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INDICE

1. VIENE DIETRO DI ME QUELLO PIÙ FORTE DI ME


(1,1-8)

2. TU SEI IL FIGLIO MIO, IL DILETTO


(1,9- 11)

3. LO SPIRITO LO GETTA FUORI NEL DESERTO


(1,12-13)

4. È GIUNTO IL MOMENTO
(1,14-15)

5. QUI, DIETRO A ME!


(1,16-20)

6. TACI
(1,21-28)

7. E SERVIVA LORO
(1,29-31)

8. FATTASI SERA
(1,32-34)

9. ANDIAMO ALTROVE
(1.35-39)

10. VOGLIO, SII MONDATO!


(1,40-45)

11. IL FIGLIO DELL'UOMO HA POTERE DI RIMETTERE I PECCATI SULLA TERRA


(2,1-12)

12. NON VENNI A CHIAMARE I GIUSTI, MA I PECCATORI


(2,13-17)

13. LO SPOSO È CON LORO


(2,18-22)

14. SIGNORE È IL FIGLIO DELL'UOMO ANCHE DEL SABATO


(2,23-28)

15. TENDI LA MANO


(3,1-6)

16. UNA BARCA PICCOLA PER NON ESSERE SCHIACCIATI DALLA FOLLA
(3,7-12)

17. E FECE DODICI PER ESSERE CON LUI E PER INVIARLI


(3,13-19)

18. CHI SONO MIA MADRE E I MIEI FRATELLI?


(3,20-35)

19. E DAVA FRUTTO CHE VENIVA SU E CRESCEVA


(4,1-9)

20. TUTTO È IN PARABOLE


(4,10-12)

21. NON INTENDETE QUESTA PARABOLA: E COME CAPIRETE TUTTE LE


PARABOLE?
(4,13-20)

22. GUARDATE CIÒ CHE ASCOLTATE


(4,21-25)

23. E DORMA E VEGLI, E DI NOTTE E DI GIORNO, IL SEME GERMOGLIA E CRESCE


LO STESSO
(4,26-29)

24. È PIÙ PICCOLO DI TUTTI I SEMI DELLA TERRA


(4,30-34)
25. PERCHÉ SIETE PAUROSI COSÌ? COME NON AVETE FEDE?
(4,35-41)

26. ESCI, SPIRITO IMMONDO, DALL'UOMO


(5,1-20)

27. LA TUA FEDE TI HA SALVATA


(5,21-43)

28. E SI MERAVIGLIAVA DELLA LORO NON FEDE


(6,1-6a)

29. CHIAMA INNANZI I DODICI E COMINCIÒ A INVIARLI


(6,6b-13)

30. LEVARONO LA SUA SPOGLIA E LA DEPOSERO IN UN SEPOLCRO


(6,14-29)

31. VENITE VOI SOLI IN DISPARTE


(6,30-33)

32. ALZATI GLI OCCHI AL CIELO, BENEDISSE E SPEZZÒ I PANI, E LI DAVA


(6,34-44)

33. CORAGGIO, IO SONO, NON TEMETE!


(6,45-56)

34. IL LORO CUORE È LONTANO DA ME


(7,1-23)

35. NON È BELLO PRENDERE IL PANE DEI FIGLI E GETTARLO AI CAGNOLINI


(7,24-30)

36. EFFATHÀ, CIOÈ: APRITI!


(7,3 1-37)

37. HO COMPASSIONE
(8,1-10)
38. NON SARA DATO NESSUN SEGNO
(8,11-13)

39. GUARDATEVI DAL LIEVITO DEI FARISEI E DAL LIEVITO DI ERODE


(8,14-21)

40. VEDI FORSE QUALCOSA?


(8,22-26)

41. MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?


(8,27-30)

42. IL FIGLIO DELL'UOMO DEVE MOLTO SOFFRIRE


(8,31-33)

43. SE UNO VUOLE


(8,34-38)

44. QUESTI È IL FIGLIO MIO, IL DILETTO: ASCOLTATE LUI!


(9,1-10)

45. COME MAI STA SCRITTO DEL FIGLIO DELL'UOMO CHE DEVE PATIRE MOLTO?
(9,11-13)

46. QUESTA SPECIE CON NULLA PUÒ USCIRE SE NON CON LA PREGHIERA
(9,14-29)

47. IL FIGLIO DELL'UOMO È CONSEGNATO IN MANI DI UOMINI


(9,30-32)

48. DI CHE COSA DISCUTEVATE LUNGO LA VIA?


(9,33-37)

49. NON IMPEDITELO


(9,38-40)

50. NEL NOME


(9,41-50)
51. NON SONO PIÙ DUE, MA UNA CARNE SOLA
(10,1-12)

52. DI CHI È COME LORO È IL REGNO DI DIO


(10,13-16)

53. TUTTO È POSSIBILE PRESSO DIO


(10,17-31)

54. ECCO, SALIAMO A GERUSALEMME


(10,32-34)

55. COSA VOLETE CHE IO FACCIA PER VOI?


(10,35-45)

56. COSA VUOI CHE IO FACCIA PER TE?


(10,46-52)

57. IL SIGNORE NE HA BISOGNO


(11,1-11)

58. NESSUNO PIÙ IN ETERNO MANGI FRUTTO DA TE


(11,12-14)

59. LA MIA CASA SARÀ CHIAMATA CASA DI PREGHIERA PER TUTTE LE GENTI. MA
VOI NE AVETE FATTO UNA SPELONCA DI LADRI
(11,15-19)

60. ABBIATE FEDE DI DIO


(11,20-26)

61. VI DOMANDERÒ UNA SOLA PAROLA, E RISPONDETEMI


(11,27-33)

62. LA PIETRA CHE I COSTRUTTORI RIGETTARONO, QUESTA DIVENNE TESTATA


D’ANGOLO
(12,1,12)

63. DATE A CESARE CIÒ CHE È DI CESARE E A DIO CIÒ CHE È DI DIO
(12,13-17)

64. NON È UN DIO DEI MORTI MA DEI VIVENTI


(12,18-27)

65. NON SEI LONTANO DAL REGNO DI DIO


(12,28-34)

66. DAVIDE LO DICE SIGNORE, E COME È SUO FIGLIO?


(12,35-37)

67. DALLA SUA MISERIA GETTÒ QUANTO AVEVA, TUTTA INTERA LA SUA VITA
(12,38-44)

68. NON SARÀ LASCIATA QUI PIETRA SU PIETRA


(13,1-2)

69. GUARDATE CHE NESSUNO VI INGANNI


(13,3-23)

70. ALLORA VEDRANNO IL FIGLIO DELL’UOMO VENIRE NELLE NUBI


(13,24-27)

71. DAL FICO IMPARATE LA PARABOLA


(13,28-32)

72. LO DICO A TUTTI: VEGLIATE


(13,33-37)

73. A CHE PRO QUESTO SPRECO?


(14,1-11)

74. LÌ PREPARATE PER NOI


(14,12-16)

75. UNO DI VOI MI CONSEGNERÀ


(14,17-21)

76. QUESTO È IL MIO CORPO QUESTO È IL MIO SANGUE DELL’ALLEANZA


(14,22-26)

77. TRE VOLTE MI RINNEGHERAI


(14,27-31)

78. DIMORATE QUI E VEGLIATE


(14,32-42)

79. SI COMPIANO LE SCRITTURE


(14,43-52)

80. IO SONO
(14,53-65)

81. NON CONOSCO QUEST’UOMO


(14,66-72)

82. CROCIFIGGILO
(15,1-15)

83. SALVE, O RE DEI GIUDEI


(15,16-20)

84. PRENDA LA SUA CROCE


(15,21)

85. LO CROCIFIGGONO
(15,22-28)

86. SALVA TE STESSO


(15,29-32)

87. VERAMENTE QUEST’UOMO ERA FIGLIO DI DIO


(15,33-39)

88. C’ERANO ANCHE DELLE DONNE CHE GUARDAVANO


(15,40-41)

89. LO DEPOSE IN UN SEPOLCRO


(15,42-47)

90. GESÙ IL NAZARENO, IL CROCIFISSO, È RISORTO


(16,1-8)

91. ANDATE IN TUTTO IL MONDO E PREDICATE IL VANGELO A OGNI CREATURA


(16,9-20)
1. VIENE DIETRO DI ME QUELLO PIÙ FORTE DI ME
(1,1-8)

11 Principio del Vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio.


2
Come sta scritto in Isaia profeta:
“Ecco, io mando il mio angelo
davanti al tuo volto,
che preparerà la tua via.
3
Voce di uno che grida nel deserto:
Preparate la via del Signore,
fate diritti i suoi sentieri”,
4
venne Giovanni a battezzare nel deserto
e a proclamare un battesimo di conversione
per il perdono dei peccati.
5
E usciva verso di lui tutta la regione giudea,
e tutti quelli di Gerusalemme,
ed erano battezzati da lui nel fiume Giordano
confessando i loro peccati.
6
Giovanni era vestito di peli di cammello,
una cinta di pelle ai fianchi,
mangiava locuste
miele selvatico.
7
E proclamava dicendo:
Viene dietro di me
quello più forte di me,
del quale io non sono sufficiente
a inchinarmi e sciogliere il laccio dei suoi sandali.
8
Io vi battezzai con acqua,
ma lui vi battezzerà in Spirito Santo.

1. Messaggio nel contesto

“Viene dietro di me quello più forte di me”, proclama Giovanni alle folle, aprendole all'attesa di
colui che chiamerà tutti ad andare dietro di lui. Così “la voce” prepara la via alla Parola,
annunciando colui che “battezzerà nello Spirito Santo”.
Questo brano introduttivo, molto denso, sarà chiaro solo alla fine. Se ciò è vero di ogni
introduzione, lo è in modo particolare nel caso di Marco, che termina rimandando al principio.
Dopo il titolo (v. 1), prima di mostrarci chi è Dio davanti all'uomo, Marco ci mostra come deve
essere l'uomo davanti a Dio. E lo fa con due citazioni bibliche che rilevano i due filoni profetici
portanti dell'AT (vv. 2-3), di cui il Battista è l'icona vivente (vv. 4-8). L'insieme è una vigorosa
sintesi della rivelazione fatta ad Israele, quasi un breve sunto del cammino di Antico Testamento
che ciascuno è chiamato a percorrere se vuol accogliere il Signore che viene.
L'uomo che non schiude il cuore ai desideri che Dio vi ha immesso e all'attesa di ciò che lui ha
promesso, non può comprendere il mistero di Gesù.
JHWH ha impiegato due millenni - che lunga educazione! - per condurre un popolo a scoprire due
verità. La prima è che l'uomo è desiderio di Dio, perché, fatto a immagine e somiglianza sua, trova
in lui la propria realtà. La seconda è che Dio stesso è desiderio di darsi a lui, perché, attraverso tutti
i suoi doni, altro non vuole che fargli il dono di sé somma di tutti i doni e sommo dono oltre ogni
desiderio.
Sarà bene fermarsi su questi primi versetti per esplicitarne, almeno sommariamente, i principali
temi. Altri saranno rilevati di volta in volta in ogni singolo racconto attraverso i richiami e le
allusioni all'AT che contengono.
La prima condizione necessaria per accogliere il Signore che viene, è la sete di giustizia. L'uomo
trova uno scarto irriducibile tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere. Ma guai se si rassegna: è una
situazione che Dio non vuole. Lui in persona ha promesso di venire a compiere il suo giudizio, che
pone fine a ogni ingiustizia (v. 2 = Ml 3,1 ss). Questo è il primo cardine della fede di Israele: il
mondo non sottostà al dominio e all'arbitrio dell'uomo peccatore e ingiusto, ma alla signoria di Dio,
che è santo e giusto.
La seconda condizione è la sete di libertà. L'uomo è intrappolato in molte forme di schiavitù
interna ed esterna. Vede il bene, ma è incapace di attuarlo; intuisce la felicità, ma è impotente a
conseguirla; si sente impedito dentro e fuori di raggiungere ciò per cui è fatto. A chi teme che la
libertà sia impossibile, c'è una “voce” che grida di aprire nel deserto la strada che porta dalla terra di
schiavitù alla patria del desiderio.
Altrove l'uomo è in esilio. Solo qui può abitare, perché qui è la sua casa, che Dio gli ha donato e ha
promesso di ridonargli (v. 3 = Is 40,1 ss). Giovanni è l'angelo (= annunciatore), cioè il profeta che,
denunciando il peccato e annunciando il perdono, dispone l'uomo a convertirsi alla giustizia di Dio.
Egli è insieme anche la voce di incoraggiamento, che prepara per il nuovo esodo verso la libertà.
Ultimo dei profeti, è tratteggiato con i lineamenti del primo, di cui ribadisce e chiude
l'insegnamento. t Elia, che viene a convertire i cuori (Ml 3,23), perché si aprano al Signore. È il
profeta per eccellenza, il dito puntato su Gesù, colui che deve venire.
La sua prima caratteristica è quella di vivere ciò che annuncia. Infatti sta nel deserto, già fuori
dall'ingiustizia e in marcia verso la libertà. Insoddisfatto di tutto ciò che è vecchio, è in attesa del
nuovo. L'uomo è qualificato da ciò che attende. “Troppo grande per bastare a se stesso” (Pascal), è
sempre sbilanciato, col peso della propria verità davanti a sé. Per questo è nostalgia del futuro, con
il cuore punto dal dolore di ciò che ancora non c'è. Attratto dal desiderio, è sempre in ricerca di ciò
che per lui è l'essenziale, la sua stella che ancora gli manca. A differenza di tutte le altre cose, che
sono ciò che sono, l'uomo in realtà è ciò che ancora non è, e diventa ciò verso cui tende. Di natura
“eccentrico”, con il suo centro fuori di sé, è necessariamente viator, in cammino verso il suo “luogo
naturale”, che gli sta sempre un po' più avanti. Come l'albero cresce verso l'alto e il sasso cade
verso il basso, così l'uomo è misteriosamente attirato verso il suo volto nascosto.
Il Battista è l'uomo dei desideri, e ne dichiara prossimo il compimento: colui che viene dietro di lui
sarà il baciarsi di ogni attesa dell'uomo e di ogni promessa di Dio. Infatti ci battezzerà (=
immergerà) nello Spirito Santo (= vita di Dio). In Gesù, il Dio che si immerge nella realtà umana,
l'uomo si immerge nella vita di Dio.
In sintesi, il v. 1 ci dice le caratteristiche, il contenuto e la divisione generale del vangelo, che è
Gesù Cristo, Figlio di Dio; i vv. 2-3 evidenziano in breve l'attesa fondamentale di Israele - la venuta
del Signore e la fine della nostra schiavitù; i vv. 4-8 ci presentano il Battista come incarnazione
dell'attesa, che ormai sfocia nel compimento.

Gesù è l'atteso: è il Signore che viene a immergerci nel suo Spirito, compiendo così la sua giustizia
e guidandoci nel ritorno dall'esilio a casa.

Il discepolo deve coltivare in sé quei desideri che Dio ha suscitato in Israele con la sua parola e che
il Battista testimonia esemplarmente: la sete di fraternità e di libertà, il coraggio di uscire, la forza di
affrontare il deserto, la conoscenza del peccato e dei perdono, la volontà di conversione, l'attesa del
“più forte” che viene e del dono del suo Spirito. Tutto ciò che Gesù farà e dirà nel seguito del
vangelo, sarà progressivamente capito e sperimentato da chi ha queste disposizioni, che per altro,
più che presupposte, verranno suscitate dalla sua azione e dalla sua parola.
2. Lettura del testo

v. 1 Principio. In questa parola echeggia l'inizio della Bibbia, quando Dio creò l'universo (Gn 1,1).
Egli non è antagonista, bensì sorgente della sua creatura. Gesù è il principio di un mondo nuovo,
con cieli nuovi e terra nuova, dimora dell'uomo nuovo.

Vangelo. Significa “buona notizia”, che dà gioia. Si capisce meglio la parola “vangelo” se la si
confronta con “legge”. Questa fa conoscere il limite del bene, vieta e denuncia il male, giudica e
condanna chi lo compie. Suo principio immediato è la coscienza. Ma fin dall'inizio l'uomo ha
confuso Dio con la legge: lo ha considerato solo come padre, e per di più in modo umano e parziale;
e l'ha scambiato con il proprio super-io. Certa predicazione può aver favorito questo equivoco.
Il “vangelo” è la buona notizia che Dio non è il padre-padrone, giudice onniveggente e spietato.
Egli non è il divieto supremo, ma la possibilità ultima dell'uomo. La coscienza giustamente ci
stimola, ci giudica e ci condanna. Ma è una menzogna mortale travestirla da Dio. Egli infatti è
padre in quanto madre, che perdona e accoglie sempre, con un amore proporzionale al bisogno del
figlio. Più il male ci allontana da lui, più lui ci si fa vicino. La nostra miseria è l'unica misura della
sua misericordia. Solo la croce rivelerà chi è Dio per noi e chi siamo noi per lui: lui è amore senza
limiti e noi siamo suoi figli, amati in proporzione al nostro peccato.
Il vangelo, attraverso il racconto della vita di Gesù, ci dona questa nuova esperienza di Dio. Infatti
è “potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede” (Rm 1,16).
Marco utilizza il termine “vangelo” sette volte (13.14.15; 8, 35; 10, 29; 13,10; 14,9). Indica sia
l'annuncio fatto da Gesù che l'annuncio fatto su di lui che è insieme annunciatore e annunciato. Egli
infatti è presente nella parola su di lui, come il maestro interiore che parla al cuore e lo apre ad
accoglierla (At 16,14).
Il termine “vangelo” trova il suo complemento nel termini paralleli “Parola” e “regno di Dio”.

Gesù. La “buona notizia” è Gesù stesso. La sua “carne” ci rivela chi è Dio. Tutto il vangelo parla
di lui, contenuto di tutti i racconti.
Quando diciamo: “Gesù è il Cristo e il Figlio di Dio, il Salvatore e il Signore”, dobbiamo stare
attenti a non proiettare su di lui le nostre paure e i nostri desideri, facendone l'attaccapanni di tutto
l'armamentario del nostro “senso religioso”. Questo sta all'origine di ogni religiosità servile in
nome di Dio e di ogni ateismo in nome dell'uomo - infatti il Dio che le religioni propongono è il
medesimo che l'ateo nega. Invece di dire: “Gesù è il Cristo e il Figlio di Dio”, dovremmo dire: “II
Cristo e il Figlio di Dio. È Gesù”. Quest'inversione tra soggetto e predicato non è un gioco di
parole. Serve per guarirci dalla perversione della nostra immagine di Dio. Infatti il soggetto è la
“x” ignota di cui affermo il predicato, che è noto. Ora Dio nessuno l'ha mai visto; solo il Figlio, che
è nel seno del Padre, lo ha rivelato (Gv 1, 1 8). Gesù quindi è il predicato, che ci manifesta un Dio
sorprendente, totalmente altro rispetto a quello di ogni religione e di ogni ateismo. Ciò che lui fa e
dice è una continua smentita di ogni nostra ovvietà e la sua croce sarà la distanza infinita che Dio ha
posto tra se stesso e l'idolo (Bonhoeffer).
L'uomo, in genere, più che ateo, è idolatra. Si fa di Dio l'idea che può, e l'accetta o rifiuta secondo la
propria convenienza, ponendo il proprio assoluto in lui o nella negazione di lui.
L'ateismo può essere letto positivamente come istanza anti-idolatrica negazione di un Dio troppo
facilmente immaginato e desiderio di uno diverso. Egli infatti è santo, radicalmente altro da ogni
nostro ragionare su di lui.

Il senso religioso porta in sé una domanda legittima, inalienabile dal cuore dell'uomo; ma non può
generare una risposta sensata. t un giusto appetito naturale, che, se non si apre a Dio così come si
rivela nella carne di Gesù, scambia i propri succhi gastrici per cibo. D'altra parte nessun appetito
può produrre ciò che lo sazia! Non a caso Gesù verrà condannato a morte per bestemmia (14,64) e
sarà riconosciuto Dio solo sulla croce e dalla persona meno religiosa (15,39).
La storia di Gesù è la critica più radicale di ogni religione e di ogni ateismo: spiazza tutti, giusti ed
empi, presentando l'umanità di un Dio ucciso dai giusti e morto in croce per gli empi - e quindi
salvezza per tutti.
Il vangelo vuole illuminarci su chi è Gesù. “Chi è costui?” è la domanda di Marco. La sua identità,
suscitata prima come problema attraverso le sue azioni, è rivelata poi attraverso la “Parola”, che
illumina il mistero di un Dio crocifisso per l'uomo.
La prima parte narra i miracoli, e, liberando i nostri desideri profondi, ci fa vedere in lui la nostra
speranza, il Cristo (8,29). La seconda parte purifica questi desideri, confrontandoli con “la parola”
della croce, per giungere all'illuminazione che ci fa vedere in lui il Figlio di Dio (15,39). Il vangelo
è tutto un'educazione del desiderio, prima suscitato e poi decantato da ogni scoria di egoismo.

Cristo. È il primo attributo di Gesù. È una parola greca che traduce l'ebraico “messia”, e significa
“unto”, cioè re (i sovrani si consacravano con l'unzione).
Il re è l'immagine di Dio in terra: libero e potente, è l'uomo ideale, ideale di ogni uomo. In Israele
c'era l'attesa di un capo che, a differenza di tutti gli altri che dominano e opprimono (10,42 ss; cf
Gdc 9,8-15; 1Sam 8,1 ss), avrebbe portato al mondo la giustizia e la libertà di Dio, secondo la
profezia fatta da Natan a Davide (2Sam 7,12-16).
Questa parola era quasi diventata il cognome di Gesù. Marco le ridà il suo significato originario,
usandola solo qui e a metà vangelo (8,29).
Le azioni che lui fa mostrano e realizzano chi è il Cristo. Egli è il compimento di ogni attesa
dell’uomo, finalmente restituito a se stesso nella sua integrità interna ed esterna: il lebbroso è
mondato, lo zoppo cammina, la mano pietrificata si apre, cessa il dominio del male, della malattia e
della morte, c'è un pane misterioso che nutre una vita nuova, guarendo orecchio, lingua e occhio,
perché l'uomo ascolti, comunichi e veda.
E interessante notare che Gesù non è “il” Cristo. La mancanza dell'articolo determinato vuoi dire
che lui non è quel Cristo che ci aspettiamo noi. Infatti Israele attendeva un messia glorioso. Gesù
invece sarà un messia che muore in croce.

Figlio di Dio. L'assenza dell'articolo davanti a “Figlio” e “Dio” equivale all'articolo indeterminato:
indica che ci si presenta un modo di essere Figlio e di essere Dio diverso da quello a noi noto.
La seconda parte del vangelo, invece delle azioni e delle parabole di Gesù, espone la “Parola”. Essa
dichiara la “passione” di Dio per noi, e lo rivela direttamente.
Invece di dire ciò che fa per noi, dice, in ciò che noi gli facciamo, ciò che lui stesso si fa per noi:
amore fino alla morte, e alla morte di croce! Lì, per la prima volta, conosciamo Dio ed è attribuito a
Gesù il titolo di Figlio (15,39).

v. 2 Come sta scritto in Isaia profeta. Marco legge l'opera del Battista alla luce dell'AT, servendosi
di una citazione composita da Malachia e Isaia, attribuita a quest'ultimo. La prima parte della
citazione (v. 2) indica Giovanni come un “angelo” che precede la venuta del Signore per il giudizio
e annuncia il suo giorno (MI 3,1 ss). La seconda (v. 3) lo indicherà come “la voce” che annuncia la
libertà dall'esilio (Is 40,3).

Ecco, io mando il mio angelo, ecc. Echeggia Es 23,20, dove Dio promette a Israele un angelo che
lo difenda e lo conduca nella terra promessa. Le parole sono di Ml 3,1 ss, che parla della venuta del
Signore, del “suo” giorno e del “suo” giudizio.
La giustizia di Dio, secondo la Bibbia, è diversa dalla nostra che, nella migliore delle ipotesi, “dà a
ciascuno il suo”. Essa invece capovolge la situazione esistente, togliendo a chi ha e dando a chi non
ha (cf il Magnificat). Infatti parte dal presupposto che Dio è Padre e noi siamo fratelli, quindi
uguali e liberi. Nelle nostre esperienze storiche la giustizia è sempre zoppa: quando c'è uguaglianza
manca la libertà, quando c'è libertà manca l'uguaglianza. E questo necessariamente, perché manca
l'origine di ambedue: la fraternità. Questa però resterà sempre ideologia, e non sarà mai realtà, se
non c'è un Padre comune. Il dramma dell'umanesimo ateo è quello di una contraddizione in termini,
perché chi perde Dio, perde anche l'uomo, che è sua immagine. Non resta che l'angoscia nel cuore e
il nulla nella mente, rispettivi oggetti del sentire e del pensare moderno.
Eguaglianza e libertà possono scaturire - anche se lentamente e imperfettamente - solo come volto
concreto di una paternità comune. Questa, che nasce dall'amore, è una “giustizia superiore” (Mt
5,20), secondo la quale ognuno è figlio di Dio e si comporta con gli altri da fratello.
Non ha senso parlare di Gesù e di ciò che egli compie se non si ha sete di questa giustizia (cf Lc
4,18-21), che trasforma la nostra situazione da “homo homini lupus” in “homo homini deus”.
Il brano citato da Malachia, come molti altri nella Bibbia, contiene minacce. Bisogna abituarsi a
leggerle come quelle di una mamma che dice al figlio: “Non cadere nel pozzo, se no muori”. Si
tratta di un avvertimento amorevole ed energico a non fare quel male che inavvertitamente si sta
facendo. Il fine di tutte le minacce profetiche non è il male inevitabile e la punizione conseguente,
ma il pentimento. Esse sortiscono il loro effetto proprio quando non si realizzano. La profezia di
sciagure quindi non dice mai un evento fatale; interpella invece la libertà dell'uomo perché si
converta (cf il libro di Giona).

v. 3 Voce di uno che grida nel deserto. È citazione da Isaia (40,3), inizio del “libro della
consolazione”, in cui il Deuteroisaia “consola” il popolo in esilio. Per la sua infedeltà ha guastato
ogni dono di Dio: la libertà, l'alleanza e la terra. L'esilio di Babilonia è peggiore della schiavitù
d'Egitto. Tutto è irrimediabilmente perso, a causa del proprio peccato; ormai non c'è più speranza.
Ma il profeta dice di prepararsi al ritorno nella patria, perché è finita la schiavitù. A Dio nulla è
impossibile, perché lui è il Signore della misericordia, ed è insieme il Signore dell'universo e di
tutta la storia.
Il vangelo è per chi crede che la promessa di Dio è più grande di ogni fama (Sal 138,2), e non pensa
che l'aspirazione al bene sia solo illusione e madre di delusioni.
Giovanni è la voce” e Gesù sarà la “parola”. Come la parola non può esprimersi senza voce, così
Gesù non può esprimersi senza Giovanni e le sue richieste; e come la voce senza parola è priva di
senso, così ogni nostro desiderio senza Gesù rimane privo del suo vero senso. Si può dire che tutta
l'umanità è come un vociare confuso e inarticolato, che trova in lui la parola che pienamente la
esprime.

v. 4 venne Giovanni a battezzare nel deserto. Il deserto è il cammino tra la schiavitù e la libertà, tra
Egitto/Babilonia e la terra promessa. Tensione tra un non-più e un non-ancora, è una distanza da
attraversare per non tornare indietro o morire sul posto. È un luogo importante, perché in esso Dio
rivela se stesso e la sua fedeltà, formandosi ed educandosi pazientemente un popolo. La nudità del
deserto, alternativa allo stordimento della schiavitù e alla nostalgia dell'esilio, insegna a conoscere
se stessi e Dio.
Il battesimo di Giovanni, riportando al deserto, riconduce all'esperienza originaria di disponibilità a
conoscere e accogliere l'azione di Dio.

proclamare un battesimo. Il battesimo è un gesto insieme di immersione e di emersione dall'acqua.


1 due movimenti opposti, che indicano rispettivamente morte e rinascita, esprimono il desiderio di
una vita che non finisce inevitabilmente nel suo contrario.
In natura c'è prima la nascita e poi la morte che uccide la vita; qui c'è prima la morte che uccide una
vita per la morte e poi la nascita a una vita nuova oltre la stessa morte.
Il battesimo di Giovanni non è una semplice drammatizzazione di aspirazioni religiose: è invece un
rito che visibilizza all'esterno le disposizioni interiori di conversione.
di conversione. In ebraico la parola, come in italiano, indica un cambiamento di direzione, un
girarsi di 180'. In greco significa mutar testa, cambiare modo di pensare. È l'appello costante dei
profeti. Convertirsi significa riorientare la vita, indirizzandola su Dio e la sua promessa. In questo
volgersi a lui l'uomo torna ad essere se stesso, riflettendo colui di cui è immagine. “Sarete come
Dio” (Gn 3,5), prima che incentivo al peccato a causa dell'ignoranza su Dio, è la grande promessa
di chi ci ha voluti simili a sé.

per il perdono. Non è che Dio perdoni perché ci siamo convertiti; egli da sempre perdona e per
questo possiamo convertirci. Il suo perdono precede la nostra conversione, e la rende salvifica.
Perdonare è l'opera di Dio per eccellenza, in cui rivela la sua essenza intima, altrimenti ignota: la
misericordia.

dei peccati. Peccare in ebraico significa “fallire il bersaglio”. Peccatore è chi non raggiunge il suo
fine, come una freccia che manca il segno. Siccome il fine dell'uomo è amare Dio come è da lui
amato, il peccato è l'incapacità di amare, che taglia all'uomo le sue relazioni e lo chiude in una
solitudine infernale.
Se il delitto è trasgressione di una norma e conosce solo il castigo, se la colpa è ferita del proprio
super-io e conosce solo l'espiazione, il peccato è rottura di una relazione con l'altro che ama, e
conosce il dolore e il perdono.
Deserto, conversione, peccato e perdono sono i termini fondamentali dell'esperienza d'Israele.
Giovanni li sintetizza nel gesto simbolico del battesimo, usuale alla sua epoca e facilmente
comprensibile a tutti.

v. 5 E usciva verso di lui tutta la regione, ecc. La Giudea e Gerusalemme non sono più il luogo
verso cui andare, ma da cui uscire. Ognuno deve uscire dai suoi “luoghi santi”, dalle sue immagini
di Dio, per incontrare colui che viene.

confessando i loro peccati. Ognuno riconosce il proprio peccato, lavando le proprie impurità nel
Giordano, dove subito dopo si immergerà Gesù. Il “vangelo di Gesù” (= la buona notizia di Dio che
salva) è destinata a chi si sa perduto; ne è escluso solo chi si ritiene giusto e non sa o non osa
confessarsi peccatore.

v. 6 vestito di peli di cammello. È la divisa di Elia, padre dei profeti (2Re 1,7s; 2,8), di cui Giovanni
è l'ultimo figlio. Il cammello, che porta i pesi altrui e attraversa il deserto, è un'immagine di Cristo.
Giovanni ne è già come rivestito. secondo le parole di Paolo ai cristiani di Roma: “Rivestitevi di
Cristo” (Rm 13,14). Egli, pur venendo prima, è uno che gli va “dietro”. È il primo discepolo, che lo
segue precedendolo di un passo.

una cinta di pelle ai fianchi. Fa parte sia della divisa del profeta che del pellegrino. I “fianchi cinti”
(Lc 12,35) indicano simbolicamente la continenza, la sobrietà, la padronanza di sé e la disponibilità
al cammino propria di chi deve compiere l'esodo pasquale (Es 12,11).

mangiava locuste. È un cibo da asceta, disponibile anche nel deserto (Lv 11,22). Secondo una
tradizione antica, le cavallette, che combattono e uccidono i serpenti, sono un'immagine della parola
di Dio, nutrimento dell'uomo (Dt 8,3), verità che vince il serpente e la sua menzogna.

miele selvatico. Altro cibo da deserto, anch'esso è figura della parola di Dio, più dolce di un favo di
miele (Sal 19,11; 119,103; Ez 3,3). Per questo dice Geremia: “Quando le tue parole mi vennero
incontro, le divorai con avidità, la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore” (Ger 15,16).
Giovanni quindi fa della parola il suo cibo, che gli permette di vincere il male e gustare il bene.
v. 7 Viene. Il messia e il Signore stesso è designato come “colui che viene”. Al venire da parte sua
deve corrispondere l'attesa da parte nostra. Diversamente è inutile la sua venuta.
Il Battista è tutto proteso verso di lui.

dietro di me. Per sé sarebbe il discepolo che “viene dietro” (8,34).

quello più forte di me, ecc. In realtà qui viene dietro il maestro. La sua maestà è tale che il più
grande dei profeti non è degno di prestargli il più umile servizio.

v. 8 lui vi battezzerà in Spirito Santo. Gli ebrei attendevano un'effusione dello Spirito per gli ultimi
tempi (Gl 3,1), collegata con una purificazione mediante l'acqua (Ez 36,25 s). Colui che viene, dice
Giovanni dilatando all'infinito ogni promessa, ci battezzerà nello Spirito (= vita) Santo (= di Dio),
ossia ci immergerà nella vita stessa di Dio. Questo è il dono che Gesù ci farà con il suo battesimo,
quando affogherà nella nostra morte per darci la sua vita.

Il desiderio abissale che Dio ha messo nell'uomo è bisogno di lui: ora lo colma pienamente con il
dono di sé. Questo è il suo stesso desiderio, a sempre.

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come indicato a p. 9.


2. Mi raccolgo osservando il luogo: il deserto al di là del Giordano, dove Giovanni battezza e
tutti accorrono.
3. Chiedo ciò che voglio: le disposizioni di desiderio e di attesa del Battista.
4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno. Misuro
i miei desideri profondi con l'attesa biblica di giustizia e di libertà.

Da notare: principio conversione


vangelo perdono
Gesù peccati
Cristo viene dietro di me
Figlio di Dio quello più forte di me
deserto acqua
battesimo Spirito Santo

4. Passi utili: MI 3; Is 40, 1 -1 l; 2 Pt 3, 8-14; Sal 85.

2. TU SEI IL FIGLIO MIO, IL DILETTO


(1,9- 11)
9
E avvenne in quei giorni:
venne Gesù da Nazaret della Galilea
e fu battezzato nel Giordano da Giovanni.
10
E subito, salendo dall'acqua,
vide squarciarsi i cieli
e lo Spirito come colomba
scendere su di lui.
11
E venne una voce dai cieli:
Tu sei il Figlio mio,
il diletto;
in te mi compiacqui!

1. Messaggio nel contesto

“Tu sei il Figlio mio, il diletto”, dice il Padre a Gesù, che si è immerso nel Giordano, affogato nel
peccato delle folle che accorrono alla predicazione del Battista.
Dio ha avuto tutta l'eternità per riflettere. Eppure, per presentarsi a noi e salvarci, non ha trovato
altro modo che questo scandaloso: mettersi in fila coi peccatori.
Gesù si rivela il Figlio andando coi fratelli più bisognosi; e il Padre lo approva solennemente.
Il battesimo rappresenta la scelta fondamentale di Gesù: la solidarietà. Questa scaturisce dalla sua
natura di Figlio. Conoscendo l'amore del Padre, vuol manifestarlo a tutti attraverso la sua fraternità.
Se i vv. 2-8 ci dicono come è l'uomo davanti al Signore che viene, i vv. 9-11 ci fanno vedere come è
il Signore davanti all'uomo. Il battesimo è la porta d'ingresso nel vangelo. Chi non passa da qui,
rimane intrappolato nelle proprie attese religiose e non conosce Dio e il suo dono.
Il Battista ci ha appena parlato di colui che battezzerà in Spirito Santo. Ma questi, sorprendendo
tutti, si fa battezzare da lui nell'acqua, e proprio così ci darà il suo Spirito. Nessuno avrebbe mai
pensato che il Signore si sarebbe immerso fino in fondo nella nostra umanità, e ci avrebbe dato la
sua vita prendendosi in cambio la nostra morte. Lui ci ama, e desidera unirsi a noi. Non potendo noi
salire a lui, è sceso lui verso di noi.
La scena del battesimo descrive nel modo più divino il mistero dell'incanazione: lui si è fatto uomo,
solidale con noi in tutto, perché noi diventassimo Dio, solidali in tutto con lui. La sua umanità è il
principio della nostra divinizzazione.
In questo modo Gesù inizia il suo ministero. Invece di grandi discorsi programmatici, fa un'azione
vera, compiendo una scelta e assumendo uno stile che guiderà tutta la sua vita.
Questo quadro iniziale infatti anticipa già quello finale (15,27-39): qui lo vediamo in fila coi
peccatori, là lo vedremo in croce in mezzo a loro; qui inizia il suo servizio regale, là lo vedremo
definitivamente sul trono; qui si immerge nell'acqua da cui noi tutti nasciamo, là affogherà nella
morte da malfattore di cui tutti moriamo; qui si squarciano i cieli, là il velo del tempio; qui scende
lo Spirito, là “spirò”; qui una voce dal cielo lo proclama Figlio, là una voce dalla terra lo riconosce
tale.
Il battesimo ha un carattere “passionale”. Rivela quella passione di Dio per noi che si fa
compassione e non ci abbandona mai.
Il battesimo è come un seme, che già contiene il grande albero del Regno, la croce.
È una miniatura accuratissima, che cesella quei lineamenti del “Figlio”, dei quali il seguito del
vangelo sarà come un ingrandimento.
Se è vero che il Figlio è come il Padre, allora anche Dio è totalmente diverso da quello che ogni
religione afferma e ogni ateismo nega: chi avrebbe pensato un Dio in fila coi peccatori, umile e
solidale con noi? E l'immagine più potente di un Dio che nessuno mai ha visto, e che ora ci fa
vedere il suo vero volto.
Nel racconto si evidenziano i due titoli di Gesù che corrispondono alle due parti del vangelo: egli è
il Cristo, perché pieno di Spirito Santo (v. 10), ed è il Figlio di Dio, perché servo che dà la vita per i
fratelli (v. 11).

Gesù è il “più forte” che attendiamo. Ma viene con la forza di Dio che, essendo amore, è debolezza
estrema. L'amore infatti si spoglia e dona tutto, fino al dono di sé. È il Cristo e Salvatore nostro
perché sceglie di essere in tutto solidale con noi; è il Figlio di Dio e Signore nostro perché,
compiendo la volontà del Padre, si fa servo dei fratelli.
Il discepolo, battezzato nel suo stesso battesimo, riceve il suo stesso Spirito di figlio che lo rende
fratello di tutti.

2. Lettura del testo

v. 9 E avvenne. Nel vangelo si racconta una storia, qualcosa che è avvenuto una volta per sempre, e
avviene sempre ogni volta che si ascolta.

in quei giorni. Sono i giorni dell'annuncio di Giovanni: i giorni del desiderio, della conversione e
dell'attesa.

venne. Indica la venuta del Signore, “colui che deve venire”.

Gesù. Significa “Dio salva”. Il suo nome corrisponde a ciò che lui è e fa. Marco non ha parlato di
incarnazione o di natività. Ci ha detto di lui nient'altro che il nome nel titolo. All'improvviso,
mentre da peccatori confessi ci troviamo sulle rive del Giordano, ci viene incontro quest’uomo
ignoto, di cui si dice solo il nome, per altro assai comune. Quelli che lo conoscono sanno che è
carpentiere (6,3). È un mestiere di poco conto, fatto da chi, non avendo terra per vivere, si adatta a
quel lavoretti che in genere i contadini si fanno da sé!

da Nazaret. È un paese piccolo, senza gloriose tradizioni. “Da Nazaret può mai venire qualcosa di
buono?” (Gv 1,46). Lì dimorò circa trent'anni - tutta una vita! Questi lunghi anni di silenzio e
lavoro sono un grande mistero. Dio ha scelto di condividere con noi la quotidianità, la fatica del
mestiere di vivere. Ciò che consideriamo normale, ordinario, addirittura banale, è il luogo
privilegiato del nostro incontro con lui.

della Galilea. È una regione squalificata dal punto di vista religioso. Zona di confine, lontana dal
centro, piena di contaminazioni pagane, è la Galilea delle genti (Is 8,23 = Mt 4,15).

fu battezzato. Gesù, uomo qualunque e sconosciuto. anzi squalificato per chi conosce il suo lavoro,
il suo paese e la sua regione, si mette in fila coi peccatori, e si fa battezzare. Marco, fin dal
principio, ci chiama a vedere il nostro Salvatore e Signore in questo uomo, ultimo della fila: “Ecco
il vostro Dio! Ecco, il Signore viene con potenza”, continua la citazione del v. 2 (Is 40,9 s). È
scandaloso! Nessuno avrebbe mai pensato un Dio così. Ma questa sua solidarietà, che lo conduce
all'estrema debolezza, manifesta la potenza di un amore che lo rivela come unico e Signore. La sua
“simpatia” per noi, che qui contempliamo, lo porterà lontano, molto lontano, fino a “patire con” noi
e per noi la nostra morte. Egli è l'Emmanuele, il Dio amore che non può non essere il “Dio con
noi”.
Il vecchio Adamo si innalzò per rapire l'uguaglianza con Dio, e cadde nella morte. Il Figlio di Dio
si abbassa e familiarizza con l'uomo fin nella morte, e viene innalzato a una vita nuova. Il nuovo
Adamo compie la scelta contraria a quella del vecchio.
Il suo battesimo è figura della sua morte. Nell'acqua del Giordano egli si immerge nel peccato di
tutti quelli che vi accorrono. Noi usciamo mondi, e lui carico del nostro male. Colui che non
conobbe peccato, si è fatto per noi peccato e maledizione (2 Cor 5,21; Gal 3,13). Gesù ha scelto di
stare con l'uomo da una parte precisa, là dove lui stesso si divide e desolidarizza da sé e dagli altri:
nel suo limite e nel suo peccato, nel suo male e nella sua morte. Lui è “con noi” proprio dove noi
siamo soli e perduti, indigenti di compagnia umanamente impossibile. La sua compassione gli ha
fatto valicare il limite della nostra solitudine estrema.
La contemplazione di Gesù in fila coi peccatori, che si immerge nell'acqua, ha il potere di svelenarci
dalla menzogna del serpente; ci corregge la falsa immagine di un Dio onnipotente, giudice
tremendo, e ci presenta la potenza di un amore che si spoglia di tutto e si fa servo, portando su di sé
il peso del nostro male. L'incontro con lui avviene dove pensiamo che lui sia massimamente
assente: nella nostra parte negativa, nella nostra e nella sua debolezza. Se la sua potenza ci ha
creati, la sua impotenza ci ha salvati.

da Giovanni. Immaginate la sua sorpresa (cf Mt 3,14)! La sua attesa di uno più forte di lui è
totalmente spiazzata. Senza la rivelazione dello Spirito, nessuno può cogliere il mistero della
debolezza di Dio.

v. 10 salendo dall'acqua. L'immersione simboleggia la morte, l'emersione la vita nuova, oltre la


morte. La sua scelta di immersione contiene già l’emersione: infatti esprime un amore più forte
della morte.

vide squarciarsi i cieli. L'apertura del cielo, chiuso sopra l'uomo, è la grande attesa messianica: “Se
tu squarciassi i cieli e scendessi” (Is 63,19). La scelta di Gesù toglie ogni separazione tra Dio e
uomo: la sua solidarietà rende Dio presente ovunque.

lo Spirito scendere. La vita (Spirito) di Dio (Santo) scende sulla terra e la abita, restituendo
all'uomo il suo volto di figlio. Lo Spirito di Dio, che è solidarietà, amore, umiltà e servizio, in Gesù
è ormai presente tra di noi. Egli fa nuove tutte le cose: dà un cuore nuovo e fa rivivere le ossa aride
(Ez 36,26: 37,1 ss).

come colomba. La colomba richiama l'arca di Noè (Gn 8,8 ss), figura del battesimo, che segna
l'inizio di una vita salvata dalle acque. Il suo volteggiare sul Giordano richiama anche lo Spirito di
Dio che aleggiava sulle acque ai primordi della creazione (Gn 1,2), e le ali possenti che portarono
Israele attraverso il mar Rosso (Es 19,4). Il battesimo di Gesù è principio di una vita oltre la morte,
di una creazione nuova e dell'esodo definitivo.
Inoltre la colomba, che incessantemente tuba, si adatta bene a raffigurare lo Spirito di Dio, che da
sempre canta all'uomo il suo amore, in attesa di risposta.

v. 11 venne una voce dai cieli. Dio non ha volto, ma voce. Il suo volto è quello di chi ne ascolta la
parola. Questi è suo figlio, a sua immagine e somiglianza.

Tu sei il Figlio mio (cf 9,7). Gesù, facendosi fratello, ha ascoltato il Padre, che lo conferma suo
Figlio. Uno che ama così, non può essere che “il” Figlio, infinitamente amato. In queste parole
risuona il Sal 2,7, che parla dell'intronizzazione regale. Gesù, con la sua scelta, è il re voluto da Dio
- Dio stesso che regna e salva l'uomo.
La confessione di Gesù come Figlio fa da inclusione a tutto il vangelo: proclamata dal Padre quando
si mette in fila coi peccatori, è riconosciuta dal centurione quando muore tra i malfattori (15,39). Il
Padre la riconfermerà anche a metà vangelo, dopo il preannuncio della croce (9,7). L'unico modo di
rivelare di essere Figlio è condividere per amore la sorte dei fratelli più svantaggiati. Gesù è il
Figlio perché “non si vergogna di chiamarci fratelli” (Eb 2,11).
Dopo il titolo (1,1), solo il Padre (1,11; 9,7) e lui stesso (cf 8,38: il Padre suo; 12,6; 13,32) sono
autorizzati a parlare di tale figliolanza. La gridano anche i demoni, ma per tentarlo (3,11; 5,7); e la
menzionano i nemici, ma per condannarlo (14,61).
C'è infatti un modo divino e un modo diabolico di riconoscerlo. Solo la sua morte toglie ogni
ambiguità. La croce infatti sdemonizza l'immagine di Dio, rivelandocelo pienamente nel Figlio.

il diletto (cf 12,6). Significa unico, e ricorda Gn 22,2, che parla del sacrificio del figlio Isacco.
in te mi compiacqui. Richiama il primo canto del servo di JHWH (Is 42,1), che descrive colui che
salva il mondo, facendosi carico di tutte le sue iniquità. La voce del Padre quindi proclama
l'identità di Gesù: è Cristo e Figlio, Salvatore e Signore proprio in quanto sacrificato a servizio dei
fratelli. L'identità del Figlio rende visibile la verità del Padre, finora inaccessibile: “chi vede me,
vede il Padre” (Gv 14,9; cf 12,45).

3.Esercizio

1. Entro in preghiera, come indicato a p. 9.


2. Mi raccolgo osservando il luogo: sulle rive del Giordano, dove Gesù è in fila coi peccatori.
3. Chiedo ciò che voglio: conoscere in Gesù battezzato il mistero profondo di Dio.
4. Contemplo ogni parola del testo.

Da notare: Gesù da Nazaret della Galilea scende lo Spirito


fu battezzato Tu sei il Figlio mio
si squarciò il cielo In te mi compiacqui

4. Passi utili: Is 55,1-11; 1Gv 5,1-9; Is 12,2-6; Gn 22; Sal 2; Is 42,1-9; Fil 2,6-11.

3. LO SPIRITO LO GETTA FUORI NEL DESERTO


(1,12-13)

12
E subito lo Spirito
lo getta fuori nel deserto.
13
Ed era nel deserto
per quaranta giorni tentato da satana;
ed era con le fiere,
e gli angeli lo servivano.

1. Messaggio nel contesto

“Lo Spirito lo getta fuori nel deserto”, dice Marco di Gesù. Il suo battesimo, come il passaggio del
mar Rosso, segna la fine della schiavitù. Ora rimane però da attraversare il deserto, insidiato dal
nemico che vuol perderci, bloccandoci o facendoci tornare indietro. Compiuta la scelta, si pagano i
costi per mantenerla fino alla fine.
Adamo non aveva ascoltato la parola di Dio e fu scacciato dall'Eden nel deserto. Lo Spirito ora vi
scaglia il nuovo Adamo, il Figlio che ascolta la Parola. Lì incontra tutti i suoi fratelli, e li riconduce
nel paradiso perduto.
Il battesimo di Gesù ci presenta un Dio solidale con il nostro male e la nostra morte; le sue
tentazioni ci fanno vedere un Dio solidale con la nostra fatica di vivere in libertà. Il Cristo, che
emerge grondante dall'acqua con lo Spirito nell'intimo, richiama Mosè, il pastore che guida il
gregge di Dio nell'esodo (Is 63,11). Come lui, percorre il cammino di Israele dall'Egitto alla terra
promessa, quando tutti furono tentati e caddero; ripercorre vittorioso la storia di ogni uomo, che da
sempre è caduto e per questo non raggiunge la patria del suo desiderio.
Prima dell'attività apostolica, Gesù è tentato di realizzare il regno del Padre in modo più efficace e
comodo, senza restar fedele alla scelta compiuta nel battesimo. Per gli altri sinottici le tentazioni si
inseriscono nella “fame” (Mt 4,2; Lc 4,2), ossia nel bisogno che l'uomo ha o è in relazione alle cose,
alle persone o a Dio. È costante il pericolo di soddisfare questa fame col possesso invece che col
dono - unico cibo che sazia - e di non discernere le priorità e le alternative false da quelle vere.
Matteo e Luca inoltre dicono espressamente che è tentato, in quanto Figlio di Dio, di usare quegli
strumenti che il nostro buon senso considera ovvi: l'avere, il potere e il prestigio religioso. Ma
questo significherebbe rimangiarsi la solidarietà con i fratelli - unica scelta del Figlio approvata dal
Padre. Quanto è allettante essere figli di un Dio padrone e onnipotente, altrettanto è scomodo essere
figli di un Dio “servo”, che è amore, povertà, servizio e umiltà.
Gesù, come ciascuno di noi da Adamo in poi, fu tentato “a fin di bene”. Ci sono opportunità, che in
realtà sono false; ci sono scorciatoie, che poi fanno perdere la strada! Non è forse a fin di bene che
si fa tutto il male del mondo? Non bisogna agire “a fin di bene”, bensì agire bene. Perché il bene è
tale solo se è bene insieme nel principio, nel mezzo e nel fine. Non è mai vero che il fine giustifica
i mezzi! Questi sono sempre della natura di quello.
Il brano, come il precedente, si articola in due parti: la prima ci presenta Gesù che, vittorioso sulla
tentazione, è il Cristo, l'uomo nuovo, riconciliato con la natura e in condizione paradisiaca; la
seconda ce lo presenta come Figlio di Dio, servito dagli angeli.

In Gesù tentato tutta l'umanità fu tentata. In lui vittorioso, tutta l'umanità ha già vinto il male. È il
nuovo Adamo.

Il discepolo è colui che, unito a lui nel battesimo, vive la stessa scelta e la stessa difficoltà di
mantenerla. Ha il suo medesimo Spirito di solidarietà coi fratelli, e vi resta fedele nonostante gli
inganni del nemico. Spesso ha difficoltà a riconoscerli; e, quando li riconosce, si abbatte. Bisogna
tener presente che il nemico dà tanta buona volontà a chi manca di intelligenza; a chi ha
intelligenza, cerca di togliere la buona volontà, scoraggiandolo. Il Signore invece dà discernimento
a chi ha zelo, perché non faccia il male credendo di fare il bene; e dà zelo a chi ha discernimento,
perché non si scoraggi nel fare il bene. Sappiamo comunque che in ogni tentazione non siamo soli
e abbandonati. Siamo “consolati” dalla presenza di lui, che per questo ha voluto essere tentato con
noi e come noi: “Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità,
essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi” (Eb 4,15).

2 Lettura del testo

v. 12 lo Spirito. È lo Spirito dei Figlio, che si è manifestato visibilmente nella scelta di solidarietà
coi fratelli.

lo getta fuori nel deserto. Anche noi, ricevuto il battesimo, dal suo Spirito siamo spinti fuori
dall'Egitto e condotti per il deserto, in cammino verso la piena libertà dei figli.
Il deserto è il luogo della libertà e della tentazione, della fedeltà di Dio e del dubbio nostro,
dell'amore e della contesa reciproca, del cammino e della caduta. Cifra dell'esistenza umana, è
ricco di tutti i doni di Dio e di tutti i nostri tradimenti. Fatica di vivere col peso del nostro male -
ma anche gioia della nube che protegge, dei fuoco che guida, della manna che nutre, dell'acqua che
disseta, della Parola che illumina e dà vita - il deserto è il crogiolo in cui Dio forma l'uomo. Nella
solitudine assoluta, senza distrazioni, è costretto a scegliere tra la morte e la vita, tra la sfiducia e la
fiducia, tra la propria ombra e la sua promessa.
v. 13 era nel deserto per quaranta giorni. I quaranta giorni richiamano la rivelazione di Mosè e il
cammino di Elia (Es 34,28; 1 Re 19,1-8). Anche Israele stette nel deserto per quarant'anni, l'arco di
una generazione, il tempo di una vita. Ciò significa che l'esistenza intera di Gesù fu deserto e
prova, tentazione e lotta, dal principio alla fine. Anche noi, in forza del battesimo, passiamo dalla
sudditanza al male alla lotta contro di esso, che dura tutta la vita. Solo chi non sceglie il bene, non è
tentato dal male!

tentato. La parola greca peîra, da cui peirázo (tentare), significa tentativo e prova, quindi
esperimento e cimento, quindi anche esperienza e conoscenza. Deriva da peíro, che significa
attraversare da parte a parte, come una punta, ed ha la stessa radice di esperimentare, esperto,
pericolo, perito. La vita umana è necessariamente tentazione e sollecitazioni in tutti questi sensi,
con la loro ambiguità da dirimere appunto nella libertà di chi può, per tentativi, capire e volere la
verità verso cui cammina.

da satana. È il nemico dell'uomo. Per sua invidia entrò la morte nel mondo (Sap 2,24). Il suo
modo di agire è descritto in Gn 3: fa notare all'uomo il suo limite, gli toglie la fiducia in Dio,
suggerendogli che è suo antagonista, e facendogli sembrare bene il male e male il bene. In Marco è
il ladro della Parola (4,15). Con la sua menzogna sta all'origine di ogni male, perché l'uomo diventa
la parola che ascolta. Se ascolta Dio, diventa come lui, padre della verità e amante della vita (Sap
11,26); se ascolta satana, diventa come lui, padre della menzogna e omicida fin da principio (Gv
8,44).
Marco, a differenza di Matteo e Luca, non specifica le tentazioni. Le lascia emergere nel corso del
racconto, come pericolo costante di anticipare la gloria del Figlio evitando la croce del servo. Per
questo Gesù impone il silenzio al miracolati e ai demoni. È il cosiddetto “segreto messianico”, che
sottende tutto il vangelo. Questa tentazione generale si articola in tentazioni particolari, tipiche di
ogni uomo.
La prima è il “protagonismo”, che fa confondere il regno di Dio col successo del proprio io. Affiora
chiaramente dopo la prima giornata messianica, quando gli dicono: “Tutti ti cercano” (1,35). Porre
il proprio io come fine assoluto, al posto di Dio stesso, è l'egoismo, causa di tutti i mali. Gesù
risponderà: “Andiamo altrove”.
La seconda è la ricerca del “potere mondano” per realizzare il regno di Dio. Il fine è giusto, ma il
mezzo è sbagliato. Il Regno si realizza non con il potere, ma con l'impotenza di chi dà la propria
vita in servizio dei fratelli. Questa tentazione appare subito dopo la moltiplicazione dei pani,
quando costringe i discepoli ad andare via (6,45). Sappiamo da Giovanni che volevano farlo re (Gv
6,15).
La terza tentazione è la ricerca del “potere religioso”. Consiste nel voler piegare Dio alla propria
volontà, invece di piegarsi alla sua. Gesù la subisce nell'orto (14,32 ss). È la lotta definitiva.
Cadere è la perversione della fede: invece di obbedire noi a Dio, pretendiamo che lui obbedisca a
noi. Credere di avere Dio in tasca è la cosa per noi più facile, e per lui più insopportabile!
Tutte queste tentazioni sono impersonate da Pietro, quando rifiuta la Parola della croce (8,31 ss).
Gesù lo chiama satana, perché pensa secondo gli uomini, il cui modo di valutare è opposto a quello
di Dio.
La tentazione maggiore di chi ha il fine buono e usa i mezzi adeguati, è di scoraggiarsi, costatando
che il male riesce bene e con facilità, mentre il bene riesce male e con difficoltà - e, alla fine, è
sconfitto. È lo scandalo della croce - inefficacia e fallimento del bene. Diceva Marco l'Asceta:
“Come le notti seguono i giorni, così i mali seguono le buone azioni”. Sembra proprio che nessuna
buona azione resti impunita! La strada iniziata nel battesimo non solo è la più dura, ma sembra
anche perdente. Perdente in noi prima che fuori di noi!
Ma non c'è da preoccuparsi. Essere tentati è un buon segno. Significa che si sta lottando. Solo chi
è già a terra, non cade più. Chi sta in piedi è sempre esposto a cadere ( 1Cor 10,12).
Sostenere queste prove è “la” prova che siamo figli di Dio. Egli ci tratta come tali, purificandoci.
Diversamente saremmo bastardi (Eb12,8). Per questo, nonostante la sofferenza, siamo pieni di
gioia e letizia indicibile (Gc 1,2 s; 1Pt 1,6 ss).
Inoltre è da notare che Dio è fedele e non permetterà che siamo tentati oltre le nostre forze; ma con
la tentazione ci darà anche la via di uscita e la forza per sopportarla ( 1Cor 10,13).

era con le fiere. Gesù, fedele alla parola del Padre, è il nuovo Adamo, che vive quell'armonia con il
creato che era all'inizio, prima della disobbedienza. In lui si realizza il desiderio di un'età dell'oro, in
cui il lupo dimorerà insieme con l'agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il
leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà, ecc.” (Is 11,6 ss).

gli angeli lo servivano. La corte celeste, che sta al servizio di Dio, ora sta al servizio di Gesù (cf
13,27). La presenza angelica rivela la sua identità: egli è il Figlio di Dio, proprio in quanto
mantiene la sua scelta di servo. Il cielo è definitivamente aperto sulla terra, e si realizza il sogno di
Giacobbe. Lui stesso è la scala che congiunge stabilmente Dio e uomo (Gn 28,12).
Come lui, ogni battezzato che si trova nel deserto, non è mai solo: sperimenta l'aiuto del Signore nel
servizio dei suoi angeli (Sal 91,11s). “Servire” nel NT è espressione concreta dell'amore. Chi serve
e ama Dio e i fratelli, è amato e servito dagli angeli, anzi, da Dio stesso, che è amore e servizio.

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come le volte precedenti.


2. Mi raccolgo, osservando il luogo: il deserto di Giuda, dove Gesù è spinto dallo Spirito e
tentato da satana.
3. Chiedo ciò che voglio: chiedo al Signore di capire il valore della tentazione come
purificazione, e gli chiedo intelligenza per riconoscerla e volontà per superarla.
4. Traendone frutto, medito ogni parola del testo.

Da notare: deserto Spirito tentazione


quaranta giorni fiere angeli

4. Passi utili: Gn 3,1 ss; Dt 8,1 ss; Sal 91; 1Cor 10,1-13; Eb 2,17 s; 12,1-12.

4. È GIUNTO IL MOMENTO
(1,14-15)

14
E dopo che Giovanni fu consegnato
venne Gesù nella Galilea
proclamando il vangelo di Dio,
e dicendo:
15
È giunto il momento:
il regno di Dio è qui!
convertitevi,
e credete nel vangelo!
1. Messaggio nel contesto

“È giunto il momento “. Sono le prime parole che escono dalla bocca di Gesù. Con quattro brevi
frasi - due costatazioni seguite da due imperativi - Marco presenta un compendio di tutta la sua
predicazione, come annuncio del Regno e chiamata ad esso. Il brano seguente sarà la risposta.
Queste quattro espressioni servono anche da “chiave di lettura”. Ogni singolo racconto del vangelo
si realizza per me qui e ora nella misura in cui capisco che “è giunto il momento” di accogliere ciò
che è detto, perché “il regno di Dio è qui” per me, se mi “converto” e “credo nel vangelo”. La
Parola è viva. Chi l'ascolta sperimenta che opera quanto dice; chi la rifiuta sperimenta il vuoto di
quanto promette. Il non senso e il silenzio di Dio sono più eloquenti di qualunque discorso sul
male.

Gesù è il vangelo. Presente e operante nell'annuncio, egli è insieme l'annunciatore e l'annunciato, il


compimento del tempo e il regno di Dio. Si entra in esso volgendosi a lui e credendogli; si risponde
alla sua chiamata seguendolo nel cammino che indica e apre.

Il discepolo capirà tutte queste cose alla fine, quando, visto come Gesù è vissuto e morto, ascolterà
l'annuncio che lo proclama risorto e lo invita a tornare in Galilea - cioè qui, all'inizio del vangelo.
Lo incontrerà e riconoscerà nella potenza della sua parola, capace di creare la risposta alla sua
proposta.

2. Lettura del testo

v. 14 dopo che Giovanni fu consegnato. Giovanni diceva che doveva diminuire davanti al Cristo
(Gv 3,30). Ora addirittura scompare. L'attesa cessa quando giunge l'atteso; la ricerca si placa nel
ritrovamento. Chi non sa cosa cerca, continua a cercare senza trovare; ma chi sa cosa cerca, smette
di cercare quando trova. Per questo, quando Gesù inizia, Giovanni finisce la propria attività. E ne
anticipa il destino (9,31; 10,33; 14,41 ).

venne Gesù nella Galilea. La sua “venuta” al Giordano continua ora in Galilea per poi diffondersi
altrove (v. 38). Qui Gesù è cresciuto, ha lavorato e iniziato il suo annuncio e il suo cammino che lo
porterà a Gerusalemme. È il luogo della “quotidianità”, che per Marco diventa il “luogo teologico”,
in cui risuona per ciascuno di noi il suo appello. Il finale del vangelo (16,7) ci rimanda ancora qui,
in Galilea, dove incontriamo e vediamo il Risorto.

proclamando il vangelo di Dio. Il vangelo è “Gesù Cristo, Figlio di Dio” (1,1). Gesù quindi,
proclamando il vangelo, proclama se stesso. Egli dice la Parola ed è insieme la Parola detta. Per
questo essa è viva ed efficace (Eb 4,12), capace di muovere noi come i primi discepoli. Per Marco
solo Gesù predica la buona notizia, che è lui stesso. I discepoli, come Giovanni, predicano la
conversione (1,4; 6,12). Egli è l'unico vero maestro, il maestro interiore che si dona e si comunica
nella parola annunciata.

v. 15 È giunto il momento. Sono le prime parole di Gesù. Con lui è finito il tempo dell'attesa. Il
momento presente è proprio quello che Dio ha stabilito per la nostra salvezza.
L'uomo ha una concezione circolare del tempo, secondo il ritmo delle stagioni - un nascere per
morire, senza novità alcuna se non la continua distruzione di ciò che è stato costruito. Spinto sulla
cima, ogni volta il masso rotola a valle; e Sisifo continua la sua inutile fatica. Chronos, il tempo,
divora tutti i suoi figli che genera. Ciò che ha inizio ha fine, e il fine di tutto è la fine del tutto.
Anzi, tutto è da sempre finito e finisce e finirà sempre sotto terra. Questa coscienza del tempo
avvelena tutta la nostra esistenza, uccidendoci con la nozione di eternità che ci portiamo nel cuore.
La ruota gira su se stessa, il serpente si morde la coda: “niente di nuovo sotto il sole” (Qo 1,9).
Questa concezione naturale del tempo soffoca la speranza e la storia: taglia le gambe a ogni
possibilità di cammino che sfoci in qualcosa di diverso e positivo.
Gli ebrei invece hanno introdotto una concezione “lineare” del tempo, che ha come punto di
partenza la promessa di Dio e come punto d'arrivo il suo compimento; e nel mezzo c’è una
progressione continua verso la meta. Questa a sua volta non è la fine bensì il fine, in cui si realizza
ciò che ha mosso il cammino fin dall'inizio. In questa concezione ogni momento è qualitativamente
diverso e individuabile come tale secondo le sue distanze dal principio e dal fine, che sono
inversamente proporzionali. Il primo metro di una scalata è ben diverso dall'ultimo - e così tutti gli
altri - sia oggettivamente, sia psicologicamente che fisicamente.
In questo modo il tempo si fa storia; cessa di essere un continuo cadere nel nulla, nell'eterno ritorno
all'identico; diventa progresso sensato verso una novità che Dio stesso ha indicato.
Ciò verso cui Dio con la sua promessa ci ha incamminato, è la realizzazione di tutti quei desideri
che lui stesso ha posto nel cuore, e che sono l'esatto contrario di tutte le nostre paure. Ogni male
sarà sconfitto e ogni bene trionferà. Cesserà la menzogna, la sfiducia, l'egoismo, l'ingiustizia,
l'insensatezza, la tristezza, l'angoscia e la morte; vincerà la verità, la fiducia, l'amore, la giustizia, la
pace, la gioia, la fraternità e la vita.
I profeti hanno sempre ricordato al popolo questa promessa, richiamando alla responsabilità di
camminare verso di essa, in attesa di conseguirla.
Con Giovanni termina la predicazione profetica, perché con Gesù si realizza ciò che i profeti hanno
annunciato. E compiuta l'attesa, perché è giunto il compimento. Egli è il punto decisivo della
storia, in cui si passa dal desiderio alla realtà. L'epoca bella non è quella passata, né quella futura: è
qui e ora. Questo è il momento, sognato dai profeti, in cui si può vivere da uomini nuovi.
Gesù, aprendo la bocca, richiama come prima cosa al valore del presente, in cui si gioca tutto.
Questa coscienza sta alla radice di ogni azione. Il tempo opportuno giunge quando si capisce che
l'ora di decidere è ora. Il momento decisivo è la decisione stessa. Il presente è quindi il punto in cui
confluisce ciò che è stato e da cui fluisce ciò che sarà, ambedue assunti in una decisione che dà
senso al passato e significato al futuro. Raccolgo ciò che ho seminato, e semino ciò che ho raccolto,
sicuro che raccoglierò secondo ciò che semino!
Questa aderenza al presente è indispensabile per la sanità mentale. Diversamente vivo nell'irrealtà,
passando dall'illusione sul futuro alla delusione sul passato, trascorrendo metà esistenza nella
preoccupazione e l'altra metà nel rimpianto, occupato in ciò che non c'è ancora o piangendo per ciò
che non c'è più.
La religione giudeo-cristiana non fornisce oppio per dimenticare il male o sognare il bene: ci
richiama a vivere il presente nella sua pienezza.
Ogni brano del vangelo contiene una promessa di Dio. Essa diventa “realtà per me” che leggo,
quando capisco che “è giunto il momento” ed è questo - in cui il Signore vuol compiere per me ciò
che è raccontato, se chiedo e accolgo il suo dono.

il regno di Dio è qui. È giunto il momento decisivo della storia, perché è arrivato il regno di Dio. Il
“regno di Dio”, capovolgimento del regno dell'uomo che conosciamo bene (cf Gdc 9,7 ss; 1Sam 8,1
ss), è un'espressione che sintetizza tutte le aspettative di Israele. È il baciarsi di ogni desiderio
nostro con ogni promessa di Dio, che sarebbe avvenuto per opera del messia, il Cristo annunciato a
Davide come suo successore (2Sam 7).
Il Battista è stato il precursore, la voce che lo ha annunciato ormai alle porte (vv. 2-8). Ora è
venuto, è qui! La storia di Gesù che Marco ci racconta ci fa vedere cos'è questo Regno. È Gesù
stesso, Dio per l'uomo e uomo per Dio, che realizza pienamente l'amore di Dio per l'uomo e l'amore
dell'uomo per Dio. Nessuno più è lontano o escluso da esso; ognuno vi entra, volgendosi a lui,
amandolo e seguendolo nel suo cammino, andando “dietro di lui” e affrontando il suo stesso destino
di croce e di gloria, di lotta e di vittoria (8,34-38). Ma la prima è transitoria e la seconda definitiva -
fatica davvero piccola in confronto al frutto!
Il Regno, come suscita le nostre speranze, interpella anche la nostra libertà. Ogni brano di vangelo
che leggiamo ce ne fa vedere e ce ne offre un aspetto: ciò che Gesù fa e dice, è il dono che lo devo
chiedere e accogliere qui e ora.

convertitevi. Significa cambiare idee e testa, cambiare cuore e direzione ai propri piedi (cf v. 5). La
proposta di Gesù diventa subito responsabilità di una mia risposta. Il Regno è già venuto per sua
iniziativa; ma l'ingresso è riservato alla mia libertà. La conversione è volgersi a lui, iniziando dietro
di lui il suo stesso cammino.
La conversione ha un momento iniziale che consiste nell'affidarsi a lui. Ma poi è un fatto che dura
tutta l'esistenza, e consiste nell'orientare progressivamente ogni mio passo sui suoi, in un esodo
continuo dalla menzogna alla verità, dalla schiavitù alla libertà, dalle tenebre alla luce, dalla morte
alla vita, senza mai scoraggiarmi.
Certi monaci fanno il voto di conversione continua. Infatti il dono di Dio eccede sempre la mia
capacità di riceverlo, e inoltre la mia vita non è mai conforme a ciò che pure ho ricevuto. Per
questo ogni volta che leggo il vangelo sono chiamato a convertirmi. La Scrittura esige sempre una
lettura “critica” - ma per me, non per gli altri. Devo guardarmi bene dal fame una lettura
“apologetica” per giustificare me e/o attaccare gli altri. La Parola non è fatta per accusare gli altri,
ma per convertire me. Ognuno preferisce istintivamente applicarla al prossimo suo invece che a se
stesso. Il risultato è che nessuno la prende sul serio e tutto resta come prima. Anzi, un po’ peggio
di prima, perché chi legge resta vaccinato lui e si mette contro il fratello; e chi è accusato si arrocca
in difesa. Questo tipo di lettura è causa di litigi, mezzo di perdizione invece che di salvezza: è ciò
che ha diviso l'unica Chiesa. Come poi ci si possa dividere nel Nome che tutti unisce, solo il
Divisore, lo sa!

credete nel vangelo. Il vangelo è Gesù Cristo Figlio di Dio (1,1), presente in prima persona
nell'annuncio. La fede non è solo l'assenso intellettuale alla verità che dice, ma l'affidarsi a lui che
mi parla. Infatti anche i demoni credono, ma tremano (Gc 2,19). Il problema non è ritenere che il
Signore ci sia o meno - c'è comunque, anche, se lo nego! - ma decidere che tipo di rapporto sono
disposto a stabilire con lui. Credere è amare e fare di lui la propria vita. L'atto di fede è una
relazione personale con lui da amico ad amico. Solo questa è la vittoria sulla solitudine radicale
dell'uomo, l'uscita dal suo inferno. Credere in concreto è aderire a Gesù e andargli dietro (cf brano
seguente) per stare con lui. È orecchi per ascoltarlo, piedi per seguirlo, occhi per vederlo, mani per
toccarlo e, soprattutto, cuore per amarlo.
Credo al vangelo quando, leggendo un brano, mi affido a Gesù e gli chiedo con fede di saper
accettare il dono specifico che in quel racconto mi fa. Allora sono convertito sotto quell'aspetto, ed
è giunto il momento in cui si realizza in me quel frammento di regno di Dio.

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, osservando il luogo: la Galilea, dove Gesù cammina annunciando.
3. Chiedo ciò che voglio: chiedo al Signore di non essere sordo alle sue parole.
4. Traendone frutto medito su ogni parola del testo.

Da notare: il vangelo di Dio il regno di Dio è qui


è giunto il momento convertitevi
credete al vangelo
4. Passi utili: Rm 13,11-14; 2Sam 7,1-16: Gdc 9,7 ss; 1Sam 8,1 ss; Ne 9,1 ss.

5. QUI, DIETRO A ME!


(1,16-20)

16
E, camminando lungo il mare della Galilea,
vide Simone e Andrea,
fratello di Simone,
gettare attorno (il giacchio) nel mare
perché erano pescatori.
17
E disse loro Gesù:
Qui, dietro a me,
e vi farò diventare
pescatori di uomini.
18
E subito, lasciate le reti,
seguirono lui.
19
E, procedendo un poco,
vide Giacomo di Zebedeo
e Giovanni, suo fratello
anch'essi nella barca
ad aggiustare le reti;
20
e, subito, li chiamò.
E, lasciando il padre loro Zebedeo
sulla barca con i salariati,
se ne andarono dietro a lui.

1. Messaggio nel contesto

“Qui, dietro a me!,, dice Gesù al discepolo. È la chiamata al Regno, appena annunciato.
In tutte le religioni l'uomo cerca Dio; nel cristianesimo invece è Dio che cerca l'uomo. La sua
proposta è diretta e personale: lui stesso, per iniziativa del suo amore, chiede a me di andargli
dietro.
“Seguirono lui” è la riposta, anch'essa diretta e personale, che il vangelo svilupperà come un
cammino dietro di lui.
La sua domanda e la nostra risposta sono i due elementi costitutivi della fede, ambedue immediati, e
non delegabili. Nessuno può chiamarmi al posto suo; nessuno può rispondere al posto mio. Lui si
impegna per primo a stare con me, e io mi impegno a stare con lui. Gli altri possono essere di aiuto
o di mediazione previa, utile o addirittura necessaria; ma la fede si gioca senza intermediari, nel
rapporto diretto tra me e lui. Lo stesso annuncio - e chi lo fa - mi deve portare a incontrare lui.
Così dicono gli abitanti di Sicar alla Samaritana, che ha loro fatto conoscere Gesù: “Non è più per la
tua parola che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente
il Salvatore dei mondo” (Gv 4,41).
Per questo bisogna guardarsi dal cristianesimo come ideologia. È un vaccino contro la fede. Questa
non consiste semplicemente nel credere che c'è un Dio, ma nel rapporto che stabilisco con Gesù
come mio Signore. La fede è una concreta relazione con lui, un'amorosa appartenenza reciproca, un
gioioso essere uno dell'altro.
Il racconto contiene due scene parallele di chiamata e di risposta, che, come per i primi, valgono per
tutti i discepoli.
I due quadri descrivono in forma stilizzata l'incontro con Gesù al quale Marco vuol portare il suo
lettore, e mostrano in concreto cosa significa “credere nel vangelo”.
La sequela incondizionata di cui qui si parla sarà tale solo alla fine. Dove non si arriva volando, si
arriva zoppicando - e talora, purtroppo, zoppicando con i due piedi (1Re 18,21)! Si tratta di una
crescita lenta e faticosa, piena di incomprensioni e di ritardi, di tradimenti e di fughe. Ma già fin
dall'inizio la vita del discepolo è intrecciata a quella del Maestro. Il vangelo è come un tessuto - è il
vestito nuovo! - la cui trama è il cammino lineare di Gesù dalla Galilea a Gerusalemme e il cui
ordito è il cammino ritorto del discepolo, il quale, cercando di seguirlo, erra di continuo.
Un percorso lo si capisce solo quando è fatto, non prima. All'inizio c'è sempre un atto di fiducia -
non cieco, ma ben motivato e ragionevole più dei suo contrario! - nella persona che si segue. Per
chi cammina verso la libertà, Gesù è luce che illumina la notte; per chi rimane nella schiavitù, è
nuvola oscura (Es 14,19 s).
In questo brano si vedono gli elementi della fede. È un'attivazione di tutte le nostre facoltà sensibili,
intellettuali e morali, che si mettono in gioco nel rapporto con Gesù. Lui “passa” in cerca di noi, ci
“vede” e ci “chiama”; noi vediamo, ascoltiamo, comprendiamo, siamo conquistati e rispondiamo
“lasciando tutto”, “seguendolo” e “andando dietro a lui”.
La molla di questo dinamismo non può essere che “la grande gioia” di chi trova “il” tesoro,
incomparabilmente più prezioso e più bello di tutto ciò che lascia (Mt 13,44 ss).
La fede cristiana è un paio di piedi per seguire Gesù, perché si è presi da lui, l'amore assoluto, che
vale più di tutte le cose, degli affetti e della stessa vita.
Amarlo è l'ingresso nel Regno, la vita eterna, la realizzazione piena dell'uomo come partner di Dio
(cf 10, 17.2 1).

Gesù è la Parola di Dio fatta carne, che illumina gli occhi e rallegra il cuore; è la nube e la colonna
di fuoco che guida verso la libertà; è Il Signore che mi ama con tutto il cuore, e non si vergogna di
chiamarsi mio fratello (Eb 2,11), per insegnarmi l'arte dell'amore (Ct 8,2). I primi che invita alla sua
sequela sono degli ebrei, ai quali è lecito seguire solo Dio e la sua parola.

Discepolo è colui che esclama con Paolo: “Sono stato conquistato da Cristo Gesù, e per questo
corro anch'io per conquistarlo” (Fil 3,12). La sua fede è orecchi per ascoltarlo, occhi per vederlo,
piedi per seguirlo: lo ascolta, lo guarda e lo segue perché lo ama, e vuol toccarlo ed essere con lui
(3,14).

2. Lettura del testo

v. 16 camminando lungo il mare (cf v. 19). Gesù cammina, in cerca di chi accetta il suo dono.
Chiama mentre cammina, perché invita al suo stesso cammino. Lo scenario di fondo allude al mar
Rosso, da cui Dio salvò il suo popolo portandolo dalla schiavitù alla libertà. Allude anche alle
acque del caos primordiale, da cui tirò fuori il cosmo, portandolo dal nulla all'esistenza. La
chiamata di Gesù è per un nuovo esodo, verso una creazione nuova.

ride. Lo sguardo accoglie o rifiuta, dà o toglie respiro, ama o giudica, fa vivere o fa morire. Uno è
come è visto dall'altro. Infatti l'occhio segue il cuore, e uno, è nella misura in cui è visto, ossia
amato. Per questo dice san Francesco a Dio: “Quanto uno è ai tuoi occhi, tanto è, e nulla di più”
(Imitazione di Cristo, III, L, 37).
Dio da sempre guarda l'uomo con amore e rispetto. Ora in Gesù incontriamo finalmente il suo
sguardo, e vediamo come siamo da lui visti. Per questo i quattro pescatori - persone normali, di cui
una certamente sposata, pratiche e di buon senso - ne resteranno per sempre sedotti. E tutti gli altri
dopo di loro.
Vedere come Dio mi guarda è scoprire la mia essenza più profonda, che è l'amore che lui ha per me.
Uno si sente chiamato quando, invece di fuggire come Adamo perché si sente nudo e giudicato (Gn
3,10), vede quanto è prezioso ai suoi occhi (Is 43,4) - un prodigio (Sal 139,14). La felicità
dell'uomo è farsi trovare da questo sguardo, in cui incontra la propria verità.

Simone e Andrea. Sono i primi chiamati. Due è il principio di molti. A loro seguiranno tutti gli
altri. Gesù chiama all'inizio due coppie di fratelli, come poi invierà a coppie (6,7). Infatti chiama
tutti a una fraternità nuova, aperta a tutti, senza escludere nessuno.

gettare attorno (il giacchio) nel mare. Tutto avviene nella quotidianità della vita e del lavoro. Dio
non ha bisogno di luoghi o momenti privilegiati; perché è il Signore di tutti e di tutto. Infatti
chiamerà Levi mentre conta i soldi (2,14) e Paolo mentre va a perseguitare i cristiani (At 9,1 ss)!
Comunque sembra che chiami proprio nei momenti meno propizi. È una sfida?

v. 17 disse loro Gesù. Oltre l'occhio, Gesù rivolge loro direttamente la voce. Anche a noi,
attraverso il racconto, giunge lo stesso sguardo e la stessa parola. Questa, a duemila anni di
distanza, ha ancora la forza di farci alzare, lasciar tutto e seguirlo.

Qui, dietro a me. Tanti libri, più o meno intelligenti, si sono scritti sulla “essenza del
cristianesimo”. Marco sintetizza tutto in queste tre parole: due preposizioni di moto a luogo e un
pronome personale.
Tutto il vangelo mostrerà lui che cammina, e il discepolo che gli va dietro. Non lo precede né lo
raggiunge dopo: lo segue, andandogli dietro. Gesù non è solo un modello da imitare, o uno che ha
aperto la via: come è il principio e il fine del cammino, è anche il compagno di viaggio.
Per gli ebrei è sempre il discepolo che sceglie il maestro; appreso il mestiere, lo abbandona per farsi
a sua volta maestro che indica l'unico a seguire: il Signore con la sua legge. Gesù invece sceglie il
discepolo Gv 15,16) e lo chiama a seguirlo per “essere con lui” per sempre (3,14; 1 Ts 4,17). Lui è
il Signore, la via, la verità e la vita - la verità che ci è venuta incontro per farsi nostra via alla vita.

vi farò diventare pescatori di uomini. L'uomo nel mare annega e muore. Pescare uomini vuol dire
portarli dalla morte alla vita. Gesù ha pescato oro, che cominciano a seguirlo. La sua missione nei
loro confronti diventerà la loro stessa nei confronti degli altri fratelli (cf Lc 5,6; Gv 21,6).

v. 18 lasciate le reti. Le reti sono per loro il capitale, il mezzo di lavoro e l'identità professionale -
tutto ciò che sono e hanno. Le abbandonano non con un senso di privazione, ma mossi dalla gioia.
È il gesto di libertà di chi ama, condizione per seguire l'amato.

seguirono lui. Il tempo (aoristo) sottolinea l'inizio dell'azione. Seguire è la risposta al suo invito:
“dietro a me”. Si segue chi si ama. Il Signore disse ad Abramo: “Alzati e va'“ (Gn 12,1). “Dove?”,
chiese Abramo. “Dove ti mostrerò”, rispose, “ma se non vai, non lo puoi vedere, e io non posso
mostrartelo”.

v. 19 procedendo un poco. Cf v. 16: “camminando lungo il mare”.

vide Giacomo di Zebedeo e Giovanni, suo fratello. Cf v. 16: “vide Simone e Andrea, fratello di
Simone”. Qui si nomina anche il padre.
anch'essi nella barca ad aggiustare le reti. Cf v. 16: “gettare attorno (il giacchio) nel mare”. Qui,
oltre le reti, ben più grandi di un semplice giacchio, c'è anche la barca per calarle.

v. 20 li chiamò. Cf v. 17: “disse loro”.

lasciando il padre loro Zebedeo sulla barca con i salariati. Cf v. 18: “lasciate le reti”. Qui, oltre il
capitale maggiore - barca e reti - e il lavoro migliore, si lascia anche ciò che, oltre il mestiere per
vivere, dà all'uomo la sua identità personale: il suo tessuto di rapporti affettivi (padre) e sociali
(salariati).

se ne andarono dietro a lui. Cf v. 18: “seguirono lui”. L'azione è vista dalla parte di coloro da cui
ci si stacca: se ne andarono da Zebedeo e compagni per attaccarsi a Gesù e andare dietro a lui.
La seconda chiamata contiene gli stessi elementi della prima. Ma la ripetizione non è un di più.
Indica innanzitutto che il fatto continua a ripetersi - anche per chi ascolta, se lo vuole! E ogni volta
il fatto si arricchisce di variazioni e di ampliamenti, approfondendo l'essenziale.
La ripetizione risponde inoltre alla struttura dell'uomo, che vive nel tempo, rifacendo le stesse cose.
La novità è data dal suo grado crescente di simpatia, da cui nasce una conoscenza e un rapporto
sempre più profondo e gustoso. La ripetizione è necessaria come tornare alla fonte per attingere
l'acqua, come respirare sempre di nuovo per vivere. Ciò che è brutto, più lo vedi, più lo detesti: ciò
che è bello, più lo frequenti, più lo capisci e ne gioisci.

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, osservando il luogo: la spiaggia del lago di Tiberiade, dove Gesù passa e gli altri
pescano.
3. Chiedo ciò che voglio: di non essere sordo alla sua chiamata. Identificandomi con Pietro e
compagni, chiedo di rispondere come loro.
4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare: camminare lungo il mare dietro a me


vedere lasciate reti, barca, padre
chiamare seguire, andare dietro

4. Passi utili: Nm 9,15-23; Sal 16; 23; Fil 3,1ss; Mt 13,44-46.

6. TACI
(1,21-28)

21
Ed entrano in Cafarnao,
e subito, di sabato,
entrato nella sinagoga
insegnava.
22
E restavano scossi dal suo insegnamento;
infatti stava insegnando loro
come uno che ha potere,
e non come gli scribi.
23
E subito c'era nella loro sinagoga
un uomo con uno spirito immondo.
24
E gridò dicendo:
Che abbiamo a che fare noi con te,
Gesù Nazareno?
Sei venuto a rovinarci?
Ti conosco chi sei:
il Santo di Dio.
25
E Gesù lo sgridò dicendo:
Taci,
ed esci da lui!
26
E, scuotendolo, lo spirito immondo
e gridando a gran voce
uscì da lui.
27
E furono stupiti tutti quanti,
così che si chiedevano insieme l'un l'altro
dicendo:
Che è questo?
Un insegnamento nuovo
con potere;
comanda anche agli spiriti immondi
e gli obbediscono!
28
E la sua fama uscì subito dappertutto
nell'intera regione della Galilea.

1. Messaggio nel contesto

“Taci”, dice Gesù allo spirito immondo. La sua parola, come ha il potere di chiamarci a seguirlo,
ha anche quello di sconfiggere lo spirito del male che è in noi.
Con l'esorcismo inizia la prima giornata “messianica”. Marco dopo averci detto chi è quel Gesù che
ci invita dietro a lui, ora ci dice in sintesi cosa fa per noi: con la forza della sua parola ci libera dal
male (vv. 2128) e ci fa liberi per il bene (vv. 29-3 I); la sua azione non sarà spenta, bensì
moltiplicata dalle tenebre che calano (vv. 32-34), e, nell'inazione della notte, attingerà dalla
comunione con il Padre la forza di andare altrove (vv. 35-39).
Nella cornice artificiale di un giorno di sabato - per chi incontra e segue lui inizia il sabato senza
tramonto! - ci viene offerto un quadro della sua attività, il suo programma messianico.
All'inizio si ricorda il suo insegnamento. La Parola, principio della creazione, è pure principio della
redenzione.
Ancora oggi lo incontriamo attraverso la parola del racconto evangelico. Essa ha il potere di
muovere pure noi a seguirlo, come ha fatto con i primi quattro discepoli (cf brano precedente); e il
primo effetto che ha su di noi che lo seguiamo, è proprio quello di liberarci dallo spirito del male.
L'esorcismo è incluso nella duplice menzione dell'autorità della parola di Gesù. Il male infatti ha la
sua origine nella menzogna. La verità lo sbugiarda e lo dissolve, come la tenebra quando giunge la
luce.
Posto all'inizio, l'esorcismo ha valore programmatico: tutta l'attività di Gesù ha come fine quello di
liberare l'uomo dallo spirito del male, che lo tiene schiavo. È chiamato “spirito immondo” - per
Israele immondo è tutto ciò che ha attinenza con la morte. È il contrario dello Spirito di Dio, amante
della vita (Sap 11,26).
Per Marco è innanzitutto il tentatore (vv. 12 s), proprio in quanto “ruba la Parola” (4,15),
sostituendo nell'uomo la parola di Dio, che lo fa suo figlio, con la menzogna, che lo allontana da lui,
sua vita. Per questo il pensiero dell'uomo è chiamato da Gesù satanico (8,33). Satana ha il suo
volto visibile nella ricchezza che seduce (4,19; 10,22-25): è il dio mammona (Mt 6,24). Negli
esorcismi è descritto come colui che possiede, depossessa e tortura l'uomo. È chiamato satana (=
accusatore), diavolo (= divisore), il maligno, i1 tentatore, il principe delle tenebre, il padre della
menzogna (Gv 8,44). È il principe di questo mondo (Gv 14,30); a il suo regno ed è forte
(3,23.26.27); anzi, dopo il peccato, tutto è posto nelle sue mani (Lc 4,6). In Gn 3 si descrive la sua
azione come un'abile manipolazione, che porta l'uomo a farsi lui stesso male. Inizia avanzando la
possibilità della sfiducia in Dio, suggerendone una falsa immagine; induce poi alla disobbedienza,
col mettergli davanti la vertigine del suo limite oggettivo di creatura, per prospettargli la bellezza
fallace di un'autonomia senza limiti; gli rivela infine spietatamente la sua nudità e insufficienza, che
gli mette paura e lo fa fuggire e nascondere da lui.
Abbandonata la sorgente del proprio io, l'uomo si scava a fatica cisterne, cisterne screpolate, che
non tengono acqua, se non morta (Ger 2,13). Persa la propria identità, la cerca in ciò che sempre
più lo aliena da sé: l'avere, il potere, l'apparire. Di qui la crescente insoddisfazione e disistima di sé,
la solitudine, l'angoscia mortale, il desiderio di salvarsi, le brame incolmabili, l'egoismo insaziabile,
le ingiustizie, le guerre e il resto. Tutto questo male, una volta compiuto, rimane, si solidifica e
organizza in strutture moltiplicatrici di iniquità - vere macchine di oppressione, di cui l'uomo, loro
fattore, si fa ingranaggio. Alla fine egli vi resta imprigionato come un baco nel bozzolo che lui
stesso ha fatto.
Ma questo male indebito non è la situazione nostra definitiva. Gesù è venuto a defatalizzare la
storia e a restituircela nelle nostre mani. Egli ci libera con la parola di verità, capace di zittire la
menzogna che sta all'origine della nostra schiavitù, mostrandoci la realtà nostra di figli e quella di
Dio che è Padre.
Per questo gli esorcismi sono il segno della venuta del Regno, la fine della schiavitù dell'uomo.
Non riconoscerlo, è mentire all'evidenza: è il peccato contro lo Spirito Santo (3,26-30).
Marco narra dettagliatamente tre esorcismi (qui, 5,1-10 e 9,14-29). A differenza dei miracoli,
avvengono tra difficoltà e convulsioni sempre crescenti. Nell'ultimo l'esorcizzato resta addirittura
privo di vita. La lotta, iniziata dopo il battesimo, dura tutta la vita, e avrà il suo culmine sulla croce.
La sua morte da sconfitto per amore di chi lo uccide, sarà l'esorcismo definitivo: rivelando chi è Dio
per l'uomo, vincerà definitivamente la menzogna di satana.

Gesù è la parola potente di Dio. Come ha creato il mondo e dirige la storia, entra anche nel nostro
cuore per illuminarlo. È la parola di verità che restituisce l'uomo a se stesso, liberandolo dal male e
facendolo libero per il bene, capace di amare come è amato.

Discepolo è colui che sente rivolta a sé la parola di Gesù. Essa scatena desideri e resistenze
laceranti, ma è anche capace di vincere le resistenze e tradurre in realtà i desideri. Bisogna che
impariamo a conoscere le reazioni interne che avvengono ogni volta che leggiamo il vangelo senza
distrazioni. È importante distinguere quelle buone da quelle cattive, per accogliere e chiedere che
crescano le prime, e rifiutare e chiedere la liberazione dalle seconde.
Il nostro esorcismo fondamentale è il battesimo. Esso, come per Gesù, segna l'inizio di una lotta
che continua tutta la vita. Ma questa fatica è già pegno sicuro della vittoria finale. Prima del
battesimo c'è solo sudditanza e schiavitù tranquilla, quasi un'identificazione con il proprio male.
Nell'indemoniato vediamo le nostre reazioni davanti alla Parola e la sua azione in noi.

2. Lettura dei testo

v.21 Cafarnao. Patria dei primi discepoli, sarà il centro dell'attività di Gesù in Galilea.
di sabato. È il giorno del riposo di Dio, compimento della creazione. Gesù opera di sabato perché
la sua azione inaugura questo giorno: è l'aurora del sabato definitivo, in cui tutta la creazione
raggiunge il fine per cui è stata pensata.

insegnava. L'imperfetto indica un'azione prolungata e non conclusa. Come allora, così anche
adesso continua ad insegnare. Questo verbo da Marco è praticamente riservato solo a Gesù (una
volta sola è riferito anche ai Dodici, inviati in missione come suoi araldi, 6,30). Egli è l'unico
Maestro. Noi siamo e restiamo sempre tutti suoi discepoli, che insegnano solo ciò che lui ha detto e
fatto.
Non si dice che cosa insegna, perché insegna se stesso attraverso il racconto di ciò che fa.
Leggendo il vangelo, anche noi ci accostiamo a lui e impariamo a conoscerlo. Infatti la Parola fatta
carne, è tornata Parola nel racconto del vangelo, per farsi ascoltare ancora da noi.
Ad ogni parola che udiamo con l'orecchio, corrisponde sempre una parola silenziosa del Maestro
interiore, che muove il cuore attirandolo a sé. Questa scatena in noi le reazioni delle nostre paure e
le resistenze del nemico, che si oppongono a Dio e alla sua promessa.
Dio, come ogni uomo, comunica se stesso con la parola. Essa interpella, dando la libertà di
rispondere. È l'unica mediazione che non lascia residui: porta alla realtà mediata e scompare in essa.
Ma è anche il mezzo più debole, che non impone nulla - diversamente non è parola di verità, bensì
manipolazione tremendamente devastante. Con essa Dio esprime tutto se stesso e si dona,
esponendosi al pericolo di essere rifiutato. Egli non può usare mezzi potenti, perché chi ama
rispetta e crea libertà. Può solo, in caso di rifiuto, portare fino in fondo la propria debolezza - fino
alla croce di un amore incondizionato.

v. 22 restavano scossi. È uno stupore sconvolgente. Marco, molto parco di vocaboli - ne ha solo un
migliaio - ne usa otto diversi per indicare lo stupore, e li usa per ben complessive trenta volte. La
meraviglia, madre della sapienza, apre ad accogliere l'altro e la sua novità. È diversa dalla curiosità,
madre della scienza, che porta a etichettare l'altro per usarlo. La prima dovrebbe essere
l'atteggiamento corretto nei confronti delle persone e di ciò che è bello e buono; la seconda nel
confronti delle cose, in quanto utili. Ma guai a ridurre anche queste solo al loro rapporto di uso.
Hanno sempre in sé qualcosa di “meraviglioso”, da cogliere e rispettare.
Ogni volta che, leggendo il vangelo, non stupisco, in realtà non capisco.
Il contrario dello stupore è la “durezza di cuore”, che rinchiude tutto nella morte dell'ovvio e del già
noto, precludendo ogni novità. Gesù verrà ucciso da questa durezza di cuore (3,6).

stava insegnando come uno che ha potere. La parola “potere” (greco exusía, che traduce l'ebraico
shaltan, da cui “sultano”) è riservata a Dio. Lo stupore davanti alla parola di Gesù viene dal fatto
che essa ha il potere di Dio: si fa seguire, libera dal male e opera quanto esprime - fa quello che dice
e dice quello che fa.
Ogni brano del vangelo è un dono che Dio vuol fare anche a me che leggo. Purché io chieda. Per
questo in ogni lettura gli “chiedo ciò che voglio”, e voglio ciò che quel testo intende dare. È molto
importante che si esprima il desiderio: ciò che non è desiderato, non può essere donato, perché non
verrebbe accolto.
Gesù è la parola di Dio viva ed efficace, più tagliente di una spada a doppio taglio (Eb 4,12 s).
Entra nel cuore, lo mette a nudo, lo giudica, lo muove a conversione, lo giustifica e lo consola. Le
reazioni nostre davanti alla Parola variano secondo la nostra disposizione di chiusura o apertura: da
una parte è nemica, sgomenta, fa conoscere il peccato (cf 1Re 21,20; 2Re 22,13; 2Sam 12,13), svela
i garbugli dei cuori, li sgonfia, li disperde (Lc 2,35; 1,51), trafigge il cuore e lo porta a chiedersi:
“che fare?” (At 2,37); d'altra parte apre il cuore ad accoglierla (At 16,14) e compie “oggi” quello
che dice (Lc 4,21), illumina gli occhi, dilata il cuore (Sal 119,105.32; 18,29), diventa dolcezza e vita
(Sal 119,50.93.103).
non come gli scribi. Questi spiegano la Parola come hanno imparato a scuola. Gesù, invece di
spiegare, dice una parola “nuova” (v. 27), a cui obbedisce anche il male.

v. 23 sinagoga. È il luogo di riunione per il culto sabatico, con lettura della Parola, la sua
spiegazione e la preghiera comune.

uno spirito immondo. Immondo è ciò che, avendo attinenza con la morte, esclude dalla comunità e
dal culto. Lo spirito immondo si trova quindi dove non dovrebbe stare, nella sinagoga. E sembra
che ci stia inosservato e a suo agio, fino all'arrivo di Gesù.

v.24 gridò. È il grido impotente di rabbia e di terrore del nemico che si trova scoperto e perduto.

Che abbiamo a che fare noi con te? C'è nulla in comune tra la verità e la menzogna, tra la vita e la
morte. Non possono coesistere. È interessante notare il “noi”. Parla a nome degli altri demoni o
anche dell'indemoniato stesso, volendosi identificare con il suo cliente? Oppure è questi che parla,
e usa il plurale per indicare la divisione del proprio io o la propria connivenza col nemico?
Il primo moto davanti al vangelo è per ogni lettore un senso di estraneità scomoda e dolorosa:
questa parola non è per me, anzi per noi - intendendo in questo noi il male con cui siamo solidali.

Sei venuto a rovinarci? Il secondo moto è peggiore: sembra che “ci” rovini. In realtà rovina solo il
male che è in noi. E noi ci difendiamo, perché ci identifichiamo con esso. Perdendo questo, ci pare
di perdere noi, la nostra autenticità. In realtà perdiamo solo una falsa identità, una brutta maschera
che ci deturpa.

Ti conosco chi sei. Ne ha già sperimentato la forza nel deserto. Il nemico ha una conoscenza
superiore, che gli uomini non hanno.

il Santo di Dio. Santo è il contrario di immondo. Il male rende il suo tributo al bene: lo conosce
come suo nemico. Satana cerca sempre di rivelare l'identità di Gesù e la sua gloria - per ora
conosciuta appena dal Padre e da lui. I demoni continuano la loro tentazione, cercando di divulgarla
prima del tempo, per fargli evitare la croce, dove solo si rivelerà a tutti.

v. 25 lo sgridò. La parola è usata costantemente negli esorcismi. Nella traduzione greca dei LXX
la stessa parola (epitimáo) è usata per indicare il rimprovero di JHWH. La parola di Gesù ha la
stessa autorità.

Taci. L’indemoniato usa il plurale; Gesù il singolare. Fa tacere il demonio nell’indemoniato, perché
in lui possa parlare l'uomo. Il nemico è vinto col semplice farlo tacere. La verità infatti zittisce la
menzogna.

esci da lui. Lo spirito del male è un intruso nell'uomo, che è figlio di Dio. La sua parola lo fa
uscire.

v. 26 scuotendolo, ecc. Il male esce in modo doloroso, ma soprattutto chiassoso. Non perde
volentieri il suo cliente. Di per sé neanche il malato gradisce subito la guarigione: fugge dalla
libertà, per paura della responsabilità di gestire la propria vita. La liberazione non è mai un fatto
tranquillo. Sembra più facile restare nella schiavitù.

v. 27 furono stupiti, ecc. Riprende il v. 22, sulla novità e il potere di questa parola.
v. 28 la sua fama uscì, ecc. Questa fama che si espande è anticipo di ciò che avverrà dopo: il
vangelo diffonderà ovunque il potere della stessa parola, portandola fino a noi oggi.

3.Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo osservando il luogo: la sinagoga di Cafarnao.
3. Chiedo ciò che voglio: identificandomi con gli ascoltatori e con l'indemoniato, chiedo di
sperimentare il potere della sua parola nel mio cuore, perché mi liberi dal nemico.
4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.
Confronto le reazioni dell'indemoniato con le mie davanti alla sua parola.

Da notare: l'insegnamento con potere sei venuto a rovinarci?


lo stupore taci ed esci
lo spirito immondo

4. Passi utili: Is 55,10 ss; Eb 4,12 s; Mc 5,1-20; 9,14-27.

7. E SERVIVA LORO
(1,29-31)

29
E subito, usciti dalla sinagoga,
vennero nella casa di Simone e di Andrea,
con Giacomo e Giovanni.
30
Ora la suocera di Pietro
era a letto con febbre
e subito gli parlano di lei.
31
E, fattosi avanti,
la risvegliò
prendendola per mano.
E la febbre la lasciò,
e serviva loro.

1. Messaggio nel contesto

“E serviva loro”, dice Marco della suocera di Pietro guarita. È il primo miracolo, indubbiamente il
più insignificante. Ci si aspetterebbe che all'inizio si racconti qualcosa di più sensazionale. Ma la
cosa è istruttiva. I miracoli di Gesù non sono spettacoli di potenza. Sono invece dei segni, che
rivelano da una parte la sua misericordia - una debolezza che lo porterà fino alla croce - e dall'altra
ciò che vuol compiere in noi per farei uomini nuovi, a sua immagine. I primi due - la suocera e il
lebbroso - sono guarigioni globali, che indicano lo spirito nuovo e la vita nuova che lui ci dona. Gli
altri che seguono illustrano le varie guarigioni specifiche delle nostre membra e facoltà: i piedi per
camminare dietro a lui, le mani per ricevere e donare come lui, l'orecchio per ascoltare la verità, la
lingua per comunicare noi stessi e l'occhio per vedere la realtà davanti alla quale siamo ciò che
siamo. Al centro c'è il miracolo della fede, un toccare che sana la vita e libera dalla morte
(emorroissa e figlia di Giaìro, 5,21-45). I miracoli sono tutti nella prima parte del vangelo, e
culminano nel cieco di Betsaida, che sarà illuminato due volte, come dovrà esserlo anche Pietro per
vedere in Gesù oltre il Cristo anche il Figlio di Dio. Nella seconda parte c'è solo la guarigione dei
cieco di Gerico, prima dell'ingresso in Gerusalemme. È il dono dell'illuminazione battesimale, che
mi fa “vedere” chi è lui per me e chi sono lo per lui, nel suo mistero di morte per me. L'uomo ha
bisogno di questi miracoli perché è diventato come i suoi idoli, al quali serve e che lo schiavizzano:
ha piedi e non cammina. mani e non palpa, orecchi e non ode, lingua e non parla, occhi e non vede
(Sal 115,4-8).
Nel presente racconto la piccolezza del segno è tutta a vantaggio della grandezza del significato.
Un miracolo più straordinario avrebbe attirato la nostra attenzione, a scapito di ciò di cui è segno.
Se allo stolto indichi la luna, lui ti guarda la punta del dito!
Con questo piccolissimo segno l'evangelista ci dà il significato di “tutti” i miracoli: sono delle
guarigioni che Gesù opera per restituire a ciascuno di noi la capacità di servire, che è la nostra
somiglianza con Dio. Lui stesso è Figlio in quanto servo (vv. 9-11). Il vero miracolo, che è venuto
a compiere sulla terra, non è nulla di strabiliante: è darci la capacità di amare, ossia servire.
La suocera di Pietro, primo frutto maturo del vangelo, è il prototipo di tutti i credenti. Nella “casa
di Simone” essa è il vero maestro nella fede, perché modello di vita. Attraverso di lei Gesù ci
insegna non a parole, ma coi fatti e nella verità (1Gv 3,18) chi è lui e qual è il suo Spirito, che essa
silenziosamente incarna.
Le donne contavano assai poco nella cultura ebraica di allora. Non era neanche valida la loro
testimonianza. Questa anziana, malata e... suocera è la prima che testimonia la vita nuova.
Questo miracolo sintetizza quanto finora è stato narrato, sviluppandone un gradino ulteriore.
Credere al vangelo (v. 15) significa seguire Gesù (vv. 16-20), nell'ascolto della sua parola (vv. 21 s);
questa ci dà la liberazione dal male (vv. 23-28) e la libertà per il bene, che è il servizio.
Questa donna è il primo “scriba”, simile a lui, che Gesù discretamente ci dona. L'ultimo sarà la
povera vedova inosservata, che espressamente ci addita (12,41-44). Marco, per circa un centinaio
dei suoi seicento versetti, parla di donne (e bambini, che ne sono un'appendice). Le figure
femminili occupano i punti chiave del vangelo (vedi appunto qui e 12,41-44, come inclusione di
tutta la sua attività; 14,1-9 e 15,40-16,8, come inclusione del racconto della sua morte e
risurrezione; vedi inoltre 5,21-43 e 7,24-30, dove si illustra cos'è la fede e qual è la sua potenza).
Dio ha scelto i poveri di questo mondo per farli ricchi con la fede ed eredi del suo regno (Gc 2,5):
con ciò che è stolto e debole confonde i sapienti e i forti, con ciò che è ignobile e disprezzato e
nullo, riduce a nulla le cose che sono (1Cor 1,26 ss).
Questo brano ci dia occhi nuovi ed evangelici per vedere ciò che conta davanti a Dio, che non
guarda secondo le apparenze (1Sam 16,7).

Gesù è il medico. Con la sua parola libera dallo spirito del male, e con il suo contatto dà la capacità
del bene. È venuto per ridarci la pienezza di vita e restituirci il nostro volto di figli.

Il discepolo è raffigurato dalla suocera: a letto con la febbre, incapace di servire e costretta a farsi
servire o servirsi degli altri. Il contatto con Gesù la renderà come lui, che è venuto per servire
(10,45). Ovviamente questo, che è il primo miracolo del vangelo, sarà l'ultimo a realizzarsi. È
buona regola dire fin dal principio il fine verso cui si sta andando!

2. Lettura dei testo

v. 29 dalla sinagoga vennero nella casa. C'è un passaggio dalla sinagoga, luogo del culto di Israele,
alla casa, che diventerà il luogo della catechesi e del culto cristiano. In ambedue c'è il male: come
spirito immondo o come “febbre”, che lo rivela.
Simone e Andrea con Giacomo e Giovanni. I primi quattro iniziano il loro cammino seguendo Gesù
e imparando. Diventeranno discepoli quando avranno capito di essere l'indemoniato che lui libera,
la suocera che lui guarisce. I liberati e miracolati della prima parte del vangelo fanno da specchio a
noi, chiamati a identificarci con loro, per chiedere e ottenere lo stesso dono.

v.30 la suocera di Pietro era a letto con febbre. Questa febbre, che tiene a letto costringendo a
servirsi degli altri e impedendo di servire, è figura di quel male che immobilizza ogni uomo e gli
blocca la capacità di amare, sviluppandogli ampiamente quella di schiavizzare.
Nella stessa casa Gesù diagnosticherà e curerà un'altra febbre che i discepoli nascondono in sé, che
li fa bollire l'un contro l'altro e li rende sordi alla “parola”: il desiderio di essere il più grande (9,32-
35). È la stessa febbre che i capi delle nazioni hanno in comune con Giacomo, Giovanni e tutti gli
altri, mentre litigano sui primi posti (10,35-45).

gli parlano di lei. Esclusi i primi discepoli, chiamati direttamente da lui, c'è sempre un tramite che
porta noi a lui e lui a noi. È la mediazione della Chiesa, che prolunga nello spazio e nel tempo la sua
presenza. Ma il contatto con lui e la sua parola sono sempre “immediati” e diretti, da persona a
persona. La necessità della mediazione, che consiste nel parlare al Signore degli uomini o agli
uomini del Signore, è correlativa alla responsabilità che ognuno ha del proprio fratello davanti al
Padre. Chi non si cura dell'altro, non ha conosciuto il Signore.

v. 31 fattosi avanti. Gesù non si tira indietro davanti al nostro male. Non la nostra bontà, ma la
nostra miseria attira la sua misericordia (cf 2,17).

la risvegliò. La parola egheíro è usata per proclamare la risurrezione di Gesù. Al v. 35 l'altra parola
usata con tale senso: si levò (anéste).

prendendola per mano (cf 5,41!). La sua mano prende la nostra, e ci comunica la sua stessa vita.
La guarigione avviene in silenzio, attraverso il contatto. Non è magia, ma una verità profonda: la
nostra comunione con lui ci conferisce la sua forza.

e serviva loro, ossia Gesù e gli altri. La nostra mano, “presa” da lui, è finalmente capace di agire
come la sua. “Servire” nel NT significa amare in concreto. Gesù è il Figlio perché ha scelto di
servire Dio e i fratelli (vv. 9-11). La più bella definizione che Gesù dà di sé è quella del Figlio
dell'uomo venuto per servire (10,45).
Il servizio è la guarigione dalla febbre mortale dell'uomo: l'egoismo, che lo uccide come immagine
di Dio.
La libertà che Gesù porta consiste nell'essere, mediante l'amore, a servizio gli uni degli altri (Gal
5,13). Amare veramente significa farsi carico dell'altro nei suo bisogni e nei suoi limiti. Farsi
carico dei beni altrui, più che amore, suona egoismo! “Portate i pesi gli uni degli altri, così
adempirete la legge di Cristo”, che “trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo
come te stesso” (Gal 6,3; 5,14). L'egoismo si esprime nel servirsi, che porta all'asservimento
reciproco; l'amore si realizza nel servire, che porta alla libertà dell'altro, perché lui stesso possa
servire. Solo così, nel servizio reciproco, siamo finalmente tutti liberi.
Dopo aver estromesso da noi lo spirito del male, Gesù vuol riempirci del suo Spirito. Ogni miracolo
restaura un tratto del nostro volto divino di figli.
Il servizio può sembrare piccola cosa. Invece è l'unica in grado di cambiare tutto. Il mondo infatti è
un grande banchetto di cibi prelibati. Ma c'è una regola precisa: bisogna mangiare con forchette
lunghe un metro e mezzo. L'inferno è dove ognuno, cercando di mangiare da sé, muore di fame e
inforca il prossimo. Il paradiso è dove ognuno dà tutti, e ognuno gode di dare e ricevere
benevolenza e amore.
3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, osservando il luogo: la casa di Simone e Andrea, a Cafarnao.
3. Chiedo ciò che voglio: identificandomi con la suocera, chiedo di guarire dalla febbre che mi
immobilizza e mi impedisce di servire.
4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.
Considero ogni parola del testo.

4. Passi utili: Mc 9,33-35; 10,35-45; Gv 13,1-17; 1Cor 1,26-29; Is 42,1-9; 49,1-6; 50,4-11;
52,13-53,12.

8. FATTASI SERA
(1,32-34)

32
Ora, fattasi sera,
quando cadde il sole,
portavano a lui
tutti gli ammalati
e gli indemoniati;
33
e tutta la città
era riunita presso la porta.
34
E curò molti ammalati
di diverse malattie
scacciò molti demoni,
e non lasciava parlare i demoni
perché lo conoscevano.

1. Messaggio nel contesto

“Fattasi sera”. Si chiude la prima giornata di Gesù, con la sua fatica messianica. Si ritira il sole e
viene il buio: anche per lui finisce la luce e inizia la tenebra.
Il giorno è il tempo a disposizione dell'uomo per valutare, decidere e fare. La notte è il tempo
sottratto, indisponibile, morto. L'ombra avvolge tutto e tutti: la creazione perde i suoi contorni e
svapora nel nulla, mangiata dall'oscurità da cui è uscita.
Unica prospettiva sicura di ogni giorno, la sera è immagine “della fatal quiete”. Lì approda ogni
uomo; si infrange ogni sua pretesa e cessa ogni sua attesa.
È l'ora in cui ognuno dice: “Ora basta”. E, come Elia, mette la testa sotto il ginepro per dormire
(1Re 19,4 s).
Dio qui ci attende, perché questa è l'ora della verità, in cui sperimentiamo che noi siamo uomini
mortali, e lui è Dio. Raggiunto il nostro limite, invece di cadere nel vuoto, sconfiniamo in lui. A
questo punto smettiamo ogni nostra attività, e lasciamo finalmente a lui lo spazio per intervenire.
Veramente Dio dà i suoi doni all'uomo quando “dorme” (Sal 127,2).
Per questo la sera di Gesù è il momento culminante dell'azione divina, anticipo di ciò che sarà alla
sua morte.
Durante il giorno fece un solo esorcismo e un solo miracolo; la sera invece è illuminata da un fuoco
d'artificio di prodigi. La sua azione infatti fu limitata, parziale, e solo con valore di segno; la sua
passione invece sarà illimitata, universale e salverà tutti realmente. La sua notte guarisce tutte le
nostre notti.
Inoltre è la nostra notte il luogo dove sperimentiamo la luce della sua notte.
Nel passo parallelo, posto a conclusione della prima giornata di miracoli, Matteo così dichiara
l'origine di tutta l'opera di Gesù: “Egli ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre
malattie” (Mt 8,17). Con questa citazione di Is 53,4, Matteo dice chiaramente che non è la sua
potenza sovrumana a guarirci, ma la sua impotenza di servo, che lo porterà sulla croce, carico dei
nostri mali.
Questo brano non è propriamente un racconto. È un riassunto di più fatti. In questi “sommari
redazionali” l'autore ispirato, meno vincolato dalle cose da raccontare, offre ampie panoramiche
teologiche, dando la cornice interpretativa al fatti stessi. Per questo sono da leggere con cura. In
concreto qui Marco vuol anticipare il senso della morte di Gesù, che sarà per tutti salvezza dai mali
e dal male. Ma prima di allora la sua identità non può essere proclamata. Sarebbe malintesa!

Gesù è la luce del mondo. Con la sua morte è entrato nelle nostre tenere, illuminandole della sua
solidarietà divina. Con lui non c'è più notte.

Il discepolo incomincia a intuire con stupore come Dio capovolge la prospettiva dell’uomo: a una
vita per la morte, contrappone una morte per la vita.

2. Lettura del testo

v.32 fattasi sera. Oltre questa, che conclude il primo giorno, Marco ci presenta altre sere, che
vengono rispettivamente dopo le parabole (4,35), dopo il fatto dei pani (6,47), dopo l'ingresso nel
tempio (11,11), dopo la purificazione del tempio (11,19), all'inizio della Cena (14,17) e dopo la sua
morte, quando Giuseppe riceve in dono il suo corpo (15,42). Tutte le sere portano a questa ultima e
settima, in cui finisce il mondo vecchio, e Gesù consegna se stesso alla madre terra, seme del Regno
che germoglierà nel sole nuovo del mattino di Pasqua.

portavano a lui. Tranne il lebbroso, l'emorroissa e la sirofenicia (1,40 ss; 5,25 ss; 7,24 ss) prototipi
di tutti gli emarginati ed esclusi, che hanno accesso libero e immediato a lui, nessuno va a Cristo per
conto suo. Dio ha bisogno degli uomini. Tutti i miracolati sono portati da lui o lui stesso è portato
presso di loro. Anche il cieco, che lo chiamerà, prima di andare da lui, sarà chiamato attraverso altri
(10,49).

tutti gli ammalati. Di giorno ne guarì solo uno. Di sera “tutti” sono da lui.

indemoniati. Gesù guarisce non solo dalle malattie esterne, ma soprattutto dal male interno. La
guarigione dei malati è un segno provvisorio del futuro, e indica simbolicamente ciò che sarà
l'uomo nuovo - anche se ancora deve morire. La liberazione degli ossessi invece vuol essere un
intervento definitivo, e indica la fine del regno di satana e la venuta del regno di Dio (3,26; Lc
11,20). Ambedue sono manifestazioni della “simpatia” di Dio per gli uomini: è quella sym-pátheia
compassione = patire insieme) che dal battesimo lo porta alla croce.
v. 33 tutta la città era riunita presso la porta. Di mattina, alla porta della città, si teneva il giudizio
di condanna contro i malfattori. Di sera, alla porta della casa di Simone, il Signore stesso compie il
suo giudizio di salvezza per tutti i perduti.

v. 34 curò molti ammalati. Quei “tutti” non erano pochi, ma molti. La parola “curare” in greco
significa rispettare, venerare, onorare. Questa è la vera “terapia” (= cura) per i mali profondi
dell’uomo.

scacciò molti demoni. Si cura il malato, non il male. Noi spesso curiamo il male, a scapito del
malato - come odiamo il peccatore e amiamo il peccato.

e non lasciava parlare i demoni. Marco sottolinea sempre il “segreto messianico”. Oltre che un
aspetto importante della vita di Gesù - che non cercava la pubblicità, anzi la considerava tentazione
- è anche un motivo teologico dell'evangelista. Egli si rivolge al catecumeno, e vuol fargli capire
che una conoscenza di Dio prima della croce è diabolica: non rende conto né del male nostro né
dell'amore suo.

perché lo conoscevano. Gli spiriti sono gli unici a sapere chi è Gesù. Hanno infatti una conoscenza
superiore, che trascende la nostra.
Inoltre si vede come la fede non è “conoscerlo” - anche i demoni lo conoscono! - bensì
sperimentare la sua forza.

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, osservando il luogo: davanti alla porta della casa di Pietro, di sera.
3. Chiedo ciò che voglio: chiedo al Signore di conoscere le sue prospettive circa la sera - e lo
ringrazio dei suoi doni.
4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.
Considero ogni parola del testo.

Passi utili: Sal 127; 1Re 19,1-5; 2Cor 4,7-12; 12,9 s; Mt 8,16 ss.

9. ANDIAMO ALTROVE
(1.35-39)

35
E di buonora, in notte fonda,
levatosi
uscì
se ne andò in luogo deserto
là pregava.
36
E lo inseguì Simone
quelli con lui;
37
e lo trovarono
e gli dicono:
Tutti ti cercano!
38
E dice loro:
Andiamo altrove,
nei borghi vicini,
perché anche là proclami.
Per questo infatti sono uscito.
39
E venne,
annunciando nelle loro sinagoghe
in tutta la Galilea
e scacciando i demoni.

1. Messaggio nel contesto

“Andiamo altrove”, dice Gesù ai discepoli che lo cercano per mietere il successo di ciò che ha
seminato il giorno prima.
Per la seconda volta si ritira in preghiera nel deserto. Sulla bocca di Pietro, portavoce degli altri,
vediamo anche la prima tentazione: “Tutti ti cercano”. Essa si cela nel pronome personale “ti”, e
consiste nel cercare il proprio io invece di Dio, mettendolo al centro di tutto. È l'egoismo, principio
di tutti i mali. Ma Gesù non vuole il successo personale, neanche “a fin di bene”.
Si nota qui la prima incomprensione tra lui e i suoi, i primo scontro vellutato tra il pensiero
dell'uomo e quello di Dio. I discepoli sono certo in buona fede: lo cercano e lo consigliano per amor
suo. Vedremo d'altronde che Gesù, quand'è da solo con loro, li disorienterà sempre, soprattutto di
notte (cf 4,35 ss; 6,47 ss; 14,17 ss) - ma anche di giorno, quando parlerà della “sua notte” (8,31-33;
9,31-34; 10,32-45). Per loro, chiusi nella prospettiva mondana e ciechi davanti a quella di Dio,
questi disorientamenti diventeranno semi di conversione.
La giornata tipo di Gesù si conclude con la preghiera notturna, che dà inizio alla nuova attività. Per
lui la contemplazione è insieme termine e sorgente dell'azione, fine di ciò che ha fatto e principio di
ciò che sta per fare.
La preghiera è stare davanti a Dio. Fatto a sua immagine e somiglianza, davanti a lui l'uomo è se
stesso; lontano da lui, è lontano da sé e dalla propria realtà, fino a diventare nulla di sé.
Per questo il fine di ogni ministero è insegnare chi e come pregare, per entrare in comunione con
Dio, e trovare così il rapporto vero con sé e con gli altri.
La preghiera innanzitutto non è un parlare “di” Dio, ma un parlare con” Dio, stando attenti a non
scambiarlo con le proprie immagini di lui (idoli).
Non è trascurabile il fatto che Gesù preghi durante la notte, figura della morte. Questa non è la fine
di tutto, ma il luogo del rapporto pieno con Dio, forza per un giorno nuovo.
Tutte le culture hanno un senso religioso che intuisce la preghiera come relazione vitale e necessaria
col trascendente. Questo è positivo in sé, anche se poi, a causa del peccato, devia naturalmente in
una direzione moralistica e/o magica: si prega per tenersi buono Dio e/o piegarlo al proprio volere e
ai propri bisogni.
La nostra società occidentale, che vive come se Dio non ci fosse (tamquam Deus non daretur), ha
messo tra parentesi l'apertura all’infinito, col bel risultato di togliere all'uomo quell'elemento che lo
fa tale, dandogli senso e libertà.
Anche il credente respira un'aria in cui l'unico orizzonte è quello asfissiante del manufatto umano,
incapace di soddisfare la sete di senso sita nel cuore di ciascuno.
Per il giudeo-cristiano la preghiera è assai diversa da quella che scaturisce dal vago senso religioso
comune a tutti: è un rapporto fiducioso, filiale, rispettoso, creaturale, da persona a persona, con Dio,
unico interlocutore degno dell'uomo. Si va a lui non tanto per chiedergli qualcosa, perché ci dà
tutto - noi stessi. il mondo e se stesso! - quanto per ringraziarlo e amarlo, conoscerlo e vivere cosi
nella verità.
Il dialogo con Dio è l'arte suprema che fa essere l'uomo quello che è, nella sua dignità di partner di
Dio.

Gesù ha la sua vita in comunione col Padre. Per questo la preghiera è il punto d'arrivo della sua
giornata, la forza per non cadere in tentazione e la molla inesauribile della sua missione al fratelli.

Il discepolo impara cos'è la preghiera vedendo lui che prega. La descrizione essenziale che Marco
ne fa, ce ne fa comprendere gli elementi fondamentali.

2. Lettura dei testo

v. 35 E di buonora, in notte fionda, levatosi. Di notte l'uomo dorme. Se veglia, nel silenzio di ogni
creatura, si trova in solitudine col suo creatore, davanti al quale è ciò che è. Scopre così la propria
verità di confine tra il nulla e il tutto. Imparentato con ambedue, se fissa il primo, è angosciato, se
si volge al secondo, è raggiante (Sal 34,6). Le parole “di buonora, in notte fonda, levatosi”
richiamano il mattino di Pasqua (16,2), quando Gesù si levò dalla notte definitiva. Ciò significa che
la preghiera è la forza che vince le tenebre. Infatti è comunione con Dio, sorgente di vita.

uscì in luogo deserto. Le parole “uscire” e “deserto” richiamano l'esodo. La preghiera impedisce
all'uomo di sedersi - sarebbe una trappola mortale - e lo fa uscire dalla schiavitù e dal rumori di ciò
che fa e di ciò che gli fanno, per trovarsi nel deserto, dove può ascoltare l'essenziale.

e là pregava. La preghiera di Gesù è il suo rapporto di Figlio con il Padre, che è venuto ad aprire a
tutti i fratelli.
Marco presenta Gesù in preghiera tre volte, in tre momenti chiave di tentazione e sempre di notte:
qui, dopo il primo giorno, prototipo di ogni giorno, dopo il fatto dei pani (6,46) e nell'agonia
nell'orto (14,32 ss).
Come sarà stata la sua preghiera? Nella tradizione biblica essa è caratterizzata da un dialogo
fiducioso, familiare, da amico a amico, Insistente, che si interessa degli altri e intercede per loro (cf
Gn 18,22-32); è la forza per vincere il nemico (cf Es 17,8-13); è la semplicità di srotolare davanti al
Signore le proprie angustie, oscurità e minacce (cf 2Re 19,10-19); ha l'aspetto di una lotta con Dio,
che percepiamo come nemico, perché ci toglie le maschere e ci svela il nostro vero nome (cf Gn
32,23-33). Nel NT anche lui leva la maschera che gli abbiamo appiccicato e rivela il suo vero nome
di Padre (cf 14,32-42); e noi ci scopriamo figli. Nella preghiera otteniamo infallibilmente lo Spirito
Santo (cf Lc 11,9-13), la vita di Dio, l'amore reciproco tra Padre e Figlio. il cui frutto è il
cambiamento radicale della nostra esistenza in una vita filiale e fraterna (cf Gal 5,22).

v. 36 lo inseguì Simone. Pietro non segue ancora solo Gesù, ma anche i suoi desideri, che vede
realizzarsi in lui. Crede ormai di averli perseguiti, lui si presta a cogliere l'occasione opportuna.
Per questo lo insegue, quasi lo perseguita.

v. 37 Tutti ti cercano. Per noi cercare Gesù, il volto di Dio, è Il fine ella vita. “Di te ha detto il mio
cuore: Cercate il suo volto” (Sal 27,8). Ma per Gesù è la prima tentazione, che ha in comune con
ogni uomo: quella di cercare il proprio io. L'io, quando cerca se stesso, è il nemico mortale
dell'uomo, perché chiude all'altro.

v.38 Andiamo altrove. Gesù conosce e respinge questa tentazione di tana, che già ha affrontato nel
deserto. La forza per vincere gli viene dalla preghiera. Questa, in quanto dialogo con l'Altro, è già
sconfitta all'egoismo, passaggio dall'io a Dio.
nei borghi vicini. Ciò che ha fatto a Cafarnao, deve essere fatto altrove, cominciando dai villaggi
più vicini, andando sempre più lontano, fino li estremi confini della terra.

perché anche là proclami. La comunione con il Padre che ama tutti i figli, è la spinta verso tutti i
fratelli. Anche i discepoli saranno inviati ad annunciare e a vincere il male nella misura in cui
staranno “con lui” J3-15), che sta sempre presso il Padre. Contemplazione e azione non
oppongono: la prima è sorgente della seconda, e questa deve portare a quella. Se uno non è unito a
Dio, la sua azione è un aiutarsi più dannoso e inutile. “Chi non è con me, dice Gesù, è contro di me,
e chi non raccoglie con me, disperde” (Lc 11,23).

Per questo sono uscito. È uscito non solo da Cafarnao. Lui è il Figlio cito dal Padre, per portare la
buona notizia a tutti i fratelli. Il suo ritorno pieno avverrà quando il vangelo sarà stato predicato a
tutte le genti (3,10).

v. 39 E venne. La sua uscita dal Padre è una venuta presso tutti noi.

annunciando e scacciando i demoni. È la sintesi del suo ministero: l'annuncio della parola di verità
che libera l'uomo dalla schiavitù della menzogna.

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, osservando il luogo: il deserto dove Gesù, di notte, si ritira in preghiera.
3. Chiedo ciò che voglio: di lasciarmi istruire dalla sua preghiera.
4.Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare: notte preghiera


uscire ti cercano
deserto andiamo altrove

4. Passi utili: Gn 18,22-32: Es 17,8-13; 2Re 19,10-19; Gn 32,23-33; Lc 11,9-13.

10. VOGLIO, SII MONDATO!


(1,40-45)
40
E viene a lui un lebbroso
invocandolo e cadendo in ginocchio
e dicendogli:
Se vuoi, puoi mondarmi!
41
E, commosso, tendendo la mano
lo toccò e gli dice:
Voglio!
Sii mondato!
42
E subito se ne andò da lui la lebbra
fu mondato.
43
E, sbuffando con lui,
lo mandò subito via,
44
e gli dice:
Guarda di non dir nulla a nessuno;
ma va', mostrati al sacerdote
e offri per la tua purificazione
ciò che Mosè prescrisse
in testimonianza per loro.
45
Ora egli, uscito, cominciò a proclamare molto
e a diffondere la Parola,
così che lui non poteva più entrare
in città apertamente;
ma se ne stava fuori
in luoghi deserti,
e venivano a lui da ogni parte.

1. Messaggio nel contesto

“Voglio, sii mondato!”, risponde Gesù. Per questo è uscito: per mondare l'uomo dalla sua lebbra.
Il lebbroso, già mentre vive, è un morto civile e religioso, tagliato fuori dalla società e dal culto.
Espulso nel deserto, senza relazioni con nessuno, è l'uomo gettato da vivo nell’inferno della
solitudine. L'unica legge che è tenuto ad osservare, è quella di autoescludersi gridando il suo male a
chi inavvertitamente lo avvicinasse (Lv 13,45). La vita non deve avvicinarsi alla morte; la sua
presenza la contamina.
Guarire un lebbroso è come risuscitare un morto: solo Dio può farlo (2 Re 5,7).
La lebbra, col suo disfarsi della carne, rappresenta visibilmente ciò che ognuno teme e sa come suo
futuro; è specchio di ogni vita, infetta di morte.
La legge, che discerne tra puro e impuro, tra bene e male, tra giusto e peccatore, non può che
giustamente distinguere, dividere e segregare. Nel vano tentativo di difendere la vita, non può far
altro che costatare la morte.
Gesù invece è la “buona notizia” di uno che tocca il lebbroso guarendolo, perdona il male
sanandolo, assolve il peccatore giustificandolo (brano seguente). Gli esclusi dalla legge -
addirittura i suoi trasgressori - sono i destinatari di questo dono. Infatti è il medico, venuto per i
malati e non per i sani (2,17).
Questo miracolo introduce una sezione di cinque dispute sulla differenza tra la legge e il vangelo.
Alla fine sarà decretata la morte di Gesù stesso (2,1-3,6).
Il lebbroso mondato rappresenta il passaggio dall'uomo vecchio, che la legge relega nella morte, a
quello nuovo, che annuncia la “buona notizia”. È figura del battezzato che, come Nahaman il Siro,
esce dal Giordano con la carne fresca di un bambino (2 Re 5,14). L'ex-lebbroso è il primo apostolo
di fatto, che Gesù stesso invia al tempio, annuncio vivente del vangelo. Il secondo apostolo sarà
l'ex-indemoniato, inviato presso i pagani (5,19).
Questo lebbroso, con pochi altri (5,25-34; 7,26 ss; 10,46-51), chiede un miracolo: sa cosa volere, e
chiede ciò che vuole. Gli altri non sanno cosa volere o non possono o non osano chiedere. Ciò che
Gesù fa a loro è un'istruzione per noi, che così sappiamo cosa volere e chiedergli: esattamente il
dono che fa loro. I suoi prodigi servono a liberare le nostre aspirazioni profonde, lasciate sopite
perché ritenute impossibili. Vedendo e invece realizza e, abbiamo il coraggio di sperare e
cominciamo a chiedere, aprendo la mano per ricevere ciò che lui ci vuol donare.
Le parole brevi che Gesù aggiunge al miracoli sono un'educazione di questi desideri: spiegano cosa
lui vuol darmi al di là dei miei stessi desideri, che restano sempre ambigui finché sono mossi più
dalle mie paure che dalle sue promesse. Solo così posso rispondere correttamente alla sua
domanda: “Cosa vuoi che io ti faccia?” (10,36.51), e chiedere ciò che voglio, volendo ciò che lui
vuol darmi. Il desiderio è la facoltà più alta dell'uomo: non produce nulla, ma è capace di tutto,
anche dell'impossibile - è capace di Dio stesso.
Nel miracolo non si dice né il nome né il luogo né il tempo, in modo che il nome sia il mio, il luogo
sia qui e il tempo sia ora. Quando ascolto il vangelo - l'ex-lebbroso stesso lo proclama come Gesù -
se mi converto e mi affido a Gesù, per me si realizza qui e ora ciò che viene raccontato.

Gesù esprime la sua volontà di “mondare” la nostra vita, liberandola dalla lebbra che la devasta. La
legge dichiara il male. Lui lo guarisce.

Discepolo è colui che gli chiede questo dono. Ogni dono può essere fatto solo a chi lo desidera.
Tutto ciò che Gesù fa e dice nel seguito del vangelo, è quanto vuol darmi e quanto posso, anzi devo,
desiderare da lui, con umiltà e fiducia, chiedendolo con insistenza.

2. Lettura dei testo

v. 40 viene a lui un lebbroso. Se qualcuno gli si avvicinava, il lebbroso doveva avvisarlo del
pericolo che correva, in modo che lo evitasse, gridando: “Immondo, immondo” (Lv 13,45).
Costui invece viene da Gesù. Solo gli esclusi, i non aventi diritto e gli impossibilitati hanno accesso
immediato a lui! Il mio diritto ad accostarmi al Signore non viene dal fatto che sono giusto e degno,
bello e buono. Proprio perché ingiusto e immondo, brutto e peccatore, ho il diritto di andare da lui
direttamente. Questo è il “vangelo”, la buona notizia che i salva: Dio mi ama perché mi ama; la mia
miseria non è ostacolo, bensì misura della sua misericordia. Lui non è la legge che mi giudica né la
coscienza che mi condanna: è il Padre che dà la vita, e mi ama più di se tesso, senza condizioni, così
come sono. Il mio male, la mia non-amabiltà lo spingono verso di me con un amore che non
conosce altro metro che quello del mio bisogno.
Gesù significa: Dio salva. Proprio e solo nella mia perdizione posso conoscerlo.

invocandolo e cadendo in ginocchio. I1 pudore a invocare a salvezza e a mettersi in ginocchio


davanti al Salvatore, è come quello di chi non osa dire al medico il suo male. È un falso pudore che
viene dal nemico, una sprovveduta autosufficienza che maschera un'autoinsufficienza senza
speranza.
All'invocazione con la voce, si accompagna il gesto del corpo: si inginocchia. L'invocazione
esprime il bisogno. L'uomo ha bisogno di tante cose, che gli sembrano impossibili. Ma è soprattutto
malato d'impossibile: è bisogno di Dio stesso. Per questo è invocazione. Questa ottiene
l'impossibile. Ogni brano del vangelo mi fa vedere un mio bisogno, ed educa il mio desiderio a
formularsi nell'invocazione corrispondente.

Se vuoi, puoi mondarmi. “Sei venuto a rovinarci!” è l'esclamazione del male, che si difende e cerca
di identificarsi con l'uomo. Questa invece è la preghiera dell'uomo che conosce il male e vuol
guarire. È la prima preghiera rivolta a Gesù: esprime un desiderio, unica possibilità per ricevere un
dono. Dove manca, Gesù stesso lo provoca con la sua domanda: “Vuoi essere guarito?” (Gv 5,6).
Il lebbroso non solo desidera, ma sa che Gesù può guarirlo. A una simile domanda di guarigione
dalla lebbra, il re d'Israele rispose: “Sono forse Dio per dare la morte o la vita?” (2Re 5,7). Così
Marco prepara la domanda di tutto il vangelo che uscirà nel brano seguente: chi è costui, che fa tali
cose?
Questo lebbroso sa cosa vuole - la sua lebbra è evidente! -, intuisce la possibilità nuova e chiede (cf
il cieco di Gerico: 10,46 ss); ma ancora non sa se Gesù vuole. Il Signore rivelerà di non volere
altro.
v. 41 commosso. La parola indica un muoversi delle viscere. È l'attributo materno di Dio, che è
amore per l'uomo. Dio si commuove davanti al nostro male, perché è Dio e non uomo (Os 11,9). “Si
dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il frutto delle sue
viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai”, dice Dio (Is
49,15).
Altri codici leggono “adiratosi”. L'ira di Dio è il suo intervento salvifico: è l'ira contro il male che
uccide suo figlio.

tendendo la mano. La mano è segno di azione. La “mano tesa” è attributo di Dio che compie i
prodigi dell'esodo (Es 4,4; 7,19; 8,l; 9,22; 14,16; 21,26 s). Qui il Signore compie più di un gesto
creatore: con la sua potenza fece una vita per la morte; ora con la sua compassione cambia la morte
in vita. È il suo gesto salvatore, che porterà a compimento quando tenderà tutte e due le braccia
sulla croce.

lo toccò. Il contatto con Gesù, salvezza dell'uomo, è la fede, che mette comunione con lui (cf 5,25-
34). Toccare suppone vicinanza estrema e ore. È importante notare che solo i malati toccano Gesù o
sono toccati lui. Il nostro limite - il nostro male e il nostro peccato - è il luogo dove entriamo in
contatto con lui. Dall'alto della nostra giustizia non toccheremo mai l'Altissimo. Solo nell'abisso
della nostra miseria siamo toccati dalla sua infinita misericordia.

Voglio. La volontà di Gesù è la stessa di Dio, “il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati” (1Tm
2,4). Gesù la esprime perché smettiamo di sperare, e desideriamo ciò che non osiamo sperare. Il
suo desiderio è chiaro; e desidera che sia anche il nostro.

Sii mondato! La guarigione dalla lebbra significa non solo l'essere reintegrato nella società civile e
religiosa; è figura anche della salvezza dalla morte, di cui il disfarsi della carne è un anticipo. La
nostra vera lebbra è paura stessa della morte, che infetta tutta la nostra vita e sta all'origine della
“febbre” del brano precedente.

v. 42 E subito se ne andò la lebbra. Al nostro desiderio espresso come vocazione, viene sempre
incontro il suo tocco; e la sua parola ci libera.

v. 43 sbuffando con lui, lo mandò via. È strano questo gesto di sbuffare. Forse voleva stare con lui,
come l'uomo di Gerasa, e fargli propaganda indesiderata. È un'espressione forte, e corrisponde allo
“sgridare” di 3,12; 8,30; 10,48. Gesù vuole segretezza. L'ex-lebbroso ha una missione compiere, e
lo “mandò via” (= gettò fuori) per questa, come lui stesso dopo il battesimo, fu “gettato fuori” dallo
Spirito nel deserto (v. 12).

v. 44 non dir nulla a nessuno. Gesù ha sbuffato contro di lui per sottolineare questa proibizione.
Come in quasi tutti i miracoli, c'è il cosiddetto segreto messianico” (cf v. 35), che di solito viene
trasgredito. Ma qui è trasgredito per ordine dello stesso che proibisce di parlare! La contraddizione
manifesta sta forse a richiamare il lettore. Quest'ingiunzione al silenzio vale per lui, che sarà
autorizzato a raccontare quanto ha udito solo quando, come l'ex-lebbroso, l'avrà sperimentato in
prima persona (cf. anche l'indemoniato di Gerasa, 5,19).

ma va', mostrati al sacerdote, ecc. Lo manda via per compiere questa missione presso i custodi
della legge. La guarigione dalla lebbra, secondo Lv 13,49, deve essere costatata dai sacerdoti.

in testimonianza per loro. In questo modo il lebbroso testimonia che c'è o che fa ciò che alla legge
è impossibile: tocca un lebbroso e lo monda. La legge può solo descrivere e segregare il male. Chi
sarà costui che lo vince?
Questa testimonianza è a favore o contro i sacerdoti? A favore, se l'accolgono, contro, se non
l'accolgono.

v. 45 cominciò a proclamare molto e a diffondere la Parola. “Proclamare” e “diffondere la parola”


sono termini tecnici della missione. L’ex-lebbroso, primo apostolo mandato ai sacerdoti, è
evangelizzazione vivente: ha sperimentato in prima persona la misericordia del Signore verso di lui,
e l'annuncia agli altri. Il vangelo sarà sempre annunciato da chi non conta. Perché il vangelo è
Gesù, la pietra scartata diventata testata d'angolo ( 12,10).

non poteva più entrare in città apertamente; ma se ne stava fuori in luoghi deserti. Ciò che la legge
prescrive al lebbroso, ora colpisce Gesù che lo ha toccato: dimora fuori dall'abitato nel deserto.
Toccandoci, si è caricato del nostro male; la nostra lebbra si è scaricata su di lui (cf Is 53,3-5).

venivano a lui da ogni parte. Quando cala la sera e finisce il giorno dell'uomo, l'azione di Dio si
dilata a dismisura (cf vv. 32-34). Così ora, mentre Gesù si ritira, tutti accorrono a lui (cf 3,7 ss!). È
l'anticipo di quando, innalzato, attirerà tutti a sé. E chi lo vedrà sarà salvato (Gv 12,32; 3,14 s).
Egli è il centro, verso il quale accorre chiunque, come il lebbroso, ha riconosciuto il proprio bisogno
e chi può soddisfarlo.

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, osservando il luogo, fuori dall'abitato, in cui Gesù incontra il lebbroso.
3. Chiedo ciò che voglio: “Se vuoi, puoi mondarmi”.
4. Traendone frutto, mi identifico con il lebbroso, e osservo ogni parola.

Da notare: invocare lo toccò


cadere in ginocchio voglio, sii mondato
se vuoi, puoi mondarmi va'...

4. Passi utili: Lv 13,1-2.44-46; 2Re 5,1 ss; Is 53,3-5; 1,16-19.


11. IL FIGLIO DELL'UOMO HA POTERE DI RIMETTERE I
PECCATI SULLA TERRA
(2,1-12)

21Ed entrato di nuovo giorni dopo in Cafarnao,


si udì che è in casa.
2
E si riunirono molti,
così che non c'era più posto
neanche davanti alla porta,
e diceva loro la Parola.
3
E giungono portando a lui
un paralitico
sollevato da quattro.
4
E, non potendo portarglielo dinanzi
a causa della folla,
scoperchiarono il tetto dove si trovava
e, fatta un'apertura,
calano il lettino
dove giaceva il paralitico.
5
E vista Gesù la loro fede,
dice al paralitico:
Figliolo,
sono rimessi a te i peccati.
6
Ora c'erano alcuni degli scribi
lì seduti
a ragionare nei loro cuori:
7
Perché costui parla così?
Bestemmia!
Chi può rimettere peccati
se non il solo Dio?
8
E subito, conosciuto Gesù nel suo spirito
che così ragionavano in se stessi,
dice loro:
9 Perché così ragionate nei vostri cuori?
Che cosa è più facile:
dire al paralitico:
Sono rimessi a te i peccati
o dire:
Risvegliati,
solleva il tuo lettino
e cammina?
10
Ora, perché sappiate
che il Figlio dell'uomo
ha potere
di rimettere i peccati
sulla terra,
11
dice al paralitico:
Io ti dico:
Risvegliati
solleva il tuo lettino
e va' alla tua casa!
12
E fu risvegliato
e subito, sollevato il lettino,
uscì davanti a tutti,
sì che rimasero meravigliati tutti
e glorificavano Dio dicendo:
Così non abbiamo mai visto!

1. Messaggio nel contesto

“Il Figlio dell'uomo ha potere di rimettere i peccati stilla terra”, dice Gesù mentre perdona al
paralitico e lo fa camminare. “Così non abbiamo mai visto”, esclamano tutti in coro.
Solo Dio, può guarire dalla lebbra (2Re 5,7); solo lui può rimettere i peccati. Se la lebbra è la
malattia mortale che distrugge l'esterno, il peccato è la malattia mortale che distrugge l'interno
dell'uomo: è una paralisi, che gli impedisce di muoversi e di raggiungere Dio. Gesù purifica la
nostra vita dalla morte proprio perdonando il peccato e rimettendoci sul nostro cammino.
Con questo racconto inizia una serie di cinque discussioni tra legge e vangelo (2,1-3,6), tra lettera
che uccide e Spirito che dà la vita (2Cor 3,6). Fin dall'inizio del suo ministero in Galilea, Gesù
viene a trovarsi in conflitto con le autorità religiose, che ben presto si accorderanno con quelle civili
per ucciderlo (3,6). Anche al termine della sua attività, ci saranno altre cinque discussioni (11,27-
12,37), nelle quali specificherà il “suo” potere, di cui qui parla.
In questa, come nelle seguenti dispute, non solo si rivendica la libertà cristiana dalla schiavitù della
legge e si risolvono dei problemi scottanti per la comunità cristiana, quali la sua commensalità coi
peccatori (vv. 15-17), il digiuno (vv. 19-22) e la festa (vv. 2,23-3,6). Si tratta soprattutto di
riconoscere il “potere” di Gesù, ciò che è venuto a fare sulla terra: egli è venuto a darci quei doni
che la legge non poteva darci, ma dei quali ci aveva suscitato il desiderio, mostrandocene la
mancanza e facendocene sentire il bisogno. Nessuna legge può far amare. E il comando di Dio è di
amarlo (Dt 6,4 ss). Solo nel perdono, scoprendo e accogliendo il suo amore gratuito, diventiamo
capaci di amare come siamo amati. Per questo il potere di Gesù, il suo unico potere, è lo stesso di
Dio: perdonare.

La legge è buona perché distingue il bene dal male, la vita dalla more. Ma non salva nessuno; anzi
ci condanna tutti, perché seguiamo la via del male e della morte. Per la nostra coscienza, se non ci
difendiamo, essa suona continuamente rimprovero e denuncia. Il cuore che sa la verità non mente a
se stesso, è sempre compunto, convinto di peccato.
La legge ha come fine quello di farci vedere la nostra lebbra, di mostrarci la nostra paralisi e di
convincerci del nostro peccato, perché possiamo rivolgerci al medico, sapendo cosa chiedere con
fede e conoscendo il dono che riceviamo. È il “pedagogo” che porta il discepolo recalcitrante dal
Maestro (Gal 3,24). La sua funzione è indispensabile per condurci di continuo davanti al perdono
di Dio, dove solo è superata. Per questo la legge è perenne; ma la sua funzione, anche se
ineliminabile è transitoria, perché cessa una volta che si è raggiunta la grazia.
Il Vangelo è la buona notizia che Dio non è né la legge né la coscienza, ed è più grande del mio
cuore (1Gv 3,20). Egli è puro amore e grazia; si prende cura del mio male e della mia morte; invece
di escludermi, mi tocca come il lebbroso; invece di condannarmi, mi perdona come il paralitico.
Così mi guarisce da ciò che mi impedisce di camminare per la via del bene e della vita.
Si può dire che, come la legge è la diagnosi del male, così il vangelo ne è la terapia. Per quanto
diverse, sono ambedue necessarie, come una buona diagnosi è indispensabile per una terapia
adeguata.
Il centro del brano è il perdono del peccato, che nessuna legge e nessuna coscienza può concedere.
In questo racconto è In gioco sia la vera immagine di Dio, che è misericordia e perdono, sia la
divinità di Gesù, che ha il potere di rimettere i peccati, sia la salvezza dell'uomo, che finalmente sa
di essere amato senza condizioni.

Gesù è il Figlio dell'uomo che ha in terra il potere di Dio: rimettere i peccati. Qui dichiara
espressamente e per l'unica volta il motivo di tutti i suoi miracoli e della sua missione (cf v. 17):
mostrare questo potere. Il perdono non solo è divino, ma è Dio stesso, la cui potenza è amore senza
limiti.

Il discepolo è colui che per fede si sa perdonato e graziato da Gesù. Si sente non più diviso, ma
riconciliato con Dio, con sé e con gli altri. La Chiesa è raffigurata come la casa dalla porta
spalancata alle folle, al cui centro sta lui stesso, verso il quale tutti accorrono. Sopra di lui anche il
tetto è scoperchiato, aperto verso il cielo. Ogni male e peccato cadono su di lui, che in croce porterà
la nostra paralisi. Così potremo camminare verso la casa del Padre.

2. Lettura dei testo

v. 1 giorni dopo. Dopo la guarigione del lebbroso Gesù si era ritirato in luoghi deserti. Da qui
passa clandestinamente alla casa, dove però vengono a sapere che si trova.

si udì che è in casa. La casa, che accoglie i figli, è una figura materna, immagine della Chiesa. Al
suo centro sta Gesù che “dice la Parola”. Probabilmente è la casa di Pietro, dove già ha compiuto il
miracolo del servizio (1,29-31). Per questo è ora luogo di accoglienza per tutti. Sarà addirittura
scoperchiata, per accogliere ciò che è calato dall'alto (At 10,9 ss).

v. 2 E si riunirono. In greco c'è la parola syn-ágo, da cui deriva la parola “sinagoga”, luogo di
riunione del popolo in ascolto della parola di Dio. Prima Gesù usava predicare nella sinagoga
(1,39). D'ora in poi ci entrerà solo ancora due volte, e solo per essere rifiutato (3,1-5; 6,1-6).
Questa casa va diventando la nuova sinagoga, sempre più piena e aperta, tanto che non c'è più posto
neanche davanti alla porta (cf anche 1, 33).

diceva la Parola. “Parola” nel NT equivale a “vangelo”, ed è Gesù stesso, che insieme è proclamato
e proclama il vangelo di Dio (cf 1,1.14). Quando udiamo la Parola, ascoltiamo lui in persona.
L'annuncio è la voce; ma la Parola è lui stesso. Percepiamo quella con l'orecchio e questa il cuore.

v. 3 un paralitico. L'uomo è essenzialmente viator. A struttura “eccentrica”, col suo centro fuori di
sé, cammina per raggiungerlo. L’immobilismo è il suo fallimento. Gli impedisce di raggiungere il
suo fine. La Bibbia ci dice che è stata la paura e il non conoscere dove andare a paralizzarlo. È una
paralisi maligna, che viene dal veleno del serpente, un blocco provocato dalla menzogna antica (Gn
3).

sollevato da quattro. Quattro è il numero cosmico: quattro sono gli elementi - acqua, aria, terra,
fuoco -, i punti cardinali e le dimensioni del cosmo. Finora sono quattro anche i chiamati: Simone e
Andrea, Giacomo e Giovanni. Tutto porta a Cristo! Come tutto sussiste in lui e fu fatto mezzo di
lui, così tutto tende verso di lui (Col 1,16 s). I Padri hanno visto in questi i quattro evangelisti, il cui
annuncio, perpetuato nel secoli, a tutti gli uomini a Gesù.
non potendo portarglielo dinanzi a causa della folla. La folla è come una siepe attorno a Gesù. Per
raggiungerlo bisogna uscirne, facendo passo in avanti verso di lui. La folla è una massa di individui
tutti lì, chiusi in sé e tra di loro. È il contrario dei popolo, che è un insieme differenziato e ordinato
di persone in relazione una con l'altra. L’ascolto della parola di Gesù segna il passaggio da
individuo a persona, da folla a popolo.

scoperchiarono il tetto. Gesù, Parola di salvezza, è nascosto sia nella lettera del vangelo come il
grano nella pula, sia nell'umanità della Chiesa come una persona nella sua casa. Dobbiamo con la
lettura aprire il vangelo per conoscerlo, e con la fede penetrare nel mistero della Chiesa per
incontrarlo.

calano. Dove sta Gesù, sia nel vangelo che nella Chiesa, si entra solo calati dall'alto mediante la
fede di altri fratelli, che sta all'origine della nostra.

il lettino dove giaceva il paralitico. Il letto per uno sano è il luogo di riposo. Per un malato è il
luogo di contenzione. È come la legge: pienezza di vita per chi la osserva - e chi la osserva? -, è
carcere per chi la trasgredisce (Gal 3,22 s). Ma a Dio è piaciuto rinchiudere tutti nella
disobbedienza per usare a tutti misericordia (Rm 11,32). Questo giaciglio, nominato per ben quattro
volte, è importante.

v. 5 E vista Gesù la loro fede. Il paralitico non ha ancora fede; se l'avesse, camminerebbe, perché
credere è seguire Gesù (cf 1,15-20). Si parla della fede dei suoi portatori. Chi già cammina, porta a
Gesù chi ancora è legato dal male. Il credente è responsabile davanti a Dio dei mondo. Chi ancora
non crede è portato a Cristo dalla sua fede, che diventa così carità.

sono rimessi a te. Rimettere significa allontanare, mandar via. I peccati, che prima aderivano e
avvolgevano l'uomo tenendolo legato, ora sono allontanati da lui.

i peccati. Peccare in ebraico significa essere deviato, mancare l'obiettivo, come una freccia che
fallisce il bersaglio. Il peccatore è un uomo sviato dal suo fine. Fatto per Dio, a sua immagine e
somiglianza, la menzogna del serpente gli ha messo paura e sfiducia nei suoi confronti. Fuggendo
da lui, è rimasto nudo, spoglio anche di sé. Cos'è un'immagine che si allontana dalla realtà di cui è
riflesso? L'uomo senza Dio è alienato dal proprio io. Questa è la vera alienazione religiosa di oggi
e di sempre. Perdendo Dio, l'uomo perde se stesso. Rimane creatura mancata, senza principio e
senza fine, senza radici e senza senso. Immagine e somiglianza ormai solo del nulla, scompare e
svapora come un ruscello che si stacca dalla propria sorgente. Ma rimane sempre nostalgia della
sua verità. Non può accettarsi così! Per questo spende la sua vita a litigare con sé - e, come con sé,
anche con gli altri - nell'inutile tentativo di coprire con foglie di fico la sua nudità. Tutti abbiamo
peccato, e siamo privi della gloria di Dio (Rm 3,23). Chi dice di non aver peccato, fa menzognero
Dio (1Gv 1,10). Il vero peccato è quello di non riconoscerlo (cf Gv 9,4 1 ).
In sintesi si può dire che il peccato è in radice l'ignoranza dell'amore di Dio per noi. Lo pensiamo sì
come Padre, ma in quanto datore della legge e giudice severo. Ignoriamo che è madre, amore e
accoglienza infinita per tutte le sue creature.
Né più né meno del religioso, anche l'ateo è vittima della falsa immagine di Dio - esattamente
quella che rifiuta. In verità la nostra epoca, come qualunque altra, non è atea: è solo idolatra. È
interessante notare come “idolatria” significhi culto dell'immagine. L'uomo è per sua natura
insufficiente in sé perché relativo all'altro, e, in ultima istanza, all'Altro. ( trova in lui la propria
realtà, o si perde nel culto dell'immagine, inabissato nel vuoto dell'apparenza. L'angoscia mortale è
il posto vacante di Dio nel cuore dell'uomo: se non si volge a lui, sempre gli resta; e nessun idolo
può colmarla.
Notiamo anche come in un mondo ateo il senso di colpa prevalga su quello dei peccato. La colpa
infatti è nei confronti della propria immagine, il peccato nei confronti dell'Altro. Se dalla finestra
faccio cadere un sasso in testa a un estraneo, mi sento in colpa, dispiaciuto anche, e forse
soprattutto, per ciò che ho fatto; se cade in testa a un amico, sono dispiaciuto per ciò che si è fatto. È
anche importante notare che la colpa conosce solo l'espiazione; il peccato invece conosce il
perdono.

v. 6 scribi. In questo brano c'è l'incontro-scontro tra il potere di Gesù e quello degli scribi (cf 1,22).
Sono gli esperti della legge, che dichiara il bene e il male. Essa, lungi dal giustificare l'uomo,
maledice chiunque non rimane fedele a tutte le sue prescrizioni (Gal 3,10). Ma ha la funzione
positiva di portarmi davanti al Maestro. Mostrandomi la mia realtà sciagurata (cf Rm 7,14 ss), mi
fa invocare nella mia miseria la sua misericordia, nel mio peccato il suo perdono, nella mia
perdizione la sua salvezza. L'economia della legge trova il suo compimento in Cristo. L’antica
alleanza della legge prepara alla nuova, quella del perdono (cf Ger 1,31 ss).

seduti. Sono immobili come il paralitico, come Levi il peccatore (cf 2,14). La loro paralisi è nel
cuore.

ragionare nel loro cuori. In greco c'è dialoghízo, che significa fare i conti, ragionare. Si tratta di un
parlare non con l'altro, ma tra sé e sé. È un soliloquio infernale, un dialogo mancato. Un monologo
è parola contro la natura della parola, perché non comunica con nessuno. È capace solo di
distribuire condanne e dare morte. Nei vv. 6.8 esce ben tre volte.

v. 7 Bestemmia. Nel segreto del cuore è già concepito il verdetto della condanna di Gesù. Taciuto
per tutto il vangelo, verrà espresso solo quando potrà sicuramente colpirlo: il sinedrio lo accuserà di
bestemmia e ne decreterà la morte (14,64). Gli scribi accusano Gesù perché, perdonando peccati, si
fa Dio. Non è questo il primo e tremendo peccato: “sarete come Dio” (Gn 3,5)? Ignorano che la
vera bestemmia è la loro falsa immagine di un Dio simile all'uomo, che non perdona. Ucciso per
bestemmia, Gesù ci mostrerà chi è Dio e si mostrerà come Dio (15,39). In cambio del perdono che
ci accorda riceve la condanna che gli infliggiamo.

Chi può rimettere peccati se non il solo Dio? (cf Es 34,7; Is 43,25; 44,22). Dio, principio della vita,
è l'unico che può vincere il caos del peccato, origine della morte. Solo chi ha creato può ricreare ciò
che il peccato ha decretato. Se amare è dare la vita, perdonare è far risorgere un morto; e questo
non lo può nessuno, se non il creatore della vita.

v. 8 conosciuto Gesù nel suo spirito. Anche il soliloquio più recondito ne1 cuore più chiuso è
trasparente per colui per il quale il nostro cuore è fatto. Per questo Gesù lo conosce. E lo
manifesta, non per svergognarci, ma per trasformarlo in dialogo.

v. 9 Che cosa è più facile, ecc. Tutte e due le cose sono impossibili all'uomo, sia rimettere i peccati,
sia far camminare il paralitico. Gesù fa quella visibile come segno di quella invisibile, più difficile
e profonda.

v. 10 perché sappiate. Gesù dichiara per l'unica volta il motivo dei suoi miracoli. Servono a noi per
sapere la realtà che lui porta: la riconciliazione. Sono le credenziali della sua missione divina.

il Figlio dell'uomo. Gesù applicava a sé volentieri quest'espressione misteriosa che, secondo che
l'uditore è disposto a intendere, può significare semplicemente uomo (cf Ez 2,1) o prendere il posto
stesso di Dio (cf Dn 7,13). Egli è il Figlio di Dio che si è fatto Figlio dell'uomo, nostro fratello e
servo, per donarci l'amore e il perdono del Padre per tutti i suoi figli. Ci ha raccontato ciò che
ignoravamo: come colui che liberamente ci ha creati, ci ama necessariamente di amore eterno (Ger
31,3).

potere. La parola greca (exousia) traduce l'ebraica shaltan che indica il potere di Dio. Se il potere
dell'uomo è quello di peccare e distruggere, quello di Dio è perdonare e suscitare vita. È il potere
suo unico, ben diverso dal nostro che può dare la morte (Gv 19,10b).

sulla terra. Il potere di perdonare, che era solo in cielo con Dio, ora è sulla terra con il Figlio
dell'uomo. Lui, facendosi peccato e maledizione, ci ha riscattati dalla schiavitù del male. Lo ha
fatto a caro prezzo: a prezzo del suo sangue! Sulla croce ha distrutto il chirografo della nostra
condanna e ha abbattuto ogni divisione tra gli uomini e Dio e degli uomini tra loro (cf 2Cor 5,21;
Gal 3,13; 1Cor 6,20; 7,23; Col 2,14 s; Ef 2,15 s). Ora, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Là
dove abbondò il peccato, sovrabbonda la grazia. Questo non significa che ora possiamo peccare
tranquillamente (cf Rm 8,31; 5,20; 3,8; 6,1.15). Significa invece che per sua grazia possiamo già
qui in terra vivere liberi dal peccato, capaci di amare come lui ci ama. Ma, siccome la nostra vita è
sempre un cammino, imperfetto fino alla fine, anche se il nostro cuore ci rimprovera qualcosa,
sappiamo che lui è più grande del nostro cuore (1Gv 3,19 s) e ci perdona. È in questo perdono, per
la prima volta, conosciamo Dio. Nell'attuale economia, nessun giusto lo conosce, ma solo chi è
salvato dal peccato.

v. 11 Io ti dico. Si sottolinea il potere della parola di Gesù: opera quello che dice, per chi l'accoglie
con fede, ossia non quale parola di uomo, ma come è veramente, quale parola di Dio (1 Ts 2,13).

Risvegliati (cf v. 9). Svegliarsi è una delle due parole che indicano la risurrezione di Gesù; l'altra è
levarsi, sorgere. Il perdono è una risurrezione. Svegliati, o tu che dormi nel sonno del peccato. È
giunta la tua luce, Cristo, e alla sua luce puoi camminare (cf Ef 5,14).

solleva il tuo lettino. Prima ti ha portato fino a Gesù; ora lo puoi portare. Questo lettuccio è come
la legge: prima ti teneva imprigionato, dichiarandoti colpevole e destinato alla morte, perché la
trasgredivi. Proprio essa ti ha condotto da chi perdona; ora sei risorto e puoi portare il suo giogo,
che è divenuto soave e dona la vita.

va' alla tua casa. La casa dell'uomo è Dio. Se ne era allontanato, ed era incapace di camminare
verso di lui. Ora finalmente è guarito e può mettersi a seguire il cammino del Figlio che lo porta a
casa dal Padre. Il brano, iniziato con Gesù in casa, termina con il paralitico che va verso la sua
casa. Dio ha preso casa tra noi perché noi trovassimo casa in lui. Tutta la nostra vita, come prima
era una fuga, ora è un ritorno. L'esilio è diventato pellegrinaggio. Ora l'uomo è risorto, cammina e
sa dove andare.

v. 12 E fu risvegliato. Per la terza volta esce questa parola. Il perdono dei peccati è guarigione
dalla morte, perché abilita a camminare verso il Padre, vita del figlio.

davanti a tutti. Si sottolinea che il miracolo è pubblico. In genere Gesù preferisce farli di nascosto,
in privato. Ma qui vuol indicare a tutti il senso della sua azione.

meravigliati. Alla lettera: estasiati, ossia fuori di sé. Questa meraviglia profonda strappa l'uomo a
se stesso e gli fa trovare nell'altro la sua identità. È il contrario del monologo tra sé degli scribi.

glorificavano Dio. La gloria di Dio è l'uomo vivente (Ireneo). E la visione di un Dio che ama e
perdona è la vita dell'uomo.
Così non abbiamo mai visto. È la novità assoluta della buona notizia: l'uomo è liberato dal suo
peccato. Gesù rende visibile quel Dio d'amore che nessuno mai prima d'ora aveva visto.

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, osservando il luogo: la casa, a Cafarnao. Probabilmente la stessa di Pietro, in
cui aveva guarito sua suocera.
3. Chiedo ciò che voglio: Signore, ho visto che “vuoi” mondarmi. Fa' che sappia che tu hai il
potere di perdonare e allontana da me il peccato che mi paralizza. Guarisci i miei piedi,
perché possa percorrere il tuo cammino e seguirti in una vita come la tua.
4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare: casa bestemmiare


Parola risvegliare
rimettere i peccati Figlio dell'uomo
ragionare potere

4. Passi utili: Gio 4,2; Is 54,1-10; 2Cor 5,14-21; Rm 5,6-11; 8,31-39.

12. NON VENNI A CHIAMARE I GIUSTI, MA I PECCATORI


(2,13-17)
13
E uscì di nuovo lungo il mare
tutta la folla veniva a lui
e li ammaestrava.
14
E, andando avanti,
vide Levi di Alfeo
seduto alla gabella
e gli dice:
Segui me!
E, risorto,
lo seguì.
15
E avviene che si sdraia a mensa nella sua casa,
e molti gabellieri e peccatori
giacevano con Gesù e i suoi discepoli
erano infatti molti
e lo seguivano.
16
E gli scribi dei farisei,
vedendo che mangia
con i peccatori e gabellieri,
dicevano ai suoi discepoli:
Perché mangia con i gabellieri e peccatori?
17
E, udito, Gesù dice loro:
Non hanno bisogno i sani del medico,
ma i malati;
non venni a chiamare i giusti, ma i peccatori!

1. Messaggio nel contesto

“Non venni a chiamare i giusti, ma i peccatori”, dice Gesù. Ma sulla terra “non c'è nessun giusto,
nemmeno uno” (Rm 3,10 = Sal 14,1 ss), perché “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di
Dio” (Rm 3,23). Il Signore quindi è venuto per tutti; è il medico, il Salvatore di tutti. Però lo
accolgono solo quelli che sanno di essere malati e perduti. I giusti restano sempre sulla lista d'attesa
della salvezza, fin che non si riconoscano peccatori. Prima non possono essere salvati.
Come i pescatori (1,16-20), così anche i peccatori sono chiamati alla fede. Il perdono, di cui al
brano precedente, diventa vocazione a una vita nuova. Il paralitico guarito cammina; il peccatore
perdonato segue Gesù. Anche Levi, paralizzato alla gabella, risorge e lo segue, e si incammina
verso la sua casa, dove mangia con il Signore. Insieme ci sono tanti altri che lo seguono, e pur
continuano ancora ad essere peccatori.
Abbiamo qui due scene strettamente collegate: la chiamata di Levi (vv. 13 s) e il pasto coi peccatori
(vv. 15-17). La prima chiarisce che il nostro peccato non impedisce la chiamata di Gesù: il suo
pasto con i peccatori mostra la pazienza che egli ha verso chi lo segue, ma non ha ancora rotto del
tutto con il male. L'eucaristia, di cui il pasto è immagine, non è solo cibo dei perfetti. È anche
medicina dei deboli, viatico di tutti quelli che sono sfiduciati, ai quali rimane ancora un troppo
lungo viaggio da fare (1 Re 19,8). Per questo, volendo “celebrare degnamente i santi misteri”, non
dobbiamo ritenerci giusti, ma “riconosciamo i nostri peccati”; e accediamo alla comunione con lui
non prima di aver detto: “Signore, non sono degno”.

Gesù è il medico, venuto a portare la misericordia del Padre. Egli è amore gratuito, la cui
grandezza non è in proporzione ai meriti, ma al bisogno. Alla mamma non sta più a cuore il figlio
più disgraziato? La salvezza è accogliere questo amore, sorgente di una vita nuova. Uno infatti sa
amare se e come è amato.

Il discepolo fa parte di una comunità che non esclude nessuno: è la casa scoperchiata, al cui centro
sta Gesù con il paralitico-peccatore. Gli ultimi e i lontani sono i più vicini. Se si chiude ai
peccatori, esclude il suo Signore, che si è fatto peccato per noi (2 Cor 5,21): diventa, invece di una
comunità cattolica, aperta a tutti i figli di Dio, (“cattolico” = universale), una setta di persone che
pretendono di essere giuste, perché osservano tutte le leggi di Dio - tranne quella principale, che ci
rende simili a lui: amare tutti con il suo stesso amore, che è direttamente proporzionale alla non
amabilità.

2. Lettura del testo

v. 13 uscì di nuovo. Nel vangelo di Marco Gesù “esce” e “cammina” di continuo. La sua vita è
tutta un esodo, che traccia per noi la via da seguire.

lungo il mare. Lo scenario è lo stesso della chiamata dei primi quattro (1,16-20).

ammaestrava. L'imperfetto indica un'azione cominciata nel passato e non ancora finita. Il suo
insegnamento infatti continua anche adesso attraverso l'annuncio del vangelo. Marco sottolinea
molto l'attività didattica di Gesù (23 volte): riserva a lui la parola “insegnare” e “insegnamento”,
con la sola eccezione di 6,30.
v. 14 vide. Come nelle altre due chiamate precedenti (cf 1,16-19), è in gioco innanzitutto lo
sguardo, ossia il cuore di Gesù. Colui che si considerava come un “vermiciattolo” - e che gli altri
così consideravano - vede in esso la verità di quanto il Signore ha detto: “Tu sei prezioso ai miei
occhi, perché sei degno di stima e io ti amo”. Per questo “non temere, perché lo ti ho riscattato, ti
ho chiamato per nome, tu mi appartieni” (Is 41,14: 43,4.1). Nella nota raffigurazione del
Caravaggio, lo sguardo di Gesù è un fascio di luce che alza Levi dal vortice delle tenere.

Levi di Alfeo. La tradizione lo identifica con Matteo.

seduto. Il paralitico giaceva a letto; Levi sta seduto, come paralizzato, a quel luogo che per lui è la
sua vita.

alla gabella. La chiamata di Gesù è rivolta a persone che stanno facendo altro. Si volge a gente
che sta pescando, lavorando, contando soldi! La potenza creatrice del suo sguardo e della sua
parola fa cose sempre più difficili. A Dio tutto è possibile. Anche chiamare alla salvezza uno tutto
intento ad arricchire. Paolo sarà chiamato addirittura mentre, “fremente minaccia e strage contro i
discepoli del Signore”, andava verso Damasco per metterli in catene (At 9,1 ss).

segui me. La fede cristiana è piedi per seguire il Signore. Si segue solo chi si ama, per poter stare
“con lui” (cf 3,14).

risorto. Il paralitico, che dormiva nel letto del suo peccato, è risvegliato. Levi, che è morto nella
gabbia del suo egoismo, è fatto risorgere a una vita nuova.

seguì. Il tempo (aoristo) sottolinea l'inizio del cammino: ha cominciato a seguirlo. Lascia tutto per
la grande gioia: ha scoperto il tesoro della sua vita, ha trovato la perla preziosa (Mt 13,44 ss).

v. 15 si sdraia a mensa. Secondo l'usanza dell'epoca, per i pasti solenni ci si stendeva su divani.
Luca sottolinea che si tratta di un grande ricevimento (Lc 5,29).

nella sua casa. Il paralitico poté camminare verso casa sua. Levi può accogliere Gesù in casa sua.
In essa l'uomo e il suo Signore mangiano (= vivono) insieme. La vera dimora di Dio è l'uomo che
egli ama, la vera dimora dell'uomo è Dio stesso, da amare con tutto il cuore. Lo Spirito Santo è la
vita di ambedue!

molti gabellieri e peccatori. I peccatori sono i trasgressori della legge. I gabellieri erano peccatori
particolarmente detestati: avevano in appalto la riscossione delle tasse per conto di padroni stranieri.
Odiati da tutti per il loro mestiere, erano accomunati ai pagani oppressori, alle cui dipendenze
stavano. “Peccatori” significava allora anche “pagani”, la commensalità coi quali suscitava
problemi nella prima comunità cristiana (cf At 11,3; Gal 2,11 s).

giacevano con Gesù. Il tempo del verbo, imperfetto, indica un'azione continuata. Per Gesù era
abituale stare a pranzo dai peccatori. Tra loro iniziò il suo ministero nel battesimo, in mezzo a loro
lo finirà sulla croce. Lo rimproveravano di essere “mangione e beone”, “amico dei pubblicani e dei
peccatori” (Mt 11,19; Lc 7,34). La parola “giacere” è la stessa che si usa per l'eucaristia, quando
Gesù celebra la sua pasqua, mangiando con i suoi l'ultima cena (14,17).
Il banchetto è un'immagine frequente del regno di Dio. Mangiare insieme è un atto di intimità, di
pace e di letizia. Sono i familiari che mangiano insieme! Ora Dio e uomo - uomo peccatore -
siedono alla stessa mensa; sono della stessa famiglia.
Gesù non solo perdona i peccati (brano precedente). Fa di più: condivide la sua vita coi peccatori.
Il suo esempio ci insegna a staccarci non dai peccatori, ma dal peccato. Da questo ci libera la
comunione con il “medico”, venuto a guarirci proprio mediante un perdono che diventa solidarietà
piena nella commensalità fraterna.

erano infatti molti. Si sottolinea la moltitudine dei peccatori. È un invito a riconoscersi tra di loro.
Non siamo soli! Infatti chi è senza peccato?

lo seguivano. Seguire Gesù significa essere discepoli. Il tempo (imperfetto) indica che lo seguono
abitualmente. E come mai sono ancora peccatori?! Ma non è questa anche la nostra esperienza (cf
Rm 7,14-24)? Che fare?

v. 16 gli scribi dei farisei Gli scribi sono gli esperti e i farisei gli osservanti della legge. Si tratta
quindi di esperti osservanti. Sono come Paolo, che, prima della conversione, si considerava
irreprensibile nell'osservanza della legge (Fil 3,6).

vedendo che mangia con i peccatori e gabellieri. Si sottolinea per la seconda volta il fatto, come è
visto dagli occhi dei “buoni”. Se Gesù fosse peccatore, niente di strano: starebbe con i suoi pari!
Lo scandaloso è che un giusto stia con gli ingiusti. 0 il Signore stesso è peccatore - cosa impossibile
-, o sta facendo qualcosa che realmente va oltre ogni giustizia. Prima si diceva che i peccatori
sedevano a mensa con lui, ora si dice che lui mangia con loro: c'è reciprocità. “Ecco, sto alla porta e
busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, lo verrà da lui, cenerò con lui ed egli con
me” (Ap 3,20).

dicevano ai suoi discepoli. I farisei non esprimono mai ciò che pensano a Gesù, se non per tendergli
tranelli. Parlano in genere tra sé o parlano a un altro di un altro. Qui parlano del loro maestro ai
discepoli (cf v. 24!), che avranno pensato allo stesso modo. Questo problema infatti si è presentato
di continuo alla comunità cristiana: che fare con chi segue, ma non è ancora perfetto? Che fare con
i peccatori nella Chiesa? Come comportarsi con i pagani?

Perché mangia con i gabellieri e peccatori? Si sottolinea per la terza volta il problema, ora giunto
ad espressione verbale. È importante notare che mangiare significa vivere, e mangiare insieme con
Gesù indica la comunione di vita con lui.
“Giacere” e “mangiare” richiamano le parole del memoriale eucaristico, in cui Gesù dona se stesso.

v.17 Gesù dice loro. La domanda è rivolta al discepoli; la risposta però viene da lui. Questo è il
modo di procedere proprio della Chiesa: ogni questione che le si presenta, deve trovare in lui la sua
risposta. Ciò che lui ha fatto e detto è la nuova legge. Ogni problema va risolto rifacendosi a1 suo
esempio. Dobbiamo trattare con i peccatori né più né meno come ha fatto lui. Egli detesta il male,
ma perché ama il malato. Noi invece, quando detestiamo il malato, è perché amiamo il male. Gesù
odia il peccato e predilige i peccatori. Noi invece odiamo i peccatori perché ancora siamo schiavi
del peccato. Quando ameremo i fratelli con la tenerezza infinita del Padre, partendo dagli ultimi,
allora sarà perfetto in noi l’amore del Figlio, e saremo simili a lui (cf Lc 6,27-38).

Non hanno bisogno i sani. Sani, validi e forti, sono quelli che si ritengono giusti e autosufficienti.
Bastano a se stessi e rifiutano la salvezza. Offerta anche a loro, la disdegnano, perché credono di
non averne bisogno. In realtà è perché la ignorano. Pensano solo all'osservanza della legge. Ma
questa condanna tutti. Solo l'amore gratuito e misericordioso di Dio salva tutti.

medico. Nell'AT il medico è Dio stesso. Solo lui può curare l'uomo, come solo l'amato può curare
la ferita d'amore. L'uomo è fatto per Dio, e solo “mangiando con lui” guarisce la sua malattia
mortale.
i malati. La funzione della legge non è giustificare, bensì convincere di peccato. Ci mostra il
nostro male, perché andiamo dal medico. È il “pedagogo”, cioè lo schiavo che anticamente
conduceva a frustate il figlio ribelle dal maestro (Gal 3,24).

non venni a chiamare i giusti. La missione del Figlio dell'uomo sulla terra è quella di perdonare i
peccatori, rivelando l'amore gratuito del Padre, unica salvezza dei figli. Chi non siede a mensa con
i peccatori, non mangia con lui che mangia con loro. Si esclude dalla salvezza, e non incontra chi lo
guarisce dal suo male. Chi si ritiene giusto, anche se osservasse tutte le leggi, non osserva l'unica
che dà vita: l'amore gratuito. Inoltre s’imbroglia: si arrocca nella propria giustizia per difendersi da
Dio, quasi fosse cattivo. Questa non conoscenza del suo amore è il peccato radicale, radice di ogni
peccato. È quello di Giona, che rimprovera il Signore di essere “misericordioso e clemente,
longanime, di grande amore e che si lascia impietosire”. Proprio così: il giusto rimprovera Dio di
essere Dio, e arriva a dire: “Se è così, toglimi la vita, perché meglio è per me morire che vivere”
(Gio 4,2s). È veramente grande il male dal quale il giusto deve essere liberato! È una cecità che
rimane, fin che crede di vederci bene (cf Gv 9,41).
D'altra parte anche i peccatori sono sempre tentati di diventare come i giusti. Pure il figliol prodigo
torna a casa con lo stolto pensiero di diventare come il fratello maggiore - pensiero che il padre si
premura subito di non dargli neanche il tempo di esprimere, tanto gli dispiace (Lc 15,19b. 21s).

ma i peccatori. Il peccatore, che trasgredisce la legge, sarà in grado di viverla nella misura in cui si
sente amato e perdonato: è salvato e giustificato (= fatto giusto) dalla grazia di Cristo, che lo abilita
a seguirlo. Il giusto invece è perduto e convinto di peccato: mangia in solitudine la sua dura
pagnotta di sudore, che non dà vita (cf Sal 127,2) fin tanto che rifiuta l'invito al grande banchetto
imbandito per i peccatori.
La nuova giustizia è ricevere questo amore gratuito che ci rende capaci di riamare come siamo
amati. Ciò che non può nessuna legge, ci è donato per grazia. Ma è una risposta progressiva, un
cammino che dura tutta la vita. Saremo sempre imperfetti e migliorabili, ma non per questo
desistiamo dal seguirlo, né lui desiste dal “mangiare” con noi. Per questo dobbiamo sempre
graziarci a vicenda, come Dio ha graziato noi in Cristo (Ef 4,32).
Se nella Chiesa si escludono dalla comunità i pubblici peccatori, non è certo per dire che Dio non li
ama. Anzi, che io stesso sia anatema da Cristo per amore loro (Rm 9,3), direbbe Paolo, che ben
conosce i1 suo amore per loro (2Cor 5,14 s). Lo facciamo solo per denunciare il peccato. È un
servizio di misericordia anche questo! Ma deve risultare chiaro che non sono condannati. Se sono
segregati dagli altri, è per avere di loro una cura maggiore, oltre che per non contaminare i più
deboli. Chi volesse escluderli, va certamente contro la volontà di Gesù, medico dell’uomo e
salvatore dei peccatori.
Il male e le debolezze, che rimangono nel credente, non solo non devono essere motivo di condanna
da parte di altri, ma neppure di scoraggiamento e di tristezza da parte dell'interessato. Come è il
luogo del perdono altrui, così è motivo di fiducia e di umiltà, che attira ogni benedizione. Nulla
ormai ci può più separare dall'amore che Dio ha per noi in Cristo Gesù, che ha dato la vita per noi
mentre eravamo ancora peccatori (Rm 8,39; 5,8).

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, osservando il luogo: siamo a Cafarnao. La prima scena è sulla strada lungo il
lago di Galilea, dove Levi siede alla gabella; la seconda nella sua casa.
3. Chiedo ciò che voglio: chiedo a Gesù di conoscere nella mia miseria la sua misericordia.
Il mio peccato non deve bloccarmi e paralizzarmi; è il luogo dove incontro la sua grazia.
Lui è il medico venuto a guarirmi perché possa seguirlo.
4. Traendone frutto, vedo chi sono le persone, guardo quello che fanno, ascolto che cosa
dicono.

Da notare: mare risorgere mangiare


ammaestrare giacere a mensa medico
vedere gabellieri e peccatori giusti/peccatori
seguire farisei

4. Passi utili: Giona; Lc 15; Os 2,16-25; Sal 32.

13. LO SPOSO È CON LORO


(2,18-22)

18
E c'erano i discepoli di Giovanni e i farisei
che digiunavano;
e vengono e gli dicono:
Perché i discepoli di Giovanni
e i discepoli dei farisei
digiunano,
mentre i tuoi discepoli
non digiunano?
19
E disse loro Gesù:
Possono forse i figli delle nozze
digiunare,
mentre lo sposo è con loro?
Per quel tempo in cui hanno
lo sposo con loro,
non possono digiunare!
20
Ma verranno giorni
quando sarà loro tolto lo sposo,
e allora digiuneranno
in quel giorno.
21
Nessuno cuce
una toppa da uno scampolo greggio
su un vestito vecchio,
se no il rattoppo strappa da questo,
il nuovo dal vecchio,
e si fa uno sbrego peggiore.
22
E nessuno getta
vino nuovo
in otri vecchi,
se no il vino
romperà gli otri,
e si perde
il vino e gli otri.
Ma vino nuovo
in otri nuovi.

1. Messaggio nel contesto

“Lo sposo è con loro”, dice Gesù dei discepoli. Per questo non digiunano. Il banchetto del brano
precedente richiama per contrasto il digiuno. I peccatori, nel perdono del Figlio dell'uomo,
mangiano e godono; i giusti, chiusi nella difesa della propria giustizia, digiunano e sono tristi (v.
18).
Mangiare significa vivere - e la vita dell’uomo è corrispondere all'amore gratuito di Dio. Questo è
il suo comando, che dà la vita (12,30; cf Dt 6,5; Lc 10,25.28). Ma amare Dio è possibile solo perché
lui per primo ci ha amati (1 Gv 4,19): “mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20),
quand'ero ancora peccatore (cf Rm 5,8). Per questo i peccatori banchettano. I giusti invece
digiunano perché ignorano quest'amore.
Tutti intenti a meritarlo, non si accorgono che l'amore meritato non è né gratuito né amore; se ne
tagliano fuori proprio con il loro sforzo di conquistarlo.
Il nostro mangiare da peccatori perdonati con il Signore non è un banchetto qualunque. È un
banchetto nuziale (v. 19). Questa è la gioia gloriosa e ineffabile che nessuno avrebbe osato
supporre: in Gesù si celeranno le nozze di Dio con l'umanità. Lui si è unito a noi per unirci a sé; si
è fatto uomo perché l'uomo diventasse Dio. Ora i due vivono in comunione e intimità di vita,
formano una carne sola e hanno un unico spirito. Tutta la Scrittura ci parla dell'“amore folle”
(Cabasilas) del Signore; racconta dell'eccessivo amore con cui ci ha amati (Ef 2,4). Dalle prime
pagine della Genesi, attraverso i profeti e il Cantico, fino all'Apocalisse, egli rivendica di essere
l'unico nostro interlocutore, il nostro partner geloso. Il rapporto donna-uomo è figura del rapporto
uomo-Dio. Egli ci ha amati di amore eterno (Ger 31,3). Discepolo è colui che ha conosciuto e
creduto a quest'amore di Dio per lui (1Gv 4,16): dice il suo sì a chi da sempre gli ha detto sì, e vive
nella gioia dell'unione. Se nel passato digiunava nell'attesa dello sposo, ora gode della sua
presenza. Anche lui conoscerà il “digiuno” (v. 20), nei giorni di tribolazione, quando lo sposo berrà
il calice della morte. Ma questo digiuno gli ricorderà la sorgente della sua vita, quando il Signore si
farà suo cibo, unendosi a lui indissolubilmente.
Il v. 21 sottolinea la novità assoluta che Gesù porta. Al suo banchetto non si può partecipare col
vestito vecchio della legge, rattoppato con pezze nuove: ci si entra solo col vestito nuovo della sua
misericordia.
Chi cerca ancora la giustificazione nella legge, non ha più nulla a che fare con Cristo: è decaduto
dalla grazia (Gal 5,4). Infatti: “Se uno è in Cristo, è una creatura nuova. Le cose vecchie sono
passate, ecco, ne sono nate di nuove” (2Cor 5,17).
L'immagine del vino nuovo (v. 22) ribadisce la stessa verità, aggiungendo una sfumatura: il vino è
segno di gioia e di amore. Nel banchetto con Gesù ci è donata una vita nuova: lo Spirito Santo,
l'amore stesso di Dio promesso per gli ultimi giorni. Questa si effonde ebbra e spumeggiante, ed è
incontenibile in otri vecchi. Il cuore di pietra era l'otre vecchio per la lettera che uccide; il cuore di
carne è l'otre nuovo per lo Spirito che dà vita (2Cor 3,6).

Gesù parla del nostro rapporto con lui attraverso immagini semplici, che rispondono a esperienze
primordiali: cibo, amore, vestito, bevanda. Egli è lo sposo, che dà inizio al banchetto nuziale al
quale si accede col vestito nuovo, e nel quale ci si abbevera di uno Spirito nuovo. Ciò che è vecchio
è passato; ogni sua promessa è mantenuta, ogni nostra attesa compiuta: comincia la novità del
vangelo, la vita nella gioia del sì reciproco tra Dio e uomo. Con questa prospettiva si conclude tutta
la Scrittura (cf Ap 22).

Il discepolo è unito al suo Signore come la sposa allo sposo. L'altra parte dell'uomo è Dio! Questo
mistero è grande (Ef 5,32): è il grande segreto dell'universo.
2. Lettura del testo

v. 18 i discepoli di Giovanni. Per loro la salvezza è colui che deve venire. Ma non sanno che è già
venuto. Tutti intenti al futuro, non vedono il presente. Anche noi cristiani spesso rischiamo di fare
come loro, quando pensiamo che, quando ci saranno tempi migliori, “allora sì” potremo vivere la
nostra fede, mentre ora è impossibile.

i farisei. Per loro la salvezza è l'osservanza della legge. Sposati con la propria giustizia - che non
può essere che presunta - sono tutti attenti al passato, a ciò che è stato detto! La parola ha sostituito
colui che parla e ne trascurano la presenza.
Anche noi cristiani spesso rischiamo di essere come i farisei, quando pensiamo che “una volta sì”
che si poteva vivere la fede, quando le condizioni erano ideali, mentre ora è impossibile.

digiunano. Il digiuno consiste in una volontaria privazione di cibo (= vita). È un atto religioso con
cui riconosciamo che la vita non ci appartiene. In quanto creature, l'abbiamo e non l'abbiamo: la
riceviamo in dono, e accettiamo alla fine di esserne privi, quando moriremo. Col digiuno
affermiamo anche che il cibo materiale non è la nostra vita, ed esprimiamo desiderio di quello
spirituale. Ma di digiuno non si vive, anzi si muore! Tutti i giusti, di qualunque tipo, sono in
digiuno permanente. Per loro la vita sta tutt'al più nel futuro o nel passato, mai nel presente.

i tuoi discepoli non digiunano. Per i discepoli e per i peccatori la vita è sente nel perdono di Dio
che il Figlio dell’uomo è venuto a portare. È finito il tempo dell'attesa: il regno di Dio è qui. Chi si
volge al Signore e segue, mangia con lui, e vive la pienezza di gioia alla quale Dio ha destinato
l'uomo.

v. 19 lo sposo. Lo sposo è l'attributo di JHWH (cf Osea, Cantico, Ez ecc.). Lui è l'altra parte, senza
la quale l'uomo è radicalmente solo, identico a se stesso. Amarlo con tutto il cuore e unirsi a lui, è
la sua vita (Dt 30,20), il fine per cui è stato creato. Questa è la sua vera dignità, principio del suo
essere persona, unica, irrepetibile e libera davanti a tutto.
L'amore nuziale è il più bel modo per esprimere il nostro rapporto Dio, nella sua forza esplosiva e
nella sua intima tenerezza, nella sua gioia vitale e nella sua travolgente passionalità, nel suo rispetto
disinteressato e nella sua fedeltà ad oltranza. “Come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà il
tuo architetto. Come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te!”. Perciò anch'io
“gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti
di salvezza, ecc.” (Is 62,5; 61,10). Con la venuta di Gesù, si compie la promessa fatta alla sposa
infedele: “Ti farò mia sposa per sempre e tu conoscerai il Signore” (Os 2,21 s). Chiamandosi sposo,
Dio ci dato la più bella definizione di sé e di noi. Sposo e sposa sono due termini relativi, dei quali
uno non può stare senza l'altro. Colui che liberamente ci ha fatti, necessariamente ci ama di amore
eterno (Ger 31,3). E ci prega: “Ascolta, amami con tutto il cuore (Dt 6,4), perché anch'io ti amo e
non posso non amarti. L'amore vuol essere liberamente amato. Ti comando di amarmi non per
toglierti la libertà, ma perché tu non oseresti mai farlo. La menzogna ti ha chiuso il cuore a me, ma
io voglio riaprirtelo. Sì, sono innamorato di te”. Il re si è invaghito della tua bellezza (Sal 12), e
dice: “Quanto sei bella e quanto sei graziosa, o amore, figlia di delizie! Un re è stato preso dalle tue
trecce. Tu mi hai rapito il cuore con solo tuo sguardo” (Ct 4,9).
La verità dell'uomo è l'amore di Dio per lui; la sua grandezza è quella di amarlo.
E uno diventa ciò che ama. Lo stesso amore che ha fatto di Dio un uomo, è capace di fare
dell'uomo Dio.
è con loro. Dio, che è amore, desidera stare con chi ama: ha posto la sua delizia tra i figli dell'uomo
(Pr 8,31). Egli è l'Emmanuele, il “Dio con noi”. Relazione d'amore in sé tra Padre e Figlio, è
relazione con tutti e tra tutti. Anche se noi l'abbiamo abbandonato, lui non ci ha abbandonati.
Nell'umanità di Gesù ora è perennemente presente, e non ci lascia più. Egli, il solo che può colmare
la nostra solitudine abissale, “ci consola in ogni nostra tribolazione” (2Cor 1,4). Forza della nostra
vita è la sua gioia (Ne 8, 10), segno indubitabile della sua presenza.

v. 20 verranno giorni. Sono i giorni del travaglio e della croce, che il nostro sposo di sangue
affronterà per darci la prova del suo amore più forte della morte (Ct 8,6).

quando sarà loro tolto lo sposo. Il venerdì santo sarà per i discepoli un giorno di digiuno. Ma in
qualche misura siamo sempre un po' di venerdì. Perché la gioia della sua presenza - condizione
ideale della nostra vita - per ora è piena solo nella speranza. Il suo possesso non è ancora definitivo.
Passa attraverso la croce e l'ascensione, in cui il Signore ci è sottratto. Lui ha fatto della sua vita
una ricerca di noi; anche noi, come la sposa del Cantico, facciamo della nostra vita una ricerca di
lui.

allora digiuneranno. Quelli che già hanno pregustato il banchetto si ritroveranno in cammino, per
seguire colui che amano. Alla gioia dell'incontro, succede la fatica della ricerca, l'aridità della croce
quotidiana, la pesantezza dell'attesa. Quando lui è con noi, tutto è gioioso e facile; quando si
sottrae, riemerge la pena di vivere: hai nascosto il tuo volto, e sono rimasto turbato (Sal 30,8). È
come un digiuno che ci resta da fare. La nostra vita è tra il già e il non ancora: non è più quella
della sposa che lo cerca senza trovarlo, ma non è ancora l'abbraccio definitivo. Siamo come la
Maddalena, che l'ha abbracciato, ma, prima di stringerlo, ha ancora un cammino da fare. Questo è
il nostro digiuno, ma senza tristezza, col capo profumato (Mt 6,17), certi che se moriamo con lui,
con lui anche vivremo (2 Tm 2,11).

v. 21 una toppa da uno scampolo greggio. Non si rovina una pezza di panno grezzo, totalmente
nuovo, non ancora lavato, per aggiustare un vestito vecchio, ma la si usa per fare un vestito nuovo.
Per questo il discepolo è esortato a rivestirsi dell'uomo nuovo, a rivestirsi del Signore Gesù Cristo
(Ef 4,24; Rm 13,14).

vestito vecchio. Cielo e terra sono il vestito di Dio (cf Sal 104,1 s; 102,26s). “Invecchieranno tutti
come un vestito e saranno cambiati” (Eb 1,11s). Con la venuta del Figlio dell’uomo sono nati cieli
nuovi e terra nuova; ciò che è vecchio è passato. Ecco, faccio tutto nuovo (Is 65,1 7; 2Cor 5,17; Ap
21,5). Anche il cieco getterà il suo mantello per rivestirsi della luce di Cristo (10,50).

il rattoppo. In greco, per indicare la pezza che riempie il buco (“rattoppo”), si usa una parola che
significa “pienezza” (pléronia). Con Gesù non c'è solo qualche pezzetto di novità: c'è la pienezza
del mondo nuovo e della vita nuova. “Se uno è in Cristo, è una creatura nuova” (2Cor 5,1 7).

si fa uno sbrego peggiore. Il panno nuovo strappa il vecchio sia perché bagnandosi si restringe, sia
perché, facendo maggior resistenza, concentra lo sforzo sulle cuciture. Non va bene combinare
vecchio e nuovo, passato e presente, legge e vangelo. Bisogna aver il coraggio di cambiare, non di
combinare. Il vangelo è un'insidia per gli equilibri prestabiliti in noi e fuori di noi: comporta
sempre una novità inconciliabile con il passato. Il vecchio ha avuto la sua utilità, ma ora cede il
posto alla novità del presente. L'attesa finisce nell'atteso, il cammino si placa nella meta, il moto
s'acquieta nel suo fine. Termina il digiuno e comincia il banchetto.

v. 22 vino nuovo. È lo Spirito nuovo, promesso dal profeta.


in otri vecchi. È l'uomo vecchio, venduto al peccato.

romperà gli otri. Lo Spirito di Cristo è la morte dell’uomo vecchio. Chiuso nella condanna della
legge. Nel perdono nasce l'uomo nuovo.

si perde il vino e gli otri. L'uomo cerca sempre di conciliare capra e cavoli. Vorrebbe il nuovo
senza perdere il vecchio. Ma, a un bivio, chi non ha il coraggio di scegliere, resta fermo e perde
tutte e due le strade. Chi vuol vivere lo Spirito di Cristo e resta attaccato alla legge e al suo modo
precedente di vivere, sperimenta solo la lacerazione di una cattiva coscienza.

vino nuovo in otri nuovi. Lo Spirito esige e dà un cuore nuovo, di carne, otre nuovo per il vino
nuovo. E crea anche strutture nuove, con rapporti diversi da quelli scontati. Il credente ha deposto
“l'uomo vecchio con la condotta di prima”, si è rivestito “dell'uomo nuovo, creato secondo Dio,
nella giustizia e nella santità vera” (Ef 4,22.24).

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, osservando il luogo: la sala dove Gesù banchetta coi peccatori.
3. Chiedo ciò che voglio: chiedo a Dio di gioire della gioia che lui ha per me; “gioisco
pienamente nel Signore” (Is 61,10), che gioisce per me “come gioisce lo sposo per la sposa”
(Is 62,5).
4. Traendone frutto, vedo, ascolto, osservo le persone: chi sono, cosa dicono, cosa fanno.

Da notare: digiunare panno nuovo/vestito vecchio


banchetto vino nuovo/otri vecchi
sposo

4. Passi utili: Cantico dei Cantici; Is 54,1-17; 61,10 s; 62,4-5; Ez 16; Os 1-3; Sal 45; Rm 6,1-14; Ef
4,20-32.

14. SIGNORE È IL FIGLIO DELL'UOMO ANCHE DEL SABATO


(2,23-28)

23
E avvenne che lui di sabato
passava per i seminati,
e i suoi discepoli cominciarono
a fare cammino
cogliendo le spighe.
24
E i farisei dicevano a lui:
Vedi cosa fanno di sabato,
che non è lecito?
25
E dice loro:
Non avete mai letto
cosa fece David,
quando ebbe bisogno
ed ebbe fame
lui e quelli con lui?
26
Come entrò nella casa di Dio
sotto Abiatar sommo sacerdote,
e mangiò i pani della proposizione,
che non è lecito mangiare
se non ai sacerdoti,
e diede
anche a quelli che erano con lui?
27
E diceva loro:
Il sabato è fatto per l'uomo
e non l'uomo per il sabato.
28
E così Signore è il Figlio dell'uomo
anche del sabato.

1. Messaggio nel contesto

“Signore è il Figlio dell'uomo anche del sabato”. Il c. 2, iniziato con il Figlio dell'uomo che ha il
potere di rimettere i peccati, termina con il Figlio dell'uomo che è Signore anche del sabato. Tutto il
capitolo è una rivelazione progressiva dell'identità di colui che ha “toccato” il lebbroso: guarisce il
corpo e lo spirito, restaura la vita e offre la comunione con Dio, mangia con i peccatori e dà inizio al
banchetto nuziale. Con lui la creazione giunge al settimo giorno e attinge alla sorgente da cui è
scaturita. Ora è doveroso fare ciò che si pensava illecito: agire e mangiare di sabato, come Dio.
Abbiamo infatti la sua stessa vita. Questo è il dono definitivo che ci fa il Figlio dell'uomo. Le
trasgressioni sue e dei suoi indicano la novità del Regno, il passaggio dalla promessa al
compimento, che con lui è presente.
Il sabato è il giorno del Signore, Dio stesso come fine e riposo dell'uomo e di ogni suo giorno. In
questo senso l'uomo sarebbe fatto per il sabato; ma, non potendo perseguirlo a causa del peccato, il
sabato stesso gli viene incontro per donarsi a chi non poteva ormai più raggiungerlo.
Il brano ci presenta il Signore che, nel suo giorno, passa attraverso campi seminati. Quasi per
sovrimpressione, lui stesso è il grano maturo - siamo quindi verso pasqua! - le cui spighe colgono
quelli che stanno con lui. Per questo “cominciano a fare il viaggio”. Infatti rimane loro ancora un
lungo cammino per il quale hanno bisogno di questo cibo (cf 1Re 19,7).
L'immagine - in continuazione con quella del perdono, della chiamata, del banchetto nuziale, del
vestito e del vino nuovo - è un'allusione all'eucaristia, in cui i discepoli mangiano e vivono del
Signore che si è fatto loro pane. L'accenno è rafforzato dal richiamo a Davide, figura del messia, e
da ciò che fa nella “casa”: “mangia” “i pani” della proposizione e ne “dà” al suoi compagni che
sono “con” lui (cf 6,41 s; 14,22.17).
Questo cibo sabatico, alimento nuovo di cui l'uomo ormai si nutre, è Dio stesso che gli si dona
come sua vita.
Il codice D, nel parallelo di Luca 6, 5, aggiunge: “Lo stesso giorno, vedendo uno che lavorava in
giorno di sabato, gli disse: O uomo, se sai quello che fai, beato sei tu; ma, se non lo sai, sei un
maledetto e trasgressore della legge”.

Gesù, il Figlio dell'uomo, si rivela Cristo (messia) e Signore (cf anche l'ultima disputa, in cui
ricompare Davide: 12, 35-37). Con lui l'uomo opera e mangia di sabato, entra nella vita stessa di
Dio. Per questo è stato creato.
I discepoli sono quelli che stanno con lui, e vengono nutriti nel cammino dal suo pane. Essi hanno
la gioia di avere ciò che ogni uomo desidera e si crede vietato: la vita stessa di Dio.

2. Lettura dei testo

v. 23 di sabato. Di sabato si celebra il ricordo della liberazione d'Egitto (Dt 5,13-15), e si anticipa
la liberazione ultima da ogni male, in cui la creazione giunge al suo fine e Dio stesso riposa (Gn
1,1-2,3; Es 20,8-11). In esso è proibito ogni lavoro, perché è il giorno di Dio, in cui lui solo opera
per eccellenza con il suo riposo, facendo pregustare all'uomo la gioia del compimento della
creazione. Gesù - e qui anche i suoi discepoli - opera di sabato. Non a caso o per dispetto (Gv
5,16). La sua azione sabatica indica che il tempo è finito e tutta la storia ha raggiunto in lui suo
punto di arrivo: Dio stesso e il suo riposo. Gesù non trasgredisce il sabato, ma porta il sabato
all'uomo. Per questo i cristiani non celebrano festa di sabato, che è la fine della settimana; il giorno
del Signore (= domenica) è il primo della settimana, perché sempre è festa.

passava per i seminati. “Tu visiti la terra e la disseti. Al tuo passaggio stilla l'abbondanza. Stillano
i pascoli del deserto e le colline si cingono esultanza. I prati si coprono di greggi, le valli si
ammantano di grano; tutto canta e grida di gioia” (Sal 65,10.12-14). Al suo passaggio i campi
germinano frumento maturo: è la pasqua del Signore. Il grano maturo è lui, il Salvatore che
germoglia dalla terra (Is 45,8); in lui la nostra terra dato il suo frutto (Sal 67,7) e quelli con lui sono
i primi a goderne.

i discepoli cominciarono a fare cammino. Dopo il perdono del Figlio dell'uomo, il paralitico
cominciò a camminare. Con queste spighe inizia santo viaggio; è la vita nuova, l'intimità con il
Signore, il suo banchetto con noi.

cogliendo le spighe. Si può anche tradurre: “perché colgono le spighe”. Da qui la forza per iniziare
e continuare il cammino.

v. 24 cosa fanno di sabato, che non è lecito. Il sabato è come il frutto proibito, che l'uomo desidera,
ma non può prendere. È Dio stesso nel riposo, inaccessibile ad ogni attività umana. Ma non è
proprio Dio la vita dell'uomo, come dice Mosè: “È lui la tua vita” (Dt 30,20)? Per quell’uomo di
sabato non può lavorare, ma solo vivere del suo dono.

v. 25 Non avete letto. Gesù si riferisce a 1Sam 2 1,1 ss. Tutto l'AT è da leggere alla luce di ciò che
Gesù fa, che, a sua volta, ne viene illuminato nel suo vero significato.
Antico e nuovo testamento stanno tra loro come promessa e compimento: non si può comprendere
l'uno senza l'altro.

David. Per giustificarsi non occorreva scomodare Davide. Gesù lo fa perché questo re, da cui
sarebbe venuto il messia, ne è anche figura, soprattutto per la sua magnanimità e misericordia.

quelli con lui. I discepoli di Gesù sono equiparati ai compagni di Davide, al quale Gesù paragona se
stesso. Il messia doveva essere un discendente da lui (cf 2Sam 7), ma ben superiore a lui,
addirittura suo Signore (cf 12,35-37).

v. 26 mangiò i pani della proposizione (Es 25,30). Sono dodici come gli apostoli. Questi pani,
offerti ogni sabato, sono “posti davanti” alla faccia del Signore. “E alleanza. I pani saranno riservati
ad Aronne e ai suoi figli: essi li mangeranno in luogo santo, perché saranno per loro cosa
santissima” (Lv 24,8 s).
e diede. Come Gesù nella moltiplicazione dei pani e nell'ultima cena.

a quelli che erano con lui. Sono i suoi compagni, che dividono con lui il pane e la vita (cf 14,17). È
la più bella definizione del discepolo, fatto per essere con lui (3,14).

v. 27 Il sabato è fatto per l'uomo. Significa innanzi tutto che ogni legge, anche quella più sacra del
sabato, è a vantaggio dell'uomo. Questo perché nella creazione tutto fu fatto per lui, compreso il
sabato, che è figura del Signore stesso della vita. L'uomo è per Dio perché Dio per primo è per
l'uomo, come lo sposo per la sposa. Gesù non abolisce il sabato, ma ci fa entrare in esso, proprio
mediante quel frumento paragonato al “pane” che Davide nella “casa di Dio” “prese”, “mangiò” e
“diede” a quelli che erano “con lui”.
Ora non c'è più separazione tra sacro e profano, non perché tutto è profanato, ma perché tutto è
santo.

non l'uomo per il sabato. L'uomo sarebbe fatto per amare Dio e così giungere al sabato. Ma è
incapace. E Dio, nel suo amore, gli viene incontro nel Figlio dell'uomo.

v. 28 Signore. In greco: kúrios, traduce il nome ebraico di Dio.

è il Figlio dell'uomo. Gesù è il Figlio unico e diletto (1,11), uguale al Padre, Signore del sabato. Si
è fatto nostro fratello perché noi potessimo diventare figli di Dio e mangiare del sabato. Ora
comprendiamo perché il Figlio dell'uomo ha il potere in terra di rimettere i peccati (2,10), e quale
potere ha il suo perdono: quello di fare un'umanità nuova, in comunione con Dio.
Qui culmina la rivelazione di Gesù: è il Signore, venuto a comunicarci la sua vita.

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, osservando il luogo: Gesù che cammina attraverso campi di grano maturo,
seguito dai discepoli che ne mangiano.
3. Chiedo ciò che voglio: conoscere il mistero di Gesù, Signore del sabato, che mi fa dono del
suo cibo, di se stesso come mia vita.
4. Traendone frutto, vedo, ascolto e osservo le persone: chi sono, cosa dicono, cosa fanno.

Da notare: sabato il sabato è per l'uomo


lecito il Figlio dell'uomo è Signore del sabato
Davide

4. Passi utili: Dt 5,12-15; Is 58,13; Sal 81; Eb 3,7-19.


15. TENDI LA MANO
(3,1-6)

31 Ed entrò di nuovo nella sinagoga,


e c'era lì un uomo
che aveva la mano essiccata.
2
E lo osservavano
se lo avrebbe curato di sabato
per accusarlo.
3
E dice all'uomo
che aveva la mano essiccata:
Svegliati,
nel mezzo!
4
E dice loro:
è lecito di sabato
fare il bene
o fare il male,
salvare una vita o ucciderla?
5
Ma essi tacevano.
E guardandoli intorno con ira,
contristato per la durezza del loro cuore,
dice all'uomo:
Tendi la mano!
E la tese
e fu ristabilita la sua mano.
6
E usciti, i farisei subito con gli erodiani
tenevano consiglio contro di lui
come farlo perire.

1. Messaggio nel contesto

“Tendi la mano”. Qui punta tutta l'azione di Gesù: guarirci la mano, chiusa nel possesso e stecchita
nella morte, perché accolga il dono del sabato. Questo miracolo, dice Gesù, è questione di vita o di
morte. Se lo fa, ci salva; se non lo fa, è come ucciderci, perché ci lascia nella nostra morte. Non
basta che lui ci faccia il dono; ci deve dare anche la mano per prenderlo. Diversamente cade a terra.
Tutto ciò che finora ha fatto, e che culmina nel cibo sabatico, immagine della vita divina, Gesù lo
vuol donare a me personalmente. Guarisce quindi la mia mano, perché la tenda, libera il mio
desiderio, perché si protenda al suo dono. “Apri la tua bocca: la voglio riempire” (Sal 8 1,11).
È il miracolo più difficile di Gesù: gli costerà la vita. Infatti subito dopo il potere religioso si allea
con quello civile per eliminarlo. Ma la sua croce sarà insieme il più grande male e il massimo bene:
smaschererà satana e il male che ci fa impedendoci questo desiderio, e insieme rivelerà Dio e il
bene che ci vuole, capace di intenerire anche il cuore più indurito. Le sue mani inchiodate
scioglieranno la nostra mano rigida. Si profila all'orizzonte l'albero dal quale penderà quel frutto
verso cui possiamo e dobbiamo tendere la mano, per diventare come Dio.
Questo racconto chiude una tappa del vangelo, in cui Gesù ci ha rivelato chi è lui in ciò che fa per
noi. Segna anche una svolta decisiva nella sua vita: sarà costretto a “ritirarsi” definitivamente
“presso il mare” (v. 7). Lì, con la potenza della sua parola, Inizierà il nuovo esodo (c. 4). Libererà il
popolo dalla schiavitù del male, della malattia e della morte (c.5) e lo convocherà nel deserto, dove
lo nutrirà con la sua manna (cc. 6-8).Sono i sacramenti fondamentali della Chiesa: l'annuncio, il
battesimo e l'eucaristia, che sono rispettivamente la chiamata alla vita nuova, il dono e lo sviluppo
di essa.

Gesù completa la sua rivelazione: colui che vuol mondarci dalla lebbra è il Figlio dell'uomo che
perdona e dà piedi per seguirlo, mangia coi peccatori e si proclama medico e sposo, fa il dono del
sabato e guarisce la mano per riceverlo. È lo stesso che finirà in croce portando su di sé la nostra
lebbra, il nostro peccato, la nostra paralisi, il nostro digiuno, il nostro silenzio, la nostra durezza di
cuore. In cambio dei bene che ci dà, avrà tutto il male che ci spetta.

Discepolo è colui al quale il Signore apre il cuore e la mano, per desiderare quanto lui è venuto a
dare. L'uomo, fatto per amare, è di sua natura desiderio. Gli manca sempre l'essenziale, l'infinito di
cui è bisogno. Tutto quanto produce non lo riempie: è inferiore a lui. Fatto per l'altro, non può
produrlo, ma solo accoglierlo. Il desiderio non fa nulla; eppure tutto accoglie, ed è capace di tutto,
anche di Dio. Questi, che non è raggiunto da nessuna nostra azione, è attratto dal nostro vuoto.
Togliere all'uomo il desiderio, è togliere all'uccello un'ala: invece di spiccare il volo, gira
goffamente su se stesso.

2. Lettura del testo

v. 1 entrò di nuovo nella sinagoga. All'inizio la sinagoga era il luogo privilegiato dell'attività di
Gesù: egli è la Parola che sta di casa dove si ascolta. Rifiutato nella sinagoga (qui e 6,1-6), la sua
casa sarà la cerchia dei suoi uditori (vv. 31 ss). Nella sinagoga aveva liberato dallo spirito del male.
Ora apre la mano. Per ascoltarlo infatti occorre essere liberati dalla menzogna, in modo da
desiderare il dono che vuol fare.

la mano. La mano è fatta per ricevere, per lavorare e per dare. È desiderio quando si apre per
accogliere, è lavoro quando opera per completare la creazione, è dono quando fiorisce nella
condivisione. Sostituendo la presa del morso, distingue l'uomo dall'animale e lo rende simile a Dio.
Tutte le scienze e le tecniche non sono che un arto artificiale, in grado di sostituire la mano, ma solo
nel lavoro (homo faber), non nel ricevere e nel dare, espressioni di un cuore che è amato e ama. Se
questo resta chiuso, la mano si serra nel possesso, in un delirio di potenza incontrollato, capace solo
di morte. Con la mano l'uomo opera ogni bene e ogni male.

essiccata. È senza linfa vitale, incapace di aprirsi per accogliere il dono, accrescerlo nel lavoro e
mantenerlo nella condivisione. Da quando la menzogna di satana ci fece tendere la mano all'albero
del bene e dei male, ci siamo chiusi nella nostra falsa autosufficienza. La mano essiccata è figura
del nostro cuore duro, insensibile e diffidente.

v. 2 lo osservavano. L'occhio è fatto per stupirsi. Guarda l'altro e lo lascia entrare nel cuore. La
paura lo ha reso cattivo e ha capovolto la sua funzione: si guarda dall'altro e lo giudica, si difende e
lo uccide. In questo brano si parla di mano, di occhi, di bocca (tacevano) e di cuore: tutto è chiuso
per il bene, ma tremendamente aperto per il male.

v. 3 dice all'uomo. Questo miracolo, a differenza degli altri, è tutto iniziativa di Gesù, che, oltre il
dono del sabato, deve creare mani per prenderlo.

Svegliati. È la stessa parola che dice al paralitico (2,11). Indica la risurrezione.


nel mezzo. L'uomo è posto al centro della sinagoga, In cui si ascolta la legge: “Amerai il Signore
Dio tuo, ecc.” (12,30; DÈ6,4 s; Lv 19,18). Essa dice cos'è la vita, ma non dà la capacità di
conseguirla. La mano secca rappresenta la condanna della legge che porta chi si sa condannato
davanti al Salvatore.
L'uomo, posto da Gesù nel mezzo, fa da specchio a tutti quelli che stanno intorno per sorvegliarlo.

v. 4 È lecito di sabato. È la stessa domanda che fecero a lui in 2,24. La liceità di un'azione dipende
dal criteri che si usano. Per questo bisogna distinguere bene se sono di Dio o meno.
Quelli di Dio, che è amore, sono buoni e salvano la vita. Gli altri non sono da lui.

fare il bene o fare il male. La domanda di Gesù spiazza ogni possibile risposta. È chiaro che non è
lecito fare il male. Sia di sabato, che in altro giorno, bisogna sempre fare il bene. Il problema è che
l'uomo è impotente a fare il bene che vuole, e ad evitare il male che non vuole: è schiavo del
peccato (cf Rm 7,14 ss). Gesù qui, tagliando ogni discussione, pone la domanda retorica per
rivelare ciò che in realtà sta accadendo: lui di sabato fa il bene, salva la vita, ed è condannato come
trasgressore; mentre i suoi avversari, in silenzio, fanno il male e uccidono la vita, tramando la sua
morte.

salvare una vita. È il principio di ogni azione dell'uomo: mosso dalla paura della morte, fa tutto per
salvarsi. Ma proprio così diventa egoista, e perde la vita (cf 8,35). Per salvarla bisogna aprire la
mano, e accogliere Dio, il suo dono e il suo perdono, la sua intimità e il suo cibo.

o ucciderla. Se Gesù non ci apre al desiderio di lui, medico e sposo, la sua cura e il suo amore per
noi restano inutili. Restiamo nelle mani della legge che paralizza e uccide.

v. 5 essi tacevano. “Se tu non mi parli, io sono come chi scende nella fossa” (Sal 28,1). Per questo
il Signore parla. L'uomo è la risposta che gli dà. Il silenzio è la sua morte. Anche Gesù tacerà,
quando sarà condannato. Ma non sarà per giudicarci, bensì per giustificarci, portando su di sé il
nostro silenzio (14,60.61; 15,4.5).

guardandoli intorno. Lo sguardo di Gesù è circolare: vede ognuno e abbraccia tutti. Chi vuole, può
sempre incontrarlo.

con ira. La sua ira non è per chi fa il male. È venuto apposta per i peccatori! La sua ira è contro il
male.

contristato. La sua tristezza è per il malato, a causa del male che si fa facendo il male.

durezza di cuore. Contraria allo stupore, segna le tappe dell'antievangelo. È una reazione di
autodifesa, una paura che diventa chiusura in sé e attacco agli altri. Corrisponde alla mano chiusa.
La parola “durezza” in greco deriva da un verbo che significa “indurirsi come pietra, calcificarsi”. È
chiamata anche “sclerocardia” (cf 10,5). Causa della morte di Gesù, è prerogativa dei farisei, ma
anche dei discepoli davanti al suo pane (6,52; 8,17). Come uccide Dio, uccide l'uomo, perché lo
rende sordo al suo amore. Per questo, in certi codici, invece di pórosis (= durezza) si legge pérosis
(= sordità) o nécrosis (= morte). Costante è il lamento dei profeti contro la malvagità ostinata del
nostro cuore, duro a convertirsi (Ger 3,17; 7,24; 9,13; 13, 1 0; 16,12; 18,12; DÈ29,18). Gesù, che
vuol toglierci il cuore di pietra e darci un cuore di carne (Ez 36,26; cf Ger 31,31 ss), si scontra con
la nostra durezza, che lo inchioda sulla croce. Ma opera mirabile di Dio! - dal male verrà la
medicina: proprio e solo la sua morte, causata dalla nostra durezza di cuore, ne sarà il rimedio
efficace.
Tendi la mano. Gesù comanda alla mano, chiusa nel possesso e immobile nella morte, di aprirsi e
tendersi per ricevere il dono del Figlio dell'uomo.
I comandi di Gesù esprimono sempre qualcosa di impossibile. Dice al paralitico di camminare, a
questo di tendere la mano, e al morto di risorgere. I doni di Dio infatti riguardano sempre ciò che è
impossibile all'uomo, ma non a lui.

fu ristabilita la sua mano. In greco c'è la parola “apocatastizzata”: la mano è ristabilita nella sua
funzione originaria, come era prima che il peccato la rendesse incapace della sua funzione vitale.

v. 6 i farisei gli erodiani. Invece dello stupore che porta alla fede, c'è una reazione negativa, che
apre l'ostilità. Il potere religioso (farisei) e quello civile (erodiani) solidarizzano contro Gesù (cf
8,15; 12,13). Esiste una solidarietà “contro”, che è solo per la morte.

tenevano consiglio contro di lui. È un'azione prolungata; inizia qui e durerà fino alla fine del
vangelo. Il potere religioso e quello civile sono accomunati nella durezza di cuore contro il
Signore. L'autosufficienza, religiosa e mondana, non può accettare il suo dono. In giorno di sabato
è lecito fare il bene o il male, salvare una vita o ucciderla, aveva chiesto Gesù. Lui, con la sua
trasgressione, decide per la vita; questi, con i loro scrupoli, vogliono la morte.

come farlo perire. All'inizio del c. 2 Gesù fu accusato di bestemmia (2,7). Ora se ne decreta la
morte. Chi profana il sabato deve morire (Es 1,13). E siamo solo all'inizio del suo ministero! Ma
questo non lo impedisce. Dalla decisione all'esecuzione del male c'è sempre tutto il temo necessario
e sufficiente per il bene: “Egli passò beneficando e risanando tutti” (AÈ10,38). La croce si profila
ormai chiara. È il prezzo del dono che ci fa di aprirci la mano.

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, osservando il luogo: nella sinagoga, di sabato.
3. Chiedo ciò che voglio: Signore Gesù, guarisci la mia durezza di cuore, liberami dalle paure e
dalle false autosufficienze. Aprimi la mano; donami il desiderio di te, che è la mano per
accogliere il dono che mi fai.
4. Traendone frutto, vedo, ascolto e osservo le persone: chi sono, cosa dicono e cosa fanno.

Da notare: mano tristezza


durezza di cuore farisei/erodiani
tacere salvare la vita
ira

4. Passi utili : Gn 3,1-15; Sal 81; Ez 36,23-30.

16. UNA BARCA PICCOLA PER NON ESSERE SCHIACCIATI


DALLA FOLLA
(3,7-12)
7
E Gesù con i suoi discepoli
si ritirò verso il mare;
e una grande moltitudine
lo seguì dalla Galilea
8
e dalla Giudea e da Gerusalemme
e dall'Idumea e da oltre il Giordano
e dai dintorni di Tiro e Sidone,
una moltitudine grande
ascoltando quanto faceva,
venne a lui.
9
E disse ai suoi discepoli
di mantenergli
una barca piccola
a causa della folla,
perché non lo schiacciassero.
10
Infatti aveva curato molti,
così che gli cadevano addosso per toccarlo
quanti avevano piaghe.
11
E gli spiriti immondi,
quando lo vedevano,
gli cadevano davanti
e gridavano dicendo:
Tu sei il Figlio di Dio.
12
E li minacciava molto,
perché non lo facessero manifesto.

1. Messaggio nel contesto

“Una barca piccola per non essere schiacciati dalla folla”: è la richiesta di Gesù al suoi discepoli.
Nasce così una delimitazione tra la folla che lo schiaccia e coloro che lo toccano e sono guariti. Si
tratta di uno spazio ben preciso - e piccolo! - ma aperto a tutti. È l'istituzione della Chiesa, la
comunità di chi lo segue per essere con lui e formare la sua nuova famiglia. All’interno di questa
saranno scelti i Dodici, come colonne del nuovo edificio (brano seguente).
La sezione precedente (1,16-3,6) era una presentazione complessiva dei suo mistero, e concludeva
con l'annuncio della sua passione. Questa sezione, che va da qui al rifiuto di Nazaret (3,7-6,6), si
apre con un preannuncio della pasqua: il suo “ritiro” muove le moltitudini verso di lui e il suo dono.
Come dall'albero viene il frutto, così dalla croce la Chiesa. La sua perdizione diviene salvezza per
le moltitudini (Is 53). Infatti al suo andarsene corrisponde un esodo di masse attirate da lui nel
deserto; lì parlerà al loro cuore e ne farà il suo popolo (cf Os 2,16). Con la sua attività si era
limitato ai dintorni di Cafarnao; ora, col suo fallimento, raggiunge tutti i punti cardinali. Se la sua
azione fu parziale, la sua passione è universale. Le folle accorrono a lui da tutti gli orizzonti
lontani, inizio e anticipo della pentecoste, quando, dopo il suo “ritiro” definitivo, manderà il suo
Spirito.
Cambia anche il tipo di attività - un altro grosso cambiamento sarà dopo 8,30. Prima era un
annuncio del Regno in opere e parole. Ora è più un insegnamento prodigato con cura a chi ha già
ascoltato, perché chi ha orecchie per intendere intenda (4,23).
Così il Signore avvia la sua Chiesa, educandola all'ascolto della Parola che unisce a lui e introduce
nella sua famiglia (c. 3).
Questo testo non riferisce un singolo avvenimento; è una sintesi di molti fatti, che serve da
transizione e da cucitura tra brani diversi. Questi riassunti, chiamati “sommari”, sono assai utili per
capire il vangelo. In essi l'autore ispirato, scegliendo con libera associazione cosa, come e dove
dire, scopre le proprie intenzioni teologiche. Questi sommari non sono quindi solo una cornice
narrativa, ma anche la chiave interpretativa di quanto si va raccontando.
Qui Marco ci vuol insegnare innanzitutto la logica del vangelo: la morte di Gesù non è la fine di
tutto, ma il compimento della salvezza per tutti (vv. 7-8). Inoltre allude all'origine e natura della
Chiesa: nasce dalla croce ed è una piccola barca (v. 9). Infine parla del contatto con Gesù come
guarigione dal male (v. 1 0) e di una lotta contro la tentazione del successo. Prima della croce il
Signore vuole una rivelazione segreta, e non, come i demoni, una rivelazione del segreto, che solo
allora sarà capito (vv. 11-12).

Gesù è come il seme del capitolo successivo: muore e porta molto frutto (Gv 12,24). Egli è
l'agnello che, in quanto percosso, diventa pastore del gregge (6,34; 14,27). Con il suo “ritiro”,
forma il nuovo popolo di fratelli: con la sua parola lo preparerà per l'esodo definitivo, vincendo il
mare (c. 4), il male, la malattia e la morte (c. 5), per nutrirlo alfine del suo pane (ce. 6-8).

Il discepolo ora comincia a intravedere cos'è la Chiesa. Essa nasce dopo l'apertura della mano che
fa accogliere il dono di Gesù. Da una massa informe si staglia una “piccola barca”, dove lui non è
schiacciato: su di essa sarà annunciata la Parola e compiuta la traversata dal mare al deserto. Le sue
caratteristiche ulteriori sono nei brani seguenti. L'attenzione ora non è più tanto sulla novità di
Gesù, ma su quella di chi lo accoglie. La “cristologia” si fa “ecclesiologia”: attraverso la mano
guarita i doni passano dal Figlio dell'uomo ai figli degli uomini suoi fratelli - tutta gente povera e
rifiutata come lui.

2. Lettura del testo

v. 7 Gesù con i suoi discepoli. L'espressione, così usuale, rischia di passare inosservata, mentre è
densa di informazioni profonde. Gesù ha scelto di stare “con” i suoi discepoli e di essere loro
compagno: è l'Emmanuele, il Dio con noi. Lui è con i suoi discepoli perché essi siano “con lui” (cf
brano seguente). Si fa loro compagno per farli suoi compagni.

si ritirò. Finora era sempre in cammino, entrava e usciva. Ora si “ritira”. La parola greca - da cui
“anacoreta” - indica uno staccarsi da tutto. Ma non è una fuga, un abbandono del campo per paura
dei nemici. Al momento giusto li affronterà nel modo giusto, proprio a Gerusalemme. È una
solitudine di intimità con gli amici, al quali, si rivela associandoli a sé ed educandoli lentamente al
suo cammino. È una nuova tappa, che comporta una strategia nuova, che già prelude il “ritiro”
definitivo, quando, innalzato, attirerà tutti a sé (Gv 12,32).

verso il mare. Richiama il mare del primo esodo, attraverso cui bisogna passare per uscire dalla
schiavitù alla libertà del deserto.

una grande moltitudine lo seguì dalla Galilea. Il chicco di grano, se muore, produce molto frutto
(Gv 12,24). Il rifiuto e la condanna a morte da parte dei farisei e degli erodiani segna l'inizio del
nuovo popolo (8, 15). L'efficacia evangelica è ben diversa dall'efficienza umana; trae la sua forza
dall'impotenza dell'uomo che è potenza di Dio: “quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor
12,10). Perché Dio, contrariamente all'uomo, sa trarre vita dalla morte.

v. 8 una moltitudine grande. Il successo è grande non solo in casa (Galilea), ma in ogni parte.
Raccoglie anche dove non ha seminato! Le masse vengono da sud (Giudea, Gerusalemme,
Idumea), da est (oltre il Giordano) e da nord (Tiro e Sidone). Da ovest, oltre il mare, verranno più
tardi, dopo pentecoste. Le località nominate sono sette, numero che indica completezza. Dio ha
scelto la pietra scartata dal costruttori per fame principio del nuovo edificio. Questa è la sua opera
mirabile al nostri occhi (12,10 s; Sal 118,22 s). Gesù non ha raggiunto il successo mediante la
brama di avere, di potere e di apparire, origine di ogni male. Anzi, egli ha vinto tutto questo proprio
col suo fallimento, con la povertà, il servizio e l'umiltà di chi ama.

ascoltando quanto faceva, venne a lui. Queste folle non hanno ascoltato lui, ma il racconto di ciò
che ha fatto. Come già allora, così anche adesso, è l'annuncio che fa “venire a lui” per toccarlo, e
sperimentare in prima persona la verità di ciò che si è ascoltato.
In ogni brano del vangelo dobbiamo domandargli che faccia anche con noi ciò che leggiamo che ha
fatto con altri: “Che vuoi che io ti faccia?”, ci chiede ogni volta, per mettere in noi il desiderio di
chiedere ciò che lui stesso desidera darci (10,51.36). Tu vuoi tutto il bene che puoi, e puoi tutto il
bene che vuoi, e a ogni nostra richiesta buona rispondi: “Lo voglio” (1,41).

v. 9 mantenergli. Significa tenergli sempre a disposizione. Questa barca deve sempre essere pronta
per andare con lui dove lui desidera.

una barca. Fatta di legno - come la croce - non viene inghiottita dal mare e mantiene in vita chi da
essa si lascia portare. Non solo salva dall'abisso, ma permette di attraversarlo e giungere all'altra
sponda. Già una volta con Noè scampò dalla morte umanità e bestie (Gn 6,13 ss). È figura della
Chiesa che attraversa il male del mondo e porta l'uomo nella terra che Dio ha promesso. I discepoli
fin dall'inizio hanno lasciato la loro barca (1,20). Ora ne hanno un'altra, su cui il loro stesso Signore
viaggia e insegna alle folle (4,1; 5,2.18.21; 6,32; 8,13).
Qualche volta sembra addormentarsi o assentarsi; ma in realtà è la loro fede che è assopita (4,35 ss;
6,45 ss). Su questa barca c'è un unico pane di vita; ma i discepoli lo ignorano, perché hanno il
cuore indurito, preda del lievito dei farisei e di Erode (8,14 ss).

piccola. In greco c'è: “barchetta”. Anche se questo diminutivo non è da urgere - sarà poi chiamata
barca (4,1) - certo la Chiesa non è un transatlantico. Piccola cosa, sempre in balia delle onde, è
come il suo Signore e il suo regno, che è il più piccolo di tutti i semi della terra (4,31). In essa Gesù
non è oppresso. Il suo spirito di povertà, di servizio e di piccolezza vi sta a suo agio, e dà calore e
vita a tutto.

perché non lo schiacciassero. Ci sono due modi di toccare Gesù: uno lo schiaccia e impedisce di
mangiar pane (v. 20), l'altro fa uscire da lui la forza di vita (cf 5,30). Questa folla si getta su Gesù
come i polli su chi dà loro il becchime. Ma lui ne vuol fare un popolo di suoi fratelli, la sua vera
famiglia, che si sazia dell'ascolto della sua parola e il cui cibo è compiere la volontà di Dio (vv. 34
s).

v. 10 gli cadevano addosso per toccarlo. Toccare il fuoco, brucia; toccare Gesù, salva. Non è
magia: lui è la nostra vita e il contatto con lui ci sana dalla morte. Ma toccarlo con pretesa è
opprimerlo (5,31) e non salva (6,5). Toccarlo con sicura attesa è la fede che salva (5,30.34).

quanti avevano piaghe (= flagelli). La prima condizione per toccare uno è quella di stargli vicino.
Tutti i colpiti dal male sono vicini a lui che, fattosi prossimo a ogni ferita, è colpito dai nostri mali
(Is 53,1 ss). Ma il mio gettarmi addosso a lui è con fiducia o con pretesa? Mi dà salvezza o
semplicemente lo schiaccia?

v.11 gli spiriti immondi, ecc. Anche i demoni cercano di “schiacciare” Gesù, e in un modo sottile
che è loro proprio: dicono la verità su di lui, ma per fargli propaganda. L'errore non sta in ciò che
dicono, ma nel modo. Satana, fin dal principio, è specialista in menzogna. Questa, per essere
creduta, deve essere verosimile, dicendo una parte della realtà e celando l'altra: è una mezza verità,
detta con secondo fine. Ogni inganno è efficace solo se ha l'apparenza di “buono, bello e
desiderabile” (Gn 3,6). Come la prima, così ogni tentazione!
Qui la trappola sta nel fatto che è vero che Gesù è Figlio di Dio. Ma satana vuol anticiparne la
gloria per fargli evitare la croce dove solo si rivela tale (15,39). È la tentazione che vedremo anche
in Pietro (8,32 s).
Inoltre la fede non è solo sapere chi è Gesù. Anche i demoni lo sanno, meglio e prima di noi.
“Credono, ma tremano”, dice Gc 2,19. Credere è anzitutto sperimentarlo come colui che mi ha
amato e ha dato se stesso per me (Gal 2,20). Una fede ideologica, assai diffusa, che tutto conosce
ma nulla esperimenta, è per sé l'anticipo dell’inferno. È la pena del dannato, che conosce il bene e
ne è privo.

v. 12 E li minacciava molto, perché non lo facessero manifesto. Vedi ciò che farà Paolo con Silvano
in un caso analogo di At 16,16-18. Il Signore non desidera pubblicità, né si serve di poteri palesi o
occulti. Raggiunge tutti solo attraverso la debolezza di chi, conoscendolo, lo annuncia come amore
crocifisso, povero, umiliato e umile. La propaganda va tutta in altra direzione e si serve proprio di
quei mezzi che il Signore ha denunciato e rifiutato come tentazioni.

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, osservando il luogo: un luogo deserto, presso il lago di Galilea.
3. Chiedo ciò che voglio: essere tra coloro che lo seguono e lo toccano, non tra coloro che lo
schiacciano.
4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo Gesù, i discepoli, le folle di afflitti, di varie lingue e
popoli, e i demoni: cosa dicono, cosa fanno.

Da notare: ritirarsi schiacciare


mare toccare
seguire Figlio di Dio
folla minacciare
piccola barca

4. Passi utili: Fil 2,6-11; Gn 6,13-22.

17. E FECE DODICI PER ESSERE CON LUI E PER INVIARLI


(3,13-19)

13
E sale sul monte
e chiama appresso
quelli che voleva lui,
e vennero da lui.
14E fece dodici
(che chiamò apostoli)
per essere con lui
e per inviarli
ad annunciare
15
e ad avere potere
di scacciare i demoni.
16
(E fece i Dodici)
e impose a Simone il nome di Pietro,
17
e Giacomo di Zebedeo
e Giovanni, fratello di Giacomo,
e impose loro il nome di Boanerges, cioè figli del tuono,
18
e Andrea e Filippo
e Bartolomeo e Matteo
e Tommaso e Giacomo, quello di Alfeo,
e Taddeo e Simone il Cananeo
19
e Giuda Iscariota,
che poi lo tradì.

1. Messaggio nel contesto

“E fece dodici per essere con lui e per inviarli”. I Dodici sono la “piccola barca” dove il Signore è
toccato e non schiacciato (vv. 8-11); sono la sua vera famiglia, che siede in cerchio attorno a lui per
ascoltarne la parola (vv. 32-35), e riceve la rivelazione del mistero del Regno (4, 1 0).
Essi sono fatti espressamente per “essere con lui”, il Figlio. Questa è la realizzazione dell'uomo,
che “con lui” è se stesso. Solo così è vinta quella solitudine abissale che gli è costitutiva: fatto per
Dio, solo “con lui” colma il suo bisogno essenziale di relazione e compagnia.
Da qui scaturisce la missione. Infatti chi è unito a lui impara a conoscere il cuore del Padre, e si
offre con gioia ad andare presso chi ancora non lo conosce, perché la sua casa sia piena (Lc 14,23) e
non lo è fino a che manca un solo fratello.
C'è stata già una prima chiamata, in cui la fuga divenne sequela (1,16-20). Questa seconda è più
profonda, e spiega perché lo si segue. Ora la sequela diviene unione e intimità con lui, dove si
raggiunge la propria identità di figli. Il discepolo la conosce, e non può non portarla a tutti i fratelli.
Questa seconda chiamata ci fa vedere l'essenza della Chiesa.
Fatta per essere con Gesù ed essere inviata ai fratelli, ha lui come unico centro, ed è un cerchio che
si estende a tutti. Senza una di queste due dimensioni, delle quali una è particolare e personale,
l'altra universale e comunitaria, decade dalla sua natura.
Gli apostoli l'avevano capito molto bene. Fin dall'inizio, per “tener sempre a disposizione questa
piccola barca, dove lui sta con i suoi e si muove verso gli altri, illuminati dallo Spirito, scelsero di
“tenersi sempre a disposizione” della preghiera (= essere con lui) e del servizio della Parola (=
essere inviati) (At 6,4).
L'azione apostolica è “syn-ergía” con Gesù (1Cor 3,9; 2Cor 6,1; cf 1Cor 15,10), collaborazione con
lui. Egli è l'operaio della vigna; noi siamo suoi compagni che assistono e favoriscono la sua opera,
collaborando, ossia “lavorando con” lui. Ma è lui che opera direttamente dando il desiderio, l'azione
e l'efficacia. Noi siamo contemplativi di questa sua opera, e collaboriamo ad essa innanzitutto
vedendola e accogliendola, poi sviluppandola nella risposta di lode, amore e servizio.
Per questo l'apostolato non ha nulla a che fare con l'attivismo di Marta; fluisce invece
continuamente dalla contemplazione di Maria, che sta ai piedi del Signore e lo ascolta.
L'essere con Gesù è il principio, il mezzo e il fine di ogni apostolato, che da lì viene, da lì attinge
forza e lì sfocia, facendovi confluire tutti gli uomini.
Le tre caratteristiche dei Dodici: essere con lui, essere inviati ad annunciare e a vincere il male,
sono finora le note fondamentali della Chiesa, che si aggiungono a quelle già viste a proposito della
“barchetta”.

Gesù è l'Emmanuele, il Dio che è venuto per essere con noi, perché noi possiamo essere con lui.
Con lui, “irradiazione della gloria di Dio e impronta della sua sostanza” (Eb 1,3), l'uomo torna a
riflettere l'immagine e la somiglianza della propria realtà, dalla quale si era allontanato per il
peccato. Lui è il centro di gravità del nostro cuore, il polo di ogni nostro desiderio, il luogo naturale
della nostra vita. Con lui raggiungiamo la nostra fonte, attingiamo il nostro fine. Creati in lui,
attraverso di lui e in vista di lui, solo con lui sussistiamo e siamo ciò che siamo (Col 1,16; Gv 1,1-
4). Senza di lui siamo il nulla di ciò che siamo. “Sarete come Dio”, non è la tentazione satanica, ma
la grande promessa che si compie nel nostro essere con lui.

Il discepolo fa parte di una comunità, incentrata non su se stessa, bensì su Gesù, che la apre sempre
verso tutti. È una persona libera, membro di un popolo in cui ciascuno è riscattato dalla morte,
perché è con “colui che è”. La prima chiamata fu a seguirlo, lasciando le reti; la seconda pone un
salto di qualità: stare con lui in intimità e amicizia.
L'opera del Padre è attirarci al Figlio, per metterci con lui, in sua compagnia, e inviarci così al
fratelli, perché tutti lo conoscano e lo amino.
La lista dei Dodici si chiude con colui che lo tradì. Quest'unione è sempre insidiata dal divisore,
che vede in ciò la sua sconfitta.

2. Lettura dei testo

v. 13 sale sul monte. Mare, deserto e monte sono i luoghi dell'attività di Gesù che ricordano l'esodo.
La sinagoga e la casa ricordano la terra promessa.
Il monte - con l'articolo perché si tratta di un monte determinato e noto agli interessati - è il luogo
dell'intimità con il Signore, della rivelazione e dell'alleanza. Richiama il Sinai, dove Dio parlò
all'uomo; ma anche il Moria dove fu sacrificato il figlio. Gesù è salito per primo sul monte e da lì
chiama.

chiama appresso. La medesima Parola che fece cielo e terra, ora si crea un partner Non è bene per
l'uomo restar solo, disse Dio (Gn 2,18). Soprattutto perché lui stesso è comunione e desidera stare
con chi ama, e ama che questi desideri stare con lui.
È la seconda chiamata. La prima è 1,16-20. Seguiranno una terza e una quarta (6,7 ss e 8,34 ss).
La nostra conoscenza del Signore è progressiva, con tappe che scandiscono ognuna un salto di
qualità e segnano una crescita della nostra capacità di rispondere alle sue sollecitazioni.

quelli che voleva. Volere significa “voler bene”. Siamo chiamati perché amati. Origine di ogni
elezione è il suo amore gratuito. “Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti non perché siete più
numerosi di tutti gli altri popoli - siete infatti il più piccolo di tutti i popoli - ma perché il Signore vi
ama” ed è fedele al suo amore (Dt 7,7 s). Il privilegio dell'antico e del nuovo Israele non è motivo
di esclusione di altri, bensì di missione verso tutti (vedi il libro di Giona). L'amore del Padre infatti
si estende a tutti i suoi figli. Quando l'elezione diventa pretesto di esclusione, è perché non si è
capito né che Dio è Padre, cioè amore, né che il Padre è Dio, cioè di tutti. Non si è capito nulla del
cristianesimo!

vennero da lui. La scena è scarna e solenne: Gesù che sale, chiama a sé quelli che ama e questi
vengono a lui. “Quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Innalzato sul monte
del suo abbassamento, fa splendere la luce che tutti attira.
v. 14 E fece. Richiama l'azione creatrice di JHWH che si forma il suo popolo (cf Is 43,1; 44,2).
Infatti qui sul monte il Signore crea una cosa nuova, che proprio ora nasce: il mio desiderio di
essere con lui (Is 43,19; cf Ger 31,32). La sua brama da sempre è verso di me (Ct 7,11). Ora
finalmente c'è anche la mia verso di lui, così che possa essere anche lui per me ciò che io sono per
lui.

dodici. È il resto delle dodici tribù d'Israele, riunito sul monte attorno al Servo, che sarà luce di tutte
le nazioni (Is 42,6; 49,6; Lc 2,32). Questi dodici sono i patriarchi dei nuovo popolo, al quale tutti
sono chiamati a partecipare, cominciando dal più lontani e bisognosi; sono le colonne della Chiesa
(Gal 2,9), solidamente ancorate alla pietra, che è Cristo, unico fondamento su cui si può costruire
(1Cor 3,11). Essi garantiscono la necessaria continuità tra Gesù e noi (cf 1Gv 1.1-4).
Raccontandoci ciò che hanno sperimentato, ci testimoniano della sua carne, esegesi di Dio stesso
(Gv 1, 18), unica norma della nostra fede e criterio di discernimento spirituale (Ef 4,20; 1Gv 4,2).

(che chiamò apostoli). È una parola dal greco che significa “Inviati, mandati” (corrisponde a
“messi, missionari”, di radice latina).

Questo popolo è inviato a tutti gli altri non per conquista o per proselitismo: chi conosce l'amore del
Padre e del Figlio morto in croce per tutti i fratelli, non può non andare verso di loro per
annunciarlo. Non c'è gioia e festa finché l'ultimo fratello non siede a mensa insieme con tutti gli
altri.

per essere con lui. È il fine della nostra vita e della sua missione. “Essere con lui”, il Figlio, è
l'essenza di ogni uomo, che è tutto e solo figlio, anche se non lo sa o non lo vuole. Senza di lui, è
niente di sé, solitudine e vuoto assoluto. “Tutto ciò che esiste, in lui è vita”, fuori di lui è morte (Gv
1,3 s). Dio ha fatto l'universo per l'uomo, e l'uomo per unirlo a sé in Gesù, suo Figlio.
Il termine della sequela è quello di stare con lui per sempre (1Ts 4,17), perché lui è la mia vita (Fil
1,21), che ormai è nascosta con lui in Dio (Col 3,3). Con lui sono me stesso, figlio amato dal Padre
con amore infinito. Ciascuno di noi infatti è amato dal Padre con lo stesso amore unico, pieno e
totale con il quale è amato Gesù, che dice: “Li hai amati, come ami me” (Gv 17,23). Accettare
questo amore è vivere da figli nel Figlio, e amare con il suo stesso amore il Padre e i fratelli.
Essere con Gesù significa conoscenza della verità che libera, intimità d'amore che appaga, ingresso
nella vita di Dio per il dono del suo Spirito, effuso nei nostri cuori, che grida: Abbà (Rm 5,5; 8,15;
Gal 4,6). Quando siamo con il Figlio, il Padre gioisce pienamente di noi e noi di lui.
Il cristianesimo non è un'ideologia: è una compagnia reale con Gesù, in un rapporto da persona a
persona, che coinvolge tutti i nostri sensi e le nostre capacità.
Innanzitutto si sta “con lui” con gli orecchi, per ascoltare la sua parola, e poi con gli occhi, per
vedere il suo volto. Questo desiderio di ascoltarlo e contemplarlo è la fede, che apre il nostro cuore
a lui. Essa si concreta nella lettura della Parola e nella preghiera, nella docilità e nell'adorazione,
nella riverenza e nella tenerezza.
Inoltre si sta “con” lui con i piedi, per seguirlo nella sua stessa via. Questo desiderio di camminare
come lui ha camminato (Cf 1Gv 2,6) è la speranza, che muove la nostra vita ad essere conforme alla
sua. Essa ci fa preferire e scegliere ciò che lui ha preferito e scelto, per stargli più vicino e
somigliargli più perfettamente. Questa speranza amorosa libera il nostro cuore da ogni
attaccamento al male, e ci spinge ad amare per amor suo la povertà l'umiliazione e l'umiltà.
Infine si sta “con” lui con le mani, per toccarlo ed avere comunione piena con lui. Questo desiderio
di toccarlo è la carità, che ci identifica a lui e trasforma la nostra vita nella sua, facendoci amare e
operare come lui. E perché possiamo essere con lui, lui stesso ci guarisce orecchio, occhio, piede e
mano.
Essere con lui, più che un punto di arrivo, è un costante punto di partenza per una sequela sempre
più stretta. Dice Paolo: “Non che lo abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla
perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch'io sono stato conquistato da
Gesù Cristo” (Fil 3,12).
Essere con lui significa essere stati conquistati, innamorati di lui, con desiderio struggente che fa
della nostra vita un'unica invocazione: “Maranà tha”, vieni, Signore! Il nostro grido di amorosa
attesa fa da eco alla sua promessa: “Sì, verrò presto” (1Cor 16,22; Ap 22,20).
Nell'essere con Gesù si soddisfa la passione di Dio per noi e si placa la nostra brama di lui,
stuzzicata dalla sua verso di noi.

e per inviarli. Stando con lui, lo stesso amore del Padre verso tutti i suoi figli, spinge anche noi fino
agli estremi confini della terra.
Andare verso tutti gli uomini e stare con lui sembrano due cose contraddittorie. Ma solo in
apparenza. Anche il cuore, quando si stringe, porta il sangue a tutto il corpo: è il suo movimento
vitale di sistole e diastole.
Più uno si stringe al Signore, più la sua azione giunge lontano. Chi aderisce totalmente al Figlio, ha
già raggiunto tutti i fratelli. È falsa l'alternativa tra contemplazione e azione, vita di preghiera e vita
apostolica, come è falsa l'alternativa tra fonte e rubinetto. L'unione con lui, oltre che principio e
fine, è quindi anche mezzo della missione da cui perennemente scaturisce l'acqua della salvezza:
nessuno dà ciò che non ha, e possiamo traboccare solo di ciò di cui siamo ricolmi. Diversamente
l'apostolato è un batter l'aria, con gran fatica e nessun risultato. La missione nostra nasce dall'esser
“messi con il Figlio” (sant'Ignazio); e la preoccupazione prima di chi è inviato è quella di stare unito
a lui come il tralcio alla vite (Gv 15,1 ss), fino ad esser contemplativo nell'azione, come lui, che
“fa” ciò che “vede” fare dal Padre (Gv 5,19).

ad annunciare. Il fine primo dell'invio è l'annuncio ai fratelli. Non di ciò che si è sentito dire, ma
di ciò che si è sperimentato in prima persona (Cf Gv 4,42). L'ex indemoniato, che chiede a Gesù di
“essere con lui”, è inviato ad annunciare ciò che il Signore gli ha fatto e la misericordia che gli ha
usato (5,18 s.). Quest'annuncio porta gli altri ad accorrere al Signore, per fare anche loro la stessa
esperienza. La salvezza viene infatti dalla fede - che è incontro personale con Gesù Signore - e la
fede dall'annuncio che rende noto a tutti il dono che il Padre ci ha fatto nel suo Figlio.

v. 15 potere. È lo stesso di Gesù, quello della Parola di verità che vince la menzogna, come la luce
vince la notte.

scacciare i demoni. Satana ci aveva allontanati da Dio con la menzogna; che ci ha fatti cadere in suo
potere mediante la paura della morte (Eb 2,14). Con il Figlio ci viene offerta la nostra verità: siamo
figli, che veniamo dal Padre e a lui torniamo. Questa verità ci libera dalla paura della morte e dalle
mani del nemico, donandoci di vivere una vita filiale. Annunciare il Regno e liberare dai demoni
sintetizza tutta l'azione di Gesù che continua nella Chiesa.

v. 16 impose il nome di Pietro. Simone significa “Dio ascolta, esaudisce”. Pietro significa “roccia”,
immagine della fedeltà del Signore. In lui Dio ha ascoltato ed esaudito la fedeltà del suo amore.
Simon Pietro ne farà esperienza nella sua debolezza e infedeltà. Per questo potrà confermare i
fratelli, e rassicurarli che Dio rimane sempre fedele (cf 14,66-72; Lc 22,32 s).

v. 17 Giacomo e Giovanni. Significano rispettivamente: “Dio protegge” e “Dio è benigno”.

Boanerges, cioè figli del tuono. Forse si riferisce alla forza della loro predicazione, o al loro
carattere intransigente e orgoglioso (9,38; 10,35. ss; Lc 9,54).
v. 18 Andrea. Nome greco, significa “uomo maschio, virile”. La tradizione lo farà finire come il
suo Signore, su una croce a X, chiamata col suo nome. In Giovanni è lui che chiama suo fratello
Pietro e dichiara l'insufficienza di ciò che un ragazzo ha e mette a disposizione prima della
moltiplicazione dei pani (Gv 1,40 ss- 6,7).

Filippo. Nome greco, significa “amante dei cavalli”. Conosce il greco, (Gv 12,21), sa far bene i
conti (Gv 6,7) e chiede a Gesù che mostri il Padre (Gv 14,8).

Bartolomeo. Significa “figlio di Tolomeo”.

Matteo. Significa “dono di Dio”. Mt 9,9-13 e 10,3 lo identifica con Levi, il pubblicano, ex esattore
di tasse (cf 2,13-17).

Tommaso. Significa “gemello”. Evangelizzerà l'Oriente.

Taddeo. Al suo posto Luca ha il nome di Giuda (Lc 6,16; At 1,13).

Simone il Cananeo. Cananeo è sinonimo di Zelota, appartenente al movimento di lotta armata


contro i romani.

v. 19 Giuda l’Iscariota. Giuda secondo un etimologia popolare significa “lode” (Gn 29,35);
Iscariota significa uomo di Cariot, oppure sicario (appartenente agli zeloti).

che poi lo tradì. Di Giuda si dice sempre che è uno dei Dodici. Anche lui è stato chiamato perché
amato. L'amore di Dio rimane immutabile e fedele l’uomo rimane sempre mutabile e infedele,
aperto al tradimento. La sua funzione sarà presa da un altro (At 1,20 ss); ma la sua persona è
insostituibile.
Circa le persone scelte vediamo che si tratta di gente comune, senza qualifiche se non negative.
Non risulta che abbia chiamato persone pie (farisei), o con cariche religiose (sacerdoti), o esperte in
sacra Scrittura (scribi) o potenti (anziani).
Tra l’altro, come poteva convivere un gabelliere per conto dei romani, con un onesto pescatore, che
doveva pagargli le tasse, o addirittura con uno zelota? La formazione che Gesù mette in campo è
realmente divina, perché nessun uomo di buon senso l'avrebbe fatta. Infatti “Dio ha scelto nel
mondo ciò che è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono” (1Cor
1,28).

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, osservando il luogo: sul monte, dove Gesù per primo salì e da lì chiama gli altri.
3. Chiedo ciò che voglio: non essere sordo alla sua chiamata; chiedo al Padre che mi voglia
mettere col Figlio, e al Figlio che mi prenda che mi voglia mettere come suo compagno, per
stare con lui, seguendo il suo stesso cammino. Chiedo di essere conquistato da lui, di
desiderare sopra ogni cosa di essere con lui.
4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, cosa dicono, cosa fanno.

Da notare: monte inviare


chiamare annunciare
volere (amare) potere
venire a lui scacciare i demoni
essere con lui tradire

4. Passi utili: 1Ts 4,17; Fil 1,21; Gal 2,20; Gv 15,1-11; Col 3,35; At 6,4.

18. CHI SONO MIA MADRE E I MIEI FRATELLI?


(3,20-35)

20
E viene in casa
e si raduna di nuovo la folla
così che essi non possono
neppure mangiar pane.
21
E, avendo udito,
i suoi uscirono
per impadronirsi di lui,
poiché dicevano:
È fuori di sé!
22
E gli scribi, scesi da Gerusalemme,
dicevano:
Ha Beelzebul,
e:
In forza del principe dei demoni
scaccia i demoni.
23
E, chiamatili appresso,
diceva loro in parabole:
Come può satana
scacciare satana?
24
Se un regno è diviso contro se stesso,
non può reggersi quel regno;
25
e se una casa è divisa contro se stessa,
quella casa non potrà reggersi.
26
E se il satana è insorto contro se stesso
ed è diviso,
non può reggersi,
ma è alla fine.
27
Ma non può nessuno
entrare nella casa del forte
e rapire i suoi beni,
se prima non ha legato il forte,
e allora rapirà la sua casa.
28
Amen, vi dico:
Saranno rimessi ai figli degli uomini
tutti i peccati e le bestemmie,
quante ne bestemmieranno.
29
Ma chi bestemmi
contro lo Spirito Santo
non ha remissione in eterno,
ma è reo di peccato eterno.
30
Poiché dicevano:
Ha uno spirito impuro.
31
E viene sua madre e i suoi fratelli,
e, stando fuori,
mandarono da lui a chiamarlo.
32
E sedeva attorno a lui una folla
e gli dicono:
Ecco la tua madre e i tuoi fratelli (e le tue sorelle)
di fuori ti cercano.
33
E, rispondendo loro,
dice:
Chi è la mia madre e i (miei) fratelli?
34
E, volgendo lo sguardo in giro
a quelli seduti in cerchio attorno a lui,
dice:
Ecco la mia madre
e i miei fratelli:
35
chi fa la volontà di Dio
questi è mio fratello e sorella e madre.

1. Messaggio nel contesto

“Chi sono mia madre e i miei fratelli.?”. Il problema del brano è il discernere se siamo “con lui” o
“contro di lui”. Siamo veramente “suoi” o estranei a lui, siamo “dentro” o “fuori”, ascoltiamo la
sua chiamata o lo mandiamo a chiamare, lo seguiamo o vogliamo che lui ci segua, ci lasciamo
acchiappare o lo vogliamo acchiappare, accettiamo il suo perdono o lo rifiutiamo, ascoltiamo lo
Spirito o lo bestemmiamo? Tutti questi interrogativi toccano la questione della nostra salvezza, che
consiste nell'essere “con lui” così come è in realtà, e non come lo vorremmo noi.
Il brano inizia dicendo che non potevano mangiare pane e termina con le parole di Gesù circa chi gli
sta seduto intorno ad ascoltarlo: “Ecco mia madre e i miei fratelli: chi fa la volontà di Dio”.
Il vero cibo dell'uomo è la parola che esce dalla bocca di Dio (Dt 8,3), che esprime la sua volontà.
Questa è pienamente compiuta da chi fa cerchio attorno a lui per ascoltarlo.
La voce dalla nube confermerà dicendo: “Questi è il mio Figlio diletto: ascoltate lui” (9,7). Lui è la
Parola eterna del Padre. Ascoltandola, diventiamo sua madre e suoi fratelli: madre, come Maria,
perché essa ha il potere di farci come lui. Uno infatti diventa la parola che ascolta. Il Padre ci
vuole ascoltatori del Figlio perché ci vuole figli: ci mette con lui perché ci vuole come lui.
L'appartenenza alla “barchetta” non viene da privilegi. I “suoi” secondo la carne e il sangue non ne
fanno ancora parte (vv. 21.31s), come neanche i sapienti, che credono di giudicare tutto, anche lo
Spirito (vv. 22-30).
La vera famiglia di Gesù è fatta da chi lo ascolta (vv. 33-35). Tutto il capitolo seguente sarà
sull'efficacia della sua parola, vero seme da cui crescono i figli di Dio.
Il brano precedente terminava con Giuda che lo tradì. Ora vediamo che lo tradiamo perché alla sua
chiamata si oppone in noi una duplice controchiamata. La prima è quella dei “suoi”, ispirata dal
buon senso e da buoni sentimenti, che lo vogliono sequestrare perché è pazzo. Infatti non cerca il
proprio vantaggio e non sa sfruttare la situazione.
L'altra è quella degli “scribi”, che, invece di convertirsi, usano la loro sapienza per difendersi. Per
loro è vero solo ciò che è utile per mantenere le loro certezze, falso ciò che le mette in discussione.
Non interessa loro servire la verità, ma servirsi abilmente di essa per confermare le proprie opinioni
religiose e le proprie posizioni di potere.
Gesù sta al centro del cerchio di quelli che “compiono la volontà di Dio”. Il Padre vuole che tutti
siano con lui: l'ascolto del serpente ci rese figli del diavolo (Gv 8,44); l'ascolto di lui ci restituisce il
nostro volto di figli.

Discepolo è chi entra nel cerchio dei suo ascoltatori. Diversamente, anche se ha tutti i titoli - fosse
anche suo parente! - e tutta la sapienza teologica - fosse anche il miglior scriba! - in realtà sta fuori.
Corre sempre il pericolo di essere come i suoi che lo amano, ma senza conoscerlo e volerlo così
come è; oppure come gli scribi, che lo conoscono, ma non lo amano, e perciò lo giudicano secondo
i loro “criteri religiosi”.

2. Lettura del testo

v. 20 E viene in casa. Dopo il rifiuto di 3,6, la casa succede alla sinagoga. Essa diventa
esplicitamente un luogo teologico, che segna un dentro rispetto a un fuori: dentro c'è la famiglia,
fuori gli estranei. Questo dentro delimita la Chiesa, che è fatta da chi sta con lui e lo ascolta. Si
tratta però di un cerchio aperto a tutti gli estranei... anche al “suoi”, purché vogliano entrare con lui
e non farlo uscire con loro!

la folla. La folla è chiamata a diventare progressivamente popolo di Dio nell'ascolto di Gesù.

mangiar pane (cf vv. 9 s; 6,31). La folla con le sue richieste toglie a Gesù e al suoi il tempo
materiale per mangiare. Qualche volta a noi toglie anche il tempo per il cibo spirituale, che è “ogni
parola che esce dalla bocca dei Signore”, perché è lui la nostra vita (Dt 8,3; 30,20). In questo senso
Gesù dice a noi: “Ho da mangiare un cibo che voi non conoscete”, e “mio cibo è fare la volontà di
colui che mi ha mandato” (Gv 4,32.34).

v. 21 i suoi. Sono i suoi parenti più stretti, tra cui conosciamo Giacomo e Giuseppe, Giuda e
Simone (6,3). Il primo, figura di grande spicco, tenne il governo della Chiesa di Gerusalemme ed è
ritenuto l'autore della lettera omonima (cf At 12,17; 15,13; 21,18; 1Cor 15,7; Gal 1,19; 2,9.12).
I “suoi” rappresentano noi credenti, che dobbiamo passare da una conoscenza e un amore per Gesù
secondo la carne a una conoscenza e a un amore secondo lo Spirito. Chiunque è in casa è sempre
tentato di catturarlo, tirando lui dalla propria, invece che lasciarsi attirare da lui.

uscirono. Escono non per seguirlo, ma per ricondurlo a casa. La lotta tra Gesù e i suoi è continua,
anche se sottile e sorda: egli vuole che noi siamo con lui, e noi vogliamo che lui sia con noi! Gott
mit uns! È il capovolgimento della fede, che ci porta a servirci di lui invece di servirlo.

per impadronirsi. Sarà la parola chiave della passione. Gesù è amore e dono. Chi si impadronisce,
lo uccide.
Impadronirsi infatti è il contrario di donare. Come donare è dell'essenza di Dio ed è principio di
creazione, così impadronirsi è negazione pratica di Dio, ed è principio di decreazione.
Impadronirsi è l'istinto fondamentale dell'uomo che non conosce Dio. Invece di dire: “Sì, grazie”,
dice: “È mio”.

fuori di sé. Secondo i suoi (vedi Pietro in 8,31 ss) Gesù dovrebbe avere un po' più di buon senso.
Dovrebbe investire bene le sue qualità per avere di più, potere di più e valere di più. Non sono
questi i mezzi utili per il trionfo del bene, per togliere il potere ai cattivi, a confusione loro e a gloria
di Dio e dei suoi eletti?
Gesù invece simpatizza coi cattivi e trascura i propri interessi; si può prevedere che, con la sua
bontà e sprovvedutezza, andrà a finir male.
È fuori di sé, è pazzo! In questo giudizio c'è amore-odio e compassione-rabbia, ultimo relitto del
naufragio di tutte le speranze. Per noi, che abbiamo barattato l'intelligenza con la furbizia, saggio è
chi cerca non il bene e la verità, bensì l'utile e il vantaggio proprio.
Questa controchiamata del buon senso, come ha fuorviato i parenti più stretti, fuorvierà anche
Giuda e gli altri. Gesù fu, è e sarà rifiutato allora, ora e sempre da amici e nemici, vicini e lontani -
tutti uguali fino a quando non ci convertiamo! - proprio perché povero, umiliato e umile. Ma questa
sua follia è sapienza di Dio. E mentre l'uomo, con la sua sapienza, uccide se stesso, Dio, con la sua
follia, lo strappa con potenza dalla sua malattia mortale.
“Essere con Gesù” esige il cambiamento dal pensiero dell'uomo al pensiero di Dio; è un cambio di
direzione di 180°, un riorientamento della propria vita sui suoi passi.
Senza questa conversione radicale della mente e del cuore si rimane “fuori” dalla sua famiglia,
anche se si è dei suoi secondo la carne, lo si ama e gli si vuol bene! In realtà si ama in lui se stessi e
i propri progetti, pronti a seguirlo quando lui ci segue e a confiscarlo quando non ci segue. Questo
amore, se non si purifica, si chiama egoismo, ed è un tentativo di assimilare lui a noi invece che noi
a lui.
È la tentazione costante che ci porta a tradirlo, sia come singoli che come Chiesa.

v. 22 gli scribi. Sono i sapienti, conoscitori della legge, che già l'avevano accusato di bestemmia
quando perdonò i peccati al paralitico (2,6s).

Ha Beelzebul (= Signore del sudiciume): Gesù è accusato di essere indemoniato!

In forza del principe dei demoni scaccia i demoni. Gli scribi non possono negare la realtà: Gesù
scaccia i demoni. La sua parola, a differenza della loro, opera quanto dice (cf 1,22). Invece di
accettare con umiltà il dono, preferiscono metterla in questione. Fanno uso della loro scienza per
imbrogliare se stessi, del prestigio che essa conferisce per difendersi e attaccare. La loro
interpretazione maligna nasce dall'invidia.

v. 23 ss Come può satana scacciare satana? I ragionamenti troppo sottili denunciano sempre il
silenzio di una verità troppo palese.

Se un regno è diviso, ecc. Satana (= accusatore) ha un regno vasto. Dopo il peccato domina su
tutti. Lui è il “divisore”, che ha separato gli uomini da Dio e tra di loro, e li tiene schiavi nel
peccato, chiusi nell'accusa della propria coscienza.

è alla fine. Gli esorcismi di Gesù sono la liquidazione di satana, la liberazione dal suo dominio e
l'inizio del Regno.

v. 27 nessuno può entrare nella casa del forte. Satana è molto forte e nessuno può entrare nella sua
casa, perché tutti gli uomini sono dentro, seduti in tenebre e ombra di morte (Lc 1,79).

se prima non ha legato il forte. Gesù è “il più forte” (1,7), che viene a ridurre in schiavitù il forte
che tutti tiene schiavi.

v. 28 Saranno rimessi ai figli degli uomini tutti i peccati. Gesù è venuto apposta per perdonare i
peccati (2, 10).

le bestemmie. Sono un peccato diretto contro Dio, attribuendogli ciò che non gli spetta o
togliendogli ciò che gli spetta. Le false immagini di lui che abbiamo sono tutte bestemmie. Gesù è
venuto a liberarcene, con la “sua” bestemmia, che ci presenta un Dio d'amore e tenerezza infinita,
che perdona e muore in croce per i peccatori (2,7; 14,64). Egli quindi perdona ogni peccato sia nel
confronti degli uomini che di Dio.

v. 29 chi bestemmia contro lo Spirito Santo. L'uomo può chiudersi alla verità conosciuta,
preferendo le proprie comode sicurezze.
È molto pericoloso attribuirsi la buona fede, credere di essere giusti, presumere di aver ragione, non
essere disposti a cambiare, scambiare la verità con la certezza - vizio comunissimo più che mai.
Tutto ciò ha a che vedere con questo peccato di resistenza allo Spirito, che è l'amore di Dio che
dona e perdona.
In concreto questa bestemmia consiste nel non accettare il perdono incondizionato che Gesù dona
nella forza dello Spirito di Dio, chiamandolo o credendolo addirittura cattivo. La bestemmia
imperdonabile è non riconoscere che Dio in Gesù è grazia e perdono, cercando di vivere della
propria giustizia e delle proprie giustificazioni.

non ha remissione in eterno. Chi fa questo peccato ritiene di essere nel giusto, e non vuole essere
perdonato di nulla: è inconvertibile fino a quando non si riconosce peccatore. È la cecità dei farisei.
che rimane fino a quando credono di vederci (Gv 9,41).

è reo di peccato eterno. Gesù denuncia questo peccato “eterno” non per condannare gli scribi, ma
per chiamarli alla conversione, mostrando loro la gravità di quanto stanno facendo. Ogni
“minaccia” di Dio nella Bibbia è di questo tipo, e raggiunge il suo effetto quando non si avvera
perché ha provocato la conversione.

v. 30 Poiché dicevano.- Ha uno spirito impuro. Gli scribi mentono contro la verità conosciuta,
vanno contro l'evidenza. Pur di non accettare di aver torto, rifiutano che Gesù libera dal male,
dicendo che è opera diabolica e bestemmia (2,7). Questa è la vera bestemmia contro lo Spirito di
amore e perdono, di cui Gesù è pieno e con il quale agisce.

v. 31 sua madre e i suoi fratelli. I parenti di Gesù hanno preso con sé anche sua madre. Lei
certamente già da principio era passata dalla maternità nella carne a quella nello Spirito; anzi questa
fu il presupposto di quella. Infatti concepì nel ventre, perché già prima aveva accolto nell'orecchio
il seme della Parola, custodendolo, lasciandolo radicare e crescere fino alla sua statura piena (cf Lc
1,38.45; 2,19.51).

stando fuori. Anche se “suoi”, sono estranei , fuori dalla casa in cui lo si ascolta. C'è quindi un
fuori e un dentro nuovi, secondo cui è fuori chi crede di essere dentro.

mandarono da lui a chiamarlo. Gesù chiamò i Dodici per mandarli a chiamare tutti a stare con lui
(v. 13 ss). I suoi mandano a chiamiarlo perché stia con loro. Sono invertiti i termini della chiamata
e della missione. Quante volte chiamiamo il Signore per convertirlo e adeguarlo a noi, invece di
convertirci e adeguarci alla sua chiamata!

v.32 una folla. Se i suoi sono estranei, la folla di estranei, nell'ascolto della sua parola, diventa la
sua vera famiglia.

sedeva attorno a lui. È la posizione tranquilla e attenta del discepolo, che, come Maria, ha scelto la
parte migliore. che non le sarà tolta (Lc 10,39.42).

v. 33 Chi è la mia madre e i (miei)fratelli.? Gesù dichiara qui il criterio di appartenenza alla sua
famiglia.
v. 34 volgendo lo sguardo in giro a quelli seduti in cerchio attorno a lui. Questo cerchio di persone
che lo ama e ascolta la sua parola sono i suoi. Stanno dentro, mentre gli altri sono “fuori”. Il
cerchio richiama un'armonia di unità rispetto a un centro comune a tutti e di uguaglianza tra quelli
che stanno intorno. È lui il centro della nostra aggregazione, l'unico Signore che si è fatto servo. E
questo diventa libertà per tutti, e unico vincolo di appartenenza reciproca. È pericoloso - idolatrico
addirittura - quando ci si aggrega attorno ad altri centri.

v. 35 chi fa la volontà di Dio. L'ascolto di Gesù è la volontà di Dio.

mio fratello e sorella. Grande e meraviglioso è il potere della Parola (cf capitolo seguente)!
L'ascolto di Gesù, Parola del Padre, ci rende figli come lui, quindi suoi fratelli e sorelle.

e madre. Chi lo ascolta, non solo si trasforma in lui, diventandogli fratello e sorella. Partecipa
misteriosamente alla maternità stessa di Maria, che lo ha generato al mondo.

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, osservando il luogo: in casa. Probabilmente la casa di Pietro a Cafarnao, che era
diventata come la nuova sinagoga, dove Gesù parlava al suoi e accoglieva gli altri.
3. Chiedo ciò che voglio: chiedo di convertirmi dalle mie resistenze allo Spirito, e di ascoltarlo
veramente.
4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, cosa dicono, cosa fanno.

Da notare: casa i suoi bestemmie


mangiare impadronirsi bestemmia contro lo
pane peccati Spirito Santo
volontà di Dio

4. Passi utili: Dt 6,4-9; 30,15-20; Sal 95; Gv 10,1-5.


19. E DAVA FRUTTO CHE VENIVA SU E CRESCEVA
(4,1-9)

41 E di nuovo cominciò
a insegnare lungo il mare:
e si riunisce presso di lui
moltissima folla,
così che egli, salito in barca,
siede sul mare,
e tutta la folla
davanti al mare
stava a terra.
2
E insegnava loro
molte cose in parabole,
e diceva loro nel suo insegnamento:
3
Ascoltate!
Ecco, uscì il seminatore a seminare.
4
E avvenne nel seminare
che parte cadde lungo la strada,
e vennero gli uccelli
e la divorarono;
5
e parte cadde sul terreno sassoso,
dove non aveva molta terra;
e subito spuntò
perché non aveva fondo di terra;
6
e quando il sole si levò,
riarse,
e, non avendo radice,
si essiccò.
7
E parte cadde nelle spine,
e vennero su le spine
e lo soffocarono
e non diede frutto;
8
e parte cadde sulla terra bella,
e dava frutto
che veniva su e cresceva,
e portava
uno trenta
e uno sessanta
e uno cento (per uno).
9
E diceva:
Chi ha orecchi
per ascoltare
ascolti.

1. Messaggio nel contesto


“E dava frutto che veniva su e cresceva” oltre ogni attesa, dice Gesù del seme che sta seminando tra
tante difficoltà.
Lo scenario del suo insegnamento è solenne ed evocativo: le folle, il mare, la barca. La parabola
inizia e termina rispettivamente con l'invito: “Ascoltate”, “chi ha orecchi per ascoltare, ascolti”. La
sua parola è il seme immortale, che ci rigenera (1Pt 1,23) a sua immagine, e ci fa entrare nella sua
famiglia (brano precedente).
Ma sembra che nessuno gli presti ascolto! Ciò che fa piace a tutti; ma ciò che dice gli ha messo
contro tutti. I farisei e gli erodiani lo vogliono uccidere, i suoi e gli scribi lo ritengono indemoniato
e pazzo. Invece di successo miete fraintendimenti, incomprensioni e morte. 1 suoi amici, per primi,
gli fanno notare che il suo modo di procedere è chiaramente fallimentare. Deve cambiarlo, o
almeno fare degli sconti, prima di guastare tutto!
Gesù conosce bene questa tentazione, anche prima che gli altri gliela presentino. Attraverso questa
parabola conferma la scelta già fatta, e spiega il mistero profondo della sua vita, che sarà anche
quello della sua parola in noi, nella Chiesa e nel mondo: è il mistero del regno di Dio, quello di
morte per la risurrezione.
Il Regno è paragonato costantemente al seme, la cui forza vitale specifica è provata e attivata
proprio dalla sua morte. Questa, lungi dal distruggerlo, è la condizione perché germini e si
manifesti in tutta la sua potenza. a differenza di ogni altra cosa, che marcisce e finisce.
Si accennava spesso al fatto che Gesù insegnava (1,14 s.21 s.39; 2, 2.13). Ora vediamo l'oggetto del
suo insegnamento: è la sua stessa vita, spiegata con similitudini.
Tutto il cap. 4 dichiara il senso positivo della crisi del suo ministero in Galilea, anticipo di quanto
avverrà a Gerusalemme. Non è un fallimento, ma il luogo della verifica. Le ostilità e la croce non
vanificano, ma realizzano la salvezza di Dio, la cui debolezza è più forte di ogni potenza umana.
Queste parabole, mentre illustrano la storia di Gesù, ci danno anche il criterio di discernimento per
essere tra i suoi e appartenere al suo regno. Non dobbiamo cercare il successo (vv. 3-9), la fama e
la rilevanza (vv. 21-25), il protagonismo e la grandezza (vv. 26-32). L'opera di Dio passa attraverso
le difficoltà, il fallimento, il nascondimento, l'irrilevanza, l'attesa paziente e la piccolezza, come ha
fatto lui.
Queste sono le qualità del seme da cui nasce l'albero del Regno. Esso è come un chicco, che porta
frutto abbondante non “nonostante”, ma “perché” muore (Gv 12,24).
Tutto il capitolo è strutturato su una serie di opposizioni: fallimento/successo, nascosto/manifesto,
segreto/alla luce, inazione/azione, piccolezza/grandezza. In realtà l'unica opposizione è quella tra il
pensiero di Dio, che non Il considera opposti, e quello dell'uomo, che vuole solo l'uno senza l'altro.
Sono parabole di speranza contro ogni speranza, o meglio, di una fede che sa che la parola di Dio è
un seme e non può non produrre l'effetto per cui è mandata (Is 55,11). Le resistenze che incontra,
rappresentate dai vari tipi di terreno, fanno parte dei costi, come nella semina.
Questa parabola è sapientemente costruita sul contrasto tra un insuccesso lungamente descritto e un
risultato finale a sorpresa, rafforzato dal contrappunto. Con questa, come con le seguenti, Gesù
vuol muovere alla fiducia in lui e nella sua parola, per non affogare nelle tempeste che le inevitabili
difficoltà scatenano. Se guardo a queste, vengo meno; se guardo lui, sono rianimato. Per questo
dice il salmista: “Tengo i miei occhi rivolti al Signore, perché libera dal laccio il mio piede” (Sal
25,15). La trappola tremenda infatti è la paura, che incanta e pietrifica chiunque la fissa.

Gesù parla alle folle dalla barca, seduto sul mare, e chiede ascolto. Richiama il Dio della creazione
e dell'esodo, che trionfa sulle acque. È inoltre il nuovo Mosè, che comunica la nuova legge:
“Ascoltate”. E infine la Parola stessa di Dio, che chiede udienza presso gli uomini per salvarli.

Discepolo è colui che lo ascolta. La sua parola propone novità che liberano desideri, ma anche
scatenano paure, suscitando nel cuore le resistenze sorde del male che vuol difendersi.
2. Lettura del testo

v. 1 E di nuovo cominciò. I farisei e gli erodiani hanno deciso di ucciderlo, gli scribi lo chiamano
indemoniato e i suoi - cosa che deve essergli pesata di più! - lo considerano pazzo. Tutto sembra
parlare di fine. Da qui lui comincia per un nuovo inizio.

a insegnare. Prima Gesù annunciava il Regno con parole e gesti potenti che lo dichiaravano e
autentificavano. Ora comincia a spiegarne il mistero in parabole.

salito in barca. La sua parola si rivolge a tutti dalla barca di chi già sta con lui (cf 3,9).

siede sul mare. Sulla riva una marca di folla accorre a lui; ed egli siede in mezzo al mare. Colui
che chiude in riserve gli abissi e come in un otre raccoglie le acque del mare (Sal 33,7), fa di questo
il suo trono, e domina sovrano su tutto - anche sugli abissi del nostro cuore, così difficili da
scandagliare e colmare.

tutta la folla davanti al mare stava a terra. Questa folla è chiamata all'esodo, per giungere con lui
all'altra riva, dove si vince il male, la malattia e la morte e si riceve il suo pane (cc. 5-6).

v. 2 insegnava in parabole. La parabola dice una cosa molto semplice e nota a tutti per spiegarne
un'altra nascosta e misteriosa. In questo capitolo, attraverso l'immagine del seme e delle sue
qualità, Gesù spiega il segreto del Regno e della Parola che lo annuncia. L'uomo conosce bene la
morte che viene dalla vita; ma nel caso del seme ha l'esperienza contraria, quella di una vita che
viene dalla morte.

diceva loro nel suo insegnamento. Per tre volte è ribadito il suo insegnamento. L'insegnamento del
Maestro è ciò che fa il discepolo. L'imperfetto “diceva” suggerisce un'azione prolungata.

v. 3 Ascoltate. “Ascolta, Israele”, inizia la professione di fede ebraica (Dt 6,4-9). La religione
ebraico-cristiana è fondata sull'ascolto: Dio parla e l'uomo risponde. Questo dialogo è la sua vita.
Sono proibite le raffigurazioni di Dio, perché l'unica sua immagine è l'uomo che lo ascolta: è suo
figlio, generato dalla parola che accoglie. Per questo dice il salmista: “Se tu non mi parli, io sono
come chi scende nella fossa” (Sal 28,1).
Gesù chiede ascolto a tutti gli uomini, perché diventino simili a lui, il Figlio.
La parabola è inclusa nell'invito ad ascoltarlo (vv. 3.9), proprio perché il seme di cui si parla è la
parola che esce dalla sua bocca.

uscì il seminatore. Gesù è il seminatore, il Figlio venuto a seminare a piene mani il regno del
Padre. Ma è anche il seme, cioè la parola di Dio, che è viva ed efficace e porta frutto facendoci
membri della sua famiglia (brano precedente). E sarà anche il raccolto, cioè chi l'ascolta, che si
identifica con lui.

v. 4 parte cadde lungo la strada. A noi sembra strano seminare fuori dall'arato. Ma in Palestina
prima si seminava e poi si arava, ricoprendo il seme in attesa delle piogge. Quello caduto su
eventuali viottoli, era visibile e facile preda degli uccelli prima che si arasse.

v. 5 parte cadde sul terreno sassoso. Si intende un terreno con una roccia coperta da un esile strato
di humus. Ma prima di arare non si conosce che profondità abbia, e si semina ovunque e
comunque. Il contadino che volesse essere sicuro in precedenza del risultato di ogni chicco non
seminerebbe mai. Si mangerebbe in un mese quel sacco di grano che, “gettato via”, diventa
alimento per tutto l'anno dopo. La sua azione, apparentemente in perdita, conta sulla forza del
seme. Sa, e per questo osa. “Nell'andare se ne va e piange, portando la semente da gettare; ma nel
tornare viene con giubilo, portando i suoi covoni” (Sal 126,6).

e subito spuntò. Il sasso che sta sotto il leggero strato di terra, cedendogli umidità e calore accelera
lo sviluppo del seme in piantina.

v. 6 riarse. Ma come cresce, subito avvizzisce e cade, perché manca di radici che pescano linfa in
profondità.

si essiccò. È come la mano di 3,1-6, incapace di accogliere il dono della vita.

v. 7 cadde nelle spine. Le spine nell'aratura vengono tolte. Ma facilmente le radici restano.

e lo soffocarono. Ributtando, i rovi crescono e stringono e soffocano il grano.

e non diede frutto. Il risultato di questa semina sembra disastrosa: il seme non attecchisce per via
degli uccelli; se attecchisce, non cresce a causa dei sassi; se cresce, è soffocato dai rovi. Eppure il
contadino semina ugualmente con fiduciosa certezza. Anche la parola di Gesù sembra non entrare
nel cuore dell'uomo; e se entra, non mette radici; e se mette radici, è soffocata. Eppure lui va avanti
nella sua semina: “per questo sono uscito”

v. 8 la terra bella. C'è anche questa, che ripaga ogni fatica. Al di là di ogni resistenza, il cuore
dell'uomo è fatto per la parola di Dio: è terra bella e feconda per il seme. Gesù lo sa: siamo stati
creati in lui, per lui e in vista di lui (Col 1,16).

e dava frutto. Indica un'azione che si prolunga.

che veniva su e cresceva. Che bello il grano che sale e cresce, questa vita tenera che scaturisce dalla
terra!

portava. Indica un'azione continuata.

uno trenta In media in Palestina un sacco di grano seminato ne dava 7/8, al massimo 11/12. Un
sacco ne dà trenta? È un'esagerazione!

uno sessanta. È impossibile!

uno cento. È assurdo!

v. 9 Chi ha orecchi per ascoltare ascolti. Siamo di nuovo richiamati ad ascoltarlo.


Questo frutto, esorbitante, impossibile, assurdo è la sicurezza di Gesù. Il seme che lui sparge ha la
potenza stessa della Parola che dal nulla ha creato tutto, anche il cuore dell'uomo, e sa trarre dalla
morte la vita - e non una vita qualunque, ma la vita stessa di Dio. Suo infatti è il seme, che dà frutto
secondo la sua specie.
In questo momento di crisi Gesù esprime così la propria fede incrollabile nel Padre, e invita noi ad
averla in lui: Dio solo è Dio e Signore di tutto e di tutti, degli uomini e della loro storia.
Noi vediamo oggi bene quanto abbia avuto ragione. Il suo seme è germinato per tutto il mondo; e
cresce inarrestabile, senza avere altro potere che quello di essere gettato e di marcire, come lui
stesso.
3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, osservando il luogo: le folle sulla riva e Gesù in mezzo al mare, seduto, che parla
dalla barca.
3. Chiedo ciò che voglio: ascoltare, e non avere paura delle difficoltà che la Parola incontra in
me; ma aver fiducia nella forza che essa ha in sé.
4. Medito sulla parabola, considerando le difficoltà che il seme incontra, e il frutto insperato che
porta.

Da notare: folle strada/uccelli


mare terreno sassoso/inaridisce
barca spine/soffocano
ascoltare terra bella/trenta sessanta e cento
seme per uno

4. Passi utili: Is 55, 1 -11; Sal 65; 126; 1Pt 1,22-25.

20. TUTTO È IN PARABOLE


(4,10-12)
10
E quando fu solo,
quelli intorno a lui
con i Dodici
lo interrogavano sulle parabole.
11
E diceva loro:
A voi è stato dato
il mistero del regno di Dio,
ma per quelli di fuori
tutto è in parabole,
12
così che
guardando
guardino e non vedano,
e ascoltando
ascoltino e non intendano,
a meno che si convertano
e sia loro perdonato.

1. Messaggio nel contesto

“Tutto è in parabole”, dice Gesù prima di spiegare quella che aiuta a comprenderle tutte. Anche la
nostra vita è come una parabola dalla nascita alla morte, in cerca della parola che le dia senso.
La parabola è un parlare per immagini: cose ovvie e note illustrano altre, misteriose e ignote. La
loro evidenza immediata si impone, suggerendo però qualcosa che rimane un enigma per chi sta
fuori, ma diventa chiaro per chi ha la chiave per entrare.
Dell'invisibile non possiamo parlare che attraverso il visibile. Se tutto il creato porta una traccia del
volto di Dio, Gesù ne è l'icona perfetta. Tutta la sua vita è come un'unica parabola, che ci parla di
altro: è l'esegesi del Padre, che in lui spiega pienamente le pieghe che celano il suo abisso increato.
In questo brano Gesù ci dice che, se vogliamo conoscere il segreto di Dio e del suo regno,
dobbiamo dimenticare le nostre risposte già prefabbricate e guardare a lui, contemplandolo,
lasciandoci interrogare su cosa vuol dirci. Troviamo la risposta solamente in un rapporto personale
con lui, in un costante confronto, che esige coinvolgimento e disponibilità a cambiare. Solo così
possiamo vivere dei dono che è venuto a portarci: il perdono di Dio, che ci rinnova la vita.
Una ricerca “staccata e scientifica” non approda a nulla. Chi vuoi rispondere da sé, senza
interrogarlo e impegnarsi a convertirsi, resta “fuori”. Per lui la sua parola rimane un interrogativo
senza risposta, una questione inevasa. Ma anche così non è inutile, perché lo lascia inquieto fino a
quando, cercando nel modo giusto, troverà.

Gesù qui dice le disposizioni necessarie per capire la parola fatta carne e tornata Parola per
incarnarsi in chiunque l'ascolta. Seminata nel mondo con l'annuncio, entra nella storia umana per
illuminarla e nel cuore di ciascuno per salvarlo. Ma rimane incomprensibile al di fuori di un
dialogo con lui.

Discepolo è chi si confronta con lui, ascoltandolo con sincerità e disponibilità a convertirsi al suo
perdono. In questo brano si spiegano meglio i criteri di chi è dentro e di chi è ancora fuori della
vera famiglia di Gesù (cf 3,31 ss).

2. Lettura del testo

v. 10 E quando fu solo. Questa solitudine non è semplicemente silenzio e attenzione; è la qualità di


un ascolto che da comunicazione si fa comunione e intimità di vita. I discepoli sono soli con il solo
la cui parola può rischiarare la loro mente; sono soli con il solo che può colmare la solitudine del
loro cuore.

quelli intorno a lui (cf 3,32.34). Sono la sua vera famiglia, seduta attorno a lui per ascoltarlo.

con i Dodici. Le moltitudini stanno con i Dodici che “sono con lui” (3,14). L'ascolto le aggrega
alla loro stessa cerchia, ampliandola all'infinito, fino a che, abbracciando tutti i fratelli, il corpo del
Figlio raggiunga la sua piena statura (Ef 4, 13).

lo interrogavano sulle parabole. Il tempo del verbo (imperfetto) indica che si tratta di
un'interrogazione insistente e prolungata. Per capire, bisogna chiedere la risposta a lui, Parola che
racchiude l'enigma di ogni vita.
Non cerchiamo di spiegare noi quanto solo lui può rivelare, non diciamoci da soli quanto lui vuoi
dirci. Perché dietro la comunicazione c'è chi comunica, dietro ciò che dice c'è chi vuoi darsi.
Interroghiamolo nella preghiera su quanto ha detto: entreremo in comunione con lui, che è il regno
stesso di Dio.

v. 11 A voi è stato dato. Il regno di Dio non esige una sapienza misteriosa che si acquisti con i
propri sforzi, o si conquisti con la propria intelligenza. È un dono fatto a chi ha la povertà e l'umiltà
di chiederlo a Gesù. Infatti è il dialogo con lui.

il mistero. Nei vangeli questa parola esce solo in questo passo dei sinottici. Indica una cosa segreta
che Dio rivela: il suo progetto di salvezza per tutti gli uomini (cf Ef 3,1 ss).
il regno di Dio. Il regno di Dio è un mistero per l'uomo, proprio perché è di Dio. È donato a chi
ascolta Gesù. Egli infatti è venuto a rivelare e realizzare in sé il disegno di colui che vuole che tutti
gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità (1 Tm 2,4). È la verità che salva è la
conoscenza dell'amore del Padre per tutti i suoi figli nel suo unico figlio Gesù. Stando con lui,
entriamo nel segreto di Dio e nel segreto nostro: Dio è nostro Padre e noi siamo suoi figli.

quelli di fuori (cf 3,31 ss). Sono quanti, ascoltando i propri interessi o pensieri, si oppongono o non
si decidono all'ascolto di Gesù. Non lasciandosi interrogare e non interrogando, non hanno risposta.
Sono i farisei e gli erodiani che decidono di ucciderlo (3,6), le folle che lo schiacciano (3,9), Giuda
che lo tradisce (3,19), i suoi che lo stimano pazzo (3,21), gli scribi che lo chiamano indemoniato
(3,22). O Signore, chi non è fuori, se tu con la tua pazienza non lo conduci dentro di continuo?

tutto è in parabole. Per chi sta fuori la parabola resta una domanda in sospeso, un enigma mai
risolto.
Il linguaggio in parabole rispetta insieme la realtà di Dio, che è superiore a tutto ma di cui tutto
parla, e la libertà dell'uomo, che comprende solo se vuole arrendersi alla verità che incontra ma lo
trascende. Contemporaneamente interpella questa libertà, aprendole la gabbia e sollecitandola
verso un orizzonte ancora ignoto.

v. 12 così che. Gesù parla in parabole per farsi capire, ma senza tradire la propria verità o violentare
la nostra libertà. “Così che” è un modo di citare la Scrittura, e significa: “così che in questo modo si
compie quanto ha detto il profeta Isaia” (Is 6,9 s). La nostra resistenza è già stata prevista da Dio e
denunciata dal profeti, appunto perché ci convertiamo.

guardando guardino e non vedano, ecc. Per vedere ciò che si guarda ci vuole un cuore libero dal
proprio io e accogliente. Uno vede ciò che vuole, e, soprattutto, non vede ciò che non vuole! Per
questo possiamo guardare e non vedere. Però se un altro con discrezione ce lo fa notare, ci
accorgiamo almeno di non vedere. Le parabole hanno la funzione di porci davanti un enigma.
Anche per chi non lo capisce, rimane un interrogativo aperto, una carica provocatoria, sempre
pronta ad esplodere.
Gesù volgerà un rimprovero analogo ai suoi discepoli in barca (8,18). I suoi ultimi tre miracoli
saranno proprio la guarigione del sordo-muto (7,31 ss) e la duplice guarigione dei cieco (8,22 ss;
10,46 ss). Come sempre Gesù denuncia il nostro male per annunciarci il bene che ci vuol dare se
glielo chiediamo.

a meno che si convertano. La condizione per vedere e ascoltare è convertirsi, cioè girarsi verso
Gesù (cf 1,15). Chi non è disposto a cambiar mente, cuore e mani, non può capire mai nulla di
nuovo.

e sia loro perdonato. È quanto Dio desidera fare e il Figlio dell’uomo è venuto a portare (2,10). Per
questo ha denunciato anche il peccato contro lo Spirito: perché uno lo riconosca. L'unica
condizione al perdono è sapersi peccatori: l'ammissione della propria cecità prelude già la
guarigione (Gv 9,41).

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, osservando il luogo: Gesù da solo con quelli attorno a lui con i Dodici, che lo
interrogano su ciò che hanno ascoltato e ricevono risposta.
3. Chiedo ciò che voglio: essere tra quelli che stanno con lui, lo interrogano e si lasciano
interrogare e convertire dalla sua parola. Gli chiedo di essere tra quelli a cui è stato dato il
regno di Dio.
4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, cosa dicono, cosa fanno.

Da notare: solo “fuori” ascoltare/intendere


mistero parabole convertirsi
regno di Dio guardare/vedere venir perdonato

4. Passi utili: Is 6,9 s; 29,9-12; Sal 32; 19.

21. NON INTENDETE QUESTA PARABOLA: E COME CAPIRETE


TUTTE LE PARABOLE?
(4,13-20)

13
E dice loro:
Non intendete questa parabola:
e come capirete tutte le parabole?
14
Il seminatore
semina
la parola.
15
Questi sono quelli lungo la strada:
coloro nei quali è seminata la parola,
e quando l'hanno udita,
subito viene il satana
e ruba la parola seminata in essi.
16
E questi sono similmente quelli seminati in terreno sassoso:
coloro che, quando hanno udito la parola,
subito l'accolgono con gioia,
17
e non hanno radice in se stessi,
ma sono incostanti;
poi, venendo afflizione o persecuzione
a causa della parola,
subito si scandalizzano.
18
E altri sono quelli seminati nelle spine:
questi son quelli che hanno udito la parola,
19
e, entrate le cure del secolo
e la seduzione della ricchezza
e le brame per le altre cose,
soffocano la parola,
e diventa infruttuosa.
20
E quelli seminati in terra bella
sono coloro che ascoltano la parola
e l'abbracciano,
e portano frutto,
uno trenta
uno sessanta.
e uno cento.

1. Messaggio nel contesto

“Non intendete questa parabola: e come capirete tutte le parabole?”. Le parabole di Gesù sono
introdotte da un imperfetto: “diceva”; la spiegazione alla comunità invece dal tempo presente:
“dice”. La sua parola infatti è detta qui e ora per chi si lascia interrogare e interroga, disposto a
convertirsi (brano precedente).
Questo brano ci dice delle reazioni negative che avvengono in noi quando ascoltiamo il vangelo. È
un'attualizzazione esemplare che fa la Chiesa primitiva, applicando a se stessa la parabola di Gesù
(vv. 3-9), dopo aver sentito come ascoltare (vv. 10-12). Avere chiara la vicenda della Parola nel
nostro cuore è aver la chiave per entrare in tutte le parabole.
Il seme che fruttifica attraverso difficoltà, crisi e morte (vv. 1-9), oltre che la vita di Gesù, illustra
pure la sorte della sua parola in noi. Anche noi siamo chiamati ad avere fiducia in essa, perché è
potenza di Dio: è seme suo, che germina per forza propria la sua stessa vita divina. Però è
indispensabile che sappiamo smascherare l'azione del nemico che cerca di impedirne il frutto.
La sua opera di ostruzionismo trova in noi buoni alleati. Il primo è il buon senso, che, alienandoci
nei nostri interessi materiali, ci rende impermeabili a tutto il resto.
Il secondo è la nostra fragilità, guardando alla quale siamo presi da sfiducia. Questa non lascia
attecchire in noi la verità, se non in modo superficiale. Alla minima difficoltà, le nostre paure
profonde prendono il sopravvento.
Il terzo alleato del nemico è il piacere, scambiato per gioia, che tende ad anestetizzarci, soffocando
in noi la capacità di intendere.
La Parola, come incontra, anzi scatena in noi queste tre difficoltà, così le affronta e le supera,
rispettivamente mediante la fede, la speranza e l'amore. La fede vince la menzogna che ce la fa
sentire estranea; la speranza la radica in noi e rinverdisce il nostro cuore essiccato dalla paura;
l'amore ce la fa vivere, superando ogni idolatria che la uccide. In questo modo il seme porta in noi
la pienezza del suo frutto, che è la vita dei figli di Dio.

Gesù è la Parola di Dio seminata in noi. Il mistero del Regno nella storia è ormai quello del seme,
che rivive in noi la sua stessa vicenda di allora.

Il discepolo intende il mistero di questa parola, che gli chiarisce l'enigma della sua esistenza.
Conosce bene anche le proprie resistenze. Come Gesù, anche lui nutre fiducia, cosciente delle
proprie difficoltà, ma soprattutto della potenza di Dio.

2. Lettura del testo

v. 13 Non intendete questa parabola: e come capirete tutte le parabole? Questa parabola ci fa
discernere ciò che la Parola opera in noi. Chi intende questa, è in grado di capire tutte le altre
parabole.

v. 14 Il seminatore semina la Parola. Il seminatore è Gesù. La semina è il suo annuncio. Il seme è


la Parola, cioè ancora lui stesso, Parola fatta carne e tornata parola per farsi carne nel nostro ascolto.

v. 15 quelli lungo la strada. L'ascoltatore è identificato con il terreno. La nostra identità infatti è
data dalla nostra accoglienza al seme.
Qui si tratta di un ascoltatore disattento, che sente la Parola come una delle tante parole. Cade
infatti sulla “via”, che rappresenta il luogo battuto dal senso comune e dalle ovvietà, dai “si dice” e
“si fa”. Tutto si volatilizza nella chiacchiera.

quando l'hanno udita, subito viene il satana. I pensieri di Dio non sono i pensieri dell'uomo (Is
55,8). Questi infatti pensa secondo satana (8,33), che gli fa porre come norma di comportamento il
vano tentativo di salvarsi, chiudendolo nell'egoismo.

e ruba la parola. Fin dall'Eden satana è il ladro della Parola. È abile nel farcela dimenticare,
inducendoci a pensare che non è per noi, togliendoci la fiducia che possiamo mai viverla, e
mettendoci davanti i nostri bisogni, i nostri limiti e le nostre preoccupazioni. Come ha tentato
Gesù, tenta ciascuno di noi. Se riesce a sottrarcela, ha conseguito il suo intento omicida: ci uccide
nella nostra realtà di figli.
La prima vittoria della Parola in noi sarà la fede, che ci fa credere a Dio e alla sua promessa più che
alle nostre paure. “Questa è la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede” (1Gv 5,4).

v. 16 quelli seminati in terreno sassoso. Qui si tratta di un ascolto entusiasta, ma superficiale. Il


seme non entra nelle profondità del cuore, pietrificato dalle paure, e non lo guarisce. C'è da
diffidare delle “conversioni” troppo rapide e non sofferte.

v. 17 non hanno radice, ma sono incostanti. Dove c'è sotto pietra, il seme germina in fretta, ma lo
stelo è senza radici e ricade su se stesso.

afflizioni. La fede subisce sempre tribolazioni, sia a causa del mondo che delle nostre ansie, che
sono vere persecuzioni interiori.

persecuzione a causa della Parola. La Chiesa di Marco sperimenta la persecuzione esterna, da


parte del potere politico. Questo può perseguitarla sia visibilmente, togliendole spazio, sia più
subdolamente, offrendole vantaggi per toglierle la libertà evangelica.

subito si scandalizzano. Tutti i discepoli nell'ora della prova saranno scandalizzati (14,27). Lo
scandalo è una pietra contro cui si sbatte. Il mistero di Gesù, roccia di salvezza, rimane anche
sempre pietra d'inciampo.
La seconda vittoria della Parola è la speranza, che la radica in noi e la fa penetrare nel nostro cuore
illuminandone le profondità e gli angoli nascosti.

v. 18 e altri sono quelli seminati nelle spine. Qui si tratta di un ascolto che, pur ben disposto (cf
6,20!), cerca di salvare capra e cavoli, nel tentativo di conciliare le esigenze di conversione con il
proprio comodo.

le spine. Queste spine, che vogliono regnare sul mondo intero (Gdc 9,14 s), saranno la corona di
sangue del nostro Signore (15,17).

v. 19 le cure. Sono le cose che ci assillano e ci stanno a cuore e si fanno oggetto di ricordo costante,
fino a controllare e dominare ogni nostra azione. Diventano l'idolo, che schiavizza tutta la nostra
vita.

del secolo. In greco “eone” significa il secolo presente in contrapposizione a quello definitivo che
sta per venire. La vita è un cammino. Dove sei, è il luogo per raggiungere la meta. Se ti fermi, non
arrivi a casa. Così è di chi dedica la sua vita a ciò che è transitorio e si dimentica di dove deve
arrivare. Per questo amare il mondo è odiare Dio (Gc 4,4).
seduzione della ricchezza. Il dio mammona è seducente, perché garantisce i beni necessari per
vivere e rende possibile la soddisfazione di ogni altro bisogno.

e le brame per le altre cose. La ricchezza stuzzica ogni brama, promettendo e permettendo di
soddisfarla: piacere e lusso, potere e prestigio, vanagloria e autosufficienza. Ma la brama è
insaziabile: il cibo che l'appaga, aumenta la fame.

soffocano la parola. Queste spine crescono sempre e comunque. Sono le tre concupiscenze su cui
si struttura il mondo (1Gv 2,16): la brama d'avere, di potere e di apparire. Generate dall'ansia di
vita, hanno come vigile sentinella la paura della morte. Mediante esse, il nemico ci tiene schiavi
della paura della morte per tutta la vita (Eb 2,14 s).
La terza vittoria della Parola è un amore grande, capace di superare ogni illusorio piacere,
rintuzzando la mondanità che sempre rinasce in noi. Questa è come i rovi: sono da bruciare ogni
anno e da tagliare più volte l'anno perché non invadano il campo!

v. 20 quelli seminati in terra bella. Qui si tratta dell'ascolto vero, per il quale l'uomo è fatto. Egli è
sempre terra buona, argilla che Dio si è plasmata per accogliere il dono della sua parola che lo rende
suo figlio. Proprio per questo l'uomo è “molto bello” (Gn 1,31).

ascoltano la parola e l'abbracciano. Chi ascolta, abbraccia la Parola come la sposa abbraccia lo
sposo.

portano frutto. Il frutto di questo seme, unico e di gusto molteplice, è lo Spirito Santo, la vita del
Padre che germina nel Figlio e in chi l'ascolta. Sogno antico dell'uomo, non è il frutto proibito, ma
il dono che Dio ci fa: diventare come lui, che è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà,
fedeltà, mitezza, dominio di sé (Gal 5,22).

uno trenta uno sessanta e uno cento. Questo seme è fecondo in modo incredibile e senza misura. A
chi più ha, più sarà dato (v. 25): “veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in
gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore” (2Cor 3,18). Alla nostra crescita nell'ascolto
della Parola non c'è altro limite che l'infinità di Dio.

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, osservando il luogo: come il precedente, Gesù da solo con i suoi, che dialogano
con lui per capire ciò che hanno ascoltato da lui.
3. Chiedo ciò che voglio: un cuore bello; le paure, le difficoltà, le persecuzioni e i
mondani non lo rendano impermeabile, incostante e distratto nei confronti della sua parola.
4. Verifico la qualità del mio ascolto, paragonando i vari tipi di terreno al mio cuore e vedo le
resistenze che in me la Parola deve vincere.

Considero ogni parola del brano.

4. Passi utili: Sal 107; Gc 1,19-27; 1Gv 2,15 s.


22. GUARDATE CIÒ CHE ASCOLTATE
(4,21-25)

21
E diceva loro:
Viene forse la lucerna
per essere messa sotto il moggio
o sotto il letto?
Non per essere messa sul lucerniere?
22
Nulla infatti c'è di nascosto
che non debba essere manifestato,
né di segreto
che non debba essere manifesto.
23
Se uno ha orecchi
per ascoltare
ascolti.
24
E diceva loro:
Guardate
ciò che ascoltate.
Con la misura
con cui misurate
sarà rimisurato a voi,
e vi sarà dato in aggiunta.
25
Infatti a chi ha,
gli sarà dato;
a chi non ha,
anche ciò che ha
gli sarà tolto.

1. Messaggio nel contesto

“Guardate ciò che ascoltate!” Prendendo alla lettera queste parole di Gesù, ci si dice di guardare
ciò che ascoltiamo. Ma come si può guardare una parola?! Sì, siamo chiamati a vedere lui, Verbo
del Padre, piena identità tra ciò che è e ciò che dice. In questa contemplazione di lui attraverso la
sua parola e della sua parola attraverso di lui comprendiamo il mistero del Regno.
Se prima parlava di seme, ora parla di luce - altra realtà terrestre adatta a illustrare misteri celesti.
Inizio della creazione. principio di vita e intelligenza, essa è più che un attributo di Dio. Egli è luce,
e in lui non ci sono tenebre (1Gv 1,5); la sua parola è lampada per i nostri passi (Sal 119,105).
Gesù stesso si proclama luce vera del mondo venuta per illuminare ogni uomo (Gv 8,12; 1,9).
Con queste brevi parabole Gesù spiega come mai il regno di Dio non si imponga con evidenza
prepotente, ma si proponga con discrezione e modestia. Infatti la luce di Dio rimane una nube
oscura al nostri occhi. La sua parola illumina, ma confondendoci sempre non poco e rivelando le
nostre opacità.
Gesù si mostra al mondo non in modo spettacolare - come vorrebbero i suoi (Gv 7,4!), ma in tono
umile e dimesso. Evita di mettersi in mostra, ci tiene a fuggire la pubblicità.
Nella sua vita esiste una tensione che a noi risulta incomprensibile: è luce, ma sta sotto il moggio; è
rivelazione, ma è segreta; è manifestazione, ma nascosta. È un contrasto divino, in cui il Signore si
fa vedere, ma sempre sotto il segno opposto a quello che noi attendiamo. Infatti la sua luce brillerà
pienamente solo dalla croce. Questa è il lucerniere da cui si mostrerà a tutti, rivelando l'identità sua
e di Dio.
A chi gli dice che è ora di farsi conoscere (vv. 21-22), Gesù risponde che è ora che ci mettiamo ad
ascoltarlo bene, per conoscerlo (vv. 23-25).

Gesù è luce e vita del mondo. Ma solo nel nascondimento della croce svela il suo segreto, che è il
mistero di Dio.

Il discepolo lo ascolta e lo contempla, lasciandosi permeare da lui, in un atteggiamento di fede e di


accoglienza che Dio colma del suo dono.

2. Lettura del testo

v. 21 la lucerna. Le parabole del seme sottolineano la vitalità della Parola, che germina oltre la
morte. Questa parabola della luce indica le qualità di questa vita: è intelligenza, calore e amore. La
lampada, messa in un luogo eminente, squarcia e tenebre della notte. Gesù è la luce del mondo (Gv
8,12). La sua azione e le sue parole dovrebbero essere poste in alto, messe bene in vista per
illuminare tutti. Non ha forse detto: “ Sono venuto a portare un fuoco sulla terra, e come vorrei che
fosse già acceso”? (Lc 12,49). Come mai allora non si dà da fare, cercando rilevanza, stima, fama,
successo? Non gli mancano i mezzi!

sotto il moggio o sotto il letto. È il rimprovero di chi gli vuol bene: “Nessuno agisce di nascosto, se
vuol essere riconosciuto pubblicamente. Se fai tali cose, manifestati al mondo” (Gv 7,4). Lui
invece sembra che metta la lampada sotto il moggio per spegnerla o sotto il letto per nasconderla!
Perché si sottrae quando tutti lo cercano, non sa approfittare delle occasioni, non usa dei suoi poteri,
proibisce ai guariti di fargli propaganda e fa tacere gli spiriti che rivelano la sua divinità? Sta
sbagliando tattica! Pietro si sentirà in dovere di dirglielo (1,36 s; 8,32). Tutte queste cose si
profilarono nette ai suoi occhi già nella luce accecante del deserto e già da allora sa da dove
vengono!

Per Gesù il problema del Regno non è aver rilevanza, ma conservare l'identità. La candela non deve
preoccuparsi di illuminare: brucia, e per questo illumina.

sul lucerniere. È il luogo naturale su cui porre la lampada. La croce sarà lucerniere di Gesù: gli
darà tutta la sua rilevanza, rivelando chi è lui e chi è Dio. Anche il più lontano, il centurione che
comanda il plotone di esecuzione, ne prenderà atto (15,39). “Quando sarò innalzato, conoscerete Io-
sono” (= JHWH) (Gv 8,28).

v. 22 Nulla c'è di nascosto che non debba essere manifestato. Proprio sulla croce sarà manifestato il
segreto profondo di Dio, che all'uomo è da sempre nascosto: Dio è amore senza limiti per tutti.

né di segreto che non debba essere manifesto. Lì, nel suo massimo nascondimento, diviene
manifesto ciò che satana con la sua menzogna ci nascose, presentandoci un Dio cattivo, invidioso e
punitore.

v. 23 Se uno ha orecchi per ascoltare ascolti. L'orecchio dell'uomo è fatto per ascoltare la parola di
Dio. Questa è la sua differenza specifica dagli altri animali che periscono. Ma a causa della
menzogna, ascolta più le proprie paure che la sua promessa. La fede è dar più credito alla sua che
alla nostra parola.
v. 24 Guardate ciò che ascoltate. Gesù richiama ad ascoltare bene, con attenzione. Il nostro ascolto
deve volgersi a lui, in cui contempliamo la realtà della Parola che ascoltiamo. In lui, infatti, sono
tutti i tesori della sapienza e della scienza (Col 2,3) e abita corporalmente tutta la pienezza della
divinità (Col 2,9). Dio, nessuno l'ha mai visto; lui, il Figlio, ce l'ha raccontato con la sua vita e la
sua opera (Gv 1,18). Guardando la sua storia, entriamo nel segreto di Dio. La sua carne è il criterio
supremo di discernimento spirituale (1Gv 4,2 s).
A noi è sempre possibile “contemplare” la Parola, perché il vangelo ci racconta di Gesù che l'ha
realizzata. In questa contemplazione amorosa di lui penetriamo nel mistero di Dio. Alla tua luce
vediamo la luce (Sal 36,10).

Con la misura con cui misurate sarà rimisurato a voi. A ciascuno è dato il mistero di Dio nella
misura in cui ha fede, che è questo sguardo e orecchio su Gesù.
La misura serve per valutare, pesare e giudicare. Noi valiamo, pesiamo e siamo giudicati secondo
che valutiamo, pesiamo e giudichiamo Gesù e la sua parola. La nostra fede in lui è il nostro
giudizio su di noi.

e vi sarà dato in aggiunta. Il dono di Dio eccede ogni misura. Siamo stimolati ad accrescerla per
ricevere sempre di più. C'è un dinamismo nel nostro rapporto con lui, che non cesserà mai, e ci
porta a partecipare della sua infinità: più desideriamo, più otteniamo, ma otteniamo sempre più di
quanto desideriamo, così che si dilati il desiderio, per ottenere ancora di più, in un crescendo
continuo. L'amore infatti è senza fine. Nessun appagamento lo estingue: ciò che lo sazia, anche lo
alimenta.

v. 25 a chi ha, gli sarà dato. È un'esortazione a non fermarci mai nel nostro cammino di ascolto e
contemplazione. Più uno è ricco, più si arricchisce. Piove sempre di più sul bagnato.

a chi non ha, anche ciò che ha gli sarà tolto. Chi non ha fede, ossia non contempla e non ascolta la
Parola, perde la realtà di cui è immagine; perde se stesso. Più uno è povero, più impoverisce.

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, osservando il luogo: il mare, dove Gesù narra le parabole del Regno.
3. Chiedo ciò che voglio: guardare a lui, per comprendere il suo mistero di nascondimento.
4. Medito sulle parole di Gesù, vedendo come lui le ha realizzate, e, nel nascondimento della
croce, ha rivelato il segreto di Dio.

Da notare: lampada (luce) orecchio/ascoltare


segreto guardare
manifestare misurare
nascosto avere/dare

4. Passi utili: 1Sam 16,1-13; Sal 113; 1Cor 1,26-30; Gv 8,12; 12,32.
23. E DORMA E VEGLI, E DI NOTTE E DI GIORNO, IL SEME
GERMOGLIA E CRESCE LO STESSO
(4,26-29)

26
E diceva:
Così è il regno di Dio,
come un uomo che abbia gettato
il seme sulla terra:
27
e dorma e vegli
e di notte e di giorno,
il seme germoglia
e cresce lo stesso,
- come egli non sa.
28
Automaticamente
la terra porta frutto,
prima uno stelo,
poi una spiga
e poi grano pieno nella spiga.
29
Quando il frutto è pronto,
subito manda la falce
perché la messe è lì.

1. Messaggio nel contesto

“E dorma e vegli, e di notte e di giorno, il seme germoglia e cresce lo stesso”. Non è l'azione
dell'uomo che produce il Regno, ma la potenza stessa di Dio, nascosta nel seme.
Tante nostre ansie per il bene non solo sono inutili, ma dannose. Come il male ha in sé la propria
morte e si uccide, così il bene ha in sé la propria vita e cresce da sé, in modo inarrestabile.
In queste parole Gesù evidenzia il contrasto tra l'inattività nostra e l'azione di Dio. Ma è solo
apparente, perché egli agisce proprio dove noi sappiamo di non potere e attendiamo tranquilli con
fiducia. L'efficacia evangelica è l'opposto dell'efficienza mondana.
A Gesù dicono che bisogna darsi da fare prima che sia troppo tardi: è ora di agire con urgenza e
determinazione - come gli zeloti - perché non vada perduto il frutto delle sue fatiche. Ma lui
risponde che, a tirar l'erba, non cresce. Solo si strappa. La vita ha il suo ritmo, che non puoi
impunemente affrettare. Una volta gettato, il seme cresce da sé, con la calma di un fiume che va al
mare. “Invano vi alzate di buon mattino, tardi andate a riposare e mangiate pane di sudore: il
Signore ne darà ai suoi amici nel sonno” (Sal 127,2).
Il regno di Dio è di Dio. Quindi l'uomo non può né farlo né impedirlo. Può solo ritardarlo un po' -
come una diga sul fiume.
“Non abbiate paura e vedrete la salvezza che il Signore oggi opera per voi. Il Signore combatterà
per voi, e voi starete tranquilli” (Es 14,13 s), dice Mosè al popolo che si trova coi nemici alle
calcagna e il mare davanti. La nostra salvezza sta nel volgerci a Dio; la nostra forza nell'abbandono
confidente in lui (Is 30,5). Il nostro dimenarci non fa che affogarci. Chi ci salva è lui, il Signore
unico di tutto e di tutti. Il credente lo sa e sta tranquillo. L'empio invece è come “un mare agitato,
che non può calmarsi e le cui acque portano su melma e fango” (Is 57,20). Tutte le nostre
inquietudini nel bene vengono non da Dio, ma dal nemico: sono segno di sfiducia e causa di
perdizione.
Questa è la parabola assoluta della fede - quella che mancherà ai discepoli la notte di quello stesso
giorno, quando lui “dormirà” ed essi veglieranno costernati (vv. 35-41).
Un contadino stava seduto ai bordi di un vasto campo pulito, senza un filo d'erba. Mandò altrove i
bambini che volevano giocare a palla; fece deviare un viandante che lo stava calpestando per andare
diritto alla sua meta; mandò via un prete che glielo chiedeva per costruire le opere parrocchiali. In
quel campo c'era niente; ma il contadino lo contemplava già biondeggiante di messe. Non era un
illuso: l'apparenza dava ragione agli inesperti; la realtà invece a lui, che aveva seminato e sapeva
che il seme non delude.
Chi non ha la sapiente pazienza del contadino, distrugge con due mani ciò che fa con una.

Gesù ha seminato la Parola, ed è lui stesso il seme di Dio gettato nel campo della storia. Non è
un'attività ulteriore ed esteriore che lo fa crescere. Ha solo bisogno della passività: una terra spoglia
e pulita che accoglie, una pazienza fiduciosa che attende.

Il discepolo sa che la sua vita è un campo seminato, e non bisogna giocarci sopra (uomo estetico),
né calpestarlo per altri fini (uomo etico) né sovraedificarlo di opere sacre (uomo religioso). La terra
è feconda in forza dei seme che già contiene. E, in attesa della mietitura, invoca “Maràna thà; vieni,
o Signore”, volgendosi a colui che garantisce: “Sì, verrò presto. Amen” (1Cor 16,22; Ap 22,20).
Egli crede nel Signore che dice: “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non ritornano
senza aver irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al
seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me
senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata”
(Is 55,10 s).

2. Lettura del testo

v.26 Così è il regno di Dio, come un uomo che abbia gettato il seme. Il regno di Dio viene di sicuro:
come un campo già seminato, la nostra terra darà certamente il suo frutto (Sal 67,7).

v. 27 e dorma e vegli e di notte e di giorno. Il dormire precede il vegliare e la notte il giorno non
solo perché si computava il tempo partendo dal tramonto. Il sonno e la tenebra, immagini della
morte, ci ricordano che proprio morendo il seme risveglia la sua qualità specifica e produce vita.

il seme germoglia e cresce lo stesso. Non è l'azione dell'uomo, ma la sua stessa forza che lo fa
germinare.

come egli non sa. È un prodigio che supera la nostra comprensione. Sarà la sorpresa delle donne
davanti al sepolcro il mattino di pasqua. I loro occhi crederanno di sognare prima che la loro bocca
si apra al riso e la loro lingua si sciolga in canti di gioia (Sal 126,2).

v. 28 Automaticamente. È una parola greca che significa “per impulso proprio, per azione
spontanea” (cf At 12,10!). Neanche il seme fa alcuno sforzo. Sembra gonfiarsi di morte, invece è
gravido di vita.

la terra porta frutto. La terra non produce il frutto, ma lo porta, come un dono che riveste la sua
nudità.

prima uno stelo. L'occhio inesperto non lo distingue dall'erba.

poi una spiga. È già il frutto; ma ci vuole ancora tempo prima che maturi.
poi grano pieno nella spiga. il frutto maturo. Tutto questo viene “automaticamente”, senza che
l'uomo vi faccia niente o capisca molto. Solo sa aspettare e pazientare tranquillo.

v. 29 subito si manda la falce, ecc. La mietitura è il regno di Dio, col suo giudizio di salvezza (Gl
4,13), raffigurato nella gioia del raccolto.
Tutta la storia è di Dio: lui ha seminato, lui fa crescere e lui garantisce il frutto. I popoli tumultuano,
i potenti possono tutti allearsi contro per combatterlo. Lui dall'alto ride (Sal 2). Ci garantisce che
tutto - ovviamente anche il male - concorre a compiere il suo disegno di salvezza (cf Rm 8,28). La
calma dei suo sorriso regna sovrana sul caos di ogni potenza mondana, che, senza volerlo, fa
proprio ciò che lui vuole (cf At 4,27 s).

3. Esercizio

1 . Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, osservando il luogo: il mare, dove Gesù parla alle folle.
3. Chiedo ciò che voglio: la pazienza e la fiducia nella sua parola che opera nella storia mia e del
mondo intero.
4. Guardo Gesù e ascolto le sue parole, vedendo come le ha realizzate nella sua vita. E
considero come la sua parola e il suo regno ancora oggi agisce nel nostro cuore e nel mondo
intero allo stesso modo.

Da notare: dormire grano


notte messe
automaticamente porta frutto falce

4. Passi utili: Sal 119; 126; 127; Eb 4,12 ss; 1Ts 2,13; 2Pt 3,9-15.

24. È PIÙ PICCOLO DI TUTTI I SEMI DELLA TERRA


(4,30-34)

30
E diceva:
Come paragoneremo Il regno di Dio?
O in che parabole lo metteremo?
31
Come un chicco di senapa,
che, quando è seminato sulla terra,
è più piccolo
di tutti i semi della terra;
32
e quando è seminato
vien su
e diventa più grande
di tutti gli ortaggi
e fa rami grandi
così che sotto la sua ombra
possono dimorare gli uccelli del cielo.
33
E con molte parabole simili
diceva loro la Parola
secondo che potevano ascoltare.
34
Ora non parlava loro senza parabole,
ma in privato
ai propri discepoli
spiegava tutto.

1. Messaggio nel contesto

“È più piccolo di tutti i semi della terra”. Con queste parole Gesù descrive l'ultima qualità del
Regno. Richiamiamo in sintesi anche le altre.
La prima è quella del fallimento, attraverso cui viene il successo; la seconda è quella del
nascondimento, attraverso cui viene la rivelazione di Dio (vv. 21-25); la terza è quella
dell'inefficienza umana, attraverso cui agisce la sua potenza (vv. 26-29). Ora, la quarta, è quella
della piccolezza, in cui manifesta la sua grandezza.
La storia di Gesù nella sua carne (= debolezza) ci fa vedere il modo con cui Dio agisce, e ci dà il
criterio di discernimento per leggere, valutare e scegliere secondo il suo Spirito. Per questo nelle
contraddizioni abbiamo speranza, nel nascondimento fiducia, nell'inefficienza forza, nella
piccolezza coraggio.
La venuta del Regno è ostacolata non dalla cattiveria degli uomini le persecuzioni anzi l'affrettano!
- bensì dalla stupidità dei buoni. La nostra inesperienza spirituale è la più grande alleata dei
nemico. Questi ci dà volentieri molto zelo quando manchiamo di sapienza evangelica, perché
usiamo per il Regno quegli strumenti che il Signore scartò come tentazioni - esattamente il
successo, la pubblicità, l'efficienza e la grandezza.
Le parabole sono uno specchio del volto di Gesù e dei suo ministero. Ci aiutano a conoscerlo,
perché lo possiamo amare e testimoniare così com'è, non come ce lo inventiamo noi.
Con queste parole sul chicco di senapa, Gesù risponde a chi è deluso della piccola comunità che ha
messo in piedi. Il messia non doveva riunire attorno a sé tutto il popolo e dominare tutte le nazioni?
Perché allora limita la sua azione a una ristretta cerchia di persone, di cui cura con pazienza
l'identità, senza cercare una rilevanza più grande? Ma questo è lo stile di Dio, che desidera verità e
libertà, non certezze e consenso.
Se pianti un grosso tronco, nasce niente; se pianti un piccolo seme, cresce un albero. Gesù non mira
al successo e non fa sconti alle masse: vuole persone autentiche, che abbiano le medesime
caratteristiche di quel seme che è lui stesso. Una piccola candela illumina più di mille notti; e alla
sua fiamma tutti possono accendere.

Gesù è la grandezza di Dio che per noi si è fatto piccolo, fino alla morte e alla morte di croce.
Proprio così diventa il grande albero, dove ciascuno e tutti possono trovare accoglienza.

Il discepolo rispecchia il suo spirito di “minorità e servizio”. Questo vince il male del mondo, che è
desiderio di grandezza e di potere.

2. Lettura del testo

v.30 Come paragoneremo il regno di Dio? O in che parabole lo metteremo? Si nota uno sforzo per
trovare l'immagine più adatta a descrivere la grandezza del regno di Dio.
v. 31 Come un chicco di senapa. La senapa è un ortaggio che in una stagione cresce in grande
arbusto.

è più piccolo di tutti i semi della terra. La proverbiale piccolezza dei suo seme è il termine di
paragone per il regno di Dio. Gli uomini cercano di essere sempre più grandi, e per questo litigano
tra di loro (vedi anche i discepoli: 9,33 s; 10,37). Gesù invece ha scelto di essere piccolo, anzi il più
piccolo di tutti (Lc 9,48). Questa “minorità” è la caratteristica dei Figlio dell'uomo che è venuto per
servire e dare la vita per tutti (10,45). Egli è il Signore, il primo di tutti, proprio perché ultimo e
servo di tutti (9,35).
Chi ama si fa piccolo per lasciare posto all'amato; il suo io scompare per diventare pura accoglienza
dell'altro. Per questo la piccolezza è il segno della grandezza di Dio, diversa da quella dell'idolo
(Dn 2,31-35; Lc 2,12).

v. 32 vien su. È la sorpresa che sempre riserva il seme: la bellezza della vita che sale dalla terra,
simile al corpo di Cristo che si leva dal sepolcro.

diventa più grande di tutti gli ortaggi. Il ramoscello di Ez 17 diventa un magnifico albero. Qui la
solennità dei cedro lascia il posto all'umiltà di un ortaggio. La grandezza di Dio appare sempre
piccola all'uomo. È di un altro ordine: è quella dell'amore.

fa rami grandi. Questi rami, tanto grandi da avvolgere il mondo intero, sono i bracci dell'albero
della croce. “Le acque lo avevano nutrito e l'abisso lo aveva fatto innalzare”: le potenze del male e
della morte, credendo di distruggerlo, l'hanno fatto germinare ed hanno elevato la sua cima tra le
nubi (Ez 31,43). Il piccolo sasso - pietra scartata! - dopo aver abbattuto il grande colosso, diviene
una grande montagna (Dn 2,35).

sotto la sua ombra possono dimorare gli uccelli. “Fra i suoi rami fecero il nido tutti gli uccelli del
cielo, sotto le sue fronde partorirono tutte le bestie selvatiche, alla sua ombra sedettero tutte le
grandi nazioni” (Ez 31,6; cf 17,23; Dn 4,17 s). È un'immagine del regno di Dio che abbraccia tutti i
popoli della terra. Proprio la piccolezza della croce manifesterà la grandezza di Dio: un potere
d'amore infinito, che offre riparo e vita a tutti, cominciando dagli ultimi e dai più lontani.

dimorare. In greco è “fare la tenda, il tabernacolo”, che richiama la dimora di Dio tra gli uomini.
Sulla croce, dimora di Dio tra noi, tutti noi possiamo fare la nostra dimora in lui.

v. 33 con molte parabole simili diceva loro la Parola. Le parabole sono tante, la Parola che
illustrano è una: quella della croce.

v. 34 non parlava loro senza parabole. Perché le parabole permettono a ciascuno di comprendere
secondo la sua disponibilità, lasciando un residuo incompreso che stimola l'appetito di una
conoscenza maggiore.

in privato, ai propri. In greco le due parole hanno la stessa radice (kaat' idían e toîs idíois). È in
questo spazio privato che i discepoli entrano in intimità con lui, e diventano i “suoi propri”
discepoli.

spiegava tutto. Lui, il maestro interiore, è sempre disponibile a spiegare a chiunque gli chiede (cf
vv. 10 ss).

3. Esercizio
1. Entro in preghiera, come al solito.
2. Mi raccolgo, osservando il luogo: il mare, come nel brani precedenti.
3. Chiedo ciò che voglio: capire e adorare il mistero della piccolezza di Dio, che è la sua
grandezza.
4. Traendone frutto, medito ogni parola e contemplo come Gesù dalla croce l'ha realizzata,
diventando il più piccolo di tutti, per accogliere tutti e offrire a ciascuno la sua casa in cui
abitare.

Da notare: piccolo parola/parabola


seme in privato
rami i propri

4. Passi utili: 1Sam 2,1-11; Ez 17,22-24; Gdc 7; 1Sam 17,32-51; Dn 2,31-35; Lc 2,5-12; Ap 22,1-5.

25. PERCHÉ SIETE PAUROSI COSÌ? COME NON AVETE FEDE?


(4,35-41)

35
E dice loro in quello stesso giorno,
fattasi sera:
Passiamo di là!
36
E, congedata la folla,
prendono lui
com'era
nella barca;
e altre barche
erano con lui.
37
E venne un turbine
grande di vento,
e le onde si scagliavano
contro la barca,
così che già si riempiva
la barca.
38
E lui era a poppa
dormendo
sul cuscino.
E lo svegliano
e gli dicono:
Maestro,
non ti curi
che periamo?
39
E, risvegliatosi,
sgridò il vento
e disse al mare:
Taci
e chiudi la bocca!
E cadde il vento
e fu grande bonaccia.
40
E disse loro:
Perché siete paurosi così?
Come non avete fede?
41
E temettero di grande timore,
e dicevano l'un l'altro:
Chi è mai costui,
che e il vento e il mare
lo ascolta?

1. Messaggio nel contesto

“Perché siete paurosi così? Come non avete fede?”, chiede Gesù ai suoi. Hanno ascoltato la sua
parola. Ma l'hanno ricevuta come essa è veramente, quale parola di Dio, che opera in colui che
crede (1Ts 2,13)?
Dominati dai loro pensieri e dalle loro paure, non hanno ancora fede. Non osano andare a fondo
con lui. Il battesimo è essere associati a lui nella sua morte e nella sua risurrezione. Questo
racconto è un'esercitazione battesimale per vedere se la Parola ha prodotto il suo frutto: la fiducia
per abbandonare la propria vita con lui che dorme e si risveglia.
Lo stesso giorno delle “parabole”, i discepoli falliscono l'esame. Ma l'esperimento non è inutile; fa
uscire le difficoltà del loro cuore, tardo e lento a credere.
La Parola dovrà entrare in tutte le loro paure. Ma prima deve evidenziarle, anzi suscitarle e farle
uscire allo scoperto, per poterle vincere.
È notte, sul mare in tempesta Gesù dorme tranquillo. I suoi, che sono con lui, nelle sue stesse
difficoltà, gridano di angoscia. Non capiscono questo sonno, immagine del suo abbandono alla
morte. Dormendo, egli realizza la fiducia espressa nelle parabole. I discepoli, al contrario, sono in
balia della disperazione.
La Parola, caduta “sulla via”, non è attecchita. È entrata superficialmente; ma sotto c'è la pietra del
loro cuore, che impedisce loro di affidarsi al Signore.
Questa diffidenza può dissolversi solo quando si risponde alla domanda: “Chi è costui?”.
L'apparente inazione del suo sonno è la massima azione in nostro favore: dorme per essere con noi
anche nella valle oscura. E proprio qui si alza con tutta la potenza di JHWH, placando ogni
tempesta, anche quella del nostro cuore.

Gesù ci viene rappresentato nel suo mistero profondo: la notte, mentre dorme, egli è il seme gettato,
la luce nascosta, la forza automatica dei Regno, la piccolezza del chicco di senapa. Ma il seme
germina morendo, la luce brilla nelle tenebre, la forza vince con la calma, la piccolezza diventa
grande albero. Lo costateremo solo al suo risveglio. I discepoli si chiedono: “Chi è dunque costui,
che anche il vento e il mare lo ascolta?”. È la domanda fondamentale del vangelo.

Il discepolo è colui che, dopo aver ascoltato la Parola, si affida a Gesù che dorme, al di là delle
proprie paure. Sulla sua parola accetta di andare a fondo con lui - l’alternativa è andare a fondo
senza di lui! - nella speranza di emergere con lui a vita nuova.

2. Lettura dei testo

v. 35 in quello stesso giorno. Il giorno in cui si rivela la Parola è lo stesso della fede e della sua
prova: “Se oggi udite la sua voce, non indurite il vostro cuore” (Sal 95,8 vlg).
fattasi sera. Le tenebre sono figura della morte (cf 1,32). La notte delle notti sarà quando si
oscurerà il sole a mezzogiorno, e il Signore dormirà. Allora sarà la somma di tutte le difficoltà di
cui Gesù raccontò nelle parabole.

Passiamo di là. Proprio in questa notte si compie l'esodo e si raggiunge l'altra sponda: la sera si
parte, necessariamente!

v. 36 prendono lui. L'iniziativa dei discepoli è su invito del Signore, che con la sua parola non cessa
di attirarli.

com'era. Indica forse la fretta della notte di pasqua, decisiva per la salvezza (Es 12,11). Ma com'era
Gesù? Come il grano che va sotto terra, come la luce che entra nella notte, come il seme che
germoglia nel sonno, come il chicco di senapa che è piccolissimo. È importante prenderlo così
com'è, non come lo vorremmo noi.

altre barche erano con lui, Tutte queste barche, quasi un festoso corteo, si perdono poi di vista.
Faranno naufragio? Tutti dobbiamo attraversare lo stesso mare, credenti e non credenti. Giunta la
sera, tutte le barche partono. La differenza è che noi sappiamo che lui dorme con noi. È però
interessante notare che anche queste barche “erano con lui”. Egli non abbandona nessuno.

v. 37 venne un turbine grande di vento. ecc. Di notte si scatena l'inferno: dall'alto il vento spinge
verso il basso, dall'abisso l'acqua si alza per inghiottire la barca. Nell'AT il mare è presentato come
un mostro, una potenza ostile. Dio l'ha vinto nella creazione, e l'ha diviso per liberare il suo popolo.
Anche le sofferenze mortali sono spesso paragonate ad acque travolgenti e profonde. La notte, il
turbine, l'acqua e l'abisso sono tutte immagini della morte. Questa è “il” problema dell'uomo, unico
animale cosciente di morire. Quanto pensa e fa, è per “salvarsi”. Tentativo fallito in partenza,
perché sa che è disperatamente inutile! Anzi. proprio questo tentativo, rendendolo egoista, è causa
di tutti i suoi mali e della sua morte. Beffa atroce: il presunto rimedio è causa del danno!

v. 38 E lui era a poppa dormendo sul cuscino. La poppa è la prima parte della barca che va a fondo.
Gesù è abbandonato come un bimbo svezzato in braccio a sua madre (Sal 131,2). “In pace mi
corico e subito mi addormento: tu solo, Signore, al sicuro mi fai riposare” (Sal 4,9). Il suo sonno
non è come quello di Giona, che disobbedisce a Dio. È sereno e tranquillo, proprio perché lo ascolta
e ha fiducia in lui. È notte, e dorme, lasciando che Dio agisca (cf v. 27)! Il suo sonno è figura della
sua morte, che sarà bufera, insieme scandalo e pietra di paragone per la fede dei discepoli. Davanti
al mare in tempesta, essi ondeggiano e barcollano come ubriachi: è svanita ogni loro perizia (Sal
107,27). Ma il Signore dorme nella loro barca: si fida anche di loro!

E lo svegliano. Svegliati, perché dormi, Signore? Non darti riposo e non restare muto e inerte! Se
no, sono come uno che scende nella fossa (Sal 44,24; 83,2; 28,1). In realtà è la nostra fede che
dorme. Lui proprio in questo suo sonno, che ci fa tanta difficoltà, realizza anche per noi la fiducia
di cui ha parlato.
La notte prova se abbiamo capito o meno l'unica Parola nascosta nelle tante parabole del giorno.

Maestro. Non hanno ancora capito che non è solo un maestro che insegna: è il Signore, la cui
parola “ha autorità” (1,22.27).

non ti curi che periamo? La paura della morte è la preoccupazione prima di ogni nostra azione; non
perire è il nostro assoluto, il nostro dio. Il Signore stesso è invocato solo come strumento di
salvezza. E lui ci sta, operando però la salvezza non da uomo, bensì da Dio. La nostra morte è
sempre stata la sua “cura”, anche prima del peccato (cf Gn 3,3). Dopo crescerà, fino a farsi cura
mortale.

v. 39 E, risvegliatosi. Gesù si risveglia come un potente dal sonno (Sal 78,65).

sgridò il vento. Lo esorcizza (“sgridò”) come i demoni. Nelle difficoltà, che sono naturali, abita il
nemico che ci vuol far sua preda mediante la paura e la sfiducia.

disse al mare: Taci e chiudi la bocca. Con la sua parola comanda l'abisso, e gli chiude la bocca.

E cadde il vento e fu grande bonaccia. Dice ed è fatto! Ridusse la tempesta alla calma, tacquero i
flutti del mare (Sal 107,29).

v. 40 Perché siete paurosi così? Come non avete fede.? (cf 5,36; 9,23). La paura è il contrario della
fede. Questa consiste nel non temere di andare a fondo con Gesù, e accettare, sulla sua parola, di
dormire con lui che dorme per stare con noi. La fede è affidare la propria vita, la propria morte e le
proprie paure al Signore della vita, che si prende cura di noi proprio con il suo sonno.

v. 41 temettero di grande timore. È segno del divino. Sarà il grande timore del giorno di pasqua.

Chi è mai costui? È la domanda di tutto il vangelo di Marco (cf 1,27), tema della sua catechesi. Vi
risponde attraverso il racconto di ciò che lui ha fatto e detto.

e il vento e il mare lo ascolta. Gesù è JHWH, il Creatore e il Salvatore, colui che fa dei venti i suoi
messaggeri (Sal 104,4), e chiude in riserve gli abissi (Sal 33,7). Colui che con la sua parola ha
tratto la vita dalle acque primordiali, lo stesso che con il suo soffio ha aperto il Mar Rosso, ora
dorme e si risveglia. E così ci libera dal nemico, nelle cui mani ci ha cacciato la paura della morte.

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, osservando il luogo: Gesù in fondo alla barca che dorme.
3. Chiedo ciò che voglio: Ti chiedo di credere nella tua parola più che alle mie paure; che la fede
mi permetta di accettare il mio nel tuo sonno, la mia nella tua morte, senza lasciarmi
suggestionare dalle resistenze ostili che si scatenano in me.
4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare: sera minacciare


dormire paura
svegliare fede
perire chi è costui?

4. Passi utili: Es 14,15 s; Sal 4; 107; 131; Is 30,15.


26. ESCI, SPIRITO IMMONDO, DALL'UOMO
(5,1-20)

51 E giunsero di là del mare


nella regione dei geraseni.
2
E, uscito lui dalla barca,
subito gli venne incontro dai sepolcri
un uomo in spirito immondo,
3
il quale aveva domicilio nei sepolcri,
e nessuno più poteva legarlo
neppure con catene;
4
perché più volte con ceppi e catene
era stato legato,
ma s'era strappato da sé le catene
e infranto i ceppi,
e nessuno era forte da domarlo;
5
e di continuo, di notte e di giorno,
nei sepolcri e sui monti,
stava a gridare
e si colpiva con pietre.
6
E, visto Gesù da lontano,
accorse
e lo adorò,
7
e, gridando a gran voce, dice:
Che a me e a te,
Gesù,
Figlio del Dio altissimo?
Ti scongiuro per Dio
di non torturarmi.
8
Gli diceva infatti:
Esci,
spirito immondo,
dall'uomo.
9
E lo interrogava:
Qual è il tuo nome?
E gli dice:
Legione il mio nome,
perché siamo molti.
10
E lo pregava molto
di non mandarli
fuori da quella regione.
11
Ora c'era là, verso il monte,
un branco grande
di porci al pascolo,
12
e lo pregarono dicendo:
Mandaci nei porci,
perché entriamo in essi.
13
E permise loro.
E, usciti, gli spiriti immondi
entrarono nei porci;
e si precipitò il branco
dal pendio nel mare,
circa duemila,
e affogavano nel mare.
14
E i loro mandriani fuggirono
e annunciarono nella città e nei campi;
e vennero a vedere
cos'era successo.
15
E giungono da Gesù
e vedono l'indemoniato seduto,
vestito
e sano di mente,
quello che aveva avuto la legione;
e temettero.
16
E quelli che avevano visto
raccontarono loro
come era successo all'indemoniato
e pure il fatto dei porci.
17
E cominciarono a pregarlo
di andarsene dai loro confini.
18
Ed entrando lui nella barca,
lo pregava l'indemoniato
di essere con lui.
19
E non lo lasciò,
ma gli dice:
Va' a casa tua, presso i tuoi,
e annuncia loro
quanto per te ha fatto il Signore
e ha avuto compassione di te.
20
E se ne andò
e cominciò a proclamare nella Decapoli
quanto per lui fece Gesù;
e tutti si meravigliavano.

1. Messaggio nel contesto

“Esci, spirito immondo, dall'uomo”. Immondo è lo spirito di morte che devasta e tiene legato
l'uomo mediante la paura della morte. È lo stesso che ostacola la fede dei discepoli, scatenando le
tempeste e impedendo di affidarsi a Gesù che dorme (brano precedente). Per giungere a credere,
bisogna innanzi tutto che la Parola eserciti la sua autorità contro satana, che altrimenti subito la
becca via, prima che attecchisca. Per questo la liturgia premette al battesimo la preghiera di
liberazione dal male.
Il primo esorcismo viene dopo l'insegnamento di Gesù (1,21-28). Anche questo, più lungo e
solenne, viene dopo il suo insegnamento in parabole, alla fine del quale la sua parola ha dominato il
cielo e l'abisso. Ora sottomette il male, e, nel brano seguente, la malattia e la morte.
L'incontro tra Gesù e l'indemoniato fa vedere le resistenze e convulsioni nostre davanti alla sua
parola. Infatti ci identifichiamo con la nostra schiavitù, e preferiamo il “nostro” male al “suo” bene
(vv. 1-11).
L'episodio dei porci mostra pittorescamente la grande vittoria di Cristo (vv. 12 s). Il racconto e la
costatazione del fatto suscita negli uditori impauriti le stesse reazioni dei demoni, che non vogliono
aver a che fare con Gesù (vv. 14-17). Anche loro, come noi, sono invitati a riconoscersi
nell'indemoniato, in modo da essere liberati e diventare come lui, che è “seduto, vestito e sano di
mente” (v. 15).
Al suo desiderio di “essere con” Gesù, questi risponde inviandolo in missione (vv. 18-20). Ormai è
apostolo, perché in grado di raccontare agli altri ciò che il Signore gli ha fatto, annunciando la sua
misericordia (cf anche 1,40-45).
In lui, al di là delle sue resistenze, il seme ha fruttato bene! Lui stesso, a sua volta, lo semina tra i
suoi fratelli ancora lontani. Con l'ex-indemoniato inizia la missione tra i pagani, ognuno dei quali è
chiamato a fare in prima persona la sua stessa esperienza di incontro liberante col Signore.

Gesù è la discendenza di Eva, che schiaccia la testa al serpente antico (Gn 3,15). In lui l'uomo
vince il suo vincitore, sconfiggendo il male e la sua radice: la menzogna che lo fa considerare
estraneo a Dio e lo tiene nella paura della morte. La vittoria è conseguita ad armi pari con il
nemico: alla sua parola falsa oppone quella vera, che s'impone con la sua autorità.
Davanti alla luce che le squarcia, le tenebre che dominano l'uomo tentano l'ultima difesa. Ma la
notte non può non dissolversi all'apparire del sole.

Il discepolo nel brano precedente aveva paura e non aveva fede in Gesù. Ora la sua parola lo libera
dal nemico e dal suoi terrori perché possa affidarsi ed “essere con lui” nel sonno e nel risveglio, per
annunciarlo poi ai suoi fratelli.

2. Lettura del testo

v. 1 giunsero di là del mare. Gesù fa attraversare il mare e giungere all'altra riva. È la Parola del
Dio creatore e salvatore, che dà vita e conduce alla terra promessa.

nella regione dei geraseni. È una zona pagana al di là del lago. La tempestosa traversata mostra,
oltre le difficoltà del battesimo, gli ostacoli che il nemico frappone all'evangelizzazione dei pagani.

v. 2 subito gli venne incontro un uomo in spirito immondo. Davanti a Cristo il maligno si sente
irrimediabilmente perduto; si arrende e gli cade in braccio per paura. È come le farfalle notturne:
irresistibilmente si gettano sulla fiamma che le brucia.

v. 3 il quale aveva domicilio nei sepolcri. La vera casa dell'uomo è un'altra. Ma il maligno lo tiene
legato in tenebre e ombra di morte. Sepolcro in greco si dice mnemeîon, che significa “memoriale”
(monumento), con la stessa radice di memoria, di morte e di moira (parte, sorte, fato). L'inganno
del nemico fece abitare l'uomo nella memoria della morte, facendogliela considerare sua eredità,
sorte fatale della sua vita.

nessuno più poteva legarlo. Si sottolinea l'indomabilità del male. Nessun mezzo è in grado di
controllarlo e impedirne i danni.

v. 4 nessuno era forte da domarlo. Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire “i suoi
vasi” - che lui ha invasato di sé - se prima non avrà legato l'uomo forte (3,27). Ma Gesù è il più
forte (1,7) Tanto che il male esce subito allo scoperto e gli corre incontro per patteggiare la resa. Sa
che è inutile la lotta e impossibile la fuga.
v.5 di continuo, di notte e di giorno, nei sepolcri e sui monti, stava gridare. Continuo tormento,
solitudine e grida nel vuoto: è la situazione dell'umanità senza Cristo, che ha come consorte la
morte.

e si colpiva con pietre. L'autolesionismo è il risvolto ultimo e più vero del male, che si vuole e si fa
male.

v. 6 accorse e lo adorò. Il male non può che correre e prostrarsi davanti al Signore di tutto e di tutti.
Intuisce il bene subito, come un animale fiuta istintivamente il pericolo. Ma non ha nessun potere
di difendersi Può solo fare strepito.

v. 7 gridando a gran voce. Davanti al bene esprime rumorosamente il suo terrore. Se non abbiamo
fede, riesce a terrorizzare anche noi. Gesù porterà sulla croce questo nostro orrore, e griderà per
due volte. Sarà l'esorcismo definitivo (15,34.37).

Che a me e a te. Significa: “Che c'è in comune tra noi due?”. Amore e egoismo, fiducia e paura,
libertà e schiavitù, verità e menzogna, luce tenebre, vita e morte, sono totalmente estranei. Hanno
in comune solo l'opposizione totale: o l'uno o l'altro. È impossibile un compromesso anche se il
male lo tenta sempre. Il suo correre ad adorare è l'estremo tentativo del perdente, che vuol strappare
al vincitore almeno un posto a sole. Questa ricerca disperata di difendersi e questa estraneità
torturante sono anche le nostre prime reazioni davanti a Gesù e alla sua parola. Questa non può non
scatenare le risonanze negative del cuore. Satana riesce a rubare il seme caduto sulla strada (4,15).
Ma non tutto cade sulla strada!

Gesù, Figlio del Dio altissimo. Per i discepoli era semplicemente il maestro (4,38). I demoni hanno
una conoscenza più lucida del soprannaturale (1,34; 3,12): credono, ma tremano (Gc 2,19). Durante
la vita terrena di Gesù, in Marco sono le sole creature a confessarne l'identità. Come Cristo (= “il
Santo di Dio”, 1,26) e come Figlio di Dio. C'è quindi una fede demoniaca. È quella che viene
prima della croce, distanza che Dio si è preso da ogni falsa immagine di sé.

Ti scongiuro per Dio di non torturarmi. Strana ma vera questa preghiera.


Il bene è causa di sofferenza per chi non lo ama e non lo ritiene accessibile. Conoscerlo ed esserne
privi è esperienza infernale - la pena del danno. Ne abbiamo un anticipo ogni qualvolta ci dispiace
il bene non nostro. È l'invidia, attraverso la quale entrò la morte nel mondo (Sap 2,24).

v. 8 Esci, spirito immondo, dall'uomo. L'uomo è un impasto di terra, fatto per contenere lo Spirito
di vita, non quello di morte.

v. 9 Qual è il tuo nome? Dire il nome è segno di resa.

Legione il mio nome, perché siamo molti. Il male si smaschera. Legione indica il suo potere di
devastazione, grande e ben ordinato. Ma indica anche lo stato di divisione profonda di chi ne è
posseduto. È un'identità divisa e alienata nei vari spiriti che la dominano. Quando ascoltiamo la
parola del Signore con attenzione, sperimentiamo un cumulo di spiriti contrari che cercano di
identificarsi con noi. Invece vanno riconosciuti e sbugiardati come potere di male che ci vuol
dominare.

v. 10 E lo piegava molto. Gesù è pregato dal male, ma a suo danno! Il male non vuol bene neanche
a sé. Sarà pregato allo stesso modo dai geraseni (v. 17). Ben altra sarà la preghiera dell'ex
indemoniato (v. 18). Le nostre preghiere possono essere molto diverse. In questo racconto ne
abbiamo tre esempi.
di non mandarli fuori da quella regione. Non vogliono precipitare nell'abisso prima del tempo.
Vogliono restare sul posto. Tra i pagani la Chiesa farà una forte esperienza di lotta contro satana,
che si rifugia dove ancora non è giunta la luce di Cristo.

v. 12 Mandaci nei porci. I porci sono per l'ebreo animali immondi, immagine del paganesimo.

v.13 e affogavano nel mare. Il male non domina più la terra; si inabissa nel mare, suo luogo
naturale, dove voleva annegare i discepoli (4,37). Il male affoga in se stesso.

v. 14 i mandriani fuggirono e annunciarono. I mandriani fuggono come i loro porci, annunciando


come i demoni ciò che per loro è certamente una “cattiva notizia”.

v.15 l'indemoniato. È così chiamato perché era diventato il suo nome proprio.

seduto, vestito e sano di mente. Al trambusto dei porci che precipitano, dei mandriani che fuggono
e della gente che accorre, fa da contrasto colui che era stato posseduto dal male. Ora è seduto
accanto a Gesù nell'atteggiamento tranquillo del discepolo che ascolta (3,32.34), rivestito e padrone
di sé. È immagine dell'uomo nuovo, contrapposto al vecchio Adamo che non ascolta Dio, fugge da
lui, si scopre nudo ed è in balia delle sue paure.
È interessante notare come il male dell'indemoniato ricade su Gesù anch'egli, ritenuto pazzo e
indemoniato, sarà legato, finirà nudo in croce griderà e scenderà nel sepolcro. Ci ha salvati a caro
prezzo!

v. 16 quelli che avevano visto raccontarono come era successo all'indemoniato e il fatto dei porci.
Sono i due fatti sensazionali: la liberazione dell'uomo e la sconfitta del male. Ma la vittoria del
bene ha i suoi costi, particolarmente duri per chi ancora non ha sperimentato la libertà.

v. 17 E cominciarono a pregarlo di andarsene. Pregano Gesù che se ne vada. Alla libertà, con la
sua fatica, preferiscono la sicurezza della loro schiavitù. La sua presenza risulta scomoda per loro
proprio come per demoni. In modo meno spettacolare dell'ex-indemoniato, ne sono posseduti anche
essi, e difendono gelosamente il loro male, travestito da ben immediato. I loro interessi, raffigurati
nel porci, prevalgono su tutto! Il male adesca promettendo piaceri immediati, e dando poi la morte;
il bene promette e mantiene gioia, ma attraverso un sacrificio immediato. Per questo ogni
valutazione deve sempre guardare in prospettiva.

v. 18 lo pregava l'indemoniato di essere con lui. È la preghiera di chi libero. Il suo bene è “essere
con lui”, il Signore, la sua vita (cf 3,14!).

v. 19 non lo lasciò, ma gli dice.- Va'. Gesù sembra esaudire la preghiera dei demoni e dei geraseni
(vv. 10. 13.17), ma non la sua. In realtà chi è “seduto, vestito e sano di mente”, è già un uomo
nuovo. È con lui, il Figlio. Per questo, come lui, è inviato ai fratelli ancora schiavi. Ogni
liberazione diventa missione. Essere con lui ed essere inviati sono le due note essenziali
dell'apostolo (3,14 s).

a casa tua. Prima aveva casa tra i sepolcri. Ora è mandato a chi ancora abita in essi. Come Gesù,
inviato dal Padre, è andato da lui, così ora lui è inviato dai suoi, per continuare con foro la stessa
opera che il Signore ha iniziato con lui.
annuncia loro quanto per te ha fatto il Signore. Gesù chiama se stesso velatamente il Signore (vedi
anche 11,3). Oggetto dell'annuncio è ciò che lui ha fatto “per me”. I demoni e i mandriani possono
solo gridare e annunciare ciò che fa “contro di loro”.

e ha avuto compassione di te. Sorgente dell'azione è la compassione: il suo amore gratuito che lo
ha condotto vicino al mio male e lo condurrà sulla croce, vicino al male di tutti. Questa sua
“compassione per me” è la mia esperienza personale di lui come mio Salvatore e Signore.

v. 20 cominció a proclamare nella Decapoli. Come Gesù iniziò a proclamare il vangelo nella
Galilea (1,14), così questi lo proclama nella Decapoli. È l'inizio della missione ai pagani.

quanto per lui fece Gesù. Il vangelo è la buona notizia di quanto Gesù ha fatto per me.
L'evangelizzazione non è un'esposizione di dottrina o idee - un catechismo! - ma un racconto di
fatti, narrazione di ciò che lui ha operato per me, e vuol operare per chiunque ascolta.
È interessante notare che gli fu detto di annunciare ciò che “il Signore” ha fatto, e lui racconta ciò
che “Gesù” ha fatto. Per lui “Gesù è il Signore”.

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, osservando il luogo: in un pascolo, al di là dei lago, sul pendio del monte, verso
il mare, tra i sepolcri.
3. Chiedo ciò che voglio: Liberami dallo spirito di morte che è in me e si oppone a te; liberami
dalla paura del bene e dalle resistenze ad affidare a te la mia vita e la mia morte.
4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.
Da notare: sepolcro pregare di andarsene
spirito immondo pregare di essere con lui
legato annunciare
gridare e colpirsi Signore
legione avere compassione
porci proclamare
meraviglia

4. Passi utili: Is 38,10-20; Gio 2; Sal 130; Eb 2,14 s.

27. LA TUA FEDE TI HA SALVATA


(5,21-43)

21
E avendo di nuovo Gesù attraversato
(in barca) sull'altra sponda,
si riunì molta folla su di lui,
e stava lungo il mare.
22
E viene uno dei capi sinagoga
di nome Giairo,
e, vistolo,
cade al suoi piedi,
23
e lo supplica molto, dicendo:
La mia figliola è alla fine:
che tu venga,
imponga su di lei le mani
perché sia salva e viva.
24
E se ne andò con lui,
e lo seguiva molta folla,
e lo schiacciavano.
25
E una donna,
che era con flusso di sangue
da dodici anni,
26
e aveva patito molto
da molti medici,
e aveva dilapidato tutti i suoi averi
senza alcun giovamento,
anzi piuttosto peggiorando,
27
avendo udito di Gesù,
venendo nella folla,
di dietro
toccò la sua veste.
28
Diceva infatti:
Se toccherò
anche solo le sue vesti,
sarò salva.
29
E subito seccò
la fonte del suo sangue,
e conobbe nel suo corpo
che era guarita dal flagello.
30
E subito Gesù,
conosciuta in sé
l'energia uscita da lui,
giratosi in mezzo alla folla,
diceva:
Chi mi toccò
le vesti?
31
E gli dicevano i suoi discepoli:
Vedi la folla
che ti schiaccia,
e dici:
Chi mi toccò?
32
E guardava in giro per vedere
colei che aveva fatto ciò.
33
Ora la donna,
con timore e tremore,
sapendo ciò che le era accaduto,
venne e cadde
davanti a lui,
e gli disse tutta la verità.
34
Egli le disse:
Figlia,
la tua fede ti ha salvata.
Va' in pace
e sii guarita dal tuo flagello.
35
Mentre ancora lui stava parlando,
da casa del capo sinagoga
vengono a dire:
Tua figlia è morta.
Perché ancora infastidisci il maestro?
36
Ora Gesù, ascoltata la parola detta,
dice al capo sinagoga:
Continua a non temere,
solo continua ad aver fede.
37
E non lasciò nessuno con sé a seguirlo,
se non Pietro e Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo.
38
E giungono alla casa del capo sinagoga,
e vede strepito
e gente che piange e urla assai.
39
Ed entrato, dice loro:
Perché strepitate e piangete?
La fanciulla non è morta,
ma dorme.
40
E lo deridevano.
Ora lui, scacciati tutti,
prende con sé il padre della fanciulla
e la madre e quelli con lui,
ed entra dove era la fanciulla.
41
E, presa la mano della fanciulla,
le dice:
Talithà Kum!
che significa:
O ragazza,
ti dico:
Svegliati!
42
E subito risorse
la ragazza
e camminava.
Aveva infatti dodici anni.
E si stupirono subito di stupore grande.
43
E ordinò loro molto
che nessuno lo sapesse;
e disse
di darle da mangiare.

1. Messaggio nel contesto

“La tua fede ti ha salvata”, dice Gesù alla donna; e al padre della fanciulla morta: “Continua ad
aver fede”. I due episodi, incastrati a sandwich e legati dalle parole “salvare”, “credere” e “toccare”
(“prendere la mano”) si completano a vicenda e illustrano cos'è la fede e qual è la sua potenza. La
fede è “toccare” Gesù, la sua potenza salva nella morte.
I cc. 4-5 delineano l'itinerario battesimale: messo in moto dalla Parola, è ostacolato dalle nostre
paure (c. 4); passa attraverso l'esorcismo che ce ne libera, e giunge qui a “toccare” Gesù. La
comunione con lui vince la nostra malattia mortale e la stessa morte.
La donna e la ragazza sono figura di tutti noi. Come la prima da dodici anni, cioè da sempre,
perdiamo la vita, lontani dal Signore. Solo se lo tocchiamo siamo salvi, perché è lui la nostra vita.
Come la seconda, in età da marito, moriamo malati d'amore (Ct 5,8) se non giunge lo Sposo che ci
prende la mano. La nostra vita infatti è amarlo come siamo da lui amati.
Il tema centrale è quindi la fede, quel “toccare” che salva. Per quattro volte esce questa parola nei
vv. 27-31, e in più si parla di imporre e prendere la mano (vv. 23.41).
Toccare suppone vicinanza. Forma prima e fondamentale di conoscenza, è contatto con l'altro. In
esso il proprio limite diventa luogo di comunione. Ogni toccare inoltre è sempre reciproco: chi
tocca, è toccato. C'è infine un tocco esteriore e uno interiore, che prende e trasforma il cuore.
Al toccare si contrappone lo schiacciare (vv. 24.31). Mentre questo sfocerà nell'impadronirsi e
nell'uccidere Gesù, quello sprigiona da lui la sua forza di vita. La salvezza, invocata anche dai
discepoli sulla barca, viene da questa fede. Essa ci permette di toccarlo e di essere afferrati da lui,
che prima di noi e per noi ha dormito.
Nella donna vediamo inoltre il dinamismo della fede. Presuppone la costatazione di un male
indebito e non accettato, col bisogno e l'incapacità di liberarsene; parte dall'ascolto di Gesù, che
apre, dalla disperazione per la propria impotenza, alla fiducia nella sua potenza; giunge alfine a
toccarlo di spalle, per diventare poi un colloquio faccia a faccia con lui.
In Giairo invece vediamo le qualità di questa fede: è una forza più grande di ogni paura, e consiste
nel fidarsi totalmente di Gesù e della sua parola anche davanti alla morte.
Nella ragazza infine vediamo l'efficacia di tale fede: la risurrezione, la vittoria sul nemico ultimo
dell’uomo ad essere annientato (1Cor 15,26).

Gesù è il Signore, lo sposo dell'uomo, che si unisce a lui comunicandogli la sua vita. Per questo lo
spirito di morte cerca disperatamente di difendersi da lui (brano precedente). Ma inutilmente,
perché lui, col suo sonno, è vicino a tutti e tocca tutti i dormienti.

Il discepolo è come la donna, la figlia di Sion che tocca Gesù ed è salva dal suo male; è come la
ragazza morta, che risuscita al tocco dello Sposo.

2. Lettura del testo

v. 21 si riunì molta folla. È probabilmente la stessa dell'inizio del c. 4, che aveva udito il suo
insegnamento. Ora, con questo duplice miracolo, è chiamata ad aver fede.

v. 22 cade ai suoi piedi e lo supplica. Giairo prega non per respingerlo dal suo territorio (v. 17; cf v.
6), ma per invitarlo nella sua casa. Vinto il maligno e la sua diffidenza, la nostra casa è ancora
spoglia di vita e piena di morte finché non entra il Signore della vita.

v. 23 La mia figliola. La figlia del capo della sinagoga è immagine del popolo di Dio, ma anche di
ogni uomo, che è sposa di Jahvè, fatto per amarlo con tutto il cuore. È di dodici anni, in età da
fidanzamento, ed è morta se non giunge lo Sposo.

è alla fine. Sia Israele, il primogenito, che ogni altro uomo è da sempre alla fine, da quando si è
allontanato dal suo Signore. Questo è il peccato, causa della morte di tutti (cf Rm 5,12).

che tu venga. È il grande desiderio nostro, che corrisponde alla sua promessa: “Sì, verrò presto” (Ap
22,20).
imponga su di lei le mani. La mano è la potenza. Con Gesù la mano di Dio, la sua potenza di
amore e di vita, si posa sull'uomo.

perché sia salva e viva. La salvezza implica una vita strappata dalla morte, che non sia sempre
minacciata dall'essere “alla fine”.

v. 24 se ne andò con lui. Giairo non deve temere alcun male perché il pastore della vita è “con lui”.
La croce è il bastone che gli dà sicurezza (Sal 23,4).

lo seguiva molta folla e lo schiacciavano. C'è un seguire senza fede che schiaccia Gesù, a danno
suo e nostro (cf 3,9).

v. 25 una donna che era con flusso di sangue. Il sangue è la vita; chi lo perde, muore. Ogni
esistenza non è una perdita continua di vita, fino alla morte ?

da dodici anni. Dodici sono i mesi dell'anno e dodici le tribù d'Israele. Questo numero indica
totalità di tempo e di popolo. Infatti, come questa donna, da sempre e tutti costatiamo che la nostra
vita è un'unica malattia incurabile e mortale.

v.26 aveva patito molto da molti medici. Essa giustamente non accetta il male. Ma ciò che
dovrebbe procurare salute è invece causa di sofferenza maggiore. In effetti l'ansia di vita, che
vorrebbe guarirci della paura della morte, è principio di egoismo e causa di tutti i nostri mali.

aveva dilapidato i suoi averi. L'uomo investe e perde tutto nel vano tentativo di liberarsi dalla
morte.

senza alcun giovamento, anzi piuttosto peggiorando. Il rimedio peggiora il male! L'uomo che si
affanna per salvarsi, fa come uno in mare che non sa nuotare: affoga per il suo agitarsi.

v. 27 avendo udito di Gesù. La fede viene dall'ascolto del vangelo, che racconta ciò che Gesù ha
fatto e detto (At 1,1). Per questo è necessario che ci sia chi lo annuncia (Rm 10,14-17).

di dietro. Non osava farsi vedere: essendo immonda, le era vietato toccarlo. D'altra parte il nostro
rapporto con Dio e la nostra ricerca di lui non può approdare che alle sue spalle, come fu detto a
Mosè: “Vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere” (Es 33,23). Ma ormai viene il
momento in cui lui stesso ci cerca col suo sguardo: volge a noi il suo volto, e noi saremo salvi (Sal
80,4.8.20).

toccò la sua veste. Il toccare porta a una comunione reale. La fede è un contatto diretto e personale
con Dio in Cristo. Ci salva perché ci mette in comunione con colui che è la nostra vita. L'ultimo
miracolo fu proprio la guarigione della mano secca, perché potesse toccare lui e ricevere il suo dono
(3,1 ss).

v. 28 Se toccherò anche solo le sue vesti. Esprime la certezza di fede: la donna sa che la sua
salvezza è toccare lui, o almeno le sue vesti. (Ce le lascerà in eredità sulla croce, prendendo in
cambio la nostra nudità). Anche la sirofenicia sarà sicura che bastano le briciole del pane dei figli
per saziare anche i cagnolini (7,28). Questa fede non è magia o feticismo: la salvezza dell'uomo è
davvero la comunione con Dio, ora possibile attraverso la carne di cui si è rivestito il Figlio.
sarò salva. Non dice “guarita”. La salvezza indica qualcosa di più profondo, di cui la guarigione è
segno (cf 2,10).

v.29 E subito seccò la fonte del suo sangue. Al contatto con lui s'arresta il flusso mortale, guarisce la
ferita da cui esce la vita. Toccare produce scambio. Se lui cede a noi la sua vita, noi cediamo a lui
la nostra morte immonda. Il flusso del suo sangue seccherà il nostro e ci monderà.

conobbe nel suo corpo che era guarita. La donna conosce la propria guarigione nel corpo, ma non
conosce ancora nello spirito colui che l'ha guarita. Gli ha toccato di dietro le vesti; ora le manca di
incontrarlo faccia a faccia.

v. 30 l'energia uscita da lui. È la forza (dynamis) di Dio, vita che vince la morte. Gesù è venuto a
donarla a tutti. Ma solo la fede la desidera e la ottiene, quasi la strappa da lui.

giratosi in mezzo alla folla. Il Signore cerca con lo sguardo e la parola colei che ha creduto in lui,
per dialogare con lei.

Chi mi toccò le vesti ? La domanda sembra ridicola a tutti, discepoli compresi. Ma non a lui e alla
donna, che hanno sperimentato un toccare diverso.

v. 31 gli dicevano i discepoli, ecc. Non sanno distinguere tra schiacciare e toccare. Il Signore, oltre
che portare la donna a un livello pieno di fede, vuol portare i discepoli a quello della donna.

v. 32 E guardava in giro per vedere colei che aveva fatto ciò. La sua parola e il suo sguardo
cercano l'interlocutore, perché risponda.

v. 33 la donna, con timore e tremore, sapendo ciò che le era accaduto. È il timore e tremore di chi,
conoscendo l'azione di Dio, si presenta davanti a lui.

venne e cadde davanti a lui. Prima lo toccò di dietro. Ora gli sta davanti per rispondergli e gli cade
ai piedi per adorarlo. È importante questo passaggio dalle spalle al volto, che Gesù stesso ha
provocato e che la donna temeva.

e gli disse tutta la verità. La “sua” verità era il suo male incurabile, la sua disperazione di sé e di
tutto, la sua speranza in lui, il suo tocco e la sua guarigione. Ma solo nel parlare di tutto questo con
lui si compie la fede. Ottenuto ciò che le serviva, poteva andarsene; invece Gesù la cerca perché
parli con lui che l'ha servita.

v. 34 Figlia. È tenero questo appellativo. Infatti le ha dato la vita.

la tua fede ti ha salvata. I discepoli in barca non avevano fede (4,38). Disperati di sé, non
speravano ancora in lui. Da questo brano risulta che la fede è toccarlo e parlargli faccia a faccia, la
comunione e il dialogo con lui.

v. 35 Tua figlia è morta. Perché infastidisci il maestro ? Mentre Gesù dice: “Figlia, la tua fede ti ha
salvata”, c'è l'annuncio: “Tua figlia è morta”. È quindi inutile importunare il maestro. Finché c'è
vita c'é speranza. Ma davanti al muro della morte, niente e così sia! Gesù però non è solo il
maestro (cf 4,38). È anche il Signore dei vento e del mare, del male e della malattia. Ora si rivelerà
il Signore della vita, che fa del nostro limite estremo la nostra comunione piena con lui.
v. 36 Gestì. ascoltata la parola detta. Gesù ascolta la parola detta all'arcisinagogo, così diversa da
quella che lui spiegava nelle parabole (4,33): là era una morte per la vita, qui è una vita per la
morte.

Continua a non temere. Come non temere davanti alla morte? È la paura di tutta la vita!

solo continua ad aver fede. La fede è il contrario della paura ed ha la prova definitiva proprio
davanti alla morte, unica sfidante degna di lei. Una fede che non regge davanti alla morte non serve
a nulla.
Queste parole richiamano quelle dette ai discepoli sulla barca (4,38). Se là erano troppo coinvolti
per non temere, ora sono sufficientemente staccati e lucidi per poterle intendere.

v. 37 non lasciò nessuno con sé a seguirlo. Ciò che qui avviene è il grande segreto, ora nascosto,
che poi sarà rivelato a tutte le genti.

se non Pietro e Giacomo e Giovanni. Saranno i tre testimoni della trasfigurazione e dell'agonia
nell'orto e, con Andrea, sentiranno le sue parole sulla fine del mondo (9,2; 14,33; 13,3).

v.38 strepito e gente che piange e urla. Così l'uomo esprime la propria impotenza davanti alla
morte. Urla il suo dolore, per coprire la sua disperazione. Il silenzio lo affogherebbe nell'angoscia
più sorda.

v. 39 Perché strepitate e piangete? Sembra una domanda stupida, come quella ai discepoli in barca:
“Perché siete paurosi?”. Gesù mette in questione le cose più ovvie, come dà i comandi più stolti: al
paralitico dice di camminare, alla mano essiccata di stendersi, e alla morta di svegliarsi! La sua
parola è un seme: fa germinare ciò che dice.

La fanciulla non è morta, ma dorme. È il senso cristiano della morte. Non è la fine della vita, ma
un riposo sereno in Dio, per un risveglio al sole del giorno nuovo. Sdrammatizzata, perde il suo
pungiglione, che avvelena tutta l'esistenza con la prospettiva finale del nulla (1Cor 15,56).
La fede ci guarisce dal peccato di diffidenza che ci fa ignorare che veniamo da Dio e a lui torniamo.
Solo così possiamo vivere e morire in pace, sapendo che dormiamo con Cristo, che per primo ha
dormito nella nostra stessa barca, per risvegliarci con lui.

v. 40 E lo deridevano. L'uomo fa di sé, limitato e mortale, la misura di tutto, anche di Dio; e ritiene
impossibile ciò che lui stesso non può fare. Il giorno di pasqua anche i discepoli avranno grande
difficoltà a credere nella risurrezione (cf anche At 17,32; 26,23 s).

scacciati tutti. Gesù scaccia la paura dell'incredulità come scaccia i demoni, che in essa stanno di
casa.

prese con sé il padre della fanciulla e la madre e quelli con lui. Sono i cinque amici dello sposo.
Con la ragazza e Gesù si raggiunge il numero di sette.

v. 41 presa la mano della fanciulla. Anche lui sarà “preso” (cf 14,2) e condotto a morte. Per questo
ora prende e sottrae alla morte la fanciulla. Essa appartiene a lui, venuto a prenderne la mano.
Questo contatto con lui e il suono della sua voce la sveglia.

Talithà Kum. “Alzati, amica mia, mia bella, e vieni” (Ct 2,10).

ragazza. In greco c'è korásion. Indica la ragazza da marito.


Svegliati. La stessa parola è usata per la risurrezione di Gesù. Indica lo svegliarsi dal sonno.

v. 42 risorse. È l'altra parola usata per la risurrezione di Gesù. Indica il levarsi da terra.

e camminava. Cammina per una via che prima non conosceva: è il sentiero della vita, gioia piena
nella sua presenza. dolcezza senza fine alla sua destra (Sal 16,11).

Aveva dodici anni. È l'età del fidanzamento. L'incontro con lo Sposo le ridà la vita. Il battesimo è
questa unione con Cristo, di cui il matrimonio è immagine (cf Ef 5,32).

stupirono di stupore grande. In greco si usa una parola che significa “essere fuori” (estasi). È
realmente pazzesco, impossibile ciò che Dio opera.

v. 43 ordinò che nessuno lo sapesse. Questo grande mistero sarà chiaro solo dopo pasqua, quando
Gesù stesso avrà dormito e si sarà svegliato.

disse di darle da mangiare. Le resta un lungo cammino da fare, come ad Elia (1Re 19,7). La vita
nuova avrà un alimento nuovo, che Gesù procurerà nel deserto: il pane sarà l'amore dello Sposo che
si dona alla sposa.
Termina qui la descrizione del battesimo come incontro coi Signore. che libera dal mare (4,35-41),
dal male (vv. 1-20), e infine dalla malattia e dalla morte. Inizierà tra poco la catechesi
sull'eucaristia.

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, osservando il luogo: per via e in casa dell'arcisinagogo.
3. Chiedo ciò che voglio: la fede che salva, che consiste nel “toccare” Gesù e rispondergli, con
un'esperienza di lui che mi liberi dalla paura della morte.
4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare: imporre le mani non temere


salvare e vivere aver fede
schiacciare dormire
toccare prendere la mano
guarire ragazza
energia svegliarsi
fede risorgere
pace camminare
morire mangiare

4. Passi utili: Sap 1,13-15; 2,23 s, Sal 30; 1Re 17,17-24; 2Re 4,8-37; 13,20 s; Gv 11
28. E SI MERAVIGLIAVA DELLA LORO NON FEDE
(6,1-6a)

61 E uscì di lì
e giunge nella sua patria,
e lo seguono i suoi discepoli.
2
·E, venuto il sabato,
cominciò a insegnare nella sinagoga;
e molti, ascoltando,
erano colpiti dicendo:
Donde a costui queste cose?
E quale sapienza data a costui?
E codesti prodigi operati dalle sue mani?
3
Non è questo il falegname,
il figlio di Maria
e fratello di Giacomo e Giuseppe
e Giuda e Simone?
E le sue sorelle non sono tra noi?
E si scandalizzavano di lui.
4
E diceva loro Gesù:
Non c’è profeta disprezzato
se non nella sua patria
e tra i suoi congiunti
e nella sua casa.
5
·E lì non poteva fare nessun prodigio,
solo, imposte le mani a pochi infermi, li curò.
6a
E si meravigliava della loro non fede.

I. Messaggio nel contesto

“E si meravigliava della loro non fede”. I suoi si meravigliano di Gesù, e si scandalizzano che la
sapienza e l’azione di Dio sia in “questo” uomo, che ben conoscono.
Anche lui, a sua volta, si stupisce: venuto tra i suoi, non è accolto! Con Gesù ci troviamo davanti
allo scandalo di un “Dio fatto carne”, che sottostà alla legge della fatica umana e del bisogno, del
lavoro e del cibo, della veglia e del sonno, della vita e della morte. Lo vorremmo diverso. Ci piace
condividere le prerogative che pensiamo sue; meno gradiamo che lui condivida le nostre, delle quali
volentieri faremmo a meno.
Ma la sua “carne” è il centro della fede cristiana: riconoscerla o meno equivale a essere o meno da
Dio (1Gv 4,2s). Nella sua umanità, in ciò che fa e dice, in ciò che gli facciamo e subisce - nella sua
storia concreta, frutto maturo del cammino d’Israele - Dio si rivela e si dona definitivamente. In
essa tocca ogni uomo e da essa fa scaturire la sua sapienza e la sua forza salvifica. Come una vena
profonda di acqua perenne zampilla dalla sorgente, così Dio esce da sé e si comunica a tutti
attraverso l’uomo Gesù di Nazaret.
Noi diciamo: “Se lo vedessi, se lo toccassi, gli crederei!”. Nulla di più falso! I suoi l’hanno rifiutato
proprio perché l’hanno visto e toccato anzi, schiacciato. Noi abbiamo sempre la possibilità di
inventarcene uno a misura delle nostre fantasie. La fede non è accettare che Gesù è Dio - il Dio che
pensiamo noi! - ma accettare che Dio, il Dio che noi non pensavamo, è questo uomo Gesù. Quel
Dio che nessuno mai ha visto, lui ce l’ha rivelato (Gv 1,18). Lo scandalo della fede, uguale per
tutti. è costituito dal fatto che la sapienza e la potenza di Dio parli e operi nella follia e
nell’impotenza di un amore fatto carne, che sposa tutti i nostri limiti, fino alla debolezza estrema
della croce. Infatti “fu crocifisso per la sua debolezza” (2Cor 13,4).
Nel capitolo precedente abbiamo visto che la fede è “toccare”. Ora vediamo “chi” tocchiamo.
Tocchiamo Gesù, il falegname che finirà sul legno della croce, segno di contraddizione per tutti (Lc
2,34), ma potenza e sapienza di Dio che salva tutti. La fede è accettare proprio lui come mio Dio e
mio Signore.
Questo brano fa da cerniera tra l’istruzione sulla Parola e sul battesimo (cc. 4-5) e quella
sull’eucaristia (6,6b-8,30). Mostra la non-fede, causa della morte di Gesù. Ma proprio così il seme,
gettato sotto terra, diventerà pane di vita.
La sezione precedente terminava con la mano che si apre per accogliere la vita o si chiude per
ucciderla (3,6). Qui vediamo che questa mano è la fede per toccarlo, o la non-fede per respingerlo.
In questo brano è portato a compimento il tema del rifiuto dei suoi, già annunciato in 3,6 e in Giuda
che lo avrebbe tradito (3,19), e sviluppato poi in 3,20-35. Dietro si profila il rifiuto di Israele, ma
anche quello costante del suo popolo nuovo. Pure chi crede di credere ha sufficiente sano buon
senso per trovare disdicevole, sconveniente e scandaloso che Dio sia quest’uomo Gesù così come è,
con ciò che consegue. “Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti
misericordia! O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono
imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!” (Rm 11,32 s).

Gesù è respinto dai suoi come Salvatore e Signore, perché è uno di loro, allo stesso modo in cui
Giuseppe fu disprezzato, osteggiato e svenduto dai suoi fratelli. Ma proprio così sarà per loro causa
mirabile di salvezza.

Il discepolo, e la Chiesa stessa, deve sempre misurarsi sulla carne di Gesù, venduta per trenta sicli,
il prezzo di un asino o di uno schiavo. Cardo salutis caro: la sua carne è cardine della salvezza!
Infatti è sapienza e potenza, Dio stesso nella follia e impotenza del suo amore. La prima eresia - è e
sarà sempre la prima! - fu minimizzare, trascurare o negare l’umanità di Gesù, che nella sua
debolezza e stoltezza crocifissa è salvezza per tutti.

2. Lettura del testo

v. 1 giunge nella sua patria. La prima attività di Gesù fu sulle rive del lago, con centro a Cafarnao.
Ora viene a Nazaret, tra i suoi. Sappiamo già cosa pensavano di lui, e le misure prese per
ricondurlo a casa (3,21).

lo seguono i suoi discepoli. Sono la sua vera famiglia (cf 3,33 s).

v. 2 venuto il sabato. L’ultimo sabato menzionato è quello in cui si decise di eliminarlo (3,1-6).
Questo giorno ha sempre misteriosamente a che fare con il suo “sonno” - fino all’ultimo sabato, che
sarà il suo riposo.

cominciò a insegnare nella sinagoga. Gesù aveva frequentato con assiduità la sinagoga di Nazaret,
insieme ai suoi. Lì aveva appreso a leggere la Bibbia, per scriverla nella propria vita; lì aveva
imparato ad aderire con amore filiale a tutto ciò che udiva dal Padre, per rispecchiarlo nel proprio
volto. Quanto gli era cara quella casa della sapienza, in cui la sua umanità cominciò a riconoscersi
pienamente nella Parola, scoprendo e costruendo in essa la propria identità.

erano colpiti. La meraviglia si trasforma da apertura in chiusura del cuore quando, invece di
lasciarci prendere dal nuovo, cominciamo ad impossessarcene e a catalogarlo nel già noto.
Donde a costui queste cose? Queste cose sono la sapienza e la potenza di cui dopo. La meraviglia
comincia a chiudersi. Invece di lasciarsi mettere in questione da Gesù, mettono in questione l’opera
di Dio. Perché si rivela proprio in “costui”. e non ha scelto un altro più ricco, più nobile o più
dotto?

quale sapienza data a costui? E codesti prodigi operati dalle sue mani.? La sapienza, attributo più
alto di Dio, come può dimorare in “Costui”, povera carne come noi, che ben conosciamo? E i
prodigi (alla lettera “le energie”) di Dio, come possono essere operate dalle sue mani di lavoratore,
che certamente di sabato sono stanche come le nostre?
È lo scandalo della fede cristiana: nell’uomo Gesù, in tutto simile a noi, abita corporalmente tutta la
pienezza della divinità (Col 2,9).
Questo è il punto d’arrivo della lunga storia d’amore di un Dio che si è impegnato a essere con noi,
sino a condividere la nostra debolezza e la nostra morte.
Ma occorreva proprio arrivare fino a questo punto estremo di confusione, anzi di identificazione?
Questo è il mistero della sua follia d’amore. E proprio qui svela la sua verità più profonda, che a noi
pare blasfema, sconveniente per lui e per la sua gloria.

v. 3 Non è questo il falegname? Imparò da Giuseppe., probabilmente già morto, da cui ereditò il
mestiere. È bello pensare alle sue mani. Fanno la stessa opera potente di Dio; ma prima hanno
imparato a lavorare, e poi hanno faticato per tutta la vita, fino a quando sosteranno inchiodate sul
legno della croce!
In Israele tutti possedevano la terra. Solo chi l’aveva persa, per sopravvivere faceva altri lavori
modesti. Il suo consisteva nell’aggiustare o fare piccole cose o attrezzi altrui - cosa che in genere
un contadino si faceva da sé nelle stagioni morte. Non era quindi un affare proficuo e di prestigio,
ma da diseredati, con poca prospettiva di lucro, e aleatorio. Questa semplice parola “falegname”
sintetizza tutta la sua esistenza anonima di uomo, che mutua la propria identità dal lavoro. Di lui si
dice tutto dicendo: “E un falegname”! I suoi trent’anni di Nazaret riscattano la quotidianità
insignificante di ogni vita, sottoposta alla dura legge del lavoro per sopravvivere: “Con il sudore dei
tuo volto mangerai il pane” (Gn 3,19). Se non sudi tu, un altro suda il doppio, e mangia niente.

figlio di Maria. Non si nomina Giuseppe, come neanche in 3,21 ché doveva essere già morto.
Dicendolo solo figlio di Maria, Marco riproduce la fede della comunità nella concezione verginale,
che Matteo e Luca testimoniano più ampiamente.

fratello. In ebraico, come presso molti popoli, i cugini sono chiamati “germani, fratelli”.

Giacomo e Giuseppe, Giuda e Simone. Sono certamente tra i suoi si parla in 3,21.

E le sue sorelle non sono tra noi? Sanno tutto su Gesù: cosa fa, cosa dice e chi è. Ma questa
conoscenza secondo la carne non giova a nulla (2Cor 5,16). Bisogna riconoscere nello Spirito che
proprio la sua carne, è la rivelazione sconvolgente di Dio - espressione piena del suo amore che l’ha
portato a non vergognarsi di chiamarsi nostro fratello (Eb 2,11; Ct 8,1).
Non basta essere dei suoi, appartenere al suo popolo o alla sua Chiesa, saper tutto su di lui e
maneggiarlo di continuo. La salvezza viene dal toccare con fede la sua carne, cioè la sua persona
nella sua debolezza uguale alla nostra.

E si scandalizzavano di lui. Lo scandalo è una pietra contro cui si inciampa e si cade. Tutti gli
uomini inciampano e cadono davanti grandezza dell’amore di un Dio che si fa piccolo e
insignificante.
v. 4 Non c'è profeta disprezzato se non nella sua patria. Constatazione amara del rifiuto di Israele,
dietro cui si profila quello di tutta l’umanità Tutti rifiutiamo un Dio la cui sapienza e potenza è la
follia e l’impotenza dell’amore. Lo pensiamo e lo vogliamo diverso.

v. 5 E non poteva fare nessun prodigio. Il miracolo è sempre legato fede. Essa è un contatto che
sprigiona da lui l’energia (= dynamis). Lui è la vita. Chi ha mani aperte, riceve il dono senz’altra
misura che il proprio bisogno. L’incredulità è la mano chiusa di chi, come i suoi, avanza diritti o
pretese.

pochi infermi. Sono i pochi che hanno fede.

v. 6a si meravigliava della loro non fede. La non-fede è qualcosa che ci manca e invece ci dovrebbe
essere. È come una mano amputata. La nostra incredulità è così incredibile che il Signore stesso se
ne meraviglia - unica sua meraviglia! Sarà causa della sua morte. Ma questa sarà la medicina con
cui ci cura del nostro male. Omeopatia degna di Dio!

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, osservando il luogo: a Nazaret, nella sinagoga, durante il culto sabatico.
3. Chiedo ciò che voglio: di non scandalizzarmi che la sapienza e la potenza di Dio siano nel
povero falegname di Nazaret. Chiedo la fede nell’umanità di Gesù, nostra salvezza.
4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare: sapienza meraviglia


prodigi (energie) scandalo
falegname non-fede
figlio di Maria

4. Passi utili: Ez 2,2-5; Sal 118; 123; Ef 4,20s; 1Gv 4,2 s.

29. CHIAMA INNANZI I DODICI E COMINCIÒ A INVIARLI


(6,6b-13)

6b
E girava per i villaggi
insegnando.
7
E chiama innanzi i Dodici,
e cominciò a inviarli a due a due, e dava loro potere
sugli spiriti immondi.
8
E comandò loro
di non portare nulla per via,
se non il bastone solo:
né pane,
né bisaccia,
né danaro nella cintura;
9
ma:
calzate i sandali
e:
non indossate due tuniche.
10
E diceva loro:
Dovunque entriate in una casa,
lì dimorate
finché non partirete da lì.
11
E qualunque luogo non vi accolga
e non vi ascolti,
usciti di là
scuotetevi la polvere
che è sotto i vostri piedi
in testimonianza per loro.
12
E usciti proclamarono
che si convertissero,
13
e scacciavano molti demoni,
e ungevano di olio molti
e li curavano.

1. Messaggio nel contesto

“Chiama innanzi i Dodici e cominciò a inviarli”. I Dodici furono prima chiamati ciascuno
singolarmente a seguirlo (cf 1,16-20; 2,14). Poi furono comunitariamente costituiti per “essere con
lui” (3,14). Ora sono inviati ai fratelli a due a due.
Ci sono tre livelli di un’identica vocazione, con tre chiamate successive, che segnano
rispettivamente il passaggio dalla dispersione alla sequela, dalla sequela alla comunione con lui,
dalla comunione con lui alla missione verso tutti.
Questo brano è un “breviario di viaggio”, perché gli inviati non dimentichino di riprodurre il volto
di chi li invia. È la carta di identità della Chiesa apostolica, ossia mandata da Gesù - la cui missione
fu in povertà, e passò attraverso fallimento, nascondimento, impotenza e piccolezza (cf c. 4).
Chi è mandato ai fratelli riceve il più grande dono del Padre: è pienamente associato al Figlio,
partecipe del mistero che annuncia.
Con l’invio dei Dodici, Gesù non è più solo. Comincia ad essere il primo di numerosi fratelli, un
chicco che già si è moltiplicato. Questa prima missione ad Israele è già un raccolto che si fa semina
per un altro successivo, che sarà sempre più abbondante, fino alla fine dei tempi, quando tutti gli
uomini mangeranno il pane del Figlio.
Qui inizia la “sezione dei pani” (6,6b-8,30). Dopo quella sulla Parola e sul battesimo (3,7-5,43),
segue la catechesi sull’eucaristia, alla fine della quale Gesù sarà riconosciuto. Egli infatti si rivela
come Cristo e Signore proprio in quanto amore che per noi si fa pane e vita.
L’annuncio dell’evangelo è sempre in povertà, perché proclama la croce che ha salvato il mondo. I
Dodici, e quelli dopo di loro, devono avere grande cura di vivere i valori del Regno che annunciano:
sono quelli che Gesù ha esposto nelle parabole del c. 4, dopo averli vissuti in prima persona. La
tentazione più grossa è ritenere che ci siano altri mezzi più adatti al fine.
Più che di ciò che bisogna dire, Gesù si mostra preoccupato di ciò che bisogna essere. Ciò che sei,
grida più forte di ciò che dici.
È vero che la parola di Dio è efficace di per sé; non è la mia testimonianza a renderla credibile.
Tuttavia la mia controtestimonianza ha il potere di renderla incredibile. Nel male ho sempre un
potere maggiore che nel bene: non so creare un fiore: so però distruggerlo!
La povertà che Gesù “ordina” non è di tipo stoico. Viene dalla gioia di chi ha scoperto il tesoro (Mt
13,44), e conduce alla vittoria sul peccato del mondo - che consiste nella brama di avere, di potere e
di apparire, strumenti mortali escogitati dalla paura della morte.
La sua povertà non è una privazione, ma un valore sommo, anzi la somma dei valori della sua vita.
Infatti Dio, essendo amore, è povero. Il suo avere è il suo essere, e il suo essere è essere dell’altro,
nel dono di sé del Padre al Figlio e del Figlio al Padre, nell’unico Spirito.
Anche per noi la povertà è la condizione per amare. Infatti finché hai cose, dai cose; quando hai
nulla, dai te stesso. Solo allora ami veramente, e puoi condividere.
Inoltre ciò che hai, ti divide dall’altro; ciò che dai, ti unisce, e ti fa solidale con lui. Finché non sei
povero, ogni cosa che dai è solo esercizio di potere.
La povertà è poi verità: tu non sei ciò che hai, ma ciò che dai; e solo se hai nulla, dai te stesso e sei
te stesso.
È anche libertà dall’idolo che domina il mondo - il dio mammona che garantisce la soddisfazione di
ogni altro desiderio.
È inoltre Il volto concreto della fede, che ti fa porre tutta la fiducia in Dio come Padre tuo e Signore
di tutto.
È infine bisogno di accoglienza. Per essa l’apostolo fa l’esperienza di figlio, che è bisogno di
accoglienza, dando all’altro l’opportunità di esercitare in prima persona la misericordia del Padre.
Già nell’AT povertà, piccolezza e impotenza sono i mezzi che Dio sceglie per vincere (cf Sam 2,1-
10; Es 3,11; 4, 10; Gdc 7,2).
Infatti ha scelto ciò che è stolto e debole per confondere i sapienti e i forti, ciò che è ignobile,
disprezzato e nulla, per ridurre al nulla le cose che sono (1Cor 1,27 s).
D’altra parte tutti noi conosciamo la grazia del Signore nostro Gesù Cristo, che da ricco che era si
fece povero per noi, perché noi diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà (2Cor 8,9).
Questa lezione l’avevano appresa bene Pietro e Giovanni, quando compirono il primo miracolo
della Chiesa nascente. Fecero camminare lo storpio con le parole: “Non possiedo né argento né oro,
ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina” (At 3,6). Se avessero
avuto argento e oro, avrebbero fatto un’opera buona, magari un istituto per storpi! Ma la fede può
venire solo dall’annuncio fatto in debolezza, perché è libera risposta alla parola di Cristo.
Per vincere lo spaventoso Golia, David dovette liberarsi dell’armatura così bella che il re gli aveva
offerto: “Non posso camminare con tutto questo” (1Sam 17,39). Per vincere, Gedeone dovette
ridurre il suo potente esercito da 30.000 a 300: erano troppo numerosi perché Dio li facesse vincere
(Gdc 7,1 ss)!
L’efficacia divina dell’annuncio è inversamente proporzionale all’efficienza dei mezzi umani.
Dobbiamo essere fortemente persuasi che la salvezza viene dalla croce, svuotamento che rivela Dio.
Guai se la nostra potenza o sapienza la vanifica (1Cor 1,17). Per questo Paolo si presenta in
debolezza, con molto timore e trepidazione, riponendo tutta la sua sapienza in Cristo, e in Cristo
crocifisso (1Cor 2,2 s). E dice: “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10) - forte
della fiducia in Dio, la cui debolezza è più forte degli uomini.

Gesù invia i suoi in povertà, come il Padre ha inviato lui.

I discepoli, attraverso la missione, sono chiamati alla forma più alta di vita cristiana: sono
pienamente associati al Figlio, che, conoscendo l’amore del Padre, è spinto verso tutti i fratelli.

2. Lettura del testo

v. 6b E girava per i villaggi tutt'intorno insegnando. Con la sua itineranza apostolica - non ha dove
posare il capo (Lc 9,58), la strada è la sua casa - Gesù fa in prima persona ciò che poi comanda.
Prima che a parole, ha sempre istruito coi fatti. “Vi ho dato l’esempio, perché come ho fatto io,
facciate anche voi” (Gv 13,15). Il suo viaggiare infaticabile è espressione del suo amore che cerca
tutti.

v. 7 chiama innanzi i Dodici. È la terza chiamata. La prima fu alla fede e alla sequela; la seconda a
essere con lui; la terza alla sua stessa missione di Figlio, che è portare l’amore del Padre a tutti i
fratelli.

cominciò a inviarli. È l’inizio della missione. Finirà quando sarà compiuto il disegno del Padre, che
vuole che la sua casa sia piena (Lc 14,23). Ma se manca un solo figlio, è sempre vuota!

a due a due. Sono in due perché si aiutino a vicenda, perché la loro testimonianza sia valida, ma
soprattutto perché devono testimoniare tra loro l’amore che proclamano agli altri. Infatti se due
stanno insieme, è perché c’è un terzo: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, sono in mezzo a
loro” (Mt 18,20).
Due inoltre è il principio di molti, germe della comunità. La missione, come non è una iniziativa
privata (1Cor 9,17), così non è un incarico personale: come è da un altro, così è sempre con altri. I
compagni di Gesù, se hanno imparato a essere con lui, sanno stare anche tra di loro nel suo nome,
insegnando così agli altri a fare altrettanto.

dava. Indica un’azione continuata: dava questo potere a ogni singola coppia.

potere sugli spiriti immondi. Il potere sugli spiriti immondi è conferito loro dopo che sono stati a
lungo con lui (3,13 ss). Diversamente può capitare loro come agli esorcisti di Efeso, che usavano il
suo nome senza essere con lui (cf At 19,13-17)!

v. 8 comandò. Non è un consiglio. È la prima volta che Gesù comanda qualcosa. Dà solo due altri
ordini analoghi (v. 39 e 8,6), usando un’unica volta metodi coercitivi (v. 45) e sempre in questa
sezione. Si comanda quando si sa che l’altro da sé non farebbe, o farebbe diversamente. Soltanto
l’obbedienza a lui motiva la missione in povertà. Il nostro buon senso apostolico farebbe volentieri
il contrario. L’osservanza di questo comando è prova della nostra fede in lui.

non portare nulla. Questo nulla è l’unica cosa di cui il Signore ha bisogno per agire e ridurre a
nulla tutti i nemici dell’uomo. È la nudità della sua croce, che ha redento il mondo. Con essa ci ha
arricchiti di ogni cosa, fino a darci se stesso.
Chi annuncia non deve essere “per” o “con” i poveri - eventualmente per farli diventare ricchi!
Deve semplicemente “essere povero”, in obbedienza al suo Signore. Diversamente partecipa del
potere non della croce, ma dei mezzi che usa.

per via. Il discepolo percorre la stessa via del maestro. La forza del suo cammino è il bastone di
colui che lo precede.

se non il bastone. Il bastone è lo strumento primordiale. Pròtesi che allunga e potenzia la mano,
serve come appoggio, difesa, attacco.
Dio con esso aprì il mar Rosso, fece scaturire acque nel deserto, e rese vive le acque morte di Mara.
Debole cosa fatta di legno, è anche scettro, simbolo del potere. Il bastone regale che Gesù concede,
mezzo potente contro ogni avversario, è la povertà, che esprime tutta la sua forza nel legno della
croce.

né pane. Il pane è la vita. La vita è il dono del Padre. Essi la riceveranno nel corpo del Figlio. E
vivranno non di ciò che possiedono, ma di questo pane, che dà la gioia di ricevere e donare, in
rendimento di grazie.
né bisaccia. La bisaccia piena di provviste garantisce la vita al viandante. La sicurezza
dell’apostolo non sta in ciò che ha di riserva, ma in ciò che ha lasciato per amore.

né danaro nella cintura. La cintura è una fascia che, doppiata, serve da borsa per il denaro, il
mediatore universale, che procura tutto. La vera ricchezza del discepolo è la povertà, che, facendo
confidare solo in Dio, ce lo fa riconoscere come Padre. È madre, perché ci genera suoi figli.

v. 9 calzate i sandali. Servono per camminare. È lungo il cammino di chi annuncia: deve
raggiungere tutti, fino agli estremi confini della terra. Ma il suo piede non si gonfierà (Dt 8,4), se
ascolterà questa parola del Signore.
Gli schiavi vanno scalzi; chi evangelizza ha i calzari, perché è libero e annunzia la libertà dei figli.
Sandali e bastone sono inoltre la tenuta pasquale (Es 12,1 1).

non indossate due tuniche. Se ne hai due, una non è tua, ma del fratello che non ce l’ha. Se affermi
che sei fratello, non potrà non chiedertela, per vedere se è vero quello che dici. Se non gliela dai,
sei falso. Ma, se gliela dai, la sua fede rimarrà attaccata alla tua fragile testimonianza, invece che
alla roccia della parola di Dio; e più di questa gli interesserà il vestito, con il risultato che avrai fatto
nascere in lui la cupidigia che avresti dovuto vincere. Per questo è necessario avere solo una veste.
E sottile la tentazione di andare in giro a dare cose di vario tipo a fin di bene. In realtà eserciti solo
potere e allontani dalla fede, che è obbedienza libera alla Parola. Più sei senza cose e hai nulla da
dare, più puoi condividere la tua speranza e comunicare Cristo., il solo tesoro. Allora l’unica tunica
che hai ti aiuterà a essere rivestito di lui, l’uomo nuovo, veste che non si logorerà mai (Dt 8,4).

v. 10 Dovunque entriate in una casa, lì dimorate, ecc. La povertà è bisogno di accoglienza. Tu hai
dato tutto per amore. Ci sarà chi ti ospita, dando dei suo. Così anche lui entra nel cerchio vitale del
dono (vedi At 16,11-15). E sii contento di quel che trovi, senza cercare di meglio o far preferenze.

v. 11 E qualunque luogo non vi accolga. Gesù per primo fu respinto. Il rifiuto che accompagna la
missione, non distrugge, ma realizza il Regno. Non è forse un seme, che porta frutto solo se è
gettato e muore?

scuotetevi la polvere. Con questo gesto si visibilizza il suo peccato, forse consumato
inavvertitamente.

in testimonianza per loro. Nel rifiuto, che si fa croce del rifiutato, si testimonia in pienezza ciò che
si annuncia: un amore incondizionato che si dona e rispetta la libertà, con le braccia sempre aperte
ad accogliere.

v. 12 proclamarono. Come Gesù. Vedi la sintesi del suo annuncio in Mc 1,14 s. “È piaciuto a Dio
di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione” (1Cor 1,21). La parola, mezzo debole, è
l’unico che rende possibile una comunicazione libera. In questa debolezza si manifesta la potenza
dei suo Spirito (1Cor 2,4).

che si convertissero. In questa parola “conversione” sta il centro di ogni annuncio. Il modo di
essere dei Dodici mostra da che e a chi convertirsi. Forse non ci sono molte altre parole da dire agli
uomini se non che si convertano dal loro male al Signore.

v. 13 e scacciavano molti demoni. Il loro annuncio è accompagnato dal potere che la Parola ha di
vincere lo spirito di menzogna.
e ungevano di olio molti infermi e li curavano. Non risulta che Gesù usasse l’olio, a differenza dei
suoi discepoli (cf Gc 5,14), che ne continuano l’azione. Non è certo l’olio a guarire, né l’acqua a
liberare dal peccato, né il pane o il vino a dare la vita nuova, ma il nome del Signore e la sua parola
pronunciata su questi elementi. Essi sono segni sacramentali con cui Gesù significa e opera la
salvezza per chi ha fede nella sua parola.

3. Esercizio

1.. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, osservando il luogo: vedo Gesù che gira attorno per i villaggi insegnando.
3. Chiedo ciò che voglio: chiedo al Padre di mettermi con il Figlio, associandomi alla sua stessa
missione in povertà e gratuità, se a lui piace.
4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare: insegnare portare nulla


chiamare annunziare
inviare conversione
potere sugli spiriti

4. Passi utili: Am 7,12-15; Sal 147,12-20; Mc 1,16-20; 3,13-19; At 3,1-10.

30. LEVARONO LA SUA SPOGLIA E LA DEPOSERO IN UN


SEPOLCRO
(6,14-29)

14
E udì il re Erode,
poiché il suo nome
era diventato noto,
e diceva:
Giovanni Battista
è risorto dai morti!
Per questo operano in lui le potenze.
15
Altri dicevano:
È Elia.
Altri ancora dicevano:
Un profeta,
come uno dei profeti.
16
Ma Erode, udito, diceva:
Quel Giovanni che io decapitai,
questi è risorto.
17
Lo stesso Erode infatti aveva mandato
a prendere Giovanni,
e lo legò in prigione,
a causa di Erodiade,
moglie di Filippo suo fratello,
perché l’aveva sposata.
18
Diceva infatti Giovanni a Erode:
Non ti è lecito
tenere la moglie di tuo fratello.
19
Ed Erodiade ce l’aveva con lui,
e voleva ucciderlo
e non poteva.
20
Infatti Erode temeva Giovanni,
sapendolo uomo giusto e santo,
e lo preservava,
e, ascoltandolo,
restava molto perplesso,
e lo ascoltava volentieri.
21
E venne il giorno propizio,
quando Erode, per il suo anniversario i di nascita,
fece un banchetto per i suoi grandi,
gli ufficiali e i primi della Galilea,
22
ed entrata la figlia della stessa Erodiade
e avendo danzato,
piacque a Erode e ai commensali.
Ora il re disse alla ragazza:
Domandami ciò che vuoi,
te lo darò.
23
E le giurò:
Ciò che mi domanderai,
te lo darò:
anche la metà del mio regno.
24
E, uscita, disse a sua madre:
Che chiederò?
Ora quella disse:
La testa di Giovanni Battista.
25
Ed entrata subito in fretta dal re,
domandò dicendo:
Voglio
che qui ora
mi dia
su un piatto
la testa
di Giovanni Battista!
26
E, rattristatosi il re
per il giuramento e per i convitati,
non volle rifiutare a lei.
27
E subito il re, inviando una guardia,
ordinò di portargli la sua testa.
28
E venne
e lo decapitò nella prigione,
e portò la sua testa su un piatto,
e la diede alla ragazza,
e la ragazza la diede a sua madre.
29
E, avendo udito i suoi discepoli,
vennero,
e levarono la sua spoglia,
e la deposero in un sepolcro.

1. Messaggio nel contesto

“Levarono la sua spoglia, e la deposero in un sepolcro” Con queste parole termina la storia di
Giovanni, presagio di quella del Signore. Il racconto fu occasionato dalla domanda su chi è Gesù.
L’invio in missione ha suscitato in giro il problema della sua identità. E il tema centrale di Marco,
che troverà una prima risposta alla fine della sezione dei pani. Infatti egli è riconoscibile solo nel
pane, memoriale della sua morte e risurrezione.
Questo brano ci dice innanzitutto perché non lo si riconosce. Erode non può intendere la Parola,
perché ha spento la voce che la proclama.
L’uccisione del Battista è la consumazione del peccato. Ultimo dei profeti, egli denuncia l’adulterio
del popolo - impersonato dal suo re che non ama il Signore, suo sposo. Chi, invece di convertirsi
alla sua parola, preferisce fame tacere la voce, si toglie la possibilità stessa di conversione.
Chi non pratica la giustizia, e non è disposto a cambiar vita, non può cercare i1 Signore e pretendere
di trovarlo. Gli rimane una fame e sete di verità inappagate. È il terribile silenzio di Dio (cf Am
8,11 s). E Dio tace, solo perché non vuole e non può condannare. Ma il suo silenzio è l’annuncio
più forte del nostro peccato e della sua misericordia.
Inoltre questo brano, posto dopo l’invio in missione, indica il destino del testimone. In greco
testimone si dice “martire”. Il termine significa “uno che si ricorda” - si ricorda della sua missione
anche a costo della vita.
La sorte di Giovanni prelude quella di Gesù e di quanti saranno inviati. Può sembrare poco
confortante. Ma l’uomo deve comunque morire. La differenza tra morte e martirio sta nel fatto che
la prima è la fine, il secondo il fine di una vita. Il martire infatti testimonia fin dentro e oltre la
morte l’amore che sta a principio della sua vita.
Infine il banchetto di Erode nel suo palazzo fa da contrappunto a quello imbandito da Cristo nel
deserto. Il primo ricorda una nascita, festeggiata con la morte; il secondo prefigura il memoriale
della morte del Signore, festeggiato come dono della vita. Gli ingredienti del primo sono ricchezza,
potere, orgoglio, falso punto di onore, lussuria, intrigo, rancore e ingiustizia - il tutto affogato nella
salsa di una coscienza infelice, perplessa, ambigua, debole e, alfine, svenduta, con il macabro piatto
finale di una testa mozzata in mano a una fanciulla. La storia mondana non è altro che una
variazione, monotona fino alla nausea, di queste vivande velenose.
Il pasto del Signore invece ha la semplice fragranza del pane, che riempie la sera fresca di un
deserto che fiorisce - amore che si dona e germina in condivisione e fraternità.
In sintesi: Giovanni, di cui si dice che è morto e risorto, è il preannuncio del destino di Gesù, che è
lo stesso dei suoi apostoli appena inviati. È quello del seme, già illustrato nelle parabole, che
costituirà l’oggetto della “Parola” nella seconda parte del vangelo.
Nella missione si compie la comunione piena con Gesù: con lui si partecipa alla sua stessa
compassione per il male del mondo, e in lui e come lui si diventa pane di vita per gli altri.
L’apostolo perfetto è il martire, che giunge all’identità col suo Signore. Erode, scambiando Gesù
con il Battista, dice senza saperlo una grande verità. Anche Paolo, perseguitando i cristiani, si
sentirà dire da Cristo: “Perché mi perseguiti?” (At 9,4 s).
Lui stesso affermerà poi di compiere in sé a favore dei fratelli ciò che ancora manca alle sofferenze
di Cristo (Col 1,24).

Gesù, attraverso la figura del Battista, ci è presentato come il risorto, santo e giusto, ucciso
ingiustamente. È il primo annuncio della sua morte e risurrezione, scritto non con parole, ma con il
sangue del testimone.
Il discepolo, inviato a testimoniare in povertà, avrà la stessa sorte del Battista, vivendo così il
mistero fecondo del seme che sparge. Però prima deve riconoscersi rispecchiato in Erode e nel vari
personaggi di contorno, che raffigurano le sfaccettature del male che abita nel suo cuore, causa
dell’uccisione del Giusto.

2. Lettura del testo

v. 14 E udì il re Erode. La missione dei Dodici rende noto Gesù, perché tutti si interroghino su di
lui e si lascino alfine da lui interrogare.

e diceva.- Giovanni Battista è risorto, ecc. (cf 8,28). La confessione di Erode è un aborto che
anticipa quella di Pietro (8,29). Chi è Gesù? La sua conoscenza deve farsi strada tra il nostro
peccato e i nostri pregiudizi religiosi, tra Erode che lo uccide e gli altri che si fanno la domanda e si
danno la risposta. La risposta verrà quando accetteremo che lui ci interroghi e ci metta in questione
(cf 8,27 ss).
Non c’è risposta per chi uccide o non ascolta il profeta che annuncia la parola di Dio; non c’è
dialogo per chi, volendo rispondersi da sé, rimane in un vuoto soliloquio sul già noto.

v. 15 Altri dicevano.- È Elia (cf 8,28). La figura di Elia, padre dei profeti, è importante: è l’ultimo
inviato prima della venuta del Signore (Ml 3,23s). Gesù dirà che è già venuto nel Battista (9,11 ss;
cf 1,2).

Un profeta, come uno dei profeti (cf 8,28). Tutte queste risposte religiose hanno in comune la
tendenza a identificare colui che è vivo con uno che è già morto. Anche i discepoli lo cercheranno
tra i morti (Lc 24,5), e lo scambieranno per un fantasma (v. 49). L’uomo non può dare altre risposte
se non quelle che rientrano nella sua memoria del passato; e questa non può essere che di morte.
Per questo ogni nostra risposta non può raggiungere Dio, presente e vivente.

v. 16 Erode diceva.- Quel Giovanni che io decapitai, questi è risorto. Erode, anche se con paura -
come “cattiva notizia” - enuncia il tema fondamentale del vangelo: la risurrezione. Descritto con
tutti i suoi sentimenti ambigui, è figura di ogni uomo, che alla fine fa il male che non vuole, travolto
nel vortice di un gioco che gli prende la mano.

v. 17 aveva mandato a prendere Giovanni e lo legò. Come Gesù, preso e legato (1 4,44-46; 15,1).

a causa di Erodiade. Il peccato del re fu di adulterio, figura di quello di tutto il popolo, che è
andato dietro gli idoli invece che al suo sposo. Questa figura femminile è come l’anima nera di
Erode. La donna è il simbolo della sapienza, che può capovolgersi nel suo opposto.

v. 18 Non ti è lecito, ecc. Non è legalismo, né semplice condanna. La profezia è sempre denuncia
del peccato e appello alla conversione. Il profeta vuol salvare il peccatore per amore del quale
espone la propria vita. Il Battista, ingiustamente ucciso per la giustizia e per il bene che fa
all’ingiusto col suo richiamo, è figura di Gesù - il giusto che muore per gli ingiusti.

v. 19 Erodiade ce l'aveva con lui. Questo rancore è la vera causa della morte del Battista, come
l’invidia sarà la causa della morte di Gesù (15,10).

v. 20 uomo giusto e santo. Come Gesù (cf At 3,14). Giusto è chi compie la volontà di Dio; santo è
chi gli appartiene.
ascoltandolo, restava molto perplesso, e lo ascoltava volentieri. È interessante questo ascolto di chi
non è disposto a cambiare. Egli finisce, contro coscienza, per perpetrare ogni crimine, anche quello
che non vuole. Non è spesso così il nostro ascolto? Ci piace e ci lascia perplessi. Ma ci decidiamo
ad ascoltare ciò che udiamo? Anche se non accolta, la Parola è sempre utile: toglie l’alibi della
buona fede, rendendo possibile la conversione.

vv. 21 ss venne il giorno propizio. Il giorno della nascita di Erode sarà quello della morte di
Giovanni, che, nello stesso giorno, nasce come testimone. Il giorno di nascita dei martiri è quello
della loro morte, in cui si identificano totalmente con la vita nuova che testimoniano.
Il banchetto di Erode e dei suoi grandi è uno spaccato tragico del mondo - danza folle di una
fanciulla goduta a vista, con la movenza finale di una testa sanguinante.
Erode, Erodiade e figlia, con lo sfondo di grandi ufficiali e notabili, giocati dal gioco del mondo,
sono la risposta che questo dà al messaggio di Gesù e dei suoi inviati. Con tale inizio, si
preannuncia uno scontro drammatico.

v. 26 rattristatosi il re non volle rifiutare. Analogo atteggiamento avrà Pilato. I potenti, impotenti a
fare il bene che vorrebbero, sono capaci solo, per orgoglio e vigliaccheria, di fare il male che non
vorrebbero. Sono in balia di una forza più grande di loro.

v. 28 la diede. Anche il corpo di Gesù sarà dato.

alla ragazza. È lo stesso nome con cui Gesù chiama la fanciulla che risvegliò prendendola per mano
(5,41).

v. 29 levarono la sua spoglia e la deposero in un sepolcro. Lo stesso accadrà a Gesù, il seme che
germinerà in pane di vita.

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, osservando il luogo: vedo la sala del banchetto di Erode e la prigione
Giovanni.
3. Chiedo ciò che voglio: amare il Signore e la sua parola più della mia vita, ricordandomi che
chi vorrà salvare la propria vita la perderà, chi perderà la sua vita per lui e l’evangelo, la
salverà.
4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare: Battista banchetto, danza


Elia/profeti testa (del profeta)
risorgere spoglia
uccidere sepolcro

4. Passi utili: Am 8,4-12; 2Cr 36,15 ss; Eb 11,36 ss; Sal 22.
31. VENITE VOI SOLI IN DISPARTE
(6,30-33)

30
E si radunano gli apostoli davanti a Gesù,
e gli narrarono tutto
quanto fecero
e quanto insegnarono.
31
E dice loro:
Venite voi soli in disparte
in luogo deserto,
e riposatevi un poco.
Erano infatti molti
che andavano e venivano,
e neppure di mangiare avevano tempo.
32
E se ne andarono nella barca
in un luogo deserto
in disparte.
33
E li videro partire,
e li riconobbero molti
e via terra da tutte le città
concorsero lì,
e li precedettero.

1. Messaggio nel contesto

“Venite voi soli in disparte”, dice Gesù ai suoi che rientrano dalla prima semina, per condurli sul
posto dove darà il pane. Nella sinagoga (= “riunione”) al centro sta la Parola; qui al centro sta colui
che li ha inviati, e ora li invita in solitudine, nel deserto. Sarà la nuova sinagoga, popolo riunito per
ascoltare la sua parola e ricevere il suo cibo.
Questo brano redazionale è il preludio immediato che inquadra e dà la chiave interpretativa per la
moltiplicazione dei pani. Ci dice le caratteristiche di fondo della Chiesa, che è in stretta
connessione con l’eucaristia. Infatti l’eucaristia fa la Chiesa, e la Chiesa fa l’eucaristia.
La comunità dei discepoli innanzitutto è costituita dal riunirsi davanti a Gesù, unico referente di
tutti e di ciascuno. La missione, come parte da lui, così porta a lui, senza distogliere da lui, anzi
conducendo a lui gli altri.
In questa riunione o “sinagoga” c’è un confronto di ciò che si fa e si dice con quanto lui ha fatto e
detto (At 1,1), misura di tutto. La nostra profezia è il ricordo di lui, compimento di ogni promessa.
In questo dialogo con la Parola sentiamo l’invito al deserto, ossia all’esodo, per trovare il vero
riposo, in intimità con lui, che ci comunica il suo segreto. Sarà l'eucaristia, dove mangiamo e
viviamo con lui e di lui, insieme a tutti quelli che lo vorranno seguire.

Gesù è colui che chiama all’esodo e invita al deserto. La legge e la manna saranno la sua parola e il
suo pane.

I discepoli, chiamati per essere con lui ed essere inviati, diventano una comunità che fa di lui il
centro del proprio agire, pensare e parlare.
Nel confronto con lui percepiscono il suo invito al deserto, dove, nella solitudine con lui, Parola
fatta pane, troveranno il loro cibo.
2. Lettura del testo

v. 30 si radunano gli apostoli davanti a Gesù. La missione non è una fuga o un’evasione. Non ha
come fine l’andata, ma il ritorno, perché ha nel Signore il suo cuore.

e gli narrarono tutto quanto fecero e quanto insegnarono. Il dialogo con lui, al quale raccontano e
sul quale commisurano tutto, è ciò che li fa Chiesa. Lui, con ciò che ha fatto e ha detto, e che il
vangelo ci narra (cf At 1,1), è la pietra di paragone di quanto noi facciamo e diciamo.

v. 31 Venite voi soli in disparte. Chi si confronta con la Parola, è sempre invitato a entrare più
profondamente nel mistero. In 4,10.34 Gesù spiegava ai suoi, in solitudine appartata, il segreto del
Regno. Ora dà loro il suo pane. Questo invito è analogo a quello di Mt 11,28: “Venite a me, voi
tutti che siete stanchi e affaticati, ecc.”. Al giogo della legge sostituirà quello della conoscenza e
dell’amore reciproco tra Padre e Figlio, che lui è venuto a offrirci col suo pane.

in luogo deserto. Sarà al di là del mare, sull’altra sponda rispetto a dove noi siamo. Gesù chiama a
un nuovo esodo, e attira i suoi nel deserto, per parlare al loro cuore. Lì conosceranno chi è il
Signore (cf Os 2,16-22).

e riposatevi. Il riposo è la terra promessa, immagine di ciò che Dio ha veramente promesso: lui
stesso. Solo in lui troviamo casa. Altrove siamo sempre esuli, fuggiaschi o pellegrini.

Erano molti che andavano e venivano (cf 2,2; 5,31). La folla è un impedimento a questa intimità, a
meno che si decida a seguirlo nel deserto.

neppure di mangiare avevano tempo. Come in 3,20. Uscire da questa folla non suona né disprezzo
né menefreghismo: è vivere la propria dignità di persona - interlocutore “privato” di Dio.
È il miglior aiuto che possiamo dare all’altro, esempio a fare altrettanto (cf v. 33).

v. 32 se ne andarono nella barca in un luogo deserto in disparte. Questo dettaglio, ripetuto,


completa la vita dell’apostolo: è con lui, è inviato da lui, e torna a lui per trovare uno spazio di
silenzio, in solitudine con lui. Qui egli ritrova se stesso, la pienezza della propria vita da cui
scaturisce la sua missione.

v. 33 li videro partire / li precedettero. Il loro ritiro con Gesù è la parte più fruttuosa di tutta la loro
attività apostolica: causa l’esodo di manipoli di messe, ormai matura per diventare popolo attraverso
la parola e il pane (cf anche 3,7 ss).

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, osservando il luogo dove i discepoli raccontano a Gesù sulla loro missione,
prima a terra e poi in barca.
3. Chiedo ciò che voglio: confrontare con lui ciò che faccio e dico, e accettare il suo invito
all’intimità con lui.
4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare: riunirsi davanti a Gesù ciò che insegnarono


disparte luogo deserto
ciò che fecero riposare
mangiare

4. Passi utili: Es 19; Ger 15,16-19; Ap 3,20.

32. ALZATI GLI OCCHI AL CIELO, BENEDISSE E SPEZZÒ I


PANI, E LI DAVA
(6,34-44)

34
E uscito vide molta folla,
ed ebbe compassione di loro,
poiché erano come pecore
che non avevano pastore,
e cominciò a insegnare loro molto.
35
Ed essendo già l’ora tarda,
i suoi discepoli, avvicinatisi a lui, dicevano:
Deserto è il luogo
e l’ora già tarda;
36
rimandali, perché, andando
nei campi e villaggi intorno,
si comprino di che mangiare,
37
Ed egli rispondendo loro disse:
Voi stessi date loro
da mangiare.
E gli dicono:
Andremo a comperare
duecento danari di pane,
e daremo loro da mangiare?!
38
E dice loro:
Quanti pani avete?
Andate a vedere!
E, informatisi, dicono:
Cinque,
e due pesci.
39
E ordinò loro di far sdraiare tutti,
a gruppi e gruppi sull’erba verde.
40
E si adagiarono ad aiuole ed aiuole
di cento e di cinquanta.
41
E, presi i cinque pani e i due pesci,
alzati gli occhi al cielo,
benedisse e spezzò i pani,
e li dava ai discepoli
che li porgessero loro,
e i due pesci divise tra tutti.
42
E mangiarono tutti,
e furono sazi,
43
e levarono di frammenti un pieno di dodici ceste,
e anche dai pesci.
44
Ed erano quelli che mangiarono (i pani)
cinquemila uomini.

1. Messaggio nel contesto

“Alzati gli occhi al cielo, benedisse e spezzò i pani e li dava”. Sono le parole dei memoriale
eucaristico (14,22s), punto d’arrivo di ogni missione, in cui riceviamo quel pane che è il Figlio e ci
fa figli.
Questa sezione di Marco vuoi portare a superare la sordità e cecità, per riconoscere il Signore
nell’eucaristia.
Il seguito del vangelo sarà tutto un confronto tra la Chiesa e questo pane, e avrà come culmine la
contemplazione di un Dio crocifisso, oggetto dell’annuncio che ci fa rinascere (battesimo) e cibo
che alimenta la vita nuova (eucaristia).
Questo brano inizia dichiarando la sorgente del dono del Signore. È la sua compassione, la sua
hesed - essenza recondita di Dio, che lo porterà a dare la vita per noi.
La scena si svolge nel deserto, dove il popolo ricevette le dieci parole, la manna, le quaglie e
l’acqua. Ora il nuovo popolo riceve la Parola stessa che si fa suo nutrimento e vita.
Il racconto contrappone due economie, due maniere diverse di amministrare la propria esistenza.
Quella dell’uomo, che vive di ciò che ha o compera, e quella di Dio, che vive e fa vivere di ciò che
dà, in perfetta gratuità. C’è un pane - i discepoli ce l’hanno e non lo sanno - che si moltiplica
dividendolo e può saziare le moltitudini.
Il racconto, chiamato “moltiplicazione”, parla in realtà di una condivisione. Proprio così nasce
l’unico pane che sazia e basta per tutti.
Il tema centrale del brano è “mangiare”. Mangiare significa vivere. È misteriosamente vero che
l’uomo è ciò che mangia. La Sapienza dice: “Mangiate senza denaro e senza spesa. Perché
spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro patrimonio per ciò che non sazia? Venite a me,
ascoltate e voi vivrete” (Is 55,1 ss passim).
L’eucaristia non è la commemorazione di un evento passato, bensì novità di vita filiale e fraterna.
“Chi mangia di me, vivrà per me” (Gv 6,57), dice Gesù. Il suo pane è lui stesso, come lui stesso è
la sua parola: in quanto parola ci fa vedere il mistero di Dio, in quanto pane ce lo fa vivere. Sullo
sfondo c’è il ricordo dell’esodo con il dono della manna e il i miracolo di Eliseo (2Re 4,42 ss).

Gesù, che dona la parola e il pane, è Parola e Pane. Vivendo di lui, viviamo la pienezza di vita che
ci è stata promessa.

Il discepolo mangia di questo pane. Il banchetto che Gesù imbandisce nel deserto, ben diverso da
quello di Erode nel palazzo, lo fa passare da un’esistenza morta - chiusa nell’egoismo e
amministrata dalla brama di avere, potere e apparire - a una vita nuova nell’amore, sotto il segno del
dono e del servizio in umiltà. Fa parte di un popolo nuovo, che ha le caratteristiche del pane che
mangia.

2. Lettura del testo


v. 34 vide molta folla, ed ebbe compassione di loro. La compassione o misericordia non è un
attributo di Dio. È Dio stesso, nel più profondo del suo abisso di amore gratuito, che verrà alla luce
sulla croce. Questa compassione è l’origine del pane - la sua vita data per noi peccatori.

erano come pecore che non avevano pastore. Mosè così pregò per il suo popolo sbandato: “Il
Signore, il Dio della vita in ogni essere vivente, metta a capo di questa comunità un uomo che li
preceda nell’uscire e nel tornare, perché la comunità del Signore non sia un gregge senza pastore”
(Nm 27,16 s). Gesù si candida pastore non per desiderio di potere, ma perché agnello immolato,
che dà la sua vita per le pecore (Gv 10,11). Secondo la promessa, Dio stesso si fa pastore del suo
popolo (Ez 34,1 ss). Quando lui sarà percosso e i suoi si sperderanno, egli assicura che non li
abbandonerà, ma li precederà sempre con un amore più forte della morte. Il pane appena dato ne è il
pegno (14,27).

cominciò a insegnare loro molto. Il primo pane che dà, è la sua parola. Infatti “non di solo pane
vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Dt 8,3). Il cibo materiale, presto o
tardi, verrà meno, come la stessa vita. Ma la sua parola e la sua fedeltà dura in eterno. Questo
lungo insegnamento allude all’abbondante catechesi che precede l’eucaristia: il banchetto della
Parola precede quello del Pane. Senza quello, questo non è conosciuto; e quindi né desiderato né
accolto per quello che è. Lo cercheremmo solo per sfamarci, come fece la folla (Gv 6,26). Non date
le perle ai porci (Mt 7,6)!

v. 36 si comprino di che mangiare. I discepoli, come tutti, sono chiusi nella legge ferrea del
possedere e del comprare. Pensano che al massimo uno può dare quello che ha. Dette le belle
parole, vogliono rimandare la folla - dalla quale poi non vorranno staccarsi.

v. 37 Voi stessi date loro da mangiare. È un imperativo. Ora la Parola deve farsi Pane. I discepoli
sono chiamati a “dare”, come ha fatto Gesù, passando dall’economia del possesso a quella del dono.
Quella produce fame e morte, questa genera sazietà e vita.

Andremo a comperare duecento danari di pane? I discepoli restano nel loro orizzonte. Non
capiscono la proposta di Gesù, e pensano di dover “comperare” pane. Hanno buona volontà. La
loro è una carità disponibile e oculata, pronta a pagare calcolando i costi. Ma il punto è un altro.
Questo pane esiste senza comperarlo. Ce l’ha dato Gesù: è lui stesso e la sua capacità di donare. I
discepoli però non sanno di averlo e non ne conoscono ancora il potere. Solo dandolo ce l’hanno; e
più ne danno più ne hanno. Ma se lo tengono, ne sono privi.

v. 38 Andate a vedere. Lui sa che c’è, e ordina di andare a vedere. Noi, nella nostra superficialità,
non lo vedremmo.

Cinque, e due pesci. A noi, anche quando lo vediamo, sembra poca cosa. Ma cinque più due fa
sette, numero perfetto. La nostra povertà, il poco che abbiamo, passando per le mani del Signore,
diventa nella condivisione abbondanza per tutti.

v. 39 ordinò loro di far sdraiare tutti. È un ordine, perché ai discepoli pare una cosa insensata. Si
può forse sfamare un popolo nel deserto (Sal 77,19)? Ma il Signore ha preparato per tutti i popoli il
suo banchetto. E in quel giorno si dirà: “Ecco il nostro Dio” (Is 25,6-9).

a gruppi sull'erba verde. Il gregge disperso diventa un popolo ordinato (cf Es 18,25; Nm 31,14),
sotto la guida del pastore che porta ai pascoli verdeggianti (Sal 23). Davanti al Signore, esulta e
fiorisce la steppa (Is 35,1). Quando si passa dall’economia del possesso a quella del dono, questo
mondo, da deserto (v. 35), diventa terra promessa. Si torna all’Eden, il giardino dei figli.
v. 40 si adagiarono ad aiuole. Le persone si sdraiano, cadendo sull’erba verde quasi petali colorati;
e ogni gruppo è paragonato ad un’aiuola fiorita.

v. 41 E, presi i cinque pani, ecc. Sono le parole del memoriale del Signore morto e risorto,
nell’attesa del suo ritorno. Gesù prende dalla terra il pane e dall’abisso il pesce. Ma tiene il suo
occhio verso il cielo, rivolto al Padre. Il suo prendere non è un possedere, ma un ricevere in dono,
benedicendo colui che dà ogni bene, e donando a sua volta. Il pane spezzato è il suo corpo, dato per
noi sulla croce (14,22 s).

e li dava ai discepoli. Questo verbo è all’imperfetto. Indica un’azione continua, in cui il Signore
prosegue a dare il pane spezzato una volta per tutte.

che li porgessero. I discepoli offrono il pane che sgorga da Gesù. Ogni nostro amore e condivisione
verso gli altri ha in lui la propria sorgente.

e i due pesci divise tra tutti. Il pesce, che vive nell’abisso, divenne presto simbolo di Cristo, il
vivente oltre la morte. La parola greca ichthús (pesce) è l’anagramma delle iniziali in greco
dell’espressione “Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore”.

v. 42 E mangiarono tutti. Mangiare è vivere. Tutti vivono di questo pane.

e furono sazi. Tutti gli altri pani non danno la vita e non saziano. Sono pani di maledizione, sudati
nel duro lavoro (Sal 127,2; cf Gn 3,19). Questo invece è il pane di benedizione, il dono del Padre ai
figli, condiviso dai fratelli. Solo l’amore è pane che sazia. Oggi abbiamo sovrabbondanza di pane
che non fa che aumentare la fame.

v. 43 e levarono dodici ceste. Il numero dodici indica totalità: dodici sono gli apostoli, le tribù
d’Israele e i mesi dell’anno. Questo pane che sembrava così poca cosa, sazia tutti e non finisce mai.
Cresce a chi lo sottrae a sé, si moltiplica per chi lo divide, e chi più ne dà più ne ha, avanzandone
per tutti e per sempre. È l’amore, che non avrà mai fine (1Cor 13,8). A differenza della manna, va
raccolto, perché non perisce. È il pane di vita eterna (cf Gv 6,48-59).

v. 44 Ed erano quelli che mangiarono cinquemila. Mangiare questo pane significa vivere di Gesù e
come lui. Cinquemila è appunto il numero della comunità primitiva (At 4,4), della quale si dice che
viveva nella quotidianità ciò che celebrava nell’eucaristia. La vita del Figlio, data per loro,
diventava lode del Padre e condivisione coi fratelli (cf At 2,42-48; 4,32-35).

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, osservando il luogo: nel deserto, che alle piogge primaverili si ammanta di verde.
3. Chiedo ciò che voglio: capire e gustare questo pane che il Signore offre.
4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare: compassione levare gli occhi


pecore/pastore benedire
ora tarda spezzare
deserto dare
comperare da mangiare offrire
dare da mangiare essere sazi
pane dodici ceste

4. Passi utili: 2Re 4,42-44; Is 25,6 ss; 55,1-3; Sal 23; 145; At 2,42-48; 4,32-37.

33. CORAGGIO, IO SONO, NON TEMETE!


(6,45-56)

45
E subito costrinse i suoi discepoli
a entrare nella barca
e a procedere di là, verso Betsaida,
mentre lui rimanda la folla.
46
E, separatosi da loro,
se ne andò sul monte a pregare.
47
E, fattasi sera,
la barca era in mezzo al mare
e lui solo sulla terra.
48
E vedendoli provati nel remare,
infatti il vento era loro contrario,
sulla quarta veglia della notte,
viene verso di loro
camminando sul mare,
e voleva oltrepassarli.
49
Essi, vedendolo camminare sul mare,
pensarono che era un fantasma,
e alzarono un grido.
50
Tutti infatti lo videro
e furono turbati.
Ora egli subito parlò con loro
e dice loro:
Coraggio,
Io Sono,
non temete!
51
E salì da loro nella barca
e cadde il vento.
E rimanevano in sé oltremodo stupiti.
52
Infatti non avevano capito il fatto dei pani,
ma il loro cuore era indurito.
53
E, attraversato, approdarono a Genezaret
e ormeggiarono.
54
E, usciti dalla barca,
subito lo riconobbero,
55
e corsero per tutta quella regione,
e cominciarono a portargli in barelle
quelli che stavano male,
ovunque udivano che si trovasse.
56
E, ovunque arrivava,
in villaggi o città o campagne,
mettevano i malati sulle piazze,
e lo pregavano di toccargli
almeno la frangia del vestito.
E, quanti lo toccavano,
erano salvati.

1. Messaggio nel contesto

“Coraggio, Io Sono, non temete!”, dice Gesù al discepoli che lo credono un fantasma. Non hanno
capito il fatto dei pani, perché hanno il cuore indurito, commenta l’evangelista. Per questo non
sanno riconoscere in colui che cammina sul mare lo stesso Gesù che ha “dormito” in esso (4,38).
Questo brano ci dice l’identità misteriosa del pane. È il Signore che appare ai suoi come il Dio
creatore e liberatore, dominatore del caos e salvatore dall’abisso. Egli si manifesta dicendo il Nome
rivelato a Mosè: “Io Sono” (Es 3,14). Essi vedono la gloria di JHWH sulle acque, e il suo sentiero
rimase invisibile (Sal 77,20).
Dopo le parabole ci fu una prova per verificare se avevano capito la Parola - il Cristo che dormendo
agisce, come il chicco che morendo porta frutto (4,35 ss). Ora, dopo il cibo del deserto, c’è questa
prova per verificare se hanno capito il Pane - il Signore crocifisso e risorto, vincitore della morte
che credeva di averlo vinto.
Ma i discepoli non “sanno discernere il corpo di Cristo” (1Cor 11,29).
Il vangelo, ovviamente, è scritto per quella barca che è la Chiesa. Essa, in assenza dello Sposo, è
chiamata a riconoscerlo presente e operante nel pane che spezza in sua memoria.
L’eucaristia non è semplice condivisione e fraternità - un amore vago e indefinito, un fantasma che
ricorda il caro estinto! Il pane, per la sua parola nell’ultima cena, è lui stesso, il Signore che si dona
totalmente a noi nel suo amore. Per fede lo riconosciamo in tutta la sua potenza salvifica, e in lui e
per lui la nostra vita diventa un “sì” al Padre e ai fratelli.
Questo dono e questa risposta di amore non sono un’illusione. È “Io Sono”, JHWH. Infatti “Dio è
amore, e chi sta nell’amore, dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1Gv 4,16). Capire il pane significa
nutrirsi di Cristo, assimilati a lui, Figlio del Padre e fratello di tutti. Chi mangia questo pane
“dimora in me ed io in lui”, dice Gesù (Gv 6,56). Noi siamo in lui e lui in noi, in un’identica vita e
in un unico Spirito, che ci pone a servizio gli uni gli altri, lavandoci reciprocamente i piedi e
amandoci come lui ci ha amato.
I discepoli sulla barca sono in difficoltà perché non hanno capito questo (v. 52).
Il motivo è la durezza di cuore, le cui cause verranno dette in seguito.
Il fatto dei pani non è capito dovunque si celebra l’eucaristia senza l’ascolto, l’obbedienza, l’amore,
la condivisione e la lode di cui testimonia la prima comunità di Gerusalemme (At 2,42-48).
Ai discepoli fa da contrasto la folla. Subito riconosce il Signore, lo tocca con fede ed è salva.

Gesù è il Signore creatore e salvatore. È “Io Sono”, sempre con i suoi, anche dopo aver dormito
sulla barca ed essersi assentato da solo sul monte. La loro fatica e difficoltà dipende dal fatto che
non lo riconoscono nell’unico pane (8,14). Dando corpo alle loro fantasie, scambiano il suo stesso
corpo per un fantasma.

I discepoli sono sulla barca, ossia la Chiesa. Di notte, in mezzo al mare, in sua assenza e con vento
contrario, non riescono a raggiungere l’altra sponda. La loro forza è il Signore. Al suo apparire,
subito si fa giorno, cessa il vento e arrivano. Il seguito della sezione sarà diagnosi e terapia della
sordità e cecità del nostro cuore, che ci impedisce di riconoscerlo nel pane.
2. Lettura del testo

v. 45 subito costrinse i suoi discepoli. I discepoli prima volevano licenziare la folla per non
deluderla. Ora non vogliono più staccarsene, e sono delusi che il Signore non li tenga con sé a
mietere il successo. Gv 6,15 dice che volevano farlo re. Che piacere per loro e che opportunità per
lui! È la tentazione del pane, attraverso cui conquistare il potere. Ma Gesù ha già smascherato e
vinto satana nei quaranta giorni di lotta. Ora “costringe” con forza i suoi discepoli recalcitranti a
imbarcarsi, per evitare loro di cadere nella trappola. Ancora qualche moltiplicazione di pane, e
avrebbero conquistato la folla- poi avrebbero potuto trionfalmente marciare su Gerusalemme e,
finalmente, instaurare il Regno!

rimanda la folla. Non è impossibile che Gesù abbia rimandato la folla chiarendo l’equivoco con
parole dure, come Giovanni riferisce che fece il giorno dopo a Cafarnao. “Questo linguaggio è duro,
chi può intenderlo?”, gli diranno (Gv 6,60). Essi infatti lo cercano non perché hanno capito il
segno, ma perché desiderano il pane (Gv 6,26). Vogliono il dono e non il donatore. Non sanno che
lui stesso è il dono!

v. 46 se ne andò sul monte a pregare. Marco ci presenta tre volte Gesù in preghiera notturna, e
sempre in momenti di prova. A Cafarnao ci fu il primo disaccordo coi discepoli (1,35 ss): qui, sul
lago, diventa loro irriconoscibile; più tardi, sul monte degli Ulivi, sarà abbandonato da tutti (14,32
ss). La solitudine sul monte, in dialogo col Padre, gli dà luce e forza per proseguire la sua scelta
battesimale, quella del Figlio prediletto. Ma lo separa abissalmente da noi.

v. 47 fattasi sera, la barca, ecc. È notte. I discepoli sono in balla delle onde. Il Signore è assente, in
una distanza inaccessibile, sul monte, vicino al Padre. E noi ci sentiamo abbandonati, nel vano
tentativo di raggiungere con le nostre forze la sponda alla quale lui ci ha inviati.

v. 48 vedendoli provati nel remare. Lui vede la nostra fatica. Da soli non ce la facciamo. Ma lui
dov’è? Quand’era con noi, dormiva (4,35 ss): ora, peggio, sta lontano. Ma lui veglia, come
un’aquila la sua nidiata (Dt 32,11).

il vento era contrario. Il vento (= spirito) contrario è causa della fatica improba e inutile. I
discepoli, pur avendo mangiato il suo pane, sono ancora sotto la spinta dello spirito opposto, quello
del mondo.

sulla quarta veglia della notte. È l’ultima parte della notte, dalle tre alle sei del mattino. È il buio
più pieno, prima dei bagliori antelucani. È l’ora della stanchezza e della disperazione, soprattutto
per chi ha vegliato e faticato tutta la notte. Sarà anche l’ora della risurrezione.

viene verso di loro. Il Signore interviene solo quando noi diciamo: “Basta”. Non può farlo prima,
solo perché noi non glielo permettiamo. Comunque è certo che ci viene sempre incontro. Sa che
senza di lui non possiamo fare nulla (Gv 15,5).

camminando sul mare. La volta precedente, nel suo sonno in barca, andava a fondo; ora, nel suo
vegliare, cammina sull’acqua. È un’immagine della vittoria sulla morte e sull’abisso, frutto del suo
dormire, apparente sconfitta.

voleva oltrepassarli. È la gloria di Dio, che va oltre (Es 33,22); è il Signore che passa, e salva i suoi
(Es 12,13).
v. 49 pensarono che era un fantasma. Lo credono lo spettro di un morto, uno spirito, un’illusione,
come nel giorno di pasqua (Lc 24,39).

alzarono un grido. Hanno terrore mortale.

v. 50 Tutti lo videro. Come il Signore risorto, è visto ma non riconosciuto. La paura chiude gli
occhi e proietta sulle palpebre le sue fantasie scambiate da noi per realtà.

Coraggio. È il contrario della paura, che già una volta hanno avuto in barca (4,38).

Io Sono. È il nome JHWH, con cui Dio si rivelò a Mosè (Es 3,14).

non temete. L’uomo non conosce Dio e da sempre ha paura di lui, che sempre gli dice: “Non
temere”.

v. 51 salì da loro nella barca. In sua assenza tutto sembrava finito. Ma ora è con loro, come colui
che è rimasto da solo con il Padre, ed è venuto loro incontro camminando sul mare.

cadde il vento. La sua presenza fa tacere automaticamente lo spirito contrario.

v. 52 noni avevano capito il fatto dei pani. È la spiegazione che l’evangelista dà per la sua Chiesa.
Essa si trova in difficoltà nel suo viaggio perché non ha capito che il pane che Gesù le dà è lui
stesso. L’eucaristia è la forza del suo cammino, nella misura in cui riconosce in essa il suo Signore
morto e risorto, mangiando e vivendo di lui, che ha vissuto per il Padre e per i fratelli. Chi ne fa un
semplice rito, non discerne il corpo del Signore (1Cor 11,29). Ritenendolo un fantasma, invece
della potenza della fede, sperimenta l’illusione e la delusione della magia.

il loro cuore era indurito. La prerogativa dei nemici di Gesù passa ora ai discepoli (cf 3,5; 8,17). Il
cuore indurito sarà causa della sua morte. Ma proprio così il seme diventerà pane, cibo di
misericordia per tutti. Il brano seguente parlerà di questo cuore calcificato, di pietra (cf Ez 36,26).

v. 53 E, attraversato, ecc. Con lui si approda subito!

v. 54 E subito lo riconobbero. A differenza dei discepoli!

v. 55 e corsero, C’è un mare di miseria che si riversa su Gesù, abisso di misericordia.

v. 56 quanti lo toccavano, erano salvati. Ritorna il tema del toccare che salva (c. 5).

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, osservando il luogo: sul mare, nell’ora più fonda della notte; e poi sulla riva del
lago.
3. Chiedo ciò che voglio: donami, Signore, un cuore di carne, perché ti riconosca nel pane che
mi hai dato e ne sperimenti la potenza nella fede.
4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare: costringere coraggio


monte Io Sono
pregare non temete
fattasi sera capire il fatto dei pani
vento contrario cuore indurito
camminare sul mare toccare
oltrepassare essere salvati
fantasma

4. Passi utili: Es 3,13-15; Sal 77; 1Cor 11,17-33; At 2,42-48; 4,32-37; Mc 4,35-41.
34. IL LORO CUORE È LONTANO DA ME
(7,1-23)

71 E si riuniscono da lui i farisei


e alcuni degli scribi venuti da Gerusalemme.
2
E, vedendo alcuni dei suoi discepoli
mangiare i pani
con mani immonde, ossia non lavate,
3
i farisei infatti e tutti i giudei non mangiano
se prima non si sono lavati
le mani fino al polso,
tenendo la tradizione degli antichi;
4
- e, venendo dal mercato,
non mangiano
senza essersi aspersi,
e molte altre cose ci sono
che tengono per tradizione,
abluzioni di calici, orci e vasi di rame -
5
e lo interrogano i farisei e gli scribi:
Perché i tuoi discepoli non camminano
secondo la tradizione degli antichi,
ma mangiano il pane
con mani immonde?
6
Ed egli disse loro:
Bene profetò Isaia di voi,
ipocriti,
come sta scritto:
Questo popolo mi onora con le labbra,
ma il loro cuore è lontano da me.
7
Ma a vuoto mi venerano
insegnando insegnamenti,
precetti di uomini.
8
Lasciando il comando di Dio,
tenete le tradizioni degli uomini.
9
E diceva loro:
Bellamente trascurate
il comando di Dio
per osservare la vostra tradizione.
10
Mosè infatti disse:
Onora tuo padre e tua madre.
e:
chi maledice il padre e la madre,
finisca a morte.
11
Ma voi dite:
Se uno ha detto al padre o alla madre:
Korban - ossia dono - quanto da me ti può spettare,
12
non lo lasciate più far niente per il padre o la madre,
13
annullando la parola di Dio
con la vostra tradizione
che vi siete tramandata.
E di cose simili a queste,
ne fate molte.
14
E chiamata di nuovo a sé la folla,
diceva loro:
Ascoltatemi tutti
e intendete.
15
Non c’è nulla da fuori dell’uomo
che, entrando in lui,
lo può rendere immondo;
ma le cose che escono da lui,
sono quelle che rendono immondo l’uomo.
16
(Se qualcuno ha orecchi
per ascoltare
ascolti).
17
E quando entrò in casa,
lontano dalla folla,
i suoi discepoli lo interrogavano sulla parabola.
18
E dice loro:
Così anche voi siete privi di senno?
Non capite che tutto
quel che dal di fuori entra nell’uomo
non può renderlo immondo,
19
perché non gli entra nel cuore,
ma nel ventre,
ed esce nella latrina?
purificando tutti gli alimenti.
20
Diceva poi:
Ciò che esce dall’uomo,
quello rende immondo l’uomo.
21
Da dentro infatti, dal cuore degli uomini,
escono i cattivi pensieri,
fornicazioni, furti, omicidi, adulteri,
22
cupidigie, malizia, inganno, dissolutezza,
occhio cattivo, bestemmia, superbia, stupidità.
23
Tutte queste cose cattive
escono dal di dentro
e rendono immondo l’uomo.

1. Messaggio nel contesto

“Il loro cuore è lontano da me”, dice il Signore. Per questo è duro, e non capisce il pane.
Le parole di Isaia, che Gesù rivolge al farisei, Marco le indirizza alla Chiesa. Ciò che tiene lontane
da Dio le persone buone sono le “tradizioni religiose” staccate dall’amore, loro sorgente. L’uomo,
anche se non lo sa, è sempre tradizionalista e abitudinario. Non deve inventare ogni volta
atteggiamenti o risposte adeguate. Si affida al consueto, a ciò che già è stato fatto e ha appreso.
Vive insomma di memoria. Ma il cristiano rompe con il passato, perché vive di una novità inaudita:
la memoria del corpo e del sangue del suo Signore consegnato a lui nel pane. Questo mistero di
amore è la “sua” tradizione, che ha ricevuto e a sua volta trasmette (1Cor 11,23 ss).
In Israele il midollo della tradizione è la legge, data da Dio come cammino alla vita. Essa si
sintetizza nel comando di amare lui e i fratelli (12,29-31). Come si vede, è buona, ma nessuno è in
grado di osservarla. Per questo convince tutti di peccato. Così, mostrando il male, invita a
rivolgersi al medico che può guarire.
Ma l’orgoglioso preferisce difendersi. Trascurando la sostanza, si attacca a un’osservanza, talora
meticolosa, di certi dettagli, per giustificare se stesso e condannare gli altri. Questo atteggiamento
esce in duplice edizione, rispettivamente religiosa e laica. Ambedue hanno in comune la
produzione di foglie di fico per coprire la naturale nudità, alla ricerca di una presunta - e intollerante
- giustizia davanti a Dio e/o davanti agli uomini.
In realtà la vera funzione della legge non è mascherare o guarire dal male, ma evidenziarlo e
denunciarlo, per farci sentire il bisogno del perdono e della misericordia. Solo in questo modo
conosciamo Dio così com’è e si rivela nel pane: amore gratuito che si dona.
L’uso della legge e delle tradizioni come autogiustificazione è insieme effetto e causa della durezza
di cuore, che impedisce di riconoscere la realtà di Dio nel pane (cf brano precedente).
Il lungo discorso di Gesù si articola in quattro parti: i vv. 1-7 denunciano una religiosità esteriore in
cui la legge, degradata a legalismo, è ridotta a parole e tradizioni umane che annullano la parola di
Dio. I vv. 8-13 ne danno un’esemplificazione evidente, mostrando come si possa, con una tradizione
religiosa, eludere il comandamento più ovvio di Dio, l’amore verso i genitori. I vv. 14-19 dichiarano
che tutto il creato è buono, perché fatto per l’uomo. Sono quindi aboliti tutti i tabù e le distinzioni
tra bene e male desunte dall’esterno. I vv. 20-23 mostrano il vero principio del male: il cuore
dell’uomo, quando non usa delle creature per amare i fratelli.
Tutto questo cosa c’entra con il “pane” di Gesù? Non a caso la discussione è centrata su leggi e
tradizioni alimentari che impediscono di “mangiare”. In esse si esprime quella durezza di cuore che
ci impedisce di vivere l’eucaristia, lui in persona che si dà a noi perché viviamo di lui. Ma noi
riduciamo la realtà di questo dono a un fantasma, perché restiamo in una religiosità formale, che
osserva tutte le leggi, fuorché quella fondamentale di amare.
Nessun peccato allontana da Dio e dal suo pane quanto la pretesa di una bravura religiosa. “Non
avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti
dalla grazia” (Gal 5,4). L’autogiustificazione annulla la giustificazione, togliendoci la vera
conoscenza di noi stessi come miseria e di Dio come misericordia. Ci spinge a fare di tutto, fino a
sforzarci di amare, piuttosto che accettare di essere amati gratuitamente e fidarci di lui. Così il
nostro cuore resta duro, morto e calcificato, sordo e cieco all’amore e alla vita. Abbiamo occhi che
non vedono, orecchi che non odono (8,18).
Gesù, con il suo “pane”, non solo diagnostica, ma anche ci guarisce dalla nostra sordità e cecità (vv.
31-37; 8,22 ss).

Gesù è il maestro capace di scrivere nel nostro cuore la legge interiore dell’amore. E lo fa mediante
la memoria iterata del suo “pane”, che ci rivela e dona un Dio che ci ama senza condizioni.

Il discepolo mangia questo pane e ne vive, anche se immondo. Fonda la sua vita non sulla propria
osservanza della legge, ma sulla sua grazia. Deve sempre guardarsi dal legalismo e da tutte le
tradizioni - anche sante! - che riducono la realtà del Signore a fantasma. Inoltre accetta tutto il
creato come buono, e sa che il male procede dal suo cuore di pietra, ancora incapace di amare.

2. Lettura del testo

v. 1 farisei e alcuni scribi. I primi osservano la legge, i secondi la conoscono. Questi scribi e
farisei, che d’improvviso sbucano da Gerusalemme, servono a farci capire ciò che impedisce di
comprendere il fatto dei pani.
v. 2 mangiare i pani con mani immonde. Tutta la discussione riguarda il cibo. L’alimento è vita, e
viene da Dio. Quello materiale, che perisce, è figura di quello che non perisce: ogni pane è segno di
Dio stesso che si dona. Lo si prende quindi non con mani immonde (in greco “comuni”). Lavarsele
prima dei pasti, oltre che norma igienica, è anche rito di purificazione, per accostarsi col dovuto
rispetto alla fonte incontaminata della vita. Ma ogni rito, quando perde il suo significato, sostituisce
la cosa significata e diventa magia. Il ritualismo svuota anche le cose più sante; perfino l’eucaristia,
che può essere celebrata per abitudine, per convenienza o addirittura per lucro. È comunque
interessante notare che i discepoli, anche se con mani immonde, mangiano. Gli altri invece, con la
loro pretesa purezza, non mangiano, e vengono da Gesù smascherati come immondi.

vv.3 s i farisei infatti e tutti i giudei, ecc. Marco spiega ai suoi lettori pagani, che stanno a Roma, le
norme e le tradizioni ebraiche sui pasti.

v. 5 Perché i tuoi discepoli non camminano secondo la tradizione degli antichi? È già la terza volta
che si parla di tradizioni e si continuerà a parlarne. Tutto il discorso di Gesù è una contrapposizione
tra queste e la parola di Dio. Il vangelo è critico verso tutte le tradizioni. Le mette sempre al vaglio
dello Spirito, per discernere se sono conformi o meno alla “tradizione del pane”, norma suprema.
Oltre quelle religiose, soprattutto oggi, ce ne sono tante altre: il “si dice”, il “si fa”, con le
implacabili leggi dell’avere, del potere, del prestigio, dei mercato, della moda. Tante abitudini,
ovvie, scontate e vincolanti. impediscono di osservare l’unica legge dell’amore.

v. 6 ipocriti. “Ipocrita” è il nome che nel teatro greco si dà al capocoro. È il protagonista, colui che
emerge dal gregge anonimo con i suoi assoli. L’ipocrisia è quindi il desiderio di protagonismo che
fa mettere il proprio io davanti a tutto e a tutti, Dio compreso. L’io diventa il proprio piccolo dio, al
quale si sacrifica tutto, anche se stessi. Questo peccato, comune a tutti, chiude nell’egoismo, e porta
a servirsi degli altri come piedistallo. Talora si presenta in forma capovolta, più sottile ma non
migliore: si domina facendo leva sulla propria debolezza per colpevolizzare gli altri.

Questo popolo mi onora con le labbra. È citazione di Is 29,13, che denuncia la religiosità fatta di
parole e di osservanze rituali esterne.

ma il loro cuore è lontano da me. La vera religiosità è quella del cuore nuovo, che ama Dio e il
prossimo. Diversamente è solo ipocrisia e strumento di dominio - imbiancatura esterna di un
sepolcro pieno di morte.

v. 7 a vuoto mi venerano. Questo culto è diretto al vuoto. Infatti non è rivolto a Dio, bensì all’io.

v. 8 Lasciando il comando a Dio, tenete le tradizioni degli uomini. Il legalismo sostituisce il


comando di Dio con le tradizioni degli uomini.

v. 9 Bellamente trascurate il comando di Dio per osservare la vostra tradizione. Gesù ribadisce la
denuncia di questo male, per metterci sull’avviso. Infatti lo facciamo istintivamente, senza malizia
o avvertenza.

v. 10 ss Mosè disse, ecc. Gesù porta un esempio di abilità con cui riusciamo a fare una legge
religiosa che va direttamente contro il comandamento di Dio più ovvio - l’amore verso i genitori
anziani e bisognosi.

v. 13 annullando la parola di Dio con la vostra tradizione che vi siete tramandata. È veramente
impressionante, quasi ossessiva, questa variazione sul tema da parte di Gesù: lasciate il comando di
Dio, trascurate il comando di Dio, annullate la parola di Dio con le tradizioni degli uomini, la vostra
tradizione, la vostra tradizione che vi siete tramandata.

E di cose simili ne fate molte. Signore, tu garantisci che siamo veramente abili nell’imbrogliare noi
stessi per non conoscere te. Ti preghiamo di aprirci gli occhi, perché vediamo ciò che tiene il nostro
cuore schiavo di sé e lontano da te. Aiutaci a fare un accurato esame di ciò che riteniamo
importante, tanto importante da considerarlo ovvio, scontato e sacrosanto, ma che non giova per
amare te e gli altri.

v. 14 chiamata di nuovo a sé la folla, diceva, ecc. Gesù fa davanti a tutti una dichiarazione, nel
desiderio che tutti capiscano. Al discepoli e a chiunque glielo chiede, la spiegherà in privato.

v. 15 Non c'è nulla dal di fuori dell'uomo che, entrando in lui lo può rendere immondo. È il
principio della libertà cristiana davanti alla natura: tutto il creato è buono, perché opera di Dio, a
servizio dell’uomo, suo figlio nel Figlio. È comune anche oggi, più di quanto si creda, ritenere che
il male sia nelle cose, e demonizzarle: “Non prendere, non gustare, non toccare” (Col 2,21).

ma le cose che escono da lui sotto quelle che rendono immondo Il male invece esce dal cuore
dell’uomo, quando usa delle cose in modo scorretto, ossia quando non se ne serve per il suo fine - al
quale anch’esse sono subordinate - che è quello di amare Dio e il prossimo.

v. 16 (se qualcuno ha orecchi per ascoltare ascolti) (cf 4,23; 8,18). l’invito a riconoscere la propria
sordità, in modo da chiedergli la guarigione (7,31 ss).

v. 17 i suoi discepoli lo interrogavano sulla parabola. Chi vuol capire le parole di Gesù, deve
interrogarlo, e sentire la sua risposta (cf 4,10.35).

v. 18 Così anche voi siete privi di senno? I discepoli sono nella stessa situazione degli scribi e dei
farisei (cf 8.17 s). Anche il loro cuore è lontano da Dio e indurito. Per questo non hanno capito il
pane, e scambiato il Signore per un fantasma (6,52).

v. 19 purificando tutti gli alimenti. Questa dichiarazione, molto importante - fu il grosso problema
del primo concilio di Gerusalemme (At 15) - segna il passaggio da una legge esterna, fatta di divieti
e prescrizioni, alla libertà della grazia e dello Spirito. Gesù, con il suo sangue, ha purificato l’uomo
e tutto il creato. Con lui tutto torna ad essere buono e santo, dono del Padre da usare con gratitudine
e da condividere coi fratelli. Il cosmo è sdemonizzato: “le creature del mondo sono sane, in esse
non c’è veleno di morte” (Sap 1,14).

v. 20 Ciò che esce dall'uomo, ecc. Il male non viene dal di fuori, perché tutto è buono, ma dal di
dentro, dal cattivo uso della nostra libertà - ossia dalle nostre schiavitù.

vv. 21 s dal cuore degli uomini escono, ecc. “Ama e fa ciò che vuoi” (Agostino). Il principio dei
bene e del male è il nostro cuore buono o cattivo, illuminato dall’amore o accecato dall’egoismo.
Per questo la norma ultima di comportamento per fare la volontà di Dio viene dal discernimento,
che, tenendo conto anche della legge, ci fa vedere più in profondità se il nostro cuore è mosso da lui
o dal nemico.

i cattivi pensieri, ecc. È una lista di peccati, alla cui origine sta il cuore dell’uomo, con le sue cattive
intenzioni, da cui nascono tutte le cattive azioni. La serie di peccati culmina nella stupidità, propria
di chi non distingue il bene dal male, la sinistra dalla destra. Questo peccato, oggi così diffuso, è il
peggiore. È l’ottundimento della coscienza.
v. 23 Tutte queste cose cattive escono dal di dentro e rendono immondo l'uomo. Sono le opere della
carne che la legge denuncia. Chi le compie non erediterà il regno di Dio (Gal 5,21). Rendono
l’uomo immondo, separato dalla vita.

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, osservando il luogo: sulla sponda del lago.
3. Chiedo ciò che voglio: chiedo a Gesù di conoscere la mia durezza di cuore, e tutte le mie
tradizioni, attaccamenti e abitudini che mi impediscono di vivere la legge dell’amore.
4. Sento rivolte direttamente a me tutte le parole di Gesù, che mi spiega perché il mio cuore è
lontano da lui, e non capisce il fatto dei pani.

Da notare: mangiar pane


immondo (comune)
tradizioni/insegnamenti/precetti di uomini/ annullare la parola di Dio
ipocrita
cuore lontano da Dio
purificare gli alimenti
il “cuore” duro come principio di male

4. Passi utili: Dt 4,1-2.6-8; Sal 15; Gn l; Is 29,13; At 10; 15; 1Cor 8,6; Gal 5; Col 2,16-23.

35. NON È BELLO PRENDERE IL PANE DEI FIGLI E GETTARLO


AI CAGNOLINI
(7,24-30)

24
Ora, levatosi di là, se ne andò
verso i confini di Tiro e Sidone.
E, entrato in casa,
voleva che nessuno lo sapesse;
ma non poté nascondersi.
25
Ora subito, udito di lui, una donna,
la cui figlia aveva uno spirito immondo,
venne e si prostrò al suoi piedi.
26
Ora la donna era greca,
di origine sirofenicia.
E lo pregava di scacciare
il demonio da sua figlia.
27
E diceva a lei:
Lascia prima che si sazino i figli;
poiché non è bello
prendere il pane dei figli
e gettarlo ai cagnolini.
28
Ora essa rispose e gli dice:
Signore,
sotto il tavolo anche i cagnolini
mangiano delle briciole dei bambini.
29
E le disse:
Per questa parola, va’:
il demonio è uscito dalla tua figlia.
30
E, andata nella sua casa,
trovò la bambina gettata sul letto,
e il demonio uscito.

1. Messaggio nel contesto

“Non è bello prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini”, dice Gesù, mettendo alla prova la
fede della donna. Essa invece risponde che è bello per i cagnolini prendere almeno le briciole del
pane dei figli.
Questo suo atteggiamento libera la potenza del Signore che le dice: “Per questa parola, va’: il
demonio è uscito dalla tua figlia”. È una parola di umiltà e di fiducia, che, senza scoraggiarsi,
riconosce la propria miseria e la misericordia del Padre.
Il presente racconto è tutto sul pane dei figli. Sciupato da questi, è raccolto dai cagnolini. Fuori
immagine, dice il motivo per cui la salvezza passa da Israele, il popolo dei figli, ai pagani, chiamati
“cani” (cf At 13,46). Nessuno può salvarsi da sé con la sua bravura umana o religiosa. La salvezza
è l’amore; ma nessuno può amarsi da sé. È sempre grazia dell’altro.
Il pane (= la vita) del figlio è l’amore gratuito dei Padre. Chi, come Israele, vecchio o nuovo che
sia, pensa gli spetti per diritto o per dovere, non lo incontrerà mai. Il pagano invece, che si ritiene
escluso, è in grado di capire che è dono.
Il pane dei figli è il Figlio che ci dà la sua vita. Se i discepoli lo scambiano per un fantasma, questa
donna sa che bastano poche briciole per salvare sua figlia.
È interessante notare che l’esorcismo è compiuto in assenza di Gesù. Riflette la situazione della
Chiesa dopo pasqua, nella quale ormai la sua presenza è riconosciuta dalla fede nel pane.
Il brano precedente mostra la durezza di cuore di chi, con la legge, tiene legato il pane. Questo ne
mostra la potenza, liberata dalla fede in esso. Essa c’è tra i pagani e manca tra i suoi. Questi hanno
trasformato l’eucaristia in abitudine e indifferenza, o addirittura in privilegio che alimenta il proprio
orgoglio. Noi, i duri di cuore, ci convertiremo quando accetteremo il pane dei figli come peccatori
indegni, e lo condivideremo con tutti i fratelli, senza discriminazioni.
La donna pagana, unica finora a mangiarlo, serve a suscitare la gelosia dei figli, perché apprezzino
il dono che a loro per i primi è stato offerto (Rm 11,11).

Gesù è chiamato per la prima e unica volta “Signore” (cf 5,19 e 11,3 dove è lui stesso a chiamarsi
così). Sarà pure un altro pagano a proclamarlo Figlio di Dio (15,39). Non riconosciuto dal suoi, lo
è solo dai lontani, che non accampano diritti. Infatti è amore, e, come tale, gratuito e senza
condizioni. Chi crede di meritarlo, non lo può ricevere. Ciò che è meritato non è né senza
condizioni, né gratuito, né amore.

Discepolo è colui che, giudeo o meno, esprime la parola di fede in questo pane dei figli, dato non
per merito, ma per pura grazia di Cristo. La fede altro non è che il passaggio, nel nostro rapporto
coi Signore, dall’economia dello stipendio a quella del dono.
2.Lettura del testo

v. 24 Tiro e Sidone. Le sue polemiche contro la legge lo hanno allontanato dai suoi, che da tempo
hanno deciso di ucciderlo (3,6). Così raggiunge i lontani, dando inizio a quella missione tra i
pagani che i discepoli continueranno. La persecuzione, più che arrestare, accelera la missione (cf At
8,4; 11,19).

voleva che nessuno lo sapesse; ma non poté nascondersi. Gesù cerca il nascondimento. Ma
proprio ciò che è nascosto viene alla luce (4,22).

v. 25 udito di lui. La fede viene dall’ascolto (Rm 10,17). Ascolto di lui per chi l’ha visto, su di lui
per gli altri.

venne e si prostrò ai suoi piedi. È un gesto di adorazione.

v. 26 greca, di origine siro-fenicia. Questa pagana (greca) e straniera (siro-fenicia) ci viene


presentata come modello di fede, complementare a quello dell’emorroissa (c. 5). La donna giudea
ottiene il miracolo alla presenza di Gesù, toccato con fiduciosa sicurezza; questa pagana lo ottiene a
distanza, in sua assenza, credendo nel pane. La fede in esso sarà il nuovo modo di toccarlo e di
entrare in comunione con lui nel periodo della sua assenza, che va dall’ascensione al suo ritorno.
Solo alcuni suoi contemporanei ebbero la possibilità di toccarlo fisicamente. Ma questo non li ha
esonerati dal doverlo toccare anche spiritualmente, come noi, per ottenere la salvezza. La carne non
giova a nulla.

v. 27 Lascia prima che si sazino i figli. Gesù è venuto per le pecore perdute della casa di Israele
(Mt 15,24). È interessante notare come i figli siano per Matteo le pecore perdute, ossia i peccatori!
Anche il figlio “giusto” potrà saziarsi del pane della misericordia, solo quando si riconoscerà
peccatore (cf Lc 15).
Questo è il senso della legge e della predicazione profetica in Israele (vedi il libro di Giona).
Osserviamo inoltre come Gesù sottoponga la sua missione a limiti di spazio e di tempo, senza
strafare con deliri di onnipotenza. Accettando la condizione umana, fa solo ciò che gli spetta,
sapendo che altri faranno il resto.

il pane dei figli. Dall’invio dei Dodici in poi, si parla sempre di cibo e di pane. Qui si dice che è il
pane dei figli! L’eucaristia è la vita stessa del Figlio - il suo corpo e il suo sangue - donata per noi
perché ne viviamo.
Questo pane non significa qualcosa di vago: è la presenza stessa di Dio che salva, l’Io Sono in
mezzo a noi.

cagnolini. I pagani erano chiamati “cani” dai giudei. Le persone religiose non hanno mai
risparmiato agli altri fratelli dei titoli che certo non tornano a lode e gloria dell’unico Padre! Gesù
usa l’espressione corrente, attenuandola un poco con il diminutivo, per mostrare che proprio in
quanto indegna questa donna è in grado di capire il pane. Questo racconto capovolge l’equazione
cani/figli = pagani/israeliti (discepoli). Infatti si diventa figli non per volontà di carne e di sangue,
ma riconoscendo la gratuità dell’amore del Padre nel dono del Figlio.

v. 28 Signore. I discepoli lo credevano un fantasma. Questa donna è l’unica che lo riconosce come
Signore.

i cagnolini mangiano delle briciole dei bambini. In questo caso i figli, per la loro presunzione,
hanno lasciato cadere non solo le briciole. Hanno gettato via il pane intero. In 6,5 si dice che Gesù
a Nazaret non poté compiere prodigi, perché non trovò fede. Questa donna crede che basta un poco
di questo pane per saziare tutti i cagnolini (pagani) e liberare sua figlia dal male. Essa ha veramente
fiducia in colui che apre la mano e sazia la fame di ogni vivente (Sal 104,28; 145,16), non
dimenticando neanche i piccoli del corvo che gridano a lui (Sal 147,9; cf Lc 12,24).

v. 29 Per questa parola, ecc. Secondo Gesù, è la parola della donna che salva la piccola: è la parola
di fede nel pane, riconosciuto come dono del Padre che non può essere negato a nessuno dei suoi
figli, israelita o pagano che sia. Questa fede è insieme conoscenza di sé come cagnolini, cioè
indegni, e di lui come amore che sazia tutti per pura grazia.
Questa, in Marco, è l’unica opera che Gesù compie in sua assenza; e la fa attraverso la potenza della
“parola” di chi capisce e riconosce questo pane. È l’anticipo di ciò che sarà la norma nella Chiesa
post-pasquale: la parola-seme del c. 4 è germinata in parola-pane, che nella fede si fa vita e salvezza
per tutti.
Gesù dice a questa donna con ammirazione: “Davvero grande è la tua fede” (Mt 15,28).

v. 30 andata nella sua casa, ecc. Essa non dubita. È sicura e torna a casa lodando il Signore.

la bambina. Colei che era tra i cagnolini, in forza della fede nel pane dei figli, è ora tra i piccoli che
se ne saziano.

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo immaginando la casa dove Gesù si nasconde, nei territori di Tiro e Sidone.
3. Chiedo ciò che voglio: capire quanto è bello prendere il pane dei figli. Chiedo le disposizioni
per gustarlo: la fede, con la conoscenza della mia indegnità e della gratuità del dono.
4. Traendone frutto, vedo, ascolto e guardo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare: casa
prendere il pane dei figli
cagnolini
Signore
parola
il demonio esce

4. Passi utili: Is 56,1.6-7; Giona; Sal 100; 145; 147; Rm 11.

36. EFFATHÀ, CIOÈ: APRITI!


(7,3 1-37)

31
E di nuovo, uscito dal confini di Tiro,
venne per Sidone verso il mare di Galilea,
sul mezzo dei confini della Decapoli.
32
E gli conducono un sordo farfugliante
e lo pregano di imporgli la mano.
33
E, portandolo lontano dalla folla, in disparte,
gli mise le proprie dita nel suoi orecchi
e con la saliva gli toccò la lingua.
34
E, levati gli occhi al cielo,
gemette
e gli dice:
Effathà, cioè: Apriti!
35
E subito si aprirono i suoi orecchi
e si sciolse il nodo della sua lingua
e parlava correttamente.
36
E comandò loro di non dirlo a nessuno;
ma, quanto più lo ordinava loro,
tanto più abbondantemente essi proclamavano.
37
Ed erano oltremodo sconvolti,
dicendo:
Ha fatta bella ogni cosa,
anche i sordi fa udire
e i muti parlare.

1. Messaggio nel contesto

“Effathà, cioè.- Apriti,, dice Gesù al sordomuto. E l’orecchio chiuso si apre all’ascolto della sua
voce, la lingua legata si scioglie per dire la parola che salva.
Dio è invisibile. Ogni immagine che di lui ci facciamo è un idolo. L’unico suo vero volto è quello
del Figlio che lo ascolta.
La parola distingue l’uomo dagli animali. Egli non appartiene a una specie determinata, ma
determina la sua specie secondo ciò che ascolta. Infatti di sua natura, non è ciò che è, ma ciò che
diviene; e diviene la parola a cui presta orecchio e dà risposta.
Dio è parola, comunicazione e dono di sé. L’uomo è innanzitutto orecchio, e poi lingua.
Ascoltandolo è in grado di rispondergli: entra in dialogo con lui e diventa suo partner, unito a lui e
simile a lui. La religione ebraico cristiana, anche se ama il Libro, non è un feticismo della lettera. È
religione della parola e dell’ascolto, cioè della comunione con chi parla. Per questo essere
sordomuti è il massimo male.
Nel brano precedente la donna ha “ascoltato” su Gesù, e ha “detto” la parola che salva. I discepoli
invece hanno orecchi e ancora non intendono (vv. 16-18; 8,18). Hanno il cuore duro incapace di
capire il pane e di professare: “È il Signore”.
È il penultimo miracolo della prima parte del vangelo e il terz’ultimo in assoluto. Seguono solo due
guarigioni della cecità. Prima c’è l’ascolto della parola, poi l’illuminazione della fede. Chi rimane
sordo, non può vedere. Solo il cuore può udire la verità di ciò che si vede.
Come tutti i miracoli, anche questo, ancor più esplicitamente degli altri, significa quanto il Signore
vuole operare in ogni ascoltatore. Noi tutti siamo sordi selettivi alla sua parola. Essendo creature,
come diamo solo ciò che riceviamo, così diciamo solo ciò che abbiamo udito. Gesù è il medico,
venuto a ridarci capacità di ascolto e di dialogo con lui.
Questo miracolo ha la struttura dell’esorcismo battesimale in uso dalla Chiesa antica fino ai nostri
giorni.
La guarigione, come quella successiva (8,22 ss), è in due rate. Corrispondono alle due parti del
vangelo di Marco e ai due misteri di Gesù, che è insieme il Cristo e il Figlio di Dio - l’atteso che
realizza la nostra attesa in modo inatteso.
Il segreto messianico si va sciogliendo, perché il suo pane ci mette ormai, in modo inequivocabile,
di fronte alla sua verità. Ma nessuno più la intende né vede. A lui non resta che guarire la nostra
sordità e cecità riconosciute.
In questo racconto vediamo anche le tappe del nostro itinerario di fede. Ciascuno è chiamato a
ripercorrere personalmente con Gesù lo stesso cammino del popolo di Israele, raffigurato in questo
sordo farfugliante.

Gesù è proclamato come colui che “ha fatto belle tutte le cose: fa udire i sordi e parlare i muti”. La
seconda affermazione lo riconosce palesemente come il messia salvatore (Is 35,4 s), mentre la
prima lo riconosce velatamente come il Dio creatore, che fece tutto e vide che era bello (Gn
1,3.12.18.21.25.31). Ci si avvia alla conclusione della prima parte del vangelo, che sfocerà nella
confessione di Pietro (8,29), e si prelude anche il tema della seconda, che culminerà
nell’affermazione del centurione (15,39).

Il discepolo, come tutti, è divoratore di tante chiacchiere, ma sordo e inespressivo davanti alla
Parola che lo fa uomo. Gesù lo guarisce perché possa far parte di quel popolo che sente e risponde
a colui che gli dice: “Ascolta Israele, amerai il Signore ecc. “ (12,29 = Dt 6,4 s).

2. Lettura del testo

v. 31 Tiro/Sidone/Decapoli. Siamo in piena zona pagana. Marco, come Paolo, sottolinea il


privilegio dei lontani. L’amore può essere accolto solo da chi non lo merita. Chi lo merita, lo
riduce a meretricio. Ci accostiamo a Dio non nell’apice della nostra perfezione, ma nelle nostre
zone di infedeltà. Da qui passa e ripassa il cammino di chi viene a salvarci. Il luogo della fede è la
nostra incredulità.

v. 32 gli conducono. Non può andare da Gesù, perché non ne ha potuto sentir parlare, anche se
l’ex-indemoniato l’ha già annunciato (5,20). Altri lo conducono. Non si dice chi. Tutto infatti
porta a Cristo. Tutto, creato in lui e da lui, tende a lui, vita di tutto ciò che esiste (Col 1,15; 1Gv 1,3
s). Inoltre chi lo ha già sperimentato è necessariamente inviato al fratelli (5,19).

un sordo. Ogni uomo, fin dal principio, è sordo alla parola di Dio che lo fa figlio e gli dice:
“Ascolta, amami; perché io ti amo” (Dt 6,45). Infatti ha prestato ascolto alla menzogna di satana,
che l’ha chiuso in sé e agli altri, tagliandolo fuori dalla sorgente d’acqua viva (Ger 2,13). Sordo in
greco significa anche “ebete, tonto”. L’uomo che non intende la Parola, rimane inebetito e intontito.
Ignorando ciò che Dio ha preparato per quelli che lo amano (1Cor 2,9), gli sfugge il perché
profondo e unificante di tutto.

farfugliante. In greco c’è “moghilalo”, che indica uno che parla poco, con difficoltà e male: ha la
lingua inceppata e impedita. Infatti chi non ascolta, non è in grado di parlare. Farfuglia e mugola
suoni inarticolati: ha la capacità di parlare, ma gli manca la parola udita. Il dialogo col Signore è
l’espressione piena della fede (cf 5,30-35), in cui diciamo la parola che ci salva (v. 29). Ascoltare e
rispondere a lui è la nostra vita specifica di uomini creati a sua immagine e somiglianza. Infedeli,
sordi e muti! Questo è il punto di partenza della fede, il luogo privilegiato dove può essere donata.

e lo pregano. La preghiera altrui è la prima mediazione della fede. Il sordo non ha modo per
pregarlo. Davanti a Dio è grande la nostra responsabilità nei confronti di tutti gli uomini che sono
ancora sordi.
di imporgli la mano. Indica la comunione salvifica con Gesù, punto d’arrivo della fede. Questa,
anche se mediata dall’intercessione altrui, rimane sempre un contatto personale e diretto con lui, che
opera con tappe successive. Imporre le mani su un altro, significa trasmettergli le proprie capacità e
i propri poteri.

v. 33 portandolo lontano dalla folla. È la prima azione del Signore. Come portò Israele con ali di
aquila fuori dall’Egitto, così porta ciascuno fuori dalla terra della propria schiavitù.
L’uomo, sordo per il frastuono e per la folla delle proprie occupazioni, rimane come i suoi idoli che
hanno orecchi e non odono, hanno bocca e non parlano (Sal 115,5). L’esodo e il silenzio,
condizioni per l’ascolto, sono la prima tappa del cammino di fede. L’uscita più difficile è quella dal
proprio io; il silenzio più duro quello delle proprie preoccupazioni.

in disparte, gli mise le proprie dita nei suoi orecchi. A Israele nel deserto diede la sua parola. Ora,
in privato, apre l’orecchio perché possa ascoltarla.
Quest’operazione delicata è compiuta non con il braccio o la mano, ma con le dita, come l’artista
che cesella 1’opera plasmata con le mani.
Nel silenzio e nel deserto il Signore ci lavora con la sua parola, modellando lentamente il nostro
vero volto a immagine del Figlio. L’ascolto è la seconda tappa del cammino di fede - ascolto
diuturno e paziente, che ci trasforma in sua icona vivente. Come possono tanti credenti in Cristo
dichiararsi cristiani se non si dedicano ad ascoltarlo? Chi professa la fede cristiana, è di professione
un ascoltatore di Gesù. È consolante quando nelle chiese, invece di tante parole di uomini - spesso
stupide - si sente circolare con semplicità e freschezza la parola di Dio.

con la saliva gli toccò la lingua. La saliva, quasi concrezione del soffio, è simbolo dello Spirito.
La lettera da sola non basta: uccide (2Cor 3,6), dichiarando il nostro male. Ma la parola del
Signore, fattasi pane, ha in sé lo Spirito che dà vita.
Tra l’ascoltare e il fare c’è di mezzo il dono dello Spirito, che dà la forza di fare ciò che si è capito.
È la terza tappa del cammino di fede, legata all’ascolto in preghiera.

v. 34 levati gli occhi al cielo. Come nel fatto dei pani (6,41), Gesù alza gli occhi. Il dono dello
Spirito infatti viene dal pane, dal suo amore che dà vita per farsi nostra vita.

gemette. Questo dono è doloroso e angustiante per il Signore. Tutta la creazione gli è costata solo
una parola - più un semplice soffio per l’uomo. Ma darci un cuore nuovo gli costa la vita. Questo
gemito prelude l’alto grido dalla croce (15,34.37).

Effathà, cioè: Apriti. C’è una resistenza da vincere, peggiore del nulla: è la porta invalicabile del
nostro cuore di pietra, chiuso nella paura e nella diffidenza.
Se grande è la nostra resistenza, ancora più grande è la sua potenza. “Quando sarò elevato, attirerò
tutti a me” (Gv 12,32). Nell’azione di Gesù, come nei sacramenti che la prolungano, al gesto si
accompagna la parola efficace. Essa apre il nostro cuore, perché lasci entrare la luce del Signore.
Anche se non lo conosce, addirittura lo teme quando lo intravede (vedi gli esorcismi!), in fondo non
attende altro, perché fatto per lui.

v. 35 E subito si aprirono i suoi orecchi. Il suo gemito - la parola della croce - è capace di vincere
ogni chiusura e guarirci dalla sordità.

si sciolse il nodo della sua lingua. Uno è muto perché sordo. Se ascolta, può finalmente parlare. Il
nostro dialogo è frutto di ascolto.
e parlava correttamente. Il sordo farfugliante diventa uno che sente e risponde, capace di relazione.
Questa è la fede, che mette in comunione con lui da persona a persona, da amico ad amico. Il suo
parlare “corretto” allude alla possibilità di un parlare scorretto. Sarà quello di Pietro, vero ma
ancora inadeguato (8,29-33). Anche il cieco, per giungere a una vista perfetta, totale, penetrante e
“telescopica” (8,25), avrà bisogno di un secondo intervento.

v. 36 E comandò loro di non dirlo a nessuno; ma ecc. Il segreto di Gesù comincia ormai a
sciogliersi. I sordi e i ciechi guariti lo proclamano.
Rimane oscuro solo per quanti, non comprendendo ancora di essere sordi e ciechi, non si lasciano
guarire.
Chi esperimenta la salvezza di Dio, non può non raccontare. Trasgredisce il divieto, che vale per
me, finché non l’avrò sperimentata anch’io.

v. 37 erano oltremodo sconvolti. È lo stupore di chi conosce “Io Sono” ormai presente in mezzo a
loro. E lo loda, cantandogli la bellezza delle sue opere.

Ha fatto bella ogni cosa. Gesù è il Signore, il Dio creatore, che ha fatto bella ogni cosa (Gn
1,3.12.18.21.25.31). Quando l’uomo ascolta il suo Signore e gli risponde, tutta la creazione torna
bella. Nasce il mondo nuovo, come Dio l’aveva pensato dal principio.

i sordi fa udire e i muti parlare. Richiama Is 35,5: Gesù è il Cristo, il Salvatore, la nostra speranza,
che ci fa uomini nuovi, capaci finalmente di ascoltare e rispondere.

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, immaginando la strada che va da Tiro al lago, attraverso la Decapoli, in terra
pagana.
3. Chiedo ciò che voglio: Toccami, Signore, gli orecchi, fammi ascoltare la tua parola. Toccami
con la saliva la lingua, donami il tuo Spirito, perché io sappia ascoltare e rispondere a te.
Vinci in me tutte le resistenze che mi rendono sordo alla tua chiamata.
4. Traendone frutto, vedo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare: sordo/farfugliante effathà


dita negli orecchi fa bella ogni cosa
saliva sulla lingua fa udire i sordi
gemere fa parlare i muti
levar gli occhi

4. Passi utili: Is 35,4-7a; Sal 115; 146; Mc 9,14-29.


37. HO COMPASSIONE
(8,1-10)

81 In quei giorni di nuovo c’era molta folla


e, non avendo che mangiare,
chiamati innanzi i discepoli,
dice loro:
2
Ho compassione della folla,
perché già da tre giorni
rimangono presso di me,
e non hanno che mangiare.
3
E se li rimando digiuni a casa loro,
verranno meno nel cammino,
e alcuni di loro vengono da lontano.
4
E gli risposero i suoi discepoli:
E come potrebbe uno saziarli
di pane, qui nel deserto?
5
E chiedeva loro:
Quanti pani avete?
Ora quelli dissero:
Sette!
6
E ordina alla folla di posarsi giù per terra.
E, presi i sette pani,
rese grazie,
spezzò,
e dava ai suoi discepoli
da offrire;
e offrirono alla folla.
7
E avevano pochi pesciolini,
e, benedicendoli, disse di offrire anche questi.
8
E mangiarono e furono sazi,
e levarono sette sporte
di pezzi avanzati.
9
Erano circa quattromila,
e li rimandò.
10
E, subito, salito sulla barca con i suoi discepoli
giunse nelle parti di Dalmanuta.

1. Messaggio nel contesto

“Ho compassione”, dice Gesù della folla che non aveva da mangiare. E, per vedere se i suoi hanno
capito il pane, chiede loro: “Quanti pani avete?”.
Tutto il c. 8 è un daccapo del Maestro, una ripetizione perché i discepoli capiscano la compassione
del Signore, capace di saziare la fame di ogni uomo. È una variazione sui temi dei cc. 6-7: spezzar
del pane, incomprensione, sordità, cecità e durezza di cuore, con relative cause.
La soluzione sarà la duplice guarigione del cieco e la duplice confessione, quella di Pietro su Gesù e
quella di Gesù su se stesso.
Ancora una volta - sempre ancora una volta! - egli dona il pane e rinnova la sua misericordia. La
sorgente getta continuamente acqua nuova, perché chiunque ha sete possa dissetarsi. Non si stanca
di noi, non si scoraggia della nostra durezza di cuore. Insiste nel suo dono, una, due, infinite volte!
Tutta la storia è il tempo della pazienza di Dio. Il suo amore. più ostinato di ogni nostra resistenza,
si ripropone continuamente in offerta, esponendosi ad ogni possibile rifiuto.
L’eucaristia è il grande mistero di un Dio che ci salva morendo per noi peccatori. Poca meraviglia
che ci risulti incomprensibile. Ma il tornare quotidiano a questa memoria, il riportarla ogni giorno
al nostro cuore, è la medicina per la nostra sordità e cecità.
Questo testo, che può sembrare un doppione della prima condivisione, non è un di più. Infatti la
ripetizione è molto importante per noi, che, vivendo nel tempo, siamo sempre in divenire;
cresciamo sedimentando lentamente nel cuore ciò che viene giorno dopo giorno, senza che nessun
frammento vada perduto. L’illuminazione viene dall’ascolto prolungato, ed è progressiva, a tappe,
come la guarigione del sordomuto e del cieco. Per questo continuiamo a celebrare l’eucaristia e lui
continuamente ci si dona. Intanto cadono dal tavolo le briciole del pane dei figli. Se ne saziano i
cagnolini; e, con loro, tutti quelli che, con umiltà e fede, le raccolgono, quasi rubandole.
Questo secondo racconto è più stilizzato del primo. Evidenzia maggiormente la compassione di
Gesù - espressa da lui stesso - e l’incomprensione dei discepoli.
Separando la distribuzione del pane da quella dei pesci, mette in maggior risalto l’aspetto
eucaristico.
Inoltre i pani sono sette e sette le ceste avanzate - numero perfetto, che corrisponde al sette diaconi
della Chiesa degli ellenisti (At 6,3).
Le persone che vengono da lontano sono un’allusione ai pagani. Anche per loro è il pane. Anzi,
come la sirofenicia, sono i primi a cibarsene.

Gesù è la misericordia stessa dei Padre verso i suoi figli. La sua compassione lo porterà a “patire-
con” noi il nostro male fino a dare la vita per noi, facendosi nostro cibo e vita. Il banchetto che egli
offre, anticipo di quello celeste, è il regno di Dio, vita piena dell’uomo.

Il discepolo è richiamato sempre di nuovo a far memoria del suo pane. La nostra ostinazione cederà
davanti alla sua pazienza.

2. Lettura del testo


v. 1 In quei giorni. È raro che Marco inizi un racconto con queste parole (cf 1,9). Ogni volta che,
ascoltando e rispondendo alle parole del Signore, ripetiamo il memoriale del pane, viviamo sempre
“in quel giorni” in cui Gesù ce lo ha donato. La celebrazione ci attualizza, ci rende presenti
all’evento celebrato.

non avendo che mangiare. Mangiare è vivere. E di che cosa può vivere l’uomo se non di Dio?
Fatto per diventare come lui, di tutto il resto non può che morire.

chiamati innanzi i discepoli, dice loro. Gesù spiega ai discepoli l’origine di ciò che fa. Devono
conoscerla perché anch’essi saranno coinvolti in prima persona, offrendo del dono che ricevono per
offrire.

v. 2 Ho compassione. Nella prima condivisione, lo dice l’evangelista, qui Gesù stesso. La


compassione - ebraico hesed o rahamin, che significa viscere, utero - è l’amore materno di Dio che
ama perdutamente e senza condizioni, solo perché non può fame a meno. Infatti ci è più madre
della stessa madre (Sal 139,13); e, anche se una madre potesse dimenticarsi del frutto delle sue
viscere, lui non potrebbe dimenticarsi mai di noi (Is 49,15).
Veramente questo alimento manifesta la dolcezza di Dio verso i suoi figli (Sap 16,21)!
già da tre giorni. Richiama i tre giorni in cui la sua misericordia lo farà andare molto lontano, sotto
terra e negli abissi, per farsi nostro pane.

rimangono presso di me. In quei tre giorni egli ha dimorato presso di noi, per poter farci dimorare
presso di lui.

e non hanno che mangiare. Si ribadisce la mancanza di cibo.

v. 3 se li rimando digiuni a casa loro, verranno meno nel cammino. Se lui ci manda via (greco apo-
lyo) senza il suo cibo, tutti si dissolvono (ek-1yo) per strada. Nessuno può fare “il cammino” per
giungere “a casa”.
Come Elia, abbiamo bisogno della forza del pane donato e ridonato (1Re 19,7). È il pane degli
angeli (Sal 78,25), capace di procurare ogni delizia e soddisfare ogni gusto (Sap 16,20).

vengono da lontano. I lontani per i giudei sono i pagani.

v. 4 E come potrebbe uno saziarli di pane, qui nel deserto? I discepoli non hanno ancora capito il
fatto dei pani. Questa ottusità - dopo il primo miracolo - può sorprendere chi non conosce la
stupidità propria e altrui. La storia tende a ripetere gli stessi errori, a istruzione solo di chi,
accorgendosi a sua volta di ripeterli, non si sente più di condannare nessuno e chiede pietà per sé e
per tutti.
Già Israele mormorava contro Dio dicendo: “Potrà forse Dio preparare una mensa nel deserto?
Potrà forse dare anche pane?” (Sal 78,19.25).

v.5 Quanti pani avete? Come nella prima condivisione e poi sulla barca, Gesù richiama l’attenzione
sul pane che i discepoli non sanno di avere o trascurano. Lui l’ha dato e sa che c’è; ne conosce
anche la potenza. Infatti è lui stesso, la misericordia di Dio che cerca anche chi non lo cerca,
dicendo: “Eccomi, eccomi” (Is 65,1).

Sette. È il numero perfetto, che richiama il settimo giorno, compimento della creazione. L’uomo ha
un pane che gli sembra poca cosa, ma che diventa capacità infinita, se gettato nelle mani di Gesù.
Cosa sarebbe avvenuto se il proprietario se lo fosse tenuto e mangiato da solo? L’abbondanza del
dono di Dio passa attraverso la nostra insufficienza messa a sua disposizione.

v. 6 ordina alla folla di posarsi giù. La volta precedente aveva ordinato ai discepoli di far sedere la
folla. Ora lo fa lui direttamente.

presi i sette pani, ecc. Sono le parole che descrivono i gesti dell’ultima cena (14,22 s), quando dirà
anche le parole che identificano il pane con il suo corpo dato per noi. Il pane che sazia, ossia il
senso della vita, è “prendere” come dono ciò che si ha e si è, ringraziando il Padre e spezzando coi
fratelli. Altro pane non fa che accrescere la fame.

spezzò. Il pane non è da moltiplicare - chi di noi ne è capace? È solo da dividere - azione semplice,
possibile a tutti nella misura in cui si prende ringraziando.

dava ai suoi discepoli da offrire. Chi credeva di aver niente, ha ora un pane che continua a ricevere
e a dare, inserendolo nel cerchio divino del dono. Gesù si serve dei discepoli per dare il pane. Dio
ha bisogno degli uomini, e agisce per mezzo di loro, per renderli come lui, capaci di condividere e
di dare.
e offrirono alla folla. Grazie a questo pane, possono fare ciò che era loro impossibile.

v. 7 avevano pochi pesciolini. I pesci sono nominati a parte, per evidenziare l’aspetto eucaristico.
Vivono nell’abisso e muoiono sulla terra per far da cibo agli uomini. Sono figura del mistero di
Cristo pane.

v. 8 mangiarono e furono sazi. “Mangiarono e furono sazi, li soddisfece nel loro desiderio”, dice il
Sal 78,29 a proposito di Israele nel deserto. Questo cibo fa vivere e dà sazietà, a differenza degli
altri che lasciano morire e perciò non saziano. “Sfamasti il tuo popolo con un cibo degli angeli. Dal
cielo offristi loro un pane già pronto, senza fatica, capace di procurare ogni delizia e di soddisfare
ogni gusto. Questo tuo alimento manifestava la tua dolcezza verso i tuoi figli, esso si adattava al
gusto di chi lo inghiottiva, e si trasformava in ciò che ognuno desiderava” (Sap 16,20 s). Per
questo, Signore, oltre il pane, dacci anche buon gusto e grandi desideri. Che non lo trasformiamo
nei nostri fantasmi, ma che ci trasformi in te. Anche per noi cagnolini diventi pane che ci fa figli!

levarono sette sporte. Sette sono anche i diaconi che servivano gli ellenisti “venuti da lontano” (At
6). Il pane avanzato, anzi spesso sperperato dal figli, va raccolto con cura - non perisca nessun
frammento (Gv 6,12) - e dato al cagnolini, perché tutti riempiano il loro ventre, e ne avanzino per i
loro figli (Sal 17,14).

v. 9 Erano quattromila. Rispetto alla prima, in questa seconda condivisione il numero dei pani è
maggiore e quello degli sfamati minore. Mangiano di più, perché hanno più fede - dice Gerolamo.
Possiamo anche dire che, in questa ripetizione, come in ogni altra, il cibo è più abbondante, ma
minore è il numero di chi ne approfitta.
Inoltre quattromila è quattro (come i punti dell’orizzonte) e mille (moltitudine): è una moltitudine
che abbraccia la totalità della terra, i cui abitanti sono tutti figli di Dio, invitati alla mensa del Padre.

e li rimandò. I discepoli avrebbero voluto congedarli prima e trattenersi dopo (6,36-45). Gesù fa il
contrario: li trattiene prima e li congeda dopo. Non vuol dominarli con il pane; solo li serve e poi li
fa camminare. E lui stesso continua il suo cammino, alla ricerca di ogni fratello lontano e affamato.

v. 10 salito sulla barca. Gesù va e viene continuamente dalla sponda del pane a quella opposta.
Viene verso tutti, per invitare tutti ad andare nel deserto con lui, dove li sazia.

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo immaginando il deserto, dove le folle hanno seguito e ascoltato Gesù per tre
giorni.
3. Chiedo ciò che voglio: comprendere che il pane dell’uomo è la compassione del Signore, che
mi ha amato e ha dato se stesso per me.
4. Traendone frutto, vedo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare: mangiare sette pani


compassione prese/rese grazie/spezzò/ dava da offrire
da lontano essere sazi
deserto

4. Passi utili: Dt 6,6-9; Sap 16,20-29; Sal 78; 119 (sostituendo in ogni versetto il termine
Parola, legge e sinonimi con “pane”).
38. NON SARA DATO NESSUN SEGNO
(8,11-13)

11
E uscirono i farisei
e cominciarono a discutere con lui,
cercando da lui un segno dal cielo
per tentarlo.
12
E, gemendo su dal suo spirito,
dice:
Perché questa generazione
cerca un segno?
Amen, vi dico:
vi assicuro che non sarà dato
nessun segno a questa generazione.
13
E lasciandoli, di nuovo salì,
e se ne andò all’altra sponda.

1. Messaggio nel contesto

“Non sarà dato nessun segno”, dice Gesù subito dopo il fatto dei pani. Le sue parole valgono per
“questa” generazione, ossia per ogni generazione.
Anche Israele nel deserto pretese un segno indubitabile della sua benevolenza: “È Dio in mezzo a
noi, sì o no?” (Es 17,7). Ma chi chiede sempre prove senza mai fidarsi, instaura un meccanismo di
ricatto che allontana sempre più dall’amore. La nostra ostinazione a non credere è la croce di Dio:
lo tocca sul vivo, lo ferisce al cuore, lo uccide nella sua essenza.
Gesù nel suo pane ci ha dato il segno massimo: si è fatto nostra vita, dando la vita per noi. Che
altro vogliamo? Non c’è più alto di questo nei cieli, né più profondo negli abissi. Il problema non è
che lui dia altri segni, ma che noi guariamo della nostra cecità.
I discepoli di sempre hanno il cuore duro. Non capiscono il pane, e scambiano “Io Sono” per un
fantasma.
Se allo stolto indichi la luna, lui ti guarda la punta dei dito e ti dice che lì non c’è nessuna luna.
Gesù è l’indice puntato sulla misericordia di Dio, è anzi la stessa misericordia fattasi per noi pane.
Oltre non c’è più niente: è Dio stesso, tutto per noi. Non resta che riconoscere, adorare, gustare e
viverne. Il segno ha ceduto totalmente il posto alla realtà significata. La scritta sta solo fuori dal
ristorante. E insensato che uno vi entri, e, invece di mangiare, continui a chiedersi perché non c’è
più l’insegna. Dentro c’è la tavola imbandita.

Gesù non dà più segni. Infatti cessano i racconti di miracoli. Deve solo guarire i nostri occhi
perché vediamo. In lui Dio si è espresso pienamente, dandoci tutto ciò che ha ed è, tutto ciò che
voleva e poteva donarci: ha dato se stesso. Nell’eucaristia facciamo memoria e rendimento di
grazie per questo dono di cui viviamo. L’unico segno ormai è la sua parola sul pane. Chi crede e
l’accoglie, entra nella realtà stessa di Dio.
Il discepolo, invece di chiedere segni, chieda la capacità di vedere. Se vuole prove, è perché non
crede; e allora nessuna prova gli giova. Se crede, avrà segni e ne darà, secondo l’occorrenza.
Qualunque segno comunque ha come unico scopo quello di portarci alla fede, ossia a obbedire alla
sua parola e riconoscere il suo pane.

2. Lettura del testo

v. 11 uscirono i farisei. Non si sa bene da dove sbuchino i farisei in questa misteriosa Dalmanuta,
di cui sappiamo solo che è sulla sponda opposta a quella del pane. C’è sempre quest’altra sponda di
farisei, anche tra i discepoli in barca.

cominciarono a discutere con lui. La nostra durezza di cuore entra in conflitto con Gesù. Siamo
sordi selettivi, che capiscono tutto, ma non la sua parola. La nostra lingua è sciolta in tutto, ma
tremendamente annodata nel silenzio quando c’è da rispondere a lui.

cercando un segno dal cielo. Il segno è qualcosa che indica qualcos’altro. Noi pretendiamo sempre
da Dio che ci indichi con azioni concrete il suo favore. Vogliono un segno potente, come quello di
Elia che fece venire un fuoco dal cielo e divorò i suoi molestatori (1Re 1,1 ss). Israele a Massa e
Meriba mise alla prova la pazienza di Dio, e lo esasperò chiedendogli una prova ulteriore della sua
presenza (Es 17,7).
Tutto ciò che esiste mostra la sua potenza e la sua assistenza rivolta a noi! Il problema non è che lui
si esibisca in sempre nuove imprese, obbedendo ai nostri capricciosi ricatti senza fine, ma che noi
riconosciamo e vediamo il suo amore per noi (1Gv 4,16).
C’è chi, mangiando il pane che soddisfa ogni gusto, ancora col cibo sulla bocca, con avidità
insaziabile chiede altre prove (Sal 78,29). Egli le darebbe volentieri, se non fossero
controproducenti. L’amore infatti è un atto di fede. La richiesta continua di ulteriori garanzie non
fa che rimandarlo. Lui ci ha già dato la prova massima, esponendosi per primo e offrendosi senza
riserve come nostro pane. Ora aspetta solo che lo accogliamo.
Per questo, a chi chiede segni, noi predichiamo Cristo crocifisso (1Cor 1,22).

per tentarlo. Tentare Dio è come togliersi l’occhio: non lo puoi più vedere. Egli infatti si lascia
trovare da quanti non lo tentano, e si mostra a coloro che non ricusano di credere in lui (Sap 1,2).

v. 12 gemendo su dal suo spirito. È un gemito come quello di 7,37. Ora si dice che sale dal
profondo, dallo spirito: fino a quando sopporterà la nostra mancanza di fede (cf 9,19)?
La nostra incredulità e diffidenza sono l’angustia mortale di Dio che ci ama. Dovrà morire in croce
per liberarcene. Solo allora non potremo più dubitare di lui.

Perché questa generazione cerca un segno? “Questa generazione” ha sempre un senso negativo ed
è ogni generazione. Essa cerca un segno per incredulità, a difesa della propria diffidenza.

Amen, vi dico. Dio, quando parla in prima persona, dice: “Amen”. Il profeta, parlando a nome suo,
dice: “Parola di Dio”. Gesù parla con l’autorità non del profeta, ma di Dio stesso.

non sarà dato nessun segno a questa generazione. Dopo il dono di Gesù, Dio non ha più nulla da
dire e da dare: nel suo pane ci ha dato se stesso. Questo è il suo ultimo gesto, che ci schiude tutto il
suo mistero d’amore. Qualunque altro segno significava questo, e ha in esso il suo significato
pieno. Non può darcene altri, perché nel significato cessa ogni segno. Quando giungo a Milano,
cessano le scritte stradali che la indicano a chi ancora sta fuori. Ora può solo aprirci gli occhi. E ci
curerà in modo progressivo (vv. 22ss) e a più riprese (10,45 ss), con pazienza e bontà infinita,
ridonandoci la sua parola e il suo pane. La nostra cattiveria e ostinazione hanno pure un limite, se
non altro la stanchezza.

v. 13 E, lasciandoli di nuovo, salì, e se ne andò all'altra sponda. Lì, dove ha appena spezzato il
pane, attende anche noi, con tutti quelli che hanno il cuore duro. Per donarsi ancora e sempre, e
così aprirci gli occhi.

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo immaginando la sponda del lago, dove Gesù discute con farisei e scribi.
3. Chiedo ciò che voglio: gli chiedo di comprendere il dono che mi ha fatto, e di fidarmi di lui
invece di continuare a chiedere prove.
4. Traendone frutto, vedo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare: discutere con lui gemere


cercare segni questa generazione
tentare nessun segno

4. Passi utili: Es 17,1-7; 1Re 1,1ss; Sap 1,1-3; 1Cor 1,22 ss.

39. GUARDATEVI DAL LIEVITO DEI FARISEI E DAL LIEVITO DI


ERODE
(8,14-21)

14
E si dimenticarono di prendere pani
e non avevano che un unico pane
con sé nella barca.
15
E comandava loro dicendo:
Vedete! Guardatevi
dal lievito dei farisei
e dal lievito di Erode!
16
E discutevano tra loro
che non avevano pane.
17
E, saputolo, dice loro:
Perché discutete che non avete pane?
Non capite e non intendete ancora?
Avete il cuore indurito?
18
Avete occhi e non vedete?
Avete orecchi e non udite?
E non ricordate,
19
quando spezzai i cinque pani per i cinquemila,
quante ceste piene di pezzi levaste?
Gli dicono:
Dodici!
20
Quando i sette pani per i quattromila,
quante sporte piene di pezzi levaste?
E (gli) dicono:
Sette!
21
E diceva loro:
Non capite ancora?

1. Messaggio nel contesto

“Guardatevi dal lievito dei farisei e dal lievito di Erode”, dice Gesù ai suoi. Il brano è tutto un
rimprovero rivolto ai discepoli, un incalzare accorato di sette domande, culminanti nel duplice
ricordo del pane e racchiuse tra la messa in guardia contro il “lievito” e la constatazione amara:
“Non capite ancora?”. Si nomina sei volte il pane e due i suoi frammenti. I discepoli discutono
perché non ce n’è; l’evangelista dice che ce n’è uno solo; Gesù a sua volta parla del lievito dei
farisei e di Erode che costantemente lo insidia.
È la terza lezione in barca che Gesù dà al suoi. Nella prima hanno paura di andare a fondo, e sono
chiamati ad aver fede in lui che dorme (battesimo). Nella seconda lo pensano un fantasma mentre
cammina vincitore sull’acqua, e sono chiamati a riconoscerlo nel pane appena ricevuto come “Io
Sono”. In questa terza, come in 7,1-23, vediamo che l’unico pane si scontra con la sordità, la cecità
e l’incomprensione nostra. Tutti, nemici o amici suoi, abbiamo il cuore duro. Viviamo infatti non
del suo pane, ma del lievito dei farisei e di Erode. Questo tremendo lievito lo ucciderà (cf 3,6!).
Ma proprio così sarà confezionato il pane.
Nelle altre due scene le burrasche venivano dal mare o dal vento; qui è lui che scatena la tempesta.
Non per scoraggiare i suoi, ma per convincerli della loro cecità, in modo che, come il cieco di
Gerico, sappiano cosa chiedere a lui che chiede loro: “Cosa vuoi che io ti faccia?” (10,36.51).
Infatti chi non sa, non vuole; chi non vuole, non chiede; e chi non chiede, non ottiene.
Sapere di essere ciechi è necessario per volere e chiedere la guarigione. “Se foste ciechi, non avreste
alcun peccato”, dice Gesù ai farisei, perché lui guarisce i ciechi; “ma siccome dite: noi vediamo, il
vostro peccato rimane” (Gv 9,41).
La funzione di questo brano corrisponde alla prima fase del miracolo che segue; vuol farci vedere
che non vediamo. Siamo come il cieco che scambia uomini per alberi.

Gesù, con le sue invettive sul tipo di quelle dei profeti, ci scuote davanti al mistero del pane, in
modo che riconosciamo la nostra cecità davanti a ciò che occhio umano mai non vide né mai entrò
in cuore d’uomo (1Cor 2,9).

Il discepolo è sempre interrogato dal pane di Gesù, che lentamente lo purifica dal vecchio fermento
e gli dona lo Spirito, guarendolo dalla durezza di cuore.

2. Lettura del testo

v. 14 si dimenticarono di prendere pani. Gesù aveva detto al discepoli in missione di non prendere
pane (6,8). Per dimenticanza, talvolta lo ascoltano!

non avevano che un unico pane con sé nella barca. Gesù dalla barca istruisce gli altri; nella barca
istruisce i suoi, per la terza volta. In 4,35 lo prendono così com’è, che dorme; in 6,45 ss lo
scorgono vincitore dell’abisso, irriconoscibile ai loro occhi; ora lo hanno con sé come unico pane.
E il Signore spiega loro ciò che lo distrugge. La Chiesa ha sempre con sé un unico pane, il solo
capace di calmare ogni tempesta e colmare ogni fame. Ma ne ignora la forza.

v. 15 Vedete! Guardatevi dal lievito dei farisei e dal lievito di Erode. L’unico pane non è capito
perché insidiato da un duplice lievito, quello dei farisei e quello di Erode. Il lievito, a differenza del
seme, si gonfia di morte e non di vita. È principio di corruzione, che rovina la farina. Come tutte le
persone mondane, Erode cerca salvezza nell’avere, nel potere e nell’apparire. Come tutte le
persone religiose, i farisei cercano salvezza dall’osservanza della legge, forma spirituale, anche più
pericolosa, di ricchezza, dominio e orgoglio. Nessuno, discepoli compresi, cerca salvezza
nell’amore di Dio che si fa pane - povero, utile e umile.
Farisei ed erodiani sono alleati nell’uccidere Gesù (3,6). Ora scopro che anch’io sono con loro. La
durezza di cuore ci apparenta tutti. Infatti, davanti a lui che si fa pane nelle mani dei nemici, tra i
suoi amici uno lo tradirà, l’altro lo rinnegherà e tutti, scandalizzati, lo abbandoneranno e fuggiranno
(14,17.50).
Il lievito è farina andata a male: “Un po’ di lievito fermenta tutta la pasta. Togliete via il lievito
vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra pasqua, è stato
immolato” (1Cor 5,6-8).
La Chiesa non sperimenta la forza dell’unico pane proprio perché non è mossa dallo Spirito di
Cristo, ma dal fermento dei farisei e di Erode. La ricerca di autosalvezza religiosa e la brama di
cose, di potere e di prestigio sono come la peste a bordo: costituiscono il tremendo lievito, che ci
corrompe e ci impedisce di vivere del suo pane. Eppure c’è sulla barca, sempre con noi, anche
quando lo dimentichiamo o trascuriamo.

v. 16 discutevano tra loro che non avevano pane. La discussione nella Chiesa è sempre segno di
mancanza di intelligenza spirituale e porta comunque alla prevaricazione del più prepotente. La
verità non ha mai luogo nelle dispute, ma nella conversione e nel discernimento, nell’umiltà e
nell’ascolto. L’autoritarismo e l’arroganza possono far evitare le discussioni. Ma è come buttarsi
sott’acqua per non bagnarsi mentre piove.

v. 17 Perché discutete che non avete pane? Il pane è la vita. Gesù fa questa domanda per
richiamare l’attenzione sull’unico pane che dà la vita, a differenza d’altri fermenti che la
distruggono.
Sulla barca vorremmo abbondanza di pani; nella Chiesa vorremmo ricchezza di giustizia religiosa e
di potere mondano, beni tanto ambiti. Per questo non riconosciamo il suo pane di misericordia, che
consideriamo insufficiente.

Non capite e non intendete ancora? Non capiscono la differenza tra il pane che dà la vita e quello
che dà la morte. Hanno il primo, ma desiderano il secondo. E si lamentano perché manca!

Avete il cuore indurito? Il cuore “calcificato”, di pietra, impermeabile alla Parola, diventa ora
prerogativa dei discepoli. È il sommo male, causa insieme della morte dell’uomo e del suo Signore
(3,5). Questo cuore indurito impedisce ai discepoli di riconoscerlo nel pane, facendo scambiare “Io
Sono” per un fantasma (6,52).

v. 18 Avete occhi e non vedete? Avete orecchi e non udite? (Ger 5,21; Ez 12,2). I discepoli sono
come quelli che “stanno fuori” (cf 4,11 s). C’è stretta connessione tra occhi e orecchi: l’occhio è
guidato dal cuore, e questo dall’orecchio, sotto la spinta della parola interiore che fa guardare dove
prima non si guardava.
E non ricordate. La via alla guarigione è il “ricordo” del pane, memoriale della sua
morte/risurrezione. Il gigante del peccato è l’oblio: “Guardati dal dimenticare”, ripete il
Deuteronomio.

v. 19 quando spezzai i cinque pani, ecc. Gesù stesso ricorda loro lo spezzare del pane. Non si sono
accorti che ne è avanzato in modo che tutti e sempre ne possano vivere?

Gli dicono: Dodici. Sanno tutto. Ma capiscono niente. Sono come chi ha imparato bene il
catechismo a memoria. Risposta esatta, ma intelligenza nulla!

v. 20 Quando i sette pani, ecc. Il pane non fu dato una sola volta. L’unico pane - capace di saziare
tutti con una vita filiale, in rendimento di grazie al Padre e in comunione con i fratelli - è sempre
con loro.

(gli) dicono: Sette. Sette è il numero perfetto, come è perfetto il pane, cibo della nuova creazione,
che fa l’uomo nuovo.

v. 21 Non capite ancora? 0 sublimità della non conoscenza dei discepoli! Tu sai bene, Signore,
perché non capiamo ancora. Ma vuoi che anche noi lo sappiamo. Siamo ciechi, e da sempre. Apri
gli occhi almeno a qualcuno che ci dica che siamo ciechi. Noi non sappiamo cosa significa vedere.
Sappiamo solo cosa significa sbattere dolorosamente contro la realtà e farci male gli uni gli altri.

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, immaginando la barca, dove Gesù sta con i suoi discepoli nella traversata del
lago.
3. Chiedo ciò che voglio: di vedere la mia cecità e sordità, la mia durezza di testa e di cuore. È
una cecità e sordità specifica: riguarda solo l’unico pane.

Da notare: un unico pane cuore indurito


lievito dei farisei occhi che non vedono
lievito di Erode orecchi che non odono
perché discutete? ricordo del pane
non capite e non intendete? non capite ancora?

4. Passi utili: Is 29,7-12; Ger 5,20-25; Sal 115; 1Cor 5,6-8; 2,6-10.

40. VEDI FORSE QUALCOSA?


(8,22-26)

22
E giungono a Betsaida,
e portano a lui un cieco,
e lo pregano
perché lo tocchi.
23
E, afferrata la mano del cieco,
lo condusse fuori dal villaggio,
e, sputandogli sugli occhi
e imponendogli le mani,
gli chiedeva:
Vedi forse qualcosa?
24
E, guardando in su, diceva:
Vedo gli uomini,
perché vedo come alberi che camminano.
25
E poi di nuovo gli impose le mani sugli occhi;
e vedeva perfettamente,
e fu ristabilito,
e intravedeva
tutto, chiaro e a distanza.
26
E lo inviò a casa sua,
dicendo:
Non entrare neppure nel villaggio.

1. Messaggio nel contesto

“Vedi forse qualcosa?”. È la domanda che Gesù fa al cieco, perché i discepoli intendano. Nel
brano precedente li ha persuasi della loro cecità. Sapere di non vedere è già mezza guarigione.
Guarirci è per Dio più facile che suscitare Il nostro desiderio di vederci (Gv 9,41).
La prima parte del miracolo serve ad evidenziare la necessità del secondo intervento. È lungo curare
la nostra cecità: due condivisioni di pani, due viaggi in barca - per tacere degli altri - due interventi
sul sordo e ora due sul cieco. Un poco è riuscito nel suo intento: tra breve lo riconosceremo
finalmente come il Cristo.
Ma sarà una comprensione ancora molto imperfetta, che ignora il mistero profondo del pane.
Subito dopo comincerà a dire chiaramente la “Parola”, che il nostro orecchio non vuole ascoltare: è
quella adombrata nel seme che muore e porta frutto. Tutta la seconda parte del vangelo sarà
scandita da un triplice confronto con la “Parola” che spiega il pane. Il suo ricordo costante scalfirà
la nostra durezza di cuore. Sapremo così cosa chiedere, e, come il cieco di Gerico, otterremo
l’illuminazione definitiva. Essa è già anticipata nel secondo intervento su questo cieco, che vede
chiaro tutto e a distanza. Sarà lo sguardo del centurione, la persona più lontana, che vede con
chiarezza il Figlio di Dio sulla croce, lontananza massima da Dio.
La guarigione del cieco di Betsaida porta a conclusione la sezione dei pani. Subito dopo Pietro
riconoscerà Gesù come il Cristo. Qui, passo dopo passo, Marco ha voluto condurci con la prima
parte del suo racconto; con la seconda ci porterà alla fede del centurione.
Quanto Gesù finora ha fatto per i vari miracolati è ciò che vuol fare per ciascuno di noi. Le due
tappe di quest’ultimo miracolo rappresentano le due tappe fondamentali del nostro cammino di
illuminazione: la prima ci fa riconoscere il Cristo, nostra speranza; la seconda ci fa riconoscere,
oltre ogni nostra speranza - anzi nella morte stessa di ogni nostra speranza - il Figlio di Dio che ci
ama e dà la vita per noi.
Questo miracolo è la grande speranza del discepolo: la misericordia di Gesù, instancabilmente e
sempre all’opera, giunge a trionfare di ogni nostra sordità e cecità. Ha ragione la pazienza del
contadino che ha seminato: la parola, di notte e di giorno, fa breccia nelle fessure del nostro cuore di
pietra, mette radici e cresce. Questa guarigione, come quella del sordo, è una fatica dolorosa di
Cristo, segnata da due suoi gemiti (7,34; 8,12). Colui che con sovranità fa zittire mare e male, che,
senza volerlo, guarisce l’emorroissa e con una semplice parola risuscita la ragazza, compie ora la
sua opera più dura e difficile, quella che gli costerà la croce.
Fin qui tutto il vangelo aveva come fine di evidenziare e farci diagnosticare ciò che ci accomuna
tutti: la durezza di cuore, gelosamente custodita sotto le foglie di fico di un’autosufficienza,
religiosa e/o mondana, alimentata dal duplice fermento di cui al brano precedente.

Gesù, unica luce che dà la vista, porta a compimento la nuova creazione e il nuovo esodo: ci
conduce fuori per guarirci e farci vedere ciò che occhio umano mai non vide e che Dio ci ha donato
nel suo pane.

Il discepolo è un cieco che sa di esserlo. Riscontra in sé il fermento dei farisei e di Erode che gli
impedisce di mangiare il pane dei figli. Conosce anche l’impossibilità di guarire da solo,
nonostante tutti gli espedienti. E lascia che il Signore agisca.

2. Lettura del testo

v. 22 portano a lui. Il cieco è portato, come il sordo muto. Ognuno giunge a Cristo condotto da chi
lo conosce. Chi non si sente responsabile dell’altro è come Caino (Gn 4,9): l’ha già ucciso come
fratello, non considerandolo tale.

un cieco. È figura del discepolo che, come tutti, ha occhi e non vede (8,18; 4,12). Un cieco può
anche avere un corpo perfetto per lavorare, marciare o lottare. Ma non può far nulla di tutto questo:
gli manca la luce degli occhi. Per lui la realtà, invece che strumento utile e piacevole, è ciò contro
cui sbatte dolorosamente. Anche la più bella siepe di rose per lui è spine pungenti da evitare con
cura. È come un non nato: non è ancora venuto alla luce.
Vero cieco è colui che non vede la verità propria e di Dio. Conduce un’esistenza senza luce e
morta, che, ignorando da dove viene e dove va, non sa in che direzione muoversi. Gesù dice: “Io
sono la luce del mondo: chi segue me, non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita”
(Gv 8,12).

e lo pregano perché lo tocchi (cf il sordo: 7,32). È importante l’intercessione per i fratelli, perché
Cristo tocchi chi non può o non vuole ancora toccarlo. Come c’è l’evidente solidarietà del male, ce
n’è una misteriosa, ma molto più grande, anche nel bene. Molti ingiusti non riescono a perdere
l’umanità; un solo giusto invece salva il mondo intero!

v. 23 afferrata la mano del cieco. Lui direttamente prende il cieco e lo conduce per mano con mano
forte, come un padre suo figlio.

lo condusse fuori dal villaggio. È l’esodo definitivo, fuori da ogni luogo abitato da uomini, sempre
lievitato da ciò che indurisce il cuore e toglie la vista. L’uomo animale non percepisce le cose di
Dio (1Cor 2,14). È l’uscita dalle tenebre alla luce, che vuol essere senza più ritorno (v. 26); è il
travaglio della nascita.

sputandogli sugli occhi (cf il sordo: 7,33). La saliva è immagine del respiro, forza vitale. Gesù ci
comunica il suo Spirito, che scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. I segreti di Dio nessuno li
ha mai potuti conoscere, se non il suo Spirito. Ora noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo,
ma quello di Dio, per conoscere tutto ciò che lui ci ha donato (1Cor 2, 1 0 s).

imponendogli le mani. Quanti gesti per questo miracolo! Sarà fatica ricompensata. Il cieco è sotto
le sue mani, che lo inondano di luce.

Vedi forse qualcosa? Per l’unica volta Gesù dubita, anzi è sicuro di non essere ancora riuscito nella
sua impresa. Sa che la nostra illuminazione, mai perfettamente riuscita, è uno sforzo mai concluso.
Ma vuole che anche noi lo sappiamo, perché, vedendo di non vederci, siamo disposti a lasciarci
continuamente guarire.
Il primo dono che Gesù fece al fariseo Paolo fu quello di folgorarlo con la sua luce, evidenziando la
sua cecità. Poi gli darà la sublimità della conoscenza di lui come suo Signore (Fil 3,8).
Tra poco Gesù rivolgerà la stessa domanda ai discepoli, chiedendo loro come lo vedono: “Ma voi,
chi dite che io sia?”. Marco rivolge la stessa domanda alla sua comunità e a noi, per farci vedere
che non vediamo ancora bene, fino a quando il fantasma dei pane non diventa l’Io Sono del mio
Signore. Ma prima dovranno cadere dal nostri occhi le scaglie dei due lieviti.

v. 24 guardando in su. Il brano è tutto un gioco sulla parola “vedere” (blépo), “guardare in alto”
(ana-blépo), “vedere perfettamente attraverso” (dia-blépo), “vedere dentro” (en-blépo). Ci sono
molti modi di vedere, secondo dove si volge l’occhio, secondo la limpidezza e l’acutezza della
vista. C’è inoltre la parola horáo, che significa “vedere, osservare”. La vista gioca un ruolo
determinante nella morte, sepoltura e risurrezione di Gesù: è questo il mistero da contemplare,
perché lì scopriamo la verità di Dio nella nostra, e la nostra in quella di Dio.

Vedo gli uomini. Vede per la prima volta i suoi simili, e in loro se stesso.

perché vedo come alberi che camminano. Conosce bene le piante, perché non lo scansano e ci
sbatte contro. Ora gli uomini sono piante che si muovono - non sa se per venirgli contro o incontro.
Questa vista, molto imperfetta, è come quella dei discepoli che scambiano l’Io Sono di Gesù per un
fantasma, è come quella della Chiesa che non discerne nel pane il corpo del suo Signore.
Comunque ora il cieco ha sufficiente vista per vedere che non ci vede abbastanza; già può dire
qualcosa sugli uomini, come i discepoli diranno qualcosa su Gesù. Ma ci vorrà ancora un lungo
cammino prima di capirlo: dovranno sbattere la faccia contro l’albero dove è appeso il Figlio
dell’uomo, prima di riconoscerlo come Figlio di Dio. Scambiare uomini per alberi è immagine di
ciò che facciamo, scambiando lui con le proiezioni dei nostri desideri/paure.

v. 25 E di nuovo gli impose le mani. È necessario un ulteriore intervento, un contatto e una


comunione iterata con lui. Questo sarà compiuto dalla seconda parte del vangelo, mediante la
“Parola” che rivela pienamente il pane. Davanti a questa, i discepoli si scopriranno sempre più
ciechi (vedi le tre reazioni alle tre predizioni della morte/risurrezione: 8,31 ss; 9,31 ss; 10,32 ss).
Allora potrà guarirli definitivamente, insieme con Bartimeo. Tutta la catechesi del vangelo mira a
mostrare la nostra cecità specifica davanti al mistero dei Dio crocifisso, per farci chiedere e ottenere
la guarigione.

vedeva perfettamente. È una vista che va con lucidità oltre ogni velo ingannatorio. L’illuminazione
consiste nel vedere uomini come tali, e non come alberi che camminano, ossia nel capire la realtà
così com’è. La nostra fede sarà vedere Gesù che va a Gerusalemme verso la sua gloria, e seguirlo
nel cammino con Bartimeo (10,52).

.fu ristabilito. L'occhio è “ristabilito” nella sua funzione originaria, come la mano di 3,5, quando si
apre per accogliere il dono.

intravedeva. In greco c’è “vedere dentro”. È una vista non solo lucida, ma acuta e penetrante.

chiaro e a distanza. In greco c’è una parola che indica una vista chiara e telescopica, che va oltre
ogni lontananza.

tutto. Nulla si sottrae a questa vista data da Gesù con il suo Spirito, che scruta ogni cosa, anche le
profondità di Dio (1Cor 2,10). Sarà il dono concesso al cieco di Gerico, che lo chiama per nome,
chiedendo - e ottenendo misericordia; sarà il dono concesso al centurione, che vedrà tutto lo
splendore di Dio nella sua carne, fatta per noi lontananza e peccato.

v. 26 lo inviò a casa sua. L’uomo non è di casa nel villaggio in cui abita da cieco. È fatto per
camminare e dimorare nella luce: Dio è la sua casa, e solo lì viene alla luce, uscendo
definitivamente dalle tenebre.

Non entrare neppure nel villaggio. È il luogo dove languiva nell’ombra di morte (Lc 1,79), il paese
dove mendicava, schiavo della sua durezza di cuore. Non deve più farci ritorno, perché è lievitato
dal fermento dei farisei e di Erode, che impedisce di vedere il Signore. Cristo ci ha liberati perché
restassimo liberi (Gal 5,1). Non torniamo più sotto l’antico giogo della schiavitù, perché la nostra
condizione non sia peggiore di quella di prima (Lc 11,26).

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, immaginando i dintorni di Betsaida, dove Gesù conduce per mano il cieco.
3. Chiedo ciò che voglio: Ti chiedo, Signore, di imporre su di me le mani, di darmi il tuo Spirito,
di liberarmi dal lievito dei farisei e di Erode, perché possa vedere “tutto, chiaro e a distanza” il
dono di te che tu mi fai.
4. Traendone frutto, e immedesimandomi nel cieco, contemplo la scena, considerando ogni
parola.

4. Passi utili: Is 35; Sal 146; At 9,1-19; Ap 3,17 ss.

41. MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?


(8,27-30)

27
E uscì Gesù e i suoi discepoli
verso i villaggi di Cesarea di Filippo.
E, nel cammino,
interrogava i suoi discepoli,
dicendo loro:
Gli uomini chi dicono
che io sia?
28
Essi gli risposero dicendo:
Giovanni il Battista,
e altri Elia,
altri poi uno dei profeti.
29
E lui li interrogava:
Ma voi, chi dite
che io sia?
Rispondendo Pietro gli dice:
Tu sei il Cristo!
30
E li sgridò,
perché non parlassero di lui a nessuno.

1. Messaggio nel contesto

“Ma voi, chi dite che io sia?”, chiede Gesù al discepoli e a noi, che fin qui abbiamo camminato con
lui. “Tu sei il Cristo”, risponde Pietro. Prima tutti si chiedevano: “Chi è costui?”. Ora lui stesso
domanda: “Chi sono io per te?”.
Fino a quando ci poniamo questioni su di lui, non comprenderemo nulla! Si comincia a capire
qualcosa quando ci lasciamo porre in questione. Non lui, bensì noi siamo chiamati a dichiararci.
Finora ci ha fatto la sua proposta; ora chiede la nostra risposta: “Rispondimi, e ti risponderò”.
Il cristianesimo è la risposta a questa domanda che lui mi rivolge: “Chi sono io per te?”.
La sua provocazione è anche un esame della vista, per farci costatare che abbiamo bisogno di occhi
ulteriormente nuovi. Finisce così la prima parte del vangelo.
Comincerà poi il cammino della seconda, che ci farà riconoscere il Figlio di Dio.
La confessione di Pietro è giustapposta all’autoconfessione di Gesù (v. 31), che dice la “Parola” (v.
32). Le due confessioni sono le due facce della pietra di volta di tutto il vangelo di Marco, e
segnano il passaggio da una comprensione di Gesù come Cristo a una comprensione spirituale di lui
come Signore. Si varca la soglia dei desideri dell’uomo, che resta confuso e sbigottito, per entrare
nella promessa di Dio, più grande di ogni fama (Sal 138,2). Questo riconoscimento conclude la
sezione dei pani, iniziata con l’invio dei Dodici (6,6b). Gesù infatti lo si riconosce nel pane, in cui
attua la nostra salvezza.
La sua domanda è duplice, perché duplice è la risposta: quella della gente, secondo la carne, e
quella del discepolo, secondo lo Spirito. Ma questa convive con quella, e, come vedremo, ha un
continuo bisogno di confronto con la “Parola” per purificarsi.

Gesù è il Cristo. “Cristo” era diventato quasi il suo cognome. Marco lo nomina nel titolo e lo fa
riconoscere ora. Ridà così a questa parola il suo significato originario. Esso è spiegato in otto
lunghi capitoli attraverso ciò che Gesù ha fatto: ha mondato lebbrosi e fatto camminare zoppi, ha
guarito mani per toccarlo e ricevere da lui la vita, ha risuscitato i morti e dato loro da mangiare il
pane che sazia, ha guarito l’orecchio per ascoltare la Parola e la vista per contemplare la Gloria. È
quindi il Cristo, l’atteso da Israele, il discendente di Davide (2Sam 7), il re di giustizia e di pace,
liberatore e salvatore del suo popolo, anzi, di tutti i popoli. Anche se molto umana, questa fede è
valida, come prima tappa.

Discepolo è colui che risponde alla domanda di Gesù: “Chi sono io per te?”. La fede non è
delegabile. Ognuno è chiamato a dare la propria risposta, a conoscerlo, amarlo e seguirlo, anche se
ancora imperfettamente. Gesù fin qui ha esaudito i nostri desideri, ma quasi solo per adescarci e
disporci a ricevere un dono che sorpassa ogni nostra attesa. Ci ha avvinto a sé perché ci fidiamo di
lui. D’ora in poi comincerà a non farci più doni. Il nostro occhio dovrà passare dalla sua mano
vuota al suo volto, e penetrare nel suo cuore, sorgente di ogni dono. Dio infatti è amore, e null’altro
ama che amare e dare se stesso all’amato. La seconda parte del vangelo ce lo presenterà così, e
culminerà sulla croce, dove compirà pienamente la rivelazione di sé nel dono di sé.
Il rischio nostro è di restare chiusi nella prima parte, senza mai conoscere il Signore. Infatti non
cerchiamo lui, ma i suoi doni, e lo identifichiamo con questi, riducendolo a un idolo, attaccapanni
dei nostri desideri o fantasma delle nostre paure.

2. Lettura del testo


v. 27 uscì Gesù e i suoi discepoli verso i villaggi di Cesarea di Filippo. È il punto più lontano che
Gesù raggiunge nel suo cammino in regione pagana. Anche il suo riconoscimento pieno avverrà
sulla croce, il punto più lontano da Dio, e per bocca di un pagano (15,39). Il Signore, nella sua
trascendenza, è sempre lontano - e per questo vicino a ogni lontananza.

nel cammino. L’uomo ha il suo centro fuori di sé, che lo sbilancia sempre in avanti. Fatto per
camminare, ovunque è straniero, fuggitivo o pellegrino secondo che s’allontana o s’avvicina alla
sua casa. Comunque il suo è sempre un viaggio che va dalla morte alla vita (cf brano seguente). In
questo cammino Gesù interpella chiunque è con lui e desidera andare oltre.

interrogava i suoi discepoli. La domanda contiene sempre la risposta. Fino a quando ci


interroghiamo su Gesù, ci daremo le nostre risposte scontate. Per questo è importante non
domandarci noi su di lui, ma ascoltare la sua domanda, che mette in questione noi.

Gli uomini chi dicono che io sia? Gesù pone prima questa domanda perché i discepoli sappiano
riconoscere il pensiero dell’uomo. Egli riconduce tutto al già noto. al passato ormai morto, di cui,
piacevole o fastidioso fantasma, conserva il ricordo. Questo costituisce l’ovvietà religiosa.
Tentiamo sempre di adattare Dio al letto di Procuste del nostro cervello, riducendolo a ciò che già
pensiamo e difendendoci dalla novità sconvolgente che vuol portarci.

v. 28 Giovanni il Battista, altri Elia, ecc. È la risposta che troviamo all’inizio della sezione dei pani
(6,14). È l’unica possibile all’uomo, per il quale non c’è mai nulla di nuovo sotto il sole (Qo 1,9).
Tutto è da sempre passato, e tutto sempre passerà, fagocitato dalla morte, senza mai novità alcuna. I
profeti, che indicano il futuro di Dio, invece di ascoltarli, da sempre si preferisce prima ucciderli;
solo dopo li si riconosce, quando non importunano più la nostra tranquillità.
Anche Gesù, Parola di Dio viva e operante, è identificato con loro, catalogato con le etichette della
nostra pigrizia mentale, relegato a fantasma del passato.

v. 29 Ma voi. I discepoli sono un “voi”. Sta nascendo la comunità, formata da chi si lascia
interpellare da lui. Da loro attende una risposta che sia un “ma” rispetto a quella scontata dalle
persone religiose.

chi dite che io sia? È la domanda fondamentale del vangelo. Ora Gesù stesso la pone, chiedendo al
discepolo di pronunciarsi nel suoi confronti. La vera questione è questa, che lui mi rivolge
personalmente: “Chi sono io per te? Cosa significo per la tua vita? Sono il tuo Salvatore e il tuo
Dio, il tuo desiderio e il tuo mistero assoluto? Ti lasci mettere in discussione da me, sei disposto ad
amarmi e seguirmi, per stare sempre con me, così come sono, anche quando sarò con te là dove non
pensavi, ti salverò come non credevi, e mi scoprirai come non mi conoscevi?”. La fede è la mia
risposta a questa domanda, che resta sempre aperta, lasciando nella provvisorietà ogni mia risposta.

Tu sei il Cristo. Per i discepoli Gesù non è un fantasma del passato. In lui, unico e presente, si
ravviva il loro cuore spento; con lui divampa tutto un passato di promesse e si apre un futuro di
speranze. Chi può come lui dare e dire ciò di cui hanno un bisogno così sordo e cieco, una sete e
una fame così profonda? Nella parola “Cristo” si cristallizza tutto quanto di bello e di buono
l’uomo può attendere da Dio. Tutte le azioni e le parole raccontate fin qui danno il significato vero
e pieno a questo termine, che significa messia (= unto, consacrato), re.

v. 30 li sgridò, ecc. Gesù, invece di lodare Pietro, “sgrida” tutti, come i demoni, perché tacciano.
Perché questa doccia fredda? Vuol spegnere il fuoco acceso? È giusto quanto Pietro ha detto; ma
solo in parte. C’è un errore: Gesù non è “il” Cristo determinato dalle sue attese religiose, è invece
“un” Cristo (cf 1,1) a lui ignoto, che realizza la promessa di Dio.
È necessaria la seconda parte del vangelo, la “Parola” che spiega il pane, prima che possiamo
riconoscere in Gesù che chiede: “Chi sono io?” la gloria di colui che dice: “Io Sono”.
Il cieco fu guarito in due rate. Il discepolo vede il Cristo ancora in un’ottica molto umana. “Vedo
gli uomini perché vedo come alberi che camminano”, diceva il cieco non totalmente guarito. Gesù
ci farà prendere coscienza di questo, perché gli chiediamo di vedere chi veramente è. Seguirà
un’altra guarigione. Allora lo vedremo sull’albero, verso il quale il Figlio dell’uomo ormai si va
decisamente incamminando.

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo immaginando i1 cammino, nella regione di Cesarea di Filippo, dove Gesù
interroga i suoi discepoli.
3. Chiedo ciò che voglio: conoscere chi è lui per me, che peso ha nella mia vita. È il mio
Salvatore, la mia speranza, il mio desiderio?
4. Traendone frutto, vedo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono, che fanno.

Da notare: cammino Cristo


interrogare sgridare
Ma voi, chi dite che io sia? non dire niente a nessuno

4. Passi utili: 2Sam 7,8-16; Sal 2; 89; At 2,14-36; 3,12-26; 4,8-12.

42. IL FIGLIO DELL'UOMO DEVE MOLTO SOFFRIRE


(8,31-33)

31
E cominciò a insegnar loro:
Il Figlio dell’uomo
deve
molto soffrire ed essere riprovato
dagli anziani e dai sommi sacerdoti e dagli scribi,
ed essere ucciso,
e, dopo tre giorni, risuscitare.
32
E con franchezza diceva
la Parola.
E Pietro, presolo con sé, cominciò a sgridarlo.
33
Ora egli, voltatosi e vedendo i suoi discepoli,
sgridò Pietro e dice:
Va’ dietro di me,
satana,
perché non pensi le cose di Dio,
ma quelle degli uomini.

1. Messaggio nel contesto


“Il Figlio dell'uomo deve molto soffrire”. Dopo aver esposto il suo insegnamento in parabole (c. 4),
Gesù comincia ora con franchezza a dire la “Parola”. È la parola della croce - stupidità e debolezza
per l’uomo, ma saggezza e forza di Dio (cf 1Cor 1,18-25).
Dopo aver avvinto a sé il discepolo, che lo riconosce come il Cristo salvatore, Gesù inizia a
spiegargli cosa significa essere il Cristo e come viene la salvezza. Qui comincia la seconda parte
del vangelo, che è tutta un’istruzione riservata ai suoi, scandita dalle tre predizioni della
morte/risurrezione. È la sezione ecclesiale, in cui la comunità si confronta con il mistero del pane.
È qui che vediamo la differenza, anzi lo scontro tra il pensiero dell’uomo e il pensiero di Dio. Il
primo, cercando di salvarsi, diventa egoista, vivendo la morte e uccidendo la vita. Il secondo sa
perdersi per amore, fino a dare la vita.
La prima parte del vangelo culminò nel riconoscimento di Gesù come Cristo: la seconda terminerà
nel riconoscimento di lui come Figlio di Dio ( 15,39).
Il v. 31 dice la “Parola” che chiarisce l’enigma di ogni parabola e svela il mistero di Gesù ucciso e
risorto, già profetato nei canti del Servo, nei salmi e nella storia dei giusti. Tutto il vangelo è
introduzione sapiente, spiegazione paziente, sviluppo coerente e confronto costante con questa
Parola, che dà la chiave di lettura di tutta la storia.
La sapienza di Dio passa attraverso la povertà, l’umiliazione e l’umiltà; accetta le sofferenze, il
ripudio e l’uccisione; e proprio così vince il male fatto dalla sapienza dell’uomo, che ricerca l’avere,
il potere e l’apparire, provocando la morte propria e altrui.
Pietro, come tutti noi, resta chiuso nel pensiero dell’uomo. Il suo scontro con Gesù è violento. Si
farà sempre più serrato, fino al confronto finale. La croce, fatta da noi e portata da lui, rimane
l’unico luogo possibile d’incontro.
Il male non è esterno a noi. L’inferno non è l’altro. Il satana è presente nel cuore di Pietro e di
ciascuno. La “Parola” lo fa uscire allo scoperto, con tutte le sue resistenze e convulsioni.
L’esorcismo fondamentale di Cristo è la vittoria su questo male, causa di ogni altro, che viene
appunto dal di dentro dell’uomo (7,20.23).
Il cammino è lento e difficile, ma sicuro e rispettoso. La “Parola”, denunciando sempre più
chiaramente la nostra cecità, ci pone nella necessità di chiedere la luce. Questo è il nostro massimo
gesto di libertà, con cui riconosciamo la verità e ci mettiamo “dietro” a Gesù, sempre tentati, con
Pietro, di metterci davanti.

Gesù, appena riconosciuto come “Cristo”, rivela la sua identità di Figlio dell’uomo sofferente e
quindi glorioso. Questa è la “Parola”, il suo mistero di morte e risurrezione (v. 31), al quale è legata
la nostra salvezza (v. 38). Il Padre gli farà eco dal cielo e confermerà che proprio lui è il suo Figlio
(9,8), perché segue il cammino del servo (cf 1,11; 15,39).

Il discepolo è chiamato a confrontarsi ora con la “Parola”. Deve prendere nella barca Gesù così
com’è, che dorme e si risveglia (4,36). Dopo averlo riconosciuto messia, è chiamato con Pietro ad
affrontarlo e a negargli la croce, in modo da permettergli di smentirlo e salvarlo. Nella seconda
parte del vangelo la Parola deve compiere in lui le due opere più difficili: scacciare il demonio
sordomuto (9,14-29) e illuminare il cieco di Gerico (10,45-52).

2. Lettura del testo

v. 31 cominciò a insegnar loro. Qui c’è come un nuovo inizio. Comincia la faticosa lotta tra la
“Parola” e la nostra sordità e cecità. In questo versetto Gesù dichiara l’identità propria e di Dio
nella nostra storia.
Il Figlio dell'uomo. Gesù chiama se stesso con questo nome, che poi la Chiesa non userà più,
perché difficilmente comprensibile al di fuori del giudaismo. In ebraico ha un gamma di significati,
e richiama soprattutto Dn 7, dove il Figlio dell’uomo appartiene contemporaneamente al mondo di
Dio, di cui ha tutta la dignità e il potere, e al mondo dell’uomo, con il quale è solidale fino in fondo.
Gesù usò volentieri questo titolo, che, senza far violenza a nessuno, permetteva a ciascuno di capire
ciò che era disposto a capire, lasciandogli la possibilità di una comprensione più profonda.

deve. Quanto segue è l’unico “dovere” di Gesù, che rivelerà Dio come amore. Chi ama infatti non
può non condividere il male dell’amato. “Deve” (greco: deî) non indica un dovere morale, ma una
necessità di tipo naturale, più profonda. Il Signore “deve” dare la vita per noi, come il fuoco deve
scaldare, la pioggia bagnare e il sole illuminare. Non può essere diversamente. “Deve” inoltre
richiama il compimento della promessa di Dio che non può non realizzarsi; ed è in connessione,
soprattutto per Luca, con la passione di Gesù, in cui si realizza quanto la Scrittura dice a riguardo
del Servo sofferente.

molto soffrire. Gesù combina la figura gloriosa del Figlio dell’uomo di Dn 7 con quella del Servo
di JHWH (cf Is 42,1-9; 49,1-6; 50,4-11; 52,13-53,12), la cui vita è lotta e sofferenza, per mantenere
insieme la fedeltà a Dio e al popolo.

essere riprovato dagli anziani e dai sommi sacerdoti e dagli scribi. Gesù sarà esaminato
attentamente e gettato via dai potenti. Anziani, sommi sacerdoti e scribi rappresentano
rispettivamente la categoria dei possidenti, dei potenti e dei sapienti, coloro che hanno realizzato il
desiderio di avere, potere e apparire. Sono le tre maschere dell’unico male, l’egoismo, che si annida
nel cuore di ogni uomo e sta all’origine di tutti i mali. Corrispondono alle tre concupiscenza sulle
quali si struttura il mondo e la sua storia (1Gv 2,16), e ai tre aspetti seducenti e illusori del frutto
proibito, che già ad Eva parve buono, bello e desiderabile (Gn 3,9). La perversione dell’uomo sta
innanzi tutto nel giudizio sbagliato: pensa che sia bene avere invece di donare, che sia bello
dominare invece di servire, che sia desiderabile apparire invece di essere ciò che si è. Il Signore
invece, che è amore, non può che presentarsi nella povertà di chi dona, nell’umiliazione di chi
serve, nell’umiltà di chi è vero. Per questo verrà scartato. Ma proprio così, morendo in croce, sarà
il Cristo, colui che ci libera dal nostro male tremendo e ci rivela Dio.

ed essere ucciso. Gesù non muore. È ucciso. La morte è ciò che capita a tutti e che tutti temiamo,
perché ignoriamo di venire da Dio e di tornare a lui. Schiavi di questa paura, cerchiamo di salvarci
cadendo sotto la mano di satana che con essa ci domina (cf Eb 2,14). Gesù ne è libero, perché sa di
venire dal Padre e di tornare a lui; per questo sa amare fino al punto di dare la vita per noi che lo
uccidiamo (Gv 13,1 ss). Ma la sua uccisione è “martirio”, ossia testimonianza di un amore più
grande della vita e più forte della morte.

dopo tre giorni risuscitare. L’uomo cammina verso la morte. Anche se non lo vuole, questa è per
lui la parola definitiva. Ma è un inganno. La parola definitiva spetta a Dio, che è amore e vita. La
risurrezione non è semplice rianimazione di un cadavere che ritorna alla condizione mortale; è
invece il passaggio, attraverso la morte, a una pienezza di vita che non conosce più morte e alla
quale partecipa anche il corpo, trasfigurato.
Solo la prospettiva della risurrezione permette di non impostare la vita sulla paura della morte. Per
questo, se Cristo non è risorto, è vana la nostra fede, e noi restiamo ancora nel nostro male (1Cor
15,17).

v. 32 con franchezza. La parola greca (parresía) significa: dire tutto con libertà, coraggio e
chiarezza. Gesù prima parlava sotto il velo delle parabole (4,11.33 s), ora gioca a carte scoperte.
la Parola. “La Parola” è il termine tecnico per indicare il vangelo (cf 1,45; 2,2; 4,32). È la parola
della croce, sapienza di Dio e sua rivelazione totale. Lo scriba Paolo, dopo la sua conversione,
riassumerà tutta la sua scienza nuova dicendo: “Ritenni di non sapere altro in mezzo a voi, se non
Gesù Cristo, e questi crocifisso” (1Cor 2,2). Egli è la Parola: chiarisce l’enigma di tutta la Scrittura,
della storia di Dio e della nostra.

Pietro, presolo con sé. Pietro prende con sé Gesù, in disparte dagli altri. È molto sicuro di sé, e non
vuol fargli fare una brutta figura davanti a tutti.

cominciò a sgridarlo. “Sgridare” è la stessa parola usata quando Gesù zittisce i demoni. Pietro
pensa che dietro “la Parola” si nasconda una tentazione dell’ingannatore: il Cristo non si accorge
che così rovina il regno di Dio? Gli dice: “Dio te ne scampi, Signore, questo non ti accadrà mai”
(Mt 16,22). Quanto Gesù ha appena detto è una minaccia che fa crollare tutte le certezze
“religiose” di Pietro: la sua morte da fallito sarebbe la fine di ogni speranza umana e di ogni
promessa divina.
È molto importante riconoscere e manifestare la nostra opposizione, dettata da un amore sincero,
ma ancora carnale.

v. 33 egli, voltatosi e vedendo i suoi discepoli. Gesù si rivolge a Pietro e agli altri, dai quali Pietro
si era staccato.

sgridò Pietro. Gesù ricambia a Pietro il rimprovero: satanico è lui, che vuol distoglierlo dalla croce.

dietro di me (cf v. 34). Il discepolo non deve mettersi davanti, ma dietro al suo maestro. Non lui
deve seguire noi, bensì noi lui. Pietro vorrebbe tirare Cristo dalla propria parte, invece che passare
lui dalla sua. È una operazione diabolica, che capovolge radicalmente la fede: invece di obbedire
noi al Signore, dovrebbe lui obbedire a noi! Gesù propriamente non dice a Pietro: “Lungi da me!”,
come traducono varie versioni. Non lo manda lontano. Lo richiama vicino, ma al suo posto:
“Dietro di me”. Infatti si era messo davanti. Quest’espressione “dietro di me” è la qualifica
fondamentale del discepolo, ripresa al v. 34. Gliel’aveva già detta all’inizio (1,17). Gliela ripete
ora che sa dietro a chi va.

satana. Come nel caso degli indemoniati, in quel momento non è Pietro, bensì satana che parla in
lui, e cerca di identificarsi con il suo cliente. Ora il ladro della Parola (4,15) tenta il colpo che non
gli era riuscito nel deserto: chi non ha ceduto alle seduzioni del nemico, forse cederà alle istanze del
miglior amico! Ma Gesù resiste a viso aperto.
Quanti pensieri e azioni sataniche, compiute con amore ma senza l’intelligenza di Cristo! A chi ha
zelo, satana gliene aggiunge, fino al fanatismo, ma gli vela la “Parola” - la sapienza della croce.
È da notare che Pietro è chiamato “satana” non perché dice o fa qualcosa di diabolico, ma
semplicemente perché pensa “secondo gli uomini”.
Il satanico è molto umano. Sembra invece disumano Dio! Questa è la percezione del nostro
giudizio ingannato dal maligno, specialista nel fare apparire bene il male e male il bene.

perché non pensi le cose di Dio, ma quelle degli uomini. “I miei pensieri non sono i vostri pensieri,
le vostre vie non sono le mie vie” (Is 55,8). Il discernimento è difficile. Gesù, con la “Parola”, ci
dà il criterio oggettivo per illuminare l’intelligenza. La preghiera poi vincerà le resistenze della
volontà.
Il pensiero di Dio è amore che dona la vita e giunge alla risurrezione attraverso la povertà,
l’umiliazione e l’umiltà, fino alla morte da reprobo. Il pensiero dell’uomo è egoismo che cerca di
salvarsi e produce morte attraverso la ricerca di avere, di potere e di apparire. Tra le due vie non c’è
nulla in comune, se non la nostra “buona volontà”, quando, “a fin di bene”, utilizza per il Regno ciò
che Gesù ha scartato come tentazione. Allora nuociamo molto alla sua causa. Indossiamo la sua
divisa, ma giochiamo per la squadra avversaria. È molto più facile fare goal.
Da qui comincia la liberazione del discepolo, il vero esorcismo che la Parola continuamente opera
in noi e nella Chiesa. Inizia la fatica di Cristo. D’ora in poi non farà più nessun prodigio. Solo
guarirà il sordo muto e il cieco. E morirà in croce. Allora la nostra durezza di cuore si scioglierà e
conosceremo il Signore, mentre realizza pienamente la “Parola”.

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, immaginando il luogo: nello stesso cammino dove Pietro dice chi è Gesù per lui,
Gesù stesso dice chi è lui per noi.
3. Chiedo ciò che voglio: Ti chiedo, Signore, per intercessione di Maria e di tutti i santi, di
comprendere la “Parola”, che dice il mistero della tua croce, di mettermi dietro, non davanti a
te; di non seguire il pensiero dell’uomo, ma quello di Dio.
4. Traendone frutto, vedo, ascolto e osservo le persone: chi sono, che dicono e che fanno.

Da notare: il Figlio dell’uomo deve soffrire la Parola


anziani, sommi sacerdoti e scribi sgridare
essere ucciso dietro di me
risuscitare le cose di Dio/
quelle degli uomini.

4.Passi utili: Is 42,1-9; 49,1-6; 50,4-11; 52,13-53,12; Sal 22; Is 55,8 s; 1Cor 1,18-31.

43. SE UNO VUOLE


(8,34-38)

34
E, chiamata innanzi la folla
con i suoi discepoli,
disse loro:
Se uno vuole
venire dietro di me,
rinneghi se stesso,
e prenda su la sua croce,
e segua me.
35
Chi infatti vuol salvare la sua vita,
la perderà;
ma chi perderà la sua vita
per me e per il vangelo,
la salverà.
36
Che giova infatti all’uomo
guadagnare il mondo intero
e danneggiare la propria vita?
37
Che può dare infatti l’uomo
per riscattare la sua vita?
38
Poiché chi si vergognerà di me
e delle mie parole
in questa generazione adultera e peccatrice,
anche il Figlio dell’uomo
si vergognerà di lui,
quando verrà nella gloria del Padre suo,
insieme con gli angeli santi.

1. Messaggio nel contesto

“Se uno vuole”. Dopo la propria (v. 31), Gesù dichiara l’identità del discepolo, e lo chiama
definitivamente ad andare dietro di lui.
Ci fu già una prima chiamata a seguirlo (1,16-20), una seconda a “essere con lui” (3,14) e una terza
ad essere inviati (6,6b ss). Nella prima la fuga si fa sequela, nella seconda la sequela diventa
comunione con lui, nella terza la comunione con lui è sorgente della missione ad annunciarlo. Ora,
associato dal pane al suo stesso destino, la missione si fa croce e risurrezione, per la salvezza
propria ed altrui. Così il discepolo incarna la stessa “Parola” dei suo Signore.
Il v. 34 definisce il cristiano. È colui che vuol seguire Gesù crocifisso, e quindi rinnega se stesso,
prende la sua croce, e gli va dietro - dietro a quel Gesù povero, umile e umiliato come si è definito
nel v. 31. Il v. 34, specchio del v. 31, è un trattato sull’”essenza del cristianesimo”. Invece che in
quattrocento pagine è in quattro brevissime espressioni - in der Kúrze liegt die Würze! - che sono
un compendio di antropologia filosofico-teologica dal punto di vista cristiano.
Il v. 35 mostra la molla segreta del pensiero dell’uomo: salvare la pelle, l’esistenza materiale, che sa
di dover perdere. Questo tentativo, inutile e disperato, lo rende egoista, e gli fa distruggere sé e gli
altri. Chi invece sa perdere la vita per amore di Gesù, la salva. Perché la vita vera, che non conosce
tramonto, è amare con tutto il cuore colui che per primo ci ha amati.
Il v. 36 smaschera l’inganno di volersi salvare mediante la brama di possedere. È il pensiero
dell’uomo (v. 33).
Il v. 37 mostra come l’uomo perda comunque l’esistenza, ponendogli il problema dei senso, ossia
del fine. Questo permette all’uomo di essere uomo. Gli dà infatti la possibilità di un progresso e la
libertà di realizzarsi.
Il v. 38 infine mostra il senso del tempo presente; è il momento in cui vivere l’obbedienza alla sua
parola. Da questa dipende la nostra vita vera, che è eterna. La salvezza dalla morte consegue la
nostra presa di posizione qui e ora nel confronti di Gesù e del vangelo. La sua storia ormai passata
diventa criterio della nostra vita presente e garanzia di quella futura. Il nostro destino è connesso
alla nostra fedeltà o meno alla sua parola.
Tutte queste affermazioni di Gesù saranno subito dopo confermate dalla voce del Padre, che dirà:
“Ascoltate lui” (9,7).

Gesù è il pastore che, con la croce, suo bastone, ci guida alla vittoria sul male e sulla morte. Lo
seguiamo come la Parola che indica il cammino della vita, la nube e la colonna di fuoco che
conduce dalla schiavitù alla libertà. È il Signore presente in mezzo a noi. L’amore e l’obbedienza a
lui è la nostra salvezza. Questa sarà piena nel futuro, ma è da vivere già nel presente, in fedeltà al
suo passato.

Il discepolo trova in queste parole di Gesù la propria identità. Per un atto di libera decisione, ama e
segue non il Cristo dei propri desideri, ma quello che, come Pietro, non conosce e non vuole
accettare. La “Parola” del v. 31 toglie alla nostra sequela ogni ambiguità. Dimenticarla significa
seguire, invece di lui, se stessi o le proprie fisime religiose.
2. Lettura del testo

v. 34 chiamata innanzi la folla con i suoi discepoli. Dopo che Gesù si è rivelato apertamente, anche
il discepolo si scopre tra la folla di chi pensa secondo gli uomini. Ma la sua chiamata è rivolta a
tutti.

Se uno vuole. Aderire a lui non è un fatto anonimo di massa; è un atto supremo di libertà personale,
decisione che ogni singolo prende quando è in grado. Ogni frutto cade dall’albero quando è maturo.

venire dietro di me. I discepoli non conoscevano bene chi seguivano. Ora che lo sanno, Gesù ripete
l’invito già fatto (1,16-20; 2,14), dicendo a tutti ciò che ha appena detto a Pietro: “Dietro di me”. Si
segue solo chi si ama. Per questo, Signore, attirami dietro di te (Ct 1,4)! La fede cristiana è l’amore
personale per Gesù, che si esprime nel desiderio di essere con lui povero, umiliato e umile piuttosto
che ricchi, potenti e soddisfatti senza di lui. Andare dietro a lui è l’essenza specifica del
cristianesimo.
Il pericolo per noi, come per Pietro, è andare dietro a una nostra immagine religiosa di lui, invece
che dietro a lui così com’è. Per questo la “Parola” del v. 31 compie in noi un esorcismo costante,
proponendoci la croce come distanza infinita tra lui e tutte le proiezioni su di lui.

rinneghi se stesso. Rinnegare se stesso è la piena realizzazione dell’uomo; significa vincere il falso
io, l’egoismo, radice di tutti i mali. È il contrario dell’affermare se stesso, distruzione dell’uomo,
che uccide l’io chiudendolo in una solitudine infernale. Narciso al fonte annega in se stesso.
Affermare se stesso è rinnegare il Signore, perché è negazione di sé come sua immagine. L’uomo,
sentendosi piccolo, insignificante e stupido, vuol affermarsi facendosi ricco, potente e orgoglioso.
Ma è un inganno. Infatti si realizza solo quando, sentendosi amato e importante agli occhi di Dio,
capisce che è bello amare, donare e servire in libertà e povertà.

prenda su la sua croce. È la prima volta che esce questa parola in Marco. Gesù non porterà la sua,
ma la nostra, insieme con noi. Questa croce che Luca 9,23 chiama “quotidiana” - è la lotta continua
contro la falsa autoaffermazione. E la fatica maggiore è accettare che il nostro male ci sia, fino alla
fine, come luogo costante della sua grazia (Rm 7,14-25). Ognuno ha la “sua” croce, perché nessun
altro al posto suo può vincere l’egoismo che è In lui.

e segua me. È possibile portare la nostra croce solo andando dietro a lui. Come una guida in
montagna, nella foresta o nel deserto, come un esperto marinaio che naviga nella nostra stessa
barca, così lui ci rende possibile l’impossibile. Il cristianesimo non propone un cammino solitario
ed eroico verso una meta difficile. È consolazione di una compagnia, amore di una presenza, forza
stessa della Presenza, che sta con noi che la seguiamo, come già Israele nell’esodo.

v. 35 Chi infatti vuol salvare la sua vita. Salvare la vita è l’istinto di autoconservazione. Criterio di
ogni azione animale, è insufficiente per l’uomo, che sa comunque di morire. Per lui ci vuole un fine
positivo, che dia senso alla sua vita “mortale”. Chi scambia la salute per salvezza, si perde
necessariamente.

la perderà. La vita finisce comunque. Chi cerca di salvarla, diventa egoista, e uccide la sua vera
vita di figlio di Dio. Chi vuol solo inspirare e trattenere il soffio, scoppia. Non si può neanche
respirare oggi l’aria di domani. Chi si dimena nell’acqua, si perde; chi fa il morto, si salva. La vita
è un dono che costantemente si riceve e si mantiene nell’abbandono.
chi perderà la sua vita. Persa per persa, la vita animale si può spenderla nel vano tentativo di
trattenerla, o darla spontaneamente per amore.

per me. “Per me infatti il vivere è Cristo” e “tutto ormai io reputo una perdita al fine di guadagnare
Cristo”, dice Paolo (Fil 1,21; 3,8). “Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio
che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20), con un amore più forte della morte (Ct 8,6).

e per il vangelo. Noi che non l’abbiamo conosciuto nella carne, attraverso la parola del vangelo
conosciamo nello Spirito la sua carne - cardine della nostra salvezza.

la salverà. La vita vera dell’uomo infatti è rispondere all’amore di Dio in Cristo Gesù, vita di tutto
ciò che esiste (cf Gv 1,3-4). In nessun altro nome c’è salvezza (At 4,12). In lui salviamo la nostra
essenza, perché diventiamo ciò che siamo: figli.

v. 36 Che giova all'uomo guadagnare il mondo intero. Per salvarsi l’uomo instaura la strategia del
possedere sempre di più, nel vano tentativo di garantirsi la vita. Ma non fa che rovinarla a sé e agli
altri. L’avidità di ricchezza è la grossa illusione del mondo. Sembra assicurare ogni bene, e invece
è causa di tutti i mali ( 1Tim 6, 10).

v. 37 Che può dare l'uomo per riscattare la sua vita? La vita vale la vita. E questa è comunque
mortale. L’uomo nasce e muore. “Nessuno può riscattare se stesso o dare a Dio il suo prezzo. Per
quanto si paghi il riscatto di una vita, non potrà mai bastare per vivere senza fine, e non vedere la
tomba” (Sal 49,8 s). La morte è comune a tutti, sapienti o stolti (Sal 49,11). L’uomo sapiente è chi
lo sa e ne tira le conseguenze. “Insegnaci a contare i nostri giorni, e giungeremo alla sapienza del
cuore” (Sal 90,12).

v. 38 chi si vergognerà di me e delle mie parole. La salvezza dipende dalla mia personale adesione
a Gesù, dal riconoscerlo e testimoniarlo con azioni e parole in un mondo che va in direzione
opposta. Il mio futuro dipende dalla mia presa di posizione presente nei confronti di lui e della sua
parola. È la parola della croce, di un amore più grande della morte (v. 31).

questa generazione adultera e peccatrice. Ogni generazione è adultera, cioè non ama lo Sposo,
l’unico da amare con tutto il cuore (12,29 s); per questo è peccatrice, cioè fallita, come un arco
allentato che non raggiunge il bersaglio (Sal 78,57).

anche il Figlio dell'uomo si vergognerà di lui. Il Figlio dell’uomo, umiliato sulla croce, è anche il
giudice supremo della storia. Proprio in quanto crocifisso è risorto, Signore e criterio di salvezza.

quando verrà nella gloria del Padre suo. Il brano seguente lascerà intravedere questa gloria di
Figlio unigenito del Padre, il quale ci ordina di ascoltarlo.

con gli angeli santi. Annunciatori della sua parola (= angeli) e partecipi della sua vita (= santi),
costituiscono la famiglia di Dio.

3. Esercizio

1. Entro in preghiera, come al solito.


2. Mi raccolgo, immaginando il luogo dove Gesù dice queste parole. Siamo ancora in cammino,
nel dintorni di Cesarea di Filippo.
3. Chiedo ciò che voglio: di non essere sordo alla sua chiamata; di voler essere con lui così
com’è e seguirlo nella lotta contro il male, per aver parte con lui alla sua gloria.
4. Traendone frutto, vedo e ascolto Gesù che mi rivolge personalmente l’invito, sostando su
ogni parola.

4. Passi utili: Ger 20,7-18; Fil 3; Eb 12,1-4; 1Pt 4,12-19; At 5,41; Gal 2,19 s; Sal 49; 16; 23; Dn
7,13 s; 2Tm 2,11 s.

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