella
Abzug. Avrebbe liberato le donne dal bisogno di andare
con gli uomini per il proprio appagamento sessuale. Questo
patrimonio sapienziale -- non gli abiti, i gioielli o la pratica
della professione legale -- era il destino che lei da tanto
tempo inseguiva. Era depositaria di un potere fondato sui
piaceri della carne. Il suo era un dominio che si collocava al
di là della politica interpersonale.
Penny sapeva, ora, che cosa aveva davvero importanza.
L'importante era la famiglia. L'amore prima di tutto.
Intanto, lentamente, mescolava. Preparata secondo la
ricetta preferita della Baba, la minestra veniva infine
spolverizzata con scaglie di saporitissimo guano.
Acquattata accanto alla pentola in ebollizione, Penny si
godeva il gentile tepore delle fiamme. In posizione da
lottatrice di sumo, si accarezzava svogliatamente tra le

272
gambe con un pezzo corto e nodoso di qualcosa che pareva
legno umido. Era il dito più lungo della Baba, quello con
cui la vecchia saggia era riuscita a leggere tutti i segreti di
Penny. Così come la vecchia lamia aveva tagliato un dito
alla defunta genitrice, Penny aveva tagliato questo
memento mori dal corpo sempre più freddo della sua
precettrice. Eppure, neanche lontanamente quel pegno, per
quanto ben lubrificato con sebo di coniglio estratto a
freddo, riusciva a lenire la crescente malinconia di Penny.
Le parole "dipendenza da eccitazione" incombevano
nella sua mente, ma lei le scacciò.
Immergendo il mestolo per un secondo assaggio, pensò
preoccupata che milioni di donne in tutto il mondo
dovevano essere accucciate come lei, nel tentativo di
procurarsi nuovo piacere. Forse, dopo la voluttuosa ordalia
di Beautiful You non sarebbero più riuscite a raggiungere
vette di godimento paragonabili.
I rudimentali strumenti di piacere modellati dalla
Baba... erano perfetti, ma senza la stimolazione vaginale ad
alta tecnologia degli esemplari prodotti da Max, per non
parlare della morbosa attenzione dei mass media, Penny si
sentiva da schifo. Forse le teste d'uovo avevano ragione.
Così come gli adolescenti maschi si aggrappavano ai loro
videogiochi e ai film porno, Penny sentiva la mancanza di
quegli articoli color fucsia. Forse la dipendenza da
eccitazione era un fenomeno reale. Il sistema limbico del
suo cervello era assetato di dopamina. Il suo ipotalamo era
completamente in malora! Soffriva di astinenza dall'effetto
Beautiful You. Raddoppiò gli sforzi con il dito essiccato
della Baba, ma con poca soddisfazione.
Si allontanò dal fuoco e si mise a perlustrare il

273
pavimento ingombro della grotta in cerca di qualcosa,
facendosi largo fra vecchi tendini e un certo numero di
borsette Prada. Alla fine, trovò ciò che così febbrilmente
stava cercando.
Era una piccola scatola nera, non più grande di un
Game Boy. Il telecomando di Max. Se n'era impadronita
negli ultimi istanti delle sue nozze andate a rotoli. Dopo che
Max era stato abbattuto dal dildo infuocato, lei si era
appropriata anche del prezioso taccuino. Da allora aveva
impiegato le ore invernali per decifrare gli appunti in
codice relativi alle ricerche erotiche di Max. Il mosaico dei
pulsanti da premere era pieno di segni criptici, ma lei aveva
capito da sé quali sequenze digitare per ottenere gli effetti
più graditi.
Cominciò con i venti impetuosi che giorno e notte
infuriavano fuori dalla grotta, procurandole un fastidio
incessante. In breve, Penny fu in grado di utilizzare il
telecomando per alterare le proprie percezioni.
Inserì la prima serie di istruzioni, e l'effetto prodotto dal
satellite fu pressoché istantaneo. Sentì un sapore di red
velvet cake con glassa al cioccolato e confettini arcobaleno
che le scivolava giù per la gola. Neanche un orologiaio
svizzero sarebbe riuscito a ricavare i codici con altrettanta
abilità e precisione. Per svagarsi, Penny digitò un'altra
combinazione di tasti e sentì sapore di gelato butter brickle.
Le sue dita, però, neanche allora furono soddisfatte.
Dandosi da fare, indusse i nanobot che aveva nel cervello e
nel sangue a ricreare la travolgente sensazione di Tom
Berenger e Richard Thomas che la baciavano con la lingua,
in bocca e sul seno.
All'improvviso, un fenomeno sconcertante. Un suono.

274
Qualcuno parlò, e i baci si interruppero. Era una voce
familiare. Di donna. Penny percorse con lo sguardo la
sudicia grotta, ma non trovò spiegazioni. Quelle parole
disincarnate erano vaghe come un sogno, ma allo stesso
tempo inconfondibili: la voce era quella di Baba
Barbagrigia. Nell'aria aleggiava un odore di tuorli d'uovo
fermentati, tratto caratteristico dell'affannoso ansimare
della vecchia durante il sesso.
Penny osava forse sperare? Possibile che il fantasma
della grande mistica fosse tornato a praticare su di lei
dormiente le magie amorose? Un'ipotesi ben più cupa era
che i nanobot stessero continuando a condizionare le sue
percezioni. Labile come un pensiero, la Baba ordinò:
"Distruggilo!". Con parole deboli come l'eco di un'eco di
un'eco, lo spirito della santona ammonì: "Piccola mia, un
simile potere finirà per corromperti, come ha corrotto
Maxwell...". Il fantasma la esortò: "Schiaccia quel malefico
telecomando tra due grosse pietre prima che possa
sedurti!".
Intimorita, Penny sussurrò: «Baba, sei qui?».
Aspettò una risposta, con l'orecchio teso, ma non udì
altro che il vento sferzante. Si sedette e davanti a sé vide un
futuro di solitudine: unica compagnia i venerandi utensili
erotici ricavati da ossa e tendini. Contò fino a cento, a
cinque a cinque. Si osservò le cuticole, che erano in uno
stato pietoso. Fatto questo, contò fino a mille, a venti a
venti. Il fantasma della santona del sesso non disse altro. La
giovane apprendista del sesso era combattuta, indecisa sul
da farsi.
Presto, però, ebbe l'ispirazione. I satelliti
DataMicroCom erano ancora in orbita. Perché non prestare

275
soccorso alle legioni di donne che in tutto il mondo stavano
patendo la sua stessa astinenza dalla beatitudine offerta dai
prodotti Beautiful You?
In uno slancio altruistico, cominciò a manovrare la
tastiera del telecomando finché le donne che avevano subito
l'impianto dei nanobot Beautiful You non furono
bombardate dalle stesse straordinarie sensazioni. Sua
madre a Omaha. La sfacciata Monique. Persino Brenda, da
poco sposatasi con Yuri e di nuovo direttrice finanziaria
della Allied Chemical Corp. E anche Kwan Qxi ed
Esperanza! Dovunque si fossero trovate, avrebbero tutte
assaporato ricchi dessert e la beatitudine paradisiaca delle
indecenti pomiciate delle star del cinema.
D'impulso, si riempì le narici di refoli al profumo di
mango. Ma sì, disse Penny tra sé, facciamole godere, queste
donne, mie sorelle. Grazie a lei sarebbero state finalmente
solidali.
Anche a chi si fosse trovata, al momento, in condizioni
di povertà e ignoranza estreme, lei avrebbe donato una
realtà surrogata di ricchezza. Avrebbe ammannito alle loro
papille gustative un interminabile banchetto di delicatezze
da buongustaie. Un pasto infinito, ma senza una sola
caloria di troppo! Avrebbe sostituito i loro pensieri banali
con brani di poesie illuminanti lette con la giusta
intonazione dalla voce colta di Meryl Streep.
Sarebbero bastati due o tre colpetti sui tasti a destra, e le
avrebbe bombardate a tappeto di autostima e avrebbe
risolto una volta per tutte i loro problemi estetici.
Si prese i seni tra le mani e li sollevò, osservandosi i
capezzoli con crescente reverenza e meraviglia. Erano
stupefacenti. Il suo cuore, no, anzi, ogni sua cellula

276
traboccava nella consapevolezza della loro meravigliosa
magnificenza. Subito, le donne di tutto il mondo -- alte,
deformi, grasse, vecchie, giovani, magre -- riscoprirono se
stesse. Dovunque si trovassero in quel preciso istante -- a
un picnic, su un autobus o impegnate in una delicata
operazione di neurochirurgia --, si fermarono a guardare il
proprio corpo con inedito e incondizionato compiacimento.
Ognuna di loro -- con il seno piatto o le gambe arcuate, con
la gobba o i capelli sempre più radi -- sarebbe stata
costretta a riconoscere la propria innata bellezza. Dietro
sua sollecitazione via satellite, tutte le donne avrebbero
cominciato ad accarezzarsi, gioendo della piacevole
sensazione della loro pelle. Lo stimolo elettronico di Penny
le avrebbe costrette senza indugi a celebrare le proprie
grazie con un vigoroso autocorteggiamento.
Questo, questo era il potere. Lei, Penelope Harrigan,
avrebbe dominato il mondo da benevola dittatrice,
distribuendo il meritato piacere alle moltitudini. Il suo
potere avrebbe superato persino quello delle donne da lei
idolatrate, Clarissa Hind e Alouette D'Ambrosia. Per
redimere la malvagia tecnologia di Max, avrebbe da sola
istituito la pace e l'ordine mondiale. Avrebbe ricompensato
i meriti e punito i demeriti.
Generazioni di donne per troppo tempo educate ad
andare incontro a insulti e ingiustizie, Penny le avrebbe
tempestate di gioia e spinte ad accogliere la felicità. Un
lieto fine. Con sottili e occulte manipolazioni delle loro zone
erogene, le avrebbe gentilmente forzate a realizzare
appieno il loro potenziale erotico. Le donne interessate alla
politica avrebbero magari continuato a litigare per i
rispettivi obiettivi strategici e le piattaforme

277
programmatiche, ma Penny avrebbe sviato le loro
discussioni travolgendole con tsunami di eccitazione fisica.
Secondo un antico truismo, "l'automiglioramento è
masturbazione...". Finalmente, sarebbe stato vero anche
l'inverso.
«Baba» gridò esultante Penny, «riposa serena, mia
custode! Non mi lascerò inebriare dal potere.»
E intanto pensava: "Sarebbe l'epoca storica migliore in
assoluto per essere donne".
Avrebbe donato alle donne la suprema "scopata senza
cerniera". Erica Jong sarebbe stata fiera di lei. Questa -- la
pratica delle arti del sesso, della magia carnale -- sarebbe
stata la nuova frontiera per le successive generazioni di
giovani ricercatrici.
Cedendo a un impulso di generosità, Penny premette i
pulsanti atti a inviare un affettuoso e sororale abbraccio
intercontinentale a Gloria Steinem.
Fatto questo, tornò in fretta al focolare, per evitare che
le sue gustose lucertole bruciassero.
Ebbra di soddisfazione, fiaccata dalla gioia, riprese a
consultare il taccuino su cui Max aveva segnato i vari
codici. La situazione, però, per quanto idilliaca -- con il
prezioso dito della Baba inserito, il delizioso spezzatino di
scincidi che bolliva, le fiamme che le riscaldavano il corpo,
nudo e meravigliosamente accattivante -- poteva essere
ulteriormente migliorata.
Con le dita stanche e tremanti, ma felici, premette altri
tasti sul telecomando.
Ne scaturì un effetto che era soltanto un'allucinazione
indotta dai nanobot, ma che Penny poteva vedere, toccare,
annusare.

278
Una figura di uomo aitante e sfacciatamente nudo
comparve sullo sfondo della tempesta di neve
all'imboccatura della grotta. I suoi guizzanti occhi azzurri
erano pieni di lussuria. Il notevole membro virile, coperto
di lentiggini, gli sbatacchiava pesante tra le gambe. E quel
meraviglioso Ron Howard, con aria spavalda, le andò
incontro.

279
L'autore desidera ringraziare la seguente schiera di idealisti per
l'irriducibile fede e per il sostegno dato alle arti. Che le divinità
tantriche possano visitare spesso i vostri sonni procurandovi madidi e
tachicardici momenti di totale appagamento.

Mallory Moss
Katie Dodd
William Klayer
Kasey Bossert
Ian W. Arsenault
Halle Kasper
Megan McCrary
Mandy Boles
Kyle Becker
Adam Stratton
Donald Hugo III
Chuck Crittenden
Peter Wollesen
Stephanie Jean Ray
Nicole Doro
Valeriya Kulchikhina
Meghan Sherar
Angelena Bigham
Zachary Glenn Harbaugh
Andrew G. Gahol
Peter Osborn
Christopher Seevers
Kerstynn Lane
Michael John Silvin
Mandy Marez
Joe Wilson

280
Wessly Ford
Stephanie Wiley
Patrick D. O'Connor
Henry S. Rosenthal
Brian Manning
Parker Cross
Margaret Dennison
Sharon Leong
Kevin Stevulak
Charlotte O'Neil Golden
Michael Anderson-McGee
Katie McCartney
Jacquelyn Nicole Tawney
Gary Eaton
Mike Parkinson
Dustin Schultz
Gina Chernoby
Michele McDaniel
Jake Richard
Ryan O'Neill
George Washington Anderson III
Aysha Martinez
Trev Pierce
John Hardenstine
Bettina Holbrook
Michael Bowhay
Mark V. Paulis
Kevin Sharp
Patricia Scott Petey Wells
Mike Hardin
Thomas Wayne Harvey
Andrew Greenblatt
Elizabeth C. Nichols
Brian Foster
Bryce Haynes
Tatianna Abastoflor
Ronald Green, Jr
Alisha Ohl

281
Cody Maasen
Bryan Kraig Ward
Jessica Dugan
Matthew A. Eller
Meredith Alder
Tiffany Joy Atencio
Kyle Adamski
John Michel
Quentin R. Voglund
James Bendos
Gabriel Cesana
Jason W. Bohrer
Shane Gollihue
Scott Trulock
Aaron Blake Flynn
Brett Kerns
Juliet Walker
Kristina Valencia
James P. Giacopelli
Karen Zacconi
Sean K. Smith
Rita Su
Will Tupper
Michael Pedrosa
Russ Robertson
Tag
Samantha Jade Schnee
Rubyann Baybo
Yassaman Tarazkar
Shereen Lombardi
Ashley Blaike Ralph
Mike Dyson
Lorne Sherman
Patti Vanty-McKinley
Shaun Sharma
Christine Strileckis

282
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Beautiful You
di Chuck Palahniuk
Copyright © 2014 by Chuck Palahniuk
All rights reserved
© 2015 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Titolo dell'opera originale: Beautiful You
Ebook ISBN 9788852068478
COPERTINA || GRAPHIC DESIGNER: MANUELE SCALIA
| DESIGN E ILLUSTRAZIONE © RODRIGO CORRAL/DEVIN
WASHBURN
«L'AUTORE» || FOTO © ALLAN AMATO

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Tavola dei Contenuti (TOC)
Copertina
Il libro
L'autore
Frontespizio
Beautiful You
Copyright
Tavola dei Contenuti (TOC)

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