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Strumenti
Varietà dell'italiano
nel teatro
contemporaneo

a cura di
Stefania Stefanelli
© 2009 Scuola Normale Superiore Pisa
isbn 978-88-7642-363-5
Indice

Presentazione
Stefania Stefanelli vii

Il corpo nella scrittura teatrale


Spiro Scimone 1

Un foresto a Venezia. Il mio teatro con Marco Paolini:


da Vajont a Porto Marghera
Francesco Niccolini 9

«Scene popolari» verghiane tra «commedia villereccia»


e «drammettino» suburbano: lettura sinottica di
Cavalleria rusticana e In Portineria
Gabriella Alfieri 17

Per farla breve. Lo sperimentalismo linguistico


dell’atto unico sveviano
Pietro Trifone 79

Varietà e registri dell’italiano in tre autori comici


del teatro novecentesco: Ettore Petrolini,
Achille Campanile, Franca Valeri
Paolo D’Achille 89

Donna di scena, donna di libro.


La lingua teatrale di Emma Dante
Anna Barsotti 115

Linguaggi e universi creativi nel teatro di Giuseppe Manfridi


Claudio Giovanardi 147
Il ritorno di Scaramouche di Jean Baptiste Poquelin
e Léon de Berardin di Leo De Berardinis
Franco Vazzoler 161

«’O culore d’ ’e parole». Il napoletano


di Eduardo per Shakespeare
Teresa Megale 177

Dalla parola al palcoscenico: le lingue di Chiti, Malpeli,


Maraini, Russo, Scimone, Tarantino
Silvia Calamai 195
Presentazione

Sono ormai passati molti anni da quando Giovanni Nencioni, in-


tervenendo magistralmente nel dibattito allora da poco riapertosi sui
rapporti tra lingua scritta e lingua parlata, individuava una categoria
di quest’ultima, quella del ‘parlato-recitato’, aprendo così nuove pro-
spettive di studio sul linguaggio teatrale, fondate non soltanto – come
era d’abitudine fino a quel momento – sulle conoscenze storico-lette-
rarie necessarie a valutare lo spessore estetico e culturale dei testi, ma
anche su indagini linguistiche rivolte a evidenziare come i meccani-
smi primari della comunicazione umana possano costituire una duttile
filigrana grazie alla quale l’evento scenico prende vita.
La Giornata di studio sul tema Varietà dell’italiano nel teatro contem-
poraneo, svoltasi alla Scuola Normale Superiore di Pisa, si è avvalsa
di queste premesse implicite per raccogliere e fare interagire tra loro
i contributi di autori teatrali e di studiosi di teatro, di letteratura tea-
trale, di linguistica italiana. Si è cercato in questo modo, e grazie al-
l’apporto di esperienze e approcci differenziati tra loro, di creare un
mosaico – non molto esteso ma significativo – nel quale le singole
tessere, in un rapporto di coralità polifonica, potessero ricostruire il
quadro complesso, talvolta contraddittorio, comunque ricco e artico-
lato, delle lingue parlate sulla scena italiana di oggi.
Dall’emozionante intervento-performance di Ugo Chiti (del qua-
le purtroppo non abbiamo qui testimonianza scritta) in un toscano
‘profondo’ e duro, all’italiano regionale siciliano scandito seccamente
nelle sue letture testuali da Spiro Scimone (quasi lingua di un nuovo
teatro dell’assurdo), al racconto fattoci da Francesco Niccolini della
passione con la quale ha ricreato una lingua non sua – il veneto di
Marco Paolini –, le testimonianze di questi uomini coinvolti in prima
persona nell’evento teatrale hanno recato un contributo fondamenta-
le, quello dell’esperienza diretta, che non dovrebbe essere mai dimen-
ticato da chi studia il teatro.
Tutti gli interventi di linguisti e studiosi di teatro si sono misurati,
ognuno a suo modo, con la grande tematica della questione della lin-
viii Presentazione

gua tra italiano e dialetti, che spesso viene a torto confinata nei secoli
anteriori al nostro mentre ancora oggi, sia pure in termini assai mutati,
ogni parlante avverte l’eredità della propria storia linguistica. Accen-
nando qui ai contributi presentati nella Giornata di studio – in rigoro-
so ordine di apparizione, come si conviene a un contesto spettacolare
– le approfondite analisi tematiche e linguistiche condotte da Gabriel-
la Alfieri su un grande della letteratura e del teatro, Giovanni Verga,
nel momento in cui affronta, mediante la scrittura drammaturgica,
la bipolarità culturale nord-sud, sono seguite dallo ‘scavo’ condotto
da Pietro Trifone sullo sperimentalismo linguistico, ma anche lettera-
rio, che caratterizza l’atto unico di Italo Svevo. Paolo D’Achille, con
l’acutezza che è sua, scandaglia il comico di parola in personaggi del
calibro di Ettore Petrolini, Achille Campanile, Franca Valeri; segue
il ritratto a tutto tondo, fatto da Anna Barsotti, di una giovanissima
autrice, Emma Dante, e del suo dialetto palermitano. Claudio Giova-
nardi dimostra con estrema efficacia come la poliedrica molteplicità
dei linguaggi rappresentati da Giuseppe Manfridi non possa ridursi
alla mera formula del ‘plurilinguismo’ e Franco Vazzoler si accosta a
un grande protagonista della scena novecentesca, Leo De Berardinis,
con una (ben nota) competenza critica e una sensibilità interpretativa
che gli consentono di delineare i complessi rapporti dell’attore-autore
con la Commedia dell’arte. Concludono questo volume il contribu-
to di Teresa Megale che ci restituisce con grande sapienza la ‘magia’
dell’ultima rappresentazione di Eduardo, La Tempesta di Shakespeare
trasposta nel dialetto e nella cultura napoletana; e il saggio di Silvia
Calamai che mette a fuoco con strumenti linguistici avanzati il par-
lato teatrale nella produzione più recente di Chiti, Malpeli, Maraini,
Russo, Scimone, Tarantino.

Nell’esprimere la mia riconoscenza a tutti coloro che hanno parte-


cipato all’incontro pisano, ringrazio in particolare Claudio Ciociola
per averne presieduto la seconda parte. Desidero anche ringraziare af-
fettuosamente l’amica e collega Silvia Calamai che, in virtù della sua
profonda familiarità con l’universo teatrale, mi ha messo in contatto
con Chiti, Scimone e Niccolini. Un ringraziamento sincero va infine
alla dottoressa Liliana Grassi che, con rigore e creatività, mi ha aiuta-
to a organizzare la nostra Giornata di studio.

Stefania Stefanelli
Il corpo nella scrittura teatrale

La mia scrittura teatrale ha un forte legame con i miei studi e la


mia formazione di attore, nasce fondamentalmente dal bisogno e dalla
necessità di recitare.
Il punto di partenza della mia drammaturgia, come l’interpretazione
dell’attore, è la ricerca del corpo dei personaggi. Se trovo il loro corpo,
troverò le loro parole, i loro silenzi, i loro pensieri, le loro azioni. Il
mio primo testo teatrale Nunzio, scritto in messinese, nacque proprio
così. Il protagonista, attraverso il suo corpo e la sua fisicità mi sugge-
rì le prime parole del testo: «Cori di Gesù, ti pregu. Fammi passari
‘sta tussi, sùbbutu sùbbutu. (Tossisce di nuovo) Puru dumani si ti veni
mègghiu… Ma ti pregu fammìlla passari». Se non avessi trovato il
corpo del personaggio, con la sua malattia, la sua tosse, le sue azioni,
probabilmente Nunzio non l’avrei mai potuto scrivere.
Trovare il corpo dei personaggi, non è semplice, essi non hanno un
corpo astratto e non hanno nemmeno un corpo naturale. Il corpo dei
personaggi è un corpo teatrale che vive con la rappresentazione, attra-
verso il corpo dell’attore; rappresentazione in cui è indispensabile la
presenza dello spettatore. Senza spettatore non c’è rappresentazione,
l’attore non può fare esistere i suoi personaggi e se non esistono i per-
sonaggi non esiste nemmeno l’autore.
La presenza e la relazione tra autore, attore, spettatore è per me il
teatro. Per creare questo tipo di relazione è importante che ci sia sem-
pre tra i tre elementi un vero ascolto. L’ascolto sta alla base di qualsiasi
rapporto. Il teatro è rapporto, educa all’ascolto, perché è un’arte che
ha bisogno di interlocutori attivi che non fanno finta di ascoltare. In
teatro non si può ‘far finta’. Il teatro è finzione, ma per conquistarlo
bisogna raggiungere il massimo dell’autenticità.
Nell’ascolto è necessario che ci sia l’attenzione. In teatro, l’atten-
zione è indispensabile. L’autore teatrale, con la storia e l’invenzione
dei suoi personaggi deve catturare l’attenzione dell’attore, che a sua
volta, attraverso la rappresentazione, dovrà catturare l’attenzione del-
lo spettatore. Lo spettatore è un interlocutore attivo, capace di creare
 Spiro Scimone

con la sua presenza e le sue reazioni un contatto reale con l’attore e, di


riflesso, con l’autore, contatto indispensabile e vitale per il teatro.
Il teatro è scambio. È conflitto. È relazione tra gli opposti. Far con-
vivere elementi opposti, in teatro, è uno degli obiettivi più importanti
da raggiungere. Nelle mie opere cerco sempre, descrivendo personaggi
e situazioni che abbiano contemporaneamente aspetti comici e dram-
matici, di far coesistere situazioni opposte. La mia drammaturgia è ca-
ratterizzata, proprio dalla ricerca di mantenere l’equilibrio tra dramma
e comicità. Due esempi a tal proposito si trovano nei testi Bar e La
festa. Nella terza scena di Bar c’è un dialogo tra i due protagonisti,
Nino (il barista) e Petru (il cliente), che dimostra come dramma e co-
micità possono coesistere. La scena inizia con i due personaggi chiusi
nel retro del bar, questo il dialogo:

Petru: A unni vai?


Nino: Ad àpriri u bar. (esce di scena. Rientra in scena. Silenzio)
Petru: Tutti i matini, apri u bar a ‘st’ura?
Nino: Si.
Petru: Così prestu?
Nino: Si.
Petru: Comu fai mi ti svigghi così prestu?
Nino: Mi svigghia me’ mamma.
Petru: Non ll’hai ‘a sveglia?
Nino: Ll’haiu.
Petru: E picchì non ti punti ‘a sveglia?
Nino: Picchì mi svigghia me’ mamma.
Petru: Ma si tu ti punti ‘a sveglia non c’é bisognu chi ti svigghia to’ mam-
ma.
Nino: Jo a puntu a sveglia. Ma mi svigghia me’ mamma.
Petru: N’a senti sunari?
Nino: Chi?
Petru: A sveglia.
Nino: No.
Petru: Hai u sonnu pisanti?
Nino: Non hàiu u sonnu pisanti.
Petru: E picchì n’a senti sunari?
Nino: A stacca me’ mamma! Avi cchiù di vintanni chi me’ mamma mi stac-
ca a sveglia. I primi voti ‘a staccava ‘e setti. Jo, tutti i siri, puntava ‘a sveglia
‘e setti, ma n’a sintìa mai sunari, pinsava: ‘sta sveglia non funziona e nni
comprava ‘n’autra, ‘a puntava e setti, ma puru chista n’a sintìa mai sunari...
Pinsava: puru ‘sta sveglia non funziona e nni comprava ‘n’autra, ‘a puntava
 Il corpo nella scrittura teatrale

e setti, ma puru chista n’a sintìa mai sunari… Pinsava: puru ‘sta sveglia non
funziona e nni comprava ‘n’autra…
Petru: Quantu svegli comprasti?
Nino: Assai! Dopu sei misi capìa chi non era ‘a sveglia ma era me’ mamma
chi si svigghiava deci minuti prima di setti e ‘a staccava. Allura ‘na sira pun-
tai ‘a sveglia ‘e sei e menza, ma puru dda vota me’ mamma si svigghiau deci
minuti prima. Allura puntai ‘a sveglia ‘e sei, ma puru dda vota me’ mamma si
svigghiau deci minuti prima...
Petru: Ma picchì to’ mamma si svigghiava sempri deci minuti prima da sve-
glia?
Nino: P’u cafè! Così mi puttava ‘nto lettu u cafè! (pausa)
Petru: Ma si ti voi svigghiari c’a sveglia basta chi chiudi a chiavi a stanza a
unni dommi tu, così to’ mamma non pò ‘ntràsiri.
Nino: Si chiudu a chiavi ‘a stanza a unni dommu jo, me’ mamma non
po’cchiù nésciri.
Petru: Da quantu tempu dommi cu’ to’ mamma?
Nino: Da picciriddu. (pausa.)

In questa scena, lo spettatore percepisce subito l’aspetto comico, ma


quando termina l’effetto della risata, il dramma prende il sopravvento.
L’altro esempio del doppio effetto, comico e drammatico, si trova nel
dialogo tra Madre e Padre del testo La festa. Il padre viene fuori dal
bagno dopo essersi lavato, la madre si rivolge a lui:

La Madre: Ti sei lavato tutto?


Il Padre: Sì.
La Madre: Sicuro?
Il Padre: Sicuro.
La Madre: Anche il pezzo dietro l’orecchio?
Il Padre: Il collo.
La Madre: Non il collo. Il pezzo dietro l’orecchio.
Il Padre: Il collo.
La Madre: (si tocca dietro l’orecchio) Questo pezzo...Hai lavato anche que-
sto pezzo?
Il Padre: Si, ho lavato anche quello.
La Madre: (si tocca il collo) Questo è il collo. (Si tocca dietro l’orecchio)
Questo pezzo, non è il collo. Perché lo chiami collo?
Il Padre: Non lo so come si chiama.
La Madre: Anch’io non so come si chiama. Ma non l’ho mai chiamato collo.
(Si tocca dietro l’orecchio) Se chiami questo pezzo collo…(Si tocca dietro
l’altro l’orecchio) Anche quest’altro pezzo dovresti chiamare collo e quanti
colli abbiamo? (Pausa)
 Spiro Scimone

Il Padre: Bisogna aggiustare lo scaldabagno.


La Madre: Non possiamo.
Il Padre: Non posso più lavarmi a pezzi da solo.
La Madre: Perché?
Il Padre: Non ricordo i pezzi che lavo.
La Madre: Hai lavato due volte lo stesso pezzo?
Il Padre: Non lo so.

In teatro la presenza tra elementi opposti, può creare un contrasto,


un conflitto. Questo tipo di rapporto conflittuale, può far nascere un
contatto vero tra chi recita e chi osserva. Questo contatto non si può
acquisire in anticipo, ma si dovrà creare di sera in sera, di attimo in
attimo.
Altro aspetto, per creare attenzione e permettere la comunicazione
in teatro, riguarda naturalmente la lingua. Sono convinto che nel tea-
tro ci sia una sola lingua: la lingua teatrale, che si può creare con le pa-
role di tutte le lingue del mondo: italiane, francesi, inglesi, siciliane.
L’abilità o l’originalità di un autore, nel creare la lingua teatrale,
consiste nel riuscire a mettere insieme le parole, che i corpi dei perso-
naggi gli suggeriscono, mantenendo sempre viva la solita relazione tra
autore, attore, spettatore. Le parole dovrebbero essere messe insieme
pensando al loro significato e alla loro musicalità. Il ritmo e la musi-
calità dei dialoghi sono indispensabili per creare la giusta atmosfera
dell’opera. A volte, scrivere una parola in più o in meno, non cambia
il senso della frase, ma modifica il suono. La sonorità contribuisce a
creare gli stati d’animo dei personaggi, dell’attore e dello spettatore.
Il ritmo, la musicalità dei dialoghi dei miei personaggi li creo spesso
con l’iterazione delle parole. Un esempio, a tal proposito, è in questo
dialogo tra Nunzio e Pino:

Nunzio: Manciamu assiemi oggi, manciamu assiemi?


Pino: Si, manciamu assiemi...manciamu assiemi.
Nunzio: E chi manciamu Pino?.. Chi manciamu?
Pino: Chiddu chi voi.
Nunzio: ‘A pasta. Vògghiu ‘a pasta.
Pino: Va beni, manciamu ‘a pasta.
Nunzio: Comu ‘a sai fari tu però, comu ‘a sai fari tu.
Pino: C’a pumadoru?
Nunzio: E u pipi. U pipi russu.
Pino: E u pipi russu.
Nunzio: E ‘a pancetta, mèttici puru ‘a pancetta. Ci’a metti ‘a pancetta?
 Il corpo nella scrittura teatrale

Pino: Cettu ci’a mettu.


Nunzio: E u fummaggiu?
Pino: E u fummaggiu.
Nunzio: Mèttici puru u fummaggiu.
Pino: Capìa Nunziu, ci mettu puru u fummaggiu!
Nunzio: U pecorinu però, u sai. U pecorinu mi piaci assai! No u pammiggia-
nu. U pammiggianu, non mi piaci! U pecorinu si, mi piaci. Mi piaci assai!

Anche nel dialogo tra la Madre e il figlio Gianni nel testo La festa,
troviamo conferma di quanto detto prima.

La Madre: Vuoi un po’ di latte?


Gianni: Voglio il caffè.
La Madre: Ti metto anche un po’ di latte?
Gianni: No.
La Madre: Perché non lo prendi con un po’ di latte? È Buono macchiato con
un po’ di latte. Ti metto un po’ di latte.
Gianni: Dammi il caffè!
La Madre: (gli dà il caffè. Gianni beve.) Quando sei tornato stanotte?
Gianni: Tardi.
La Madre: Ti ho sentito. Hai chiuso piano la porta, ma ti ho sentito lo stesso.
(Pausa) Perché hai chiuso piano la porta?
Gianni: Non volevo svegliarti. (Pausa)
La Madre: Hai bevuto?
Gianni: No.
La Madre: Cosa hai bevuto?
Gianni: Niente.
La Madre: Eri ubriaco?
Gianni: Non ero ubriaco!
La Madre: Eri ubriaco. Per questo hai chiuso piano la porta.
Gianni: Sempre ho chiuso piano la porta!
La Madre: Ma non ridevi. Chiudevi piano la porta, ma non ridevi. Stanotte,
invece, hai riso.
Gianni: Perché non dormi di notte?
La Madre: Non riesco.
Gianni: Ti ho sempre detto di dormire quando sto fuori la notte.
La Madre: Io voglio dormire.
Gianni: Tu stai sveglia per sapere quando rientro.
La Madre: Io non voglio sapere quando rientri.
Gianni: E perché non dormi allora?!
La Madre: Tuo padre russa.
 Spiro Scimone

Gianni: Portalo da un medico.


La Madre: Che risolvo?
Gianni: Gli darà qualcosa per non farlo russare. Una cura.
La Madre: Non esiste.
Gianni: Che ne sai?
La Madre: Lo so! L’unica cosa da fare è legargli la bocca.
Gianni: Parla o russa?
La Madre: Russa. Russa perché dorme con la bocca aperta.
Gianni: Lui lo sa?
La Madre: Che russa?
Gianni: Che dorme con la bocca aperta.
La Madre: Gliel’ho detto stamattina.
Gianni: Che ti ha detto?
La Madre: Niente. Ha fatto finta di niente. (Pausa) Tu l’hai mai sentito?
Gianni: No.
La Madre: Qualche volta ti chiamo e te lo faccio sentire.
Gianni: Non c’è bisogno che mi chiami, so già com’è.
La Madre: No. Non è come pensi tu. È peggio. Tuo padre, non sa neanche
russare.
Gianni: Parlagli. Digli che l’unica cosa da fare è legargli la bocca.
La Madre: E se lui non vuole farsi legare?
Gianni: Se lui non vuole farsi legare, poi gli parlo io.

Le ripetizioni delle parole, nei due esempi, creano un dialogo con


una musicalità necessaria ad amplificare le caratteristiche dei vari per-
sonaggi: la solitudine di Nunzio e le ansie della Madre.
Nel ritmo e nella musicalità della lingua teatrale non ci sono solo
le parole. Ci sono anche le pause, i silenzi. Il giusto silenzio e la giusta
pausa, in teatro, creano tensione, liberano l’immaginazione e possono
comunicare emozioni più forti di tante parole.
Carlo Cecchi, regista di Nunzio, durante le prove dello spettacolo,
fece esercitare me e il mio collega attore Francesco Sframeli tantissi-
mo sulle pause e sui silenzi del testo e dopo alcune rappresentazioni
ci diede consigli sul come far vivere quei silenzi e quelle pause. Un
giorno, alla fine dello spettacolo, si accorse, attraverso la nostra recita-
zione, che una frase del testo non andava bene e ci disse di sostituirla
con il silenzio. Il testo Nunzio parla di un rapporto d’amicizia tra un
operaio e un killer. Pino, il killer, viaggia solo per uccidere e le sue
partenze avvengono tutte le volte che riceve, sotto la porta, la busta
con dentro i soldi e le foto delle persone da eliminare. Nunzio, verso
la fine dello spettacolo, capisce la professione di Pino e lo scopo dei
 Il corpo nella scrittura teatrale

suoi viaggi, ma non lo manifesta in modo esplicito, lo lascia intuire


attraverso questo dialogo:

Nunzio: (guarda Pino che conta i soldi) Ti pagunu prima?


Pino: (continua a contare i soldi) Si. A mità m’a dannu prima.
Nunzio: E si tu ti pigghi i soddi e non ci vai in Brasili chi succedi?
Pino: Cumincìunu a mèttiri sutta a potta a fotografia mei. (si mette i soldi in
tasca e si rivolge a Nunzio) ‘Nto frigoriferu ti lassai ‘na picca i sugu…

La battuta di Pino, «Cumincìunu a mèttiri sutta a potta a fotografia


mei», provocava un effetto teatrale, faceva sorridere il pubblico, ma
Cecchi, ci disse che quella frase in quel momento di tensione, inde-
boliva il dialogo e ci consigliò di eliminarla sostenendo fino al limite
il silenzio. Sostenere il silenzio o la pausa è compito dell’attore. Per
poterlo fare, gli attori devono creare una tensione, una forza tale da
riempire l’assenza delle parole. Con l’eliminazione di quella frase il
dialogo diventò questo:

Nunzio: (guarda Pino che conta i soldi) Ti pagunu prima?


Pino: (continua a contare i soldi) Si. A mità m’a dannu prima.
Nunzio: E si tu ti pigghi i soddi e non ci vai in Brasili chi succedi?
Pino: (si mette i soldi in tasca, guarda Nunzio in silenzio e poi si rivolge a lui)
‘Nto frigoriferu ti lassai ‘na picca i sugu… U riscaldi e ci aggiungi ‘na schizza
d’ogghiu, sta attentu a nonbruciallu…

Sostituendo la frase con il silenzio tutta la scena aveva acquistato


forza e tensione drammatica. L’idea di eliminare quella frase a Cecchi,
però, gliela suggerirono gli attori.
L’attore, durante le prove di uno spettacolo, può suggerire all’autore
le modifiche del testo. Può fargli trovare i difetti di scrittura che la let-
tura non riesce a scovare. A me è successo un caso del genere durante
le prove di Bar. Sframeli, con la sua interpretazione, mi fece capire che
nel testo Bar c’era un problema di drammaturgia nel passaggio tra la
seconda e la terza scena. Francesco da attore, s’accorse che quel pas-
saggio poteva andar bene leggendolo, ma non interpretandolo. Ascol-
tando le sue sensazioni, mi resi conto che nel testo mancava un’altra
scena. Il giorno dopo, scrissi una delle scene più importanti dell’opera,
ma fu l’attore che me la suggerì.
Descrivo sempre questo particolare episodio per cercare di spiegare
che, nel passaggio tra la scrittura e la rappresentazione, un testo inedi-
to può essere modificato. L’autore teatrale del testo mai rappresentato
 Spiro Scimone

dovrebbe ascoltare le sensazioni dell’attore, dovrebbe aprirsi alle rea-


zioni dello spettatore. In teatro non ci si può chiudere in se stessi. La
chiusura in teatro è mortale. Il teatro è apertura, è luogo di confronto.
È libertà. Per questo è magico.

Spiro Scimone
Un foresto a Venezia.
Il mio teatro con Marco Paolini:
da Vajont a Porto Marghera

Buonasera.
Io credo di essere un perfetto rappresentante di quella schiera di
sconosciuti di cui parlava Claudio Giovanardi che mi ha preceduto.
Spezzo però una lancia, verso questa meravigliosa condizione di vivere
sconosciuti.
La vita di Marco Paolini è diventata enormemente faticosa dopo la
diretta del Vajont, ovvero dal 10 ottobre ’97. La mia ha continuato a
essere sufficientemente ricca e variegata professionalmente, ma mol-
to tranquilla. La condizione di oblio per me è fondamentale. E io mi
rendo conto che quando accade che per una serie di strani fenomeni
talvolta finisco, anche se molto collateralmente, sotto qualche pezzet-
tino di luce, non fa bene al mio lavoro, anche se capisco perfettamen-
te le motivazioni del professor Giovanardi e sono grato alle persone
che tentano di sottrarci a questo oblio. Però credo che sia davvero
importante: più riesco a tenermi fuori da tutto quello che è notorietà,
meglio posso lavorare.
Cosa faccio? Io credo di aver fatto di questa condizione di ‘foresto’ la
mia caratteristica. Evidentemente un foresto sta per forza nell’ombra.
Io sono in un certo senso un cartografo, un appassionato di mappe
come lo era il primo grande costruttore e disegnatore di mappamondi,
Vincenzo Coronelli. Per me fare una mappa è costruire qualche cosa
a metà strada tra la geografia e la storia. Credo che se c’è una cosa che
proprio mi interessa, mi piace da impazzire, è che in un certo senso sto
cercando di fare il mio piccolo mosaico della storia di un secolo, di un
paese e di un mondo – dato che con gli anni ho avuto la fortuna di oc-
cuparmi non solo di storia italiana, con Paolini e con altri. E dunque
cerco di trovare una collocazione a una serie di piccoli pezzi di questo
immenso mosaico, proprio come un bimbo – di fronte a un puzzle gi-
gantesco – prova a sistemare qualche casellina. Ogni volta che riesco
a trovarne una e metterla al posto giusto sono felice.
La cosa che complica da morire questo lavoro, ma che ne è anche la
grande bellezza, è che io sono costretto costantemente a lavorare non
10 Francesco Niccolini

su un piano bidimensionale ma tridimensionale. Geografia e storia:


tutto mi cambia di continuo e mi sfugge. In questi anni, se una cosa
ho capito è che quello che mi interessa è il disorientamento: non a
caso mi piace fare mappe. Credo che la condizione di fragilità di non
ritrovarsi sia fondamentale nel mio lavoro. E credo che sia stato que-
sto insieme di cose uno dei fondamenti da cui è partita l’amicizia con
Paolini.
Io a quell’epoca dirigevo un festival che si chiamava Il teatro e il sa-
cro. I luoghi del mistero ad Arezzo (io sono nato ad Arezzo, ho studiato
a Firenze e vivo a Livorno). A quell’epoca stavo ancora ad Arezzo.
Marco venne a provare un lavoro che stava iniziando allora: «Voglio
fare uno spettacolo su Marco Polo», mi disse. Marco Polo mi è sempre
stato simpatico perché è l’opposto di Cristoforo Colombo. Non battez-
za nulla Marco Polo: va, si riempie gli occhi di quello che trova e cerca
di raccontarlo altrove. E cerca, là, di raccontare quello che ricorda di
casa sua. Questa condizione per me era entusiasmante. E in casa, una
sera che Marco venne a cena da me, trovò la mappa della Venezia del
’500, la mappa più famosa in assoluto che è rimasta: una mappa ora
custodita al Museo Correr, sette metri per tre, un documento meravi-
glioso che non è comunissimo trovare nella casa di un toscano, anche
se in copia e in formato ridotto. Aggiungete che ho fatto una tesi
su Angelo Beolco, Ruzante, che si intitolava Visibile e Invisibile e che
era un tentativo di attraversare la sua drammaturgia, quella infinita e
meravigliosa capacità di cambiar forme che Ruzante ha posseduto con
tanta felicità e forza. Fatto sta che lui mi disse: «Ma perché non lavori
con me su questa cosa di Marco Polo?».
Marco Polo era solo un pretesto. In realtà l’obiettivo era Venezia,
era un Marco Polo che non parte, tanto è vero che lo spettacolo, per
chi lo ha visto (è uno spettacolo del ’97), iniziava proprio con la fal-
sa partenza da un aereo. Marco chiede di scendere al momento del
decollo, provocando un disastro, perché l’aereo deve frenare e fini-
sce in Laguna. Da lì cominciano le disavventure, che ci servirono per
raccontare e per dipingere un’altra Venezia rispetto a quella che poi
avremmo fotografato, da lì a qualche anno, quando abbiamo lavorato
su Porto Marghera.
In realtà noi in tre spettacoli abbiamo fatto questo lavoro che a po-
steriori evidentemente è stato per noi così decisivo: Vajont, Milione e
Parlamento chimico. Quando finimmo di fare Vajont, mi ricordo che
proprio nel viaggio in macchina per andare verso la diga, mentre ci
preparavamo agli ultimi giorni di prove per la diretta, Marco mi dis-
se: «Io sono convinto che la storia del Vajont è soltanto la punta di
11 Un foresto a Venezia. Il mio teatro con Marco Paolini

un iceberg molto più complesso». Dopo che tutta quella avventura fu


terminata e ci mettemmo con calma a cercare un’altra storia, scoprim-
mo che dopo aver raccontato la Venezia mitica e anche comica – per
fortuna, una volta tanto – del Milione, era diventato indispensabile
raccontare che cosa succedeva a quella stessa famiglia, a quella stessa
azienda che dopo i disastri del Vajont continuerà a combinare, in un
certo senso, disastri a Venezia, in laguna: Sade, Edison, Montecatini,
Montedison.
In tutto questo ci sono due cose assolutamente fondamentali: la pri-
ma è la mia condizione di foresto, e la seconda ciò che proprio nei
giorni di lavoro sulla diga battezzammo «le ragioni degli altri». Perché
questi sono due dei grandi motivi di lavoro condivisi con Paolini.
‘Foresto’, è evidente. Io sono un toscano, aretino, livornese, fioren-
tino, con madre lombarda: insomma, tra me e il Veneto, a parte una
tesi su Ruzante, non è che ci fossero grandi rapporti. Ma fu quella la
cosa che Marco intuì come fondamentale: mettere insieme un punto
di vista come il suo di nato bellunese, vissuto trevigiano, veneto e
veneziano della provincia e il punto di vista di uno straniero. ‘Fore-
sto’. Perché? Per un motivo estremamente semplice: perché io non
ho quell’attaccamento che ha lui. Negli anni a seguire mi è accaduto
tantissime volte di applicare questa eccentricità, cioè andare a lavo-
rare in posti lontani dalla mia vita. Io non ho quasi mai raccontato
la mia storia, ho sempre raccontato storie diverse dalla mia perché
preferisco muovermi con l’occhio di uno che viene da fuori, sta fuori,
non è così affezionato alle cose da non vederne i difetti. Magari le ama
con un amore nuovo, con il fascino di chi arriva in un posto e cerca
di scoprirlo, cerca di comprenderlo, ma al tempo stesso non ne è così
complice da non vedere quello che stona. E questo abbiamo cercato
sempre di mettere insieme io e Marco: lui con il suo lavoro su quella
terra, da figlio di quella terra; io da persona che l’ha sempre studiata
e amata e che ha cercato di avvicinarsi, capirne i dialetti. E insieme
provare a lavorare in una condizione che si è dimostrata ideale per la
costruzione del lavoro ed evidentemente con questa complessità ulte-
riore che è quella della lingua. Ogni volta che abbiamo fatto uno spet-
tacolo, l’influenza del non so neanche se definirlo ‘veneziano’ (perché
è sbagliato, Marco non è veneziano di Venezia, ma è un trevigiano
che mastica bene ormai molti dialetti veneti), l’influenza delle lingue
venete insomma, è stata molto importante in tutti gli spettacoli. Dalle
avventure friulane di Erto e Casso nel Vajont e dei personaggi, dalla
famosa nonna con lo schioppo in poi, fino agli operai di Marghera o al
costruttore di caldaie Gelmino Ottaviani di Cipolle e Libertà, passando
12 Francesco Niccolini

ovviamente attraverso il meraviglioso mondo di quegli strani perso-


naggi lagunari del Milione. Ce ne sono due in particolare ai quali sono
legatissimo: uno, Sambo, colui che guida la barca sulla quale Marco si
salva dopo la disavventura dell’aereo; e poi quello che è sempre stato
un po’ il più simpatico a tutti, il Gatto, che è un guidatore di mototope
che sono barche lunghe e piatte con le quali i veneziani trasportano
merci in laguna. E il Milione è un po’ questa cosa qua: la felicità di ri-
cordare tutto quel mondo che affonda, affonda, affonda e poi alla fine
miracolosamente è ancora lì, sempre un pochino più ammuffito, in-
vecchiato, espropriato, ma è sempre lì. Sempre, costantemente simbo-
lo (prima del tempo) di quello che sta per accadere nel resto d’Italia.
Il Veneto e Venezia hanno sempre avuto questa funzione nel teatro
di Paolini: quella terra è diventata per noi una sorta di osservatorio
privilegiato per provare a comprendere che cosa stava accadendo. In
tal senso, il terzo spettacolo di questa trilogia involontaria, Parlamento
chimico. Storie di plastica, ne è stato la tappa più importante anche se
sicuramente la meno spettacolare: il lavoro più duro, anche più diffici-
le da digerire. Addirittura Paolini, per una serie di motivi che è inutile
che io qua provi a riassumere, nelle prime venti, trenta repliche dello
spettacolo, il primo quarto d’ora lo faceva voltato, cioè non guardava
neanche il pubblico. Rinunciava clamorosamente alla sua condizio-
ne di narratore, che è colui che cerca gli occhi delle persone che ha
davanti per creare una relazione forte, con una serie di complicazioni
immense: parlava di chimica, parlava di finanza e non c’era una vera
tragedia come c’era ad esempio – per rimanere sempre nel nostro or-
ticello – nel Vajont. Nella storia del Vajont, se voi leggete la sentenza
di rinvio al giudizio del giudice istruttore del processo di primo grado,
vi rendete conto che basterebbe recitare quella: quelle quattrocento
pagine dattiloscritte sono già una tragedia greca. Paradossalmente il
Vajont è lo spettacolo più facile di quelli che abbiamo fatto. Parlamento
chimico no, questa è una storia – come dice Marco – di un rubinetto
che viene chiuso piano, di un fiume che si secca: la cosa è molto meno
eclatante. Però è la storia del Novecento, di questo secolo dove siamo
partiti con sogni condivisi da tutti – e qua subentra quel secondo pun-
to, le «ragioni degli altri» che vi ho accennato prima e che ora vorrei
riprendere – sogni condivisi da tutti che piano piano tutti abbiamo
abbandonato. Mi spiego rifacendomi a queste «ragioni degli altri».
Mentre facevamo il Vajont, nel pomeriggio prima della diretta, due
ingegneri dell’ENEL dicono: «Avete voglia di venire con noi nel cuo-
re della diga?». Risposta scontata: «Ovviamente sì». I due ingegneri ci
portano con una Panda su una stradina di montagna che arriva fino
13 Un foresto a Venezia. Il mio teatro con Marco Paolini

a un ponte che c’è di fronte alla diga, diciamo a circa ottanta-cento


metri dal suolo. E ci portano su questo ponticello. Come forse saprete
le dighe non sono muri diritti. Sono muri che spanciano in fuori o in
dentro, dipende da che lato sei. Noi ci siamo trovati di fronte a un
muro di quasi duecento metri sopra di noi e a uno strapiombo sotto, su
quei ponti in metallo bucati… che insomma chi soffre un po’ di verti-
gini lì è morto. Ecco, da lì ci hanno portato nel tunnel dentro la diga e
siamo entrati nel ventre del mostro, attaccati a questi ingegneri e ab-
biamo sentito l’anima, e anche la paura, di quel luogo unico. In questa
condizione così fragile, così intima, così eccezionale, uno di questi in-
gegneri ci dice: «A me piace molto il vostro spettacolo. Fate un lavoro
importante, c’è bisogno di raccontare queste cose. Però ogni volta che
arrivo alla fine mi prende sempre lo stesso dubbio, la stessa domanda:
ma se io fossi stato al posto di quell’ingegnere capo, avrei avuto il co-
raggio di fermare tutto? Io ho paura che non ce l’avrei fatta».
Devo dire che la sincerità di quella confessione, in quelle condizio-
ni molto intime, molto private, ci fece molto effetto perché quando
fai questo tipo di lavori, in un certo senso, più o meno decidi da che
parte stai e contro chi stai. Ecco, allora noi capimmo quanto erano
importanti quelle che in quell’occasione battezzammo le «ragioni de-
gli altri». Prima di qualunque giudizio, prima di qualunque posizione,
era importante provare a capire le ragioni di quelli che ci sembra facile
mettere sul banco degli imputati. Quello è diventato uno dei punti di
forza del mio lavoro. Ogni volta che mi metto a studiare, a cercare
– e in questi anni ho avuto molte volte la fortuna e l’occasione di
studiare cose complicate, anche lontanissime dalla mia formazione,
dalle mie conoscenze – ecco, questo aspetto del lavoro è sempre stato
fondamentale.
Come un altro aspetto, e qua ritorno su un versante più artistico:
capire come sperimentare, ogni volta che si va in scena, quali possono
essere delle vie poetiche per raccontare una storia. Detta così sembra
quasi banale: «ovvio, fate teatro». Però io che vivo una dimensione
molto artigianale del mio mestiere – se insieme a cartografo dovessi
dare un’altra definizione mia, direi ‘sarto’ – io scrivo per attori che
conosco. Mi capiterà una volta ogni due, tre anni di scrivere un testo
perché proprio lo volevo scrivere senza avere in mente chi è la persona
che vorrei in scena. Io lavoro sulla carne, sulla pelle, sulla voce, sulle
spalle direi, sul movimento, sull’assenza del movimento, sulle costri-
zioni dell’attore, degli attori con i quali lavoro.
Ora vengo da questa ultima avventura per me incredibilmente bella
al di là di ogni più rosea aspettativa, che è stato uno spettacolo che
14 Francesco Niccolini

si intitola 4 novembre ’66. La guerra grande dell’Arno, un lavoro che


ho fatto a Firenze in occasione dei quarant’anni dell’alluvione con
Sandro Lombardi, Marco Paolini e Anna Meacci. Ho avuto prima
di tutto la felicità di lavorare con tre amici proprio fraterni, e poi di
poter costruire tre registri linguistici proprio per loro tre, calibrati su
ognuno di loro, cercando di trovare un filo conduttore legato a una
parola alta, poetica, da poema, un vero proprio ‘poema dell’acqua’, af-
fidato a Sandro Lombardi; una voce della memoria, lontana, quella di
Marco Paolini; e una voce fiorentina, popolare, apparentemente bassa
se vogliamo, carnale, che era quella di Anna – come poi hanno scritto
su «Repubblica» – «questa ragazza di San Frediano», cosa di cui lei va
fierissima da quando è uscita questa recensione.
Per me è fondamentale questa operazione di cercare una misura poe-
tica rispetto alla persona con la quale lavoro. In questo momento ad
esempio mi trovo in una delle scommesse più ardue della mia vita
perché sto lavorando su una storia assolutamente contemporanea,
apertissima, che è la guerra in Iraq. Nello specifico sul destino di una
città martoriata come poche, che è Falluja, diventata così famosa per
le bombe al fosforo bianco nel novembre 2004. Sono appena tornato
da una viaggio in Giordania dove ho avuto la fortuna incredula di
parlare con i capi della resistenza di Falluja che, tra parentesi, im-
maginavo potessero essere un misto di personaggi tra il talebano e lo
sfigato, quelli usciti da Abu Ghraib. Invece mi sono trovato davanti a
ingegneri, farmacisti e medici. Il capo della resistenza era il direttore
dell’ospedale generale di Falluja: un signore in giacca e cravatta, per-
fettamente sbarbato, telefonino e computer. Questo per darvi anche
un po’ la misura di come noi, io per primo, cresciamo con determinate
idee, nutriti da una comunicazione di un certo tipo per poi trovarti di
fronte a una realtà molto diversa. Bene, per la mia scommessa c’entra
molto la lingua, la lingua poetica. Io vorrei riuscire a raccontare le
battaglie di Falluja e la disperazione di questa guerra persa, perché è
una guerra persa da tutti, come se fosse un episodio del Mahabharata.
Due anni fa ho avuto l’occasione di lavorare in Francia con un ge-
nio pazzo, Massimo Schuster che, unico dopo Peter Brook, ha detto:
«lavoriamo sul Mahabharata». E io ci ho lavorato due anni insieme:
è stata l’esperienza più bella della mia vita. Ecco, io vorrei trovare il
modo di raccontare questo ‘qui e ora’ di questa guerra così vicina e
lontana, come è quella di Falluja, dove le persone continuano tutto-
ra a morire, compresi questi poveri soldatini americani che vengono
falcidiati per motivi che davvero ormai sfuggono a chiunque. Vorrei
raccontarla come se fosse un poema epico dell’antichità. Dico questa
15 Un foresto a Venezia. Il mio teatro con Marco Paolini

cosa dei soldatini americani per tornare alla questione delle «ragioni
degli altri». È ovvio che per me è facile in questo momento tifare per
i sopravvissuti iracheni e non nego che se ho un desiderio è quello di
andare a festeggiare a Baghdad la liberazione, per una serie di motivi
che sarebbe troppo complicato ora raccontarvi. Però mi è capitato di
vedere un documento che mi ha molto provato. C’è una televisione
irachena che manda in onda ventiquattro ore su ventiquattro le ge-
sta di Juba, che è The Baghdad sniper (Il cecchino di Baghdad). Questo
signore incappucciato passa tutto il tempo con una telecamera che
riprende le sue gesta. E le sue gesta sono, ventiquattro ore su venti-
quattro, sparare sui soldati americani. Per cui sia su internet che su
questa tv satellitare gli iracheni possono gioire in tempo reale di questi
omicidi. Ecco, il mio obiettivo è – e così chiudo – avere la nausea non
per i morti che mi sono cari, i miei vicini, i miei genitori, i miei figli, i
miei fratelli, perché è ovvio che non vorremo che morissero. Io voglio
la nausea per quel soldatino usurpatore che è lì e che non ha capito
neanche perché è lì. Voglio la nausea per quel cadavere. E sperare che
si riesca a chiudere anche questa brutta storia.

Francesco Niccolini


  Chi vuole fare la scioccante esperienza, sappia che la può fare, con uno di que-
sti link: http://dailymotion.alice.it/video/x2oz0w_iraq-bagdad-sniper_events, oppure
http://www.flurl.com/item/JUBA2_PART_1_u_196651 e http://www.flurl.com/item/
JUBA2_PART_1_u_196652, ma bisogna sapere che si sta aprendo la porta dell’in-
ferno.
«Scene popolari» verghiane
tra «commedia villereccia»
e «drammettino» suburbano:
lettura sinottica di Cavalleria rusticana
e In Portineria

Forse nella scrittura teatrale più che in quella narrativa è percepibile


la spasmodica ricerca di simmetrie di soggetto e forma nell’inesausta
sperimentazione compositiva verghiana. In tal senso Cavalleria rusti-
cana e In portineria rappresentano le linee di uno sviluppo sinusoidale,
due testi in cui moduli e motivi si rincorrono e si ripropongono con
simmetria quasi ossessiva, risultato di una progettualità ricorsiva, te-
nace e coraggiosa, la cui radicalità e pervicacia è tutta affidata alle
determinazioni avverbiali che ne scandiscono tempi di attuazione.
Basti scorrere le lettere agli amici più cari del triennio 1885-1888, in
cui gli avverbi di modo punteggiano e puntualizzano l’intenzionalità
retrostante a ogni nuovo momento di scrittura. Il 17 gennaio 1885,
con febbrile passione creativa riaccesa dall’anniversario del successo
della Cavalleria rusticana, il Verga annunciava il proprio rinnovato
cimento drammaturgico con seria determinazione all’amico Salvatore
Paola Verdura («Io sto scrivendo un drammettino in due atti che mi
sembra di qualche effetto; e calcolatamente ho voluto che non sia di
argomento siciliano»), e con scanzonata provocazione al ‘confratello’
Luigi Capuana («Fra un mese voglio accopparti con una commedia in
due atti nuovissima»), che, stuzzicato dalla notizia, si interrogava sul
genere testuale: «Sarà una commedia rusticana o di soggetto di alta


  Com’è ampiamente noto, il dramma rusticano fu rappresentato per la prima volta a
Torino, al Teatro Carignano, dalla compagnia di Cesare Rossi il 14 gennaio 1884. Il pre-
sente lavoro rielabora una tematica già affrontata in G. Alfieri, La sora e la comare: «scene
popolari» verghiane tra Vizzini e Milano, in Il teatro verista. Atti del Congresso (Catania, 24-26
novembre 2004), 2 voll., Catania, Biblioteca della Fondazione Verga 2007, I, pp. 71-156.

  Cfr. G. Verga, Lettere sparse, a cura di G. Finocchiaro Chimirri, Roma, Bulzoni
1979, p. 170. Una compiuta ricostruzione del rapporto di consonanza estetica con
l’amico avvocato si deve a F. Branciforti, Verga dietro le quinte: dal carteggio Verga-
Paola, in Il teatro verista cit., pp. 297-319.
18 Gabriella Alfieri

società?». La risposta sarebbe arrivata un paio di mesi dopo, allorché


il Verga sottoponeva all’amico il lavoro finito confessandogli di teme-
re un «successo di stima» per la «nuova commedia» di ambientazione
meneghina così a ridosso della fortunata Cavalleria rusticana:

Questo qui, come vedrai, è uno studio di carattere interamente opposto a quel-
lo del mio primo lavoro drammatico. L’ho voluto pensatamente apposta così,
con altre tinte, e disegno. Se tu ci troverai il carattere e l’indole milanese che
ho voluto dargli, sarò soddisfatto. Ma soprattutto bada a quel che ti pare del-
l’effetto drammatico, giacché in teatro, non bisogna dimenticarlo, è tutto lì.

I determinanti avverbiali – il calcolatamente della lettera al Paola, il


pensatamente di quest’altra al Capuana che ospitava altresì una ditto-
logia di avverbi topici dell’idioletto poetico verghiano, come schietta-
mente e sinceramente, – traducono la strenua convinzione con cui il
Verga si era accinto all’adattamento scenico de Il canarino del n.° 15,
una delle novelle milanesi della raccolta Per le vie. Né sembri ridon-
dante aggiungervi il ponderatamente di un’altra fondamentale missiva
destinata ancora all’amico Paola e resa nota solo di recente. Commen-
tando «a mente calma» il «gran fiasco» della recita milanese di In por-
tineria, il Verga ribadiva tenacemente la propria fiducia in quel testo
drammaturgico demolito impulsivamente dal pubblico meneghino:

Non voglio farmi illusioni, ma intendo riserbare il mio giudizio sinché non mi
sarò convinto del tutto che 800 o 1000 milanesi vedano meglio e più in là di
me e di qualcun altro in un’opera d’arte fatta con coscienza; non so tuttora se
mi deciderò a ritentare l’esperimento a Roma colla Duse – certo dopo il tuo


  In G. Raya, Carteggio Verga Capuana, Roma, Edizioni Dell’Ateneo 1984, p. 233;
per la risposta del Capuana, datata 29 gennaio, (ibid., p. 234). Appena due settimane
prima delle euforiche lettere al Paola e al Capuana, Verga aveva scritto al «Carissimo
Luigi» in uno stato d’animo opposto: «Io sono molto malcontento di me e del mio
lavoro. Cambierà? Lo ignoro. Faccio una vita da eremita, chiuso in gabbia come una
bestia feroce, ma la cosa non viene» (Lettera da Milano, 27 dicembre 1884, ibid., p.
232).

  Lettera al Capuana da Milano, 4 aprile 1885, ibid., p. 239.

  Nel passo precedente a quello citato si legge: « Ho voluto appunto il poco rilievo
delle passioni, e la semplicità del disegno non tanto per far contrasto al quadro così
diverso della Cavalleria rusticana quanto per rendere schiettamente e sinceramente il
diverso ambiente che mi ero proposto di colorire».
19 «Scene popolari» verghiane

parere e quello di Capuana stamperò la commedia, perché desidero che resti


come documento di un indirizzo artistico che ai miei occhi ha la sua ragione
di essere, e di un altro passo nella via che mi son prefisso di battere tranquil-
lamente in mezzo agli osanna e ai crucifiggi. Non muterò neppure una virgola,
perché il mio lavoro è stato fatto ponderatamente, perché non vado tentoni
nel cercare di indovinare il gusto del pubblico; anzi non mi son proposto di
lusingare cotesto pubblico.

L’operazione letterario-drammaturgica dunque veniva affrontata con


straordinaria umiltà ma anche con matura consapevolezza dall’auto-
re, appagato dall’aver realizzato appieno i propri intenti estetici nella
scrittura narrativa con I Malavoglia. Notevole sotto questo aspetto che
in entrambe le missive ritorni l’allusione ai fini e agli esiti auspicati
della rappresentazione realistica con gli stessi termini adottati nella
prefazione al ciclo dei Vinti (di qualche effetto; effetto drammatico). Si
rilegga ancora l’altra lettera al Capuana del 5 giugno 1885, in cui Ver-
ga allude simultaneamente a Cavalleria rusticana e In portineria come
risultanze soddisfacenti del proprio progetto di riforma, e ribadisce la
programmatica dislocazione ambientale del tema rusticano che stava
alla base della sua traduzione «intersemiotica», anticipando in certo
senso le odierne dinamiche di adattamento dei format televisivi:

Il quadro cambiava anche nella tecnica, direi, della forma, ma l’intendimen-


to era il medesimo, proporsi di ritrarre un’altra faccia della vita popolare:
fare per la gente minuta della città quello che avevo fatto per i contadini
siciliani.

Illuminante in tal senso la nota lettera a Domenico Oliva a proposi-


to della riconversione narrativa della commedia Dal tuo al mio pubbli-
cata sull’«Antologia», dove si decretava che «quella del teatro è opera
d’arte inferiore». Senza entrare nella dibattuta questione della gerar-
chia dei generi testuali della scrittura letteraria nella coscienza crea-


  Lettera al Paola del giugno 1885, in Branciforti, Verga dietro le quinte cit., p.
306.

  Cfr. G. Alfieri, Le «mezze tinte dei mezzi sentimenti» nel «Mastro-don Gesualdo» in
Il centenario del «Mastro-don Gesualdo», Atti del Congresso, Catania, Biblioteca della
Fondazione Verga 1992, pp. 433-516.

  Cfr. U. Eco, Dire quasi la stessa cosa, Milano, Bompiani 2003, p. 11.

  Lettera da Catania del 21/11/1904, in Verga, Lettere sparse cit., p. 365.
20 Gabriella Alfieri

tiva del Verga, vorrei piuttosto richiamare l’attenzione sulla costante


compresenza di istanze tematico-espressive nella sua militante ricerca
di scrittore, la cui consapevole audacia è sottolineata ancora una volta
da un avverbio nella lettera al Cameroni del 15 giugno 1888:

hai ragione da vendere quanto all’inferiorità del teatro rispetto al romanzo,


come opera d’arte. Ma perché? Allora dirai… perché è una fisima, un gusto
che voglio passarmi, di provare coi fatti, più che colle teorie e le chiacchiere
come si dovrebbe e fin dove si dovrebbe.
Non dico col modello, ma coll’esempio pratico, e poi quando avrò sputato
fuori, bravamente, senza lusinghe e senza paure tutto quello che ci ho sullo
stomaco, e fattomi fischiare due volte ancora, allora basta – e torneremo ai
nostri personaggi d’inchiostro e di carta che parlano meglio, dicono di più e
sono quello che sono10.

Quel bravamente, subito dopo parafrasato nell’inciso quasi a mar-


carne ulteriormente la forza connotativa, come se non fosse bastata
la pregnanza realistica del predicato verbale (sputare), si affianca al
calcolatamente e al pensatamente di qualche anno prima, a sottolineare
la coerenza instancabile di un’ambizione – eternamente inappagata –
alla sistematicità della rappresentazione. Lo conferma il rammarico
manifestato, ormai in tarda età, al critico Nicola Scarano: «Quanti
propositi rimasti per via, o peggio rimasti a mezzo, come quello di
cambiar tono secondo la musica per rendere il quadro coi colori adat-
ti nelle scene d’altro ambiente»11. Significativo che l’istanza estetica
verghiana sia qui espressa in figura musicale, con repentino trapasso
sinestetico rispetto alla più consueta metafora pittorica del «quadro»
e «dei colori adatti» – già peraltro adottata, come ha ricordato Pietro
Trifone, dal Goldoni12 – il che non è certo secondario in questa sede.
Questo sul piano della soggettività creativa, che si inseriva però in
una oggettiva dinamica di rinnovamento della scrittura drammatur-
gica italiana, per cui, come ha osservato Siro Ferrone, Cavalleria e In
portineria inaugurano una tradizione schematica e bipolare nel teatro
italiano ottonovecentesco «che prevedeva una tensione tragica e pas-
sionale per i drammi del sud, una modulazione poetica e malinconica

10
  Cfr. Verga, Lettere sparse cit., pp. 203-204.
11
  Lettera da Catania del 12/9/1916, ibid., p. 406.
12
  L’italiano a teatro, in Storia della lingua italiana. 2. Scritto e parlato, a cura di L.
Serianni, P. Trifone, Torino, Einaudi 1994, pp. 81-159, pp. 144-145.
21 «Scene popolari» verghiane

per i quadri cittadini del nord»13. A tacere del teatro verista, attivo nel
quindicennio 1885-1899, che si divideva tra la superficiale norvegizza-
zione degli epigoni di Ibsen, la mordente ironia di un Praga, l’energia
ideologica di un Rovente, il grigiore dimesso di un Giacosa e il teatro
dialettale popolareggiante di Bertolazzi, Gallina e Di Giacomo14.
L’opera del Verga narratore e drammaturgo si caratterizza proprio per
l’insopprimibile «ansia di verifica», scomponendosi «in corsi e ricorsi
tematici e ambientali, pur nell’unità del metodo acquisito»15. In questa
prospettiva anzi lo «scrivere per il palcoscenico, luogo che più del li-
bro e dell’appendice novellistica implica un rapporto ideologicamente
responsabile col pubblico e la società», consente di «meglio precisare
il segreto impasto, in Verga, di ideologia e concreta sperimentazione
stilistica»16. Basti pensare alla trilogia di drammi composta da Caval-
leria rusticana, In portineria e La commedia dell’amore, anch’essa pensata
come trasposizione teatrale della novella I drammi ignoti, poi confluita
nella raccolta Drammi intimi, coeva a Per le vie. O ancora, più in astrat-
to, al pervicace gusto verghiano delle sinossi narrative, per cui proprio
Per le vie – nato nel progetto editoriale come Vita d’officina – avrebbe
dovuto porsi «in una sorta di dittico novellistico»17, come il pendant
urbano di Vita dei campi, non a caso precedentemente intitolato Vita
di campagna, e risultante a sua volta dalla trascrizione rivissuta di testi
raccolti pei viottoli dei campi18. Utile la visualizzazione del programma
di scritture e riscritture, di cui in definitiva solo l’ultimo elemento
– qui asteriscato – rimase inattuato19:

13
  S. Ferrone, Il teatro di Verga, Roma, Bulzoni 1972, p. 242.
14
  Cfr. G. Oliva, Introduzione a L. Capuana, Teatro italiano, a cura di G. Oliva, L.
Pasquini, Palermo, Sellerio 1999, p. xxxi.
15
  A. Barsotti, Verga drammaturgo tra commedia borghese e teatro verista siciliano,
Firenze, La Nuova Italia 1974, p. 72.
16
  Ferrone, Il teatro cit., p. 10.
17
  Cfr. G. Verga, Per le vie, edizione critica a cura di R. Morabito, Edizione Na-
zionale delle Opere di Giovanni Verga, Firenze, Banco di Sicilia-Le Monnier 2003,
Introduzione, p. xii.
18
  Cfr G. Verga, Vita dei campi, edizione critica a cura di C. Riccardi, Edizione
Nazionale delle Opere di Giovanni Verga, Firenze, Banco di Sicilia Le Monnier 1987,
Introduzione, pp. lxxxvi-lxxxvii. Per l’allusione ai viottoli dei campi si veda la lettera
prefazione al Farina, ibid., p. 91.
19
  La Commedia dell’amore, pensata come trasposizione teatrale della novella I
drammi ignoti, poi confluita nella raccolta Drammi intimi, coeva a Per le vie (se ne ve-
22 Gabriella Alfieri

Trilogia novellistica Trilogia teatrale


Cavalleria rusticana = Cavalleria rusticana
Il canarino del n.o 15 = In portineria
I drammi ignoti = *La commedia dell’amore

Dittico novellistico rusticano Dittico novellistico suburbano


[Vita di campagna] > Vita dei campi [Vita d’officina] > Per le vie

Indipendente dalla volontà artistica, ma a questa funzionale, la pun-


tuale alternanza di stampe e ristampe, per cui alla rappresentazione
scenica seguiva, con esemplare tempismo editoriale20, la pubblicazione
del copione teatrale e la ripubblicazione del testo novellistico di par-
tenza:

NOVELLA DRAMMA
1) a: Cavalleria rusticana, «Fanfulla della
domenica» 14 marzo 1880
I) Cavalleria rusticana, Torino, Teatro
Vita dei campi, Milano, Treves, 1880
Carignano, 14 gennaio 1884
e 1881
b: Cavalleria rusticana ed altre novelle,
II) In portineria, 16 maggio 1885 al
Milano, Treves, 1892
Manzoni di Milano «Illustrazione
2) a: Il canarino del n.° 15, «Domenica
popolare», 7 giugno 1885
letteraria», 21-5-1883
b: Per le vie, Milano, Treves, 1883

Un’altra sfumatura da sottolineare preliminarmente all’analisi lin-


guistica e stilistica che seguirà, è proprio la concomitanza di testi si-
tuati in ambienti socialmente antipodici o – come nel nostro caso –
contigui anzi «compresenti nella vita popolare»21, che caratterizza,
con il conseguente adeguamento psicoespressivo, la ricerca letteraria
verghiana. Che simile cimento stilistico-narrativo sia da interpretare
come segno di dualismo22, ovvero secondo quanto confermano i do-

dano gli abbozzi in G. Verga, Drammi intimi, a cura di G. Alfieri, Edizione Nazionale
delle Opere di Giovanni Verga, Firenze, Banco di Sicilia Le Monnier 1987).
20
  Si veda ancora l’Introduzione di Morabito, a Verga, Per le vie cit., p. xviii, xxv.
21
  Ferrone, Il teatro cit., p. 158.
22
  Si veda l’Introduzione di N. Tedesco a G. Verga, Tutto il teatro, Milano, Monda-
dori 1980.
23 «Scene popolari» verghiane

cumenti biografici sopra citati come prova di responsabile impegno


intellettuale e artistico e insieme di duttilità mentale e stilistica per
realizzarlo23, resta emblematica la scrittura pressoché simultanea dei
Malavoglia e del Marito di Elena, o, in ambito scenico, di Caccia al
lupo e Caccia alla volpe, e, naturalmente, di Cavalleria rusticana e di In
portineria sui quali ci soffermeremo. In ogni caso, negli intenti dell’au-
tore, la riscrittura drammaturgica del testo novellistico andava intesa
come produzione autonoma, concepita per «fare in tutto opera d’arte
e non adattamento scenico»24, e finalizzata a dimostrare, grazie a una
costante alternanza tematica dal contesto rusticano a quello urbano o
dell’alta società che – nell’attività teatrale così come in quella narra-
tiva – «il verismo era un metodo di scrittura piuttosto che una scelta
unidirezionale d’ambiente»25.

1. L’etichettazione del genere testuale tra scrittura narrativa e scrittura


teatrale: «commedia villereccia», «dramma» o «scene popolari»?

Una considerazione meriterà, allora, anche la designazione da parte


dell’autore di entrambi i testi, «dramma rusticano» e «drammettino»
suburbano, con l’etichetta di «scene popolari», a sottolineare l’identi-
tà e l’univocità di intenti compositivi e di programmazione stilistica
che, in effetti, sembra animare la realizzazione scrittoria di Cavalleria
rusticana e di In portineria come facce di una stessa medaglia sociolet-
teraria, secondo quanto Verga aveva scritto al Capuana. L’etichetta
del genere testuale risulta effettivamente interscambiabile per il nostro
autore tra scrittura narrativa e scrittura teatrale, se era già stata ado-
perata per sottotitolare la circolazione divulgativa di una delle novelle
più emblematiche di Vita dei campi26, e, a maggior ragione, se fosse

23
  L. Russo, Giovanni Verga, Bari, Laterza 1974, p. 344.
24
  Ai fratelli Monleone, l’uno librettista e l’altro musicista del dramma lirico Il Mi-
stero, tratto dall’omonima novella delle Rusticane, il Verga raccomandava di ricercare
il reciproco e rispettivo accordo per «fare in tutto opera d’arte e non adattamento
scenico» (cfr. la lettera del 15 ottobre 1908, in Verga, Lettere sparse cit., p. 384).
25
  Cfr. G. Oliva, Introduzione a G. Verga, Tutto il teatro con i libretti d’opera e le
sceneggiature, Milano, Garzanti 1990, p. lii.
26
  Nel febbraio del 1880 Rosso Malpelo, già edito sul «Fanfulla della Domenica» del
2, 3, 4, 5 agosto 1879, veniva ripubblicato con il sopratitolo di Scene popolari «come
opuscolo n. 29 nella “Biblioteca dell’Artigiano”, edita dalla Lega Italiana del “Patto
24 Gabriella Alfieri

stata poi riassunta per connotare la realizzazione dell’ideale artistico


di appassionata e «sincera rappresentazione della vita vera» in uno
dei drammi più apprezzati del ‘collega’ Salvatore Di Giacomo27. E ciò
indipendentemente dalle finalità reclamistiche dell’etichetta di genere
applicata dal Verga al proprio debutto di autore teatrale per «attrarre
il pubblico interessato all’esotico e al folclorismo della sicilianità» di
Cavalleria rusticana28, sprezzantemente rubricata da Edoardo Scarfoglio
come «commedia villereccia»29. Al di fuori poi della stretta e stringen-
te contingenza dell’impegno creativo, il Verga denoterà indifferente-
mente le proprie fatiche teatrali come «commediole»30 o «cosucce»31
– ricorrendo alla semiseria diminutio già adoperata per «drammettino»
– ovvero con il generico «commedia»32, o addirittura con l’iperonimo
neutro «lavoro scenico»33, anch’esso attenuato in «lavoretti scenici»34.

di Fratellanza”» (cfr. l’Introduzione della Riccardi a Verga, Vita dei campi cit., pp. xxx-
xxxi, e, per la stampa sul «Fanfulla», p. lxxxvi).
27
  Così Verga si esprimeva a proposito di Malavita: «C’è tanta intensità di passione
e così sincera rappresentazione di vita vera nelle vostre scene popolari, che anche a
leggerle mi hanno dato quella schietta soddisfazione artistica, che devono produrre
alla recita» (cfr. la lettera a Salvatore Di Giacomo del 10/12/1889, in Verga, Lettere
sparse cit.,, p. 233; corsivo mio).
28
  Cfr. Ferrone, Il teatro cit., p. 136.
29
  Cfr. E. Scarfoglio, Palcoscenico, in Id., Il libro di don Chisciotte, a cura di C. A.
Madrignani, Napoli, Liguori 1990, pp. 184-205: 205.
30
  All’amica del momento scriveva, a proposito delle prove della messa in scena
di Cavalleria, che Giacosa si dimostrava «contento della commediola – io assai meno
di lui» (Cfr. G. Verga, Lettere a Paolina, a cura di G. Raya, Roma, Edizioni Fermenti
1980, Lettera da Torino dell’11/1/1884, p. 92).
31
  Cfr. la lettera a Sabatino Lopez da Catania 31/11902: «Voi avete fatto per quella
cosuccia più di quanto non si meriti. Giacché è proprio una cosuccia, né ho voluto
fare altro colle due caccie» (in Verga, Lettere sparse cit., p. 353).
32
  Sempre alla sua compagna, che gli aveva sagacemente suggerito di collocare i
due testi, rusticano e meneghino, presso la Società Nazionale di autori teatrali, ri-
spondeva: «Certo seguirei i vostri consigli di vendere subito e in modo assoluto la
nuova commedia (ed anche la vecchia per non avere altre seccature) se fosse tornato
qualcuno dei proprietari della Nazionale» (cfr. la lettera da Roma del 19/11/1884, in
Verga, Lettere a Paolina cit., p. 99).
33
  L’accenno riguardava La Commedia dell’amore che il Verga, avendo appena ter-
minato Il Mastro, ipotizzava di far rappresentare a Firenze con la stessa In portineria
(cfr. Lettera a Mariano Salluzzo del 25/12/1888, in Verga, Lettere sparse cit., p. 214).
34
  A Georges Hérelle, traduttore francese al quale stava per inviare la Caccia al lupo
25 «Scene popolari» verghiane

Può riuscire utile, anche ai fini della cronologia, visualizzare grafica-


mente l’etichettazione verghiana dei generi di testualità letteraria e
teatrale:

Scrittura narrativa Scrittura teatrale


«scene popolari» (Cavalleria rusticana
«scene popolari» (Rosso Malpelo, nella – copione; In portineria – copione, con la
“Biblioteca dell’Artigiano”, n. 29, specificazione «in due atti»; Malavita di
febbraio 1880) S. Di Giacomo, Lettera a Salvatore Di
Giacomo del 10/12/1889)
«novella» (Cavalleria rusticana; Il canarino «drammettino» (In portineria, Lettera a S.
del n.o 15) Paola Verdura del 17 gennaio 1885)
«commediola» (Cavalleria rusticana,
Lettera a Paolina dell’11/1/1884)
«commedia» (In portineria, Lettera
a Capuana del 17/1/1885; Cavalleria
rusticana e In portineria, Lettera a Paolina
del 19/11/1884; Dal tuo al mio, Lettera a
D. Oliva del 21/11/1904)
Fra le scene della vita (novella di Don «scene drammatiche in due atti» (La
Candeloro e C.i, 1894) Lupa, copione,1896)
Dramma in tre atti, (Dal tuo al mio,
copione, 1903)
«cosuccia» (Caccia al lupo e Caccia alla
volpe, Lettera a S. Lopez del 31/1/1902)
la «cosa»(Dal tuo al mio, Lettera a Dina
del febbraio 1903
«primo lavoro drammatico»
(Cavalleria rusticana, Lettera a Paolina
dell’11/1/1884)
«lavoro scenico» (La Commedia
dell’amore, Lettera a Mariano Salluzzo del
25/12/1888);
«lavoretti scenici», «bozzetti scenici»
(Caccia al lupo e Caccia alla volpe, Lettera
a G. Hérelle, del 30/10/1901; copione 19)

Nel transcodificare insomma le due novelle più teatralizzabili di Vita


dei campi e di Per le vie per ottenere, con adeguati «riscontri formali»,
effetti di specularità e rispecchiamento del mondo campestre-popola-
re35, il Verga sembra puntare, secondo un costume stilistico già esperi-
to nei Malavoglia, sulla riconversione di moduli collaudati, sottoposti
a puntuale – e il più delle volte riuscito – riadeguamento diafasico,

e la Caccia alla volpe, scriveva da Milano il 30/10/1901: «La prego di accogliere i due
lavoretti scenici che le manderò fra breve»(Cfr. Verga, Lettere sparse cit., p. 353).
35
  Cfr. Ferrone, Il teatro cit., p. 10.
26 Gabriella Alfieri

cioè di registri espressivi, e diatopico, cioè di collocazione spaziale e


ambientale. In sostanza, nel procedere alla stesura del «drammettino»
popolare In portineria a partire da Il canarino del n.° 15, lo scrittore non
faceva altro che cercare di riprodurre con adattamenti all’ambiente
suburbano milanese le strategie discorsive e le tecniche testuali già
con successo sperimentate per la riscrittura drammaturgica di Cavalle-
ria rusticana. Il tentativo era doppiamente arrischiato e implicava uno
sforzo non certo irrisorio: si trattava non solo di reinventarsi uno stile
adeguato per un contesto sociale nuovo – come sarebbe poi accaduto
per il Mastro rispetto ai Malavoglia – ma di procedere alla rappresen-
tazione simultanea di due strati sociali complanari ma distinti territo-
rialmente e di integrarvi un codice spendibile in un contesto per lui
non nativo, come quello popolare meneghino.
Dando per scontate tutte le coordinate storico-critiche sul progetto
verghiano-capuaniano di un teatro verista commisurato alle istanze
identitarie dell’Italia postunitaria che, ritraendone le caratteristiche
ambientali, psicologiche e di costume, riuscisse a coinvolgere come
pubblico «tutta la cosiddetta società nazionale»36, si vorrebbe appunto
verificare dall’interno del testo, scrutato nella sua materialità espres-
siva, la resa delle istanze realistiche che Carmelo Musumarra ha per
primo opportunamente rapportato al linguaggio del teatro verghiano
nel suo complesso37. L’autore di Cavalleria rusticana e di In portineria
raccoglieva fedelmente, benché tardivamente, l’appello del giovane
Capuana critico teatrale de «La Nazione» a evitare quello che un ar-
guto uomo di teatro fiorentino definiva «lo spolvero»38, con metafora

36
  Cfr. ibid., p. 112, e i citati lavori di Tedesco, Barsotti, e di Gianni Oliva, in par-
ticolare la documentata Introduzione a Verga, Tutto il teatro con i libretti d’opera cit.
(pp. vii-lxxxii), e il saggio intitolato Capuana e il progetto teatrale verista (in Capuana,
Teatro italiano cit., pp. xiii-lii).
37
  Si veda C. Musumarra, Il linguaggio del teatro verghiano, in «Quaderni di Filolo-
gia e Letteratura siciliana», V, 1978, pp. 19-26.
38
  Cfr. L. Capuana, Pietro Cossa, in Id. Scritti critici, a cura di E. Scuderi, Catania,
Giannotta 1972, pp. 260-261, e, per la diffusione della metafora critica dello spolve-
ro nell’ambiente di Firenze capitale, R. Bigazzi, I colori del vero, Pisa, Nistri Lischi
1969, p. 231, laddove si accenna allo sconcerto di Salvatore Farina per l’ibridismo
linguistico degli scrittori coevi che mescolavano idiotismi toscani e stilemi dei gaz-
zettieri. Si tenga comunque presente, per l’uso capuaniano, anche il sic. Spruvulu
che il Macaluso Storaci, una delle fonti lessicografiche dialettali prediletta anche
da Verga, spiegava come «foglio nel quale è il disegno che si vuol ricavare, tutto
27 «Scene popolari» verghiane

toscaneggiante ampiamente condivisa nell’ambiente intellettuale di


Firenze capitale, vale a dire la patinatura oratoria dilagante nella com-
media borghese postunitaria. Effettivamente l’amalgama estempora-
neo di elementi disparati dominava nella realtà culturale postunitaria
in cui, come avrebbe crudamente pronosticato lo Scarfoglio, «tutte le
cose drammatiche che appaiono sul palcoscenico da venti anni in qua,
sono polvere e in polvere ritorneranno»39. Tra le cause primarie di tale
sfacelo la lingua dei testi, in cui i personaggi «parlano con una gof-
faggine così bestiale un italiano così pretensioso (sic) nella sua spro-
positata semplicità, che a leggerlo non si resiste», e i commediografi
risultavano incapaci di «fare in prosa un dialogo sopportabile»40. Nel
desolante e piatto panorama tematico ed espressivo del teatro borghe-
se, si spiega meglio l’impegno accanito del Verga drammaturgo, per cui
«l’inchiesta sul reale toglie spazio alla propaganda dell’ideale»41, e la
coloritura regionale è da considerarsi «scelta deliberata»42 in entrambi
i contesti ambientali affrontati, rusticano e suburbano. Verga elabora-
va così «una lingua di mediazione», accessibile a tutti, «diversificata

bucherato con ispilletto, facendo per quei buchi passar la polvere dello spolverizzo:
Spolvero. Sacchetto a bottone entro cui è legata polvere di gesso o di carbone, per
uso di spolverizzare: Spolverizzo» (cfr. Vocabolario siciliano-italiano italiano-siciliano,
Siracusa, Norcia 1875, ripr. anast. Catania, Brancato Editore 1987, s.v.). Anche il
Mortillaro (Dizionario siciliano-italiano, Palermo, Stabilimento Tipografico Lao 1876,
ripr. anast. Palermo, Pietro Vittorietti Editore 1975, s.v.), riporta il termine, che
però sembra una retroversione del toscano Spolvero: «1. Termine di mugnai, Buona
macinatura. […] 2. La polvere di carbone od altro con cui si spolverizza […] 3.
Foglio bucherato con spilletto, nel quale è il disegno, che si vuole spolverizzando
ricavare, facendo per quei buchi passare la polvere dello spolverizzo […]. 4. Fig.
Sim. al Gettar polvere negli occhi. Colui ha un grande spolvero di parole, ma è pochino.
Spolvero d’erudizione, facile, tolta dai cataloghi e dagli indici. Cose di spolvero, di mera
apparenza, e che si spazzano. Cantante di spolvero. Spolvero teatrale» (N. Tommaseo-
G. Bellini, Dizionario della lingua italiana [1865-1879], presentazione di G. Folena,
Milano, Rizzoli 1977).
39
  Cfr. Scarfoglio, Palcoscenico cit., p. 188.
40
  Ibid., pp. 190 e 192. Unica eccezione, secondo il critico abruzzese – peraltro non
esente egli stesso, come si vede, da errori ortografici – il Martini.
41
  Cfr. Trifone, L’italiano a teatro cit., p. 149.
42
  Cfr. L. Serianni, Il teatro, in Id. Il secondo Ottocento, in Storia della lingua italiana,
a cura di F. Bruni, Bologna, Il Mulino 1990, p. 155-166, p. 157.
28 Gabriella Alfieri

negli stilemi, nei nessi sintattici, nei modi e nelle parole, significativi
del mondo in cui si muovevano i personaggi»43.
Sul piano metodologico poi facciamo nostra la definizione che Ste-
fania Stefanelli ha dato della lingua teatrale come «lingua partico-
lare», la cui «espressività non può essere misurata né sui parametri
di giudizio validi per la lingua poetica e narrativa, né su quelli validi
per il parlato spontaneo»44, ma, su un piano di oggettiva diacronia
stilistica, sulle possibilità offerte alla scrittura drammaturgica dalla lin-
gua storicamente determinata nella quale essa si esprime45. Nel nostro
caso si tratterà del repertorio dell’italiano postunitario, articolato in
toscano letterario, toscano parlato e dialetti (nel nostro caso siciliano
e milanese), tenendo sullo sfondo la produzione drammaturgica po-
stunitaria fra Otto e Novecento, divisa tra soluzioni postmanzoniane
e soluzioni veristiche46.

2 Spoglio linguistico-stilistico

L’ipotesi di base dell’analisi socio-stilistica qui tentata è che lo stu-


dio del testo intimistico della versione teatrale de Il canarino del n.°
15 si possa impostare sulle medesime categorie stilistico-interpretative
applicabili alla testualità marcatamente realistica di Cavalleria rustica-
na. Procediamo dunque all’esame testuale diretto, rilevando sinottica-
mente i tratti collimanti che sono emersi numerosi dalla schedatura
dei due testi47, d’ora in poi siglati CR e IP.

43
  Musumarra, Il linguaggio cit., pp. 21-23.
44
  S. Stefanelli, Lingua e teatro oggi, in Ead., Va in scena l’italiano, Firenze, Cesati
2006, pp. 125-139: 132.
45
  Cfr. Stefanelli, Come parla il teatro contemporaneo, ibid., pp. 141-155, p. 144.
46
  Ibid., p. 141.
47
  Per evitare un cumulo di note, si faranno seguire a ciascun esempio la voce o la
locuzione siciliana, toscana o milanese di volta in volta pertinenti, con eventuali rin-
vii alle fonti lessicografiche menzionate alla nota 32, che ci citeranno con le seguenti
sigle: TB = Tommaseo-Bellini; M = Mortillaro; MS = Macaluso-Storaci. Si adotteran-
no poi la sigla VS per G. Piccitto-G. Tropea, Vocabolario siciliano, Palermo, Centro
di Studi Filologici e Linguistici Siciliani 1977-2005, 4 voll.; RF per G. Rigutini-P.
Fanfani, Vocabolario italiano della lingua parlata. Nuovamente compilato da G. Rigutini,
Firenze, Barbera 1893; Cher per F. Cherubini, Vocabolario milanese-italiano, Milano,
29 «Scene popolari» verghiane

CR IP
Fattori diafasici: tratti allocutivi,
Fattori diafasici: tratti allocutivi, dati
socioculturali e socioetici, linguaggio settoriale dati socioculturali e socioetici,
linguaggio settoriale
dati idiomatici (sicilianismi; siculotoscanismi; dati idiomatici (milanesismi;
toscomilanesismi; toscanismi;
toscanismi; settentrionalismi; stereotipi settentrionalismi; stereotipi
“popolari”) “popolari”)
dati etnoculturali (locali e
dati etnoculturali (locali e delocalizzati) delocalizzati)
codice gestuale codice gestuale
linguaggio figurato (quasi
linguaggio figurato (regionale che assicura la assolutamente delocalizzato,
caratterizzazione locale, ma anche delocalizzato) assicura la medietà colloquiale del
testo)
linguaggio religioso linguaggio religioso
linguaggio formulare o connotato
linguaggio formulare o connotato etnicamente socialmente
tratti mimetici del parlato (sintassi
tratti mimetici del parlato (sintassi marcata; marcata; italiano dell’uso medio;
italiano dell’uso medio; parlato-parlato) parlato-parlato; metalinguaggio
fatico dei personaggi stessi)
strategie stilistico-retoriche strategie stilistico-retoriche
(ripetizioni, sottolineature fonico-ritmiche, (ripetizioni, sottolineature fonico-
ecc.) ritmiche,ecc.)
elementi scenici
elementi scenici (distribuzione degli spazi e ritmo
(distribuzione degli spazi e ritmo dell’azione) dell’azione)
stilemi intertestuali stilemi intertestuali

Scorriamo nell’ordine gli esempi48, all’interno di ciascuna rubrica di


riferimento49.

Imperial Regia Stamperia 1839-1856, 5 voll. In assenza di indicazione vocabolaristica,


il riscontro diatopico proviene dalla competenza linguistica di chi scrive.
48
  Le citazioni sono tratte da Verga, Tutto il teatro con i libretti d’opera cit.; il numero
romano indica per CR la scena e per IP l’atto, il numero arabo la pagina. Si userà il
neretto per mettere in rilievo i tratti discrepanti tra i due testi.
49
  È opportuno avvertire preliminarmente che si tratterà di una rassegna escursiva,
in cui ciascun caso sarà da considerarsi una componente rappresentativa della realtà
testuale, e non il risultato di uno spoglio esauriente, estraneo alle finalità del presente
studio.
30 Gabriella Alfieri

a) fattori diafasici (tratti allocutivi e dati socioambientali)


CR IP
Allocutivi di cortesia e appellativi Allocutivi di cortesia e appellativi
deittico-referenziali: gnà, comare, zio, zia deittico-referenziali: sor, sora, zio (deissi di
(deissi sociale), compare ecc.; parentela); sora padrona (II 256)
pronomi allocutivi: allocutivo di cortesia Voi; pronomi allocutivi: allocutivo di cortesia Lei
allocutivo “intimo” tu (Turiddu a Santa, ma comunicazione asimmetrica (confidenziale Voi;
Santa a Turiddu dà del voi) gerarchico Lei): La Signora. Cos’è, Battista?
comunicazione asimmetrica: tu (Gnà Nunzia a Cos’è questo chiasso? Vi par d’essere all’osteria?
Santa) Battista (cavandosi il berretto). Scusi tanto, sora
allocuzione confidenziale: Gnà Nunzia a Santa. padrona!... mia moglie, qui, che mi diceva… (I
O tu! Che vuoi? (I 210; cfr. sic. attia “dico a te”) 240-241).
Màlia. […] poi quando m’ammalai la prima
volta, prese a venire anche la sera… Lì, dov’è
adesso vossignoria… (II 262)
allocutivi familiari: madre allocutivi familiari: mamma, babbo
madre-figlio = tu; figlio-madre = voi (moglie-marito; padre/madre-figlia; sorella-
marito-moglie = voi sorella; zio-nipote): tu (simmetrico tra
Giuseppina e Màlia, ma Gilda a Giuseppina dà
del voi)
allocuzione cortese: Carlini. Grazie, bontà
sua (I 235)
Giuseppina. […] Quante gentilezze, sor Carlini!
(II 267)
La modella […]. Di grazia, il sor Flori, quello che
fa il pittore? (I 236)
saluti
Battista (col berretto in testa, in tono burbero, al
prete). Riverisco!
Don Gerolamo. Buona sera, Battista.
Battista (come sopra). Riverisco (II 263)
Dati onomastici: Turiddu, Lola, Santa, Alfio, Dati onomastici: Giuseppina, Malia, Battista,
Pippuzza, Nunzia, Brasi, Filomena; comare Luisina, Assunta (= nome più tipicamente
Camilla; compare Peppi (comparsa) meridionale)
Assetto deittico: la gnà Lola, comare Santa, ecc. Assetto deittico: la Malia, la Gilda, il Carlini,
Nelle didascalie d’autore tutti i personaggi con la Dorina
appellativo, tranne Turiddu e Santa (focus Si ode la Luisina strillare (I 233, did. d’autore)
dell’autore sui protagonisti) Battista. La sora Gilda l’avrà da far con me! (I
Turiddu: E se mai… alla Santa, che non ha 240)
nessuno al mondo, pensateci voi, madre (VIII, La modella. […] Di grazia, il sor Flori, quello che
228) fa il pittore? (I 236)
Assunta […] La sua Gilda è qui vicino, dal sor
Ambrogio, e aspetta che la chiami (II 266)
Assetto deittico: il nome dei personaggi è
sempre senza appellativo nelle didascalie
d’autore, tranne per Don Gerolamo
Allusività deittica dei personaggi: Luisina. C’è
un certo tizio (I 233) (espressività urbana)
dati circostanziali dati circostanziali: Secolo! Pungolo! Corriere
Siepi di fichidindia; la caserma dei carabinieri, a della sera! (I 233 e 234)
due piani, collo stemma sul portoncino (I 209) sora Giuseppina. Vuoi vedere le figure
dell’«Illustrazione»? (II 256).
Preparazione della cena a base di riso (II 258).
31 «Scene popolari» verghiane

coordinate deittico-spaziali coordinate deittico-spaziali


Gnà Nunzia. È andato a Francofonte per il vino (didascalia d’autore) In Milano, epoca presente
(I 210) Luisina. Parlava di buttarsi nel naviglio,
Zio Brasi. O compar Alfio, che potete pigliarlo nientemeno! (I 234)
un viaggio per Militello? (I 212)
Dati folclorici: Pasqua e suoi elementi Dati folclorici: Il San Giorgio
cultuali Màlia. La sora Luisina sarà andata a fare il San
Pippuzza. Allora mi contento di mangiarmele [le Giorgio anche lei (II 255)
uova] coi miei figliuoli, e far la Pasqua anch’io Carlini (entrando gaiamente). Ehi, sora Màlia!
piuttosto (I 211) San Giorgio anche per lei! […] La bella
scampagnata eh, sora Luisina! (II 267)
Brindisi rituale il giorno di Pasqua (VI-VII 224- La Sonnambula
226).
linguaggio settoriale linguaggio settoriale
Zio Brasi. O compar Alfio, che potete pigliarlo Giuseppina. E lui ora mi pianta l’alloggio, vede?
un viaggio per Militello? (I 212) Carlini. Meglio. Buon viaggio!
Santuzza. Una vicina che veniva pel filato mi Giuseppina. Sicuro! per quello che ci perdo!...
disse di aver visto compare Turiddu lì dalle cinque lirette appena, Natale e ferragosto,
nostre parti (I 216) cascasse il mondo! e poi la mesata magra, stirare
Santuzza. Ieri sera venne a dirmi: - Addio, vado e far le stanze… (I 237)
per un servizio (I 216). Turiddu. Vado per un
servizio, madre (VIII 228; cfr. sic. sirbizzu ‘affare’)
Zio Brasi. Senti, Pippuzza, cerchiamo di far
negozio anche noi. Vieni qua, a casa mia (I 211)
Zio Brasi. Aspettate, aspettate, gnà Nunzia; noi
che abbiamo bottega aperta (I 217; sic. aviri putìa)
Valore gergale nel duello rusticano: Senso letterale nell’interazione padrone-
Turiddu. Che avete da comandarmi qualche cosa, servitù
compar Alfio? Angiolino (voltandosi verso l’interno) Pronto!
Compare Alfio. Niente, compare. Quello che Comandi! (I 245)
volevo dirvi lo sapete.
Turiddu. Allora sono qui ai vostri comandi (VII
227)

b) dati idiomatici
b1) dialettismi (lessicali, sintagmatici e sintattici)
sicilianismi Milanesismi
Zio Brasi. O compar Alfio, che potete pigliarlo Battista. Cara! S’è per la mia figliuola, non so
un viaggio per Militello? (I 212; cfr. sic. viaggiu che dire… E tratto io! A condizione che pago io
‘corsa, commissione per trasporto’) per tutti!... (II 268; cfr. mil. trattà ‘offrire’ Cher.)
sicilianismi allusi o sicilianismi semantici
Turiddu. Colpa tua: che ti sei messa in capo non
so che cosa; e vai a svergognarmi con questo e
con quello, e a spiare dei fatti miei.
Santuzza. No, non sono andata a domandare (II
218; sic. spiari ‘chiedere, domandare’)
costrutti sintagmatici
Compar Alfio. Non ha il berretto rosso di
bersagliere? (I 212)
Gnà Nunzia. Poi ci sono tanti che hanno il
berretto rosso di bersagliere (I 215; sic. di per
‘da’)
32 Gabriella Alfieri

calchi sintattici siciliani


Gnà Nunzia. (facendosi la croce) O figlia di Dio,
cosa mai vieni a contarmi la santa giornata ch’è
oggi! (I 216; Figghia do Signuri, chi mi veni e cunti
a santa jurnata ca è oggi?)
Santuzza. In chiesa ci ha da andare chi ha la
coscienza netta (III 220)
Turiddu. […] Ora manderemo a chiamare
compar Alfio vostro marito, e ha da bere con noi
lui pure (VI 225; sic. aviri a ‘dovere’)
Turiddu. Lascia stare la gnà Lola ch’è per casa
sua. […] Ora la gnà Lola è maritata per casa sua
(I 219; ppi casa sò ‘per conto suo, a casa propria’)
sicilianismi dissimulati sicilianismi riconvertiti
Gnà Nunzia. O poveretta me! (I 215; Mischinedda Giuseppina. Ah, meschina me!... (I 242;
di mia!) Mischina di mia!)
calchi sintattici siciliani
Battista. Sono un povero diavolo, ma il mio
onore non lo voglio toccato! (II 266; l’anuri miu
nun ’u vogghiu tuccatu)

b2) siculotoscanismi toscomilanesismi


core; limosina (I 216) Partito!... così all’improvviso!... È un bel mobile!
e risichi di farmi ammazzare? (II 218; MS, TB) glielo mandi a dire!... Un bel figuro! glielo mandi
Pippuzza. Volet’ova, gnà Nunzia? (I 211). a dire, da parte della modella!... (I 236); Gilda.
Badi ora, che riversa… (I 247)
Gnà Nunzia. E te’ i danari (I 211) Giuseppina. Te’! vuoi saperlo? A tua figlia
cominciano a ronzarle i mosconi intorno!... Te’!
piglia! (I 240)
siculo-tosco-milanesismo
Giuseppina. No, no… anche lui!... Chetati ora!
(II 258)
Giuseppina. Sì, sì, sta quieta. (II 259)
Màlia (stringendole la mano, e tenendosela vicina)
No, mamma. Sto quieta, guarda!
Assunta (piano a Màlia). Stia cheta, stia cheta, lo
lasci cantare (II 266)
Gilda. Non ti stancare. Noi staremo qui, vicino a
te; ma tu sta cheta (II 273; cfr. sic. Cuitarisi; starisi
cuetu; tosc. Chetarsi; mil. Quetass ‘star calmo’,
Cher.)
Sicilianismo d’autore e milanesismo dei
personaggi:
Carlini (entrando gaiamente) Ehi, sora Màlia!
San Giorgio anche per lei! (Dandole delle arance)
Prenda, prenda senza cerimonie… […]
Luisina (dando anche lei delle arance a Giuseppina).
Aranci di Palermo, li abbiamo comprati apposta
(II 266).
innesto frastico siciliano-toscano
Zio Brasi. Ora s’ha da berci su, come avete detto
voi (VI 226; sic. aviri a “dovere” + tosc. si per noi:
si ha da “dobbiamo”)
33 «Scene popolari» verghiane

b3) settentrionalismi
dinanzi la mia porta (I 215) cavandosi il berretto (I 240, didascalia d’autore)
palanche (I 211) Battista. Non sono mica di quelli che chiudono
pittima! (I 214; anche sic. MS; TB) gli occhi! (I 240)
bel moretto (VI 225; ma citazione del parlato Giuseppina. Vedi, la tua figliuola che non sta
delle donne di ‘fuorivia’) mica bene! (II 264)

b4) toscanismi
tratti fonosintattici tratti fonosintattici
troncamenti diffusi ma improbabili nel parlato troncamenti diffusi e congruenti col parlato
regionale regionale
Lessemi Lessemi
didascalie didascalie
uscio (I 209 e 216), l’uscio della casetta (I 211), Corte vs. cortile; uscio, porta (della portineria e
davanti all’uscio della gnà Lola (I 216); biancheria di un magazzino), usciale (I 236; II 253); porta
di bucato (I 209); bettola (I 209); viottola che di strada (I 246); paniere, bugia (I 237); secchia (I
si perde nei campi (I 209); tira via; leva il capo 246); sossopra (II 275); rifinita (II 253); gruccia
(I 210); con un paniere infilato nel braccio (I dell’uscio (II 253)
211); panchetto della verdura (I 213); deschetto toscanismo aulico: recato (I 238)
(dell’osteria; VII 227)
dialoghi dialoghi
Compar Alfio. […] Questo è il mio mestiere, badi (I 230); sucidume (I 237); tribolare (I 239);
comare Camilla. Il mio mestiere è di fare il leticare? (I 239); bazzica (I 241); bazzicare (I
vetturale e di andare sempre in viaggio di qua e 245); desinare (I 246; II 272); babbo (II 258)
di là (I 213). Màlia. […] E si stava chiacchierando tutti
Santuzza. L’hanno detto qui or ora, che vi insieme, colla mamma e la Gilda, quand’essa
hanno visto sull’uscio della gnà Lola (II 218). tornava dalla maestra (I 262, “sarta”; cfr. Màlia.
Santuzza. Lo so, che si affacciava ogni volta, Tanto da fare dalla sarta anche lei, povera
quando lo vedeva passare dinanzi la mia porta Gilda! II 235)
(I 215) Battista. E così, non si desina oggi? (I 239)
Santuzza. Non mi scacciate anche dalla porta (I Assunta […] Ora gliela faremo in barba a lui! (II
216) 266)
Carlini. […] Lo fo volentieri (II 269)
Origine Lessicografica Origine Lessicografica
Zio Brasi. Mi vuol sempre cimentare, quel didascalie
diavolo di mia moglie (I 210; sic. spruvari, venendo in corte dalla portineria, collo streghino
pruvari «fare prova, cimentare, esperimentare», acceso in mano; togliendole lo streghino di mano
M) (I 234, 235; RF).
Turiddu. qui ci abbado io (II 218; «Stari accura, Dialoghi
Teniri accura, stare attenti, badare», MS, abbadare, Assunta. Badi, badi! Eccolo qui! (I 230)
TB) Giuseppina. […] Tieni d’occhio la porta, e bada al
Santuzza. Voi andateci, che vi terrò d’occhio la desinare intanto (I 246)
bottega… (I 216)
Santuzza. Non sono ubriaca, compar Alfio, e
parlo da senno (V 223; «Diri ccu tuttu lu seriu.
Parlare, dire da senno» M)
34 Gabriella Alfieri

Costrutti Costrutti
Santuzza. Ero pazza, sì (I 215) Angiolino. Oh la bella compagnia! (I 245)
Turiddu. Intendo che sei una matta con questa Assunta. Con tanti sfaccendati che c’è intorno!...
gelosia senza motivo (II 220) (I 238)
Giuseppina. Con tanti rompicolli che c’è intorno!
(I 240)
Assunta. Ora è finita. Ci si è messa la sonnambula
(II 268)
Assunta. […] Un galantuomo però, la vede bene
(I 242)
Assunta. […] Vede, se l’è venuto in casa, ci è
venuto col buon fine! (I 245)
Carlini […] Non vede ch’è bell’e finita? (I 251)
Màlia. […] Veniva a leggere il giornale…
o portava qualche regaluccio… e si stava
chiacchierando tutti insieme, colla mamma e la
Gilda (II 262)

d) stereotipi “popolari” delocalizzati


Turiddu. Parola mia, comare Camilla! I Carlini (riscaldandosi) Vedo che mi tratta come
bersaglieri, sapete bene, sono come il miele per le un cane! Da un pezzo che non è più quella
donne…con quelle piume. (VI 225). di prima! Ed io, bestia, che le voglio sempre
Turiddu. È in collera perché so io… Vecchi bene!... (I 247).
benedetti! che non si vogliono rammentare di quel Carlini. Lo dica chiaro e tondo che non gliene
che hanno fatto in gioventù! Alla vostra salute, importa più nulla di me!... Mentre mi pareva
gnà Lola! Voi, comare Camilla! Bevete, zio d’aver preso il terno al lotto!... (I 248)
Brasi. Oggi vogliamo uccidere la malinconia! (VI Battista. Alla larga! Gente che porta la jettatura!
226). Non voglio che le portino la jettatura alla mia
figliuola! (II 263)
Dottore […]. No. Dico perché so quel che
succede poi: se campa, è la Madonna che ha
fatto il miracolo; se muore, l’ha ammazzata il
medico. Con queste malattie di cuore non c’è
da scherzare, da un momento all’altro. Io me ne
lavo le mani (II 254).

e) codice gestuale
Gesti di corteggiamento: galanteria di Gesti di corteggiamento: omaggi floreali del
Turiddu bersagliere Carlini a Gilda
gesti di sfida
(Si abbracciano e si baciano. Turiddu gli morde
lievemente l’orecchio)
Zio Brasi. Non hai visto, sciocca, quando gli ha
morsicato l’orecchio? Vuol dire, o io ammazzo voi,
o voi ammazzate me (IX 229)
gesti di vergogna
(Santuzza) imbacuccata nella mantellina (I 214)
gesti di spavalderia gesti di spavalderia
Compare Alfio. Mia moglie sa che la berretta la Giuseppina […]. Te’! Piglia!
porto a modo mio Battista. Io?, Io, piglio? Punto primo, la mia
battendo sulla tasca del petto figliuola sa il suo dovere! punto secondo, se
e qui ci porto il giudizio per mia moglie, e per gli non lo sa glielo insegno io! Colle cattive glielo
altri anche (I 213) insegno! Non sono mica di quelli che chiudono
gli occhi! I mosconi so scacciameli io di torno!...
colle cattive, intendi? (I 240)
35 «Scene popolari» verghiane

Gestualità disperata di Santuzza Gestualità effusiva di Màlia


Gesti di rabbia: Carlini (rimasto un momento
sconcertato, strappandosi il berretto di capo)
Ecco!.. sono un asino!... una vera bestia!... (I
248)
Gesti scaramantici Gesti di maledizione
Zia Filomena (facendosi il segno della croce). Battista (accalorandosi). Io non ho più figlia!
Lontano sia! Chiude l’uscio a chiave, e si mette È morta e seppellita! Ci ho fatto su la croce!
la mantellina in capo, avviandosi verso la chiesa (I Gesticolando e facendo la croce in terra. Ingrata!
213). Io di figlie ci ho questa sola qui! (II 265)
Gesti di presagio: La zia Filomena s’affaccia
sull’uscio della sua casetta colle mani sul ventre
(I 211).
Gesti di disperazione Gesti di disperazione
Tutti corrono verso il fondo vociando; la gnà Giuseppina (correndo come pazza dalla portineria
Nunzia colle mani nei capelli, fuori di sé. Due verso la strada e gridando). Ferma! Ferma!... La
carabinieri attraversano correndo la scena mia Gilda!... La mia figliuola!...
(didascalia, IX 229). Màlia. Ah! sor Carlini, ah!
Fa per correre anche lei e cade sotto il portico,
svenuta.
Carlini (discolpandosi, colle mani in croce sul
petto)
Sora Giuseppina! (I 244)
Gesto di effetto teatrale in chiusura del Gesto di effetto teatrale in chiusura del
dramma dramma
Pippuzza (accorre dal fondo gridando) Hanno Giuseppina (accorrendo colle mani nei capelli).
ammazzato compare Turiddu! Hanno ammazzato Màlia!... Figlia mia!... Figlia mia!... (II 275)
compare Turiddu! (I 229)

f) linguaggio figurato e formulare


Santuzza. Ah gnà Nunzia! che chiodo c’è qui Giuseppina. Ah, poveretta me! Che spina, che
dentro nel mio cuore! (I 212) crepacuore anche quell’altra! (II 260)
Zio Brasi. Ah, voi non andate neppure alle Gilda. Sa, non ho voglia di fare le solite scene,
funzioni di Pasqua, comare Santa? Volete che adesso! (I 247)
recitiamo insieme il santo rosario? (I 217) Giuseppina (a Carlini). Non cominci a far scene
Turiddu. Ah, è questo il grande amore che anche lei, benedetto Iddio! (I 251)
mi porti? Che vai a mettere di queste pulci Carlini. Vede, ho i miei fastidi!... Ciascuno ha i
nell’orecchio di compar Alfio? (II 218) propri fastidi in capo. Non voglio venire a seccar
Turiddu. Io non ti abbandono, se tu non mi metti la gente anche!
colle spalle al muro. (II 219) (II 235)
Turiddu. Finiamola! Me ne vado per troncare Assunta. Bisogna aprire gli occhi! (I 238)
queste scenate! (IV 222) Battista. Non sono mica di quelli che chiudono gli
occhi! (I 240)

f1) metonimie
Metonimia ( > ) metafora
Compare Alfio. I miei interessi me li guardo io, Battista. Devo stare a covare le figliuole? Mi
da me, senza bisogno di quelli del pennacchio (I tocca fare il carabiniere anche?
213). Battista. No, non lo stare a fare il carabiniere (I
240).
36 Gabriella Alfieri

Compar Alfio battendo sulla tasca del petto Battista. Sono un povero diavolo, ma il mio
e qui ci porto il giudizio per mia moglie, e per gli onore non lo voglio toccato! (II 266)
altri anche (I 213) Carlini. Quando la gente se lo merita!...
Santuzza. Piangere non posso, compar Alfio, Bisognerebbe essere senza cuore a piantarli
e questi occhi non hanno pianto neppure quando nei guai.. E un po’ di quella roba in petto ce l’ho
hanno visto Turiddu Macca che m’ha tolto l’onore, anch’io!... Bene o male ce l’ho anch’io!... (II
andare dalla gnà Lola vostra moglie! (V 223) 273)

f2) metafore
Zio Brasi. Ah! […] Eccolo il merlo…(I 217)
Santuzza. E non mi sento qui dentro il fuoco per
voi che mi tradite? (I 219)
Santuzza. Me ne importa per voi che, mentre Battista. È una galera, tale e quale! (I 241)
girate il mondo a buscarvi il pane e a comprar Vede, vede se la sua ragazza è una perla! (I 243)
dei regali per vostra moglie, essa vi adorna la casa Niente… è la coda di quella lunga malattia (I
in altro modo! 244)
Compar Alfio. Cosa avete detto, comare Santa? Battista. Tante! Ne ho il cuore pieno (II 268).
Santuzza. Dico che mentre voi siete fuorivia,
all’acqua e al vento, per amor del guadagno,
comare Lola, vostra moglie, vi adorna la casa in
malo modo! (V 222; cfr. sic. Azzizzari la casa).
Compar Alfio. Ora, se vedete mia moglie che mi
cerca, ditele che vado a casa a pigliare il regalo
pel suo compare Turiddu (V 223)
Turiddu. Sentite, compar Alfio, come è vero Dio
so che ho torto, e mi lascerei scannare da voi
senza dir nulla. Ma ci ho un debito di coscienza
con comare Santa, ché son io che l’ho fatta
cadere nel precipizio (VII 228).

f3) iperboli
Compar Alfio. Scellerati son coloro che ci Battista. Foss’anche Domeneddio, intendi? Farò
mettono questo coltello nel cuore, a voi e a me. una cosa che la metteranno sui giornali! (I 240)
Che se gli si spaccasse il cuore davvero a tutti Carlini. Vorrei essere un signore, guardi! Vorrei
e due con un coltello avvelenato d’aglio, ancora essere un signore per pigliarmela così, com’è…
non sarebbe niente! (V 223) e mantenerla magari a medici e speziali! Glielo
dico qui in faccia! (I 245)
Assunta.Vengo! Vengo! Non ho le ali per volare!...
col paniere pieno, anche! (I 245)
Gilda. […] Ah, vi credevo tutti a spasso. In casa
non c’è una goccia d’acqua. (I 244)

f) linguaggio religioso
Gnà Lola. O Vergine Maria! (VII 218) Giuseppina. La Gilda? Oh Madonna! (I 233)
Giuseppina. Ah, Signore! (I 234)
37 «Scene popolari» verghiane

Santuzza. Gli dicevo che oggi è giornata Giuseppina. Ah, Signore! Cosa viene a
grande; e il Signore, di lassù, vede ogni cosa! (I dirmi!.... (I 234)
220) Giuseppina. Questa, vede, è un angioletto!
Santuzza. O compare Turiddu, perché mi Messa al mondo per portare la croce!
trattate in tal modo? Non mi vedete in faccia? Carlini. Lo so.
Non vedete che piglio morte e passione? (II Giuseppina. Lo sa. E per questo le ha piantato i
218) chiodi anche lei! (I 244)
Gnà Lola. Io ringrazio Iddio, e bacio in terra. Gilda. Tu sei una santa!... Perdonami!... (I
Si china a toccare il suolo colla punta delle dita 249)
che poscia si reca alle labbra Gilda.Vuoi sapere il perché?... No… non
Santuzza. Ringraziatela, gnà Lola, quand’è posso dirtelo, a te che sei una santa! (I 250)
così. Ché alle volte si dice: «Quello, nella Giuseppina […]. Va là! va là! che tu sei nata
terra su cui posa i piedi, non è degno di proprio per portare la croce! (I 251)
metterci il viso» (II 220-221) Angiolino. Sì, poveretta. Il Purgatorio l’ha
avuto qui, lei! (II 257)

g) linguaggio formulare o connotato etnicamente e socialmente


Proverbi citati o discorsivizzati Proverbi citati o discorsivizzati
Zia Filomena. «Il Carnevale fallo con chi vuoi. Giuseppina. Chi ha i guai invece se li tenga! (I
Pasqua e Natale falli con i tuoi» (I 213). 239)
Santuzza. Tanto è vero che l’amore antico non si Giuseppina. Chi ha i fastidi se li tenga […] (I
scorda più (I 215). 241)
Turiddu. Acqua passata! (II 218) Assunta. Il male viene da debolezza e languori
Zio Brasi. Chi ne ha ne spende! (VI 225). di stomaco. Come chi dicesse un sacco vuoto che
Turiddu. Ma io non ero di quelli che, dice il non può reggersi in piedi (II 264).
dettato, Lontan dagli occhi, lontan dal cuore (VI Battista. Perché mi vede angustiato? Perché
225) vede che infine il sangue non è acqua? (II 265)
Zia Filomena. Matrimoni e vescovati dal cielo Stereotipi frastici
destinati (VI 226). Assunta. Sicuro, lo so di positivo (I 241)
Formule di scongiuro Assunta. Cara lei, bisogna esser signori per fare
Zia Filomena (facendosi il segno della croce). ciò che accomoda meglio! Ma che mi scherza?
Lontano sia! (I 213) Un povero diavolo che campa a giornata!... Un
galantuomo però, le vuole bene! (I 242).
Assunta. […] La sora Màlia è tanto una brava
ragazza! (I 243)
Angiolino. […] Mangiare, bere e stare allegri:
ecco quel che ci vuole (II 257)
stile comunicativo rusticano stile comunicativo urbano
Comare Camilla. Spesa, zia Filomena? Angiolino. […] Scappo perché ho da fare.
Zia Filomena. Oggi è Pasqua, colla grazia di Dio! Riverisco.
(I 209) Màlia. Riverisco, sor Angiolino.
Giuseppina. Buona sera, buona sera (II 257)
parlato sciolto colloquiale parlato sciolto colloquiale
Lola: Voi, che state a sentirle di qua fuori le Gilda. Lasciami! Son arcistufa! Non ne posso
funzioni di Pasqua, facendo conversazione? (I più di questa vita! (I 249)
210). Angiolino. La cera non c’è malaccio. Tanto
Comare Camilla. Siete venuto a far la Pasqua meglio. L’Assunta è andata per lei dalla
colla gnà Lola vostra moglie, compar Alfio? sonnambula (II 257)
Compar Alfio. Sì, almeno le feste principali. registro forbito
Zia Filomena. […] Che non ci venite a messa Assunta. Niente… È la coda di quella lunga
voi? malattia (I 244)
Zio Brasi. […] Viene, viene! O compar Alfio, Luisina. Poveretta! Tanto tempo che non
che potete pigliarlo un viaggio per Militello? piglia una boccata d’aria! Ma ora torna la bella
ComparAlfio. S’è per domani, sì, zio Brasi. Oggi stagione! […] Avete visto che bel sole? (II 267)
son venuto per far la Pasqua a casa mia. (I 212) Carlini. Parliamo spesso di lei con sua sorella
e la sua mamma… (II 273-274; cfr. stile
normativo: l’articolo davanti a sua mamma)
38 Gabriella Alfieri

parlato artefatto
Màlia. […] Pensa alla mamma, poveretta, che
ha avuto tanti dispiaceri!... Gliene ho dati tanti,
con questa grama salute!... (I 249)
parlato socialmente connotato
Assunta. O Dio! Signore! Preti e medici dicono
sempre così per farsi merito. Dieno retta a
me, invece! Qui ci vuole la sonnambula. Con
tre lire e una ciocchetta di capelli appena, la
sonnambula vi vede dentro e fuori come in uno
specchio, quello che avete e quello che non
avete, e vi spiattella subito il suo bravo consulto
in due parole (II 254)

h) tratti mimetici del parlato


ciattualizzante ci attualizzante
Santuzza. Che colpa ci ho io? (I 220) Giuseppina. Con due ragazze che ci ho in casa!
(I 237)
Battista. […] Io di figlie ci ho questa sola qui!
(II 265)
dativo etico dativo etico
Gnà Nunzia. Sin qui vieni a cercarmi mio figlio Giuseppina […] Almeno mi vorrà bene a
Turiddu? (I 210) quell’altra? (I 245)
pronomi soggetto pronomi soggetto
Compar Alfio. L’ho visto dalle mie parti, all’alba, Lui non vuol saper altro! (I 239)
mentre arrivavo a casa mia. Egli andava correndo, Essa (riferito a Gilda)
come avesse fretta, e non si accorse di me (I 214) Luisina. Sicuro! Li ho visti vicino al ponte, che
Santuzza. No, non si sbaglia compar Alfio. Era lui, essa gli faceva una gran scena! (I 234)
Turiddu (I 215) Giuseppina. Sì, non lo dico perché è mia figlia;
Santuzza. Egli si metteva a cantare sotto la mia ma essa con uno straccetto di vestito figura
finestra per far dispetto a lei che s’era maritata meglio di una principessa (I 238-239).
con un altro (I 215) Giuseppina. […] Da un po’ di tempo in qua essa
Santuzza. Come potevo dir di no, quand’egli mi ha miglior cera!... (II 269)
pregava […] Allora gli dissi […] Egli nega, perché Carlini. Dopo tanto che le volevo bene!... E
gli faccio compassione (I 216) anch’essa diceva... Diceva almeno!...chi lo sa
Santuzza. Ma essa no! Essa non se lo mise il cuore poi?...Essa era in giro
in pace. (I 214) per Milano tutto il giorno, ed io qui a lavorare
Santuzza. Tu puoi camminarmi coi piedi sulla nel magazzino (II 271)
faccia, ma essa no (IV 222)
Essa (riferito a Lola)
Ed essa non vi ha rubato a me per gelosia? E
non mi sento qui dentro il fuoco per voi che mi
tradite? (II 219)
Santuzza. Me ne importa per voi che, mentre
girate il mondo a buscarvi il pane e a comprar dei
regali per vostra moglie, essa vi adorna la casa in
altro modo! (IV 222)
Santuzza. E lei perché non mi lascia stare, me?
(I 218; cfr: sic. E idda, pirchì nun mi lassa stari, a
mia?)
Santuzza. Tu puoi camminarmi coi piedi sulla
faccia, ma essa no (IV 222)
Essa (riferito a Lola)
Ed essa non vi ha rubato a me per gelosia? E
non mi sento qui dentro il fuoco per voi che mi
tradite? (II 219)
39 «Scene popolari» verghiane

Santuzza. Me ne importa per voi che, mentre


girate il mondo a buscarvi il pane e a comprar dei
regali per vostra moglie, essa vi adorna la casa in
altro modo! (IV 222)
Santuzza. E lei perché non mi lascia stare, me?
(I 218; cfr: sic. E idda, pirchì nun mi lassa stari, a
mia?)

gli dativo trasversale gli dativo trasversale


Assunta […]. Ma quel bel mobile del suo
spasimante ora la pianta col danno e le beffe,
per tornarsene al suo paese, e ben gli stia!....
Brutta sfacciata, che ne ha tanto piacere, lei,
quest’altra…. (restituendole la lettera). (I 238
239)
Màlia. Mi rincrescerebbe tanto… di morire
adesso!...
Carlini. Ma cosa le viene in mente ora?
Màlia […] E anche a lei gli rincrescerebbe vero?
(II 270)

pronome interrogativo pronome interrogativo o esclamativo


Gnà Nunzia. Cosa ti salta in mente? (I 215; Giuseppina. Cosa viene a dirmi! (I 234)
cfr.sic. Chi ti veni ’n testa? o Chi hai ’no Giuseppina. O Madonna! Cosa mi viene a
ciriveddu? o Chi ti passa pa testa? dire? (I 241)
Gnà Nunzia. Cosa mai vieni a contarmi [ &]? Gilda. Nulla, cosa mi vede? (I 247)
(I 216) Màlia. Ma perché? Cos’hai? (I 249)
Compar Alfio? Cosa volete dire? (V 223) Carlini. Cosa vuole che senta? (I 251)
Compar Alfio? Cosa avete detto, comare Dottore […] Cosa vuole che le dica? (II 253)
Santa? (V 223)

Imperfetto modale imperfetto modale


Ha lasciato detto nulla, se venivano a cercarlo?
(I 236)

anacoluti e cambi di progetto anacoluti e cambi di progetto


Santuzza. Lo so… Compare Turiddu, prima Luisina […]. Badi poi che la sua Gilda c’è un
d’andar soldato… si parlavano colla gnà Lola (I certo tizio che le corre dietro (I 233).
215). Giuseppina. […] Bene, dissi bene! Vuoi stare
nella polvere e il sucidume? (I 237)
Santuzza. Io come lo sentivo cantare, quel Giuseppina. Tu poi è meglio darti bel tempo fuori
cristiano, mi sembrava che il cuore mi scappasse casa (I 239)
via dal petto (I 215) Màlia. C’era un giovane… che gli volevo bene…
(II 261)
Santuzza. Ora che sono in questo stato… che i Carlini. Eh! So quel che dico!... Chi vuole che
miei fratelli quando lo sapranno m’ammazzano gliene importi (II 273)
colle sue mani stesse! (I 216) dislocazioni a sinistra e a destra
Carlini. Però, scusi, alle volte… la sora Gilda
non doveva mandarla da un giovanotto a far le
stanze… (I 237)
Màlia. Mamma, il riso l’hai messo a bollire? (II
258)
Battista. Io tre lire le spendo volentieri, se fosse
vero, per la mia figliuola (II 265)
Carlini. Dica, la vuole la medicina? (II 274)
Gilda. Dispiaceri ne abbiamo tutti (II 274)
40 Gabriella Alfieri

Dislocazioni a sinistra e a destra


Compar Alfio. I miei interessi me li guardo io,
da me, senza bisogno di quelli del pennacchio (I
213).
Gnà Lola. Non v’incomodate per me, compare
Turiddu, che la strada la so coi miei piedi, e non
voglio guastare i fatti vostri (I 221).
Gnà Nunzia. Le funzioni sacre non voglio
perderle anch’io però (I 216).

che polivalente che polivalente


subordinante generico subordinante generico
Gnà Lola. Mi disse: vado dal maniscalco pel baio Carlini. Lasci, lasci fare a me (menando la tromba)
che gli manca un ferro, e subito vi raggiungo in che almeno son buono per questo (I 247)
chiesa (I 210). Gilda. Badi ora, che riversa… (I 247)
Gnà Nunzia. O come sai di quest’altra cosa? Assunta. Qui, che non si vedono… (II 255)
Santuzza. Lo so, che si affacciava ogni volta,
quando lo vedeva passare davanti alla mia porta valore temporale
(I 215) Carlini. Penso a quei bei tempi che si era tutti qui,
Turidddu. Qui? In mezzo alla strada? felici e contenti (II 275)
Santuzza. Non me ne importa.
Turiddu. La gente che può vederci! (I 218)
Gnà Lola. Vado a casa perché sono in pensiero
per mio marito, che non l’ho visto in chiesa.
Turiddu. Non ci pensate, che capiterà qui in
piazza (VI 224)
Compar Alfio. Grazie tante, compare Turiddu.
Del vostro vino non ne voglio, che mi fa male
(VII 227)
parlato riferito parlato riferito
Il monologo rievocativo di Santuzza (I 215-216) La lettera anonima parafrasata da Assunta
Assunta (leggendo tra sé la lettera) Dice così, in
sostanza, ch’è una stupida… una brutta stupida,
che non è altro, dice… E si crede non so che
cosa…Ma quel bel mobile del suo spasimante
ora la pianta col danno e le beffe, per tornarsene
al suo paese, e ben gli stia!.... Brutta sfacciata,
che ne ha tanto piacere, lei, quest’altra….
(restituendole la lettera). Dev’essere una donna
che scrive (I 238 239).

i) strategie stilistico-retoriche
ripetizione ripetizione
Compar Alfio. Questo è il mio mestiere, Assunta. […] Un galantuomo però, la vede
comare Camilla. Il mio mestiere è di fare il bene.
vetturale (I 213) Assunta. La vede bene s’è un galantuomo! (I
242)
il duettare ritmico da melodramma tra Carlini. Mi tratta come un cane oggi, guardi!
Santuzza e Turiddu scandisce la passionalità Gilda. Sa, non ho voglia di fare le solite
esternata dai personaggi (II 217-220; scene, adesso!
ferrone, barsotti) Carlini. O cos’ha, infine? Me lo dica, cos’ha?
Gilda. Nulla, cosa mi vede?
Carlini (riscaldandosi). Vedo che mi tratta
come un cane! (I 247)
41 «Scene popolari» verghiane

sottolineature fonico-ritmiche sottolineature fonico-ritmiche


allitterazioni, omoteleuti, rime, allitterazioni, omoteleuti, rime,
assonanze assonanze
Santuzza. No! Ier sera era ancora qui (I 211; Carlini […] lavoravo contento, pensando…
probabile mimesi del sic. assira “ieri sera”). Ecco, stasera poi la vedo!... Si stava felici e
Zio Brasi. […] O zia Filomena, oggi che è la contenti tutti… Si rammenta?
Santa Pasqua, e fanno pace suocera e nuora, Màlia. Sì, mi rammento (II 271)
abbiamo da abbracciarci e baciarci anche noi? (I Carlini. Penso a quei bei tempi che si era tutti
211) qui, felici e contenti (II 275)
Compar Alfio. Questo è il mio mestiere,
comare Camilla. Il mio mestiere è di fare il
vetturale e di andare sempre in viaggio di qua e
di là (I 213).
Santuzza. L’hanno detto qui or ora, che vi
hanno visto all’alba sull’uscio della gnà Lola (I
218; cfr.sic. ora ora).
Santuzza. In chiesa ci ha da andare chi ha la
coscienza netta, gnà Lola (III 220).
Turiddu. Tu piuttosto! Vuoi farmi l’affronto
di mostrare a tutto il mondo che non son
padrone di muovere un passo; che mi tieni
sotto la tua scarpa come un ragazzo (IV 222)
Santuzza. Dico che vostra moglie va attorno
carica d’oro come la Madonna dell’altare, e vi
fa onore, compare Alfio! (V 223)
Compar Alfio. Sentite! S’è la verità che
m’avete detto, allora vi ringrazio, e vi bacio
le mani, come se fosse tornata mia madre
istessa dal camposanto, comare Santa (V 223;
traslato, non banale saluto siciliano; costrutto rima esplicita
ritmato da allitterazione e prostesi) Giuseppina. Sì, non lo dico perché è mia
Turiddu. Ora abbiamo a bere un dito di vino figlia; ma essa con uno straccetto di vestito
tutti qui, amici e vicini, alla nostra salute, e far figura meglio di una principessa (I 238-239).
la Buona Pasqua (VI 224)
Turiddu. E voi madre, abbracciatemi come paronomasia
quando sono andato soldato, e credevate che Assunta. E poi… dica lei stessa… la
non avessi a tornare più (VIII 228) sposerebbe una ragazza malaticcia, com’è
rima allusa sempre la Màlia, dica? (I 242)
corna: adorna
Santuzza. Me ne importa per voi che, mentre
girate il mondo a buscarvi il pane e a comprar
dei regali per vostra moglie, essa vi adorna la
casa in altro modo!
Compar Alfio. Cosa avete detto, comare
Santa?
Santuzza. Dico che mentre voi siete fuorivia,
all’acqua e al vento, per amor del guadagno,
comare Lola, vostra moglie, vi adorna la casa
in malo modo! (V 222; cfr. sic. Azzizzari la
casa).
Iddu: Turiddu
No, non si sbaglia compar Alfio. Era lui,
Turiddu (I 215)

l) elementi scenici
spazio pubblico (piazza, chiesa, osteria) spazio semipubblico (portineria) e privato
(mura domestiche)
azione corale azione di gruppi
dramma plateale dramma intimo
42 Gabriella Alfieri

m) stilemi intertestuali (marcati con la sottolineatura)


Novelle o Romanzi IP
CR (Premendosi il petto colle mani, balbettando
Gnà Nunzia. Perché mi hai fatto segno di star dall’angoscia) (I 243)
zitta? (Vacillando, e scostandola colle mani tremanti).
Santuzza non risponde e china il capo Oh Mamma! (I 243)
Gnà Nunzia. Ah!... Cosa ti salta in mente (I (Màlia lo guarda accorata un breve istante negli
215) occhi, e china il capo facendo un gesto vago,
Dramma intimo senza aprir bocca) (I 244).
- Ami qualcheduno, figlia mia?
Bice spalancò gli occhi all’improvviso, tutta Giuseppina (accarezzandola sui capelli).
una fiamma in volto. Poi, con quegli occhi Quest’altr’anno, se Dio vuole, si andremo
sbarrati e quasi paurosi, fissi negli occhi tutti insieme a fare il San Giorgio.
pieni di lagrime della madre, balbettò con Màlia (chinando il capo due o tre volte
un accenno ineffabile d’amarezza e quasi di dolcemente). Sì, mamma… (II 255-256)
rimprovero:
- Oh, mamma!... (p. 9)
- Povera bimba mia!
Povero amore! Guarirai presto, sai!
L’ha detto il medico.
- Sì, mamma.
- E… e… sarai felice.
La figlia le fissava sempre in viso quello
sguardo.
- Sì, mamma (pp. 8-9)

I Malavoglia
Compare Alfio
Se voi mi volete ancora, comare Mena, disse
finalmente; io per me son qua. […]
- Se voi siete vecchia, anch’io sono vecchio,
ché avevo degli anni più di voi, quando
stavamo a chiacchierare dalla finestra, e mi
pare che sia stato ieri, tanto m’è rimasto in
cuore. Carlini. Si stava felici e contenti tutti… Si
[…] – e vi avrei detto di sì anche quando rammenta? (II 271).
avevamo la Provvidenza e la casa del nespolo,
se i miei parenti avessero voluto, che Dio sa
quel che ci avevo nel cuore quando ve ne Giuseppina. Ah, poveretta me! Che spina, che
siete andato alla Bicocca […] vi rammentate? crepacuore anche quell’altra! (II 260)
(cap. XV)
Compare Alfio. Vi rammentate quando sono
partito per Bicocca? […] Ora ogni cosa è
cambiata (cap. XV)

La Longa (alla morte del marito) si sentiva


una spina nel cuore
(dopo la morte di Luca) si sentiva fitte nel
cuore tutte quelle spade d’argento che ci aveva
la Madonna (cap. VIII)
43 «Scene popolari» verghiane

Mastro-don Gesualdo Carlini (rimasto un momento sconcertato,


(in contesti vari interiezioni del tipo Quanti strappandosi il berretto di capo) Ecco!.. sono un
bocconi amari! Sono una bestia! ecc.) asino!... una vera bestia!... (I 248)
Carlini. Mi struggevo per lei, mi sarei cavato
il sangue dalle vene per farla contenta… […]
Come un Giuda mi ha tradito. […] Ne ho
inghiottito tanto dell’amaro!... Ne ho il cuore
grosso così!... […] Qui l’ho persa la mia bella
pace! L’ho avuto qui il boccone amaro! (II
271-272).
Bollettino sanitario
«Lasciatemi in pace, Lasciatemi in pace […] Carlini. Che dispiaceri vuole aver lei? Lei
Che ve ne importa? […] Voi siete bella, sana, bella, lei senza fastidi, lei portata in palma di
giovane, ricca. […] Lasciatemi in pace. mano!... (II 274)

Qualche sottolineatura meritano degli esempi il cui rilievo stilistico


rimane sacrificato nell’esposizione schematica.
Emblematica l’alternanza uscio/porta che si qualifica una discrimi-
nante non semantica ma ritmica, in quanto fa assonanza con volta:

Santuzza. Lo so, che si affacciava ogni volta, quando lo vedeva passare dinanzi
la mia porta (I 215).

Così, nella seconda occorrenza il Verga preferisce sacrificare l’al-


litterazione tra o, r, a nella sequenza porta/ora/Lola per rappresentare
mimeticamente la concitazione emotiva del personaggio mediante
la scorrevolezza fonica garantita dalla duplice opzione toscana per il
sintagma avverbiale or ora, con elisione della vocale finale rispetto
al dialettale e topico ora ora, e per il lessema uscio che allittera con la
preposizione articolata che lo precede; non si perde invece la cadenza
cantilenante marcata da assonanza (or ora/Lola):

Santuzza. L’hanno detto qui or ora, che vi hanno visto sull’uscio della gnà
Lola (II 218).

Ancora, acquista particolare pregnanza un enunciato di sicura equi-


pollenza siculo-toscana, come il seguente:

Pippuzza. Volet’ova, gnà Nunzia? (I 211).

L’espressione sottolineata ricalca fedelmente il siciliano Vuliti ova?,


benché l’elisione e la monottongazione orientino decisamente verso il
toscano. Da non sottovalutare, ai fini della sonorità del parlato teatra-
le nell’esecuzione scenica, l’effetto allitterante creato dalla ripetizione
di v e di o.
44 Gabriella Alfieri

È un caso emblematico di come il toscanismo lessicale o fraseologi-


co, in sé o come elemento maieutico di settentrionalismo, costituisce
la base espressiva che assicura a CR la dimensione idiomatica media
e colloquiale, laddove la sicilianità rimaneva affidata alla sintassi50.
Basti aggiungere questo pregnante esempio nel concitato dialogo tra
Turiddu e la sua amante:

Senza dirci niente comare Lola, che ve ne andate così, senza dirci niente! (VI
224).

Dove quel costrutto preposizionale che fodera l’enunciato ricalca


un tipico modulo della sintassi regionale siciliana, e concentra nella
struttura implicita l’icasticità dell’accusa dell’amante abbandonato,
che si sarebbe perduta nell’eventuale e più trasparente frase esplicita
Senza che ci diciamo nulla.
Geniale definirei l’innesto di costrutto e lessico siciliano con giro di
frase toscano nella battuta di zio Brasi:

Ora s’ha da berci su, come avete detto voi (VI 226; sic. aviri a ‘dovere’ + tosc.
si ha da ‘dobbiamo’).

Non meno icastico l’uso di un sicilianismo semantico, immedia-


tamente decodificato nella battuta successiva e poi ripreso nel senso
‘italiano’ non a caso sotto forma di perifrasi, nel concitato duetto tra
Santuzza e Turiddu:

Turiddu. Colpa tua: che ti sei messa in capo non so che cosa; e vai a svergo-
gnarmi con questo e con quello, e a spiare dei fatti miei.
Santuzza. No, non sono andata a domandare
[…]
Turiddu. Ah, sai anche cotesto? Brava! Mi fai la spia in tutto e per tutto! (II
218-219; sic. spiari ‘chiedere, domandare’).

Tra gli stereotipi delocalizzati si segnala il brindisi di compare Tu-


riddu:

50
  L’acuta notazione, confermata dalla nostra analisi, si deve a Carmelo Musumarra
(Il linguaggio cit., p. 23), che segnalava la contiguità in CR di un efficace che poliva-
lente e delle forme lessicali toscane maniscalco e baio.
45 «Scene popolari» verghiane

È in collera perché so io… Vecchi benedetti! che non si vogliono rammentare di


quel che hanno fatto in gioventù! Alla vostra salute, gnà Lola! Voi, comare Ca-
milla! Bevete, zio Brasi. Oggi vogliamo uccidere la malinconia! (VI 226).

Potrebbe stupire, a prima vista, l’opzione dell’autore per l’aulico uc-


cidere nella formula finale, dove sarebbe riuscito più consono allo stile
popolare ammazzare la malinconia. Ma, a un’osservazione più meditata
e attenta, si avverte la sagacia stilistica del Verga nel riservarsi per la
drammatica interiezione del finale il più connotato ammazzare, co-
stantemente adoperato da Turiddu e Santuzza negli accalorati duetti
che anticipano il tragico epilogo.
Analogo funzionalmente lo stereotipo applicato al tipografo, deluso
dall’abbandono di Gilda:

Carlini (riscaldandosi) Vedo che mi tratta come un cane! Da un pezzo che non
è più quella di prima! Ed io, bestia, che le voglio sempre bene!... (I 247).

Con una tecnica già collaudata nei Malavoglia, il Verga restituisce


contiguamente il termine proprio della metafora, apparentemente
anticipato dal paragone precedente, sicché il modulo effettivamente
retrostante all’enunciato come presupposizione semantico-pragmatica
sembrerebbe ‘le vado ancora dietro come un cane’.
Particolare spicco assume il codice gestuale, che, non solo ricalca i
moduli già felicemente sperimentati dall’autore per la scrittura novel-
listica e per I Malavoglia51, ma sembra costituire, col linguaggio rituale
e gergale, uno degli elementi di continuità con il precedente teatro
popolare siciliano, incarnato dai Mafiusi di Mosca e Rizzotto52. Così un
gesto altamente caratterizzante dell’ethnos, come le mani sul ventre, che
nella scrittura narrativa alludeva con elevatissimo tenore simbolico
alla comunicazione della perdita di un familiare nella comunità fem-
minile, perde la sua connotazione ancestrale nella spettacolarizzazione
del lutto implicata dal dramma, limitandosi a denotare l’attitudine di
riposo delle donne a fine giornata, come nella didascalia della scena
iniziale, che comunque non esclude una sfumatura di presagio:

51
  Si veda in proposito G. Alfieri, Ethnos rusticano ed etichetta mondana. La gestua-
lità nel narrato verghiano, in «Annali della Fondazione Verga», IV, 1987, pp. 7-77, e T.
Telmon, La gestualità narrativa verghiana. Un esercizio di lettura, in Vita dei campi (1880-
1897), in «Annali della Fondazione Verga», XVII, 2000, pp. 215-239.
52
  Barsotti, Verga drammaturgo cit., p. 48.
46 Gabriella Alfieri

La zia Filomena s’affaccia sull’uscio della sua casetta colle mani sul ventre (I
211).

La tragica morte di Turiddu, invece, viene annunciata dal notissimo


urlo di Pippuzza, accompagnato dalla seguente didascalia d’autore:

Tutti corrono verso il fondo vociando; la gnà Nunzia colle mani nei capelli,
fuori di sé. Due carabinieri attraversano correndo la scena (IX 229).

Con immutata allusività si ritrova in CR un modo figurato che nei


Malavoglia connotava sistematicamente la tresca fra don Michele e la
Santuzza, e nel dramma è adoperato dall’ambiguo stalliere per fare le
sue profferte alla ragazza già sedotta da Turiddu:

Zio Brasi. Ah, voi non andate neppure alle funzioni di Pasqua, comare Santa?
Volete che recitiamo insieme il santo rosario?
Santuzza. Lasciatemi stare.
Zio Brasi. Eh!... che non vi mangio, diavolo!... Come se non si sapesse… (I
217).

Analogo il caso di un efficace cumulo di espressioni figurate nella


delazione di Santuzza al carrettiere tradito dalla moglie Lola:

Compar Alfio. […] Ma se mentite, per l’anima dei miei morti! Vi giuro che
non vi lascerò gli occhi per piangere, a voi e a tutto il vostro infame parentado!
Santuzza. Piangere non posso, compar Alfio, e questi occhi non hanno pianto
neppure quando hanno visto Turiddu Macca che m’ha tolto l’onore, andare
dalla gnà Lola vostra moglie! (V 223).

La metonimia degli occhi si innesta da una parte con la locuzione


ridondante vedere con questi occhi, atta a ribadire l’autenticità della
testimonianza, e rinvia dall’altra alla minaccia di compare Alfio, che
a sua volta consiste in una metafora riletteralizzata. Secondo una pro-
cedura semantico-stilistica assai congeniale alla sua pratica scrittoria,
il Verga parte infatti dal modo di dire non lasciar gli occhi per piangere,
azzerandone il senso figurato corrente di ‘lasciare privi di ogni mezzo
di sostentamento’, per recuperarne il senso letterale e potenziarlo fino
a dotarlo di valenza simbolica.
Ma non è questo l’unico addensamento semantico-simbolico nel
dialogo pieno di pathos fra la stessa Santuzza e compar Alfio, in cui
47 «Scene popolari» verghiane

l’iterazione di espressioni e battute contrappunta e rafforza l’effetto


duettistico del precedente dialogo di Turiddu e Santa53:

Santuzza. Me ne importa per voi che, mentre girate il mondo a buscarvi il


pane e a comprar dei regali per vostra moglie, essa vi adorna la casa in altro
modo!
Compar Alfio. Cosa avete detto, comare Santa?
Santuzza. Dico che mentre voi siete fuorivia, all’acqua e al vento, per amor
del guadagno, comare Lola, vostra moglie, vi adorna la casa in malo modo! (V
222).

Nel secondo enunciato della ragazza si depotenzia il tenore idioma-


tico della prima versione delatoria dell’adulterio e si rincara la conno-
tazione dell’infedeltà di Lola, che tradisce il marito devoto e laborio-
so infangando il suo onore. Lo conferma l’etimologia dialettale della
perifrasi con cui sia nel testo novellistico che in quello drammatur-
gico viene designato l’adulterio: vi adorna la casa, in effetti, si rivela
un’espressione in codice che cela una pregnante allusività. Si osservi
innanzitutto che adorna fa rima con corna, costituendo – secondo una
procedura stilistica usuale in Verga – un fattore ritmico-evocativo non
certo casuale ai fini diegetico-rappresentativi. Basti rileggere il testo
della novella in cui la battuta di Santa è pressoché identica a quella
del dramma:

Avete ragione di portarle dei regali […] perché mentre voi siete via vostra
moglie vi adorna la casa54!

È altresì indicativo ai fini della convinta soluzione stilistica verghia-


na che nell’apparato della versione novellistica di Cavalleria rusticana
non risultino varianti per questa battuta.
Alla base della sagace insinuazione di Santuzza sembrerebbe esserci
la locuzione azzizzari la casa, anzi propria per il VS (s.v. Azzizzari) di
Catania e Ragusa, che letteralmente vale ‘rassettare, tenere in ordine
la casa’ o «adornare, rassettare con diligenza», secondo il Macaluso
Storaci (s.v. Azzizzari), che, ancora una volta, si conferma la fonte pri-
vilegiata delle traduzioni verghiane dal siciliano. Il Mortillaro (s.v.),
basato sulla varietà palermitana e occidentale del dialetto, suggeri-

  Cfr. Ferrone, Il teatro cit., p. 149.


53

  Verga, Vita dei campi cit., p. 79.


54
48 Gabriella Alfieri

sce per il verbo azzizzari la connotazione ironica di «procacciarsi dei


guai», che potrebbe anche non essere estranea alla scelta espressiva
verghiana, ma non attesta il modulo azzizzari la casa, confermandone
dunque l’estrazione etnea. Adduce invece i sinonimi cunsari o cunzari
(tradotto con «adornare, abbellire, racconciare») e arrisittari «riordi-
nare, rassettare», diffusi anche nella Sicilia orientale che comunque
ribadiscono in negativo la vera origine dell’espressione figurata di CR.
Un’attestazione secondaria potrebbe poi essere quella di cunzari ‘ab-
bellire, adornare’ che, secondo il VS, nell’ennese dà luogo alla locu-
zione cunzari artarina «ornare gli altarini», nel senso figurato di ‘gestire
una casa di prostituzione’. Da segnalare poi, ai fini dell’azione scenica
che effettivamente presenta l’uscita di Turiddu appena ritorna compar
Alfio, il proverbio aviri a casa cu ddu porti «di donna maritata: ricevere
l’amante in casa appena ne sia uscito il marito»(VS, s.v. casa).
Ben più lineare invece il caso della nota perifrasi m’ha tolto l’onore,
diffusa anche nel cinema neorealista o nella commedia di costume
novecentesca, adoperata dalla stessa Santuzza per accusare il suo ex
amante di averla sedotta e abbandonata (V 223). Solo il Mortillaro
attesta, al lemma Onuri, il senso di «pudicizia» e «castità», senza tutta-
via addurre il nesso fraseologico Livari l’onuri, diffusissimo nel dialetto
parlato; anche il VS, s.v. Onuri, segnala come sottolemma il significa-
to di «onorabilità di una donna».
Ancora una battuta accorata di Santuzza merita un commento spe-
cifico:

O compare Turiddu, perché mi trattate in tal modo? Non mi vedete in faccia?


Non vedete che piglio morte e passione? (II 218).

Il modulo sottolineato si potrebbe attribuire all’autonoma creatività


verghiana senza il sussidio dei vocabolari, innanzitutto il Mortillaro
che, s.v. Passioni, adduce e chiosa il modo di dire «Patiri morti e passio-
ni, per sim. vale Soffrire molto, Soffrire morte e passione, Patiri morti
e passioni pri na pirsuna, vale amarla, favorirla ciecamente, e forse più
che non si dovrebbe, idolatrare». Né va ignorata l’attestazione del ca-
tanese Castagnola, che, s.v. Morti registrava la locuzione: «Pigghiari
morti e passioni pri na cosa, prendere gusto di checchessia, dilettarsene
unicamente e grandemente. Far d’una cosa suo paradiso»55. Con una
procedura tutt’altro che insolita, il Verga combina due sensi di espres-

  Cfr. M. Castagnola, Dizionario fraseologico siciliano-italiano, a cura di P. Mazza-


55
49 «Scene popolari» verghiane

sioni metaforiche diverse per ottenere una figura fraseologica partico-


larmente pregnante. Ma il gioco di intrecci formali e semantici non
si ferma qui, se, come ci conferma lo stesso Castagnola, s.v. Passioni,
Pigghiari passioni significa «cominciare ad amare, ed anche amare as-
solutamente Porre amore; prender dell’amore». Così, mantenendo il
predicato verbale dell’originaria espressione dialettale, Verga istituisce
un modulo densissimo di sovrasensi.
Come si vede anche da queste osservazioni occasionali, in CR si cu-
mulano modalità della caratterizzazione diatopica e della caratterizza-
zione diamesica: Verga infatti nella trascrizione scenica della novella
rusticana non poteva avvalersi della geniale soluzione malavogliesca56,
e per sostituire alla «natura costituzionalmente pluridiscorsiva» della
scrittura narrativa quella «totalmente dialogica» della scrittura tea-
trale, era costretto a moltiplicare il ricorso a «moduli morfosintattici
del parlato»57. Ne risultava un parlato quasi cantato, punteggiato da
marcature sintattiche tipiche dell’oralità (come le ridondanze prono-
minali o i costrutti nominali, il ci attualizzante, il che polivalente, l’in-
dicativo per il congiuntivo nelle subordinate, gli anacoluti e le disloca-
zioni), e da marcature regionali siculo-toscane come i che introduttori
di interrogative o univocamente siciliane, come il verbo in fondo agli
enunciati o le frasi foderate. Il procedimento si estendeva a IP, in cui
il parlato popolare veniva realizzato o con moduli fiorentineggianti o
con costrutti meridionali trapiantati come «il mio onore non lo voglio
toccato!» (II 266) del sor Battista, che trapasserà indenne in Dal tuo al
mio nella battuta di Luciano: «Vogliono cresciuto il salario»58.
Si tratta in definitiva di un parlato di impronta regionale, in cui però
la componente toscana, come aveva ben visto il Musumarra, riequili-
bra con l’andamento sintattico e la posologia lessicale il testo, portan-
dolo nella direzione dell’italiano ‘colorato’ di siciliano, ma italiano, e
comprensibile a tutti, che il Verga ricercava anche per i testi narrativi
coevi a CR. Che era poi la misura goldoniana ben assimilata dall’autore
di CR59 e, direi, estendibile a IP, e, più in generale, la linea seguita dal

muto, Catania, Cavallotto 1980. La prima edizione della compilazione lessicografica,


intitolata Fraseologia sicolo-toscana, risaliva al 1863.
56
  Per la quale si veda l’eccellente studio di E. Testa, Lo stile semplice, Torino, Ei-
naudi 1997.
57
  Trifone, L’italiano a teatro cit., pp. 151-152.
58
  Verga, Tutto il teatro con i libretti d’opera cit., p. 381.
59
  Trifone, Il teatro cit., p. 136. La definizione dello stile teatrale goldoniano era
50 Gabriella Alfieri

miglior teatro realista, interessato a trovare, in alternativa all’italiano


letterario o al dialetto, una terza via, riconoscibile in una «lingua dut-
tilmente “impura”, della quale lo stesso scrittore siciliano fornisce un
esempio paradigmatico con le sue novelle e con i suoi romanzi»60.
La medesima o similare fenomenologia si riscontra nel testo sce-
neggiato di In portineria, che riflette «la concezione originaria del
dramma volutamente piatto, senza forti rilievi tipologici, com’era nei
programmi dell’autore formulati in consonanza con la poetica teatrale
verista imperniata nella ricerca del non effetto»61. Il riassorbimento
del dramma nell’interiorizzazione del personaggio attenua anche la
valenza sociale del testo scenico, e produce un’eventività puramente
circostanziale in cui l’affannoso avvicendarsi delle figure secondarie
negli ambienti interni della portineria in cui si consuma la tragedia
non riesce a compensare la «totale assenza di storia, sia interna che
esterna», e il montaggio scenico è surrogato da un montaggio lettera-
rio di quadri irrelati.
Risultano possibili anche alcuni raffronti strutturali tra CR e IP, ad
esempio nel rispetto o meno dell’unità di tempo, incarnata nel testo
rusticano «nell’entità psico-fisica del giorno di Pasqua» e nella cali-
brata «alternanza tra scene drammatiche e dialogo spicciolo, come la
contrattazione delle uova tra gnà Nunzia e Pippuzza»62. Nel «dram-
mettino» milanese invece, si allenta l’inviolabile unità di tempo e luo-
go della tragedia, e l’azione si articola in due momenti chiave scanditi
dalla ribellione e dalla fuga di Gilda, ovvero dall’illusione delusione di
Màlia e dalla sua morte, che simbolizzerebbe la staticità delle strutture
sociali tipica dell’ideologia verghiana63. Vi corrisponde la monotona
vita del quartiere, rappresentata con «una voluta semplicità di dise-
gno che qui funge da “colore locale”»64, secondo le intenzioni dichia-
rate dell’autore. Basti rileggere la lettera al Capuana datata Milano,
5/6/1885, contigua quindi alla scrittura e alla rappresentazione del
«drammettino» milanese:

stata già proposta da G. Folena, Il linguaggio di Goldoni dall’improvviso al concertato,


in Id., L’Italiano in Europa. Esperienze linguistiche del Settecento, Torino, Einaudi 1983,
pp. 133-160.
60
  Trifone, Il teatro cit., p. 151.
61
  Cfr. Oliva, Introduzione a Capuana, Teatro italiano cit., p. xxxi.
62
  Trifone, Il teatro cit., p. 48 e pp. 52-53.
63
  Barsotti, Verga drammaturgo cit., p. 99.
64
  Ibid., p. 77.
51 «Scene popolari» verghiane

Come tu dici In portineria è venuta così perché così l’ho voluta. E mi pare che
se ha ragione di essere lo deve in quella forma e in quella misura, o non essere
affatto. Ho voluto che il dramma fosse intimo rigorosamente, tutto a sfuma-
ture d’interpretazione, come succede realmente nella vita; ed era in questo
senso, un altro passo nella ricerca del vero. Ho voluto appunto il poco rilievo
delle passioni, e la semplicità del disegno non tanto per far contrasto al qua-
dro così diverso della Cavalleria rusticana quanto per rendere schiettamente e
sinceramente il diverso ambiente che mi ero proposto di colorire65.

I possibili raccordi tra le due sperimentazioni drammaturgiche, rusti-


cana e suburbana, sono innanzitutto di natura strutturale, per cui CR e
IP condividono una struttura centrale animatrice rappresentata dalla
collettività, con le sue convenzioni pseudo-morali a cui si contrappo-
ne l’individuo. Interprete dei valori della collettività è la famiglia, solo
che mentre in CR la norma rusticana, carnale e passionale, è intrinse-
ca all’ethnos sicché anche i trasgressori la accettano dialetticamente66,
in IP il nucleo culturale, esteso al quartiere, con la moltiplicazione di
personaggi ponte (come i genitori di Màlia e l’amica Assunta) infran-
ge l’organicità ambientale di CR. Simmetrica la trasposizione temati-
ca «dai rustici siciliani nel suburbio del Nord», col tema del sacrificio
della propria individualità (amore di Màlia per Carlini), e quello degli
affetti familiari e della relativa ribellione (Gilda) che si mantengono
in confronto dialettico, come nei Malavoglia o in Vita dei campi, men-
tre nel Canarino del n.°15 prevaleva la logica della roba già maturata
nelle Rusticane67. Così, sul piano dell’azione scenica, va osservata la
differenza tra la delazione della colpa di Lola affidata alla reticente
citazione idiomatica di Santuzza in rima con corna, e la delazione della
colpa di Gilda che avviene tramite la lettera anonima della modella
letta da Luisina. Anche in questo caso si percepisce la connotazione
più manifestamente diamesica di IP, in cui la sgrammaticata missiva
accusatoria richiama il biglietto col quale nel Mastro-don Gesualdo il
baronello Rubiera farà la sua grottesca dichiarazione amorosa alla co-
mica Aglae, e CR in cui il parlato riferito è incarnato dal monologo
epico di Santuzza modulato su ritmi sintattici dialettali.
Non meno efficace che in CR la caratterizzazione affidata a dati so-
cioetnici, miranti a garantire attraverso la verniciatura locale del testo

65
  In Raya, Carteggio cit, p. 242.
66
  Ibid., p. 153.
67
  Barsotti, Verga drammaturgo cit., p. 78.
52 Gabriella Alfieri

la rispondenza socioambientale di IP. In tal senso assume un ruolo


prioritario l’onomastica e la concomitante serie di allocutivi: sora Lui-
sina, sora Gilda, sor Battista, ecc; ovvero di determinanti identificativi:
la Màlia, il Carlini, tratto, quest’ultimo, in parte delocalizzato perché
adoperato, limitatamente ai nomi femminili, oltre che in CR, anche
nei Malavoglia (la Mena, la Lia, la Nunziata) e in Vita dei campi (la Pep-
pa nell’Amante di Gramigna). Non poco significativa un’occorrenza in
assetto deittico in una didascalia d’autore: «Si ode la Luisina strillare»
(I 233).
È di elevato tenore caratterizzante la deissi sociale, per cui, rispetto
all’interazione allocutiva dell’ambiente rusticano di CR basata sul voi,
nel contesto urbano seppur popolaresco di IP il pronome dominante
è il più ‘civile’ e formale lei, come nel seguente colloquio tra i due co-
protagonisti della vicenda:

Carlini. Vede, ho i miei fastidi!... Ciascuno ha i propri fastidii in capo. Non


voglio venir a seccar la gente anche!
Màlia. Oh, che dice mai!...
Carlini. Nulla… non dico nulla… Non glielo posso dire…
Màlia. Tutti le vogliono bene qui, invece!..
Carlini. Grazie, bontà sua. Vuol dire che lei è sempre la stessa… Ma sua
sorella, cos’ha, dica?...
Màlia. Ma.. nulla… non saprei…
Carlini. Avrà i suoi fastidi anch’essa… Prima non era così!...
Màlia (guardandolo negli occhi, con un vago turbamento). Perché?...
Carlini. Niente… (Offrendole un garofano che si è tolto dall’occhiello) Lo vuole
questo fiore?
Màlia (con effusione contenuta, facendosi rossa). Oh, sor Carlini!... grazie!...
Carlini. Lei è tanto buona!... si merita questo e altro!... Sono proprio conten-
to di vederla guarita!...
Màlia (tra lieta e commossa, ma sempre timida e imbarazzata). Lei piuttosto!...
lei!... (Odorando il garofano) Grazie!... Che bella sera!...
Carlini. Ha fatto anche un bel caldo, oggi!
Màlia (confusa, vedendo venir gente). Riverisco, buonasera!... (Scappa su per la
scala) (I 235-236).

Il dialogo riesce emblematico, sia per il tono cerimonioso che non


cela tuttavia la larvata intimità tra l’infelice protagonista e lo spasi-
mante della sorella, sia per la differenza con il dialogo di Santuzza e
Turiddu in CR, denso di pathos e di passione repressa, e, come si è vi-
53 «Scene popolari» verghiane

sto, calibrato sul ritmo dettante del melodramma. In effetti, da quanto


si può osservare, IP costituisce un efficace esempio dell’impegno ver-
ghiano verso nuove soluzioni contenutistiche ed espressive di dram-
maturgia ‘intima’. E i dati allocutivi sono tutt’altro che irrilevanti in
merito, primi fra tutti sor e sora, anteposti a tutti i nomi di persona,
persino nell’interazione confidenziale tra marito e moglie.
Particolarmente insistito il ricorso all’allocutivo di terza persona ac-
compagnato dall’ironico attributo di affettività caro, tratto «all’epoca
ancora assai marcato regionalmente»68, e comunque non estraneo,
con l’allocutivo di seconda persona plurale, all’uso toscano69:

Luisina. Siamo mamme, cara lei! (I 234)


Il postino. Io non ne so nulla, cara lei! (I 235)
Giuseppina. Caro lei, questa è una casa onesta…Ho due ragazze da marito!
(I 237).

Riverisco vanta ben dieci occorrenze, e si qualifica come tratto ca-


ratterizzante dello stile incivilito della «gente minuta», mentre risulta
fin troppo ricercato il rispetto dello stile normativo nella scelta di far
precedere il possessivo dall’articolo nella seguente battuta del Carlini
alla Gilda, in cui invece il doppio articolo avrebbe creato un eccessivo
‘spolvero’ toscano:

Parliamo spesso di lei con sua sorella e la sua mamma… (II 273-274).

Con toni sempre più accesi si passa alla rivelazione del pericolo che
incombe sulla Gilda, esposta alle lusinghe di corteggiatori non tutti
raccomandabili:

Giuseppina: Te’! vuoi saperlo? A tua figlia cominciano a ronzarle i mosconi


intorno!... Te’! piglia!
Battista. Io? Io, piglio? Punto primo, la mia figliuola sa il suo dovere! punto
secondo, se non lo sa glielo insegno io! (I 240).

  Come osserva pertinentemente Luca Serianni (Il Secondo Ottocento cit. p. 158).
68

  Cfr. TB, s.v. Caro: «Caro Voi, modo di preghiera più o meno affettuosa, ma però,
69

come tutte le parole d’affetto o di stima, torcesi al contrario».


54 Gabriella Alfieri

È rilevante che l’interiezione basata sull’imperativo tronco di tenere,


peraltro di comprovata toscanità70, venga riproposta dal testo siciliano
al testo milanese rincarando il tenore connotativo: se in CR il modulo
accompagnava letteralmente il gesto di consegnare le uova all’acqui-
rente, in IP sottolinea la brutale rivelazione della verità, con rinforzo
dell’altro imperativo piglia, probabile traduzione italiana del milanese
ciappa!.
Alla pigmentazione ambientale contribuiscono più incisivamente
dati folclorici di matrice lombarda, come l’allusione alla festa di san
Giorgio, celebrazione della rinascita primaverile, simbolicamente e
tragicamente posta dal Verga proprio alla vigilia della morte di Màlia,
dopo un illusorio miglioramento della sua salute:

Carlini (entrando gaiamente). Ehi, sora Màlia! San Giorgio anche per lei! […]
Le bella scampagnata eh, sora Luisina!
Luisina. Siamo stati proprio bene. Risotto, manzo a lesso, il fritto, un vino
sincero che andava bene… (II 267).

La medesima usanza veniva richiamata da Giacosa alla fine di Tristi


amori.
Strettamente attinente all’ambientazione popolare si configura il ri-
corso alla Sonnambula come curatrice dai poteri ‘magici’ per tentare un
salvataggio in extremis della povera Màlia:

Assunta. O Dio! Signore! Preti e medici dicono sempre così… per farsi meri-
to… Dieno retta a me, invece! Qui ci vuole la sonnambula Con tre lire e una
ciocchetta di capelli appena, la sonnambula vi vede dentro e fuori come in
uno specchio, quello che avete e quello che non avete, e vi spiattella subito il
suo bravo consulto in due parole. […] Lasci che le tagli una ciocca di capelli,
e in due salti vado e torno colla risposta della sonnambula.
Giuseppina [fermandole le mani]. No, no, sora Assunta! Dicono che non è
bene tagliare i capelli agli ammalati.
Assunta. Eh, che diavolo!
Giuseppina. Sì… Dicono che la testa se ne va via dietro ai capelli… (II 254-
255).

70
  Cfr. TB, s.v. Te: «Pronunziato coll’E larga e coll’apostrofo, secondo diligenti
grammatici, è la seconda persona dell’imperativo del verbo Tenere e vale Tieni. Ora
non si dice più Te’ così tronco, ma Tieni, tutto intero, o, in un modo più familiare,
To’, accourciatura di Togli, Prendi». Seguivano le attestazioni da Boccaccio in avanti,
soprattutto in testi di matrice religiosa.
55 «Scene popolari» verghiane

È uno dei casi tipici dei «decentramenti d’ambiente» a cui, secondo


la Barsotti, è affidata la rappresentazione del mondo popolare urbano.
Così Battista estrinseca gli umori popolari, di anticlericalismo e di av-
versione pregiudiziale per i medici, Assunta incarna la superstizione,
in Giuseppina si sovrappongono i caratteri della popolarità media col
più piatto e scontato amore materno, e don Gerolamo ha l’univoca
funzione di illuminare il lato religioso dell’interiorità di Màlia71. Me-
rita di essere rimarcata in proposito una simmetria tra testi rusticani
(anche narrativi) e testo suburbano, per cui si intersecano, come qui
in CR e in IP, la percezione del medico come dispensatore di rimedi
costosi e inutili e quella del prete come ministro di fede – religiosa
e superstiziosa insieme – entrambi surrogabili da figure magico-scara-
mantiche come la Sonnambula72. L’espediente sarà ripreso da Capua-
na introducendo in Malìa la figura del Guaritore73, a dimostrazione
della riciclabilità di tutti i dati estrinseci del folclorismo ambientale, a
prescindere dalla situazione rurale o suburbana della caratterizzazione
popolare.
Altri stereotipi superano il registro idiomatico per investire l’aspetto
socioculturale, su un piano che definirei ‘metaetnico’, indipendente
cioè da connotazioni locali:

Battista. Alla larga! Gente che porta la jettatura! Non voglio che le portino
la jettatura alla mia figliuola! (II 263).

Il codice gestuale assume toni di più raffinata galanteria nel corteg-


giamento, non più affidato, come in CR o in altri testi rusticani a rudi
scambi di pugni o gomitate74, ma basato sull’omaggio gentile di fiori
(come il garofano offerto dal Carlini alla Màlia ancora non grave-
mente inferma, o il mazzolino di fiori regalato dallo stesso alla giovane
ormai quasi moribonda) o di frutti (le arance che il giovane porta in
dono all’ammalata dalla scampagnata di san Giorgio). Tutti segni di
fraterna affettuosità che Màlia leggerà come indizi di innamoramento,
e tutti simboli di una comunicazione inespressa che hanno l’effetto di
«far rifluire in lei la speranza della vita e dell’amore»75.
Grottesca risulta la reazione del sor Battista che, ferito nell’onore

71
  Barsotti, Verga drammaturgo cit., p. 181.
72
  Ibid., pp. 95-97.
73
  Oliva, Introduzione a Verga, Tutto il teatro con i libretti d’opera cit., p. xxxi.
74
  Cfr. Alfieri, Ethnos rusticano cit.
75
  Barsotti, Verga drammaturgo cit., p. 165.
56 Gabriella Alfieri

dalla fuga di Gilda, si sfogava sbuffando e andando su e giù per la


stanza (II 266), dopo aver espresso la rabbia e il definitivo distacco nei
confronti della figlia «gesticolando e facendo la croce in terra» (II 265).
Tutti i gesti sopra ricordati assumono comunque nella caratterizzazio-
ne scenica una «sottolineatura spettacolare», benché si risolvano in
«brevi macchie di colore per suggerire l’atmosfera popolare»76.
Ma il tratto più rilevante è rappresentato dalla gestualità effusiva di
Màlia, di sicuro effetto melodrammatico, ma pilotata dall’autore con
didascalie ridondanti, che rasentano lo stile narrativo e, più fitte che
in CR, puntano a suggerire all’attore lo stato d’animo da far condivi-
dere alla platea.
Non si può infine ignorare la coincidenza, non certo casuale, tra i ge-
sti adoperati per comunicare sia in CR che in IP l’attuarsi del dramma
finale, per annunciare la morte di compare Turiddu e, rispettivamente,
di Màlia, con «effetti visivi macroscopici in quest’ultimo caso»77, ed
ellissi da tragedia greca nell’altro:

Pippuzza (accorre dal fondo gridando) Hanno ammazzato compare Turiddu!


Hanno ammazzato compare Turiddu! (Tutti corrono verso il fondo vociando; la
gnà Nunzia colle mani nei capelli, fuori di sé. Due carabinieri attraversano corren-
do la scena) (I 229)
Gilda (Volgendosi alla Màlia che si scompone sempre più in viso, ed è rimasta im-
mobile col capo chino sul petto). Màlia! Màlia! (Gridando) Màlia! Màlia!
Giuseppina (accorrendo colle mani nei capelli). Màlia!... Figlia mia!... Figlia
mia!... (II 275).

Da notare la ripresa del verbo che introduce il gesto nei due testi
(accorre dal fondo; accorrendo colle mani nei capelli).
Una differenza cospicua tra testo rusticano e testo popolare cittadi-
no è la confessione, significativamente allusa in CR, dove il peccato di
Lola è quello di Santuzza sono noti a tutti:

Turiddu. E poi il giorno di Pasqua ha da essere come il bucato, se abbiamo dei


torti l’un coll’altro (VI 225).

In quest’ultimo caso si osservi che Turiddu non fa che parafrasare


la metafora applicata dal Verga, nella novella omonima al dramma, a

  Ibid., p. 164.
76

  Ibid.
77
57 «Scene popolari» verghiane

Lola che, proprio il giorno di Pasqua andava a confessarsi «facendo il


bucato dei suoi peccati». Come spesso accade, l’autore non intendeva
rinunciare a una soluzione stilistica efficace, già collaudata nella scrit-
tura narrativa e non trovava di meglio che riciclarla, pur alterandone
forma e significato. In IP l’atto della confessione è ampiamente espli-
citato nel dialogo tra l’innocente Màlia e lo zio prete, che si conclude
con l’affettuosa battuta di don Gerolamo nella quale il discorso rituale
si stempera nella colloquialità:

Bene, bene. Sta su allegra che Dio ti perdona, come io ti assolvo e benedico
(II 262).

Simmetrica, invece, la situazione dei due testi circa l’uso dei dati
paremiologici, attenuati anzi in CR rispetto all’omonima novella, e
intensificati in IP. Si va da proverbi veri e propri, di origine milanese,
più o meno intramati nel dialogo:

Giuseppina. Chi ha i guai invece se li tenga! (I 239)


Giuseppina. Chi ha i fastidi se li tenga […] (I 241). 78

a proverbi panitaliani, come i seguenti, attestati in siciliano ma re-


peribili anche in area settentrionale, dei quali il primo è addirittura
inserito nel ‘referto’ della sonnambula:

Assunta. Il male viene da debolezza e languori di stomaco. Come chi dicesse un


sacco vuoto che non può reggersi in piedi (II 264).
Battista. Perché mi vede angustiato? Perché vede che infine il sangue non è
acqua? (II 265)79.

Da non sottovalutare che in quest’ultimo caso la formulazione pre-


scelta del proverbio è quella toscana, varietà idiomatica come sempre
riequilibratrice tra le componenti diatopiche della complessa scrittura

78
  Si veda il proverbio milanese Chi ghe l’ha dent, che se le tegna, addotto dal Pitré
come corrispondente del sic. Cu’ havi (o – Di cui sunnu) li guai, si li chianci (Proverbi
siciliani cit., II, p. 21).
79
  Cfr. sic. Saccu vacanti ‘un po’ stari ‘n pedi, Com’iddu è chinu nun si po’ curari, col
referente mil. El sacch voeuj se po’ minga fall stà in pee (Pitrè, Proverbi siciliani cit.,
IV, pp. 109-110).; e Lu sangu nun si po’ fari acqua, mil. El sangu el spòrg e nò l’è l’istess
de l’acqua (ibid., II, p. 219)
58 Gabriella Alfieri

verghiana e, nel caso specifico, la più atta a connotare discorsivamen-


te la dimensione dell’ethos popolare80.

Assunta. Cara lei, bisogna esser signori per fare ciò che accomoda meglio! Ma
che mi scherza? Un povero diavolo che campa a giornata!... Un galantuomo
però, le vuole bene! (I 242).
Giuseppina. Che vuole?... Sono mamma… sono come quello che non sa che
fare… di qua mi pungo, di là mi dolgo… (I 242).

Ma l’effettiva consistenza idiomatica del testo è desumibile, al di


là della patinatura fraseologica, dal tessuto lessicale, disseminato di
toscanismi e settentrionalismi, il cui equilibrio è fondamentale da sta-
bilire ai nostri fini.
I toscanismi, che assicurano «un tono di media scioltezza popolare»
– a maggior ragione in IP in cui il dialogo rappresenta il «perno del-
l’azione scenica»81 – risultano assai numerosi, nelle battute dei perso-
naggi così come negli interventi didascalici.
A una prima impressione si direbbe che il toscanismo si limiti all’im-
pianto morfosintattico, esplicandosi in costrutti verbali:

Assunta. Con tanti sfaccendati che c’è intorno!... (I 238)


Giuseppina. Con tanti rompicolli che c’è intorno! (I 240)
Assunta. Ora è finita. Ci si è messa la sonnambula (II 268).

Particolarmente spiccato l’ultimo esempio, in cui il senso specifico è


‘ci abbiamo messo di mezzo la, ci siamo rivolte alla’, e non ‘è interve-
nuta la fattucchiera’.
Nelle didascalie risalta un fiorentinismo: «venendo in corte dalla
portineria, collo streghino acceso in mano» «togliendole lo streghino di
mano» (I 234, 235; cfr. RF, s.v.: «quel lanternino foracchiato e ferma-

80
  Un’opportuna notazione in tal senso veniva anche dalla critica teatrale, secondo
la quale, proprio per caratterizzare la mentalità e il senso comune popolari, Verga
attingeva al «repertorio tradizionale di frasi, che in bocca al popolo, particolarmente
nella provincia toscana, acquistano sapore di sentenza» (Barsotti, Verga drammatur-
go cit., p. 75).
81
  Ibid., p. 74. Per esemplificare simile tendenza la studiosa citava i termini quattrino
(I 3), leticare (I 4), babbo e giri di frase come O cosa le viene in mente adesso? (I 2), Un
pezzo che non si fa vedere, in casa! (I 2). I rinvii in parentesi si riferiscono all’atto e alla
scena della commedia, secondo il sistema di citazione della Barsotti.
59 «Scene popolari» verghiane

to in cima a un’asta che serve ai gassaiuoli per accendere i lampioni


delle vie»)82.
Interessante altresì il caso di maestra per ‘sarta’ (II 262), in riferi-
mento a Gilda che, prima della sua fuga da casa, lavorava da appren-
dista presso una sartoria. Il toscanismo è riportato puntualmente dal
TB, s.v.: «Maestra chiamano le ragazze in Firenze, quella dalla quale
imparano il mestiere della sarta e della crestaja». Ed è significativo che
il termine proprio e panitaliano venga nominato per primo, in una
delle battute introduttive di Màlia:

Tanto da fare dalla sarta anche lei, povera Gilda! (II 235).

Contro ogni aspettativa si rivela parco il ricorso ai milanesismi che,


presumibilmente almeno, dovevano essere integrati nella competenza
linguistica del Verga dopo la lunga permanenza a Milano e l’intera-
zione comunicativa con parlanti lombardi83. Di particolare rilievo il
seguente caso:

Battista. Cara! S’è per la mia figliuola, non so che dire… E tratto io! A condi-
zione che pago io per tutti!... (II 268).

L’origine meneghina del termine è avvalorata da Cher, s.v. tratta-


re: «Banchettare, convitare. E in genere lo stesso che Fà spargimenti.
Trattare. Per es. Oggi tratto io (tosc.), cioè pago io i sorbetti, il caffè,
la cena, il pranzo». Come si vede, il procedimento di contestualizza-
zione dei dialettismi è immutato, nonostante il trasferimento ambien-
tale dalla Sicilia a Milano: quando il regionalismo risulta funzionale al
colore locale, ma semanticamente oscuro, Verga ricorre alla parafrasi
immediata che ne consente l’accesso nella scrittura, narrativa o, come
nel caso presente, teatrale84.

82
  Né il TB, né il Petrocchi (Vocabolario dell’uso toscano, Firenze 1865), riportano
il lemma.
83
  Basti pensare alle compagne più importanti della sua vita affettiva, Paolina
Greppi e Dina di Sordevolo, come testimonia, ad esempio, il carteggio con la prima,
in cui tuttavia i milanesismi sono sempre in corsivo e accompagnati dalla didascalia
«come dite voi» (Cfr. Verga, Lettere a Paolina cit.).
84
  Per simile procedura, cfr. G. Alfieri, Innesti fraseologici siciliani nei «Malavoglia»,
in «Bollettino del Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani», XIV, 1980, pp.
3-77.
60 Gabriella Alfieri

Tra i milanesismi tipizzanti in IP Luca Serianni segnalava poi


l’espressione bel mobile85, che serve a connotare l’ira della modella ab-
bandonata dal pittore che l’ha sedotta:

Partito!... così all’improvviso!... È un bel mobile! glielo mandi a dire!... Un bel


figuro! glielo mandi a dire, da parte della modella!... (I 236).

Il modulo compariva anche nei Malavoglia ed è pure toscano, come


ci conferma il TB, s.v. Mobile:

Tu se’ un buon mobile! si dice ironicamente per dare ad uno del tristo; ed an-
che per proverbiarlo o di lordura o di bruttezza: Tu se’un bel mobile! (Fanf.) E
anche ass. Un buon mobile! cattivo soggetto). – Bel mobile! però dappoco.

Consimile il caso di un verbo che copre l’intero spettro diatopico


esplorato dal Verga, il siculo-tosco-milanesismo cuitarisi/chetarsi/quie-
tà86, che compare più volte in IP, come si è visto nello schema sinottico
degli esempi.
Di elevato tenore caratterizzante l’uso di arancia e arancio, che si al-
ternano, non certo casualmente, nella didascalia d’autore e nel parlato
dei personaggi meneghini. Nella scena sesta del secondo atto di IP, gli
amici, di ritorno dalla scampagnata di san Giorgio, portano dei frutti
in dono alla Màlia ormai confinata a letto:

Carlini (entrando gaiamente) Ehi, sora Màlia! San Giorgio anche per lei!
(Dandole delle arance) Prenda, prenda senza cerimonie… […]
Luisina (dando anche lei delle arance a Giuseppina). Aranci di Palermo, li abbia-
mo comprati apposta (II 266).

Come si vede, l’autore adopera la forma fiorentina al femminile nel-


la scrittura che gli pertiene, salvaguardando quindi la propria compe-
tenza normativa, e opta per la forma più popolare al maschile87 per

85
  Cfr. Serianni, Il Secondo Ottocento cit., p. 158.
86
  Cfr. Cher., s.v. Quietà.: «Quietare. Quiescere. […] Abbonacciare. Calmare. Rap-
paciare».
87
  Il TB, s.v., riporta solo il femminile. Secondo il DELI, s.v. Arancia, il tipo ma-
schile è diffuso nel Settentrione e in tutta la Toscana, eccetto che a Firenze, dove,
come mi assicurano parlanti colti, prevale nettamente Arancia; simmetricamente tut-
t’oggi a Milano è più frequente il maschile Arancio.
61 «Scene popolari» verghiane

caratterizzare, col rinforzo morfologico della marcatura pronominale,


il linguaggio dei protagonisti milanesi del dramma.
A ulteriore riprova si osserverà che il Verga nel proprio uso lingui-
stico di parlante adoperava normalmente il femminile, come in questa
lettera all’amico Mariano Salluzzo, come lui di origine catanese:

Son contento che le arancie sieno arrivate in buono stato88.

In una serie di casi il dialogo sceneggiato è interferito da tratti fra-


seologici interregionali, con effetti di «ritmo cantilenato»89:

Carlini (ridendo). Roba di contrabbando, eh, sora Giuseppina! (I 237)90


Giuseppina. E la Màlia che se l’era messo in testa!... (I 241)
Battista. Nulla, mi lasci crepare (I 241)
Assunta. Le si presenta un buon partito… Non se ne trovano tanti fra i piedi
oggi!
Giuseppina. Poi ci dev’essere la volontà di mio marito (I 243)
Assunta. Qui si fanno le cose d’amore e d’accordo (I 243).
Carlini. Quanto a questo sono il primo io a dirlo! Una ragazza che si fa voler bene
per forza! (I 245)
Battista. Te lo dico io! Per vederti guarita mi farei in quattro, guarda! (II 264)
Battista. Tante! Ne ho il cuore pieno (II 268).

Si tratta di modi e costrutti che garantiscono un tono di piana col-


loquialità all’insieme e che erano già stati ampiamente sperimentati
nei Malavoglia o in Vita dei campi e nelle Novelle rusticane, e riadattati
al contesto meneghino di IP. Sembra quasi che l’unica dimensione
in cui risulti trasferibile il prodigioso risultato dei Malavoglia91 sia il
linguaggio e lo stile figurato, più o meno impastato di idiomaticità, ma
comunque modellizzato in una medietà interregionale che accresceva
la carente colloquialità del dialogo teatrale italiano postunitario.
Analogo l’effetto della sconsolata battuta del Carlini che replica a
Gilda ormai disinteressata alle sue attenzioni:

88
  Cfr. Verga, Lettere sparse cit., p. 341.
89
  Barsotti, Verga drammaturgo cit., p. 75.
90
  Il giovane allude alla modella che sfacciatamente va in cerca del pittore suo
amante.
91
  Secondo Musumarra in IP «certe battute hanno l’andamento narrativo dei dia-
loghi esemplari dei Malavoglia» (Il linguaggio cit., p. 24).
62 Gabriella Alfieri

Vuol dire che ci ha altro pel capo… (I 248).

Marcato il contrasto con l’insistita allusione alla passione di Màlia


per lui, sottolineata dallo stereotipo mettersi qualcuno in testa, citato
nelle righe precedenti.
L’esempio forse più connotato rimane comunque quello relativo al-
l’esplosione di Battista, al quale la moglie prospetta i possibili rischi
che corre la figlia Gilda che è già attorniata dai corteggiatori:

No! Non sono di quelli che chiudono gli occhi! Sono un povero diavolo, ma
il mio onore non lo voglio toccato! (II 266).

Come si vede, anche l’impianto sintattico del costrutto finale, col


participio ellittico di un’infinitiva (non lo voglio essere toccato), attiene
più alla sintassi meridionale che all’uso di un parlante milanese, sep-
pur di estrazione popolare.
E che dire di uno stereotipo frequentissimo nella trattatistica fol-
clorica ottocentesca soprattutto meridionale, già collaudato nei Mala-
voglia e nelle Rusticane e poi trapassato addirittura al teatro dialettale
novecentesco, in Napoli milionaria di Eduardo De Filippo:

Dottore […]. No. Dico perché so quel che succede poi: se campa, è la Madon-
na che ha fatto il miracolo; se muore, l’ha ammazzata il medico. Con queste
malattie di cuore non c’è da scherzare, da un momento all’altro. Io me ne
lavo le mani (II 254).

Ampiamente rappresentati i tratti morfosintattici dell’uso medio,


come il ci attualizzante («Con due ragazze che ci ho in casa!», I 237),
finemente segnalato da Serianni come tratto di lungimiranza stilistica
del Verga in confronto ai drammaturghi contemporanei92. Né manca-
no ridondanze pronominali («Ma che mi scherza?»; «A me mi pare che
sarà un bel colpo per quella figliuola!...», I 242), il cosa interrogativo
dominante, e il lui soggetto, che alterna comunque con il femminile
Essa, come in CR, dove, come si è visto, risulta sempre accompagnato
da modi di dire enfatici e riferito univocamente a Lola.

92
  In particolare Serianni segnala il costrutto avercela con qualcuno (in IP I 246:
«Carlini. Ce l’ha con me adesso? Dica?») come tratto di distinzione del Verga rispetto
agli autori coevi, ancora fermi all’aulicizzante averla con qualcuno (cfr. Il Secondo Ot-
tocento cit., p. 158).
63 «Scene popolari» verghiane

Significativo ai fini della caratterizzazione ‘popolare’ del parlato su-


burbano l’adozione di un elemento morfosintattico ormai acclimata-
to nell’italiano neostandard, ma sicuramente avvertito come erroneo
nell’uso linguistico ottocentesco, vale a dire il cosiddetto gli dativo
trasversale:

Assunta […]. Ma quel bel mobile del suo spasimante ora la pianta col danno
e le beffe, per tornarsene al suo paese, e ben gli stia!.... Brutta sfacciata, che ne
ha tanto piacere, lei, quest’altra…. (restituendole la lettera). (I 238 239).

Si noti il contrasto tra gli femminile nel testo dialogato e il normati-


vo le nella didascalia d’autore contigua.
Notevole per gli effetti ritmico-stilistici il seguente caso, in cui il pro-
nome fa da sottolineatura rimica, importante per il parlato recitato, al
termine di paragone che la vanesia Giuseppina adopera per la bellezza
della Gilda, alla quale il pronome è sempre univocamente riferito:

Sì, non lo dico perché è mia figlia; ma essa con uno straccetto di vestito figura
meglio di una principessa (I 238-239).

Alla caratterizzazione mimetica dell’oralità popolare concorre in


entrambi i testi il che polivalente, con valenza diatopica in CR dove
prevale la funzione di subordinante generico, e con valenza diamesica
in IP dove si ritrova anche la funzione temporale, come emerge dal
confronto di due esempi:

Gnà Nunzia. O come sai di quest’altra cosa?


Santuzza. Lo so, che si affacciava ogni volta, quando lo vedeva passare davanti
alla mia porta (I 215).

Si noti il contrasto fra il primo che polivalente e il quando introdotto


dal Verga dopo ogni volta al posto del più prevedibile che, e rinforzato
dalla virgola per scandire la ripetitività delle visite di Turiddu.
In IP invece si riscontrano esempi di che con valore di connettivo
ipotattico multifunzionale ed esempi di che con mero valore tempora-
le, anche in forma di locuzione fissa:

Luisina. Li ho visti vicino al ponte, che essa gli faceva una gran scena (I
234)
Battista. Farò una cosa che la metteranno sui giornali! (I 240)
Giuseppina. Quello è per la Màlia. Un pezzo che me ne sono accorta (I 241).
64 Gabriella Alfieri

In generale può dirsi che la caratterizzazione simmetrica di CR e IP


sia giocata sui ritmi tonetici, in un caso con la cadenza sicilianeggian-
te, nell’altro con la cadenza fiorentina popolareggiante. In tal senso
avranno giocato un ruolo essenziale gli intercalari allocutivi atti a sta-
bilire complicità come comare mia e, rispettamene, cara lei.
Spunti notevoli vengono anche dallo stile figurato, inteso ad assicu-
rare la medietà ‘colloquiale’ del testo e a rinforzare la caratterizzazione
dei personaggi, come nel caso del giovane tipografo, il cui intercalare
qui di seguito sottolineato assume valore idiolettale:

Carlini. Vede, ho i miei fastidi!... Ciascuno ha i propri fastidi in capo. Non voglio
venire a seccar la gente anche!
Màlia. Oh, che dice mai!... […]
Carlini. […] Ma sua sorella cos’ha, dica?
Màlia. Ma… nulla… non saprei…
Carlini. Avrà i suoi fastidi anch’essa… Prima non era così… (II 235).

Così l’intrigante Assunta condisce il proprio intervento in favore del


Carlini con l’insinuante avvertimento: Bisogna aprire gli occhi! (I 238),
riferendosi alla sorveglianza da attuare con la vivace Gilda. Su questa
metafora si gioca l’allusività di tutta la sequenza, in cui la sora Giuseppi-
na chiede aiuto all’amica per decifrare i caratteri della lettera anonima:

Guardi un po’ lei che ci vede meglio in questi sgorbi (I 238).

Non diversa l’impressione del dialogo tra la portinaia e il marito,


allertato sulla delicata situazione della figlia che attira corteggiatori
importuni:

Giuseppina. […] con tanti rompicolli che c’è intorno!... […]


Battista. Devo stare a covare le figliuole? Mi tocca fare il carabiniere anche?
Battista. No, non lo stare a fare il carabiniere. Li chiamerai dopo i carabinieri,
quando ti capita quel che ti meriti!
Giuseppina. A tua figlia cominciano a ronzarle i mosconi intorno!
Battista. Non sono mica di quelli che chiudono gli occhi! I mosconi so scac-
ciarmeli di torno!... colle cattive, intendi? (I 240).

L’allusione ai carabinieri, qui esplicata sotto forma di metafora fra-


seologica e in CR sotto forma di perifrasi metonimica (quelli del pen-
nacchio), ma in entrambi i casi in funzione referenziale alla custodia
dell’onore della propria donna (moglie o figlia), costituisce un certo
65 «Scene popolari» verghiane

non casuale raccordo tra i due testi drammaturgici verghiani. Più in


generale è significativo che i rappresentanti dell’istituzione giudiziaria
e religiosa, elementi omologanti, come si è detto, della realtà sociopo-
litica italiana postunitaria nonché fattori cardine della realtà locale,
convergano in CR e in IP a connotare in chiave scenica l’univoca
percezione del personaggio popolare.
O si osservi la pregnanza dell’allusività al senso metaforico dialettale
di cumpari per ‘amante’ nel seguente commento di compar Alfio alla
fretta di Lola nel precederlo in chiesa per le funzioni pasquali:

Ora, se vedete mia moglie che mi cerca, ditele che vado a casa a pigliare il
regalo pel suo compare Turiddu (V 223).

Dove il sintagma sottolineato ricalca solo nella forma il costrutto


dialettale pi sô compari, che non prevede l’articolo nel significato let-
terale, ma solo in quello figurato.
Anche le iperboli rivelano una diversa funzionalità nei due testi, qua-
lificandosi come figure della catastrofe nel contesto tragico di CR («Che
se gli si spaccasse il cuore davvero a tutti e due con un coltello avvelena-
to d’aglio, ancora non sarebbe niente!» V 223) e come semplici intarsi
idiomatici in IP («In casa non c’è una goccia d’acqua» I 244).
Degno di nota che lo stereotipo Tu sei una santa risulti applicato ri-
petutamente a Màlia, rimarcando da una parte il topos dell’angioletto
che caratterizza la protagonista di IP e dall’altra evocando, non certo
casualmente, il nome di comare Santa, palesemente antifrastico nella
vicenda di CR.
Significativo il ricorso in entrambi i testi al linguaggio figurato con
referenza teatrale, che in CR si presenta nelle scene di pathos, con
radici idiomatiche nella prima occorrenza e con più tenue estrazione
toscana nella seconda:

Santuzza (cadendo ginocchioni e mani giunte). Ah! compare Turiddu, come po-
tete dirlo?
Turiddu. Alzati, non mi fare la commedia! Alzati o me ne vado (II 219; cfr. sic.
fari a cumeddia ‘agire con teatralità’).
Turiddu. Finiamola! Me ne vado per troncare queste scenate! (IV 222).

mentre in IP assume connotazioni più blande e colloquiali:

Gilda. Sa, non ho voglia di fare le solite scene, adesso! (I 247)


Giuseppina (a Carlini). Non cominci a far scene anche lei, benedetto Iddio!
(I 251).
66 Gabriella Alfieri

Assume funzioni mimetico-ambientali l’uso della ripetizione che,


secondo Trifone, concorrerebbe a caratterizzare «la monotonia del de-
primente bugigattolo di In portineria»93. Un’ulteriore funzione stilistica
di questo espediente retorico è stata individuata dalla Barsotti, che vi
intravvede la chiave espressiva dei sentimenti nel duetto Màlia Carli-
ni in I 2, ritmato dal rincorrersi di costrutti fiorentineggianti e di «frasi
concettualmente significative […] che si rincorrono in verticale»94.
Quello che in CR era il duettare ritmico da melodramma tra Santuzza
e Turiddu, qui si ritraduce in ritmo interiorizzante e malinconico.
Così il parlato riferito, confinato in CR nel monologo rievocativo
di Santuzza, si riarticola in IP nello spettegolare della sora Assunta,
creando un ulteriore raccordo strutturale tra i due testi, sicché non è
da escludere che Verga procedesse nella scrittura di In portineria aven-
do sotto gli occhi il copione di Cavalleria.
In definitiva non si può non convenire con Luca Serianni che «le
novità linguistiche del romanziere si ritrovano intatte nel drammatur-
go»95 Verga, che nel «drammettino» milanese attingeva le qualità poi
apprezzate in giovani aspiranti autori di testi scenici: «la naturalezza e
la snella pieghevolezza del dialogo»96 o, in termini più espliciti, «la di-
sinvoltura elegante della scena e del dialogo, ch’è tutto pel teatro»97.
A voler trarre delle considerazioni più caratterizzanti in ordine alla
configurazione sociostilistica di IP rispetto a CR, risulta calzante quan-
to già a suo tempo osservato da Anna Barsotti che nella materialità
espressiva del dramma milanese rilevava come tratti dominanti una
«semplicità e povertà di linguaggio» affidate al registro metaforico e
rispecchianti la «chiusura di un mondo all’interno del quale tutti par-
lano allo stesso modo» con perfetta simmetria ambientale rispetto al
«parlar figurato e cadenzato dei lavori rusticani del Sud»98. A tale nu-

93
  Cfr. Trifone, L’italiano a teatro cit., p. 152.
94
  Barsotti, Verga drammaturgo cit., p. 82.
95
  Serianni, Il Secondo Ottocento cit., p. 158.
96
  Si veda la lettera diretta da Catania il 20/2/1913 a Francesco De Felice con un
giudizio limitativo circa «l’interesse e lo svolgimento scenico di un’azione drammati-
ca», ma incoraggiante per la qualità stilistica, espressa nelle parole citate nel testo e
anticipata qualche riga prima: «Il suo bozzetto è scritto con garbo, e il dialogo procede
svelto e naturale» (in Verga, Lettere sparse cit., pp. 397-398).
97
  Il giudizio si riferiva al bozzetto drammatico Come l’edera di Adelaide Bernardini
che Capuana gli aveva letto (cfr. la lettera da Catania dell’autunno 1904, in Raya,
Carteggio cit., p. 392).
98
  Barsotti, Verga drammaturgo cit., p. 75.
67 «Scene popolari» verghiane

dità espressiva corrispondeva una totale ellissi della rappresentazione


scenica, per cui il dramma risulta costantemente alluso e la morte di
Màlia si consuma nei dialoghi delle scene finali, senza colpi di scena.
In definitiva parrebbe che il Verga avesse ritrovato, tra la povera gente
di Milano, «lo stile dei poveri contadini siciliani, che diventa stile
di tutti i poveri»99. La caratterizzazione ‘popolare’ insomma è affidata
dal Verga al colore locale, realizzato – ove possibile naturalmente – su
base sopradialettale, e non limitato a un’ipercaratterizzazione idio-
matica univocamente siciliana o meneghina. L’elemento mediatore
è naturalmente il toscano, che in CR stempera l’ethnos rusticano in
direzione di una cultura campestre orizzontalmente nazionale o «vil-
lereccia» secondo il caustico giudizio dello Scarfoglio, e in IP coopera
alla «rappresentazione di un popolino settentrionale, ma pure generi-
camente italiano, facendo corrispondere il linguaggio al tono ‘medio’
della vicenda»100. Si realizzava altresì in questa dimensione stilistico-
espressiva neutra sia sul piano diamesico che diatopico, uno dei prin-
cipali dettami zoliani del naturalismo applicato alla scrittura teatrale,
vale a dire il ricorso a un linguaggio quotidiano «che cancellasse la de-
clamazione enfatica così come lo scoppiettante e innaturale fraseggio
del teatro coevo»101, e, nel babelico contesto sociolinguistico italiano,
elaborasse attraverso la ricerca di un modello espressivo realistico, una
«lingua accessibile a tutti, diversificata negli stilemi, nei nessi sintat-
tici, nei modi e nelle parole, significativi del mondo in cui si muove-
vano i personaggi»102. Al di là del risultato sociocomunicativo poi, il
dittico drammaturgico verghiano attingeva indiscutibili risultati di or-
dine stilistico, come non avrebbe mancato di far osservare il Capuana
nella prefazione alla propria versione teatrale della Giacinta:

l’autore di Cavalleria rusticana e di In portineria era riuscito a servirsi di una


lingua schietta, rapida, tutta a scorci, a sbalzi, tale da dare proprio l’illusione
del dialogo parlato, senza perdere intanto nessuna delle sue buone qualità
d’opera d’arte103.

In proposito vorrei rimarcare la condivisione tra CR e IP di una


delle strategie elocutive più tipiche della scrittura verghiana, vale a

99
  Musumarra, Il linguaggio cit., p. 25.
100
  Barsotti, Verga drammaturgo cit., p. 74.
101
  Cfr. Oliva, in Verga, Tutto il teatro con i libretti d’opera cit., p. xxxviii.
102
  Musumarra, Il linguaggio cit., p. 23.
103
  Cit. in Ferrone, Il teatro cit., p. 243.
68 Gabriella Alfieri

dire la sottolineatura ritmica di particolari nuclei enunciativi tramite


figure di suono come allitterazione o rima. Basti pensare alla rima che,
nel dramma rusticano evoca in absentia la parola corna nella locuzione
vi adorna la casa con cui Santa rivela a compare Alfio il tradimento di
Lola, mentre nel «drammettino» suburbano allude in praesentia alla
bellezza e all’eleganza di Gilda, nel richiamo a distanza essa… princi-
pessa che anima la battuta dell’orgogliosa madre della ragazza. O an-
cora, alla rima allusa che rimarca la veridicità dell’accusa di Santuzza
stessa, testimone oculare dell’adulterio consumatosi in assenza del ma-
rito di Lola: la rima perfetta della sequenza dialettale Era iddu, Turiddu
si stempera nella versione italiana in una blanda allitterazione u/i che
comunque trasmette sonorità al parlato pieno di pathos della scena:

Santuzza. No, non si sbaglia compar Alfio. Era lui, Turiddu (I 215).

In ogni caso l’alternanza dei determinanti pronominali nell’intero


contesto mima il triangolo amoroso (tu/lui/me).
O si osservino le allitterazioni accavallate ad assonanze (In chiesa//ci
ha// chi ha // chiesa//coscienza //netta) nelle salaci battute dell’esasperata
Santuzza:

Dico che vostra moglie va attorno carica d’oro come la Madonna dell’altare, e
vi fa onore, compare Alfio! (V 223)
In chiesa ci ha da andare chi ha la coscienza netta, gnà Lola (III 220).

Nel primo esempio l’allitterazione di o e r rimarca il rinvio agli


enunciati immediatamente precedenti proferiti dalla stessa Santuzza e
riferiti al fedifrago Turiddu (m’ha tolto l’onore; e vi adorna la casa), con
allusività che scatenerà il dramma finale.
In tale prospettiva si rivela davvero cruciale l’esperienza di IP, la cui
facies stilistica appare caratterizzata da un intersecarsi di procedure e
soluzioni già sperimentate dal Verga nei testi narrativi e teatrali prece-
denti, e qui ricomposte nel duplice e simultaneo esplicarsi di registro
rusticano e registro suburbano nello stile sceneggiato ‘popolare’:

Quelli che il Devoto ha chiamato «piani di racconto» della narrativa ver-


ghiana, che sono piani stilistici e temporali, nelle opere teatrali diventano “i
registri” del teatro verghiano104.

  Cfr. Musumarra, Il linguaggio cit., p. 25.


104
69 «Scene popolari» verghiane

In base alla lettura sinottica qui proposta, IP conferma la sua cen-


tralità di testo maturato dalla precedente esperienza scrittoria di Vita
dei campi, Malavoglia, Rusticane ma già proteso in avanti verso nuovi
traguardi socioculturali e psicoespressivi. Ciò vale naturalmente, per
la dislocazione ambientale dai ceti popolari della Sicilia contadina e
marinaresca alle classi operaie della Milano di Per le vie, ma anche per
la proiezione tematica e stilistica verso i drammi ‘intimi’ di personaggi
borghesi o aristocratici di novelle, romanzi e teatro destinati poi in
massima parte a restare incompiuti.
In tal senso andranno interpretati gli stilemi che chiamerei interte-
stuali in quanto trapassano da un testo all’altro dell’opera verghiana,
indipendentemente dal genere (vale a dire da un romanzo a una no-
vella, o da un romanzo a un dramma, o da una novella a un dramma).
Come si è visto nella tavola sinottica degli esempi, sul piano struttura-
le, la Mena dei Malavoglia può rapportarsi alla Màlia di IP, e, simme-
tricamente, compare Alfio al Carlini; o ancora, IP si può sovrapporre
nei toni intimistici a Bollettino sanitario, e certe espressioni di effusività
emotiva, come l’interiezione Oh mamma! o tutta la gestualità espansi-
va di Màlia stigmatizzata nelle didascalie d’autore, trapassano da IP a
Dramma intimo, sia nella versione novellistica, sia nell’abbozzo teatrale
da questa ricavato, e poi, nella Mara della versione scenica della Lupa,
il cui intimismo però stride col violento contesto rusticano105. Basti qui
semplicemente sottolineare lo stretto parallelismo tra il testo di Bollet-
tino sanitario e quello di IP, percepibile non solo sul piano dei contenu-
ti, ma addirittura su quello ben più intrinseco del ritmo anaforico che
accentua il tono recriminatorio dell’enunciato monologico dell’aman-
te abbandonato, che passa con invariato tono declamatorio dallo stile
epistolare simulato nella novella allo stile del dialogo teatrale:
Lasciatemi in pace, Lasciatemi in pace […] Che ve ne importa? […] Voi siete
bella, sana, giovane, ricca. […] Lasciatemi in pace106.
Carlini. Che dispiaceri vuole aver lei? Lei bella, lei senza fastidi, lei portata in
palma di mano!... (II 274).

In sostanza sembra di poter dire che IP appaia fortemente protesa


verso Dramma ignoto o La commedia dell’amore che avrebbero dovuto
chiudere la trilogia, realizzando «il felice abbinamento verghiano fra

105
  Lo faceva osservare pertinentemente Gianni Oliva (cfr. Verga, Tutto il teatro
con i libretti d’opera cit., p. lii).
106
  Cfr. Verga, Drammi intimi cit., p. 47.
70 Gabriella Alfieri

colorismo d’ambiente e dramma intimo»107 e promuovendo la ‘gente


minuta’ della città a emblema della società italiana. Per contro la ge-
stualità caratterizzante della popolarità risulta smorzata e macchietti-
stica rispetto a CR, limitandosi al giuramento col segno della croce e
al calpestare il berretto da parte dei protagonisti maschili di IP, Batti-
sta e il Carlini108.
Non a caso In portineria si colloca in quei magici anni Ottanta in cui
raggiungeva l’acme la tensione creativa dell’autore, che ne era con-
sapevole se nelle lettere confessava di provare per quel testo «affetto
paterno ostinatissimo»109 e viscerale, pur diffidando pragmaticamente
della «collaborazione intellettuale del pubblico»110 nell’apprezzare la
commedia sperimentale suburbana. Lo ribadiva al Paola con inequi-
vocabile esplicitezza dopo la ‘caduta’ immeritata della rappresentazio-
ne milanese:

La commedia mia deve essere così com’è o non essere affatto, e parmi debito
d’onestà, che se deve essere giudicata altrove lo sia nelle identiche condizioni
che lo fu qui, senza escamottage (sic), e parmi debito di rispetto a me stesso
che se ho affrontato a testa alta le conseguenze delle responsabilità che sape-
vo d’assumermi, e ne ho avuta la peggio, è ben giusto ora che il pubblico di
Milano assuma la sua parte di responsabilità nella storia letteraria, nel caso
che il suo giudizio fosse dichiarato puerile altrove111.
In ogni caso il Verga aveva la più totale e serena convinzione del-
l’importanza della propria ricerca artistica, confortata comunque dalla
lettura preventiva agli amici del «Fanfulla»:

qualunque sarà il giudizio del pubblico la rappresentazione avrà l’importanza


di un avvenimento letterario che può avere la sua influenza sul nostro teatro
anemico, e che ad ogni modo non sarà una caduta volgare112.

107
  Ferrone, Il teatro cit., p. 244.
108
  Ibid., p. 164.
109
  Il Verga alludeva a una possibile rappresentazione fiorentina di IP (cfr. Lettera a
Mariano Salluzzo del 25-12-1888, in Verga, Lettere sparse cit., p. 214).
110
  A proposito della possibilità di far recitare IP a una promettente attrice di nome
Varini il Verga ammetteva di avere per la commedia milanese «viscere più che pater-
ne» (Lettera al Calandra del 1-3-1896, in Verga, Lettere sparse cit., p. 311).
111
  Lettera al Paola del giugno 1885, in Branciforti, Verga dietro le quinte cit., p.
306.
112
  All’amica milanese Verga aveva così riassunto le proprie idee sulla necessità di
rinvigorire la letteratura teatrale coeva (cfr. Verga, Lettere a Paolina cit., p. 84).
71 «Scene popolari» verghiane

Lo scetticismo verghiano era condiviso da Felice Cameroni, uno dei


pochissimi in realtà a capire l’importanza strutturale di IP nell’ambito
del teatro ottocentesco. Nel recensire appunto la sfortunata rappre-
sentazione del «drammettino» suburbano sul «Sole» del 17/5/1885, il
critico sottolineava l’insipienza degli spettatori impreparati a cogliere
la novità di quella coraggiosa «riduzione di scene popolari tutta sem-
plicità e naturalezza»113.
In ogni caso il Verga non si sottraeva alle proprie responsabilità au-
toriali se, appena un mese prima, aveva potuto scrivere al Giacosa, pe-
raltro dedicatario di IP e autore di drammi dal tono grigio e dimesso:

Bisogna dare delle lezioni dure e implacabili a questi sacerdoti e sacerdotesse


dell’arte del Teatro Girolamo […] Io oso creder sempre che il pubblico sarà
con noi quando sapremo tirarcelo dietro, dico noi, non moi 114.

Consapevole che buona parte dell’insuccesso scenico di IP fosse


dovuto all’inadeguata capacità interpretativa degli attori e alla super-
ficialità degli spettatori, lo scrittore non mancava di riprovarci con
l’altra sfida compositiva rappresentata dalla Lupa, come spiegava al
critico e amico Cameroni in una lettera datata Vizzini il 20/4/1890:

Ahimé!, mi tenta ancora il sogno di questa forma dell’arte comunicativa ed


efficacissima, la realizzazione di un pubblico intelligente e di una collabora-
zione perfetta tra autore e comici115.

Alla vigilia della messa in scena del suo secondo testo rusticano, no-
nostante il buon esito delle prove, l’ansietà si riaffacciava, con le stesse
motivazioni esternate in termini più che realistici allo stesso amico:

Ma vi confesso che ho una paura puttana, visto l’umore del pubblico – che ha
seppellito già due o tre lavori nuovi, e quello dei comici, in conseguenza – e
i precedenti che mi ha lasciati il successo morboso della Cavalleria, che mi è
rimasta sullo stomaco116.
E, con toni meno confidenziali, a Giuseppe Treves:

113
  Citata in Ferrone, Il teatro cit., p. 167.
114
  In Verga, Lettere sparse cit., p. 167.
115
  Ibid., p. 244.
116
  La lettera, datata Torino 16/1/1896, si trova ibid., p. 308. Si veda anche la lettera
al Paola del 15 gennaio 1896, in Branciforti, Verga dietro le quinte cit., pp. 316-317.
72 Gabriella Alfieri

Il precedente eccezionale di Cavalleria rusticana mi crea un obbligo oppri-


mente e pericoloso, che mi pesa e mi minaccia117.

Due mesi dopo il fallimentare debutto di IP, avvenuto il 16/5/1885


al Manzoni di Milano ad opera della Compagnia Nazionale di Enrico
Reinach e Olga Lugo, il Verga attribuiva l’insuccesso a un effetto boo-
merang del trionfo di CR, come confessava al Capuana, che stava per
cimentarsi nel teatro intimista con la scrittura del testo gemellare di
IP, Piccolo archivio:

Io m’immagino un pubblico scelto e intelligente, non numeroso, non gua-


stato dalle coltellate di Cavalleria rusticana e che non è venuto in teatro per
veder mordere l’orecchio a compar Alfio. [Figure come quelle del tuo Piccolo
Archivio] dovrebbero avere un’attrattiva sottile ed efficace. Anche la figura
sbiadita e semplice della mia povera Màlia seduta su di una poltrona a rumi-
nare i suoi guai e a empirsi gli occhi della festa degli altri parvemi che dovesse
comunicare ad altri la seduzione malinconica della sua natura timida e de-
licata, e che l’ambiente tutto di quella stanza dove si sente il morto dovesse
avere per tutti quelli che hanno assistito ai tristi e semplici spettacoli di simili
scene intime dal vero l’efficacia drammatica del colpo di coltello, e del morso
all’orecchio. Invece hanno riso a quella inferma che ricorda colla madre le
quotidiane abitudini domestiche come per attaccarsi alla vita, e sogna la festa
dei campi, il San Giorgio cogli occhi già affossati dalla morte. Ma non ne
parliamo più118.

La caduta di IP è testimoniata dalla mordace cronaca dello stesso


Cameroni:

Con somma letizia pei rifischiatori e per coloro i quali sul teatro non vorreb-
bero altro se non le mandolinate liriche ed i drammi a intreccio, ieri sera le
scene popolari di Verga In portineria fecero un gran fiasco […] Cosa volete?
La folla giudicò noiosi I Malavoglia ed insipida, ingenua, preadamitica In por-

117
  La lettera è datata «gennaio 1896», ma sarà dello stesso giorno o di giorni con-
tigui a quella del 16 gennaio al Lopez appena citata (cfr. Verga, Lettere sparse cit., p.
244 e p. 309).
118
  La lettera, datata Milano 17 luglio 1885, si legge in Raya, Carteggio cit., p. 245.
Ho corretto in inferma un incongruo informe risultante dalla cattiva lettura del Raya.
Per il gemellaggio tra In portineria e Piccolo archivio, si vedano le osservazioni di Oliva
in Verga, Tutto il teatro con i libretti d’opera cit., p. xxvii.
73 «Scene popolari» verghiane

tineria […]. Ritorniamo dunque ai trionfi della Partita a scacchi e del Padrone
delle ferriere119.

Il critico attribuiva la freddezza della reazione anche all’insensibilità


sociostilistica della platea milanese, incapace di andare oltre il sempli-
ce sogghigno di fronte a un Verga che «osa far parlare le persone come
parlano veramente»120.
A distanza di qualche anno l’autore non solo avrebbe potuto accen-
nare a quell’insuccesso con maggiore obiettività, ma avrebbe avuto
una rivalsa nella seconda rappresentazione romana di IP, accolta fa-
vorevolmente dal pubblico121 e interpretata non a caso da Eleonora
Duse che aveva caldeggiato la messa in scena del «drammettino» mi-
lanese122. Ancora una volta l’istinto e la fiducia dell’autore nel proprio
progetto di «affrancamento dalla tradizione ottocentesca»123, basato
«sull’effetto del non effetto»124, non si erano lasciati scoraggiare dalla
volubilità del pubblico. Come confessava al Capuana, infatti, il Verga
aveva incassato con fierezza il «gran fiascone al Manzoni» ritirando
immediatamente IP dalle scene:

non voglio che si strascini qua e là in altri tentativi più o meno falliti prima
che io l’abbia riletta a mente fredda fra qualche mese per vedere se è pro-
prio da buttare nel fuoco, oppure se devo tentare un altro esperimento. […]
Una vera curée, caro Luigi, e ti assicuro che ci è voluto molto coraggio per
affrontarla a testa alta e lasciarla passare tranquillamente e senza aprir bocca.
Cotesto ti mostrerà anche quanto io sia convinto delle mie idee se me ne son
sentite dir tante senza batter ciglio. […] E qualche volta, passami la presun-
zione, è bene illuderci di scrivere pel 1899125.

119
  Ferrone, Il teatro cit., p. 183.
120
  Ibid., p. 171.
121
  Numerosi accenni alla rappresentazione romana si trovano nelle lettere a Pao-
lina di quel periodo, ma se ne darà conto in altra sede.
122
  Lo si desume dalla lettera al Capuana da Catania, il 24/9/1886: «La Duse mi ha
scritto che vuol riguardare In Portineria ed io dovrei partire verso la metà di ottobre»
(cfr. Raya, Carteggio cit., p. 261).
123
  Musumarra, Il linguaggio cit., p. 22.
124
  L’efficace notazione si deve a Gianni Oliva che la estendeva al progetto dram-
maturgico capuaniano (in Verga, Tutto il teatro con i libretti d’opera cit., p. xxvi).
125
  La lettera, datata 5/6/1885, si legge in Raya, Carteggio cit., pp. 241-243.
74 Gabriella Alfieri

Umanissimo disappunto, dunque, ma anche lungimiranza di autova-


lutazione se, accingendosi a riproporre il testo al pubblico romano un
anno dopo, il Verga ignorava un consiglio strategico dell’amico, che
da Mineo gli aveva scritto il 3 ottobre 1886:

Io ti faccio i miei auguri per In portineria: ma se tu fossi nel caso, ti vorrei dare
un consiglio. Prima della ripresa di In portineria dai la commedia nuova. È una
malizia che potrebbe giovarti molto126.

Il suggerimento non ebbe seguito, sia per la strenua convinzione del-


l’opportunità della sperimentazione drammaturgica tentata, sia, forse,
per l’arretrato stato di elaborazione della Commedia dell’amore, poi ri-
masta, come si è detto, incompiuta.
Il Capuana, in ogni caso, come alter ego del Verga, aveva colto in
pieno il senso del rapporto tra CR e IP, e non mancava di farlo capire
alla zia del Verga, l’ormai anziana Mamma Vanna che era andato a
trovare a Catania, affidando il giudizio di valore, neanche a farlo ap-
posta, a un determinante avverbiale, quel letterariamente che si va ad
aggiungere alla terna di avverbi cui lo stesso Verga aveva trasmesso la
piena consapevolezza della propria scelta di metodo compositivo:

Mi parlò di In portineria: non era contenta del risultato la povera affettuosa


vecchina: avrebbe voluto il chiasso di Cavalleria rusticana. […] Io tentai di
persuaderla che il risultato di In portineria letterariamente non aveva nulla da
invidiare alla sua sorella maggiore127.

Nonostante il fiasco di pubblico, dunque, In portineria va considera-


ta, a prescindere dall’attitudine scettica di certa critica128, un effettivo
successo dal punto di vista dell’evoluzione tematica e stilistica della
scrittura verghiana, segnando la riuscita piena dell’esperimento testua-
le ad esso legato. In tal senso è un tratto rivelatorio l’intertestualità sti-
listica, e non è un caso che la riconversione e il riciclaggio di soluzioni
espressive sia più frequente nella caratterizzazione emotiva del Carli-

126
  Cfr. ibid., p. 263.
127
  Lettera di Capuana al Verga da Milano, 28/12/1886, ibid., p. 266.
128
  Mariani, Sapegno e, più recentemente, Natale Tedesco ribadiscono la superio-
rità del Verga narratore e sottovaluta la portata innovativa di In portineria. Bigazzi,
Ferrone, Barsotti e Oliva invece, in base a documentati spunti storiografici e testuali,
hanno cercato di valutare più obiettivamente l’esperienza del Verga drammaturgo.
75 «Scene popolari» verghiane

ni, che continua il tipo dell’innamorato deluso, situandosi al limite


tra popolarità rusticana e popolarità urbanizzata. Simmetricamente la
mimesi del parlato è più variegata e riuscita in Giuseppina, anch’essa
liminare tra popolarità rurale e cittadina, e in Assunta, sorta di zia
Cirmena ante litteram. E IP rappresenta, anche in tal senso, un punto
di arrivo o, se si preferisce, di svolta nella ricerca compositiva verghia-
na, attingendo un registro neutro, mimeticamente rappresentativo
del grigiore suburbano, «attraverso l’espressione o l’“espressionismo”
non troppo gergalmente e regionalmente caratterizzato dei parlanti»,
esponenti di «un popolino settentrionale, ma pure genericamente
italiano», e attraverso la conquistata identificazione tra linguaggio e
«tono medio della vicenda»129. Si realizzava così, come emerge anche
dal confronto qui tentato, una ricomposizione tematico-linguistica tra
CR e IP, che rivelano infine il loro posto e il loro ruolo nell’economia
della produzione letteraria (narrativa e teatrale) dell’autore:

Il mondo verghiano, quell’incontro singolare di passionalità e di raziocinio,


di religiosità superstiziosa e di ateismo, di indifferenza e di muta partecipazio-
ne, si ricompone quindi, ad una analisi progressiva delle opere, non solo per
la costanza dei temi […], ma anche nella trama e nella tessitura del linguag-
gio, o dei linguaggi 130.

Tornando alle concomitanze da cui siamo partiti e alla scelta de-


liberata di cui parla Serianni, ricorderemo che al Capuana avrebbe
scritto: «IP è così perché così ho voluto che fosse»131, che era poi
la stessa asserzione già fatta a proposito dei Malavoglia132. A Paoli-
na Greppi avrebbe addirittura confessato con scherzosa ma veridica
ironia, di preferire «dolor di borsa, come dicono in Sicilia, a dolor di
coscienza, artistica s’intende», comunicandole la scelta di rinviare la
rappresentazione della Commedia dell’amore, la cui stesura lo lasciava
insoddisfatto, alla successiva stagione teatrale, nonostante le pressanti

129
  Barsotti, Verga drammaturgo cit., p. 74.
130
  Ibid., p. 76.
131
  Lettera al Capuana datata Milano, 5/6/1885, in Raya, Carteggio cit., p. 242 (cfr.
supra nota 57).
132
  Cfr. la lettera al Del Balzo del 28 aprile 1881: «Se dovessi tornare a scrivere I
Malavoglia li scriverei allo stesso modo; tanto mi pare necessaria e inerente al soggetto
la forma» (Verga, Lettere sparse cit., p. 110).
76 Gabriella Alfieri

ragioni «quattrinaje»133, e nonostante, come si è appena visto, i consigli


‘strategici’ del Capuana.
Con lo stesso spirito avrebbe negato nel 1918 a Salvatore Di Giaco-
mo il permesso di tradurre in napoletano In portineria, come già anni
prima l’aveva negato a chi voleva tradurla in siciliano:

le sono gratissimo. Ma… Non le dirò che in principio io non ho visto di buon
occhio le riduzioni che si son fatte di altre mie cosucce teatrali dove ho cer-
cato di rendere il colore locale, ma a modo mio, e in un italiano intelligibile a
tutta Italia. Però In portineria ha un carattere così spiccatamente locale – mi-
lanese – che poco mi sembrerebbe adatto a un’interpretazione diversa. […]
È uno scrupolo artistico che Lei indovinerà, quello che lascia esitare dinanzi
alla domanda sua che tanto mi onora134.

Per l’autore che, calcolatamente, pensatamente, e bravamente, come


aveva dichiarato lui stesso agli amici più cari, il «drammettino» am-
brosiano era intrasferibile in ambiente partenopeo. Ovviamente non
possiamo che dargli ragione: non bastava sostituire san Giorgio con
san Gennaro, perché la ricerca e l’impegno artistici di Verga esigono
tutt’oggi il massimo rispetto, come soluzioni stilistiche senza soluzione
di continuità in una produzione teatrale che sfuggiva a ogni cataloga-
zione di genere. Basti rileggere la lapidaria risposta a Camillo Antona
Traversi che interpellava l’ormai anziano autore sulla ricostruzione
storico-critica della sua scrittura drammaturgica:

Il mio repertorio è assai povero, e sta tutto in questa cartolina. Titoli delle mie
commedie: Cavalleria rusticana, In portineria, La Lupa, La Caccia alla volpe e
La Caccia al lupo, semplici scene135.

133
  La lettera era datata Roma, 20/3/1887 (cfr. Verga, Lettere a Paolina cit., p. 125).
I corsivi sono dell’autore.
134
  La lettera, datata 31/12/1918, si legge in Verga, Lettere sparse cit., p. 414. Il
diniego non era solo frutto di astratto scrupolo artistico, ma, come spiegava l’autore
al Di Giacomo, si basava anche sull’esperienza negativa di tentativi fatti «altrove» di
ritradurre IP in ambienti diversi da quello milanese. Nel 1903 un certo avv. Tommaso
Mauro, proprietario della Compagnia dialettale siciliana di Nino Martoglio, aveva
caldeggiato «la riduzione siciliana della Lupa, di In portineria e di Mastro-don Gesual-
do» (ce ne informa il Raya in nota alla lettera di Capuana a Verga del giugno 1903;
cfr. Carteggio cit., p. 391).
135
  Seguivano le date delle prime rappresentazioni di CR e IP. Cfr. Verga, Lettere
77 «Scene popolari» verghiane

La continuità dunque era data dalla ricerca di metodo e non dal-


l’estrinseca dislocazione ambientale, ma dall’intrinseca riconvertibi-
lità delle procedure di rappresentazione diegetica ed espressiva: Dal
tuo al mio conterrà ancora moduli stilistici riciclati, ma, passando dalle
scene popolari ai «bozzetti scenici» di Caccia al lupo e Caccia alla volpe,
la vena si mostrerà esaurita e i due mondi, rusticano e «di società», per
dirla col Capuana, resteranno assolutamente irrelati. Si rivela davvero
impressionante la lettera al Rod del 10/1/1884, presaga dell’inascol-
tata lezione di metodo del nostro autore e scritta proprio alla vigilia
del trionfo di Cavalleria, purtroppo dovuto non al significato profon-
do dello sperimentalismo ma al senso tutto esteriore della suggestione
folcloristica. E Verga lo sapeva, con la trepidazione, l’amarezza, e la
fiduciosa fermezza del pioniere, che sa di aprire nuove prospettive, ma
sa di dover pagare il prezzo altissimo dell’incomprensione e dell’isola-
mento:

La mia commedia (tentativo di commedia, chiamiamola meglio, in un ge-


nere arrischiatissimo e che fa a pugni col gusto attuale del pubblico) passerà
inosservata anche in Italia, e i più alzeranno le spalle come a un’idea sba-
gliata. È vero che prima di pubblicare le novelle di Vita dei campi nello stesso
genere, e di sperimentare la prima volta lo stesso metodo artistico in un altro
campo letterario io ebbi le stesse esitazioni e le medesime apprensioni che poi
il successo smentì; ma allora ero io nel mio libro faccia a faccia col lettore, la
riflessione aveva tempo di maturare quello che c’era di troppo brusco nella
prima impressione; mentre adesso le mie idee devono passare per degli inter-
preti né convinti né audaci forse come me. Basta, vedremo quel che sarà, sarà
una caduta di certo; a me preme soltanto affermare il genere. Il resto verrà poi
e lo faranno gli altri136.

Com’era avvenuto per le novelle campestri, così anche per la com-


media ‘villereccia’ il successo avrebbe ripagato la faticosa e audace sfi-
da quotidiana di tener fede al proprio impegno artistico. Ma si trattava

sparse cit., p. 435; corsivi miei. La cartolina non è datata, ma risale sicuramente agli
ultimi anni di vita dello scrittore. Proprio il Russo avrebbe notato come per CR non
fosse tanto questione «di influenza del genere letterario, mentre resta poi in pieno il
problema del rapporto artistico fra la novella e il dramma» (Giovanni Verga cit., p.
225).
136
  Cfr. G. Verga, Lettere al suo traduttore, Introduzione e note di Giorgio Longo,
Catania, Fondazione Verga, 2004, p. 159.
78 Gabriella Alfieri

di una gratificazione momentanea, ritenuta effimera come l’immeri-


tato fiasco da un autore «galantuomo» per il quale comunque la «più
dolce soddisfazione» e la più ambita ricompensa rimaneva la propria
stessa stima e soprattutto quella degli amici più fedeli, come il Paola,
al quale aveva confidato, a proposito del «buon esito» di Cavalleria al
teatro Carignano:

Che battaglia di tutti i giorni è questa con sé stesso e con tanti altri! E che
lotta d’interessi, di passioni! Per fortuna sono un animale a sangue bianco, e
non mi lascio scaldare né dagli attacchi, né dagli applausi. Vado avanti per
la mia strada, quella che credo buona, tranquillo e sicuro, e ho almeno la
coscienza di non aver fatto o detto cosa buona o cattiva per secondi fini o
altre basse passioni137.

Gabriella Alfieri

137
  La lettera al Paola, datata 11 marzo 1884, è stata pubblicata da Brancifor-
ti, Verga dietro le quinte cit., p. 301. Lo scrittore concludeva:«Voglio soprattutto che
uomini come te sieno contenti di avermi dato la lor amicizia, e dicano che sono un
galantuomo».
Per farla breve. Lo sperimentalismo
linguistico dell’atto unico sveviano

A prima vista la definizione spesso ripetuta del testo teatrale come


«scritto per essere detto come se non fosse scritto» sembrerebbe avere la
puntualità di un referto; ma quei pochi che continuano ad andare qual-
che volta a teatro si accorgono facilmente di quanto sia riduttiva una
formula del genere. Quale spettatore potrebbe infatti pensare, anche
solo per un attimo, che i fulminanti aforismi e le vertiginose metafore
di Shakespeare possano essere dette da un attore ‘come se’ non fossero
state cesellate con straordinaria sapienza da un autore che era insieme
un geniale drammaturgo e un finissimo letterato? Lo spettatore e l’attore
sanno benissimo che quegli aforismi e quelle metafore sono state scritte
non già per essere dette come se non fossero scritte, ma semplicemente
per essere dette a teatro con la dovuta intensità, in modo da realizzare
davanti a una platea gli intenti comunicativi, sostenuti da una vigile
coscienza stilistica e pragmatica, che l’autore si era proposto. Il natu-
ralismo a teatro, a ben vedere, è una mera illusione, perché il teatro è
sempre artificio, e lo stesso naturalismo non è altro che una modalità
di tale artificio. è stato notato giustamente che i discorsi teatrali sono
per loro natura paradigmatici, non sono estemporanei e approssimativi
come i discorsi reali, pronunciati da persone in carne ed ossa, non dai
personaggi di un dramma: «A teatro non si uccide senza sentenze, non
si ama senza dichiarazioni. Ma non sono parole soltanto dette quelle
di un personaggio sulla scena, sono colorite dal suono, accompagnate
dal gesto, evocate dalle stoffe e dalle luci, distaccate dal linguaggio: o
gridate o sussurrate, mai inerti, transitorie, dette per dire».
Se Svevo «tormentò i suoi manoscritti teatrali fino agli ultimi anni»,
come sappiamo dalla moglie Livia, fu anche per la sua acuta percezio-


  A. Gareffi, Destino, analogia, trasgressione nel teatro di Italo Svevo, in Contributi
sveviani, presentazione di R. Scrivano, Trieste, LINT 1979, p. 87.

  L. Veneziani Svevo, Vita di mio marito, prefazione di E. Montale, Milano, Dal-
l’Oglio 1976, p. 151.
80 Pietro Trifone

ne del dramma quale organismo retorico ambiguo e apparentemente


contraddittorio, una sorta di «prisma» testuale. L’accostamento della
commedia a un prisma appartiene a Svevo stesso e compare in una let-
tera databile tra il 1896 e il 1898, nella quale lo scrittore si rivolge a un
autorevole drammaturgo (di cui purtroppo non si conosce l’identità)
per avere lumi intorno ad alcune sue incertezze operative emerse dopo
la stesura di Un marito. Più precisamente, Svevo chiedeva come fosse
possibile conciliare la chiarezza dell’impianto con la complessità dei
contenuti, e se le difficoltà nascessero da problemi «d’orecchio», cioè
di resa dell’oralità, o «di mano», cioè di tecnica della scrittura:

Lei sa bene come la tessitura di una comedia debba esser lucida, chiara per
quanto si sostenga su un pensiero complesso. Anch’io lo so, ma il male è che
quando ricerco questa lucidezza (ed è ben male il ricercarla) tutto s’immise-
risce nelle mie povere mani che tagliano, aggiungono sformando tutto eppur
non arrivano a mandare al lavoro quel raggio di luce che può rompersi nel
prisma ma in modo tale da poter essere riscostruito. È affare d’orecchio o di
mano? Io non lo so e probabilmente non arriverò a saperlo mai se Ella non
m’aiuta.

Il frequente ricorso di Svevo all’atto unico si spiega anche con la


volontà di porre le articolazioni di un pensiero complesso sotto la di-
sciplina di una struttura agile e lineare, capace al tempo stesso di te-
nere viva la tensione e di controllare le spinte centrifughe. Rispetto
alla laboriosa macchina delle opere di dimensioni maggiori, come Un
marito e La rigenerazione, gli atti unici mettono a disposizione dello
scrittore uno strumento più snello e insieme più compatto, agevolan-
do la stessa ricerca di equilibrio tra l’«orecchio» e la «mano», ovvero
tra l’adesione all’immediatezza del parlato e l’impegno nella costruzio-
ne del testo.
Per quanto significativa, la predilezione sveviana per la misura breve
non può dirsi tuttavia un caso isolato o anomalo, data la straordinaria
fortuna nella drammaturgia europea di fine Ottocento dell’atto unico,
che lo stesso Pirandello utilizzò spesso fin dagli esordi. Proprio Piran-
dello, trattando di un tema affine, avanza alcune proposte teoriche che
si rivelano particolarmente utili per impostare una caratterizzazione
dell’atto unico. In un passo del saggio Arte e scienza lo scrittore sicilia-


  Epistolario, in I. Svevo, Opera omnia, a cura di B. Maier, 5 voll., Milano, Dal-
l’Oglio 1966-1969, I, p. 56.
81 Per farla breve. Lo sperimentalismo linguistico dell’atto unico sveviano

no, sulle orme di uno spunto di Tommaseo, individua un importante


tratto differenziale della novella e della tragedia classica rispetto al
romanzo nell’attitudine a rappresentare le vicende come di scorcio,
mostrando non la loro graduale evoluzione ma il loro risultato con-
clusivo. Al contrario del romanzo, afferma Pirandello, «la novella e
la tragedia classica condensano in piccolo spazio i fatti, i sentimenti
che la natura presenta o dilatati o dispersi. L’una e l’altra pigliano il
fatto, a dir così, per la coda; e di questa estremità si contentano: intese
a dipingerci non le origini, non i gradi della passione, non le relazioni
di quella con i molti oggetti che circondano l’uomo e servono a so-
spingerla, a ripercoterla, ad informarla in mille modi diversi, ma solo
gli ultimi passi, l’eccesso insomma». La tendenza a bruciare i tempi
e a concentrarsi esclusivamente sulle fasi finali raggiunge il culmine
nella forma testuale dell’atto unico, che attua una brusca ellissi degli
antefatti e dei presupposti, portando sulla scena non tanto le azioni e
i caratteri dei personaggi, quanto piuttosto le loro ineluttabili conse-
guenze. Come ha messo in evidenza Péter Szondi, «l’atto unico sce-
glie la situazione-limite, la situazione che precede immediatamente
la catastrofe […] e che ormai non può più essere sventata. […] Così
l’atto unico si rivela, anche in questo aspetto formale, come il dramma
dell’uomo non-libero».
Si accennava alla frequenza con cui Svevo ha adottato la misura del-
l’atto unico: su tredici commedie da lui scritte, gli atti unici sono ben
otto, e coprono l’intero percorso della sua vita artistica, dalla produ-
zione degli anni giovanili fino a quella dell’età avanzata. Tra i venti e i
trent’anni circa, anteriormente al 1892, anno di pubblicazione del ro-
manzo Una vita, lo scrittore triestino scrive gli atti unici Una commedia


  Arte e scienza, in L. Pirandello, Saggi e interventi, a cura e con un saggio introdut-
tivo di F. Taviani e una testimonianza di A. Pirandello, Milano, Mondadori 2006, p.
709. Va precisato che Pirandello riprende dichiaratamente tutte queste considerazioni
dal Dizionario estetico di Tommaseo; ma è senza dubbio significativo che le metta in
evidenza e le faccia proprie. Si tenga anche presente che il volume Arte e scienza,
uscito nel 1908, rifonde scritti già pubblicati con altri composti per l’occasione. La
fonte del passo qui citato, in particolare, è l’articolo dello stesso Pirandello Romanzo,
Racconto, Novella, apparso il 16 febbraio del 1897 nella rivista catanese «Le Grazie».
Si veda in proposito F. Rappazzo, Un articolo di Pirandello sulle forme narrative, in
«Allegoria», III, 8, 1991, pp. 155-160 (con la trascrizione del testo dell’articolo alle
pp. 158-160).

  P. Szondi, Teoria del dramma moderno, Torino, Einaudi 1962, p. 76.
82 Pietro Trifone

inedita, Prima del ballo e Le ire di Giuliano. Nel ventennale intervallo


tra Senilità (pubblicata nel 1898) e La coscienza di Zeno (composta tra
il 1919 e il 1922, pubblicata nel 1923), vale a dire nel periodo della
plateale rinuncia al ‘vizio’ della letteratura, l’impiegato modello Ettore
Schmitz si concede segretamente non poche infrazioni alla consegna
ufficiale, componendo fra l’altro le commedie brevi La parola, La verità
(rielaborazione della precedente) e Terzetto spezzato, oltre allo farsa in
dialetto triestino etichettata proprio come Atto unico. All’epoca del-
la piena maturità creativa, quando Svevo porta a compimento la sua
personalissima metabolizzazione letteraria delle teorie psicoanalitiche
attraverso la stesura della Coscienza di Zeno, risale infine l’atto unico
Inferiorità.
L’atto unico costituisce per Svevo una sorta di laboratorio più im-
mediatamente accessibile in cui svolgere la sperimentazione di temi,
caratteri e forme per la scena: un prezioso banco di prova per le opere
drammatiche di maggiore ampiezza e ambizione, dal quale sono sca-
turiti peraltro prodotti di autonomo rilievo e di notevole valore. Un
caso esemplare di tale sperimentalismo è rappresentato da Inferiorità,
con il suo lavoro di scavo nella dimensione dell’inconscio, con i suoi
tre finali alternativi a quello giustamente preferito dall’autore, con le
sue correzioni linguistiche, con lo stesso incalzante succedersi dei col-
pi di scena, quasi una risposta alla critica di eccessiva lentezza spesso
rivolta al teatro sveviano.
Il dramma mette in scena il classico antagonismo servo-padrone non
tanto per evidenziarne gli aspetti socioeconomici (di cui pure si tiene
il dovuto conto), quanto per illustrare le dinamiche del conflitto psi-
cologico tra superiore e inferiore attraverso una sua proiezione archeti-
pica. Al centro della vicenda c’è la beffa organizzata per scommessa da
una coppia di amici ai danni di Alfredo. Il servo di quest’ultimo, Gio-
vanni, deve fingere di sparargli per farsi consegnare da lui il portafogli,
ma – dopo una serie di contrattempi che fanno emergere inquietanti
zone d’ombra nella relazione tra i due, percorsa da sotterranei processi
di oppressione e inibizione – il colpo di pistola parte davvero e uccide
il padrone. Nell’impressionante scena conclusiva si assiste al rituale
schizofrenico del travestimento del servo omicida nel padrone morto,


  Per la controversa cronologia della produzione drammatica sveviana, si rinvia
una volta per tutte alle note dell’Apparato genetico e commento di F. Bertoni, in I. Sve-
vo, Teatro e saggi, Edizione critica con apparato genetico e commento di F. Bertoni,
saggio introduttivo e cronologia di M. Lavagetto, Milano, Mondadori 2004.
83 Per farla breve. Lo sperimentalismo linguistico dell’atto unico sveviano

con Giovanni che, sconvolto, indossa il soprabito e il cappello di Al-


fredo dicendo: «Volevo abbandonarti ed ora sarai sempre, sempre con
me». Un analogo sdoppiamento della personalità sarà messo in atto
dal protagonista di Psyco, il famoso film di Hitchcock, nel tentativo di
risolvere la persistente condizione di subalternità edipica nei confron-
ti della madre da lui assassinata; ed è significativo che il misconosciuto
teatro sveviano anticipi soluzioni espressive che mezzo secolo dopo sa-
ranno adottate nel cinema, risultando ancora fortemente innovatrici.
Il finale da brivido del dramma era stato preparato con notevole
abilità dall’autore, che aveva disseminato nel testo numerosi indizi,
spesso quasi impercettibili, dell’io diviso del servo, del suo ambiguo
atteggiamento verso il padrone, oggetto al tempo stesso di devota
ammirazione e di profonda insofferenza. Per illuminare gli angoli più
oscuri della psiche di Giovanni, Svevo ricorre non già a dichiarazioni
esplicite del personaggio, che in effetti sarebbero state del tutto inop-
portune, ma a un sottile intarsio di velate allusioni, di frasi dette e non
dette, di battute contraddittorie. Lo spettatore viene quindi sollecita-
to, in modo tanto più efficiente quanto più obliquo ed elusivo, a so-
spettare dell’esistenza di un grumo segreto e avverso che predispone la
vicenda al suo tragico epilogo. Così, per dirne una, alla domanda «Gli
vuoi molto bene tu al tuo padrone?» Giovanni rimane «un istante
indeciso» e poi risponde: «Bene? Sì… gli sono affezionato»; ma subito
dopo, quando gli viene chiesto maliziosamente: «Insomma gli vuoi
tanto bene che non t’importerebbe affatto se egli dovesse perdere una
scommessa?» non ha invece la minima esitazione e «alzando le spalle»
proclama: «No! Non m’importerebbe affatto!».
Strutture analoghe a quella che caratterizza la frase appena citata
Gli vuoi molto bene tu al tuo padrone?, con un ordine delle parole con-
sono alla nervosa mobilità del parlato, si presentano in vari altri casi,
come Ma io questo non lo faccio o Eppoi che te ne importa a te, Giovan-
ni?, e riflettono un più generale interesse dell’autore per le particolari
caratteristiche e per i diversi registri della conversazione. Il giovane
conte Alberighi, per esempio, è uno sportsman che frequenta un club e
all’occorrenza non disdegna di ricorrere al moderno formulario buro-


  Inferiorità, in Svevo, Teatro e saggi cit., p. 467. Su Inferiorità si veda E. Saccone,
Il poeta travestito (otto scritti su Svevo), Pisa, Pacini 1977, in particolare il cap. v del
volume, dal titolo La trasgressione e la regola.

  Svevo, Inferiorità cit., p. 447.

  Ibid., pp. 453, 457.
84 Pietro Trifone

cratico: Buono per franchi duemila da pagarsi verso consegna del portafogli
del signor Alfredo Picchi contenente ventimila franchi10. Il servitore, che
dà dell’Ella al padrone e naturalmente ne è ricambiato con il più asim-
metrico dei tu, tende a un eloquio fin troppo cerimonioso: Sono certo
che il signor Picchi non avrebbe nulla in contrario che io offra loro – se loro
aggrada – un certo liquore ch’egli predilige11. Ma le cose cambiano nel-
l’ultimo concitato scambio di battute tra Giovanni e Alfredo, quando
il servitore oscilla continuamente tra il lei e il tu, con una trasgressione
del codice linguistico che prelude a quella immediatamente successiva
del codice penale:

giovanni (risoluto ma ancora rispettoso) No, signor padrone, non si passa!


(poi, improvvisamente è preso dal più violento furore) Anzi, vieni qui, vieni qui.
(trascina Alfredo per un braccio fino al tavolo) Sieda e mi stia ad ascoltare. Pri-
ma di tutto… ecco… fuori il portafogli!
alfredo (spaventato) Eccolo! E adesso lasciami andare.
giovanni (lascia il portafogli sul tavolo) Vede, anche senza revolver. E adesso
viene il bello. Perché io ho il revolver! (lo estrae e fa scattare la molla di sicu-
rezza) Adesso il portafogli ce l’ho, ma bisogna pensare anche al mio denaro.
Come faccio io ad essere sicuro di averlo domani?
alfredo (balbetta) Te lo prometto.
giovanni (in pieno furore) Me lo promette! E non me lo promettesti già una
volta, più volte, quasi ogni giorno e poi mancasti… canaglia! Voleva deru-
barmi del denaro da me guadagnato con tanti stenti! Canaglia! Giura che mi
darai domani il mio denaro. Giuralo!
alfredo (terrorizzato) Giuro, giuro!
giovanni E su chi, canaglia! Non hai nessuno tu, su cui giurare. E domani
parlerai di nuovo come parlasti poco fa. Il mio denaro. Voglio subito il mio
denaro! (punta sul petto di Alfredo e tira subito)
alfredo Nel portafogli… nel portafogli. (stramazza a terra)
giovanni (si rimette a stento. Poi in ginocchio accanto ad Alfredo) Vi ho fatto
male? Padrone, padrone! Ve ne prego, rinvenite! Mi darete il mio denaro e
tutto sarà finito12.

Dopo aver sparato al padrone, curiosamente, il domestico smette di


alternare il lei al tu, e passa a un inatteso voi, una forma più cortese del

10
  Ibid., rispettivamente alle pp. 445 (didascalia), 452 e 451.
11
  Ibid., pp. 445-446.
12
  Ibid., pp. 465-466.
85 Per farla breve. Lo sperimentalismo linguistico dell’atto unico sveviano

tu, ma rivelatrice forse di un genere di rispetto più istintivo e naturale


di quello espresso dal lei13. L’attenzione di Svevo per le movenze del
dialogo influenzate dall’affettività emerge inoltre dal ricorso pressoché
esclusivo a frasi brevi, marcate da punti esclamativi e rotte da pause
di esitazione. Sono frequenti anche le ripetizioni enfatiche: vieni qui,
vieni qui; Giuro, giuro!; Il mio denaro. Voglio subito il mio denaro!; Nel
portafogli… nel portafogli; Padrone, padrone! In tale quadro, merita una
segnalazione la frase con dislocazione a sinistra e particella rafforzativa
Adesso il portafogli ce l’ho, tanto più interessante se si considera che in
un primo tempo Svevo aveva scritto Adesso il portafogli l’ho.
Altre correzioni dell’autore documentano un’analoga tendenza ad
avvicinare la lingua del dramma all’uso più vivo e attuale, nella grafia
(straordinarii → straordinari), nella morfologia (io […] credeva → io […]
credevo), soprattutto nell’orditura sintattica e in alcune scelte lessicali:
Non è vero ch’è squisito? è felicemente rimpiazzato dal rapido e ammic-
cante Squisito eh?; il costrutto impersonale si sapeva da tutti diventa un
più semplice e diretto tutti sapevano; «Io vi ti ho costretto!» si alleggeri-
sce passando a «Io ti ho costretto!»; nella frase «Io non posso prendere
di questo liquore che quando il mio padrone mi ci invita», mi ci invita
è sostituito dal più disinvolto me l’offre; il letterario avesse da cede
il posto al più comune dovesse14. Si tratta appunto di una tendenza,
non di un comportamento sistematico che escluda la conservazione
di qualche elemento più tradizionale ancora diffuso nella prosa del
tempo, come, per fare soltanto un esempio, la forma sieno in luogo di
siano15.
Ho già osservato in un’altra occasione che «per lo Svevo dramma-
turgo l’accusa di ‘scrivere male’ doveva risultare ancora più frustrante
che per il romanziere, dato il tipo di formazione linguistica di cui lo
scrittore disponeva. Nella sua biografia mancavano infatti esperienze
significative di italiano parlato: anche quelle che potevano scaturire
dal contatto con insegnanti italiani nella scuola gli erano state in gran
parte precluse, legittimando così l’affermazione di Zeno «Con ogni

13
  Anche in precedenza, in seguito a uno svenimento del padrone minacciato da
Giovanni, dunque in una situazione analoga, il domestico aveva adottato il voi: «Ma
padrone mio! Non vedete che sono il vostro servo fedelissimo. Come potete credere
che io voglia farvi del male?», e così ancora per alcune battute (ibid., p. 461).
14
  La documentazione completa delle varianti abbandonate si trova nell’apparato
genetico, ibid., pp. 1390-1403.
15
  Ibid., p. 452.
86 Pietro Trifone

nostra parola toscana noi mentiamo!»16. Dunque allo scrittore non


sfuggiva di essere esposto al pericolo dell’artificiosità linguistica, e cer-
tamente non gli sfuggiva neppure che per un commediografo «sottrar-
si a quell’insidia era più difficile e insieme più necessario»17.
Un chiaro esempio dei rischi cui era esposta la lingua di Svevo è co-
stituito da alcuni casi di uso ipercorretto del passato remoto, in rispo-
sta alla tendenza settentrionale a generalizzare l’adozione del passato
prossimo: «Questa sera a cena si scoperse che nel portafogli del tuo pa-
drone c’erano ventimila lire»; «Lei scommise insomma di portargli via
il portafogli?»; «Io pensai che a lei non sarebbe importato di perdere
quella scommessa»18. Va sottolineato peraltro che in Inferiorità Svevo
fa per lo più un impiego del tutto appropriato del passato prossimo, e
che in diversi casi corregge efficacemente la sua nota tendenza all’abu-
so della preposizione di19:

non è […] difficile di fare → non è […] difficile fare;


sarà bellissimo di poter descrivere → sarà bellissimo poter descrivere;
Fai male di parlare → Fai male a parlare;
Esitante di accettare → Esitante ad accettare (didascalia)20.

16
  La coscienza di Zeno, in I. Svevo, Romanzi e «Continuazioni», Edizione critica
con apparato genetico e commento di N. Palmieri e F. Vittorini, saggio introduttivo e
cronologia di M. Lavagetto, Milano, Mondadori 2004, p. 1050.
17
  P. Trifone, La lingua teatrale di Svevo, in corso di pubblicazione negli Atti del
Convegno ASLI Storia della lingua italiana e storia del teatro: l’italiano e i suoi dialetti in
scena (Bologna 12-14 ottobre 2006).
18
  Svevo, Inferiorità cit., pp. 449, 450, 462.
19
  Influenzato spesso dal sostrato dialettale, l’abuso della preposizione di da parte di
Svevo risente anche dell’interferenza del tedesco e del francese. Si veda in proposito F.
Catenazzi, L’italiano di Svevo. Tra scrittura pubblica e scrittura privata, Firenze, Olschki
1994, pp. 43-45 (con le precisazioni di G. Antonelli, in «Studi linguistici italiani»,
XXII, 1996, pp. 110-118: 116-17); P.V. Mengaldo, Il Novecento, Bologna, Il Mulino
1994, p. 137 (volume della collana Storia della lingua italiana, a cura di F. Bruni); L. Se-
rianni, La prosa, in Storia della lingua italiana, a cura di L. Serianni e P. Trifone, Torino,
Einaudi 1993-1994, I luoghi della codificazione, I, p. 573, nota 20.
20
  Si veda ancora l’apparato genetico che correda I. Svevo, Inferiorità, cit., pp.
1390-1403. Segnalo qui due ulteriori correzioni sveviane riguardanti la preposizione
per: avviato per perdere → avviato a perdere; in procinto di nuovo per fuggire → in procinto
di nuovo di fuggire (didascalia).
87 Per farla breve. Lo sperimentalismo linguistico dell’atto unico sveviano

Alla luce di questi significativi risultati, e del notevole impegno spe-


so per conseguirli, si può capire meglio perché l’ultimo Svevo – pur
sapendo di rimanere uno scrittore condannato a navigare a vista tra
il dialetto triestino, la lingua tedesca e la lingua italiana – protestasse
con l’amico Montale per quell’accusa di scrivere male divenuta ormai
un luogo comune: «Mi secca un poco di vedermi continuamente get-
tati sulla testa Riguttini e Fornacciari. È destino!»21. Non ci voleva
molto ad accorgersi che, nel paese del ‘culto della forma’, un luogo
comune del genere era in grado di nuocere gravemente alla fruizione
obiettiva di qualsiasi opera letteraria, anche la più meritevole.

Pietro Trifone

21
  Lettera di Svevo a Montale del 15 marzo 1926, cit. in A.L. Lepschy, Narrativa e
teatro fra due secoli. Verga, Invernizio, Svevo, Pirandello, Firenze, Olschki 1984, p. 89.
Varietà e registri dell’italiano in tre
autori comici del teatro novecentesco:
Ettore Petrolini, Achille Campanile,
Franca Valeri

1. Inizio col riportare una delle Tragedie in due battute di Campanile,


intitolata Un uomo pratico:

il tale
In Italia, la rovina del teatro è l’usanza della prima rappresentazione, con
quel pubblico speciale, più o meno presuntoso, più o meno ignorante. Ergo,
aboliamo la «prima» e cominciamo dalla seconda.

l’altro
Ma così la seconda diventa la prima e siamo da capo.

il tale
Bene. Si cominci, allora, dalla terza rappresentazione.

Posso utilizzare questo gustoso testo campaniliano per dire subito che
il mio intervento potrebbe costituire il paradosso opposto, perché si
tratta – per così dire – di una ‘seconda prima’: ho infatti già parlato
di questi tre autori al Convegno di studi Le declinazioni del comico nel
Novecento, svoltosi a Roma nel maggio 2005, e nelle occasioni congres-
suali non dovrebbero essere ammesse ‘repliche’ e neppure ‘riprese’….
Lasciando da parte gli scherzi, cercherò di fornire qualche spunto
di riflessione e alcuni dati per caratterizzare sul piano linguistico tre


  A. Campanile, Tragedie in due battute, Milano, Rizzoli 1978, p. 115. Avverto che
nella citazione ho omesso l’indicazione dei personaggi (un tale e un altro) e della
scena («Dove che sia, ai giorni nostri») e la didascalia finale (Sipario).

  Segnalo doverosamente che ho tratto qualche dato su Campanile e sulla Valeri
da due tesi di laurea (del vecchio ordinamento) di cui sono stato relatore, discusse
presso l’Università degli Studi Roma Tre: M. Caramazza, La lingua del teatro di Achille
Campanile (a.a. 2002-2003), e F. Patti, Aspetti linguistici del teatro di Franca Valeri (a.a.
2005-2006).
90 Paolo D’Achille

figure importanti nella storia del teatro comico italiano novecentesco:


Ettore Petrolini, Achille Campanile e Franca Valeri. Voglio anzitut-
to giustificare l’opzione per questi tre autori, che è dovuta in parte
a gusti e competenze personali, ma in parte anche a qualcosa di più
significativo: credo infatti (e spero di riuscire a dimostrarlo) che sia
per Petrolini, sia per Campanile, sia per la Valeri, le scelte linguistiche
abbiano avuto un peso fondamentale nella loro comicità. Infatti, delle
tre bergsoniane categorie del comico, «di situazione», «di carattere»
e «di parola», tutti e tre gli autori, in diversa misura, hanno privile-
giato la terza. Il peso della lingua risulta poi ulteriormente accresciuto
nei generi testuali che ho scelto di analizzare in questa occasione: si
tratta infatti non solo, ovviamente, di testi teatrali, destinati quindi
non a rimanere sulla carta ma a trovare spazio sulla scena, ma anche
di testi brevi o brevissimi (le macchiette e i monologhi di Petrolini,
le tragedie in due battute di Campanile, gli sketch di Franca Valeri),
nei quali la comicità o è affidata totalmente alla componente verba-
le, che può peraltro approdare anche a qualche caratterizzazione, o
comunque dipende più dalla parola che non dalla situazione. Certo,
per gustare appieno questa componente, almeno nel caso di Petrolini
e della Valeri, autori-attori, bisognerebbe, più che leggere i testi, sen-
tirli dalle loro voci, vederli agiti sulla scena, perché anche l’intona-
zione, il tono, il ritmo, la mimica facciale, la gestualità sono elementi
fondamentali della loro comicità, come è possibile verificare in parte
per Petrolini sulla base della scarsa documentazione cinematografica
disponibile, in modo un po’ più consistente per la Valeri, grazie soprat-
tutto alle registrazioni radiotelevisive, che consentono di cogliere, per
es., la funzione comica della r moscia e dell’intonazione milanese per
la Signorina Snob o della pronuncia romanesca (d’imitazione) per la
Sora Cecioni.


  H. Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico, Roma-Bari, Laterza 1982.

  Qualche dubbio – come vedremo – si potrebbe avere per le tragedie di Campa-
nile, che però, nonostante certe obiettive difficoltà di allestimento, sono state spesso
rappresentate. Nel caso di Franca Valeri, la scena è a volte quella televisiva.

  Sulla brevità come possibile categoria testuale cfr. i contributi raccolti in Testi
brevi. Atti del convegno internazionale (Roma, 8-10 giugno 2006), a cura di M. Dar-
dano, G. Frenguelli, E. De Roberto, Roma, Aracne 2008 [ma 2009].

  Come tratti fonetici ‘non cittadini’ del romanesco della Sora Cecioni segnalo
almeno la mancata pronuncia intensa delle consonanti iniziali per raddoppiamento
sintattico o in parole come più o sedia e la tendenza a lenire le sorde postnasali (il
91 Varietà e registri dell’italiano in tre autori comici del teatro novecentesco

Indico preliminarmente i testi e le edizioni su cui ho basato la mia


analisi. Per Petrolini ho utilizzato i due volumi curati da Giovanni
Antonucci nel 1993, prendendo in considerazione da Il teatro i mo-
nologhi raccolti nella sezione Macchiette e il primo quadro di Gastone
e da Facezie, autobiografie e memorie i testi compresi in Ti à piaciato?,
pubblicati per la prima volta nel 1915 e contenenti un ampio spaccato
del repertorio petroliniano; per Campanile le Tragedie in due battute
edite a cura di Giuseppina Bellavita (il cui nome, peraltro, non risulta
sul frontespizio) nel 1978; per Franca Valeri gli Sketches compresi nel-
le Tragedie da ridere uscite nel 2003 a cura di Patrizia Zappa Mulas.
Vorrei porre subito il problema dell’assenza, per tutti e tre i miei au-
tori, come pure per molti altri del filone comico-umoristico novecen-
tesco, sia teatrale sia narrativo, di edizioni critiche affidabili10 (come
quella, accuratissima, recentemente approntata da Nicola De Blasi e
Paola Quarenghi per il teatro di Eduardo De Filippo)11, che tengano
conto di eventuali manipolazioni subite dai testi nel corso del tem-
po in rapporto alle necessità sceniche. Nel caso di Campanile e della
Valeri, in particolare, le edizioni che ho usato danno notizie scarse o
nulle sulle datazioni dei singoli testi, che sarebbe invece importante
conoscere anche dal punto di vista linguistico: per Campanile, si sa
che le prime Tragedie in due battute risalgono agli anni Venti12, ma altre

segnale di apertura pronto tende a prondo), che è un tratto alquanto stigmatizzato (cfr.
da ultimo P. D’Achille, A. Stefinlongo, La lenizione delle sorde a Roma tra diacronia
e sincronia, in L’Italia dei dialetti. Atti del convegno (Sappada\Plodn [Belluno], 27
giugno-1 luglio 2007), a cura di G. Marcato, Padova, Unipress 2008, pp. 183-196).

  E. Petrolini, Il teatro, a cura di G. Antonucci, Roma, Newton Compton 1993;
Id., Facezie, autobiografie e memorie, a cura di G. Antonucci, Roma, Newton Compton
1993. Nelle citazioni successive indicherò questa edizione con la sigla P seguita dal
numero del volume (I per Il teatro e II per Facezie) e poi dal numero di pagina.

  Campanile, Tragedie cit. (d’ora in avanti C, seguito dal numero di pagina).

  F. Valeri, Tragedie da ridere, a cura di P. Zappa Mulas, Milano, La Tartaruga 2003
(d’ora in avanti V, seguito dal numero di pagina).
10
  Una nuova edizione critica del teatro di Ettore Petrolini è stata recentemente
annunciata da Claudio Giovanardi: cfr. C. Giovanardi, La babele delle lingue nel teatro
di Petrolini, in Id., Lingua e dialetto a teatro. Sondaggi otto-novecenteschi, Roma, Editori
Riuniti 2007, pp. 50-61: 51.
11
  E. De Filippo, Teatro, ed. critica e commentata a cura di N. De Blasi, P. Quaren-
ghi, 3 voll., Milano, A. Mondadori 2000-2007.
12
  Cfr. M. Ariani, G. Taffon, Scritture per la scena. La letteratura drammatica nel
92 Paolo D’Achille

dovrebbero essere molto più recenti e la valutazione sulla loro lingua


potrebbe essere diversa a seconda della cronologia; per la Valeri, non
escluderei affatto la possibilità di retrodatare vari neologismi e forestie-
rismi sulla base dei suoi testi. Di questo, anzi, posso già fornire qualche
esempio: nel celebre Diario della Signorina Snob, del 1951, ho trovato
un’attestazione, al femminile plurale, di divorziando ‘prossimo al divor-
zio’ (V 22), datato solo 1957 nel gradit13, e una di gonnellini hawaiani
‘fatti a strisce di paglia’ (V 25), espressione assente s.v. Hawàii del
Deonomasticon Italicum14; in uno sketch probabilmente della fine degli
anni Sessanta ho annotato anche una precoce presenza del famigerato
attimino (datato 1990 nel gradit) con valore avverbiale, ma ancora
temporale: «sono in procinto di partire per rappresentare l’Italia al
festival di... ma veramente ho un attimino di confusione... Dov’è che
andiamo stavolta?» (La diva intervistata, V 35); ancora più importante
è pertanto un’altra attestazione, forse di poco posteriore, di un attimo
‘un poco’, con riferimento allo spazio: «l’appartamento […] me lo spo-
sti un attimo rispetto all’asse dell’anno scorso» (La moglie del tenore,
V 74). Le due presenze sembrano confermare l’origine «milanese-set-
tentrionale» del modulo ipotizzata Ornella Castellani Pollidori, che
ha incluso un attimino tra i «plastismi» dell’italiano contemporaneo,
datandone la prima attestazione al 198515.

2. Come ho detto, la scelta sia degli autori sia dei testi punta a inda-
gare sulla comicità verbale, più che situazionale, promettente quindi a
priori per un’analisi di tipo linguistico. I nostri tre autori si prestano a
due possibili linee di indagine:
1) studiare la lingua che, per così dire, fa da sfondo alla loro comi-
cità: si tratta di un italiano standard? aulico? colloquiale? E sono
presenti tratti regionali o dialettali o popolari? E sono sfruttati

Novecento italiano, Roma, Carocci 2001, p. 119, che riportano come data delle Trage-
die in due battute il 1924, da riferirsi però solo ai testi più antichi.
13
  Grande dizionario italiano dell’uso, ideato e diretto da T. De Mauro, 6 voll., Torino,
Utet 1999-2007 (consultato nella chiave USB allegata al vol. VIII).
14
  W. Schweickard, Deonomasticon Italicum. Dizionario storico dei derivati da nomi
geografici e da nomi di persona, II, Derivati da nomi geografici: F-L, Tübingen, Niemeyer
2006, pp. 403-404.
15
  Cfr. O. Castellani Pollidori, La lingua di plastica. Vezzi e malvezzi dell’italiano
contemporaneo, Napoli, Morano 1995, pp. 218-219.
93 Varietà e registri dell’italiano in tre autori comici del teatro novecentesco

comicamente, come spesso avviene, per esempio, nel varietà, ge-


nere teatrale di cui Petrolini va considerato uno dei fondatori
e nel quale si può inserire anche la produzione della Valeri qui
esaminata?
2) studiare la lingua in quanto gioco verbale e quindi strumento di
comicità, raccogliendo i doppi sensi, i giochi di parole, i qui pro
quo, ecc.
Questo secondo aspetto, in particolare nel caso di Campanile, ha
già attirato l’attenzione di linguisti, se non propriamente di storici
della lingua: le tragedie in due battute sono state infatti ampiamente
utilizzate da Enrico Paradisi e da Emanuele Banfi nei loro saggi sul lin-
guaggio comico16 e anche da Franca Orletti nelle sue analisi conver-
sazionali17, per dimostrare come la comicità nasca spesso dalla voluta
violazione delle norme che regolamentano il dialogo. Così avviene,
per es., nella tragedia Il Signore poco socievole: il personaggio eponimo,
quando il Signore socievole gli porge la mano e gli dice: «Permette?»,
risponde semplicemente: «No» (C 189). Analogamente, in Presenta-
zione, quando il Signor Pericle Fischetti dice: «presentandosi all’altro
signore: Permette? Io sono il signor Pericle Fischetti. E lei?», l’Altro
Signore risponde: «Io no» (C 62). A loro modo coerenti col titolo
Scambio di cortesie sono anche le battute dei personaggi (indicati come
Uno e Un altro): «Disturbo? – Sì – Oh, che piacere!» (C 136).
L’analisi linguistica di questi tre autori potrebbe dunque essere con-
dotta a vari livelli. Anzitutto, sulla scorta del famoso saggio di Maria
Luisa Altieri Biagi dedicato al teatro rinascimentale, si può puntare
a distinguere tra un «comico del significato», affidato all’aspetto se-
mantico delle parole, e un «comico del significante», che «si realizza

16
  Cfr. rispettivamente E. Paradisi, Il comico nella conversazione spontanea e spet-
tacolare, in Gli italiani parlati. Sondaggi sopra la lingua di oggi (Firenze, Palazzo Strozzi
29 marzo-31 maggio 1985), Firenze, Accademia della Crusca 1987, pp. 219-245; E.
Banfi, Il linguaggio comico: tra pragmatica e strategie linguistiche, in Sei lezioni sul linguag-
gio comico, a cura di E. Banfi, Trento, Dipartimento di Scienze Filologiche e Storiche
1995, pp. 17-69. Specificamente dedicato a Campanile è il saggio di C. Paletta,
Ma cos’è questo topic? Strategie del comico in Achille Campanile, in «Versus. Quaderni
di studi semiotici», XXXII, 1982, pp. 37-45. Sul comico in generale cfr. inoltre G.P.
Calasso, Ipotesi sulla natura del comico, Scandicci (Firenze), La Nuova Italia 1992.
17
  Cfr. F. Orletti, La conversazione diseguale: potere e interazione, Roma, Carocci
2000, p. 33, che definisce la lingua dei personaggi di Campanile come «una varietà
formale irreggimentata in locuzioni quasi idiomatiche».
94 Paolo D’Achille

usando “ludicamente” della lingua, svalutandone l’aspetto semantico


e la funzione comunicativa, per puntare sui valori fonici, musicali»18.
Inoltre, si potrebbe misurare la libertà linguistica, la creatività lessica-
le dei vari autori, particolarmente spiccata in Petrolini. Infine, sarebbe
interessante valutare lo spazio concesso a elementi regionali o dialet-
tali, la presenza di fenomeni come la commutazione di codice o gli
enunciati mistilingui, il peso che occupano nelle varie opere linguaggi
settoriali, gerghi, lingue straniere. Naturalmente potrò dare qui veloci
indicazioni ed esemplificazioni solo su alcuni di questi temi, riman-
dando a uno studio successivo un’analisi più ampia e articolata.
Come vedremo, ogni autore ha una sua ben definita individualità,
ma si rilevano alcune affinità: indiscutibili quelle tra Petrolini e Cam-
panile, del resto anche cronologicamente contigui, che è possibile so-
stanziare con qualche esempio. Cito due colmi di Petrolini:

Il colmo per una guardia daziaria: rimanere in…cinta.

Il colmo per un astronomo: Darsi un pugno in un occhio… per vedere le stelle


(P II, 29).

Nel primo caso in Campanile abbiamo un riscontro ad verbum ne


La sorpresa degli innamorati (C 65-66), quando la Ragazza, dopo l’al-
largamento a mezzanotte della cinta daziaria, dice al Fidanzato: «Da
qualche minuto … […] … sono in cinta!» (e sviene). All’altro colmo
possiamo accostare la tragedia La stella nell’imbarazzo (C 166), la cui
protagonista dice la battuta: «Ma che vorrà da me quell’astronomo?
Mi sta fissando da un’ora col cannocchiale».
È possibile che si tratti di convergenze poligenetiche, ma mi paiono
comunque significative di una rispondenza di atteggiamenti. Del resto,
come è noto, Pancrazi parlò di «idiozia» per Petrolini e definì «riso sce-
mo» quello di Campanile, a riprova di certe analogie tra i due autori19.
Invece nella Valeri è possibile spesso cogliere un’intrinseca comi-
cità della lingua, con meccanismi che non sono quelli del puro gioco
verbale; ciò vale in particolare per i testi della Signorina Snob, che

18
  M.L. Altieri Biagi, Dal comico del «significato» al comico «del significante», in
Ead., La lingua in scena, Bologna, Zanichelli 1980, pp. 1-57: 39.
19
  Cfr. P. Pancrazi, Petrolini, in Id., Scrittori d’oggi, Bari, Laterza 1946, pp. 44-46;
Id., Il riso scemo di Achille Campanile, in Id., Scrittori italiani del Novecento, Bari, Laterza
1939, pp. 209-213.
95 Varietà e registri dell’italiano in tre autori comici del teatro novecentesco

al loro apparire suscitarono del resto l’interesse dei linguisti (ricor-


do almeno un importante articolo di Angelo Fabi)20 e che in anni
più recenti sono stati invece ingiustamente dimenticati, quando in-
vece costituiscono, per vari aspetti, un precedente significativo del
linguaggio giovanile degli anni Ottanta, quello dei ‘paninari’, non
a caso anch’esso di origine milanese. Il recente volume di Gianluca
Lauta dedicato a Renzo Barbieri accenna però opportunamente alla
Valeri, con qualche considerazione analoga a quanto rilevato anche
da me21.

3. Iniziamo, procedendo in ordine cronologico, con Ettore Petro-


lini, che è poi l’autore per il quale si dispone di una bibliografia più
consistente, anche grazie ai suoi ben noti rapporti con il movimento
futurista, che lo hanno nobilitato come oggetto di studio da parte di
critici solitamente poco disponibili a occuparsi di avanspettacolo e
di varietà. Contrariamente a quanto avvenuto per Totò, a cui sono
stati dedicati vari interventi, culminati col volume di Fabio Rossi22,
l’attenzione dei linguisti per l’attore-autore romano è stata finora assai
scarsa23: la potenza dei suoi giochi verbali, però, è stata già adeguata-
mente messa in luce.
Per procedere a una rapida caratterizzazione, sintetizzando quanto
già è noto e fornendo qualche precisazione aggiuntiva, comincio col
dire che Petrolini è l’unico dei nostri tre autori che nei suoi testi alter-
ni parti in poesia (che venivano spesso, ma non sempre, accompagna-
te dalla musica) e parti in prosa. Ed è anche, direi conseguentemente,
quello che si muove su una tastiera più vasta: dal dialetto romanesco
all’italiano aulico, non rifiutando neppure inserti da altri dialetti e da

20
  Cfr. A. Fabi, Appunti sul linguaggio snob, in «Lingua nostra», XIII, 1952, pp. 54-
55; cfr. inoltre T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, 2a ed., Bari, Laterza,
1970, pp. 178-179.
21
  Cfr. G. Lauta, I ragazzi di via Monte Napoleone. Il linguaggio giovanile degli anni
Cinquanta nei reportages e nei romanzi di Renzo Barbieri, Milano, Franco Angeli 2006,
pp. 11-12. Sul linguaggio giovanile, in particolare su quello dei paninari, cfr. almeno Il
linguaggio giovanile degli anni Novanta. Regole, invenzioni, gioco, a cura di E. Banfi, A.A.
Sobrero, Roma-Bari, Laterza 1992.
22
  Cfr. F. Rossi, La lingua in gioco. Da Totò a lezione di retorica, Roma, Bulzoni
2002.
23
  Cfr. però ora Giovanardi, La babele delle lingue cit.
96 Paolo D’Achille

lingue straniere (il francese soprattutto)24. Ed è ancora, almeno appa-


rentemente, quello che più manipola la lingua, come dimostra fin nel
titolo Ti à piaciato? (C II, 25), una «voluta storpiatura grammaticale»
(così l’hanno definita Ariani e Taffon)25, che sfrutta sia la ricchezza
morfologica dell’italiano nei participi passati, sia certe incertezze (o
anche possibili alternative) nella scelta degli ausiliari: un’espressione
quasi equivalente, oggi più connotata diatopicamente come toscana,
potrebbe essere infatti «Ti ha garbato?», che presenta appunto avere
e -ato.
Il linguaggio comico di Petrolini rispetta la categoria della «contin-
genza» tipica del comico26: è infatti spesso legato all’attualità e alla cro-
naca e una sua componente importante è la parodia. Da qui i frequenti
inserti di allusioni e spesso di vere e proprie citazioni di testi di altri
attori e autori del varietà, di poesie e opere letterarie, di melodrammi;
in questo possiamo trovare qualche ulteriore contatto con Campanile:
basti pensare alla tragedia in due battute, ma in realtà senza parole, Di
Provenza il mare e il suol (C 74). Ovviamente, la parodia comporta un
arieggiamento anche dei diversi stili. Ecco così che quando si parla
di Raffaele Viviani troviamo il napoletanismo scugnizzo, privato della
vocale atona finale nei Maltusiani (varrà la pena di precisare che con
questo aggettivo, derivato dall’economista Malthus, si indicava una
quartina di ottonari con la parola dell’ultimo verso arbitrariamente
troncata):

È Viviani quella cosa


che fa il dramma e le scenetta
il racconto e la macchietta
il signore e lo scugnizz (P II, 78)27.

24
  Giovanardi (ibid.) rileva: «Quando si usa il termine plurilinguismo a proposito
del teatro petroliniano, lo si deve intendere in un’accezione ampia» (p. 53); in prece-
denza, lo studioso afferma: «Certo la prima fase della produzione petroliniana, quella
delle macchiette, […] è la più creativa per quanto riguarda le trouvailles linguistiche»
(p. 52).
25
  Ariani-Taffon, Scritture per la scena cit., p. 21.
26
  Cfr. Banfi, Il linguaggio comico cit., p. 23.
27
  Un altro brano delle Sciarade in cui compare scugnizzo, sempre in rapporto a
Viviani, è citato più oltre. Sulla voce cfr. da ultimo N. De Blasi, Testimonianze per
la storia di «scugnizzo», probabile neologismo di fine Ottocento, in «Lingua e stile», XLI,
2006, pp. 229-254.
97 Varietà e registri dell’italiano in tre autori comici del teatro novecentesco

Ecco che nel monologo della Traviata si citano ogni tanto versi del
libretto verdiano, per poi però modificare improvvisamente le frasi,
come dimostrano questi due passi:

Gran Dio, morir sì giovane


io che peccato ho tanto28;
e di peccare intrepida
ancor mi sento e quanto!
[…]
Pura siccome un angelo
Iddio mi diè una figlia,
che manteneva intrepida
tutta la sua famiglia (P II, 54)29.

Sul piano propriamente linguistico, il primo meccanismo del comi-


co sfruttato da Petrolini è quello della polisemia lessicale: ricorrente il
doppio senso anche sboccato di voci come uccello, lingua, leccare, tipico
del resto del varietà. Ma possiamo segnalare alcuni esempi meno gre-
vi, che sfruttano il significato gergale o settoriale di certi verbi, come
questo, in romanesco, da Giggi er bullo30, che gioca sul valore di grattare
‘rubare’, documentato ab antiquo:

’N’antra vorta m’hanno carcerato perché, dicono, ho rubbato ’na forma de


formaggio. Davanti ar pizzicarolo c’era un cartello con sopra scritto: Formag-
gio da grattare. Io me lo so’ grattato… (P I, 28).

Anche in Paggio Fernando, parodia giacosiana, soffio è una volta


verbo, col valore di ‘eliminare’ che ha nel gioco della dama (più che
in quello degli scacchi, di cui si parla), un’altra volta sostantivo, nel
senso proprio di ‘aria emessa col soffiare’:

io l’alfiere metto in ballo


spingo avanti e soffio il re.

28
  Il libretto di F.M. Piave reca penato e non peccato (cfr. Tutti i libretti di Verdi, a cura
di L. Baldacci, Milano, Garzanti 1975, p. 319).
29
  La ricorrenza dell’aggettivo intrepida non è certo casuale.
30
  Sulla voce bullo, che deve la sua fortuna nazionale certamente a Petrolini, ma
che non è di origine romanesca, cfr. F. Albano Leoni, Gita lessicografica fuori Roma.
Breve storia della parola ‘bullo’, in «Il 996», IV, 2006, 2, pp. 73-93.
98 Paolo D’Achille

Al mio soffio raffreddato


esce il re con due pedoni (P I, 31).

Abbiamo anche, ovviamente, esempi di comicità omonimica, che


forse risponde meglio al concetto di idiozia, che secondo Pancrazi,
come si è detto, costituisce la cifra stilistica dello scrittore. Cito il caso
di fregata, tratto dai Maltusiani:

La fregata è quella cosa


che nel mar ti fa la guerra,
ma puoi farla pure in terra
e ti costa molto men (P II,76).

Oppure, sempre da Paggio Fernando:

O Jolanda, o dolce nome


che significa viola, violetta, violoncello, violino
antimandola, mandolino, chitarrone.
O Jolanda, o donna amata
o viola violata, o gentil violazione (P I, 30-31)31.

O ancora, da La canzone delle cose morte:

Su per le calli, torturando i calli, le valli, gli avalli e le convalli (P I,


41).

Gli ultimi due casi rientrano nel «comico di significato» (omonimia


di viola ‘fiore’ e viola ‘strumento’; calli plurale di calle femminile e di cal-
lo maschile), ma anche nel «comico di significante»: nel secondo, in
particolare, si rileva il procedimento dell’enumerazione, che dal teatro
rinascimentale è passato all’opera buffa e poi al varietà32.
Tutto un campionario di comicità omonimica si ha poi nella famosa
macchietta I salamini, dove si afferma tra l’altro che

tutti i grandi uomini che hanno speso la metà della vita per l’indipen-
denza italiana vengono cacciati via. L’ho visto io, con i miei occhi,

31
  Si noti che il punto di partenza è giusto, in quanto il nome Jolanda è etimologi-
camente legato al fiore della viola.
32
  Cfr. Altieri Biagi, Dal comico cit., pp. 45 sgg.
99 Varietà e registri dell’italiano in tre autori comici del teatro novecentesco

scritto: Via Cavour, Via Garibaldi, Via Mazzini, Via Quintino Sella,
Via Giovanni Lanza. Bisogna scrivere Resta Cavour, Resta Mazzini,
Resta Quintino in Sella (P I, 33).

A documentare la ‘lunga durata’ di certi giochi linguistici, posso se-


gnalare che «via Prodi» scritto come su una targa si leggeva in uno
degli striscioni della manifestazione contro la finanziaria del dicembre
200633.
Soprattutto omonimici sono i famosi colmi (due dei quali già ricor-
dati), che sfruttano ora l’omonimia anche tra derivati da basi diverse,
come collo e colla nel celeberrimo

colmo di un falegname: Condurre a teatro la moglie, scollata (P II, 29),

ora la diversità semantica tra il primo elemento e l’intero composto


(o l’intera polirematica), come nei casi seguenti:

Il colmo dell’amore: Nutrire per la propria amante un’affezione …cardiaca.

Il colmo di un cane: dimenare la coda … dell’occhio (P II, 29-30).

Forse più interessanti certe invenzioni di morfologia lessicale dei Sa-


lamini: «miope, quando io sono miope ma quando è lui, luipe, e quan-
do sono loro, lorope» (P I, 33), e, più plausibili morfologicamente:
«dicono orologio… ma orologio quando è d’oro, quando è d’argen-
to, argentologio, e quando è di nichel, nichelologio» (ibid.); oppure:
«Questi che abbiamo qui nella pancia li chiamano intestini, ma inte-
stini quando stanno in testa; quando stanno qui impancini» (P I, 33-
34). Analoghe dal punto di vista linguistico l’invenzione dei Piedifesti
(e non manifesti) celebri (ibid.) o la più scontata freddura di Lo sai?:

Sai perché si dice duello? Perché viene fatto con due persone. Perché se fosse
fatto con tre si direbbe triello; con quattro quattriello ecc. (P II, 38).

Per vari aspetti, già alcuni degli esempi citati rientrano anche nel-
la comicità del significante, della quale si possono portare molti altri

33
  Sui cartelli e gli striscioni dei cortei cfr. ora A. Stefinlongo, Scrivendo e gridan-
do ti dico di no. I testi brevi del dissenso manifesto, in Ead., L’italiano che cambia. Scritti
linguistici, Roma, Aracne 2008, pp. 195-219.
100 Paolo D’Achille

esempi, a volte con uno sfruttamento più pronunciato della morfolo-


gia lessicale, come in questi due passi tratti da Fortunello, nei quali si
va «verso un’entropia generalizzata del non senso: […] un bric-à-brac
verbale ove s’infilzano inauditi accostamenti di parole in barba ad ogni
scala di valori culturali»34. Ma si noti che la comicità è data anche
dal significato dell’ultimo termine, che costituisce una sorta di ‘fuoco
d’artificio’ finale:

Sono un tipo: estetico,


asmatico, sintetico,
linfatico, cosmetico.
[…]
Sono: Omerico
Isterico
Generico
Chimerico
Clisterico (P I, 37).

Il meccanismo dell’omoteleuto appena visto è del resto usatissimo


nelle parti in poesia, come in questo passo da La canzone delle cose
morte, dove è indubbia la parodia della poesia contemporanea, a cui
sembra contrapporsi la citazione ariostesca conclusiva:

A stracci, a pezzi, a morsi, a cenci, a ciocchi.


A minuzzoli, a pugni, a mani, a sacchi.
A falde, a spoglie, a spolverini, a ciocche,
a spicchi, a foglie, a picchi, a pocchie, a pacchie,
a quadri, a cubi, a tondi, a perle, a fiori.
Le donne, i cavalier, l’armi e gli amori (P I, 41-42).

Tra gli altri esempi che si potrebbero addurre, segnalo questo di Pag-
gio Fernando, in cui però contano anche il nonsense e la parodia pub-
blicitaria:

Jolanda, ti ricordi quando ci amavamo di quell’amore idropolosichi-


noterapeutico, antigalvanico, fantasmagorico, corroborante, digesti-
vo, febbrifugo, galvanoplastico (P I, 31).

  Così si esprime Taffon, in Ariani-Taffon, Scritture per la scena cit., p. 117.


34
101 Varietà e registri dell’italiano in tre autori comici del teatro novecentesco

In rapporto con la lingua della pubblicità, ma pure con quella di


invenzioni e brevetti tipici della belle époque, studiati qualche anno fa
da Maria Catricalà35, vanno poste anche alcune creazioni lessicali di
Petrolini, come «il gas leguminaceo retroilluminante», il «rasoio au-
tobarbambodilatatore» e il «fucile aviofilo» che troviamo in Io so tutto
(come Pathé!) (P II, 31), interessanti per la formazione delle parole.
Si nota, infatti, il ricorso a prefissi (retro-), prefissoidi (auto-, avio-),
suffissoidi (-filo), e suffissi (-aceo, -tore), particolarmente produttivi. A
volte il comico della parola inventata è dovuto anche alla somiglianza
formale con un’altra parola: è il caso dell’aggettivo sororinale, usato al
posto del dotto sororale ‘proprio della sorella’ in Maria Stuarda (P II,
44), in cui è trasparente l’allusione a un altro termine. La comicità pe-
troliniana, comunque, sfrutta abilmente certi complessi meccanismi
derivativi di matrice colta.
Il gusto per il gioco di parole, per la scomposizione delle voci per
dare senso ai componenti ha l’esempio più famoso nel seguente passo
di Gastone:

Mia madre? […] aveva il senso dell’economia sviluppato fino alla genialità
[…]. Figuratevi: io mi chiamo Gastone. Ebbene, lei mi chiamava semplice-
mente Tone per risparmiare il Gas (P I, 162),

in cui tra l’altro va notato il passaggio, volutamente assurdo, dalla


parola alla cosa. Ma nelle Sciarade, dove questo meccanismo potrebbe
essere enfatizzato, vengono invece scomposti nomi di celebri artisti
coevi solo per darne alla fine un giudizio (per lo più benevolo):

Vivi il primiero
Ani il secondo
Scugnizzo l’intero.

Pasqua il primiero
Riello il secondo
Delizia l’intero (P II, 34).

A queste ‘sciarade mancate’ si contrappongono quelle, effettive, di


alcuni nomi di città, come:

35
  Cfr. M. Catricalà, Studi per una grammatica dell’invenzione: l’italiano brevettato
delle origini (1860-1880), Firenze, Ed. Manent 1996.
102 Paolo D’Achille

La città più piena: Sto… colma (P, II, 49).

La città dove ci si va per dispetto: Per…ugia (P II, 37).

Nel primo caso l’omofonia si ha grazie al raddoppiamento sintatti-


co e nel secondo il gioco di parole è possibile solo con la pronuncia
Peruggia, tipica di Roma e del Sud. La fonetica locale aiuta il comico
anche in: «Amo la Bibbia, la Libia, la fibia / delle scarpine» (P I, 37),
da realizzare con la bilabiale intensa, a dispetto della grafia, nell’ultimo
caso addirittura ipercorretta.
Potrei dedicare a Petrolini tutto il mio intervento, visto che i suoi
testi sono una miniera linguistica, ma mi fermo qui.

4. Achille Campanile è anche lui romano, come Petrolini. La


componente locale è certamente assai meno spiccata, ma tra le tra-
gedie in due battute ne troviamo una in cui il dialetto costituisce
l’indispensabile elemento del gioco verbale. È quella del Dentista
romanesco36 che fa conversazione in tram col suo Amico romane-
sco «parlando naturalmente in dialetto romanesco» e dice: «Come
te poi figurà, vado per un dente»; quando l’Amico gli chiede: «Vai a
méttelo?», risponde: «No, al contrario», giustificando il titolo della
tragedia (qui, come in altri casi, posto volutamente alla fine del te-
sto), che è Andava a cavallo (C 101)37. Per il resto, nelle Tragedie in
due battute troviamo alcuni regionalismi e dialettismi di base romana
più o meno caratterizzanti38: notevole spiccicato ‘identico’ in Cose che
possono accadere o I misteri della natura: per il Conoscente il figlioletto
dell’ex vedova che ha sposato in seconde nozze il signor Giuseppe «è
il ritratto spiccicato del signor Giuseppe»; e quando la donna replica:
«Veramente è della buon’anima del mio primo marito», lui ribadi-
sce: «Somiglia lo stesso al signor Giuseppe» (C 60). Da citare anche,

36
  Si noti l’uso dell’aggettivo romanesco riferito a persona, arcaico e comunque
raro.
37
  Data l’impossibilità, al momento, di datare il testo, non escluderei del tutto che
il titolo possa alludere alla canzone Lui andava a cavallo, presentata al festival di San-
remo del 1962 dal comico Gino Bramieri e da Aurelio Fierro. Ma l’espressione andare
a cavallo ricorre anche in un’altra tragedia, In tram (C 128).
38
  Per brevità mi astengo, tranne in casi particolari, da riferimenti alla lessicografia
romana o nazionale.
103 Varietà e registri dell’italiano in tre autori comici del teatro novecentesco

in Postumi dell’eruzione vulcanica o Nonna esemplare! (C 29), l’espres-


sione «ridotto come un ecce homo» ‘in cattivo stato’ (a provarne la
dialettalità soccorre in questo caso la registrazione dello Zanazzo39,
che rileva che per una donna si dice ecce oma). Da segnalare anche
la resa grafica (probabilmente inavvertita) della lenizione della vela-
re in sgaloppine ‘scaloppine’ al madera con patatine (C 35). Aggiungo:
pedalino/-i ‘calzino/-i’ (C 111-112), impiombatura ‘truffa’ (C 91), faccia
tosta ‘sfrontato’ (C 103), e ancora seggiole ‘sedie’ (C 69), pranzo ‘pasto
di mezzogiorno’ (C 69), infelice ‘handicappato’ (C 83), notaro ‘notaio’
(C 105), scostumato ‘maleducato’, poi riproposto e rilanciato proprio
da Franca Valeri: come è noto, la Sora Cecioni chiude con questo
epiteto, per lo più al femminile, indirizzato alla centralinista, molte
sue telefonate. In Campanile il termine scostumato costituisce la bat-
tuta detta dalla Montagna vicina al Vulcano in eruzione in Delicatezza
(C 164) e compare, con una ancora maggiore marcatezza regionale,
nell’esclamazione «All’anima dello scostumato!» detta a sé stesso dal
protagonista de L’invitato a pranzo (C 159). In Falso allarme (C 109)
l’espressione avere la bottega aperta è interpretata erroneamente dal
Signor Arturo non in senso proprio, ma col valore figurato di ‘avere
sbottonata la patta dei pantaloni’, diffuso a Roma (è registrato nelle
aggiunte al Chiappini del Rolandi), ma in realtà anche fiorentino40: la
comicità in questo caso è data dal fatto che il personaggio, quando si
rende conto dell’equivoco, si tranquillizza, nonostante il suo negozio
sia stato probabilmente svaligiato. Il verbo squagliarsi ha contempora-
neamente il valore proprio e quello, di origine romanesca41, di ‘andare
via precipitosamente’ sia quando è detto dalla Neve in Villeggiatura
(«Io ai primi calori mi squaglio», C 157), sia quando è proposto dal
Secondo gelato come rimedio all’estate incipiente in Il congresso dei
gelati («Se ci squagliassimo?», C 184).

39
  Cfr. G. Zanazzo, Tradizioni popolari romane. Usi, costumi e pregiudizi del popolo di
Roma, Torino-Roma, Sten 1908, II, p. 471.
40
  Cfr. F. Chiappini, Vocabolario romanesco, ed. postuma delle schede a cura di B.
Migliorini, 2a ed. con aggiunte e postille di U. Rolandi, Roma, Leonardo da Vinci
1945, p. 360 della 3a ed., Roma, Chiappini 1967 (Rolandi parla di bottega uperta).
Un’attestazione fiorentina del 1890 è citata s.v. bottega nel deli (M. Cortelazzo,
P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, 5 voll., Bologna, Zanichelli 1979-
1988 [nuova ed. in un vol., col titolo Il nuovo etimologico, a cura di M. Cortelazzo,
M.A. Cortelazzo, Bologna, Zanichelli 1999]).
41
  Cfr. la voce squagliare nel deli.
104 Paolo D’Achille

Questi esempi di interpretazione in senso letterale di voci usate in


senso figurato e di espressioni idiomatiche – ad essi si potrebbe aggiun-
gere almeno l’Errore del bandito principiante (C 120), dove il protago-
nista non fa «che dar martellate alla giacca» perché «Il capobanda gli
ha ordinato di battere la macchia» – ci introducono in quello che è
l’aspetto più noto della scrittura di Campanile (accanto a quello, già
ricordato, della violazione delle leggi della conversazione), e cioè lo
sfruttamento in senso comico delle ambiguità del linguaggio verbale,
causate sia dalla polisemia, sia dall’omonimia; questa caratteristica lo
avvicina a Petrolini, rispetto al quale però in Campanile manca quasi
del tutto l’allusività sessuale ed è meno frequente la parodia. Do qual-
che esempio.
Sia Banfi sia Paradisi citano di Campanile le tragedie basate sul
«gioco verbale», cioè, per dirla con la Altieri Biagi, sulla «comicità
del significante»42. Nelle loro eccellenti analisi i due studiosi hanno
forse un po’ trascurato il rapporto che c’è spesso tra le battute e il titolo
della tragedia o il suo svolgimento, che è un rapporto quasi di gio-
co enigmistico43 (non a caso ha manifestato interesse per Campanile
Umberto Eco, appassionato anche delle crittografie mnemoniche)44.
Così, la battuta «Si dice che seduce sedici sudici sadici» (C 9) colpisce
certamente per il suo carattere quasi da scioglilingua, ma la bravura
virtuosistica dell’autore risulta accresciuta se la mettiamo in rapporto
al titolo della tragedia, che è La maliarda e i viziosi e spiega il seduce e
i sadici. Anche in Quando Lucio lascia l’ascia (C 113-114) lo scambio
di battute tra Lucio e Licio svolge brillantemente sul piano dialogico
l’evento narrato nella didascalia. Infine, la battuta dell’annunciatrice
«Eva, l’ava, leva la lava, lava l’avo e alleva l’Iva con l’ova e l’uva» si
può apprezzare appieno solo se si considera che costituisce la sintesi
dell’azione, descritta dalla lunga didascalia, della già citata tragedia
I postumi dell’eruzione (C 29). Si noterà anche in questi esempi che

42
  Cfr. Altieri Biagi, Dal comico cit.
43
  Del resto, in L’immane fatica (C 84) la battuta detta da «Atlante curvo sotto il
peso del Mondo: Che rottura di spalle!» può essere considerata una ‘aggiunta iniziale’;
così, in Un dramma nella merceria (C 82), la frase finale del Nastro: «l’azione si svolge
ai giorni nastri», costituirebbe un ‘cambio di vocale’.
44
  Cfr. U. Eco, Ma che cosa è questo Campanile, introduzione a A. Campanile, Se
la luna mi porta fortuna, Milano, Rizzoli 1975, pp. 5-13; Id., Il sorriso di Campanile,
introduzione a A. Campanile, Ma che cos’è quest’amore, Milano, Corbaccio 1992,
pp. i-xxxii.
105 Varietà e registri dell’italiano in tre autori comici del teatro novecentesco

elementi regionali toscani, come la probabile pronuncia di Lucio con


la fricativa (rilevata da Banfi)45, l’articolo prima del nome femminile e
il monottongo di ova, sono funzionali al gioco verbale.
Prima di segnalare qualche altro esempio, vorrei proporre alcune os-
servazioni di carattere generale. Anzitutto, la comicità delle tragedie è
molto varia: quella basata sulle parole è la più frequente, ma abbiamo
anche testi in cui si riesce a creare una comicità di situazione46 (alcu-
ne tragedie sono perfino senza battute e fanno pensare alle vignette
senza parole), altri parodistici, come Edipo a Colono, in cui al Messo
che chiede: «C’è Edipo?», la Sentinella risponde appunto: «No, è a
Colono» (C 15).
A volte, poi, la comicità è data dal contrasto tra la lunghezza della
didascalia e la brevità dell’azione. Questo pone il problema dell’effet-
tiva possibilità di rappresentare sulla scena le tragedie (alcune delle
quali vedono come protagonisti esseri non umani o neppure animati,
pur se dotati di parola): in qualche allestimento più o meno recente
si è introdotta la Didascalia come personaggio autonomo; ma, adot-
tando la terminologia proposta da Giovanni Nencioni, direi che nelle
Tragedie in due battute la fabula agenda è spesso superiore alla possibile
fabula acta, che la lettura prevale spesso sulla rappresentazione47.
Una seconda osservazione riguarda il registro linguistico di Campa-
nile, che è, in linea di massima, uniforme e, specie nelle didascalie,
leggermente arcaizzante (anche considerando l’epoca in cui le prime
tragedie vennero scritte). Come allocutivi di cortesia troviamo ora lei,
ora voi (e questo può essere un indizio di una diversa epoca di com-
posizione: la presenza del voi fa infatti postulare una data negli ultimi
anni del Fascismo)48. Troviamo poi la i prostetica (in iscena, C 16-
17), una mancata sincope (comperare, C 19), l’aggettivo qualificativo

45
  Cfr. Banfi, Il linguaggio comico cit., p. 48, il quale ipotizza dunque lo sfruttamento
comico dell’opposizione tenue/intensa tra Lucio e l’uscio.
46
  Cito tra queste Profittiamo della comodità (C 81), dove al Marito che dice «rin-
casando con un grosso involto: Ho portato le maschere antigas», la Moglie risponde:
«Benissimo. Allora stanotte possiamo lasciare il gas aperto».
47
  Cfr. G. Nencioni, Parlato-parlato, parlato-scritto, parlato-recitato, in Id., Di scritto
e di parlato. Discorsi linguistici, Bologna, Zanichelli 1983, pp. 126-179: 169.
48
  Come è noto, nel 1938 il regime vietò negli uffici pubblici l’uso del lei come allo-
cutivo di cortesia imponendo il voi, diffuso solo nei dialetti e nelle varietà meridionali:
cfr. S. Raffaelli, Un «lei» politico. Cronaca del bando fascista (gennaio-aprile 1938), in
Omaggio a Gianfranco Folena, Padova, Editoriale Programma 1993, pp. 2061-2073.
106 Paolo D’Achille

che precede il sostantivo (ferrigna Tebe, C 15; robusto pollo, C 181),


un plurale arcaico in -a (darsi le pugna nel capo, C 180). Direi che il
conformismo linguistico è funzionale al comico, in quanto serve a far
risaltare l’anticonformismo delle battute o delle situazioni. Fenomeni
sintattici tipici del parlato compaiono rarissimamente: un esempio di
dislocazione a sinistra è in Perché? (C 143), quando alla domanda del
Passante: «Ma perché andate raccogliendo mozziconi per la strada?»,
il Vecchio Cencioso risponde: «Caro signore, sigari interi non mi rie-
sce di trovarne». Possiamo inoltre segnalare le numerose espressioni
‘analitiche’ con fare come verbo supporto: fare una scenata («teme che
sua moglie gli faccia una scenata », C 28), far dietro front (C 88), fare
a pugni («ci sono due che fanno a pugni», C 23), farsi vivo («Non s’è
più fatto vivo», C 41), fare la guerra (C 34), fare un bell’affare («Avete
fatto un bell’affare», C 31), far macchina indietro («fa macchina indie-
tro », C 86), ecc.
Ancora, mi pare interessante rilevare il fatto che i personaggi, quan-
do sono umani (cosa che, come si è detto, non avviene sempre, e quan-
do non avviene i testi sembrano anticipare i cartoni animati), hanno
spesso nomi generici: la Moglie e il Marito (C 53), il Signore socievole
e il Signore poco socievole (C 189), il Signor Tale e il Signor Talaltro
(C 89), ecc.: forse un’eco del teatro del grottesco, e in particolare del
dramma di Rosso di San Secondo Marionette che passione!, i cui prota-
gonisti sono tre «personaggi anonimi»49: il Signore in grigio, il Signore
in lutto, la Signora dalla volpe azzurra.
Infine, ricordo che alla TV in un servizio su Campanile in occasione
del Premio Viareggio conferito nel 1973 al suo Manuale di conversa-
zione e della conseguente messa in scena al teatro Argentina di Roma
del Manuale di teatro tratto dai suoi testi, comprese alcune Tragedie in
due battute, all’intervistatore che gli leggeva un giudizio negativo del
lessicografo Nicola Zingarelli, che diceva, più o meno, che i testi di
Campanile non fanno ridere, il nostro autore replicò di avere invece
riso leggendo alcune definizioni del Vocabolario dello Zingarelli. Que-
sto aneddoto può forse richiamare Eugène Ionesco, l’autore del teatro
dell’assurdo di cui Campanile è considerato un anticipatore, il quale,
come è noto, dichiarò di essersi ispirato per La chanteuse chauve alle
frasi insensate riportate dalle grammatiche su cui, lui rumeno, aveva
studiato il francese.
Ciò detto, passo a esemplificare le tragedie che giocano sulla lingua

  Ariani-Taffon, Scritture per la scena cit., p. 122.


49
107 Varietà e registri dell’italiano in tre autori comici del teatro novecentesco

e sulle sue ambiguità. Nei giochi di parole campaniliani, più o meno


bilanciati risultano quelli omonimici e quelli sinonimici: tra i primi,
cito gli esempi di Non era un ombrello (C 49: fungo); Il Tale e l’altro (C
50: Dante, dove si scherza con l’antonomasia); L’umorista (C 55: avete
riso, che gioca inoltre sul duplice valore di avere, ausiliare o no, e che è
rimarchevole per l’autoironia)50; Stile telegrafico e pesce (C 57: sogliola).
Un’omonimia grammaticale si ha anche in In casa del degente (C137:
al Medico cerimonioso che entrando dice: «Disturbo?» l’Ammalato
replica: «Gastrico»); omonimie che definirei sintattiche si rilevano
invece in Premio letterario (C 61: «Dieci con l’ode», frase ottenuta
sommando «nove sonetti e un’ode saffica»), nel già ricordato in cinta
(C 65), in «Colpa del lino!» (C 70), interpretato dai Congressisti di
Lino contro cotone come «col padellino!», nonché, grazie alla grafia
arcaizzante che omette l’acca prima dell’apostrofo, in «C’alzo l’aio»
(C 121).
I giochi basati sulla polisemia sono numerosissimi: cito solo quelli di
tentare (C 124: il Diavolo tenta sempre perché «tentar non nuoce») e
di passare (C 176: il Tempo, la Giovinezza, l’Amore e la Vita giocano
a bridge e passano tutti e quattro, buttando via le carte). Un caso parti-
colare è quello della tragedia dal titolo ossimorico Le assurde verità (C
123): Tizio dice a Caio, che – come nota la didascalia – «ha la faccia
lardellata da numerosi tagli»: «Santo cielo, come ti sei tagliato così?»
e Caio risponde: «Mi son fatto la barba con un rasoio che non taglia-
va». Particolarmente riusciti mi sembrano i due esempi seguenti, che
sfruttano i diversi valori della preposizione di. Nella tragedia La Signora
Amelia in difficoltà (C 178), la donna in calzoleria chiede: «Vorrei un
paio di scarpe di serpente», e il Calzolaio le risponde: «Non dite scioc-
chezze, signora, il serpente non ha piedi». Nella tragedia Carminio (C
71), che vede in scena un Tale e una Tale, a lei che chiede: «Ti piac-
ciono le labbra di carminio?», evidentemente dopo essersi messa sulle
labbra un rossetto scuro, lui replica: «Chi è Carminio?». Qui l’autore
gioca anche con l’onomastica, così come sull’onomastica si basa una
delle tragedie più lunghe, composta da quasi venti battute, che vede
Giacomo Leopardi rifiutare ostinatamente la proposta fattagli dallo
Zio di dedicare una poesia al cocchiere, il cui nome viene ripetuto nel

50
  La stessa autoironia si coglie nella chiusura di alcune tragedie: in Una tragedia
evitata in tempo si legge che «tra le proteste degli spettatori cala rapidamente il (Si-
pario)» (C 7), mentre il già citato Un dramma nella merceria si conclude con Sipario
e fischi (C 82).
108 Paolo D’Achille

titolo, posto alla fine del testo, che è «Ad Angelo, mai» (C 96), con
abile sfruttamento della virgola. Questa tragedia si colloca anche nel
filone dei giochi linguistici di arieggiamento di titoli o locuzioni che
possono ricordare le parodie petroliniane, come Il callo della Checca (C
94), la cui comicità è data anche dall’ambientazione nell’alta società,
a cui l’ipocoristico (regionalmente connotato) non si addice troppo;
La viola del Panzeri (C 93), dove viola è uno strumento musicale, con-
trariamente alla viola del pensiero a cui il titolo allude51; «No, Caràpi
Gina, no» (C 95), che allude a una canzone del primo Novecento,
No, cara piccina, no. Possono richiamare Petrolini anche alcuni giochi
di parole basati sulla morfologia lessicale. Molto divertente, per esem-
pio, lo scambio tra le due amiche di Candore (C 19): quando la Prima
Amica dice: «Luisa si è fidanzata con un nullatenente», la Seconda
Amica replica: «Ahi, non mi fido dei militari» (accostando evidente-
mente il nullatenente a tenenti, sottotenenti, luogotenenti). Giustamente
famoso, infine, l’Incontro (C 89) tra il Signor Tale e il Signor Talaltro:
«Ciao, carissimo. Dove vai? – All’arcivescovado. E tu? – Dall’Arcive-
scovengo».
Sul piano strettamente linguistico, però, Campanile si colloca quasi
agli antipodi di Petrolini: la lingua è sostanzialmente lo standard tradi-
zionale, con una punta di libresco. La scommessa, quasi sempre vinta,
è quella di piegare questo italiano alle leggi della comicità.

5. Concludo con Franca Valeri, che si colloca su un piano diverso.


Anche in lei è possibile reperire qualche caso di sfruttamento comi-
co della polisemia. Uno, forse un po’ troppo insistito, è in Lettere alle
lettrici:

Vorrei ora rispondere alla interessante letterina a firma “Mariuccia della Par-
tecipazione”… Vorrei però qualche consiglio sulla “partecipazione” che tanto
angustia una madre di famiglia ecc. ecc.
Il problema è appassionante, Mariuccia. Senza ricorrere alla partecipazione
a banda armata, un po’ troppo abusée, o alle deprimenti partecipazioni sta-
tali così mal frequentate per una signora […] ti consiglio la tradizionale e
sempre ottima partecipazione su cartoncino inglese possibilmente in rilievo
oppure la partecipazione a un buon programma-inchiesta della vecchia RAI
(V 48-49).

  Cfr. l’esempio da Paggio Fernando di Petrolini sopra riportato.


51
109 Varietà e registri dell’italiano in tre autori comici del teatro novecentesco

Un altro, fulminante, è in uno sketch della Sora Cecioni, che, con-


sigliata dalla madre, visto che il marito non è ancora rientrato a casa e
si è fatto tardi, telefona all’ospedale e dice:

Pronto… soccorso.. sì, pronto soccorso… gl’ho fatto una pausa (C 45).

Ma la comicità di Franca Valeri si muove per lo più su altre strade.


Dal punto di vista linguistico, particolarmente rilevanti sono i testi,
che ho già citato in apertura, del Diario della Signorina Snob, pubblicati
nel 1951, ma con appendici successive. Non c’è dubbio che la base sia
costituita dal linguaggio dei giovani milanesi dell’alta borghesia, do-
cumentato anche da altre fonti e anticipazione – come si è detto – del
successivo linguaggio giovanile paninarese: lo dimostrano, tra l’altro,
la presenza, rilevata pure da Lauta, di troppo nel senso di ‘molto’ (trop-
po divertente! e troppo ciccio, V 21; ecc.)52, e l’uso del suffisso alterativo
-azzo (bouquettazzi, V 21; merendazze, V 23); ma l’autrice lo rielabora
fino ad arrivare a una sorta di ‘parossismo’ linguistico, a una lingua
volutamente esagerata, che se da un lato è memore della tradizione
espressionistica lombarda (c’è, a mio parere, qualche convergenza con
i primissimi scritti di Giovanni Testori), dall’altro è densa di anticipa-
zioni di tratti sviluppatisi nell’italiano posteriore. È stata già segnalata
la frequenza dei superlativi (raffreddore divertentissimo, V 21), anche
per aggettivi non graduabili (lana mistissima, V 21; ospiti esterissimi, V
23), avverbi (gente suissimo ‘molto in alto nella scala sociale’, V 25)
e nomi (in ordinissimo ‘molto in ordine’, V 22); abbondano inoltre gli
alterati, con scelte spesso tutt’altro che scontate: si pensi a «sono nei
pasticcioni, ma di quelli proprio ‘cioni’» (V 25), ai flirtini e waterini (V
21), ecc., o ancora ai volovanini dal francesismo culinario vol-au-vent,
che compaiono in un testo posteriore (V 60). Ma i meccanismi deri-
vativi fruttati dall’autrice in direzione comica sono in realtà assai più
complessi. Nel caso dei superlativi, vanno segnalati quelli dei participi
con valore verbale, recentemente registrati da Lorenzo Renzi tra le

52
  Cfr. Lauta, I ragazzi di via Monte Napoleone cit., p. 12. Sul troppo nel linguaggio
giovanile, considerato «probabile sardismo, piuttosto che anglismo», cfr. E. Banfi,
Conoscenza e uso di lessico giovanile a Milano e a Trento, in Il linguaggio giovanile cit., pp.
99-148: 101-102. Rilevo di passata che Lauta segnala la presenza nella Valeri anche
di non è che, la cui frequenza nel linguaggio giovanile è stata rilevata da E. Radtke,
Varietà giovanili, in Introduzione all’italiano contemporaneo. La variazione e gli usi, a cura
di A.A. Sobrero, Roma-Bari, Laterza 1993, pp. 191-235: p. 227.
110 Paolo D’Achille

novità dell’italiano contemporaneo53, come sposatissima (V 19), ero


prevenutissima (V 21) o «È stato invitatissimo» (V 22), e tra i deri-
vati gli aggettivi formati da nome + -ato, come calzonato e camicettato
(V 26), non-materassati (V 22), registrati nel linguaggio giornalistico
in anni assai più recenti54. Ma ci si può spingere oltre, per segnalare
la ricchezza delle neoformazioni: basterebbe citare parasintetici come
impolonorditi (V 23), da polo nord, o desatmosfericare (V 24), oppure
colazionare ‘pranzare’ («colaziono con mio fratello», V 29) o penicil-
linarmi ‘somministrarmi la penicillina’ (V 21), ma anche suffissazioni
volutamente ‘strampalate’, come stagione bagnesca ‘balneare’ (V 25),
carinezza ‘bellezza’ disgustosa (V 24), case avolesche ‘delle nonne’ (V
24)55, massacrevole ‘massacrante’ (V 23), vestimentario ‘vestiario’ (V
25), matrignamento (V 24), regalame ‘insieme di regali’ (V 27), riccio-
lento ‘riccioluto’ (V 20), trasandamenti (V 28), ecc.
Ancora più notevole sul piano linguistico è il fatto che molti ele-
menti lessicali vengono forzati fino a svolgere funzioni grammaticali,
come «calendari […] che sono un urlo» (V 19); da rilevare in partico-
lare il ben noto tipo nel senso di come, documentato anche in Barbieri
e poi entrato nell’uso comune56 («si parlava di una cosa e dell’altra
tipo molto confidential», V 29); analogo l’uso di genere («non ho nien-
te per coprirmi, ma niente, genere proprio verme a spasso», V 25) e
roba come («Sono Capri – da parecchiuccio ormai, roba come dieci
giorni», V 24), ecc. Molto frequenti non solo i forestierismi, ma an-
che gli inserti di lingue straniere, soprattutto inglese e francese, con
qualche ironico commento: «A propos per la storia sappiasi» (V 22);
«albero di Natale of course» (V 27); «deve essere qui quickly (presti-
no, per i posteri non poliglotti)» (V 19).
Come tratti specificamente regionali segnalo un fracco con valore
avverbiale57 («Devo dire mi riposo proprio un fracco!», V 24) e, in un

53
  Cfr. L. Renzi, Le tendenze dell’italiano contemporaneo. Note sul cambiamento linguisti-
co nel breve periodo, in «Studi di lessicografia italiana», XVII, 2000, pp. 279-319: 312.
54
  Cfr. M.A. Cortelazzo, Parole che si dicono, in «Italiano & Oltre», XV, 2000, pp.
150-151. Sulla produttività del suffisso -ato cfr. U. Wandruszka, Aggettivi di relazione,
in La formazione delle parole, a cura di M. Grossmann, F. Rainer, Tübingen, Niemeyer
2004, pp. 382-402: 398-399.
55
  In questo caso, nonne è riportato dopo avolesche tra parentesi, a mo’ di glossa.
56
  Cfr. Lauta, I ragazzi di via Monte Napoleone cit., p. 54; Renzi, Le tendenze cit.,
p. 308.
57
  Cfr. gradit, che marca la voce come sett[entrionale].
111 Varietà e registri dell’italiano in tre autori comici del teatro novecentesco

monologo non compreso nel Diario, sciao ‘ciao’ come esclamazione di


chi si rassegna a cosa fatta («è andato, sì, sciao pazienza», V 29): valo-
re e grafia, per rendere la pronuncia lombarda s-ciao, si trovano anche
in Renzo Barbieri58.
Sintatticamente, è ovviamente presente il costrutto far Capri, molto
studiato negli anni Cinquanta59 proprio come tipico del linguaggio
snob: «fa talmente suicidio» (V 20); «faceva talmente lanzichenecco»
(V 21); «fa così tanto lazzaretto» (V 19), ecc. Da segnalare inoltre il
tipo di esclamativa cosa + essere + di + aggettivo, rintracciato da Lauta
anche in Barbieri60 e che forse risale dal dialetto: «Cos’è stato di fati-
ca!» (V 20); «cos’è di grasso» (V 21); «Cosa sono stati di bello questi
dodici giorni» (V 23); «Cos’è quel ragazzo di inverecondo» (V 29).
Ma sul piano sintattico è da segnalare soprattutto la frequenza dello
stile nominale, cioè dell’assenza del verbo. Nel caso del Diario si può
pensare a un influsso dello stile telegrafico, arieggiato in qualche altro
tratto – come l’enclisi pronominale (Necessitavami, V 22; trattasi, V
22) o la forma verbale est per è (V 19) – volutamente in contrasto con
l’ipertrofia lessicale e testuale. Ma sarei portato a leggere le frequenti
ellissi del verbo anche come metafora dell’assenza, pur nell’opulenza
della ricca borghesia milanese, di qualcosa di essenziale.
Negli sketch della Sora Cecioni, risalenti alla metà degli anni Ses-
santa, da Milano si passa a Roma: a parte alcune convergenze roma-
no-milanesi (te soggetto, pora stella, ecc.), sarebbe facile sottolineare
qualche improprietà linguistica, per esempio l’iperestensione del suf-
fisso, certo molto produttivo a Roma, -ata (bottata ‘botta’ e capocciata
‘capoccia, testa’ e non ‘testata’, V 60)61, ma la caratterizzazione appare
sostanzialmente riuscita62. Si racconta che Aldo Fabrizi disse che la
Sora Cecioni era più romana di lui: evidentemente, la Valeri era riu-

58
  Cfr. Lauta, I ragazzi di via Monte Napoleone cit., p. 101.
59
  Cfr. in particolare M. Medici, Fa fino, fa Capri, fa 38 parallelo, in «Lingua no-
stra», XII, 1951, pp. 90-96; A. Fabi, B. Migliorini, Ancora sul tipo «far Capri», ibid.,
XIII, 1952, pp. 15-16; Lauta, I ragazzi di via Monte Napoleone cit., p. 55.
60
  Cfr. ibid., p. 38.
61
  Si noti che «il ricorso a -ata – anche se usato in modo sgrammaticato o con fre-
quenza ibrida –» è registrato come tipico del linguaggio giovanile da Radtke, Varietà
giovanili cit., p. 224.
62
  Segnalo che per Ariani-Taffon, Scritture per la scena cit., p. 207, «i monologhi
della “Sora Cecioni” trattano con espressione tagliente la condizione della donna
borghese, le sue manie, i suoi tic, la sua solitudine».
112 Paolo D’Achille

scita a cogliere ‘dall’interno’ certi aspetti della roman(esch)ità, in par-


ticolare – direi – quella forma di pigrizia un po’ accidiosa che, al di là
degli stereotipi, costituisce davvero un dato caratteriale di noi romani,
anche quando ci mostriamo attivi…
Negli altri sketch successivi, la carica dirompente sul piano lingui-
stico della Signorina Snob si attenua un po’ (da segnalare però ancora
monotonite acuta e ormonizzare, V 61), ma l’autrice appare sempre at-
tenta a intercalari e tic linguistici della classe borghese (si è ricordato
all’inizio il caso di un attim(in)o). Lo documenta la riflessione anche
metalinguistica di Consapevole sul mutamento delle mode, che ho
avuto già occasione di citare in altra sede63:

Sono una donna angosciata… Eh ben… vedono come sono? Ho subito no-
minato l’angoscia che è uno stato d’animo fuori moda, è superatissimo, roba
del ’68, ’69 al massimo… e allora? Non so definire, è questa la tragedia, che
mi vengon meno i termini… sono fuori di me… espongo il caso. Fino a poco
tempo fa ero una ragazza in gamba… Eh che espressione vecchia, Dio bono,
fa venire in mente Shirley Temple addirittura… non so mica più parlare sa…
appena mi esprimo dico delle cose antiquatissime… del mille… i nuraghi…
sarà perchè sono professoressa e son di casa con gli Etruschi… a me se mi di-
cono fondo oro, monocromo, manierismo per me come dire, Sandro, Giusep-
pe, Mariella e Caterina… che sono i miei nipoti… dei ragazzini infernali…
per dire che razza di dimestichezza ho con le tappe della storia dell’arte. Ma
insomma ero edotta anche sui contemporanei, mica solo quelli della storia
dell’arte, anche quelli che girano per le strade, l’uomo insomma. Ben, sì, l’uo-
mo! Che espressione idiota, mia nonna… io se registro quello che dico, come
parlo, mi prendo paura, dico certe cose da ammazzarmi… ieri a tavola ne ho
dette due o tre da museo… alla minestra ho detto «Il problema è di ordine
psicologico!» ben, l’Ottocento! Alla frutta sono arrivata a dire «Mariella vuoi
tacere quando parla tuo padre!» Sic! e i miei non fanno niente, mi lasciano
circolare, è colpevolezza! L’altro giorno è venuto un ragazzino a prendere la
Caterina, puzzava, gli ho detto «Lavati prima di venire in casa degli altri». Mi
ha fatto una pernacchia, trovo giusto, di fronte a una scena simile, una ma-
tusalemme disinibita. Adesso poi si deve essere spaventato anche il mio me-
dico, mi ha dato un sedativo dopo l’ultima che ho fatto. Stavo insegnando…
insomma ero a lezione… adesso non ci vado più, me lo proibisco da sola… mi

63
  Cfr. P. D’Achille, Per una storia del concetto di giovane: aspetti e problemi linguistici,
in Giovani, lingue e dialetti. Atti del convegno (Sappada\Plodn [Belluno], 29 giugno-3
luglio 2005), a cura di G. Marcato, Padova, Unipress 2006, pp. 5-17: 15-16.
113 Varietà e registri dell’italiano in tre autori comici del teatro novecentesco

hanno tirato delle palline… mi sono arrabbiata! Un allievo mi ha dato una


spinta… gliel’ho restituita! Mi sarei portata da sola alla neuro… e i miei mi
dan ragione, come ad una pazza, sono più colpevoli di me. Sarò in tempo ad
andare dallo psichiatra o è meglio che mi tiro un colpo di pistola? (V 55-56).

6. Qualche rapidissima conclusione. All’inizio ho detto che i testi


analizzati sono accomunati dal fatto di essere brevi. Aggiungerei ora
una precisazione, utile per differenziare tra loro i nostri autori anche
sul piano linguistico. In Petrolini abbiamo monologhi: l’attore par-
la da solo, davanti al pubblico, a cui talvolta si rivolge direttamente.
Nelle tragedie di Campanile assistiamo a brevissimi dialoghi (e tal-
volta a dialoghi mancati) tra due personaggi (raramente più o meno
di due)64. In Franca Valeri c’è un solo personaggio in scena, che però
conversa con qualcun altro: parlando al telefono, scrivendo (o magari
rileggendo a voce alta) il proprio diario, o rivolgendosi a un personag-
gio invisibile, ma mai o quasi mai direttamente agli spettatori. Queste
differenze strutturali hanno un peso per misurare, per esempio, le di-
verse presenze e frequenze di connettivi, demarcativi, segnali fàtici,
intercalari, ecc.
Comunque, tutti e tre gli autori giocano con la lingua per raggiungere
la comicità: il primo sfruttando tutti i registri dell’italiano, dall’aulico
al popolare e al dialettale; il secondo servendosi quasi esclusivamente
dello standard tradizionale; la terza non disdegnando coloriture regio-
nali, milanesi o romane, e utilizzando spesso un italiano ‘alla moda’
non solo sul piano lessicale. Tutti e tre, in ogni caso, consentono di
misurare l’importanza della lingua sul piano del comico «di parola»,
che rischia di incepparsi al benché minimo cambiamento di un termi-
ne, di una forma, di una struttura e che pertanto – contrariamente alla
spontaneità del parlato autentico – richiede l’assoluto rispetto di un
copione che, anche quando non sembrerebbe tale, è in realtà rigoro-
samente prestabilito.

Paolo D'Achille

64
  In qualche tragedia c’è un solo personaggio (Cristoforo Colombo, C 175; Ada-
mo, C 179, ecc.), in altre il secondo personaggio non parla; nel Dramma inconsistente
(C 192) che conclude la raccolta si dice solo che «nessuno tace»: quasi un approdo
all’afasia dopo tanti giochi di parole!
Donna di scena, donna di libro.
La lingua teatrale di Emma Dante

Sicilia, Palermo, metafore

Ho avuto la fortuna di assistere al teatro di Emma Dante prima di


averne letto i testi; fortuna nel duplice senso di caso e di occasione pro-
pizia. È un teatro, infatti, che pretende l’evento scenico, si realizza com-
piutamente e al meglio nello spazio visivo e sonoro dello spettacolo.
È un fenomeno che accomuna molto teatro del secolo appena tra-
scorso e (per ora) del nuovo, in particolare quello degli attori-auto-
ri, più inclini di altri all’elaborazione artistica in progress a partire dai
corpi e dalle voci delle persone-personaggi, dal luogo d’incontro con
gli spettatori. Geograficamente si tratta di spazi comunicativi (non ne-
cessariamente riferibili ad un messaggio concettuale, anzi spesso emo-
tivo, sensoriale in prima battuta), anche e proprio quando denunciano
la non-comunicazione.
Il teatro del Sud – con la sua tradizione attorica forte, con la sua
ritualità atavica condensata, e contaminata con la concretezza e la
poesia del quotidiano – ha dimostrato negli ultimi decenni dal No-
vecento al Duemila una vitalità specifica e persistente: Napoli da un
lato, l’Isola di Sicilia dall’altro. Antropologicamente e storicamente
terre di teatro. Caratterizzate da giochi di lingua: dove musica e rumo-
re interni ricercano echi e propaggini nel dialogo con sonorità esterne,
canzoni e strumenti (che non possono mai dirsi soltanto d’accompa-
gnamento). S’intende nel senso più attivante del gioco e in quello più
contrastivo o vischioso del rapporto fra l’italiano e il dialetto nativo,
al di là dell’annosa ‘questione’.
In questo contesto, la Sicilia – proprio in quanto isola – vanta un
percorso sperimentatore, a partire da Verga e, diversamente, poi da
Pirandello; ma si tratta ancora, e principalmente, di autori, scrittori in


  Rimando in merito al mio libro Eduardo, Fo e l’attore-autore del Novecento, Roma,
Bulzoni 2007.
116 Anna Barsotti

primo luogo, e non d’attori (altro che nella propria mente). Il rapporto
carnale fra lingua e dialetto, fra scrittura e oralità s’afferma special-
mente con Scaldati, Scimone, la Dante e Davide Enia, che nascono
come attori, e sulla propria pelle, sulle proprie corde vocali tentano
(in vari modi) l’innesto. Di generazioni diverse, soprattutto il primo,
tendono a rappresentare una stessa fascia sociale, nelle sue varietà po-
polari, ma affermano tutti di aver creato una lingua teatrale:

Io scrivo in dialetto palermitano, mia lingua madre [...], perché voglio pren-
dere spunto dalla realtà. Poi quello che scrivo è filtrato a seconda della propria
sensibilità […] Se qualcuno sente il mio dialetto è chiaro che coglie la sonori-
tà, coglie l’essenza, però si accorge che non è il dialetto parlato comunemen-
te. Acquista un’importanza e diviene lingua teatrale (Scaldati 2007);

Sì, il mio è un dialetto, ma nei testi in italiano le parole cambiano. Le parole


sono di origine siciliana, messinese, perché sostanzialmente si deve inventare
poi una lingua teatrale. In teatro si parla un solo linguaggio teatrale. Il lin-
guaggio teatrale è il rapporto tra l’attore, l’autore e lo spettatore, è corpo, è
ascolto, è relazione; è un insieme di cose che non si possono semplificare in
un linguaggio ristretto al napoletano o al siciliano (Scimone 2007);

Il recupero del cunto è coinciso col recupero e l’approfondimento del dialetto


che, in momenti di concitazione, ha un andamento che lo anticipa. Non c’è
stata, quindi, una operazione documentaristica di recupero archeologico di
un materiale che sta scomparendo (Enia 2007);


  Per osservazioni sulla lingua teatrale di Franco Scaldati e di Spiro Scimone cfr. A.
Sica, La drammaturgia degli emarginati nella recente scena siciliana, in Lingua e lingue nel
teatro italiano, a cura di P. Puppa, Roma, Bulzoni 2007, pp. 303-330; ma per il primo si
vedano almeno, di V. Valentini, Franco Scaldati, Soveria Mannelli (Ct), Rubbettino
1997, e Totò e Vice, a cura di V. Valentini, A. Di Salvo, Soveria Mannelli (Ct), Rub-
bettino 2003. Per la lingua teatrale di Davide Enia in Maggio ’43 («un italiano regio-
nale siciliano più complesso e ‘opaco’ del romanesco di Celestini») cfr. S. Stefanelli,
I linguaggi del teatro di narrazione, in Lingua e lingue nel teatro italiano cit., pp. 331-354.

  F. Scaldati, Intervista, a cura di C. Bellofiore, Palermo, 27 marzo 2007, in Il teatro
siciliano sperimentale (Joppolo, Scaldati, Scimone, Dante, Enia), Tesi di Laurea Magistra-
le, Università degli Studi di Pisa, Relatrice Anna Barsotti, a.a. 2007/2008.

  S. Scimone, Intervista, a cura di C. Bellofiore, Sesto Fiorentino (Fi), 9 marzo
2007, in Il teatro siciliano sperimentale cit.

  D. Enia, Intervista, a cura di C. Bellofiore, Palermo, 7 gennaio 2007, ibid.
117 Donna di scena, donna di libro. La lingua teatrale di Emma Dante

e neppure un recupero filologico del dialetto («uso il dialetto perché


ha una forte strutturazione simbolica [...]. E poi lo ‘sporco’ con l’ita-
liano che mi permette la ‘circuitazione’. Insomma [...] mi sono dovuto
creare una lingua personale che, a furia di lavorarci, ha dimostrato una
sua precisa identità»).
Tre dei quattro artisti sono palermitani: e non può essere un caso.
Sembra proprio che la metropoli arcaica da sventrare (perché già sven-
trata nella sua esibizionistica opulenza) sia oggi Palermo, metonimia
dell’Isola e metafora del mondo, com’era fin da Verga la Sicilia.
Sia Scaldati, sia Enia, e ancora la Dante scavano nelle rovine d’una
lussuosa città un tempo capitale di regno (di quello isolano) che esi-
bendo, appunto, la propria contraddizione vivente conferma alterigia
e degrado; e testimoniano da punti di vista diversi il valore metaforico
della Città. Così Enia: «la condizione della città di Palermo, magnifica
puttana incancrenita, mi appare, sempre di più, come la metafora esem-
plare della condizione tutta, in ogni luogo, adesso»; ed Emma Dante:

C’è una sorta di esplosione nei miei spettacoli che per me è un po’ simile a
certi luoghi palermitani o siciliani in genere, perché non è solo Palermo, è il
sud del mondo ad essere una condizione dell’anima.
Questo teatro dell’impossibile, che fa di Palermo una sorta di rappresentazio-
ne simbolica dell’anima del mondo, incessantemente indaffarata e incessan-
temente morente, è la nostra commedia.

Tra Scaldati e la Dante – a loro dire – non ci sarebbe tradizione co-


mune, forse per motivi generazionali10, per quanto entrambi facciano


  D. Enia, in Tradire la tradizione. Conversazione con Davide Enia, a cura di S. So-
riani, in «Il laboratorio del segnalibro», 23, 2005 (ora in <http://davideenia.org/in-
terv_laboratorio del segnalibro.htm>).

  D. Enia, Come principiò il lavoro di “Maggio ’43”, testo su: i bombardamenti di Paler-
mo. La guerra, l’avere 12 anni e l’arte di arrangiarsi, <http://davideenia.org/come_princi-
pio.htm>; già citato in Stefanelli, I linguaggi del teatro di narrazione cit., p. 344.

  I. Margarese, Entrevista a Emma Dante, in «Intramuros», n. 21, 2004-2005, p. 6.

  E. Dante, Carnezzeria. Trilogia della famiglia siciliana, Prefazione di A. Camilleri,
Roma, Fazi 2007 (contiene: mPalermu, Carnezzeria, Vita mia), pp. 19-20.
10
  Così risponde Scaldati ad una domanda sulla nuova generazione degli attori-autori
siciliani: «Gli unici che io ritengo miei epigoni e che rispetto moltissimo sono Ciprì e
Maresco. Gli altri sono bravi ragazzi, ma ancora devono crescere mentalmente. Emma
Dante è brava, come Pirrotta [Vincenzo] o Enia. Io per esperienza posso ammettere che
118 Anna Barsotti

riferimento alle ‘vastasate’11 come nutrimento culturale dei loro teatri


(e all’apertura di mPalermu è quasi impossibile non pensare ad un tea-
tro delle maschere). Inoltre, un attore come Giorgio Li Bassi, in tempi
diversi della sua carriera, costituisce una specie di trait d’union fra le
due generazioni: attore improvvisato «diventò l’emblema del teatro
politico dei Travaglini e della rinascita del teatro popolare palermita-
no»12 dalla metà degli anni Sessanta a quella dei Settanta, con Salvo
Licata nel cui cabaret politico debutta Scaldati nel 1974; ma viene
appunto coinvolto da Emma Dante nella parte del padre (insieme a
Francesco Guida in quella del figlio) per la produzione di Mishelle di
Sant’Oliva del 200513.
Con Enia, al di là del suo collocamento – criticato dal performer
monologante14 – nel ‘teatro di narrazione’, l’attrice-autrice ha avuto

solo dopo dieci o quindici anni ho cominciato a capire veramente me stesso» (Intervi-
sta, a cura di C. Bellofiore, in Il teatro siciliano sperimentale cit.); ancora più drastica la
Dante: «Non penso di avere una tradizione che si rifaccia ad un teatro come quello di
Scaldati. Con lui non c’entro niente!» (Intervista, a cura di C. Bellofiore, ibid.).
11
  Cfr. ancora, per Scaldati, Sica, La drammaturgia degli emarginati nella recente scena
siciliana cit.; e, per la Dante, G. Fofi, Emma la vastasa, in Palermo dentro. Il teatro di
Emma Dante, a cura di A. Porcheddu, Civitella in Val di Chiana (Ar), Zona 2006,
pp. 139-141.
12
  Sica, La drammaturgia degli emarginati nella recente scena siciliana cit., p. 306. Ri-
chiamandosi nel nome a quello di un’antica famiglia di buffoni creatori, nel 1718,
del Teatro dei Travaglini, Salvo Licata, con Luisa Fornaciari, Pietro De Giorgio, Enzo
Fontana, Giorgio Li Bassi e il pianista Ignazio Garcia avevano dato vita ad un gruppo
che realizzò nel marzo del 1967 uno spettacolo dedicato «all’ultimo guitto di strada
palermitano, Peppe Schiera», interpretato da Giorgio Li Bassi. I nuovi Travaglini si
sciolsero nel 1975, un anno dopo che Scaldati aveva debuttato sulla scena off del
teatro palermitano con la farsa Attore con la ‘o’ chiusa.
13
  Mishelle di Sant’Oliva (2005), nato dalla commissione di Rodolfo Di Giammar-
co per la rassegna di teatro omosessuale Il garofano verde, drammaturgia e regia di
Emma Dante; con Giorgio Li Bassi, Francesco Guida; scene e costumi: Emma Dan-
te; luci: Irene Maccagnini; foto di scena: Alfredo D’Amato; direzione organizzativa:
Fanny Bouquerel; produzione: Sud Costa Occidentale; co-produttori: Festival delle
Colline Torinesi, Espace Malraux, Scène Nazionale de Chambéry et de la Savoie,
Drodesera>Centrale Fies; debutta nel giugno 2005, al Festival delle Colline Torinesi,
Cavallerizza Reale (Torino).
14
  Per la definizione cfr. P. Puppa, Il teatro dei testi. La drammatugia italiana nel Nove-
cento, Torino, Utet 2003, pp. 200-209.
119 Donna di scena, donna di libro. La lingua teatrale di Emma Dante

invece rapporti: lei gli ha rubato un attore, come racconta lo stesso


Enzo Di Michele15, ed egli ha scritto per la Compagnia della Dante Il
filo di Penelope e lo studio Una stanza con nessuno dentro.
Attori-autori, anche Emma Dante: come attrice nata alla scuola di
Michele Perriera16, uscendo da casa («Niscèmu!» di mPalermu) per
imparare l’arte all’Accademia di Roma, e poi ancora più in su, nel
continente, con Guicciardini e Vacis; sembra quasi – a sentirla – che
quell’arte abbia voluto disimpararla17 riattraversando il mare all’in-

15
  E. De Michele, Il sangue sotto la finzione..., Intervista a Enzo De Michele, a cura di
P. Bologna, in Palermo dentro cit., pp. 183-185.
16
  Renato Tomasino, in un articolo apparso in «Sipario», luglio-agosto 1995, dal
titolo Nuove drammaturgie in cerca d’attori, osservava come il «dopo-Rosso (il gran-
de, e ancora poco rappresentato autore nisseno [...] scomparso nel ’56)» non aves-
se ricevuto in Sicilia «lo stesso impatto del dopo-Eduardo a Napoli». La mancanza
nella parte occidentale dell’isola di una «tradizione attorale fortemente radicata e
codificata [...] al contempo capace di ricerche e innovazioni sperimentali» aveva im-
pedito di produrre quei risultati che invece s’erano dimostrati attraverso la tradizione
partenopea e campana. D’altra parte a Catania, capitale orientale del teatro isolano,
«la straordinaria tradizione attorale che s’era formata attorno alla drammaturgia di
Verga, Aniante, Martoglio e soprattutto» di Pirandello aveva finito per cristallizzarsi
nelle «grandi pratiche di Musco, dei Grasso [...] in una sorta di scuola autogenerata
sotto il segno del carisma di Turi Ferro» come ‘museo vivente’ (p. 40). Le sue consi-
derazioni non mutavano rivolgendo lo sguardo sull’isola del dopo-Joppolo (deceduto
nel ’63). In tale contesto – osservava ancora lo studioso – «la più che ventennale
esperienza drammaturgica e registica di Michele Perriera, maturata a partire dalle in-
novative strategie del Gruppo ’63 ma sostenuta dall’illusionistica metafora metetea-
trale manierista e barocca» è apparsa come «una fenomenologia isolata e insieme ca-
rismatica» (ibid.). Tanto più che «l’autore, dalla rielaborazione marlowiana di Morte
per vanto (1971) fino a Anticamera e oltre ha intriso tale itinerario sperimentale nella
temperie neobarocca di un pirandellismo vivificatore e in quella scenica-attorale di
altrettanto inusitato neo-espressionismo degli effetti sonori, gestuali, illuminotecni-
ci; e ciò grazie alla costituzione di un gruppo di lavoro compatto, carismaticamente
motivato, quale il Teatès (da anni anche scuola di teatro egualmente compatta e
tendenziosa)» (p. 41).
17
  «[...] io venivo da una scuola e da dieci anni di tournée come attrice nel teatro di
regia, nel teatro ufficiale, di cui non mi importava niente. E quindi a un certo punto
ho deciso che questa storia doveva finire, e volevo invece incominciare a condivide-
re un percorso con delle persone» (E. Dante, Uno spettacolo è una denuncia archiviata,
conversazione con Emma Dante a cura di S. Bottiroli, Palermo, Addaura, 10 giugno
120 Anna Barsotti

contrario (come non sa fare la protagonista di Carnezzeria), tornando


a Palermo dalla madre ammalata e moribonda, ma facendo nascere la
compagnia Sud Costa Occidentale (dal 1999 in avanti) in cui poco a
poco smette di recitare. Eppure ha piuttosto trasformato l’arte della re-
citazione, e trasfuso nei suoi attori, i giovani subito reclutati – Manue-
la Lo Sicco e Sabino Civilleri, immediatamente dopo Gaetano Bruno
– ai quali si sono aggiunti Enzo Di Michele, Ersilia Lombardo ed Ales-
sio Piazza, a formare il nocciolo duro della compagnia; li ha sottoposti
a training talvolta sconvolgenti ma perché diventassero co-autori degli
spettacoli, corpi, voci, ognuno con la sua ‘specialità’, «perché proprio
quella specialità» – dice l’artista – «fa diventare la storia che racconto
non generica»18.
Per Silvia Bottiroli il ‘rapporto carnale’ della Dante con i suoi testi
perfomativi contiene il riferimento, confermato dall’autrice, a Tadeusz
Kantor, che accompagnava i suoi attori «sulla scena come un impro-
babile direttore d’orchestra»; ma nelle performances della Sud Costa
Occidentale la presenza fisica della regista non è più necessaria «poi-
ché gli attori hanno portato dentro al loro abitare la scena il segno di
quella relazione di corpi e di occhi»19. Ciò è possibile proprio perché
Emma Dante è all’origine un’attrice, e assorbe dalla nostra tradizione
scenica di attori-autori i migliori succhi della regia, «senza confor-

2005. Il testo integrale è riportato in S. Bottiroli, Libertà e durata. Spazi collettivi di


ricerca nel teatro italiano contemporaneo, Tesi di Dottorato di Ricerca in Storia del Tea-
tro, del Cinema e della Televisione, Università degli Studi di Pisa, Relatrice Anna
Barsotti, 2003-2005, pp. 206-218). Ma oggi sembra aver rivisto questa posizione,
almeno nei confronti dell’Accademia: «A me interessano gli attori che escono dal-
l’Accademia perché sono ‘preparati’. [...] L’attore che esce dall’Accademia possiede,
in modo ancora informe, la sua possibile ‘bravura’. Ha delle ‘basi’: l’Accademia non
fa essere bravi, ma dà delle basi. E le basi sono fondamentali: [...] lavoro comunque
sulla formazione dell’attore. Formo, anzi, l’attore con cui lavoro» (E. Dante, La stra-
da scomoda del teatro, Intervista di A. Porcheddu, P. Bologna, in Palermo dentro cit.,
p. 42).
18
  Dante, La commedia umana. Conversazione con Emma Dante cit., p. 182.
19
  S. Bottiroli, I felici pochi di Emma Dante. La grazia scomoda del teatro, 2055,
in corso di stampa in «Culture Teatrali», p. 26 (del dattiloscritto). Sul rapporto tra
Emma Dante e Tadeusz Kantor, si vedano in particolare R. Palazzi, Rito, devozio-
ne e carnalità pagana, in Palermo dentro cit., pp. 134-138, e M. Gliozzi, Memorie in
costruzione. Percorsi necessari nel teatro di Emma Dante, in «Ariel», XX, 1, 2006, pp.
111-122.
121 Donna di scena, donna di libro. La lingua teatrale di Emma Dante

marsi»20; si reincarna in tutti i suoi attori ed in un’attrice particolare,


Manuela Lo Sicco, per la cui ‘persona’ ha creato Nina di Carnezzeria,
l’opera che dà il titolo alla prima edizione in volume del suo teatro21.

Niscèmu! Usciamo in italiano... mPalermu

L’edizione a stampa del 2007 – allorché Emma Dante decide di di-


ventare oltre che donna ‘di scena’ anche donna ‘di libro’22 – presen-
ta notevoli varianti rispetto alla prima pubblicazione di due testi nel
200323. Mutazioni non solo dal punto di vista compositivo (struttu-
ra dialogica ed articolazione delle battute, didascalie) ma anche dal
punto di vista linguistico. Il rapporto più stretto con il percorso del
testo spettacolare, che ho seguito dal vivo nella stagione 2006-2007
e riletto in video, si riscontra nella versione inedita dei rispettivi testi
drammatici del 2005, più simile a un copione24. Va considerato anche
il fatto che tra spettacolo dal vivo e quello audiovisivo corrono diffe-
renze, specialmente per l’ambientazione scenografica di Vita mia, che
dipende dallo spazio scenico prescelto, o occasionale, nelle rappre-
sentazioni, è invece costante nel video e meno intrigante. La ripresa
in interno non rende, infatti, la dinamica spaziale dell’entrata degli
spettatori come «invitati alla veglia» funebre25.
Ma il testo scritto più variato fra i due, mPalermu e Carnezzeria, di

20
  Rimando ancora al mio libro Eduardo, Fo e l’attore-autore del Novecento cit.
21
  Dante, Carnezzeria. Trilogia della famiglia siciliana cit.
22
  Cfr. F. Taviani, Uomini di scena uomini di libro. Introduzione alla letteratura teatrale
italiana del Novecento, Bologna, Il Mulino 1995 (da cui traggo ispirazione anche per il
titolo di questo saggio).
23
  E. Dante, mPalermu, Carnezzeria, in «Prove di Drammaturgia», IX, 1, 2003 (pp.
23-28 e pp. 28-33), con Emma Dante: Appunti sulla ricerca di un metodo (pp. 21-23) e
Presentazione di C. Meldolesi, G. Guccini (p. 20).
24
  Ho potuto visionare le versioni inedite, del dicembre 2005, di mPalermu, Carnez-
zeria, Vita mia; a Silvia Bottiroli devo le versioni inedite dattiloscritte dei testi della
Dante, con l’autorizzazione dell’autrice, che ringrazio. Indicherò, in nota, i video a cui
faccio riferimento.
25
  Vita mia (2004), drammaturgia e regia: Emma Dante; con Ersilia Lombardo, Enzo
Di Michele, Giacomo Guarneri, Alessio Piazza; luci: Cristian Zucaro; direzione orga-
nizzativa: Fanny Bouquerel; produzione Sud Costa Occidentale con Romaeuropa Fe-
stival, Scène Etrangères-La Rose des Vents (Lille), Festival Castel dei Mondi; debutto
122 Anna Barsotti

cui possiedo sia la versione inedita sia quella pubblicata in «Prove di


Drammaturgia» sia l’ultima edita in volume, è senza dubbio il primo,
la cui gestazione anche in quanto testo spettacolare è stata più lunga26.
Colpisce anzitutto la diversa estensione del testo drammatico, che
dalle cinque pagine (sia pure stampate in corpo minore) della prima
edizione (2003) sale alle quarantasette dell’ultima, corredate di note
relative al significato di alcuni termini e modi di dire dialettali. Resta
costante la struttura, per nove quadri titolati in successione: Il risveglio,
Le cinghiate dell’amore, Rosalia delle tappine, Foni e Pollena Trocchia ov-
vero Giammarco e Nonna Citta in viaggio, La danza del pallone, La pic-
cola abbuffata, Il miracolo dell’acqua, Lucia del sole, Il grande sonno; ma,
all’interno dei quadri, si operano numerosi ampliamenti già nel passag-
gio dalla prima edizione alla versione inedita, in particolare nelle scene
di Foni e Pollena Trocchia, La danza del pallone e Il miracolo dell’acqua,
sciogliendo certe didascalie in azione e battute, che in generale ten-
dono a distribuirsi fra i personaggi. S’articola così un percorso che dal
risveglio della imprecisa (nelle parentele) famiglia Carollo precipita
nel sonno letale della matriarca nonna Citta, quasi come un Natale in
casa Cupiello virato al femminile e palermitano. Anche qui ci si desta
al buio e si muore per una festa interrotta, ma non ci sono traumi legati
alla scoperta d’una trasgressione famigliare che rovina il presepe di un
protagonista; non ci sono protagonisti ma una pluralità di «persone»,
attori, senza i quali come recita nel prologo l’autrice-regista «questa
storia non sarebbe mai stata scritta» (ed. 2007, p. 20)27.

nell’ottobre 2004, Romaeuropa Festival – Villa Medici, Roma. DVD – ripresa video
effettuata nel Salone Grande di Villa Medici, Roma, a cura di C. Cappellani, 2004.
26
  mPalermu, drammaturgia e regia: Emma Dante, con Monica Angrisani (poi Ersi-
lia Lombardo), Gaetano Bruno, Sabino Civilleri, Tania Garibba, Manuela Lo Sicco;
direzione tecnica e organizzativa: Daniela Lo Re [Cristian Zucaro]; foto: Oreste Bron-
do e Lia Ciuccio; produzione: Sud Costa Occidentale; debutta nel novembre 2001 al
Teatro delle Briciole – Teatro al Parco di Palermo. Vince il Premio Scenario nel 2001
con uno studio dei venti minuti, riceve il Premio UBU 2002. DVD – regia di Emma
Dante, regia televisiva di Marco Rossitti, con Gaetano Bruno, Sabino Civilleri, Tania
Garribba, Ersilia Lombardo, Manuela Lo Sicco; luci di Cristian Zucaro, 2006 (collana
Teatro Incivile dell’«Unità» 2006).
27
  Da qui in avanti (per entrambi i drammi) citerò dalle diverse versioni usando
le seguenti abbreviazioni: ed. 2003, ined. 2005, ed. 2007, fra parentesi tonda, diret-
tamente nel testo, con l’indicazione delle pagine in numeri arabi, le didascalie in cor-
sivo. La numerazione delle pagine della versione inedita dattiloscritta è mia.
123 Donna di scena, donna di libro. La lingua teatrale di Emma Dante

La festività che la famiglia Carollo (senza padre) si appresta a ce-


lebrare, uscendo di casa, superando la soglia-limite del boccascena,
è indefinita, un’occasione qualunque per evadere forse anche dalla
schiera28, la «fila sulla ribalta» in cui i ‘personaggi’ nell’elenco iniziale
sono presentati come in uno specchio che li inverte: gli stessi, Da sini-
stra a destra (Mimmo, Nonna Citta, Giammarco, Zia Lucia, Rosalia)
e Da destra a sinistra (Rosalia, Zia Lucia, Giammarco, Nonna Citta,
Mimmo, ibid., p. 21).
La donna di libro, Emma Dante, qui come in Carnezzeria29, sente
l’esigenza di intridere la cornice e i suoi apparati del senso che vuole
il testo abbia, nel secondo dramma della trilogia rendendolo più let-
terario; per esempio, nella didascalia d’apertura prevale subito l’idea
del sacrificio della protagonista, perché lì la protagonista c’è, Nina.
L’elemento che accomuna le tre versioni di questa «macelleria» in
palermitano (e i suoi spettacoli) è l’«edicola religiosa» che inquadrerà la
morte della ragazza (alla fine), perciò si passa dalla rapida descrizione
dell’azione d’ingresso – dei tre fratelli che portano in spalla la sorella
incinta, «vestita da sposa con una fascia funebre sulla pancia» (ed. 2003,
p. 28) − a quelle più dettagliate dell’inedito e della stampa in volume;
con varianti significative dall’una all’altra delle ultime due: «La scena»
al buio diventa «L’altare», i «tre fratelli» diventano i «tre sacerdoti», che
non «addobberanno il palcoscenico come una specie di edicola religiosa»
(ined. 2005, p. 1) ma «addobbano» appunto «l’altare dentro l’edicola
religiosa» (ed. 2007, p. 79). L’immediata trasfigurazione metaforica di

28
  «La schiera è un esercizio che ho appreso da Gabriele Vacis ed è molto impor-
tante perché permette di lavorare sul ritmo [...] si lavora con quei poveretti di attori,
tutti in schiera: e gli fai fare dodici passi avanti e indietro, per ore e ore, chiedendo
loro di non perdere mai il ritmo iniziale [...] di non uscire mai da quella ‘trappola’: di
stare lì dentro tutti mantenendo la concentrazione. [Ora] La faccio a modo mio [...].
La scena diventa una specie di griglia, di linee che si intersecano. [...] La schiera è
diventata una sorta di labirinto [anche] per far perdere l’orientamento agli attori [...],
pur mantenendo sempre la stessa automaticità [...]. C’è un caos ordinato» (Dante, La
strada scomoda del teatro cit., p. 36).
29
  Carnezzeria, drammaturgia e regia: Emma Dante; con Gaetano Bruno, Sabino
Civilleri, Enzo Di Michele, Manuela Lo Sicco; direzione tecnica e luci: Tommaso
Rossi; scene: Fabrizio Lupo; foto di scena: Lia Ciuccio; produzione: Crt (Centro di
Ricerca per il Teatro) di Milano; debutta nel novembre 2002 al Crt-Teatro dell’Arte
di Milano. DVD – riprese video effettuate il 4 marzo 2007, a cura del CRT, dalla Sa-
letta Gramsci del Teatro di Pistoia.
124 Anna Barsotti

personaggi e luogo avviene anche a costo di particolari importanti per


la dinamica della performance, come l’ingresso «dalla sala» di quella
processione che non viene annotato – come invece nel copione – e
che rappresenta un movimento di rottura della quarta parete e di coin-
volgimento a partire dalle spalle del pubblico, il cui «sguardo indiscreto
di invitati seduti in sala» (ined. 2005, p. 1) diventa «curioso» (ed. 2007,
p. 79).
Il teatro di Emma Dante è fin dall’inizio un teatro aperto, che pre-
vede la presenza (e lo sguardo) del pubblico; ma le relazioni spaziali
mutano nel percorso della trilogia: il dentro/fuori – scena/sala – di
mPalermu gioca proprio con l’invalicabilità del limite, semantico e
spaziale; in Carnezzeria c’è una dinamica che rompe quel limite facen-
do entrare i personaggi dalla sala e facendoli uscire per la stessa via,
alla fine, lasciandone in scena uno solo, la protagonista; in Vita mia,
sono gli spettatori ad entrare in scena, sedendosi ai bordi di essa a se-
micerchio: il gioco si fa sempre più complice senza, tuttavia, prevedere
un mescolamento di ruoli.
L’attraversamento del boccascena (compiuto dai fratelli-sacerdoti
all’inizio e alla fine di Carnezzeria) non si verifica appunto, mai, in
mPalermu, dove il trauma è rappresentato proprio dalla mancanza del-
l’avvenimento, del passaggio del limite30.
Non a caso, e qui arriviamo al linguaggio verbale e sonoro del testo
e dello spettacolo, alla parola e alla paralinguistica, una delle varianti
più significative che percorre le tre versioni scritte di mPalermu è le-
gata all’area semantica dell’uscita. Quell’uscita che è stata – ad ogni
modo – importante per l’autrice, anche se il percorso a ritroso – dopo
la fuga dall’isola il rientro – ha determinato la sua ricerca linguistica.

Per questo scrivo in dialetto, perché anche se non comprendo, tutto mi è


familiare. Quando imparerò a capire il dialetto dei miei spettacoli, mi sentirò
perduta, orfana, sola. Sarà come capire mio padre. Per questo […] faccio di
tutto per non dargli un’identità, una paternità. Voglio che rimanga impuro,
sgraziato e disgraziato;

una ricerca legata indissolubilmente a quella del senso e della forma


d’un teatro contemporaneo e antico, che le consenta di uscire senza
andarsene:

30
  Per il concetto di «avvenimento» cfr. Ju.M. Lotman, La struttura del testo poeti-
co, trad. it., Mursia, Milano 1976 [ed. or. Mosca 1970].
125 Donna di scena, donna di libro. La lingua teatrale di Emma Dante

Ho bisogno di cercarlo continuamente il significato del mio teatro, solo così


non posso perderlo, perché so già che non lo troverò mai. Io non so cosa
significa «Niscemu?» e non me ne posso andare31.

Da qui alcune dichiarazioni (apparentemente) contraddittorie, che


contengono il significato profondo d’un dissidio aperto-chiuso, con-
tinente/mondo esterno-mondo dell’isola, italiano (e sua traducibili-
tà)-dialetto, che in lei come in molti siciliani non appare risolto, ma
che la distingue; a proposito del rischio della ‘sicilitudine’ nell’uso del
dialetto, risponde:

Sì, c’è il rischio, ma chi se ne frega! Io devo fare i conti, e i conti li posso
fare solo in dialetto. I conti li faccio in dialetto e li faccio con quel tipo di
personaggi, li faccio con i disgraziati, con i farabutti [...]: ci deve essere sempre
qualche conto che non torna... 32;

ma poco dopo si corregge, ammettendo:

Sto cercando una lingua. Non è vero che non conosco il dialetto che scrivo,
altrimenti non lo potrei scrivere. Ma questo dialetto mi spiazza, mi sorprende,
perché è una lingua molto aperta alle contaminazioni e alle impurità, elastica
e viva, tanto che alcune parole sono intraducibili in italiano [...]. In questo
senso dico che non conosco il mio dialetto; cioè non lo conosco nella tradu-
zione in italiano33.

Per esempio la frase d’inizio di mPalermu, «chi fa, arapemo ’sta fine-
stra?»:

[...] quel «chi fa» in dialetto racchiude un sentimento molto preciso che è
«se non apriamo questa finestra è la fine, perché moriamo soffocati». Come
fai a tradurlo in italiano? [...] E soprattutto sto scoprendo che certe paro-
le stanno entrando nel mio vocabolario: sono parole rivedute e corrette,
rielaborate, che non esistono nel dialetto che si parla in città ... Quindi ci
sono delle parole che tornano sempre e che sono diventate ormai una cifra
stilistica34.

31
  E. Dante, Il mio dialetto bastardo, in «Lo Straniero», 58, 2005, p. 93.
32
  Dante, La strada scomoda del teatro cit., p. 58.
33
  Ibid., pp. 66-67.
34
  Ibid.
126 Anna Barsotti

Indubbiamente mPalermu è l’opera della trilogia in cui il palermita-


no predomina (almeno rispetto a Carnezzeria); ad osservare le tre ver-
sioni, ma con l’occhio e l’orecchio allo spettacolo, si nota subito come
il «dialetto bastardo»35 della Dante appaia più stretto e straniero − per
un italofono − nella prima versione a stampa, non tanto nei confronti
dell’inedita del 2005 (con traduzione) ma soprattutto dell’ultima edi-
zione del 2007, dove si contano interpolazioni di battute in italiano
che, oltre ad allungare il testo, lo rendono più comprensibile.
Nella scena in cui l’attenzione si sposta dalle «tappine» di Rosa-
lia (Manuela Lo Sicco) – primo inciampo per un’uscita decorosa – ai
pantaloni «curti» e «stritti» di Mimmo (Gaetano Bruno), la sequenza
della battute nella prima edizione è la seguente:

Mimmo: Nonna Citta spostati! Ancora! Picchì chi hannu sti pantaluni?
Giammarco: Su curti!
Rosalia: Curti!
Mimmo: Cumu sunnu!
Giammarco: Stritti!
Rosalia: Stritti!
Mimmo: E a tia cu t’interpellò?
Giammarco: Sugnu so cugnatu!
Mimmo: E a mia cu mi rappresenti?
Giammarco: Ca sempre so cugnatu sugno è giusto?
Mimmo: Giustissimo, ma senti ’na cosa, e se io posu stu pasticcino, mi levu a
cinta e t’ha scrocchiu in testa, tu chi dici? (ed. 2003, p. 24).

Si passa così, sveltamente, a Le cinghiate dell’amore, come nella ver-


sione inedita, intermedia, che riprende perlopiù la prima a stampa,
inserendo soltanto nella prima battuta di Mimmo il termine «n’antic-
chièdda!» dopo lo «spostati» rivolto a Nonna Citta, e articolando in
modo più diretto e parlato, con l’allocuzione all’interlocutore in forma
fatica e l’inserimento d’un deittico, l’ultima battuta del piccolo boss
famigliare: «Giustissimo, ’u vidi ’stu pasticcino? Appena posu ’nterra
’stu pasticcino, mi levu ’a cinta e t’ha scricchiu in testa» (ined. 2005,
p. 5).

35
  «[Il dialetto di Emma Dante] non è filologico e poetico […], bensì imbastardito,
seminuovo, lesionato nella pronuncia da lingue giovani e impure, contaminato da
parlate gergali e dall’italiano» (E. Morreale, I ragazzi di Emma Dante, in «Lo Stra-
niero», 56, 2005, p. 103).
127 Donna di scena, donna di libro. La lingua teatrale di Emma Dante

Invece, nell’edizione Fazi, oltre all’inserimento della didascalia che


descrive movimenti e atteggiamenti, sguardi dei personaggi, in italia-
no ma – ed è la caratteristica delle didascalie di questa stampa – con
contaminazioni (quasi indiretto libero) in dialetto («i suoi pantaloni
sono talmente mali cumminàti [...]», ed. 2003, p. 27), il dialogo è arric-
chito da interpolazioni in lingua, secondo l’uso di raddoppiare una
battuta con la sua traduzione (già di Eduardo, Fo, ora di Enia in ambi-
to siciliano) ed anche distribuire il discorso fra più personaggi:

Mimmo: [...] Nonna Citta, spostati n’anticchiédda! [...] Non mi vede ancora
bene Giammarco, nonna, spostati un altro pochettino! [...] Giammarco, ora
che mi puoi vedere a figura intera, dimmi: chi hannu sti pantaluni?
Giammarco: Curti!
Rosalia: Curti!
Mimmo: Comu sunnu? Non ho sentito bene! (ed. 2007, pp. 27-28).

Così l’ultima battuta di Mimmo citata sopra, oltre a tradurre qual-


che termine rispetto all’inedito, implica l’assenso di Giammarco (Sa-
bino Civilleri):

Mimmo: Lo vedi stu pasticcino? [...]


Giammarco: Se.
Mimmo: Appena poso ’nterra stu pasticcino e finalmente ho le mani libere,
mi levo ’a cinta e t’ha scrìcchiu ’ntesta. Devo aggiungere altro? (ed. 2007,
pp. 28-29)36.

Eppure, come già detto, il rapporto più stretto con il testo spetta-
colare si ritrova forse nella versione inedita, dove le didascalie ap-
paiono meno sintetiche della prima edizione a stampa, il linguaggio
s’assimila meglio alla lingua in scena. E proprio nel campo semantico
dell’‘evasione’ il confronto risulta importante, a partire dall’attacco
del primo quadro dopo la polifonia di voci non identificate di Il ri-
sveglio:

36
  Ho segnalato in neretto sia i termini tradotti (’u vidi> Lo vedi; posu>poso; mi
levu>mi levo) sia le interpolazioni rispetto al passo corrispettivo dell’inedito citato
prima: «Se»; «e finalmente ho le mani libere»; «Devo aggiungere altro?».
128 Anna Barsotti

Rosalia: Amunì: ama Rosalia: Amunì: ’amu ’a Rosalia: Amunì: hamu a


nesciri? nesciri? nèsciri?
Mimmo: E certo che Mimmo: E certo che Mimmo: E certo che
dobbiamo uscire! dobbiamo uscire! dobbiamo uscire!
Zia Lucia: Ciù rissi in Zia Lucia: Ci ù dissi in Zia Lucia: (Bisbiglia
italiano! italiano! a Rosalia) Ciù dissi in
Mimmo: Picchi chi è? Mimmo: Picchì chi è? italiano!
Zia Lucia: Niente. Zia Lucia: Niente. Mimmo: Picchì, chi è?
Rosalia: Nisciemu! Rosalia: Niscemu! Zia Lucia: Niente...
Mimmo: Ah mi pareva ca
mi stavi sfuttènnu!
Zia Lucia: Può essere
mai?
Rosalia: Niscèmu!
Ed. 2003, p. 23 Ined. 2005, p. 3 Ed. 2007, p. 23

Nelle tre versioni (al di là della grafia diversa di alcuni termini dia-
lettali) permangono in italiano la prima battuta di Mimmo e il diniego
di Zia Lucia: la scelta è giustificata tematicamente, dal momento che
quest’ultima nota il fenomeno in un bisbiglio a Rosalia; d’altra parte
nella stampa in volume il dialogo s’allunga sottolineando, parzialmen-
te in dialetto, l’orgoglio ombroso e provocatorio di Mimmo. Perciò, la
variante più significativa riguarda il quadro-monologo di Lucia del sole,
che segue Il miracolo dell’acqua nella prima edizione affidato soltanto
alla didascalia, a soggetto. Qui l’appello ad uscire di Zia Lucia è anco-
ra svolto sostanzialmente in dialetto37, tranne tre battute: «mamma è
pronta!» (ed. 2003, p. 27), «Ma mi sentite? Io me ne vado!» (ibid.),
«[...] stiamo arrivando. A famiglia Carollo sta arrivando!!» (p. 28).
Invece nelle altre due versioni (pur con alcune differenze che osser-
veremo) la donna vuole ‘uscire in italiano’ sviluppando la conferma
iniziale di Mimmo («E certo che dobbiamo uscire!»), ed il rapporto
lingua-dialetto s’inverte come avviene nello spettacolo.
L’attacco è identico, nell’inedito e nella stampa in volume, tranne

37
  «Zia Lucia: Sugnu pronta! Nisciemu! Rosalia? mamma è pronta! Mimmo? Mi?
Amunì! Giammarco? Pigghia a nonna Citta, ca sugno pronta! Fuori c’è u suli! È giallo
u suli! È bello! Ammunì! Giammarco? Ama a purtari nonna Citta a u mari, ca ci fa
bene ai carni! Giammarco? Amunì! Curri Rosalia, c’ama accattari i scarpi, russi, coi
tacchi, Rosalia! Amunì ca mi mettu puru u russetto! Ama a ghiri o mari, unnè lun-
tanu u mari! Accusì tutti bagnati, sì, che ce ne fotte, che ce ne fotte che ci stanno a
taliare, che taliassero, nui niscemu accussì comu simu! Ma mi sentite? Io me ne vado!
Amunì. Faciti presto ca io me ne vado! Chiuriti i porti, chiuriti i finestri. Uora ama
a nesciri, no rumamani! C’è u suli! È giallo u suli! Unnu u pirdimmu stu trenu! E voi
unni iti, aspettate, ca stamo arrivando. A famiglia Carollo sta arrivando!!! Niscemu
abballannu, accussì [...]» (ed. 2003, pp. 27-28).
129 Donna di scena, donna di libro. La lingua teatrale di Emma Dante

che per l’inserzione delle didascalie e per la diversa grafia di parole


nell’edizione del 2007 (che segnalo fra parentesi quadra):

Zia Lucia
Sono pronta!
Usciamo.
Rosalia? La mamma è pronta! Sbrigati!
Mimmo? Mi?
Amunì, che sono pronta! Mi senti?
Giammarco, prendi la nonna Citta che la portiamo al mare.
[(Si fotte dalle risate)]
Mii Mimmo, ci ’ù [ciù] dissi in italiano!
Usciamo in italiano! (ined. 2003, p. 29; ed. 2007, p. 64).

Andando avanti si osservano alcune varianti fra le due versioni, an-


cora attraverso le didascalie che introducono il rivestimento di alcuni
personaggi (Mimmo, Rosalia, che si sono spogliati nella scena dell’ac-
qua), il passaggio di un termine dal dialetto alla lingua (ventu>vento),
e soprattutto il coinvolgimento del sole (che cala) nella fretta di usci-
re; quindi la provocazione agli spettatori che metaforicamente debbo-
no aspettare l’arrivo della famiglia Carollo:

Zia Lucia
Fuori c’è ’u suli! Ma non lo vedi come è bello questo sole?
È grande ’u suli! È giallo!
Amunì! Rosalia vieni subito qua!
Amunì, ca mi metto pure il rossetto, rosso!
[(Mimmo strizza la canottiera e se la rimette bagnata)].
Accussì[, Mimmo,] tutti bagnati, sì, che ce ne fotte che ci stanno a taliare
[taliàri], che taliassero [chi taliàssero], noi usciamo così come siamo, tutti
bagnati!
[(Rosalia si rimette le tappine)] Tanto fuori c’è ’u ventu chi ’n’asciuga! Mii [...]
ventu! Mimmo mi senti? Mii ventu! [Mii... vento!]
[(Zia Lucia si riveste velocemente ed esorta gli altri a fare lo stesso). Amunì, spic-
ciatevi, che il sole cala! A noi sta aspettando. Mi sentite?
(Agli spettatori) E voi non ve ne andate che stiamo arrivando.]
E voi aspettate che stiamo arrivando (ined. 2005, pp. 29-30; ed. 2007, pp.
64-65)38.

38
  Continuo a segnalare, qui e dopo, fra parentesi quadra le varianti lessicali e gra-
fiche e le aggiunte di battute dell’edizione 2007.
130 Anna Barsotti

Ma la variante semantica più significativa – anche rispetto alla prima


stampa del testo dove la battuta è in dialetto – riguarda la conversione
del verbo chiudere in aprire: «Chiuriti i porti, chiuriti i finestri» (ed.
2003, p. 27), «Chiudete le porte, chiudete le finestre, chiudete tutto,
che dobbiamo uscire, ora! No domani!» (ined. 2005, p. 30), «Aprite
le porte, aprite le finestre, aprite tutto, che dobbiamo uscire, ora! Non
domani! Domani è tardi» (ed. 2007, p. 65); in sintonia comunque con
la prima battuta del testo, citata dalla Dante39 e con quella introdotta
qui fra le ‘giaculatorie’ iniziali: «Grapi ’a finestra e talìa: / c’è il sole! È
bello vero...» (ibid., p. 24). S’aggiunge inoltre nell’appello di Zia Lu-
cia, a partire dalla versione inedita, all’immagine del treno quella del
porto da abbandonare con le sue navi di pietra40, come se si dovessero
sciogliere anch’esse dal dialetto:

Non lo possiamo perdere questo treno.


Ora dobbiamo uscire, perché io non ce
la faccio più a stare qua dentro…
L’amu ’a lassari ’stu porto chino [chinu] di navi di pietra.
C’è ’u suli! Ma non lo vedi
com’è bello questo sole?

con l’allegro Leit-motiv rivolto agli spettatori: «La famiglia Carollo sta
arrivando!!! Ballando ballando: il mambo mambo!» (ined. 2003, p.
30; ed. 2007, p. 65).
Nel silenzio d’un urlo-sbadiglio all’impiedi – anche nella «morte in
dialetto» (ed. 2007, p. 70) di Nonna Citta – si chiuderà invece l’ope-
ra, nonostante l’emozionante scena collettiva dell’acqua che da un
tappo si trasforma in scialo, e da scialo in mare del Sud, mostrando
inavvertite analogie con Agua di Pina Bausch, «ritratto coloratissimo
e ammaliante del Brasile, quasi un musical onirico»41.

39
  «Chi fa: a rapemu sta finestra?» (ed. 2003, p. 23); «Chi fa, ’a grapèmu sta fine-
stra?» (ed. 2007, p. 23)
40
  Come già notato da Silvia Bottiroli, nel suo bel saggio I felici pochi di Emma
Dante. La grazia scomoda del teatro cit., nel testo pubblicato su «Prove di Dramma-
turgia» la frase «L’amu ’a lassari ’stu porto chino di navi di pietra» non compare, «a
dimostrazione di come la scrittura di Emma Dante intrattenga una relazione costante
con la scena, dalla quale viene modificata nel corso del tempo» (p. 23).
41
  Cfr. L. Bentivoglio, Il mondo d’acqua di Pina Bausch, in «la Repubblica», 18
131 Donna di scena, donna di libro. La lingua teatrale di Emma Dante

Questo bambino è santo... Carnezzeria

Dalla famiglia allargata tipica del Sud, di mPalermu, con i suoi le-
gami interni insondabili ma qui priva della figura paterna, si passa al
nucleo ristretto, esclusivamente fraterno, di Carnezzeria. Il mare s’è
attraversato ma per celebrare una festa funebre, un matrimonio per
finta che culminerà in un suicidio alla rovescia.
Carnezzeria è il più traumatico dei drammi della Trilogia, il più grot-
tesco (nel senso di tragi-comico) a partire dalla figura della sposa-so-
rella, candida ma con la croce nera sulla pancia gonfia d’una vita desti-
nata a non nascere. All’origine di questa figura che oscilla fra catatonia
e frenesia c’è sicuramente – come è stato notato – la sposa meccanica
di Kantor42, ma se ne approfondiamo le radici drammaturgiche isola-
ne c’è anche la Bella addormentata di Rosso di San Secondo, il suo
espressionismo fantastico-regionale43. Manca qui, però, il brigantesco
ma cavalleresco Nero della Zolfara; le tre figure maschili che circonda-
no la pupa di carne sono appunto fraterne ma sadiche amanti: nessuna
salvezza è possibile per Nina, «’a scimunita», il cui sbadiglio iniziale
finirà soffocato.
Anche l’ultimo testo edito di Carnezzeria allunga molto la storia ri-
spetto al primo, le battute si moltiplicano e si distribuiscono, le scene
a soggetto descritte dalle didascalie si trasformano in azioni e parole.
Dal punto di vista linguistico il rapporto italiano-dialetto appare rove-
sciato rispetto a mPalermu: se nella prima commedia – nello spettacolo
anche per il ritmo concitato della recitazione – macchie di lingua, ed
in momenti pieni di senso, sporcavano il palermitano, qui, al contra-
rio, macchie dialettali sporcano una lingua molto parlata ma riela-

giugno 2007. Non balletto, ma Tanztheater, creato dalla coreografa nel 2001 e rappre-
sentato in prima italiana alla Fenice di Venezia dal 12 al 15 luglio del 2007.
42
  «In Wielpole Wielpole, Helka, “la sposa vestita da sposa”, viene violentata dal sol-
dato e derisoriamente gettata per aria [...]. Il manichino di Helka e l’oggetto-Nina sono
inevitabilmente le due facce dello stesso segno scenico. La violenza della Storia segna
un popolo, così una terra o un singolo individuo: la Piccola Storia balla sempre con la
Grande Storia in una lotta feroce che è il teatro, come ricorda Eugenio Barba» (Glioz-
zi, Memorie in costruzione. Percorsi necessari nel teatro di Emma Dante cit., p. 120).
43
  Rimando al mio libro, A. Barsotti, Pier Maria Rosso di San Secondo, Firenze, La
Nuova Italia 1978; ed in particolare al mio saggio Epicità de La bella addormentata
(di Rosso di San Secondo), in «Rivista Italiana di Drammaturgia», II, 3/4, 1977, pp.
131-167.
132 Anna Barsotti

borata scenicamente. A ben guardare, bisogna giungere all’episodio


delle fotografie (depositarie di un passato che porterà appunto a trau-
matiche rivelazioni)44 per trovare battute in dialetto, al tempo stesso
espressione e copertura – di fronte agli invitati italofoni – d’una verità
atroce. «Ignazio: Picchì ’unn’è ’a verità, Paride? ’Unn’a sapèmu tutti ’a
verità?» (ed. 2007, p. 106): battuta che manca nella prima edizione a
stampa, ma non nell’inedito45, come molte altre.
Il testo si struttura in alcune stazioni senza titolo: entrata della pro-
cessione (dalla sala) sul palco e suo allestimento; risveglio di Nina sul-
la sedia-trono, sua meravigliata scoperta degli spettatori-invitati ma,
anche, sua impuntatura per tornarsene a casa; teatrino improvvisato
dai fratelli per divertirla e distrarla; monologo di Nina in proscenio
o allocuzione al pubblico per mostrare le fotografie; diverbio fra To-
ruccio ed Ignazio a proposito della foto incriminata, mentre Paride
cerca di mettere pace imponendo la sua verità; gioco di tira e molla

44
  Anche in questo caso la Dante mescola, coscientemente o inconsciamente, sug-
gestioni europee e radici drammaturgiche siciliane, di quegli autori però che, come
Rosso e come Joppolo, pur in tempi diversi mescolano l’Isola con l’Europa. Se è vero,
come afferma Melanie Gliozzi, che «le fotografie sono frammenti di vita morta, sot-
traggono la vita allo scorrere del tempo, cioè alla stessa cosa di cui conservano la
memoria. Un ossimoro che secondo Kantor era l’unico strumento per reintrodurre
il concetto di vita nel teatro, cioè attraverso l’assenza di vita, un segno registico che
popola tutte le creature di Emma Dante» (Gliozzi, Memorie in costruzione. Percorsi
necessari nel teatro di Emma Dante cit., p. 119), le fotografie dei morti costituiscono la
climax di Una visita di Beniamino Joppolo, che l’autore di Patti scrive nel 1943, sebbe-
ne il testo rimanga inedito fino al 1965 (pubblicato in «Ridotto»). E bisogna arrivare
al 1982 per la rappresentazione dell’atto unico, insieme a La Provvidenza, per la regia
di Gianni Scuto, a Piscador di Catania, con la Cooperativa 37° Parallelo. Si è parlato
a proposito dell’opera sia di «espressionismo caratteriale» sia di «espressionismo me-
diterraneo» (formula quest’ultima legata anche al teatro di Rosso di San Secondo);
eppure, rispetto alle precedenti, qui emergono tratti di surrealismo grottesco, che di-
venteranno predominanti nel lavoro forse più famoso di Joppolo: I soldati conquistatori,
primo titolo, nel ’45, di I carabinieri. Cfr. A. Barsotti, Da Patti a Parigi sulle tracce
di un’avanguardia mediterranea, in Beniamino Joppolo dalla Sicilia alla Francia: viaggio
nell’immaginario e nell’opera di un autore divergente, libretto edito a cura di La Città del
Teatro di Cascina, con scritti di E. Moscato, G. Rizzo, per il progetto di produzione
e ricerca Un grido d’allarme ideato e diretto da A. Alveario, A. Garzella, con la mia
consulenza drammaturgica (stagione teatrale 2005-2006).
45
  «[...] ’Unn’a sannu tutti ’a verità?» (ined. 2005, p. 14).
133 Donna di scena, donna di libro. La lingua teatrale di Emma Dante

della fotografia tra i due fratelli minori, troncato dal maggiore dopo
la frase-schiaffo di Ignazio «Toruccio facciamo cavalluccio!»; scena
che svela il primo stupro famigliare, di Toruccio bambino da parte del
padre; lite violenta fra Ignazio e Toruccio, finché Paride non si rivolge
contro Nina, momentaneamente messa da parte ma colpevole d’es-
sersi impadronita delle foto; scena di violenza sadica dei tre ‘sacerdoti’
nei confronti del capro espiatorio; contorsioni di Nina, la cui pancia,
colpita dal calcio di Paride, improvvisamente si muove come corpo a
sé; danza delle pellicce per distrarre la donna dal parto intempestivo,
che si muta in stimolo d’eccitazione erotica per i maschi; la sorella in-
dossa una pelliccia e si trasforma in puttana; seconda e fondamentale
rivelazione nel monologo di Nina, che racconta candidamente d’aver
dormito con Paride, e a volte anche con Toruccio ed Ignazio; Nina
inchiodata al palco dal velo nuziale, lasciata sola dall’uscita, uno per
volta, dei fratelli, s’impicca all’incontrario.
Confrontando – ancora – l’edizione 2003 con l’inedito del 2005 e
con l’edizione del 2007 si nota subito come le due scene iniziali (al-
lestimento del palco con candelotti elettrificati e festoni di lucette,
risveglio di Nina) si amplino notevolmente nell’ultima stampa sia nei
riferimenti scenografici delle didascalie sia nelle battute (il gioco delle
coppole, la corsa della fantomatica motocicletta...); così come s’allun-
ga il monologo di Nina («Noi siamo di Roccapalumba») mentre lei
incomincia ad estrarre dalla fascia (che le protegge il pancione) le foto
che illustrano il passato della famiglia, ma divaga sul viaggio compiuto
in traghetto ed accenna per la prima volta ai gabbiani (di cui Paride
fa il verso). Nello sfogliare le fotografie, insieme ai fratelli, emerge
a partire dall’inedito qualche frase in dialetto: «Talè ccà!» (Paride,
a proposito della festa di carnevale); «Vincivi ’a coppa. T’u ricordi
Paride?» (Toruccio); «Se, ’u coppulone! [...] Vincisti ’u coppulone!!!»
(ined. 2003, p. 5; ed. 2007, p. 89).
Quando la risata sfottente di Toruccio introduce la foto fatale –
«Ignazio vestito da femmina!! Con il vestitino rosa e il fiocchetto!»
(ed. 2003, p. 29, ined. 2005, p. 6 e ed. 2007, pp. 91-92) – si scatena
una discussione fra i maschi: «È Graziella!» (Paride), «È Ignazio!» (To-
ruccio), finché non esplode, a specchio, la contro-risata di Ignazio: «È
Toruccio!» che smorza violentemente ogni allegria, mettendo il dito
nella piaga. Qui, mentre nella prima e nella seconda versione Paride
reagisce parzialmente in dialetto («Mezz’ora pi sparari sta minchiata»,
p. 29; «E tu ci metti mezz’ora pi sparari ’sta minchiata», p. 7), nell’ulti-
ma traduce «e dopo mezz’ora spari questa stratosferica minchiata» (ed.
2007, p. 93), colpendo in palermitano piuttosto la sorella («’unn’u sai
134 Anna Barsotti

che tò soru è menza scimunita?», ibid.)46. Intanto Toruccio si inalbera


sempre di più; la tirata offesa del giovane è quasi tutta in dialetto nel
primo testo edito:

Picchì su un sugnu addiventato surdu [...], haia a fari un ragiunamentu! Quin-


di, se ancora l’otite perforante un mi vinni, e un mi vinni picchì ci sentu
buonu, e se u morbo i parkinson un mi fa tremari picchì sugnu fermu comu
na fogghia in autunno, mi pare di avere sentito ca iddu mi rissi ca sugnu fermu
comu na i fimmina, ca ci haiu u vestitino rosa, u fiocchetto, e quindi a logica
vuole ca iddu mi dissi ca sugnu un finocchiu! (ed. 2003, p. 29);

mentre nell’inedito, oltre ad articolare diversamente il discorso, appare


nuovamente tradotta, conservando in palermitano, in modo espressi-
vo, l’ultima battuta rivolta direttamente a Ignazio («chi mi dicisti?»),
come del resto con leggere varianti nell’edizione del 2007: «mi dicisti
chi ci haiu ’u vestitino rosa, ’u fiocchetto e chi sugno vistùtu ’i fim-
mina. Quindi a logica vuole ca mi dicisti ca sugnu un ’finocchiu’» (p.
96), dove scompare però l’allocuzione in forma fatica.
Segue il gioco della fotografia che Ignazio finge di porgere a Toruc-
cio, sottraendogliela, governato da Paride che dapprima lo asseconda,
per alleggerire la tensione, con una sola battuta, e una frase, in dialetto
a partire dall’inedito: «Amunì, ’gnazianeddu, dacci sta fotografia, va
si no si metti a chiànciri», «[...] Toruccio! Amunì, rilassati! ’Un ci
pinzari» (ed. 2007, p. 98). Ma quando Ignazio («schioccando la lingua»)
colpisce il fratello con la battuta-filastrocca riecheggiata incosciente-
mente da Nina («Toruccio facciamo cavalluccio!») lo stesso Paride
con «un violento scappellotto [...] gli fa volare la coppola: “Pìgghiati ’a
coppola”» (ibid., p. 99). L’ordine in palermitano del maggiore che fa le
veci del padre (anche fonicamente nella successiva scena onirica) ac-
comuna le tre versioni, sebbene la scena appaia ampliata nell’inedita e
nell’ultima, come spesso avviene, attraverso ripetizioni o integrazioni
di battute fra i personaggi.
Dal «momento di grande sospensione» (sottolineato solo nell’inedito)
emerge in un «tessuto sonoro di voci e rumori» la scena che svela il pri-
mo segreto della famiglia ‘Cuore’ (ined. 2003, p. 10; ed. 2007, p. 100).
Toruccio è in proscenio, da solo. Paride e Ignazio ballano insieme (sul-
la destra, nello spettacolo). «Nina si siede» (sulla sinistra) e secondo
la didascalia (già presente nella versione inedita) «dopo aver cacciato

  Battuta che manca sia nella prima edizione che nell’inedito.


46
135 Donna di scena, donna di libro. La lingua teatrale di Emma Dante

fuori una tetta allatta il figlio non ancora nato» (ibid.). Nello spettacolo,
in realtà, Nina sullo sfondo solleva sulle cosce la gonna da sposa rit-
mando un processo-rito mastubatorio.
È anche il primo avvenimento del testo, che converte l’azione in
incubo memoriale, in flash-back stilizzato ma, ciononostante, di forte
impatto emotivo, trasformando il seguito della storia in una successio-
ne di violenze. Se la prima parte dello spettacolo ha un andamento rit-
mico a strappi, per i ripetuti tentativi d’abbandono dei tre uomini che
ogni volta (con meccanismo comico da diavolo a molla) Nina richia-
ma indietro o trattiene, lamentandosi come una bambina grottesca, il
ritmo ed il gusto della performance plurale di quei tre, che compiono
salti e buffonerie quasi circensi, cambia in seguito all’evento che viola
il tabù d’una mascolinità sicula, infranta (nel corpo e nell’anima) da
un torbido e violento incesto padre-figlio.
E nella sequenza di brevi e rapidissime battute pronunciata alterna-
tivamente dai tre maschi e dalla sorella si intrecciano lingua con poco
dialetto, come in una giaculatoria (comprensiva d’un atto di dolore
recitato in italiano) che culmina nella delirante sintesi, eppure lirica,
della vittima dello stupro. Qui si osserva un fenomeno misto rispetto
a quello generalmente individuato: più breve nella prima versione, e
perlopiù in lingua, il monologo plurivocale di Toruccio s’amplia nel-
l’inedito e nell’ultima stampa (che si corrispondono) per l’inserimento
di battute in italiano ma anche in dialetto: «“U vidi appena ’un ti levi
’vizio ’i chiànciri?”»; «“Beddu beddu beddu si’!”» (ed. 2007, p. 103),
virgolettate perché echi della voce paterna. Nello spettacolo Sabino
Civilleri simula con un movimento a scatti un atroce galoppo, perché
contiene mostruosamente gioco infantile e suo sfruttamento da parte
del padre-padrone.
L’incubo s’interrompe nelle tre versioni all’urlo di Toruccio («Paride
dopo tocca a te!»), ritornando di colpo l’azione alla scena preceden-
te: con la ripetizione dello scappellotto e della battuta del maggiore
(«Pigghiati ’a coppola!»). E s’accende sempre più la lite violenta fra i
minori che, a partire dall’inedito, si amplia con nuove battute anche
in dialetto, quelle particolarmente forti e oscene:

Ignazio: ’U capisti, ’infame chi [ca] ’un si’ avutru? Se ’un ti cuci ’a vucca, ti
fazzu addiventare l’orifizio d’u culu quantu n’a casa [cascia] e ’u fiatu t’u fazzu
nèsciri direttamente d’u stessu posto unni ti passa [nèsci] ’a merda... [...] Ti
scripèntu!
Toruccio: ’U sai, ’gnazianeddu, chi m’a puoi sucare! Niente miscatu cu nud-
du, sii [si’]! ’Un t’u dimenticare: «Suca! Suca! Suca!».
136 Anna Barsotti

Ignazio: ’Un ti bastava faritìlla sucare da papà, eh? [...] Picchì ’unn’è ’a veri-
tà, Paride? ’Unn’a sanno [sapèmu] tutti ’a verità? (ined. 2005, p. 14; ed. 2007,
pp. 105-106).

La lite sembra precipitare nelle ultime due battute scambiate dai fra-
telli minori, sostanzialmente in dialetto in tutte e tre le versioni (Ignazio:
«Dissi ’ca si’ un finocchio!»; Toruccio: «Chi mi dicisti?», ibid., p. 106)47;
ma Paride distrae l’attenzione per rivolgerla a Nina e colpirla, dopo aver
buttato a terra le foto dello scandalo. Anche questa scena, nella prima
edizione affidata alla didascalia48, s’amplia progressivamente dall’inedito
all’ultima edizione, dove appare articolata per momenti successivi. Nel
testo del 2005, inizialmente, è solo Paride a ritenere Nina «responsabile
dell’accaduto» e minaccia di colpirla proprio perché «se lei non avesse
portato con sé le foto facendo riaffiorare gli inquietanti ricordi d’infanzia, tutto
sarebbe andato liscio come l’olio», come recita la didascalia esplicita nella
versione inedita (p. 15). Poi immobilizza i due fratelli «acchiappandoli
dalla nuca come fanno i gatti con i cuccioli» e li costringe a cercare con
lui quella «buttana di fotografia» per dimostrare la propria «ragione»;
ma non la trovano e quindi «dopo una breve pausa» si accaniscono sulla
sorella. Nell’ultima edizione di ogni momento si scrivono le battute, sia
in italiano, sia in dialetto come quella rivolta da Paride a Nina:

Vidìsti chi cazzo combinasti? I tò frati si stanno scannando pi colpa tua... se


’un purtavi sti cazzo di fotografie, tutto andava liscio come l’olio... disgraziata!
(ed. 2007, p. 107),

che manca nell’inedito, riassorbita dalla didascalia; o quelle che i fra-


telli si scambiano nella ricerca affannosa della foto incriminata:

Toruccio: ’Un s’attrova cchiù, fissa d’a Madonna!!!


Paride: [...] ’Unn’è? ’Unni finìu?
Ignazio: ’Ava a essere ccà!
Paride: [...] ’Ccà ’i fici vulari ’i fotografie, unni cazzo sunnu? (ibid., p. 108)

47
  «IGNAZIO: Dissi ca si un finocchio; TORUCCIO: Chi mi dicisti?» (ed. 2003,
p. 31); «IGNAZIO: Ti dissi ’ca sii un finocchio» (ined. 2005, p. 15).
48
  «Paride va verso Nina e scaraventa a terra le foto. Nasce un violentissimo litigio fra i
tre. Nina, nel frattempo, riprende le foto e si nasconde dietro la sedia. I tre si fermano per
chiarire la questione della foto, ma non la trovano. Lo sguardo in cagnesco ricade su Nina. I
tre si avvicinano a Nina» (ed. 2003, p. 31).
137 Donna di scena, donna di libro. La lingua teatrale di Emma Dante

Nell’inedito questo scambio, invece, c’è; praticamente uguale, se non


per l’ultima battuta, che varia soltanto nell’imprecazione: «[...] buttana
d’a buttana d’i so matri!» (ined. 2005, p. 15). Da notare, nella stampa,
che le inserzioni in italiano alternano, nelle battute di Paride come in
alcune precedenti di Toruccio, il parlato ad un linguaggio sussiegoso,
che fonde boria e gravità (Paride: «Ci vogliamo ammazzare come cani
per questa minchiata o vogliamo portare a termine il nostro nobilissi-
mo piano?»», ed. 2007, p.107; Toruccio: «Grazie. Ignazio! Tu sei già al
prologo e io manco ti ho fatto la premessa? Rilassati! Prima parlo io e
poi quando finisco tu chiudi con un bel posludio, eh?», ibid., p. 95).
D’altra parte nell’inedito e nell’edizione Fazi s’avvia da questo pun-
to la scena persecutoria di Paride, spalleggiato dagli altri due, che ne
condividono l’azione colpevolizzante («È sua la colpa») nei confronti
dell’unica femmina, interrogandola prima allo scopo di inchiodarla:
«Nina, chi è questa?»; Nina: «[...] Ignazio?»; Paride: «Come Ignazio!
[...] Ci stavo scricchiando i ’tiesti a tutt’e e due e tu mi dici ca è Igna-
zio?» (ined. 2005, p. 31; ed. 2007, p. 109). Ottenuta la risposta che
vuole («Graziella!»), costringe Nina, carponi, a raccogliere le foto
(che s’animano nelle persone: «Talè è caduta Graziella!», in tutte e
tre le versioni) buttate per terra ad una ad una, mentre «i tre bastardi
si eccitano nel tormentarla» (ined. 2005, p. 17). Anche questa scena
s’allunga e s’articola nel passaggio dalla prima edizione (dove si tratta,
sostanzialmente, d’una tirata in lingua di Paride) all’inedito e poi al-
l’ultima edizione, implicando maggiormente gli altri due fratelli, con
battute macchiate di dialetto:

Ignazio: Accusì si stanca, Paride!


Toruccio: (Con ostentata preoccupazione) ’A stai facennu stancare, Paride!
Paride: E tu ci ’a stari ’o lato ’a tò soru! [...]49 (ed. 2007, p. 112).

D’altra parte l’ampliamento della scena, che prevede il trascinarsi


per terra, a quattro zampe – come una cagna – di Nina, comprende
molte altre battute in italiano, fintamente affettuose di Paride (che
dirige) e degli altri (che gli danno corda o gli fanno eco) finché il Leit-
motiv incipitario del volo dei gabbiani si trasforma nello stormo delle
foto gettate per aria. Di conseguenza l’azione culmina e precipita nel
calcio in pancia del fratello giustiziere («Allarga le braccia?», ined.

49
  Nell’inedito variano soltanto le didascalie: la battuta di Ignazio è contrassegnata
da un «Preoccupato» e quella di Toruccio da un «Con finto sussiego».
138 Anna Barsotti

2005, p. 20; «Apri le braccia?», ed. 2007, p. 115) e nell’accettazione


dolorosa della punizione inflitta da parte della vittima in-colpevole:
«Paride, riportale a casa!», le foto.
Nella scena successiva, a partire dall’inedito si sviluppa in battute
il tentativo d’allontanamento di Paride, «fintamente mortificato» (sta-
volta nella versione del 2005 come nella stampa del 2003) per essersi
accorto della presenza degli invitati in sala: e l’edizione 2007 appare
più benevola nei confronti del personaggio, che «è pieno di vergogna per
tutti quei panni sporchi sbandierati al vento» (p. 116), mentre la didascalia
introduce e indugia a descrivere lo scambio delle pellicce tra i fratelli,
che manca invece nella prima edizione. Ma l’azione determinante è
rappresentata dalle contorsioni di Nina, la cui pancia, d’improvviso,
reagisce autonomamente come oggetto animato, palla calciata che as-
sume una vita frenetica e misteriosa, come in una partita o un ballo
da indemoniata.
È una scena, anche questa, che affidandosi essenzialmente al codice
gestuale e prossemico dell’attrice protagonista, nella prima versione
appare più sintetica nella successione delle battute, brevi, tronche ed
esclamative (tutte in italiano), allungandosi nell’inedito e ancor più
nell’ultima edizione per lo sviluppo dialogico d’una breve didascalia,
«danza delle pellicce» compresa, «che volano come gabbiani» dando
luogo ad una «giostra festosa» (ed. 2003, p. 32).
In un primo momento i tre maschi reagiscono con terrore alla mi-
naccia rappresentata da quel ballo di San Vito, poi il maggiore cerca
– come suo solito – di impugnare la situazione facendo togliere alla
sorella la fascia che le stringe la pancia (breve pausa di stasi e di sol-
lievo), e quando il «terremoto» si riscatena dentro di lei sembra quasi
aiutarla nella respirazione, spingendo gli altri a fare altrettanto; ma lo
scopo è impedire quel parto, la nascita intempestiva del «bastardo».
La differenza fra l’inedito e l’ultima stampa consiste nell’aggiunta di
alcune battute, perlopiù in lingua, che coinvolgono maggiormente i
fratelli minori (Ignazio: «Paride, ma che minchia stai facendo?»; Pari-
de: «Respira, Ignazio! Uno e due, uno e due...»; Paride: «Toruccio, dic-
ci qualche cosa, falla distrarre!», ed. 2007, p. 118)50 o che intrecciano

50
  Anche quando Paride usa la pelliccia per coprire Nina dalla cintola in giù, e
invita gli altri ad imitarlo, si aggiungono delle battute tutto sommato riempitive: «To-
ruccio: Sì, io la copro, cazzo, ma se nasce che minchia ce ne facciamo?; Paride: Non
lo so, non lo so...; Ignazio: È troppo tardi! Prima ce ne dovevamo andare... tutta
colpa di quella buttana di Graziella!; Paride: Nina, non lo fare! Non lo fare!» (ed.
2007, p. 121).
139 Donna di scena, donna di libro. La lingua teatrale di Emma Dante

false dichiarazioni d’affetto alle minacce di Paride («Nooo! Ho detto


no! E quando Paride dice una cosa la dice per il tuo bene...»; Nina:
«Mi sento morire!», ibid., p. 119). Anche lo scambio dialogico fra il
maschio maggiore e l’infelice partoriente s’amplia con interpolazioni
all’interno delle battute di ciascuno dei due che, da un lato, accresco-
no il pathos della preghiera dell’una («Nooo! Paride! Aspetta. Non te
ne andare. Non ora, ti prego. Sto male. Un minuto ancora. Parideee!
Aiutami, per l’amor di Dio!»)51, dall’altro incrementano gli insulti del
fratello:

Paride: Vedi di finirla, Nina! Ci Paride. Infame che non sei


stanno guardando tutti. Se non la altro! Smettila, buttana! Ci stanno
smetti, Paride se ne va, hai capito? guardando tutti. Se non la smetti,
Paride se ne va, hai capito? Ti lascio
morire come un cane!
Ined. 2005, p. 23 Ed. 2007, p. 120

Qualche minima variante lessicale segue un criterio di normalizza-


zione: la riduzione d’un numero iperbolico di feti nell’unica battuta in
dialetto (Toruccio: «Ma quanti ci nn’avi dintra, Paride? Quaranta?»,
ined. 2005, p. 22; «Ma quanti ci nn’avi dintra, Paride? Sedici?», ed.
2007, p. 118), le «gambe» divenute più propriamente «cosce», che
devono restare «chiuse» nella battuta icastica di Paride, il «topo» che
diventa «scimmia» nell’insulto alla sorella per coerenza con una tra-
sformazione precedente; ma infine (più significativo) «’stu picciriddu»
che si trasforma direttamente in «bastardo» (ibid., p. 120).
D’altra parte nell’inedito e nell’ultima stampa si sviluppa anche il
gioco delle pellicce scambiate, come equivoco comico (già presen-
te nello scambio dei pasticcini e dei posti di mPalermu) che allenta
la tensione nel contrasto, stavolta in dialetto, tra i fratelli, capaci di
sfruttare l’occasione perché il gioco delle pellicce «chi volano! [...] ci
piace ’a picciridda, talè» (ed. 2007, pp. 121-123). In questa fase non si
osservano varianti di rilievo tra la versione intermedia e l’ultima, tran-
ne un raro caso di conversione d’una frase dal dialetto («Io ci l’haio,
Paride») alla lingua («Ce l’ho io, Paride», ibid., p. 122).
Ma lo stesso gioco si muta in stimolo d’eccitazione erotica per i ma-
schi preludendo a quella scena che nella didascalia della prima edizio-
ne è soltanto accennata (la «scena di dolore si trasformerà in una giostra
festosa, in cui dalla danza delle pellicce che volano come gabbiani, Nina,
indossandone una, da sposa si trasformerà in puttana», ed. 2003, p. 32) e

  Le aggiunte qui e sotto sono segnalate in neretto.


51
140 Anna Barsotti

che nell’azione, ma anche nelle battute, dall’inedito all’ultima edizio-


ne diventa un’orgia: tra pellicce e piume d’uccello che usciranno dal
«pancione martoriato».
Ancora una volta nel passaggio dall’intermedio alla stampa si ag-
giungono battute (Paride: «Bedda bedda bedda si’!», ed. 2007, p. 125),
alcune delle quali riecheggiano la sequenza onirica dello stupro a To-
ruccio:

Ignazio: Vieni qua! Vieni qua!


Toruccio: Dammi le mani che te le riscaldo
Ignazio: Cammina ballerina!
Toruccio: Eh, puttanella! (ibid., p. 124)

Nello spettacolo si assiste ad un crescendo turbinoso di movimenti e


di metamorfosi: mentre l’attrice volta le spalle al pubblico esplodono
piume da quel baricentro marchiato, che svolazzano invadendo tutto
lo spazio scenico e pure la sala. Non solo, ma la colomba profanata
racconta la propria profanazione all’origine di quel male oscuro che
i «masculi» vogliono esorcizzare con l’abbandono. Gli abiti nel tea-
tro di Emma Dante assumono sempre un carattere metamorfico – in
principio c’è ancora Pirandello – e Nina indossa il cappotto peloso del
fratello maggiore, si arrossa sbavando le labbra, in un ballo scomposto
e pietoso. Il contrasto fra l’immagine della prostituta e l’ingenuità di
fondo della ragazza rappresenta una visione potente, che sconvolge
per la capacità dell’attrice di contaminare i due registri.
È interessante il fatto che la seconda, e fondamentale, rivelazione
avvenga in italiano, in un clima onirico creato dal silenzio che segue
al trambusto (e all’urlo di Nina), per cui la puttana ridiventa vergine e
madre, oltre che amante dei fratelli, che tiene «avvinghiati a sé i suoi tre
cani» (così nell’edizione del 2007, ma forse è più inquietante e pregno di
senso scenico il dettato della didascalia inedita, per quanto ridondante
dal punto di vista letterario: «accucciati a sé i suoi tre cuccioli», p. 23).
L’incipit è lo stesso, stavolta, nella prima stampa e nell’inedito:

Questo bambino è santo! Una notte ho fatto un sogno. Ho sognato delle


grandi ali dorate e quando Paride mi ha svegliato ero tutta bagnata. (Pausa)
Io e Paride dormiamo nello stesso letto, nel letto matrimoniale, quello dei
miei genitori. Ogni tanto pure Ignazio e Toruccio ci vengono a trovare. Dor-
miamo tutti insieme (ed. 2003, p. 32; ined. 2005, p. 25)52.

  L’unica differenza riguarda i segni d’interpunzione dell’ultima frase citata: «ci


52
141 Donna di scena, donna di libro. La lingua teatrale di Emma Dante

Ma l’attacco di Nina, rivolto agli invitati in sala, è senza dubbio


più efficace (corrispondendo allo spettacolo) che nell’ultima edizio-
ne, dov’è preceduto da un’altra strofa, esplicativa ma tutto sommato
dispersiva nei confronti dell’effetto straniante e lirico, appunto, che la
scena deve creare:

Questo bambino è buono! È già la terza volta che vuole uscire. Ma io lo trat-
tengo e lui va a dormire. «Non è ora», gli dico! «Non è ora! Zio Paride dice
che dobbiamo aspettare» (ed. 2007, p. 124).

Per il resto, nel passaggio dalla prima edizione all’inedito e poi al-
l’ultima stampa, ancora una volta il monologo candido e crudo della
protagonista (più crudo nella stampa iniziale, da cui è espunta la frase
«so usare la bocca, faccio i cerchi con la lingua», p. 32) si articola
includendo i movimenti e gli atteggiamenti dei fratelli, finché la stan-
chezza non fa crollare Nina sulla sedia-trono e la sua salma non viene
ricomposta con velo e fiori.
Il monologo s’allunga, per esempio, sviluppando in parole l’azio-
ne indicata soltanto dalla didascalia nella prima stampa, dove Nina
«prende le pellicce da terra e sprimacciandole le ridà ai fratelli aiutandoli a
rivestirisi» (p. 32); nel copione e nell’ultima stampa Nina dice: «Paride,
rivestiti, che si è fatto tardi! Avanti, Ignazio, mettiti la coppola, se non
ti si ghiaccia la testa. Toruccio, aggiustati la camicia [...] stamattina te
l’ho stirata» (ined. 2005, p. 26; ed. 2007, p. 126), anche se le battute
sono più brevi nello spettacolo. E nell’ultima edizione il monologo
comprende interpolazioni anche rispetto all’inedito, ora nelle parti di-
rette ai fratelli ora in quelle rivolte al pubblico, secondo una scansione
che solo questo testo prevede mediante appunto le aggiunte: quando
parla della casa che avrà, senza chiavi alle finestre e con le porte sem-
pre aperte (come quelle che avrebbero voluto spalancare i famigliari
di mPalermu), Nina continua: «A Natale e a Pasqua, io, mio marito e
il bambino vi veniamo a trovare. Mio marito la conosce la strada per
tornare al paese, vero Paride?», implicando la conferma del fratello
(«La sa a memoria»); così come addiziona le battute che palesano il
tema d’una preoccupazione e d’una premura quasi materne («Come
farete senza di me? Meschineddi! [...]») delineando la psicologia di un
personaggio ansiosamente proteso ad esaltare la necessità della propria
presenza per la paura dell’abbandono. Di qui la virata nei confronti

vengono a trovare e dormiamo tutti insieme» (ed. 2003, p. 32); «ci vengono a trovare.
Dormiamo tutti insieme» (ined. 2005, p. 25).
142 Anna Barsotti

dei suoi invitati nella battuta, anch’essa, aggiunta: «Ma chi si misero
in testa sti tre scansafatiche? Io grande sono. Se aspetto ancora, addi-
vento zitella» (ed. 2007, pp. 126-127). Ne emerge il motivo principale
– comune alle tre versioni – che incomincia con «Io so fare tutto [...]»
e termina con «Faccio tutto a comando» (ibid., p. 127); con il posludio
che accompagna il riallaccio della fascia – fatto fare da Toruccio – alle
parole: «Questa fascia ce l’ha data il prete. Perché questo bambino è
santo [...]», in tal modo creando con l’attacco della prima versione e
dell’intermedia un anello perfetto.
L’impressione è che l’attrice-autrice (anche se non interprete di
persona) nel diventare donna di libro abbia ceduto alla tentazione
di chiarire il personaggio, anche a livello, appunto, psicologico; lad-
dove nella prima versione a stampa (paradossalmente più simile ad
un canovaccio) e nel copione (l’inedito) la figura di Nina s’imprime
piuttosto attraverso folgorazioni successive: la premura affettuosa per
i suoi tre uomini nell’azione del loro rivestimento (con le poche pa-
role che l’accompagnano); il sogno d’una casa tutta porte e finestre
aperte e d’una quotidianità domestica priva di misteri inquietanti; la
rivendicazione d’una propria utilità, magari banalmente femminile ma
feconda, che (dopo la battuta sulla fascia) declina nell’in-coscienza
dell’automa («Faccio tutto a comando»). Il tutto – persino l’incesto
con i fratelli («Una notte ho fatto un sogno: ho sognato delle grandi
ali dorate [...]») – sacralizzato da una demenza che non può dirsi sol-
tanto tale, perché è quella dei piccoli-grandi visionari che rovesciano
le più meschine o atroci realtà.
Lo stesso processo d’ampliamento un po’ ridondante53 si riscontra
nell’ultimo quadro: come tornando all’immagine iniziale, ma restando
fissata al velo con cui s’impiccherà «da terra verso il cielo», la vergine
incinta – senza sapere di quale spirito – è via via abbandonata, unica
icona sulla scena. L’efficacia straordinaria di questo finale risiede an-
che nella sua rallentata brevità, nel silenzio cioè che scandisce ogni
patetica voglia di Nina (fragole, panna, carezza) e, di conseguenza,
ogni allontanamento, attraverso la sala, dei fratelli; l’aggiunta di bat-
tute nell’ultima edizione disturba questo silenzio − che contagia nello
spettacolo il pubblico − persino nel delirio dell’abbandonata, dopo
che Paride ha inchiodato il velo al palcoscenico:

53
  Emma Dante conferma: «Anche Carnezzeria, che è in italiano, ha comunque in
sé il dialetto. Ora ho riscritto il testo di Carnezzeria, in vista della pubblicazione ed è
leggermente cambiato [...]» (Dante, La strada scomoda del teatro cit., p. 67).
143 Donna di scena, donna di libro. La lingua teatrale di Emma Dante

Mio marito è bello, perché I miei fratelli me l’hanno (Agli invitati) I miei fratelli
pure l’occhio vuole la sua parte, combinato questo matrimonio. me l’hanno combinato questo
non si dice così? I miei fratelli Loro ci pensano a me, vero! matrimonio. Loro ci pensano a
me l’hanno combinato questo Mio marito è bello, perché pure me, vero! Che farei io senza di
matrimonio, loro ci pensano l’occhio vuole la sua parte, non loro, eh?
a me, vero! Questo bambino si dice così, Ignazio? (A Paride) Mio marito è bello,
è santo. Mio marito è santo. PAUSA perché pure l’occhio vuole
Glielo ha detto a Paride! I Paride la guarda, sorpreso. la sua parte, non si dice così,
miei fratelli mi rispettano, per Questo bambino è santo. Mio Ignazio?
questo me li sono portati. Mii marito è santo. Glielo ha detto Pausa
quanti gabbiani! Sono tutti a Paride! Parla coi suoi fratelli come se li
morti... (Paride comincia ad I miei fratelli mi rispettano, per avesse ancora tutti accanto.
avviarsi verso l’uscita) Sii tu questo me li sono portati. Questo bambino è santo. Mio
Toruccio! È Graziella! Mii che Mii quanti gabbiani! marito è santo. Glielo ha detto
era tinta! Ma dove le hai prese Sono tutti morti. a Paride!
queste fotografie, Nina, erano Paride comincia ad avviarsi verso Toruccio è bravo, è già la terza
secoli che non le vedevamo! l’uscita. volta che vuole uscire.
Paride! Riportale a casa! Sii tu Toruccio! I miei fratelli mi rispettano, per
È Graziella! Mii che era tinta! questo me li sono portati.
Ma dove le hai prese queste Mii... quanti gabbiani!
fotografie, Nina, erano secoli Sono tutti morti.
che non le vedevamo! Paride, Paride, mani in tasca e sguardo
riportale a casa! basso, si avvia verso l’uscita.
Si’ tu Toruccio! He he he! Io
lo trattengo e lui va a dormire.
È Graziella! Mii... che era
tinta! Appena prendevi la
fascia nera dalla credenza:
Ppem! Ti faceva saltare la
pancia... Si muove, papà! Si
muove, papuzzo! Mio Dio mi
pento e mi dolgo con tutto il
cuore dei miei peccati, perché
peccando...
Ma dove le hai prese queste
fotografie, Nina, erano secoli
che non le vedevamo!
(Urlando) Paride!
(Paride si ferma) Riportale a
casa!
Ed. 2003, p. 33 Ined. 2005, p. 28 Ed. 2007, pp. 130-131
Rimasta sola, spaesata, illuminata, la pupa senza risvegliarsi comple-

tamente – la stupefazione continua fino in fondo a connotare, nello


spettacolo, il personaggio – sale sulla sedia e s’impicca, al solito senza
imitare il gesto, ché è soltanto la testa (sulla cui sommità è stato ri-
fissato con uno spillone il velo) ad inclinarsi dall’alto verso il basso.
Ultima immagine sacrificale d’invertita potenza.
Nel complesso, dal punto di vista del linguaggio verbale scritto, il
dialetto spunta fuori – a partire dall’introduzione in scena delle foto-
grafie – negli scambi famigliari di battute, nei litigi tra i fratelli, nelle
loro accuse e contro-accuse più oscene. Nel resto un italiano regionale,
144 Anna Barsotti

siciliano nei costrutti delle frasi ma trasparente nelle scene rivelatrici,


forti e patetiche insieme. Il gioco nel duplice senso di divertimento e
di azione sadica vuole il dialetto, il disvelamento della verità, in que-
st’opera traumatica (come detto all’inizio), vuole la lingua: una lingua
sporcata di dialetto nell’incubo di Toruccio, a partire dall’inedito; par-
lata da una palermitana che la stilizza in strofe poeticamente brutali
nel delirio di Nina.

Ma non finisce qui...

Bisogna dunque considerare la lingua teatrale della Dante nel con-


testo e nel processo del suo metodo compositivo. L’autrice mette in
mano un’idea drammaturgica iniziale ai suoi attori e con essi la rie-
labora e la sviluppa, attraverso studi e laboratori, improvvisazioni in-
dividuali e collettive, finché non arriva alla scrittura scenica e alla
trascrizione sulla carta del copione. Ma, come conferma Gaetano Bru-
no, molti dei copioni consegnati alla Siae non corrispondono mai,
del tutto, agli spettacoli: si differenziano «non nella sostanza ma nei
contenuti lessicali che possono anche variare da una rappresentazione
all’altra»54.
Attraverso le prove, quei copioni continuano a subire modifiche
magari assorbendo cadenze, accenti, vocaboli e modi di dire degli at-
tori, che nello stesso nucleo stabile hanno provenienze diverse, ma
che possono essere anche reclutati per uno spettacolo particolare, ar-
ricchendo il patrimonio linguistico della compagnia55. Alcuni nodi
drammaturgici si sciolgono proprio durante le prove o addirittura si
individuano: l’«Haiu siti!» di Sabino Civilleri, più che del suo perso-
naggio (Giammarco), alla fine della piccola abbuffata di cinque pastic-
cini che prelude al miracolo dell’acqua56, o l’«Usciamo in italiano!»

54
  G. Bruno, Forza e verità in scena. Intervista a Gaetano Bruno, a cura di P. Bolo-
gna, in Palermo dentro cit., p. 167. «Al termine del lavoro di improvvisazione, quando
abbiamo nelle mani una struttura chiara, [Emma] scrive il testo – anche per la regi-
strazione alla Siae –, mentre noi continuiamo a lavorare su un canovaccio che deriva
dalle nostre improvvisazioni e dai suoi suggerimenti».
55
  Cfr. in proposito ancora Bottiroli, I felici pochi di Emma Dante. La grazia sco-
moda del teatro cit.
56
  «Nel primo studio di mPalermu» – racconta la Dante – «dopo la piccola abbuf-
fata, Sabino recitava il testo di una bellissima canzone dei fratelli Mancuso [ma] tutto
145 Donna di scena, donna di libro. La lingua teatrale di Emma Dante

di Zia Lucia nell’ultima parte di mPalermu57. E nell’ultimo caso, sigil-


lato dallo spettacolo, l’inserimento della battuta in lingua (e non solo
di quella) a partire dall’inedito assume un valore di senso specifico e
dirompente, che non corrisponde al fenomeno individuato dalla Ste-
fanelli nell’analisi di Maggio 43, per cui «l’italiano regionale usato da
Enia nel testo a stampa è più vicino al dialetto di quello recitato»58.
Nell’esempio della Dante non si tratta di favorire la «circuitazione
dello spettacolo» ma appunto uscire con lo spettacolo dall’impasse in
cui sono bloccati i suoi personaggi-persone.
L’ultimo passaggio dal copione alla stampa è quello, fino ad oggi,
meno volentieri affrontato dalla Dante. La donna di scena ha esitato
molto a diventare donna di libro: dopo aver pubblicato solo due te-
sti in rivista nel 2003, un altro, Cani di bancata, ancora in rivista nel
200759, solo alla fine di quest’anno ha dato alle stampe la Trilogia. Se
l’edizione del 2003 (come si è visto) appare meno «consuntiva»60 per
ambedue i testi rispetto agli inediti del 2005, quella del 2007 è così a
maggior ragione: non si tratta tanto di testi consuntivi quanto di un
libro, appunto, da cui emerge una certa letterarietà, nella confezione,
nella cornice. Ciò riguarda in particolare Carnezzeria, la sua esten-
sione tramite battute interpolate sia in italiano sia in dialetto, come

quello che accade durante la sua piccola abbuffata [...] è tremendo, spesso capita che
vomita in scena dopo essersi ingozzato [...] ho capito il suo desiderio. Era l’acqua la
sua poesia, la sete [...] Sabino dice con un filo di voce la battuta più significativa e più
necessaria di tutto lo spettacolo; la sintesi di Palermo: “Ho sete”» (Dante, Appunti
sulla ricerca di un metodo cit., p. 21).
57
  «Per esempio in mPalermu, alla fine dello spettacolo, la zi’ Lucia pronuncia il suo
tormentone, “niscemu niscemu”, e non escono mai i personaggi. Ad un certo punto
dice “usciamo” in italiano, quasi esasperata. Così ho pensato: “proviamo a dirlo in
italiano, vediamo se ce la facciamo”. L’italiano diventa così un’alternativa, la lingua
diversa che viene ascoltata perché strana alle orecchie dei personaggi» (Dante, Inter-
vista, a cura di C. Bellofiore, in Il teatro siciliano sperimentale cit.).
58
  Stefanelli, I linguaggi del teatro di narrazione cit., p. 348.
59
  Cani di bancata, in «Hystrio», XX, 1, 2007, pp. 102-107.
60
  Per la definizione di drammaturgia ‘consuntiva’ rimando a S. Ferrone, Non cala
il sipario. Lo stato del teatro, a cura di J. Jacobelli, Roma-Bari, Laterza 1992, pp. 97-102.
Ho usato molto il termine nei confronti di Eduardo, perciò rinvio alla mia Introduzio-
ne al volume della Cantata dei giorni pari (I) e ai volumi della Cantata dei giorni dispari
(I-II-III), dei quali ho curato la nuova edizione Einaudi, e che sono usciti rispettiva-
mente nel 1998 e nel 1995.
146 Anna Barsotti

nelle scene di violenza dei fratelli sulla sorella, quasi per supplire con
l’asprezza delle parole, delle ingiurie alla mancanza della visione – per
il lettore – di quella violenza. Si aggiunga la cura delle didascalie, qui
ampliate nella direzione del dettaglio psicologico ed interpretativo (da
parte della drammaturga). Anche se spunta – come ho detto all’ini-
zio – da queste didascalie in lingua qualche termine dialettale, a ricon-
fermare – a mio avviso – il piglio attoriale dell’autrice. Ripensiamo a
«’O vascio ’e donn’Amalia Jovine» in Napoli milionaria! di Eduardo
De Filippo: come una battuta dell’attore-autore che scappa fuori dal
testo scritto.

Anna Barsotti
Linguaggi e universi creativi
nel teatro di Giuseppe Manfridi

1. Il teatro contemporaneo italiano trova ancora notevoli difficoltà


ad uscire da una condizione di minorità nel campo delle lettere e della
cultura in generale. Sulle cause di tale sofferenza occorrerebbe riflette-
re a fondo. Qui mi limiterò ad alcune considerazioni di carattere gene-
rale. Innanzi tutto vorrei dedicare una riflessione al concetto di ‘emer-
gente’ riferito in particolare a chi scrive per il teatro. Capita spesso di
veder attribuita questa etichetta di comodo a scrittori cui proprio non
si addice. Prendiamo il caso di Giuseppe Manfridi. Si tratta di un com-
mediografo romano cinquantenne, ormai giunto alla piena maturità
artistica, la cui opera è certamente tra le più interessanti nel panorama
drammaturgico italiano contemporaneo. La sua copiosa produzione è
ora in via di pubblicazione presso l’editore BE@A di Roma. Per il mo-
mento è uscito solo il primo volume che contiene dieci commedie.
Sono previsti altri tre volumi nei prossimi anni. Diverse sue commedie
sono state tradotte in numerose lingue straniere e rappresentate in
teatri europei e americani. Manfridi ha vinto i più prestigiosi premi
nazionali dedicati ai testi teatrali. Ha conosciuto i palcoscenici di ogni
parte d’Italia. Ha insegnato drammaturgia per conto di varie istituzio-
ni pubbliche e private. Ma nonostante ciò Manfridi (e non solo lui)
vive nella penombra delle repubblica delle lettere, ancor oggi, spesso,
relegato nel ruolo scomodo di ‘emergente’. Viene da chiedersi quale
prova debba dare un commediografo per poter essere considerato fi-
nalmente ‘emerso’ a tutti gli effetti. Il vero problema è che il teatro
italiano contemporaneo vive nella completa indifferenza delle istitu-
zioni. Laddove in altri Paesi, per esempio in Francia, la diffusione e la
promozione della drammaturgia contemporanea è affidata ad un abile
lavoro di propaganda degli enti pubblici preposti, in Italia gli stabili
vivono generalmente alla giornata, puntando su cartelloni consolida-

  Cfr. G. Manfridi, Teatro dell’Anarchia. Opere complete, Roma, BE@A Entertain-




ment & Art 2004, I.


148 Claudio Giovanardi

ti, senza nulla rischiare e senza nulla investire in idee innovative. Per
di più la disattenzione e l’incuria si estendono ai nostrani mezzi di co-
municazione di massa: scomparso dalla televisione (o relegato in orari
impossibili), il teatro vive tempi grami anche sulle pagine dei giornali,
dal momento che lo spazio per le recensioni degli spettacoli teatrali si
è progressivamente rattrappito, sin quasi al dileguo.
Colgo questa occasione congressuale per mettere a fuoco una serie
di considerazioni che mi è venuto di fare nelle diverse occasioni in cui
mi è capitato di occuparmi del teatro di Giuseppe Manfridi. Tenterò
di ricomporre le tessere di un mosaico complessivamente attendibile
in cui le diverse ‘anime’ che compongono il teatro manfridiano hanno
modo di manifestarsi e di interagire. D’altra parte la natura intrinseca-
mente ‘anarchica’ del fare teatro del nostro autore giustifica un’inter-
pretazione critica meno compassata del solito.

2. Non so se è un merito, ma la definizione di ‘teatro dell’anarchia’


riferita alla produzione drammaturgica di Giuseppe Manfridi è davvero
tutta mia. Essa nasce dallo sconforto per la difficoltà di trovare un’eti-
chetta sufficientemente unitaria e rappresentativa di quel teatro così
intrinsecamente proteiforme. Non è la mole delle opere, che l’editore
Bernard ha deciso di pubblicare integralmente in quattro volumi, a
creare problemi. La storia della letteratura teatrale è infatti piena di
autori particolarmente fecondi. Il fatto è che le linee narrative dispie-
gate da Manfridi, le sequenze, gli intrecci, gli stili, la fenomenologia
dei personaggi, l’ambientazione, il tratteggio psicologico, gli usi lin-
guistici appaiono irrimediabilmente e ostinatamente riottosi ad una
reductio ad unum. Quando sembra di aver trovato un filo conduttore,
una griglia interpretativa, la lettura successiva fa rovinare il castello di
carte con un solo, perfido soffio.
Bisognerà dunque rinunciare in partenza a qualsivoglia tentativo di
sintesi complessiva, e rincorrere piuttosto la congerie di sensazioni,
di stimoli, di emozioni anche contrastanti che derivano dalla lettura.
Proprio questo intendo fare: discutere alcune suggestioni così come
mi vengono dall’ormai quasi trentennale frequentazione con l’autore,


  Si veda C. Giovanardi, Manfridi o il ‘teatro dell’anarchia’, in G. Manfridi, L.
Cenci, Palermo, Teatro Biondo Stabile 2001, pp. 8-12. Ma si veda ora anche Id., Lin-
gua e dialetto a teatro. Sondaggi otto-novecenteschi, Roma, Editori riuniti 2007, pp. 125-
139.
149 Linguaggi e universi creativi nel teatro di Giuseppe Manfridi

dalla confidenza col suo mondo espressivo, figurativo, letterario. Nel-


le righe che seguono non si cerchino schede, recensioni, approfondi-
menti critici di ogni singolo testo; ci si accontenti di qualche snodo
interpretativo, di qualche intuizione buona per le opere contenute in
questo primo volume, ma anche per quelle che saranno pubblicate
negli anni a venire. Cercherò di condurre la mia analisi seguendo un
percorso mentale articolato in nodi concettuali all’interno dei quali
collocare alcune delle caratteristiche più salienti del modo di intende-
re e di fare il teatro caro a Manfridi.

Teatro in abito da sera / Teatro in jeans. Con questa dicotomia intendo


dar conto della coesistenza nel teatro manfridiano di due linee tradi-
zionalmente contrapposte: una linea ‘alta’, tragica, in cui il linguaggio
raggiunge vette molto elevate di letterarietà e le tematiche spaziano
dalla rivisitazione dei miti classici alla tipica conflittualità borghese, e
una linea ‘bassa’, comica, dove volentieri trionfa il dialetto misto allo
slang giovanile e a spezzoni di trita colloquialità, e dove i protagonisti
non sono re né regine né eroi, ma semplici perdenti, gli ‘invisibili’
di un’ultraperiferia urbana. Questa duplice linea drammaturgica, a
mio avviso non facile da reperire in altri autori del teatro italiano ed
europeo, ha origine dalla vastissima cultura teatrale dell’autore, dalla
conoscenza dei classici di ogni epoca, dall’insaziabile voracità che lo
porta a ficcanasare ovunque vi sia odore di una scrittura per la scena.
E così i suoi testi nascono figli di tanti padri e tutte quelle letture co-
lano come un nobile precipitato nelle sue pagine. È come se Racine
e Molière, Sofocle e Aristofane, Pirandello e Dario Fo si strizzassero
l’occhiolino e provassero a indossare l’uno i panni dell’altro.

Linguaggi. Strettamente collegato al punto precedente è l’uso del


linguaggio, o meglio dei linguaggi. Manfridi si serve di una tavolozza
linguistica estremamente variegata e ricca di sfumature. A differenza
di molti autori contemporanei (da Ruccello a Moscato, da Scaldati a
Cappuccio, da Chiti a Scimone) egli non ‘investe’ nel plurilinguismo,
nella mescidanza dei codici, nella teratologia stilistica. La lingua non
è mai intesa come un grimaldello espressivo per provocare effetti di
aprosdóketon, cioè di spiazzamento rispetto alle attese del lettore/spet-
tatore. Eppure la pluralità di lingue attuate di volta in volta da Man-
fridi nel suo teatro è davvero sorprendente. Dalla scrittura in versi,
che ha l’unico illustre predecessore recente in Pasolini (ma in Pasolini
il verso ha una valenza eversiva ignota a Manfridi), fino al romane-
sco giovanilistico e semi-borgataro, passando attraverso raffinatissime
150 Claudio Giovanardi

tramature intellettuali, la scelta di un lessico rarefatto, oppure l’indul-


genza verso la frase trita della conversazione quotidiana, il vezzo, lo
stereotipo della lingua comune. Dall’antico al moderno, dal recupero
di vocaboli arcaici e desueti fino ai più avventurosi neologismi. Da una
scrittura in punta di penna, trattenuta, pudibonda, al più becero scate-
namento delle pulsioni disfemistiche, delle ingiurie, degli oltranzismi
e delle truculenze verbali. Ma tutto ciò, ripeto, senza mai indulgere in
una vena sperimentale, ma ogni volta col ‘candore’ di chi suona uno
strumento diverso come se fosse l’unico conosciuto.
E che strana musica suonano questi strumenti. Il Leopardi ‘napo-
letano’ di Giacomo, il prepotente, ad esempio, soggiogato dalla fisicità
estroversa di Antonio Ranieri fino al punto di riecheggiarne la sua
favella musicalissima che rintocca come un napoletano antiquato. E
quei Teppisti! che vanno incontro al loro destino di miserabili con la
iattanza e la potenza di un eloquio in versi: una lunga nenia di morte.
E i ragazzotti de La partitella, incapaci di staccarsi dal loro romanesco
trito e frantumato, poco più che uno slang di periferia, eppure così veri
nei loro patemi, nell’affanno di chi si affaccia al tavolo della vita.
E quel lirismo un po’ rarefatto della Riserva, un umile comprimario
del calcio assurto alla gloria per un terribile incidente, che gioca una
partita metafisica, scritta davvero per il cielo più che per la terra. E
quell’italiano algido, pulito, smerigliato che accompagna e sottolinea
le volute psicologiche dei personaggi come ad esempio in Corpo d’al-
tri e Ménage. E ancora quella lingua ansimante, sincopata, nevrotica,
ossessiva che esce dalla bocca che puzza d’alcool del protagonista di Ti
amo, Maria!. Tante note, tante tonalità, tante partiture.

Personaggi non tipi. Tanta eterogeneità di ispirazione, di ambientazio-


ne, di atmosfere e di linguaggi potrebbe far pensare che per Manfridi,
in fondo, la storia narrata, la vicenda drammaturgica rappresentino
un orpello quasi marginale, e che tutto si risolva in una ricerca vir-


  La commedia si può ora leggere in Manfridi, Teatro dell’Anarchia cit., pp. 127-
164.

  La commedia si può ora leggere in Manfridi, Teatro dell’Anarchia cit., pp. 7-55.

  La commedia è stata messa in scena nel 2002 nello stadio di San Siro con la regia
di Claudio Boccaccini.

  Rispettivamente in Manfridi, Teatro dell’Anarchia cit., pp. 309-339 e 259-286.

  Si veda il testo della commedia in Manfridi, Teatro dell’Anarchia cit., pp. 99-
126.
151 Linguaggi e universi creativi nel teatro di Giuseppe Manfridi

tuosistica di effetti teatrali. Nulla di più sbagliato. In realtà egli dimo-


stra sempre un profondo rispetto per i suoi personaggi, che mai e poi
mai acconsentirebbe a tramutare in tipi stilizzati, o peggio ancora, in
semplici portavoce della sua volontà espressiva. Intendo dire che, si
tratti di Leopardi o dell’oscuro signor nessuno di Ultrà, il personaggio
è trattato con la stessa assoluta dignità, con la stessa attenzione, con lo
stesso tratteggio psicologico. E così come i piagnistei e la sofferenza di
Giacomo vivono di vita vera sulla scena, così la violenza cieca e inar-
restabile del povero ultrà sembra sgorgare dai recessi più sordidi che
si nascondono in ogni palazzo di ogni realtà urbana degradata. Nelle
pagine e sulla scena nel teatro di Manfridi le lacrime sono lacrime
vere e il sangue è sangue vero, quello che scorre nelle vene di tutti. La
ricerca di una verità sganciata dalle apparenze, nel ricollegare inevita-
bilmente il teatro di Manfridi al modello pirandelliano, lo allontana
altrettanto inevitabilmente dall’ondata minimalista che caratterizza
tanta parte degli autori contemporanei. Se c’è un pensiero estraneo
alle coordinate di Manfridi è il cosiddetto pensiero debole: non a caso
uno dei suoi eroi è il filosofo austriaco Wittgenstein e uno dei suoi au-
tori preferiti è Elias Canetti, tra i più grandi architetti della letteratura
e della filosofia del Novecento.

La psiche in guerra. Quante battaglie tra psicologie forti e fragili si


inseguono nelle pieghe di tante pagine delle commedie di Manfridi.
Un esempio illuminante è rappresentato da uno degli ultimi ‘parti’
dell’autore, Ménage, che potremmo definire un duello di psicologie
tra una lei trionfante e un lui soccombente: sulla scena non succede
sostanzialmente niente, tutto è legato allo sfinimento concettuale nel
quale si arrovella la coppia; nell’alambicco dei loro cervelli si inse-
guono tracce di senso all’insegna della sinestesia, ossia della contrad-
dizione sensoriale e concettuale. L’atmosfera claustrofobica di tanto
teatro manfridiano rappresenta il brodo di coltura per il meccanismo
psicologico fondamentale che regola la vita dei personaggi e i rapporti
che intercorrono fra loro: il plagio. Se non fosse un po’ viziato dalla
vulgata psicoanalitica, direi che il concetto di psicodramma si attaglia
molto bene al progetto scrittorio di Manfridi. Spesso, anche in presen-


  La commedia Ultrà è pubblicata in G. Manfridi, Teppisti! – Ultrà, Milano, Ri-
cordi 1996, pp. 69-82.

  Questi due personaggi figurano in una recente opera narrativa di G. Manfridi,
Cronache dal paesaggio, Roma, Gremese 2006.
152 Claudio Giovanardi

za di un’azione scenica, di una storia che si dipana, il rapporto che lega


un personaggio all’altro è tutto di testa. Ecco allora che, sostenuto da
un implacabile metronomo virtuale, il ritmo del dialogo simula una
partita a scacchi tra due interlocutori, di cui non si fatica a capire i
rispettivi ruoli di carnefice e di vittima. Vorrei ricordare, fra le tan-
te possibili citazioni, le tiranniche attenzioni di Antonio Ranieri per
un Giacomo Leopardi ormai allo stremo e l’inquietante soggezione di
Paolina Leopardi nei confronti della madre (assente in scena) nella
commedia Giacomo, il prepotente: in quei tre atti le personalità, sia pure
potenti come quella del poeta, si flettono come ramoscelli al soffio dei
venti ostili rappresentati dalla malattia, dal disagio, dalla sudditanza
psicologica. Credo sia difficile trovare in altri autori un’anatomia così
dettagliata del rapporto di plagio e di sopraffazione quale è pennellata
nella produzione manfridiana. Il rimpallo sfibrante delle battute, la
causidicità dei ragionamenti, le tiritere argomentative sono perfetta-
mente congeniali al progetto complessivo di questo teatro, per lo più
allergico al verosimile, perché, come chiunque di noi può facilmente
constatare, il vero assume troppo spesso i contorni dell’inverosimile.

La metamorfosi. Prodotto ineluttabile del plagio, oppure meccani-


smo drammaturgico autonomo, la metamorfosi rappresenta un aspetto
essenziale del modello espressivo manfridiano. Chiamo ‘metamorfosi’
l’imprevedibile svolgimento della vicenda, tale da ribaltare le carte in
tavola e da dipingere un quadro finale lontano, se non opposto rispet-
to a quello di partenza. Tengo distinta questa idea da quella di ‘colpo
di scena’, perché quest’ultimo è calato come una scure alla fine di una
storia senza che nulla ne desse sentore in precedenza. La metamorfo-
si ha i ritmi implacabili della goccia di una flebo. Novello Pollicino,
il drammaturgo dissemina il percorso del suo testo di tanti sassolini,
minuzie, particolari apparentemente futili. E invece, a un certo pun-
to, la storia assume un’accelerazione improvvisa e quelle spie appa-
rentemente indifferenti diventano le architravi dell’ineluttuabile, le
architravi della metamorfosi. Ma possiamo scoprirlo solo facendo il
percorso all’indietro, proprio come fece Pollicino, sperando che nes-
suno abbia nel frattempo sparigliato le carte. Voglio citare tre esem-
pi palmari di ciò che intendo. Prendiamo Ultrà. In un percorso tutto
sommato breve, circa venti minuti di recitazione, un innocuo tifoso,
nel corso di una telefonata ad una televisione privata, in un crescendo
impressionante di violenza verbale, si trasforma in un assassino. Il pro-
cesso di metamorfosi si attiva lungo il filo di una telefonata che all’ini-
zio ha toni realistici, ma poi via via si scolla dal verosimile e vira verso
153 Linguaggi e universi creativi nel teatro di Giuseppe Manfridi

un’invettiva sempre più assoluta e irrelata. Dal particolare all’assoluto:


quell’oscuro tifoso dell’inizio diventa lentamente uno strumento cieco
del demone che è in lui, ma la virata è quasi impalpabile; con grande
perizia l’autore getta i suoi sassolini, le sue esche, e dà il tempo neces-
sario al completamento della metamorfosi finale. Prendiamo Zozòs,
altro esempio illuminante di metamorfosi drammaturgica10. Il testo si
apre sulla falsariga di una vera e propria pochade: due amanti sono
nudi, incastrati in una posizione molto imbarazzante, un coito contro
natura. Si coprono alla meglio con un vecchio paracadute e si muovo-
no sulla scena in un tripudio di frizzi, lazzi e doppi sensi. Tutta la prima
parte è davvero una farsa ridanciana, ma a un certo punto la vicenda
comincia inesorabilmente a virare di colore, il cielo da azzurro limpido
si fa prima scuro e poi procelloso. In breve: si capirà che i due, inconsa-
pevolmente, hanno consumato un incesto (ogni ipotesi intertestuale
è pienamente legittima!). Attraverso piccoli ma precisi smottamenti
del testo Manfridi riesce a calarci nella voragine senza quasi farcene
accorgere. Prendiamo infine uno degli ultimi prodotti, Una storia cat-
tiva, che appare un vero e proprio concentrato delle tematiche por-
tanti dell’autore11; in questa commedia compaiono ‘ingredienti’ ormai
familiari del teatro manfridiano: la metamorfosi, il plagio, l’incesto;
le posizioni iniziali si ribaltano, e chi era forte diventa assai debole,
mentre chi pareva destinato a soccombere ribalta inesorabilmente il
proprio stato di inferiorità.

Il calcio. Il calcio è uno dei mondi che con più insistenza si affaccia-
no nell’universo creativo di Manfridi. Testi come La partitella o Teppi-
sti!, o anche il più recente La riserva, sono innanzi tutto commoventi.
La commozione è un sentimento pre-scientifico, me ne rendo conto,
eppure meriterà almeno un tentativo di interpretazione. Il connubio
tra letteratura e sport, tra letteratura e calcio non è facile. Troppi i
rischi di banalità, di forzature, di inadeguatezza rispetto a una realtà
già di per sé tanto spettacolare. In genere, poi, la letteratura esalta gli
eroi, i protagonisti, i vincenti. Manfridi ha invece guardato al calcio
da un’angolatura diversa, quella dei perdenti. Sono perdenti i tifosi
sedotti e abbandonati dalla loro squadra, perdenti i giovani pieni di
belle speranze spazzati via dalla casualità più perfida, perdente il gioca-

10
  La commedia è ora pubblicata in Manfridi, Teatro dell’Anarchia cit., pp. 195-
222.
11
  Cfr. ibid., pp. 223-258.
154 Claudio Giovanardi

tore cui il campo ha negato la gloria che lo abbraccia solo dopo la sua
morte in un incidente automobilistico. Su tutto questo microcosmo di
sentimenti, di speranze e di disperazioni, domina la pietas dell’autore,
che mostra di ‘tifare’ a sua volta per questi antieroi, questi vinti, schie-
nati dalla vita. Storie forti, violente, mai indulgenti all’oleografia o al
santino. Per questo, credo, per quella parte di sconfitte e di cicatrici
che ognuno di noi si porta dietro, per la struggente nostalgia di ciò che
poteva essere e non sarà mai (e il più delle volte non sappiamo nem-
meno il perché), l’empatia con quelle storie è fortissima.

3. In un recente manuale dedicato al teatro italiano del Novecento


Giorgio Taffon colloca la scrittura di Manfridi nel campo della dram-
maturgia ‘organica’, tipica di chi «opera a stretto contatto di registi e/o
attori»12. Mi dispiace dover dissentire dall’amico Taffon, ma mi pare
che una siffatta etichetta rischia di conferire al teatro di Manfridi un
carattere di scrittura d’occasione, quasi su commissione, che è quanto
di più lontano si possa immaginare rispetto alle intenzioni composi-
tive dell’autore. La prassi drammaturgica di Manfridi, anche nei casi
in cui risponda a uno stimolo esterno, è comunque figlia di un atto di
volontà individuale, immotivato, di una lunga gestazione di testa, di
un’attenta, quasi maniacale dedizione alla scrittura nei suoi risvolti
sonori, ma anche nella scelta selettiva delle parole e delle volute sin-
tattiche. Si è detto che non è impresa facile riassumere la dramma-
turgia manfridiana entro una sola etichetta, e questo non tanto per il
numero copiosissimo di opere realizzate fin qui, quanto per una natu-
rale insofferenza verso schemi o appartenenze di scuola. Manfridi è un
isolato nel panorama teatrale contemporaneo.
A spanne mi pare che sia possibile individuare due direttrici fonda-
mentali lungo le quali dislocare, sia pure con infiniti dubbi e diverse
eccezioni, le opere di Manfridi. Vi è una linea ‘alta’, in cui molto spes-
so la rarefazione del linguaggio è pari all’inusualità del tema e della
trama; e vi è una linea ‘bassa’, da commedia (se non addirittura da
pochade), spesso intrisa di dialetto e affidata a personaggi tutt’altro che
illustri, magari semplici ragazzotti o tifosi da stadio. Sfuggendo alla
tentazione di una rassegna di titoli, mi limiterò a segnalare che al pri-

12
  Cfr. M. Ariani, G. Taffon, Scritture per la scena. La letteratura teatrale nel Nove-
cento italiano, Roma, Carocci 2001, p. 278.
155 Linguaggi e universi creativi nel teatro di Giuseppe Manfridi

mo versante fanno capo opere come Giacomo il prepotente, Elettra13, La


sposa di Parigi14, Ultimi passi per la salvezza dell’Epiro, l’inedito Nerone e
L. Cenci; al secondo opere come Ultrà, Teppisti, Ti amo Maria!, Zozòs,
La partitella. Ma Manfridi si diverte molto spesso a confondere le carte,
mescolando generi e scelte espressive, ed ecco allora l’imprevedibile
sciorinatura di versi in bocca ai tre tifosi violenti e mozzaorecchi di
Teppisti. Due linee drammaturgiche diverse, dunque, così tradizional-
mente distanti, eppure così fortemente intrecciate nel teatro di Man-
fridi, tanto che in lui sembrano convivere (non mi spaventa il rumore
dei nomi) Racine e Molière, Sofocle e Aristofane, Eduardo e Peppino.
(Una volta per tutte va detto che alla base della scrittura di Manfridi
vi è una profondissima conoscenza dei classici di ogni tempo e, più in
generale, vi è il concorso di letture onnivore che lasciano ben poco di
insondato nel patrimonio letterario occidentale).
Dopo questa pur sommaria individuazione di ‘correnti’ interne alla
drammaturgia manfridiana, cerchiamo di isolare, se possibile, alcune
costanti universali di quel teatro.
Alcuni anni fa, intervenendo a un dibattito sulla scrittura teatra-
le, mi venne di chiamare ‘teatro da tana’ una certa attitudine molto
evidente in Manfridi di rinchiudere i propri personaggi entro recinti
psicologici angusti, soffocanti, (talvolta persino male odoranti), come
devono essere, per l’appunto, quelli di una tana. Se il teatro da camera
evoca le atmosfere cupe o malinconiche delle opere di Checov, o di
Ibsen, o di Strindberg, il teatro da tana consiste nel denudamento e nel
confronto della anime, bianche o nere che siano, laddove il martellare
logicista del linguaggio, il ricorso ai sofismi e ai paralogismi, il lirismo
soffuso ed estenuato rappresentano diverse facce dello stesso racconto,
il racconto di una lotta e di una sopraffazione, di un vincitore e di un
vinto. Pirandello diranno alcuni, Pinter diranno altri, io direi più il
primo che il secondo non foss’altro per il ruolo assolutamente deter-
minante e positivo attribuito alla comunicazione linguistica. Molto
spesso l’azione scenica ideata da Manfridi si colloca subito prima del
compimento di un evento; non a caso una delle battute ricorrenti dei
suoi personaggi è l’evangelico consummatum est, tutto è finito. In quel
breve tempo che precede l’ineluttabilità dei fatti la fluenza dei discorsi,
il corpo a corpo verbale, l’apparente (il)logicità dei comportamenti

13
  La si può leggere in G. Manfridi, Elettra – L. Cenci – La Sposa di Parigi, Milano,
Ricordi 1993, pp. 15-90.
14
  Cfr. anche questa commedia ibid., pp. 191-275.
156 Claudio Giovanardi

e delle scelte non sono che espedienti destinati a cedere il passo a


qualcosa di più grande. Più Manfridi si accanisce a tornire le parole, a
sminuzzare i ragionamenti, a saldare logica e linguaggio, più mostra di
essere consapevole che la sua verità teatrale è altrove, in un ordine di
eventi predeterminato. I personaggi sono come animali in una tana:
padroni di quel buio microcosmo, ma incapaci di sopportare la luce
accecante della realtà esterna.
La ricerca di una verità sganciata dalle apparenze, nel ricollegare
inevitabilmente il teatro di Manfridi al modello pirandelliano lo al-
lontana altrettanto inevitabilmente dall’ondata minimalista che ca-
ratterizza tanta parte degli autori contemporanei. Nella visione man-
fridiana il drammaturgo non può essere una sorta di sismografo che si
limita a registrare i bradisismi dei suoi personaggi; è piuttosto un de-
miurgo, un inventore inesausto di storie, un folle burattinaio che tiene
saldamente in mano i fili dei suoi pupi. L’autore non si fa più piccolo
dei suoi personaggi, ma ne è il padre-padrone, il dominatore assoluto.
Il testo teatrale è un sistema di comunicazione dislocato su due li-
velli, come ha ben dimostrato Cesare Segre15. Il primo livello, interno,
riguarda i personaggi; il secondo, esterno, interessa la comunicazione
indiretta tra autore e pubblico. Ebbene si ha la sensazione che la scrit-
tura di Manfridi non faccia la minima concessione al pubblico, che sia
interamente risolta nella vicenda testuale. Rispetto al modello piran-
delliano l’aprosdóketon, il colpo di scena, l’effetto-sorpresa è talvolta
affidato ad eventi casuali, a piccoli e apparentemente insignificanti
episodi. Emblematica è in tal senso la vicenda di Zozòs, dove l’agnizio-
ne di un incesto è affidata a piccoli successivi indizi, tra i quali assume
particolare importanza un modestissimo ciondolo. Emblematica, come
si è visto, è anche la storia narrata ne La partitella, in cui un banale in-
fortunio impedisce la gloria a un aspirante calciatore e, al contrario,
disvela la stoffa del campione nel suo sostituto. Il caso è dunque il
più potente amico o nemico dell’uomo. E Manfridi non manca mai
di indagarne i meccanismi, di scoprirne i trucchi, di tentare di ricom-
porne i connotati attraverso il dispiegamento della forza verbale. Il
caso è del resto spesso alla base di quel processo di metamorfosi, ossia
di ribaltamento delle certezze (o apparenze) iniziali che caratterizza le
commedie di Manfridi.
Mi sono chiesto più volte il motivo della predilezione per la scrittura

  Cfr. C. Segre, Teatro e romanzo. Due tipi di comunicazione letteraria, Torino, Ei-
15

naudi 1984.
157 Linguaggi e universi creativi nel teatro di Giuseppe Manfridi

teatrale in versi da parte di Manfridi. So benissimo che non si tratta


di una novità assoluta nel teatro novecentesco. E tuttavia rappresenta
una scelta inusuale, rischiosa, non a caso rifuggita dai più. Il richiamo,
inevitabilmente, è al teatro di Pasolini. Ma in Pasolini la scelta della
scrittura in versi riveste un valore programmatico-ideologico che non
mi pare di trovare in Manfridi. Per lo scrittore friulano, autore del Ma-
nifesto per un nuovo teatro, il verso è la misura linguistica più adatta per
evocare un teatro ‘delle idee’ da contrapporre al teatro moderno dei
personaggi16. Quello di Pasolini è un anti-teatro, un teatro della non
azione, che va a recuperare la forma ‘culta’ della versificazione in chia-
ve evidentemente polemica. Anche l’evocazione del genere tragico si
colloca provocatoriamente in un solco teatrale controcorrente: forma
linguistica e forma teatrale si sposano perfettamente in un comune
progetto che trova nel passato le risorse per combattere un presente
poco amato. Il caso di Manfridi è diverso. In lui l’uso del verso non
è contro ma per il teatro. Intanto, come ho già avuto modo di dire, a
differenza di Pasolini non vi è consonanza tra forma linguistica e ge-
nere teatrale: il teppista che si esprime in endecasillabi è lontanissimo
dall’immaginario drammaturgico pasoliniano. Se, dunque, la scrittura
in versi non ha intenti eversivi (così almeno mi sembra) resta da inter-
pretarne il criterio ispiratore. La mia impressione è che la misura del
verso, breve o lungo che sia, rispecchia alla perfezione la misura del
pensiero. È come se la costrizione della forma linguistica aiuti il dram-
maturgo a trovare la corrispondente essenzialità della forma logica.
Per un teatro fortemente cerebrale, quale è quello di Manfridi, le bat-
tute si inseguono come brani di un ragionamento complessivo, come
tessere di un mosaico la cui ricomposizione è favorita da un’unità di
misura chiara e netta, cioè, appunto, il verso coi suoi spazi bianchi e i
suoi confini.
Per concludere vorrei dire qualcosa su un testo complesso e articolato
come L. Cenci. Nell’explicit della commedia ci sono due versi che reci-
tano «vengo a chiudere dicendo che non nego/l’anacronismo di tutto
il mio racconto». Questo distico mi pare una lucidissima dichiarazione
di poetica. L’anacronismo è infatti l’elemento dominante e vincente
di quest’opera. È in qualche modo anacronistica la scelta di porre al
centro della scena una figura di secondo piano nella vicenda storica
quale quella di Lucrezia. È anacronistica l’ambientazione del processo

  Il Manifesto pasoliniano si può leggere in P.P. Pasolini, Teatro, Milano, Garzanti


16

1999, pp. 711-731.


158 Claudio Giovanardi

in un’aula immaginaria di tribunale alla presenza di un giudice mala-


tissimo e gigione (che passa il tempo giocando con uno scorpione) e
di uno scriba che riempie fogli e fogli di verbale. È anacronistica l’idea
che un uomo del Cinquecento fumi la pipa, il cui uso fu introdotto
solo un secolo più tardi. Sono anacronistiche, perché inesistenti nel
Cinquecento, parole come entomologo, sberle, cromatismi, patema, lotta
di classe(!), elettricità e altre ancora.
Ma è proprio il rutilante impasto lessicale della commedia l’aspetto
più interessante. È una lingua che prende e trascina e che fa dimen-
ticare le varie componenti di cui è fatta in favore di un’unitarietà di
fondo. In un certo senso è il trionfo del ron ron verbale ammaliatore.
Eppure, a scavare un po’ sotto la superficie di questa lingua, i meccani-
smi di scelta si lasciano intravedere docilmente uno ad uno. Manfridi
mescola in modo mirabile parole comuni e aulicismi: chiacchierone,
sberle, teppista, budella, lercia, cimici, pidocchi convivono con numerose
espressioni di chiara ispirazione letteraria. Si va da aulicismi quali giu-
bilo inane, vuolsi, tramontate cupidigie e pestifera vergogna (si noti l’ante-
posizione dell’aggettivo), cacume a intere frasi di chiaro sapore lettera-
rio come dei miei quesiti all’apparenza sconci (con lieve ma significativo
iperbato), oppure quell’agone di budella palpitanti nel mischiume di una
tagliola. Ma non mancano neologismi o comunque vocaboli con una
forte carica espressiva: spetalati, smangiata, sgrondava, scarnato, scric-
chiare (quest’ultimo è un verbo onomatopeico con cui Manfridi indica
il rumore del pennino che traccia sulla carta). Un impasto complesso,
dunque, elaborato, cui potremmo aggiungere spezzoni di linguaggio
burocratico, termini scientifici, e anche una sequenza di versi di gusto
montaliano: «Sino a che scoccò la luna e scoccarono le stelle./Scoc-
carono le nubi e il temporale». Tra crepitii di suoni e ripide volute
verbali si giunge alla fine di una vicenda rapinosa, il cui incantesimo
sarà dissolto solo dal rumore degli applausi.

4. Vengo ad una rapida conclusione. Ho insistito molto sulla varietà


e la poliedricità del teatro di Giuseppe Manfridi. Il suo è un teatro per
molti aspetti inafferrabile e difficilmente riconducibile entro schemi
unitari. A ben vedere, però, un filo rosso (anche se un po’ contorto)
c’è. E consiste nell’idea di teatro come di una trasfigurazione fanta-
stica, come di un atto liberatorio rispetto all’oppressione della quoti-
dianità. E soprattutto consiste nella rivendicazione della scena come
luogo autonomo della comunicazione, con i suoi tempi, i suoi spazi,
le sue convenzioni. Una ‘grammatica’ teatrale che Manfridi difende
159 Linguaggi e universi creativi nel teatro di Giuseppe Manfridi

sempre nelle sue opere, a prescindere dal tema e dall’ispirazione di


ciascuna. Occorre riflettere a fondo su questo aspetto. Le rassegne di
giovani autori mostrano una pericolosa inclinazione a identificare e
mescolare disinvoltamente generi e tendenze diverse; il prepotere del-
la televisione impone due possibili modelli: quello della sit com, o, peg-
gio ancora, quello dei cosiddetti reality show, il cui subdolo messaggio è
che per fare spettacolo basta rappresentare la vita com’è, nella sua trita
e mortificante quotidianità. Il pubblico, ormai cloroformizzato dalla
televisione, vuole rivedere a teatro quello che vede dal divano della
propria casa; davanti a sé non ha più un palcoscenico e attori in carne
ed ossa, ma tanti piccoli teleschermi virtuali, attraverso i quali ‘legge’
l’evento scenico. Manca sempre di più quella generosità intellettuale
che consentirebbe allo spettatore di accettare le regole del gioco del
drammaturgo, di siglare un patto di immedesimazione per l’intera du-
rata dello spettacolo, come ci ha insegnato un fine critico quale Paul
Zumthor17, per poi decidere solo alla fine se la fiducia era stata ben
riposta o meno.

Claudio Giovanardi

17
  Si veda P. Zumthor, Introduction à la poésie orale (1983), trad. it. La presenza della
voce. Introduzione alla poesia orale, Bologna, Il Mulino 1984, in particolare a p. 61.
Il ritorno di Scaramouche di Jean
Baptiste Poquelin e Léon de Berardin
di Leo De Berardinis*

Non siamo in pochi a subire il fascino dell’attore comico, anche quando non
l’abbiamo mai visto, anche quando è scomparso da anni, da decenni. In un
momento della nostra vita, figlio della nostra malinconia, egli diventa una
delle tante incarnazioni di Yorick. Oggi è silenzio intorno all’attore napoleta-
no Tiberio Fiorilli, maestro di Molière e che fu famoso in Italia e nella Francia
del Seicento sotto il nome della sua maschera, Scaramuccia. Era, come Yori-
ck, persona d’infinita arguzia e di straordinaria agilità e fantasia.

Queste parole di Giovanni Macchia, che aprono un saggio del 1974,


Il silenzio dell’attore, diventato poi il primo capitolo di Il silenzio di Mo-
lière, possono ben riassumere almeno parte delle attese del pubblico
di fronte allo spettacolo di Leo De Berardinis (ed oggi per noi, quando
pensiamo a Leo, danno una particolare emozione) e più in generale
di fronte ad ogni spettacolo che in qualche modo evochi un teatro
scomparso.
L’attore e la morte sono, d’altra parte, i due poli ideali entro cui Il
ritorno di Scaramouche si pone, sia alla semplice lettura del testo, sia
se pensiamo alle immagini che le fotografie ci restituiscono. Una in
particolare, quella scelta per la copertina del «Patalogo» n. 18 (an-
nuario 1995) che rappresenta la lotta fra la vitalità (non solo comica)
del teatro (Donna Evira, Francesca Mazza, vestita di rosso) e la Morte
(Elena Bucci, in nero).
Dal punto di vista del suo autore (e del pubblico più legato a lui)
lo spettacolo del 1995 può essere, invece, considerato anche una

* Il saggio è già comparso sul periodico on line «Drammaturgia.it», diretto da Siro


Ferrone, in data 8 gennaio 2007 (<http://www.drammaturgia.it>).

  Milano, Mondadori 1975, ora in Ritratti, personaggi, fantasmi, a cura di M. Bon-
giovanni Bertini, Milano, Mondadori (I Meridiani) 1997, p. 869. Il saggio era appar-
so, con il titolo Il silenzio dell’attore. Scaramuccia antenato di Molière, in «Corriere della
sera», 9 gennaio 1974.
162 Franco Vazzoler

«guittesca autobiografia teatrale», o «come la silloge della sua idea


di teatro».
È uno degli ultimi spettacolo di Leo e rappresenta – anche se in
mezzo ci sono altri spettacoli – come il completamento di un’ideale
trilogia cominciata con Ha da passà ‘a nuttata (1989) e Totò principe di
Danimarca (1990), due spettacoli che a loro volta tiravano i fili di un
percorso di riscritture, di citazioni, di riuso di materiali drammaturgici
ricavati dalla tradizione del teatro. In quel caso Eduardo (una lunga
serie di occasioni), Shakespeare (un attraversamento costante nel tea-
tro di Leo, vera e propria strada maestra) e Totò (punto di riferimento
simbolico, ma simbolo vivente sulla scena attraverso l’appropriazione
che Leo ne ha sempre fatto). L’ossimoro del titolo di Totò principe di
Danimarca ci fa capire anche come della tradizione Leo recuperi e rivi-
talizzi tutto, alto e basso, sublime e degradato, nel gioco del contrasto
grottesco, come già avveniva – e quindi su una linea di continuità
con se stesso – fin da ‘O zappatore (1972) e King lacreme napulitane
(1973).
Il concetto di riuso mi pare la categoria più pertinente per definire
una pratica drammaturgica che, assunta nella dimensione della ricerca
e della ‘sperimentazione’, instaura un rapporto non ripetitivo, ma vita-
le con la tradizione. Tanto più che Leo, come gran parte del teatro del
dopoguerra abolisce la categoria convenzionale della ‘messa in scena’
di un testo, tipica del teatro-museo, e si pone rispetto a questa non
solo in termini di diversità, ma di reale opposizione.
Ma nel caso di Leo, poi, il ‘riuso’ ha anche un altro valore, rispet-
to al complesso del proprio stesso teatro: il ritornare su certi autori
(Shakespeare, Eduardo), su certi testi (Filumena Marturano, Amleto,
King Lear), su certe figure (Totò, Pulcinella) crea non solo una conti-
nuità di discorso, ma un progressivo ripensamento sul fare (e sul farsi
del) teatro. Ne è simbolo più evidente l’abitudine di cominciare il
nuovo spettacolo dall’ultima scena del precedente.
Con il Ritorno... tutto questo viene a concretizzarsi nel ricorso al-
l’immaginario della commedia dell’arte. Un ruolo non secondario,


  Già un anonimo recensore aveva definito così The connection (citato in G. Man-
zella, La bellezza amara. Il teatro di Leo De Berardinis, Parma, Pratiche 1993, p. 117).
Qui utilizzo la definizione, ovviamente senza il segno negativo che aveva in quell’oc-
casione.

  R. Guardenti, Leo, il corpo vivente dell’attore, in «Il castello di Elsinore», IX, 26,
1996, p. 141.
163 Il ritorno di Scaramouche

nella creazione di Il ritorno... ha il rapporto con gli studiosi (Meldolesi


e Taviani) e con Eugenio Allegri in un seminario preparatorio tenuto
al Teatro Novelli di Rimini, sentito come bisogno di confronto e di
«riflessione collettiva» e approdato, come scrive Leo stesso, in una
reinvenzione delle maschere «fuori da ogni possibile ed impossibile
filologia». E certo nel Ritorno di Scaramouche confluiscono anche al-
tre suggestioni legate in qualche modo ad una idea della commedia
dell’arte: le avanguardie storiche novecentesche, la prassi composi-
tiva che parte dall’attore (fin dai tempi di Marigliano), l’analogia fra
l’improvvisazione teatrale e quella jazzistica che è stata una delle linee
guida per Leo, almeno a partire da A Charlie Parker (1970) e che aveva
portato alla collaborazione con Steve Lacy (Lo spazio della memoria,
1991).
Ma determinante è la personale necessità di rivisitare il mito del-
la commedia dell’arte (visto soprattutto nell’ambito della tradizione
popolare che lo lega appunto alle origini di Eduardo, alla rivista e al-
l’avanspettacolo, tutte forme frequentate da Leo nei suoi spettacoli
precedenti), dando continuità ad un progressivo ripensamento, per
cui a proposito del Ritorno di Scaramouche diventa necessario richia-
marsi esplicitamente ad un’altra tradizione, forse fino ad allora rimasta
più sottotraccia nel suo lavoro, quella della commedia dell’arte (Sca-
ramouche e Molière), che finora era comparsa solo nelle metamorfosi
pulcinellesche di Totò e di Eduardo. Si pensi a come Manzella ricorda
uno dei momenti chiave di The connection (la ‘riscrittura’ nel 1983
della pièce di Gelbert che era stato lo spettacolo-rivelazione del Living
degli anni Sessanta):

Dietro Eduardo, dietro Totò sta in agguato la maschera di Pulcinella che in


un crescendo wagneriano fa sue le parole di Macbeth, «La vita è una favola
senza senso raccontata da un idiota». E sullo schermo bianco si stampa l’im-
pronta scheletrica di due mani, l’ultimo sforzo dell’attore di rompere quella
barriera per proiettarsi oltre, verso la platea.


  L. De Berardinis, Introduzione a Il ritorno di Scaramouche di Jean Baptiste Poque-
lin e Léon de Berardin, Bologna, fuori THEMA 1995 (libri ARENA), p. 6.

  Cfr. Intervista con Leo De Berardinis, a cura di O. Ponte di Pino, pubblicata ori-
ginariamente in J. Gelber, La connection (con l’intervento di Leo De Berardinis),
Milano, Ubulibri 1983.

  Manzella, La bellezza amara cit., p. 118. Sul libro di Manzella, oltre che sui
ricordi personali di spettatore, mi baserò essenzialmente per i richiami alla ‘storia’ di
164 Franco Vazzoler

In un’ampia intervista raccolta da Renzo Guardenti, Leo stesso ha


spiegato l’interesse per la commedia dell’arte, sia per quanto riguarda
«la capacità di continuare a sopravvivere nell’immaginario colletti-
vo», sia perché «la mentalità dei commedianti è molto vicina alla mia,
nel senso che l’attore è il teatro». Insomma, il mito e la centralità
dell’attore.
Ecco perché, come molte altre volte, a partire da La difficile messa
in scena..., il teatro nel teatro diventa la condizione drammaturgica
necessaria, come già aveva indicato Sanguineti nel 1976:

[...] è da un pezzo che non è concepibile un’azione scenica che si rispetti, la


quale non si presenti, in un qualunque modo, straniata e virgolettata, esibi-
ta come artificio e meccanismo e finzione, cioè proprio come messinscena,
faticosa quanto occorre. Ma qui in verità è straniato lo straniamento, cioè
sempre la straniata messinscena, moltiplicando la distanziazione.

Tutto questo si traduce, in termini drammaturgici, in una composi-


zione per ‘quadri’ che rende labile la vicenda, la trama, senza neppure
una chiara (convenzionale) distinzione fra la pièce quadre (il viaggio
della compagnia del napoletano Fiorilli/Scaramuccia a Parigi) e la
pièce encadrée (le vicende romanzesche dell’attore Lallo col suo servo
Pulci, e della sorella Donna Evira, a sua volta inseguita dalla Morte,
che si cercano e si ritrovano alla fine perché «queste commedie tutte
forniscono in ritrovamenti», pretesto per le situazioni sceniche in cui
si incontrano con Pantalone e il suo servo Vongola), nell’utilizzazione
del gioco del teatro-nel-teatro.
Gli attori, nel loro rappresentarsi come ‘comici’, incarnano una se-
rie di maschere rurali che vengono a comporre una ideale compagnia
della commedia dell’arte: Leo è Scaramuccia e Pantalone (ma che
ad un certo punto è, togliendosi la maschera, Leo e basta); Lallo e
Tristano sono i due amorosi, Pulci e Vongola gli zanni; la morte e
Evira sono le prime-donne in lotta fra loro; Beatrice (nutrice di Lal-
lo) riveste qui il ruolo della madre nobile, con tensioni verso l’enfasi

Leo. Si tratta, infatti, di uno di quei rari saggi che sono in grado di restituire, nella
riflessione critica, la memoria partecipata dell’esperienza teatrale.

  Il ritorno di Scaramouche: intervista a Leo De Berardinis, a cura di R. Guardenti,
in «Il castello di Elsinore», IX, 26, 1996, pp. 123-131.

  E. Sanguineti, L’antiteatro di Leo e Perla, in «L’Unità», 6 marzo 1976, ora in Id.,
Giornalino secondo, Torino, Einaudi 1979, p. 31.
165 Il ritorno di Scaramouche

tragica (pp. 16-17) e rovesciamenti verso il basso (p. 18). Si noti la


scelta onomastica di Tristano e di donna Evira, che rimandano a due
altri personaggi che appartengono alla mitologia teatrale e letteraria
(Leopardi e Mozart).
Lo spazio scenico, d’altra parte, è organizzato in modo che sul palco-
scenico principale (il palcoscenico, come indicano alcune didascalie,
pensato come quello di un teatro all’italiana, comunque per una visio-
ne frontale)10 ci sia un secondo palcoscenico:

Alla commedia dell’arte appartiene anche il palchetto basso che occupa il


centro della scena, su cui si dipana l’ironica trama recitata dai comici, prima
lettura dello spettacolo offerta allo spettatore, come insegnavano gli antichi:
ma prima lettura può essere per Leo anche la comicità, può essere l’emozione,
il dinamismo, il modo di muoversi degli attori11.

La rappresentazione nella rappresentazione non segna una cesura fra


quotidianità e teatro, fra arte e vita, ma propone una unità fra vita e
poesia, poesia teatrale.
Questa unità è allusa dal tema dello spettacolo: la partenza di Ti-
berio Fiorilli (Scaramuche) e dei suoi comici per andare da Napoli a
Parigi e l’eredità che ne assume Molière. Nel corso della rappresenta-
zione sono citati brani dal Don Giovanni e dal Misantropo, dove Leo
sembra riscoprire nella pratica della commedia dell’arte i principi del
suo stesso lavoro. Infatti quella del collage di citazioni, come egli stesso
dice nell’intervista («E i comici dell’arte, del resto, di citazioni ne fa-
cevano un largo uso, tratte da romanzi, da materiale vario di scrittura,
riproposte poi in scena, con un lavoro molto simile a quello che ho
fatto io dagli anni Sessanta in poi [...]»)12, è tecnica ben nota a Leo,
che su di essa aveva costruito quello che probabilmente è il suo capo-
lavoro, Novecento e mille.


  La compagnia corrisponde a quella della ripresa televisiva di Totò, con le sostitu-
zioni di Neiwiller e Bobette Levesque. È grosso modo la stessa anche dei Giganti, dove
oltre a Neiwiller c’era anche Servillo.
10
  Ma un recensore esprimeva l’esigenza di un maggiore avvicinamento fra scena e
platea: «[...] quel palchetto (che avremmo preferito avere più vicino, o meglio ancora
trovarlo in una piazza e non nell’angusto spazio del Bellini) [...]» (N. Arrigoni, in
«Sipario», 557, giugno 1995, p. 87; il Bellini è il teatro di Casalbuttano).
11
  G. Manzella, Leo: sfidare la storia con il teatro, in «Il Manifesto», 4 aprile 1995.
12
  Intervista con Leo De Berardinis cit., p. 127.
166 Franco Vazzoler

E qui investe non solo i testi ‘alti’ (oltre a Molière, Joyce, dal mo-
nologo finale dell’Ulisse), ma anche quelli bassi: le canzonette e la
pubblicità degli anni Sessanta e Settanta (Tintarella di luna, Arrivano
i nostri, Nel continente nero), il cinema di Totò e Peppino, gli ‘stupida-
ri’ petroliniani, fino all’inserimento di «echi della cronaca»13, «spunti
anche spiccioli ricavati dalle cronache dei nostri giorni»14.
Si prenda come esempio il monologo di Scaramouche (pp. 32-33),
che sembra ispirato al saggio di Macchia che ho citato all’inizio, su cui
cresce poi l’invenzione dell’attore (la battuta sul parmigiano e il pe-
corino)15, fino a risolversi nella citazione di Guido Cavalcanti («Chi è
questa che vèn, ch’ogn’om la mira... ») e poi di Molière (da Le Sicilien:
«Le ciel c’est habillé ce soir en Scaramouche»), anch’essa suggerita da
Macchia.
Nell’intervista a Guardenti (e nell’introduzione alla pubblicazione
del testo) Leo ha chiarito il perché di Molière filtrato attraverso Fioril-
li e come a questo fosse legato il discorso sul potere e l’attualità:

[...] almeno all’inizio io volevo avvicinarmi a Molière in quanto uomo di


teatro, ai suoi rapporti col suo secolo, con la società del suo tempo, partendo
magari da Tiberio Fiorilli. Quello che mi interessava era proprio l’attore – e
non a caso Molière è filtrato attraverso Fiorilli, questo attore, napoletano per
di più, questo mito di cui si sa abbastanza poco – per cui in un primo tempo
avevo pensato a tutt’altro [...] Prima ero partito da un’idea totalmente diver-
sa, cioè un falso storico, Fiorilli che interpretando Don Juan precipita nella
botola e va veramente all’inferno. [...] sì infatti da questo motivo ero partito:
Molière e Scaramouche, e poi il secolo del Re Sole, questo secolo d’immagine
che nascondeva in realtà molte magagne, per molti aspetti simile alla nostra
epoca16.

13
  Arrigoni, in «Sipario» cit.
14
  A. Savioli, in «L’Unità», 23 novembre 1994; recensione ripubblicata in Il punto
di vista di Aggeo Savioli, in «Drammaturgia», Quaderno 1995, pp. 88-90 (da cui si cita,
p. 89).
15
  «Anche un certo Mezzettino ha scritto un libriccino sulla mia vita che dice un
sacco di sciocchezze. Per esempio dice che io in punto di morte ho chiesto una zuppa
all’italiana, che sarebbero dei vermicelli con il parmiggiano. Figuriamoci se in punto
di morte... la morte è una cosa seria... chiedevo i vermicelli col parmiggiano: erano
col pecorino!»
16
  Intervista con Leo De Berardinis cit., pp. 125-130.
167 Il ritorno di Scaramouche

Leo chiarisce anche il ruolo del testo («materiale verbale»), pur vi-
sto nell’ambito della centralità dell’attore:

Questo naturalmente non vuol dire scartare a priori il materiale verbale e tut-
ti gli altri elementi che concorrono a formare quell’organismo complesso che
è poi l’evento teatrale. [...] Come testo drammatico io posso considerare an-
che una poesia di Leopardi, al limite una barzelletta, cioè qualsiasi cosa, che
mi possa servire da materiale verbale, a seconda del ‘colore’ di cui ho bisogno
nell’evento teatrale. Per cui testo può diventare anche una battuta musicale.
[...] Io sostengo sempre che il teatro si può fare anche con i testi, però dire che
il testo è il teatro, che mettere in scena un testo significa far teatro, allora io
non sono più d’accordo, perché non credo che si tratti di questo17.

In questa occasione – con una operazione di cui non mi sfugge la


parzialità, ma anche per questo la ritengo stimolante – mi concentrerò
sulla partitura linguistica del testo, cercando di capire come un’idea
dell’oralità della commedia dell’arte possa produrre una scrittura ver-
bale e, in ultima istanza, una lingua teatrale.
Mi baserò quindi sulla parte verbale del testo, così come è restituita
e fissata nel testo pubblicato nella collana dell’Arena del Sole di Bo-
logna18. Secondo le caratteristiche di una ‘drammaturgia consuntiva’
(come ormai si dice comunemente), nel momento in cui diventa libro,
quindi ‘letteratura teatrale’, Leo cala il testo totalmente nella norma,
anche per quanto riguarda l’aspetto non verbale dello spettacolo: di-
dascalie e battute, indicazioni scenografiche (con minuziosa precisio-
ne, sornionamente ragionieristica: il palchetto di «quattro metri per
tre alto da terra sessanta centimetri») e sulle musiche (una colonna
sonora che va dalla musica barocca ad oggi), l’indicazione di azioni e
movimenti, la direzione delle battute. Anche le improvvisazioni («Se-
gue trattativa sul prezzo, citando la scena dal film Totò e Peppino e la
malafemmina»: p 21; il «grammelot giapponese, poi traduce» di Donna
Evira, che è una indicazione della mimica: pp. 30, 38, 39, 41) e l’attri-
buzione della paternità agli attori di alcuni brani19.
E sono registrati anche i momenti in cui gli attori abbandonano i

17
  Ibid., pp. 126-27.
18
  De Berardinis, Il ritorno di Scaramouche di Jean Baptiste Poquelin e Léon de
Berardin cit.
19
  «Ho invitato anche gli attori a scrivere delle battute: molte sono state tolte,
alcune sono state corrette, altre sono rimaste tali e quali, ma ciò che è veramente
168 Franco Vazzoler

personaggi e sono loro stessi: «Entra Francesca [Mazza] in abito da


sposa bianco, sale sul palchetto, appoggia le mani sulla testa di Leo.
[...] Esce Francesca. Leo si alza e torna sulla panca. Buio» (p. 55).
Insomma, siamo nell’ambito, pur senza giungere ad estremi tecni-
cistici e senza il proposito della completezza, di una ‘traduzione’ sulla
pagina della ‘scrittura scenica’, almeno dal punto di vista della dram-
maturgia, per cui, per la tessitura verbale, bisogna rifarsi all’idea di una
partitura in funzione della scrittura scenica complessiva dello spetta-
colo20. Ma al tempo stesso è importante anche il modo con cui questa
partitura è nata, è stata costruita, a partire dal palcoscenico:

Ci hanno portato delle maschere, ognuno di noi ha liberamente scelto la pro-


pria maschera [...] Quindi partendo di lì ho cominciato a scrivere, e natural-
mente proseguendo con il mio sistema che non è un metodo vero e proprio,
ma è un modo: scrivo una scena, la provo, invento una cosa sul momento.
Intanto c’erano state delle improvvisazioni con gli attori, tendenti a perfezio-
nare la gestualità e la vocalità. [...] Ho invitato anche gli attori a scrivere delle
battute: molte sono state tolte, alcune sono state corrette, altre sono rimaste
tali e quali, ma quello che conta è che ci sia sto un coinvolgimento collettivo
proprio sul piano della scrittura21.

Tutto questo è importante in direzione non della letterarietà del te-


sto scritto, ma proprio in rapporto alla oralità di cui il testo è la trascri-
zione che, malgrado la sua riduzione a libro (non parola ‘in scena’, ma
parola ‘dopo la scena’), non ambisce in questo caso ad una autonomia
letteraria.
Tuttavia è il tessuto linguistico nel suo complesso a rivelare un par-
ticolare interesse, come catalizzatore di alcuni aspetti della dramma-
turgia attoriale, e quindi espressione di una lingua eminentemente
‘teatrale’. Non lingua ‘italiana’, né monolinguismo dialettale, ma un
testo plurilingue: italiano, napoletano, veneziano, uso parodico del
francese; e che svaria dal parlato dialettale o regionale alle citazioni
auliche del tipo: «cussì ben disposto e cossì allegramente vestito» (p.
27), «chiuso nel suo dolor» (p. 25).

importante è che ci sia stato un coinvolgimento collettivo proprio sul piano della
scrittura» (Intervista con Leo De Berardinis cit., p. 128).
20
  Sulla genesi dello spettacolo, soprattutto attraverso le testimonianze degli attori,
cfr. R. Anedda, Il teatro come una composizione: la drammaturgia musicale nel lavoro di
Leo De Berardinis, in «Culture teatrali», 2/3, primavera-autunno 2000, pp. 65-100.
21
  Intervista con Leo De Berardinis cit., p. 128.
169 Il ritorno di Scaramouche

Alcuni giochi di parola sono proprio legati a questa varietà delle


lingue, come il francese maccheronico di Pulci mescolato al napole-
tano («li capil del tuo visage, son men folt de li capil del tuo pubage»:
p.12), oppure le traduzioni simultanee («Una rue! Una via!»: p. 10), o
lo scambio di battute fra Pulci e Lallo: «Saint Sulpice/Sain Suplice» (p.
10), «findente di pennino/fetente ‘e pennino» (p. 11); oppure il passag-
gio dal napoletano all’italiano: a «Pulci i vorrei che tu e il capo e il mio»
viene replicato, in un gioco parodico «Guido io vorrei ecc... » (p. 12).
All’effetto linguistico sono legati anche gli anacronismi, per cui alle
località francesi (Versailles) sono accostate l’Italsider e l’Alfasud (p.
14), o riferimenti all’attualità, come «aggia parlà toscano, se no mi
cacciano dal nord anche se siamo in Francia» (p. 13); oppure sono
citati oggetti d’uso attuale, come «l’antifurto» (p. 16), o il «juke box
che sparava a tutto volume quelle belle canzonette d’amor» (p. 14).
Dunque: un «dialetto multiplo in funzione anti-mimetica»22 – per
usare una formula di Paolo Puppa, che non la usa per De Berardinis,
ma che ci consente di accostarlo, sotto questo aspetto con una qualche
ragione, ad autori come Moscato, Scaldati e Cappuccio – per cui la
parola (e quindi la lingua) si situa in uno spazio e in un tempo presenti
(quelli della scena), senza la ‘finzione’ di un ‘altrove’ (Napoli, Parigi,
Versailles) e di un tempo (il Seicento) che pure sono citati continua-
mente.
Lo stesso gioco si realizza con le allusioni agli alessandrini (i mar-
telliani) generatrici di ‘lazzi’: Lallo è continuamente alla ricerca dei
buoni alessandrini, Pantalone e Vongola si esibiscono nel ‘lazzo’ della
vendita fasulla degli alessandrini, la sfida fra Vongola e Pulci che avrà
come premi un alessandrino per Lallo.
Ed io credo che sia difficile che un ammiratore di Leo come Sangui-
neti non abbia pensato a questo, quando qualche anno dopo ha scritto
le Melarance e tradotto l’Illusion comique...
Un plurilinguismo maccheronico, assunto in una dimensione che
non è solo caricaturale, ma che rinvia alla pratica della commedia del-
l’arte e significa anche recupero delle due tradizioni: quella veneziana
di Pantalone e quella napoletana di Pulcinella. Ma viste nella loro
proiezione europea (Fiorilli e Molière).
Questo plurilinguismo – nella sua dichiarata realtà ‘teatrale’, che ha
una lunga storia in Leo, da Assoli (1977)23 a Totò principe di Danimar-

22
  Cfr. P. Puppa, Il teatro dei testi. La drammaturgia italiana del Novecento, Torino,
Utet 2003, p. 178.
23
  Cfr. Manzella, La bellezza amara cit., p. 78.
170 Franco Vazzoler

ca, al punto che può essere considerato la vera base ‘della lingua’ di
Leo – ricrea anche la memoria (mitologica) della commedia dell’arte,
come accadeva, ad esempio nei dialoghi fra Pulcinella e Colombina in
Avìta a murì24. La lingua delle maschere insomma costituisce il tessuto
linguistico di base.
Risalta, intanto, la particolare performatività della parola: tranne i
monologhi interamente rivolti al pubblico (quando Leo è Leo), che
costituiscono quasi una sospensione dello spettacolo, le battute sono
rivolte contemporaneamente agli altri attori (agli attori dietro il per-
sonaggio) e al pubblico.
Né si tratta di mera riproposizione, di recupero ‘filologico’ di fram-
menti delle scritture dei comici dell’arte (o della loro gestualità), se-
condo una ‘tradizione’.
Per ognuno dei personaggi-ruoli (e in alcuni casi con la collaborazio-
ne degli attori e grazie alle loro improvvisazioni) c’è un testo che li ca-
ratterizza linguisticamente, partendo dalla tradizione e appoggiandosi
alla loro creatività attoriale. Ruoli e non maschere (tranne Pantalone
e Pulci) che, rifiutando la stilizzazione settecentesca, rimandano indie-
tro, alla recitazione per contrasti della commedia dell’arte barocca.
Si prendano ad esempio il monologo di Pantalone (p. 25) e il suo
successivo dialogo con Tristano (pp. 26-30). Leo si rifà al repertorio
linguistico delle maschere: come il gioco di senso sulla vita (dopo una
partenza cabarettistico-canzonettistica alla Cochi e Renato o alla Jan-
nacci: «Che bela la vita, / che bela [...]»): «[...] s’è talmente bela /
che no convien viverla, / che se no se consuma»; il bisticcio «fagiol/
figliol»; le deformazioni delle parole («omeopaticopeico», «Castella-
mare ‘e scabbia», «alfabetico» per ‘analfabeta’). Se, da un lato, inseri-
sce battute tipiche della comicità cine-televisiva più attuale (che fun-
zionano come citazioni): «Me cojoni» (p. 27), dall’altro l’intercalare
«belo questo», con cui nel citato monologo Pantalone autocommenta
le proprie battute, costituisce un gioco metateatrale (quello dell’auto-
compiacimento) che rappresenta il momento in cui è denunciata la
consapevolezza di un operare su questo repertorio.
Ne deriva il particolare effetto provocato dalle ‘citazioni’ della
commedia dell’arte in questo spettacolo, così diverso dalla ‘nostalgia’
prodotta da tanti spettacoli sulla commedia dell’arte – in cui, direbbe
Georges Banu, la storia si presenta «temperata dalla memoria»25 – che,

  Ibid., p. 82.
24

  G. Banu, Memorie del teatro, Genova, Il melangolo 2005, pp. 83-90 (prima ed.
25

Mémoires du théâtre, Paris, Actes sud 1987, pp. 77-81).


171 Il ritorno di Scaramouche

pochi anni prima (1990), era stata al centro del film di Scola con Troi-
si, tematicamente così vicino, di cui lo spettacolo di Leo sembra quasi
esserne il rovesciamento26.
Se la lingua è, dunque, il veicolo di una idea di commedia dell’ar-
te che si stacca da ogni immagine già acquisita dalla ‘memoria’ dello
spettatore, da ogni immagine abusata, allora la commedia dell’arte di
Leo è priva di quegli estetismi pseudo-simil-settecenteschi a cui il pub-
blico è abituato, e punta su una dimensione ‘poetica’, non nel senso
della ‘nostalgia’ per l’arte perduta, ma nel senso della ‘poesia dell’atto-
re’, in cui si scontrano alto e basso:

Il tema del contrasto è sempre stato una mia caratteristica: qui viene più
accentuato perché l’uso della mezza maschera comporta una separazione fra
i vari elementi, sia della voce che del corpo. Ma in tutti i miei lavori si ma-
nifesta la mia doppia anima, quella aristocratica che tende verso il sublime,
che va oltre il teatro, e quella invece plebea che era evidentissima in Totò
principe di Danimarca, già individuabile nel titolo. Totò era la felicità terre-
stre, la vitalità, la forza della natura; Amleto incarnava la forza di superare la
natura, di penetrarne il mistero, di superare anche la storia, arrivare al mondo
del silenzio, quindi oltre il teatro. Il teatro essendo una tecnica conoscitiva,
dovrebbe servire a questo, ad alimentare una tensione che porta ad un com-
pletamento dell’uomo27.

La commedia dell’arte qui viene ‘rivisitata’ non in funzione del rim-


pianto nostalgico, né di una sua programmatica rivitalizzazione. Così
l’immagine convenzionale della commedia dell’arte è sottratta alla sti-
lizzazione rassicurante, non per ricrearla soltanto, secondo un’idea di
‘autenticità’ diversa, non per ritrovarne «le langage plein de verdeur,

26
  Lo notava, recensendo lo spettacolo, R. Nicolini, Ritorna Scaramouche e parla
veneziano, in «Primafila», 5, marzo 1995, p. 97: «Quello che un film come Il viaggio
di Capitan Fracassa di Ettore Scola edulcorava nella malinconia e sfumava in un
indefinito passato, è qui esposto senza reticenze. La solitudine e l’emarginazione del
teatro contro (ma senza nessuna velleità rivoluzionaria, solo voglia di sopravvivere)
il potere spietato, più irrappresentabile che invisibile». Nicolini era stato anche uno
degli interpreti del film di Scola. In realtà più che «indefinito» il «passato» del film
di Scola è un Seicento ‘fantastico’ ispirato alla pittura barocca (dai fiamminghi, a
Callot, a La Tour). Ma la recensione-confessione di Nicolini è interessante anche per
l’attenzione che pone alle citazioni jazzistiche della ‘colonna sonora’ dello spettacolo
di Leo.
27
  Intervista con Leo De Berardinis cit., p. 129.
172 Franco Vazzoler

de trucoulance, de crudité par fois» delle origini dell’improvvisazione


(Besson)28, ma per ritrovarvi la pratica dell’attore.
Di ‘riscritture’ e ‘riuso’ della commedia dell’arte si è nutrito molto
teatro novecentesco europeo e italiano del dopoguerra, a diversi li-
velli: da Arnaldo Momo al teatro dell’Avogaria e a tutta la tradizione
‘goldoniana’ (o pseudogoldoniana) veneziana (ma esiste anche una
linea ruzantiana, probabilmente rappresentata dal primo Paolini, dal
Tam-teatro di Michele Sambin), da Eduardo a Dario Fo (per ognuno
dei quali andrebbe fatto un discorso a parte), da Strelher a Marcuc-
ci a Benno Besson, dal Théâtre du Soleil di Ariane Mnouchkine al
lavoro di Barba, da Ronconi fino al Sanguineti della riscrittura delle
Melarance di Gozzi, che, come ho detto, probabilmente è debitore
nei confronti del Leo di Scaramouche. E il discorso è ora continua-
to anche da due attori il cui apporto era stato fondamentale nello
spettacolo di Leo: Elena Bucci e Marco Sgrosso. È questo certamente
un elenco incompleto e che, soprattutto, non riesce a dare ragione
di quanto è stata passiva e rozza ripetizione, elegante stilizzazione o
autentica ricerca: non si deve dimenticare, ad esempio, il ponte che
ha cercato di creare con l’antica commedia dell’arte il ‘terzo teatro’,
a partire dagli anni Settanta29 e tutto il lavoro dell’Ista30. E al tempo
stesso si dovrebbe confrontare il ricorso alla commedia dell’arte di
Leo, rispetto ad alcuni esempi cronologicamente vicini, come gli Ar-
lecchini-griot del Teatro delle Albe di qualche anno prima (1993),
con la loro animalesca fisicità, pur nel loro cercare un riferimento
sociologico contemporaneo.
Leo si pone su un terreno che, se è opposto alla vulgata del ‘goldo-
nismo’ veneto, non cita espressamente gli sperimentalismi delle avan-
guardie storiche e non vuole rompere i ponti con una tradizione: da
un lato ne è segno la collaborazione cercata nei seminari di un attore
specialista della commedia dell’arte come Eugenio Allegri (allievo di
Lecoq, che ha già lavorato con Leo, ma anche con Vacis e con Fo;

28
  B. Besson, L’oiseau vert. D’après Carlo Gozzi, Lausanne, L’âge d’homme 1985, p.
106. In questa chiave Besson aveva messo per esteso le parti a soggetto.
29
  Di particolare interesse sono a questo proposito le osservazioni di Claudia Con-
tin (un Arlecchino di oggi) in C. Contin, Viaggio d’un attore nella Commedia dell’arte,
in «Prove di Drammaturgia», I, 1/2, settembre 1995, p. 34.
30
  Valga, a mo’ d’esempio, quanto dice Ferdinando Taviani in F. Taviani, Un vivo
contrasto. Seminario su attrici e attori della Commedia dell’arte, in «Teatro e Storia», I,
1996, pp. 25-75.
173 Il ritorno di Scaramouche

autore di canovacci e spettacoli), dall’altra è chiara la continuità che


Leo instaura fra la commedia dell’arte e la comicità dell’avanspetta-
colo e della rivista, sintetizzata dal riferimento imprescindibile a Totò.
Continuità che è resa evidente dal fatto che Leo riveste il ruolo di
attore, regista, capocomico e drammaturgo sia nella realtà, sia nella
finzione teatrale.
Si tratta, in sostanza, di proporre un’immagine della commedia del-
l’arte più complessa di quella stilizzazione manierata e pantomimica
che si è imposta come immagine dominante e convenzionale attraver-
so ‘l’imperialismo’ dell’Arlecchino di Strelher-Soleri31.
Leo si ispira, da un lato, per l’aspetto visivo, a Callot, dall’altro (so-
prattutto grazie all’apporto del Vongola-Zanni di Marco Sgrosso) re-
cupera quel ‘vivo contrasto’ pre-goldoniano fra energia e poesia, fra
basso e alto, fra lacrime e riso, che appartiene alla tradizione degli
attori fino a Bertinazzi32.
E non è secondario il fatto che Leo escluda il personaggio simbo-
lo, Arlecchino, che lo porta – lo abbiamo visto a proposito del plu-
rilinguismo – ad assumere Pantalone come simbolo della tradizione
veneziana e Scaramuccia-Fiorilli (mettendo in secondo piano anche
Pulcinella, ridotto ad un Pulci sovrastato dallo ‘zannesco’ Vongola) di
quella napoletana.
Quello di Leo è un diverso rapportarsi alla commedia dell’arte. Ri-
guarda sia il riferimento alle maschere (che Leo tratta in maniera a
suo modo ‘filologica’, ma anche nella loro sostanza mitica)33, sia quello
della improvvisazione34. Recupero del ‘mito’ della commedia dell’arte,

31
  L’espressione ‘imperialismo’ è mia. Ma la necessità per l’attore, nell’ambito della
pratica odierna della commedia dell’arte, di avere «una libertà di re-interpretazione
e re-invenzione che certi irrigiditi stilemi contemporanei talora non consentono», è
chiaramente espressa da Contin, Viaggio d’un attore nella Commedia dell’arte cit., pp.
28-29.
32
  Cfr. Taviani, Un vivo contrasto. Seminario su attrici e attori della Commedia dell’arte
cit., pp. 35-52.
33
  Analogamente a quanto ricorda Sanguineti a proposito delle maschere che era-
no state utilizzate da Benno Besson nell’Edipo tiranno: «la maschera non fu impiegata
come segno di grecità; erano piuttosto maschere aninalesche o animaloidi» (Introdu-
zione a Teatro Antico. Traduzioni e ricordi, a cura di F. Condello, C. Longhi, Milano,
Rizzoli (Bur/Scrittori contemporanei) 2006, p. 10).
34
  Un aspetto, questo, che nella edizione a stampa viene completamento assorbito
nel testo, divenendo quasi rigoroso vincolo testuale. Sull’improvvisazione – su cui è
174 Franco Vazzoler

ma al tempo stesso sottrazione al mito della sua irrapresentabilità oggi,


un po’ come avviene per Totò e Eduado (l’Eduardo senza Eduardo di
Ha da passà a nuttata):

[...] una riflessione molto bella e poetica sull’arte dell’attore che fa i conti con
il suo tempo e la sua storia, nata da una dupice suggestione, il teatro di Mo-
lière e la figura dello sregolato comico italiano Tiberio Fiorilli nella Francia
di Luigi XIV. Come dire l’incrocio fra scrittura e improvvisazione, e a far da
perno l’arte intrascrivibile dell’attore35.

Nel lungo titolo Leo affianca il vero (anagraficamente) nome di Mo-


lière al proprio nome francesizzato – quasi a voler replicare anche qui,
complicandolo ulteriormente, il gioco delle identità – come sigillo e
simbolo del percorso dell’attore dell’arte da Napoli alla Francia.
«Né, ce ne vogliamo andare all’estero? All’estero dicono che gli
attori italiani fanno ridere. All’estero dicono: “Ah sono italiani!” E
si mettono a ridere. Iammuncenne va!» «All’estero». E in questo si
condensa e diviene evidente la realtà di un esilio, di un espatrio, di un
déracinement: «So’ migrante» (p. 15).
Quella dell’esilio, del déracinement, d’altra parte, è stata da sempre
la condizione di Leo. Quando si parla di esilio, di déracinement è ine-
vitabile richiamarsi, infatti, non soltanto alla sua biografia (il bere,
l’autodistruzione) ma soprattutto al rapporto con le istituzioni teatrale
e politiche, rapporto non sempre facile, come ha ben illustrato Gianni
Manzella nel suo libro sul teatro di Leo. Allora Il ritorno di Scaramou-
che acquista anche un particolare significato rispetto alla assunzione di
responsabilità che comportava, in quel momento, nel 1995, l’apertura
del ‘suo’ teatro a Bologna.

costruito gran parte del lavoro dell’attore novecentesco – è interessante la posizione


di Besson, per il quale – e lo dice a proposito della messa in scena, oggi, di Gozzi
– «l’improvvisazione non appartiene più alla nostra cultura teatrale» (Intervista a Aldo
Viganò, in E. Sanguineti, L’amore delle tre melarance. Un travestimento fiabesco dal
canovaccio di Carlo Gozzi, Genova, Il melangolo 2001, p. 139). La drastica posizione
di Besson – che ovviamente meriterebbe un discorso a parte – è comunque coerente
con la sua prassi teatrale, che consiste nella ideazione di un piano di regia, precisa e
meticolosa al punto da non variare da un’edizione francese a una italiana dello stesso
spettacolo.
35
  G. Manzella, Leo: sfidare la storia con il teatro, in «Il Manifesto», 4 aprile 1995.
175 Il ritorno di Scaramouche

La polarità fra il déracinement dell’attore (ma anche la sua anarchica


libertà espressiva) e il potere politico, ben presente nei riferimenti alla
corte francese, cioè al contesto ‘storico’ della Francia seicentesca di
Fiorilli e Molière, si ribalta nell’oggi, in un momento storico in cui
l’arte teatrale, «arte primordiale di conoscenza collettiva, laboratorio
per sperimentare la complessità della vita in situazioni semplificate di
spazio e di tempo», appare a Leo «sempre di più diventata falsifica-
zione, riproduzione dell’ovvio, consolidamento del potere e dei suoi
interessi»:

Aprire un teatro è una cosa delicatissima, seppur lodevole: può far bene, ma
può anche far male.[...] Aprire un teatro, oggi, significa, o dovrebbe signi-
ficare, rifondarlo: cosa appunto delicatissima. Rifondare un teatro è come
rifondare una società democratica, basata sull’essere e non sull’apparenza,
sulla giustizia e non sulla rapina, sulla lealtà dei propositi e non sulla mistifi-
cazione, sull’uso corretto ed egualitario dei mezzi, e non sullo squilibrio, sulla
solidarietà concreta e disinteressata, e non parolaia o d’effimero consenso36.

E forse in questa utopia sta il senso di questa «commedia dell’arte


ritrovata e rifondata»37, non come nostalgia di un teatro perduto, ma
per ritrovarvi le ragioni del teatro rispetto alla società e al potere. A
questo allude la ‘tammurriata’ che conclude Il ritorno di Scaramouche:

Danza. Alla fine del brano tutti scendono dal palchetto e sale Leo con un violino.

Leo: Te ne devi andare, uomo piccolino piccolino, tu, Colbert e Mazzarino.


Te ne devi andare definitivamente: quale tregua... mannaggia’ miseria, te ne
devi andare subbito, ommo ‘e niente, da ‘sta terra ‘nfame!

Leo scende dal palchetto, poi avanza, insieme agli altri attori, in proscenio, come
all’inizio dello spettacolo.

Leo: ‘Stu mariuolo ‘stu mariuolo Mo c’arrobba pure ‘o sole.’ Stu mariuolo ‘stu
mariuolo Mo c’arrobba pure ‘o sole. A ballata d’e pezzienti E de chi nun tene

36
  L. De Berardinis, Aprire un teatro, in Scritti d’intervento, in «Culture teatrali»,
2/3, primavera-autunno 2000, pp. 59-60 (intervento dell’aprile 1995, per l’apertura
del Teatro Laboratorio San Leonardo).
37
  F. Quadri, in «La Repubblica», 1 dicembre 1994; ora in «Il Patalogo», 1995, p.
222.
176 Franco Vazzoler

niente Affamati ma decisi Ca’ quaccuno ha da essere acciso. Scaramouche,


nu’ Dio d’attore Faccio a parte d’ ‘o buffone D’ ‘o pezziente e d’ ‘o ricchione
Ma stasera na vota tanta
Faccio ‘a parte ‘e Pantalone.

Franco Vazzoler
«’O culore d’ ’e parole». Il napoletano
di Eduardo per Shakespeare*

Il congedo dalla scena del mondo avvenne per Eduardo De Filippo


nel nome di Shakespeare. L’ultima uscita dalle tavole del palcosce-
nico, la più difficile anche per chi ha la fortuna di nascervi, coincise
con La tempesta, uno dei vertici della drammaturgia mondiale, classico
eterno e pertanto senza storia. A ottantatre anni, con la vista incerta e
il peso di innumerevoli lavori teatrali, conquistato dalle pagine shake-
speariane, Eduardo ne propose la traduzione in napoletano a Giulio
Einaudi nell’aurea collana «Scrittori tradotti da scrittori», su invito
dello stesso editore, che lo avrebbe sollecitato a tradurre Molière, di
cui pure aveva diretto nel 1964 al Piccolo Teatro di Milano Monsieur
de Pourceaugnac.
In tempi celerissimi, dopo aver lavorato per «un mese e mezzo»
durante l’estate del 1983 alle pagine shakespeariane, la sua Tempesta
apparve a stampa all’inizio del nuovo anno e – narra la cronaca – fu
presentata nell’aula magna dell’Università «La Sapienza» di Roma il
29 aprile alla presenza del drammaturgo-traduttore, che ne permise
l’ascolto di alcuni brani da lui appositamente consegnati alla registra-
zione audio. Catturata abilmente la voce di Eduardo da parte di Fer-
ruccio Marotti, che tenacemente continuò a vincere le sue ritrosie e
a incidere su nastro magnetico quanto il Maestro interpretava leggen-
do, la traduzione divenne una straordinaria partitura, a cui Eduardo

* Il contributo vede la luce grazie alle cortesissime e amichevoli sollecitazioni di


Stefania Stefanelli, che qui vivamente ringrazio.

  E. De Filippo, Nota del traduttore, in La tempesta di William Shakespeare nella tradu-
zione in napoletano di Eduardo De Filippo, Torino, Einaudi (Scrittori tradotti da scritto-
ri, n. 6) 1984, pp. 183-187: 187. Su questa traduzione cfr. il saggio di A. Lombardo,
Eduardo e Shakespeare. Parole di voce e non d’inchiostro, Roma, Bulzoni 2004.

  Sulle circostanze della registrazione audio della Tempesta, cfr. la testimonianza di
Ferruccio Marotti raccolta nel volume di scritti documentari messi insieme da E. Poz-
zi, Parole mbrugliate. Parole vere per Eduardo, prefazione di F. Marotti, Roma, Bulzoni
2007, pp. 357-358.
178 Teresa Megale

avrebbe affidato – suo malgrado – la performance finale. Il progettato


spettacolo con le marionette, alle quali egli avrebbe prestato la sua
voce, con l’interpretare tutti i personaggi tranne Miranda – come si
sa –, andò in scena postumo, durante la Biennale Teatro di Venezia
il 4 ottobre 1985 con l’allestimento della compagnia marionettistica
Carlo Colla e figli, le musiche dal vivo di Antonio Sinagra e la cura
del figlio, Luca. Per una sorta di magia che solo il teatro, o la storia,
sanno compiere, l’ultima opera dovuta interamente a Shakespeare fu
anche l’ultima opera di Eduardo De Filippo, che concludeva la sua
vita chino sui fogli bianchi, a cercare «’o culore d’ ’e parole» – per
riprendere l’incipit di una sua poesia –, così come l’aveva cominciata,
quando, ragazzino, trascriveva per la compagnia del padre i copioni
di scena. Con una casualità poco casuale, si chiudeva un cerchio per-
fetto, tanto quanto quello disegnato dal mago Prospero sulla scena
shakespeariana.
Pur essendo accomunati da un implicito riflesso autobiografico,
Eduardo guardò a Shakespeare con gli occhi di un traduttore-rifaci-
tore, di colui che trasforma e manipola con la disinvoltura e l’abilità
di chi sa plasmare la materia teatrale e di chi è avvezzo a trattare le
parole come un dispositivo duttile al servizio della resa scenica. Fu un
caso, riuscito, di traduzione creativa, uno spostamento drammaturgi-
co libero, per quanto fedele. Una fedeltà bellamente proclamata ma
proprio per questo infranta alla prima possibilità. Nel far prevalere
il traduttore-attore e drammaturgo sul traduttore-scrittore, Eduardo
suddivise le battute originali, quasi le frantumò, e le sviluppò per
migliorare il senso della traduzione, per approfondire alcuni signifi-
cati teatralmente fecondi e parlanti. Aggiunse didascalie e disposi-
zioni sceniche per meglio assimilare i movimenti e i comportamenti
dei personaggi alla sua visione drammaturgica del testo e alla sua
idea registica. Inserì metafore e nuove parafrasi. Precisò i significati
dell’originale con il ricorso a detti popolari aventi l’efficacia della
formula. Riscrisse integralmente le parti cantate, pur nel rispetto dei
sentimenti dei personaggi, nel percepire il canto come il momento


  E. De Filippo, ’E pparole, pubblicata in Le poesie di Eduardo, Torino, Einaudi 1975,
pp. 10-11. La poesia è datata 1971.

  «Ho cercato di essere il più possibile fedele al testo, come, a mio parere, si do-
vrebbe essere nel tradurre, ma non sempre ci sono riuscito». E. De Filippo, Nota del
traduttore, in La tempesta di William Shakespeare nella traduzione in napoletano di Eduardo
De Filippo cit., p. 186.
179 «’O culore d’ ’e parole». Il napoletano di Eduardo per Shakespeare

più intimo, con il quale si dimostra e si rivela la vita affettiva di chi è


in scena o – piuttosto – di chi compone i versi. De Filippo, che quasi
mezzo secolo prima aveva tradotto in napoletano Il berretto a sonagli
di Pirandello, nella Tempesta valorizzò le corrispondenze dinamiche
e tradusse a larghe maglie, nel pieno rispetto dei significati proprî
del dramma romanzesco, ma con ampi margini creativi, nei quali
dare sfogo alla sua drammaturgia registica. Fu dunque un’operazione
dialettica, compiuta da ‘un attore che scrive’, il quale, consapevol-
mente, impiegò un napoletano d’invenzione, funzionale a ricreare
un’atmosfera musicalmente arcaicizzante, tuttavia lontana dall’an-
sia di un anacronistico e improbabile recupero filologico. Come egli
stesso annotò: «Quanto al linguaggio, come ispirazione ho usato il
napoletano seicentesco, ma come può scriverlo un uomo che vive
oggi; sarebbe stato innaturale cercare un’aderenza completa ad una
lingua non usata ormai da secoli». Si preparò a questo suggestivo e
teatralissimo impasto linguistico, pieno di richiami allusivi ad una
lingua antica, con la rilettura di alcuni testi della letteratura dia-
lettale napoletana, ossia La Posilecheata (1684) di Pompeo Sarnelli
e La Ciucciede (1724) di Nicolò Lombardo, ma come può fare un
attore-drammaturgo, lasciandosi affascinare senza farsi mai condi-
zionare, afferrando il lessico, trattenendo espressioni, selezionando
parole singole musicalmente attraenti, che poi avrebbe riversato
in un nuovo copione, personale e tuttavia rispettoso dell’impianto
drammaturgico originale. Con l’umiltà di chi ha a che fare con un
modello insuperato, De Filippo, che più volte nella sua lunga pratica
teatrale si è richiamato a Shakespeare, mentre traduceva interpreta-
va e, parallelamente, dava vita ad una scrittura registica. Mentre sfo-


  Ibid., p. 187.

  La circostanza è desumibile da quanto afferma Isabella Quarantotti De Filippo
durante l’intervista rilasciata a Paola Quarenghi, pubblicata in Lombardo, Eduardo e
Shakespeare cit., pp. 55-72: 63.

  I luoghi e i rimandi di Eduardo a Shakespeare, a cominciare dall’atto unico La
parte di Amleto, scritto nel 1940, sono messi in evidenza da S. De Filippis, Shakespeare
e Eduardo: scrittura e riscrittura della Tempesta, in Shakespeare nel Novecento, a cura di
A. Lombardo, Roma, Bulzoni 2002, pp. 187-206. Il contributo supera con argomen-
tazioni condivisibili il giudizio negativo espresso da Wanda Monaco sulla traduzione
eduardiana (W. Monaco, La traduzione in napoletano di The Tempest, in «Anglistica»,
XXXI, 3, 1988, pp. 38 sgg.). Sui numerosi richiami shakesperiani nell’opera di Eduar-
do cfr. anche Lombardo, Eduardo e Shakespeare cit., pp. 15-51.
180 Teresa Megale

gliava il vocabolario della sua memoria linguistica alla ricerca delle


parole più eloquenti o più pregnanti, ‘indossava’ una ad una le voci
di tutti i personaggi. Prima ancora della consapevole registrazione
audio, l’atto linguistico creativo diveniva un atto teatrale ri-creativo
e il dialetto il mezzo privilegiato a cui affidare un importante lascito
biografico e artistico. Prospero, per quel tanto di metateatralità che
racchiude, assumeva sempre più la personalità di Eduardo; Antonio,
il fratello usurpatore che gli aveva sottratto il ducato, sempre più
quella di Peppino; l’innocente Miranda, sempre più quella della fi-
glia adolescente Luisella, tragicamente perduta; Trinculo sempre più
quella di Pulcinella, maschera controversa, amata e odiata, tanto
quanto la città di cui è diretta incarnazione. Persino l’isola dove si
svolge l’intera vicenda si doveva apparentare facilmente con Isca,
l’isola del Mediterraneo di proprietà di Eduardo, dove egli aveva pro-
gettato di mettere in scena proprio La tempesta. Opera del congedo,
fu dunque l’opera del bilancio sentita e particolarmente amata. Non
macchiata da un’operazione mimetica, fu integralmente riscritta in
una lingua scenica nella quale traspare un continuo esercizio lirico-
drammaturgico. Il suo congedo fu orchestrato in una lingua d’in-
venzione poetica dialettale, in modo consapevolmente disorganico
rispetto al suo sperimentalismo drammaturgico. Egli, infatti, aveva
speso l’intera esistenza a costruire una lingua mediana, ‘teatralmente
corretta’, nella quale si componessero e convissero il dialetto e l’ita-
liano, in funzione di una recitazione che sapesse fingere la naturalez-
za. Come ha scritto Claudio Meldolesi:

L’eresia dialettale di Eduardo consisté proprio in questo: che egli attivò la


vitalità dialettale in promiscuità con il teatro in lingua, sovvertendo le distin-
zioni regolamentari; per cui divenne il teatrante italiano più intransigente
verso la recitazione funzionale, con quel suo teatro di identità delle cose, in
cui tutto sembrava a posto, ma in cui, nel profondo, ogni elemento contrad-
diceva la sua immagine.
Anziché costruirsi, come Gassman, una lingua teatrale elevata che gli per-
mettesse di scendere anche alle bassezze del dialetto, e anziché chiudersi nel
dialetto come lingua alternativa, Eduardo lavorò contemporaneamente dal
basso e dall’alto. Assunse il dialetto come lingua usata, non dell’uso; l’assunse
come una realtà destinata a farsi residuale, e evidenziò la sua parentela con la
residualità del dramma borghese che, con Pirandello, appunto, aveva preso
coscienza della sua crisi finale. Residualità del dialetto e residualità del dram-
ma, infine, aprirono uno spazio imprevisto al suo gioco drammaturgico, tra
Questi fantasmi! e Le voci di dentro. Nessuno avrebbe potuto prevedere quello
181 «’O culore d’ ’e parole». Il napoletano di Eduardo per Shakespeare

svolgimento della tradizione napoletana così consapevole della falsità delle


parole, quell’anticipazione dialettale del teatro di Beckett .

Cronologicamente, La tempesta eduardiana arrivò in Italia dopo


quella strelheriana, allestita nel 1978 al Piccolo Teatro di Milano, la
cui traduzione fu commissionata dal regista all’anglista Agostino Lom-
bardo. La traduzione di Eduardo fu una riscrittura di seconda o forse di
terza mano. L’indiscussa autorialità eduardiana ha qui un filtro, rappre-
sentato dal preliminare lavoro di traduzione dell’originale inglese svol-
to da Isabella Quarantotti. Dietro Eduardo agì la stesura in italiano
della moglie, compagna amorevole e traduttrice sicura e spedita, pre-
statasi al ruolo di suggeritrice dei pensieri shakespeariani, di interprete
vicaria, al servizio della creazione del grande attore-drammaturgo, il
quale non mai fatto mistero del suo disinteresse verso l’inglese10.
Con l’invenzione linguistica vi è l’inevitabile acquisizione culturale
della Tempesta, ‘napoletanizzata’ sin da subito, immersa nell’humus del-
la civiltà partenopea da un prolifico attore-drammaturgo-regista che
tenta di assimilare alla sua cultura d’origine quella di Shakespeare, e
di creare un suggestivo ponte drammaturgico tra le pagine del dramma
romanzesco, andato in scena per la prima volta nella corte londinese
durante l’estate del 1611, e le sue, consegnate ad una grafia ancora
in grado di ‘reggere’ l’impatto tattile con il foglio. Complice, forse,
anche il mito, inossidabile e romantico ad un tempo, di un viaggio del
Bardo a Napoli, confluito in anni a noi più recenti nello Shakespea re
di Napoli di Ruggero Cappuccio, Eduardo scelse lo Shakespeare del-
la Tempesta e non un altro per numerose ragioni drammaturgiche, di
diversa validità e importanza. Lo attrassero e lo conquistarono sicura-
mente l’ambientazione marina dell’opera che ben rispecchia la storia
e le origini della città, nata dalla sirena Partenope; la presenza del re
di Napoli, Alonso, e della coppia zannesca formata da Trinculo e da


  C. Meldolesi, La trinità di Eduardo: scrittura d’attore, mondo dialettale e teatro na-
zionale, in Id., Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni sprecate dal teatro italiano, Roma, Bulzoni
1987, pp. 72-73.

  Su tale lavoro, condotto sull’edizione Penguin, cfr. l’intervista di Isabella Qua-
rantotti De Filippo raccolta da Paola Quarenghi, in Lombardo, Eduardo e Shakespeare
cit., pp. 55-72.
10
  «Ho avuto tre mogli: la prima era inglese, cercava di parlare napoletano, io non
ho mai imparato una parola d’ inglese e non me ne importava niente […]». La testi-
monianza è raccolta da Pozzi, Parole mbrugliate. Parole vere per Eduardo cit., p. 344.
182 Teresa Megale

Stefano, il primo dei quali si esprimeva in un napoletano pulcinellesco


nell’edizione strelheriana; ma più di tutto, l’argomento della magia e
delle sue possibilità sceniche, tanto caro a Eduardo, dall’iniziale atto
unico Sik-Sik, l’artefice magico a Questi fantasmi!, fino a La grande magia
e a Le voci di dentro; il valore della tolleranza e della benevolenza che
è il messaggio supremo dell’opera shakespeariana. Come egli stesso
dichiarò nella sua Nota:

La magia, i trucchi di scena, le creature soprannaturali che popolano questa


commedia mi ricordano da vicino una interessante esperienza teatrale che
vissi a diciannove, vent’anni, quando recitavo nella Compagnia di Vincenzo
Scarpetta, il quale decise di riprendere un genere teatrale antichissimo, la Fée-
rie seicentesca che fino a circa metà dell’Ottocento fece parte del repertorio di
molte Compagnie. Scrisse perciò un adattamento della vecchia e celebre I cin-
que talismani, intitolandola La collana d’oro e aggiungendovi il personaggio di
Felice Sciosciammocca. C’era la strega, che veniva uccisa e sepolta dai diavoli
che poi brindavano alla sua morte con bicchieri sprizzanti fiamme e faville;
c’erano le fate, i farfarielli, i folletti, e straordinari trucchi scenici come lo stra-
ripamento d’un fiume, la pioggia di fuoco, il mobilio d’una casa che scappava
via per la porta mentre i quadri roteavano sulle pareti e le sedie ballavano a
tempo di musica… In abiti settecenteschi io interpretavo la parte del Marche-
sino, figlio unico e viziato d’un ricco nobiluomo. Fu un grande successo, e l’in-
canto sottile di quell’ambiente fantastico, ingenuo e supremamente teatrale
mi è rimasto dentro per oltre mezzo secolo, influenzando la mia scelta11.

La tempesta aveva suscitato in lui il ricordo degli anni del suo ap-
prendistato teatrale, anni ‘magici’ non solo per la giovinezza quanto,
piuttosto, per l’esperienza vissuta su un palcoscenico che abilmente
metteva a frutto le risorse sceniche dell’irreale e del soprannaturale.
Il teatro fiabesco che conquistava vaste platee di pubblici ingenui con
trucchi semplici ed efficaci, facendo leva sullo stordimento provato
alla vista dell’inaudito, del meraviglioso, del fantastico. Oltre alla ve-
natura autobiografica, colorata del racconto di prodigi teatrali mozza-
fiato, esiti ultimi di una scenotecnica antica, l’opera shakespeariana
– a ben guardare – sottintendeva anche un narcisistico cimento in-
tellettuale per l’autore-attore-drammaturgo che, al culmine dei suoi
successi e della sua affermazione artistica, poteva dimostrare una volta

11
  De Filippo, Nota del traduttore, in La tempesta di William Shakespeare nella tradu-
zione in napoletano di Eduardo De Filippo cit., pp. 185-186.
183 «’O culore d’ ’e parole». Il napoletano di Eduardo per Shakespeare

di più di poter competere con una delle opere somme della dramma-
turgia di tutti i tempi e di poter elevare la sua lingua d’origine all’altez-
za di Shakespeare, contribuendo per questa via a potenziare le risorse
espressive della sua cultura di appartenenza.
Nella sua scelta agiva forte, sebbene in modo inconsapevole, la tra-
dizione napoletana di tradurre i classici e di adattarli non tanto e non
solo alla propria lingua, quanto alla propria cultura, nel sottoporli ge-
neralmente ad un processo di appropriazione linguistica coincidente
con una piena assimilazione culturale. Non è un caso se, storicamente,
la traduzione e, insieme, il tradimento di numerosi ‘classici’ abbiano
alimentato la produzione drammaturgica e letteraria napoletana, tanto
quanto la sua straordinaria capacità parodica, spiegabile con una spic-
cata vocazione a trasformare in materiale teatrabile quanto di meglio,
o solo di più ‘adattabile’, veniva prodotto dalla cultura ufficiale. Si
pensi, a tal proposito, alla versione in lingua napoletana del Pastor fido
del Guarini compiuta da Domenico Basile; all’Eneide in ottava rima di
Nicola Stigliola; al Tasso napoletano di Gabriele Fasano, per limitare
gli esempi ai casi principali. A ciò si aggiunga, tra Otto e Novecento,
la diffusa pratica teatrale di tradurre soprattutto il repertorio comico
francese, adattato con molta frequenza tra gli altri proprio dal padre
di De Filippo, Edoardo Scarpetta, con una costante attenzione alle
reazioni del pubblico, piuttosto che agli scrupoli filologici. Complessi-
vamente, La Tempesta fu un originale esercizio di stile, condotto su un
doppio registro, culto e fantastico: da una parte il calco di una lingua
antica pre-ottocentesca, recuperata anche attraverso le commedie e i
libretti del notaio Pietro Trinchera, dall’altra le ‘invenzioni’ linguisti-
che nelle quali Eduardo segue la maniera creativa di Giovanni Testori
e di Dario Fo, entrambi rifacitori di un padano in senso teatrale.
Sotto il profilo drammaturgico il punto culminante della Tempesta
coincide con la scena di apertura, quando i flutti stanno per ingoiare
uomini e cose e cancellare per sempre la loro esistenza. La scena in-
cipitaria, dalla forza drammatica insuperata, è volutamente trauma-
tica, in quanto ‘spinge’ lo spettatore dentro il titolo e ce lo immerge
metaforicamente, insieme al veliero del re di Napoli di ritorno dalla
Tunisia. La ciurma che arriva di corsa fra il fragore del mare e dei tuoni
è formata da marinai che proclamano la loro napoletanità come forma
identitaria difensiva. Nell’invocare la Madonna della Catena, Nostro-
mo, che qui non a caso ha il nome di Nicola, il potente santo del
Mediterraneo, chiede l’aiuto di una effige veneratissima nella città,
alla cui protezione affida la disperata difesa della reale imbarcazione e
dei suoi uomini. Con un’assonanza che ricorda la poesia più celebre di
184 Teresa Megale

Antonio De Curtis, il mare stesso è presentato come un’enorme livel-


la, in grado di eguagliare la sorte di tutti. Nella concitazione generale
della scena inaugurale, così parla Nostromo, rivolto a Gonzalo che lo
invita ad essere riguardoso nei confronti dei suoi ospiti illustri:

nostromo: Titò, ccà tenimmo la morte ncopp’a la noce de lu cuollo, quante


ne simmo! Lu mare nun guarda nfaccia a nisciuno. Lu mare, quanno cresce e
caccia li cavallune da dint’a li stalle soje, o se piglia nu Rre o nu povero no-
stromo cumm’a mme, è la mmeresema cosa. Se poi tu, comme a Cunzigliere
de Stato, tiene la putenzia de cunzigliare a lu mare de rinunziare alla ncaz-
zatura de chistu mumento, lu Capitanio cumanda de non sputare nemmeno
ncopp’a lli ffune, nuje nce ne scennimmo sotto e voi date ordine a lu mmare
’e passà lízeto e sprízeto da la tempesta a la bonaccia! Sentite a mme, jatevèn-
ne abbascio. Si lu ppèo arriva, arriva pe’ tuttuquante. (Ai marinai) Guagliú,
figlie ’e mamma, faciteve curaggio! (A cortigiani) E vuje, luvateve ’a miezo,
scennítevènne abbascio, ’o vulite capí, sí o no? Sotto, v’aggio ditto! Luvateve
’a miezo! (Esce di corsa)12.

La battuta shakespeariana è ampliata ed arricchita con opportune


didascalie, assenti nel testo originale, così come eduardiano è il mare-
stalliere, che fa uscire dalle sue stalle «li cavallune», che mutano la loro
forma liquida in potenza animalesca barocca. La stessa metamorfosi è
ripresa all’inizio del secondo atto nella descrizione accorata che Fran-
cisco fa al re del figlio in strenua lotta contro le onde: «Li cavallune
gruosse / li pigliava / pe’ pietto: nce zumpava / a cavallo / e cavalcava»13.
Forte è la risonanza espressiva delle parole, che spazia dalla terminologia
tecnica marinaresca («picco», «velaccio») alla esternazione dei senti-
menti da parte dei personaggi. Si pensi alla «sciorta ngrata», declinata
anche come «sciorta nfama», evocata dai malcapitati, fino allo «nfun-
no», iterato più volte e sfruttato a fine scena, nel momento concreto
dell’affondamento, in anadiplosi e in rima baciata con «munno»:

voci interne […]


Nfunno nce ne scennímmo!
Nce ne scennímmo nfunno!
E nzieme nce ne jammo a l’auto munno!14

12
  Ibid., pp. 6-7.
13
  Ibid., p. 70.
14
  Ibid., p. 10.
185 «’O culore d’ ’e parole». Il napoletano di Eduardo per Shakespeare

Eduardo alzò così il livello di tragicità, ribadito dalla caduta delle


due battute seguenti di Antonio e di Sebastiano, presenti nell’origina-
le shakespeariano e qui sostituite con le parole conclusive di Gonzalo,
rese teatralmente molto efficaci e, di nuovo, messe in rima con effetto
di climax:
gonzalo (rivolto al pubblico):
Si fosse rrobba mia tutto lu mare,
pe’ nu muòjo de terra lu vennesse…
Pure pe’ mmiezo muòjo nce lu desse,
pure pe’ senza niente, si ’o vulesse!15

La comparazione con il testo seicentesco illumina le differenze lin-


guistiche e culturali introdotte da De Filippo:

gonzalo: Now would I give a thousand furlongs of


sea for an acre of barren ground, long heath, broom,
furze, anything. The wills above be done! but I
would fain die a dry death16.

È come se l’attore-drammaturgo-traduttore avesse voluto sfruttare a


fondo l’idea di Shakespeare di «a thousand furlongs», per poi ripren-
dere, in modo più disteso, il concetto, in tal caso ossimorico, di «a dry
death». L’idea primigenia viene assunta ma piegata, come un metallo
duttile, al volere di una intelligenza creativa, abituata a ‘scavare’ nelle
parole e nelle loro riposte possibilità espressive per trarne materia pla-
stica, riciclabile, con i dovuti accorgimenti tecnici, sulla scena. Coe-
rentemente, tutto viene ricondotto e misurato sull’orizzonte culturale
partenopeo. E così Sicurace, madre di Calibano, va ad arricchire il
sabba di Benevento, in completa sintonia con quel manipolo di stre-
ghe da sempre abitatrici di un noce magico.
Tra le scelte lessicali risulta magnifica l’aggettivazione data al son-
no, declinato in «suonno chino»17, «suonno […] grazia di dio»18,
espediente magico e salutare rimedio alle fatiche, qui assurto a po-
tente mezzo drammaturgico. Prospero è un dispensatore di sonno
come Morfeo, oltre che di tempeste come Giove: addormenta Mi-

15
  Ibid.
16
  Ibid., p. 8.
17
  Ibid., p. 165.
18
  Ibid., p. 78.
186 Teresa Megale

randa a scena aperta e poco oltre anche Gonzalo con i cortigiani


Adriano e Francisco (II.1); fa addormentare i personaggi afflitti dai
più acuti dolori, come il re Alonso che crede di aver perduto il figlio
tra i flutti19. Come si sa, il sonno per Antonio diventa la circostanza
opportuna per spingere Sebastiano a compiere lo sventato doppio
delitto di Gonzalo e di Alonso, diventa «na scala pe’ saglire,/ ma pe’
sàgliere ncoppa / ma ncopp’assaje», occasione propizia per dare la
morte20.
Una patina di ricercata arcaicità è ottenuta con l’impiego di pronomi
personali e in particolare di avverbi rafforzati alla latina: «tune» (I.2;
II.1, III.1), «síne», «none», «ccàne», «accussíne», «mmòne», «cchiu-
ne», «purzíne», ma talvolta anche di sostantivi come «papàne»21. In
simile contesto sono diffuse alcune perifrasi popolari che sembrano
attinte al repertorio dell’opera buffa napoletana, ma che sono patri-
monio espressivo e mimetico popolare: «tràseno pe’ na recchia e da
chell’ata se nn’esceno fujenno li pparole»22, «chiagnesse mo pe tan-
no!» «lu cielo ve lu ppava!» «nun ve pigliate collera»23, «se rispetta
lu cane pe’ lu patrone»24, cui si aggiungono alcune frasi proverbiali
dal tono sentenzioso: «In certe tali e quale situazione, ogne pertuso è
puorto!»25 che – messe in bocca a Trinculo – aumentano la resa co-
mica. «La tosse mò la tèneno / purzí pure li púlice…» è il commento
del padre dinanzi alla figlia che tenta di proteggere Ferdinando dalla
sua finta rabbia. «Cumm’è la chianta, accussí la schianta!»26 è il pro-
verbio con il quale Prospero suggella dinanzi ad Alonso il suo giudizio
su Calibano.
Nel tentativo di antichizzare la lingua, De Filippo introdusse l’escla-
mazione «Oje mar’a mmè!», pronunciata da Prospero e iterata da Fer-
dinando27. Isolò alcune metafore pregnanti tratte da una lingua napo-
letana innervata di suggestive immagini e di richiami teatrali: parlare

19
  Ibid.
20
  Ibid., p. 85.
21
  Ibid., p. 107.
22
  Ibid., p. 65.
23
  Ibid., p. 77.
24
  Ibid., p. 117.
25
  Ibid., p. 93.
26
  Ibid., p. 179.
27
  Ibid., pp. 21 e 55.
187 «’O culore d’ ’e parole». Il napoletano di Eduardo per Shakespeare

«a schiovere»28; versare «lacreme a sciummo»29, dormire «a uocchie


aperte»30; «scummigliare l’altarine»31.
L’impiego di diminutivi e di vezzeggiativi durante l’agnizione iniziale
in I.2, quando Prospero rivela a Miranda la sua vita passata, aumenta
il valore narrativo della scena: la «cammesella», la «vesticciolla», le
«cazettelle», le «scarpetelle»32 sono espedienti che enumerano l’affet-
to paterno per la «figlia d’oro», luminosa come l’astro del sole che egli
può governare, ma che si esprime talvolta con il linguaggio figurato e
con la gestica della popolana, più che come la figlia del deposto duca
di Milano, come quando reagisce col dire: «me faccio li ccroce, / m’ad-
denocchio / e mille croce me faccio / a mmana smerza»33. Alla vista di
Ferdinando la sua bocca proferisce aggettivi forti e sensuali: le appare
«nnucente frisco e giovene / assanguato…»34. Altrove, è intensamen-
te poetica, come quando afferma che la legna trasportata da Ferdinan-
do, messa al fuoco, avrebbe pianto invece di ardere, nel compatire la
fatica fisica del giovane:

miranda […]
Nterra, pòsalo nterra chistu ramo.
Quanno lu purtarranno a lu fucone,
mentre mòre abbruciato,
chiagne!
Chiagne penzanno a quanto haje faticato35.

Una sensibilità poetica e drammatica ad un tempo, che Eduardo


sfodera in molti punti, come quando il suo Prospero dice a Miranda
«Asciúttate chist’huocchie mbrillantate / st’huocchie lucent’ ’e lacre-
me chiagnute»36 per tradurre l’essenziale verso shakespeariano «Wipe
thou thine eyes» (I.2.25). In un’altra occasione (la scena terza dell’at-
to terzo) l’impiego dei vezzeggiativi svolge una funzione fortemente

28
  Ibid., p. 72.
29
  Ibid., p. 154.
30
  Ibid., p. 79.
31
  Ibid., p. 56.
32
  Ibid., p. 16.
33
  Ibid., p. 18.
34
  Ibid., p. 110.
35
  Ibid., p. 107.
36
  Ibid., p. 13.
188 Teresa Megale

evocativa. In una battuta costruita sulle rime baciate e sul loro potere
di catturare l’attenzione dell’ascoltatore, il saggio e vecchio Gonzalo
così prorompe ad apertura di scena:

Gonzalo: Me sento ll’ossa rotte, me chiejo int’ ’e denocchie,


nturzate so’ li pede, la pòvera int’a ll’huocchie…
Chest’isola è scurdata dall’uommene e da Dio,
io ce lasso la pelle, è lu destino mio.
Sagliute, sagliutelle e scesulelle…
pertose, pertuselle e grutticelle!
Che ghiurnata sbagliata, che stanchezza:
Majestà, stu viaggio ’e mare è stato na schifezza37!

«Sagliute, sagliutelle e scesulelle, pertose, pertuselle e grutticelle»


che fanno il pari con «papariello»38, «faccella»39, «durmitella»40, «spi-
ritello»41, «grutticella»42, «figliulella»43 distribuiti nella prima parte
dell’opera durante il conversare amoroso fra il padre e la figlia, fra il
potente mago ed Ariele, fra il tenero Ferdinando e il duro Prospero.
Un mondo affettivo, linguisticamente e teatralmente connotato, a cui
fanno da supporto alcune similitudini efficaci sulla scena, cariche di
una particolare carica recitativa:

adriano:
[…]
l’aria fina, delicata,
soave e fresca cumm’a na zetella,
nu zeffirello doce cumm’a na caramella44.

prospero:
[…] ve prometto
mare cumm’a na tavula,

37
  Ibid., pp. 122-123.
38
  Ibid., p. 18.
39
  Ibid., p. 26.
40
  Ibid., p. 28.
41
  Ibid., p. 32.
42
  Ibid., p. 34.
43
  Ibid., pp. 54 e 62.
44
  Ibid., p. 67.
189 «’O culore d’ ’e parole». Il napoletano di Eduardo per Shakespeare

viente roce cumm’a li ccarezze,


na traversata veloce
da secutare
e strapassare
lu riesto della reale
vostra flotta45.
prospero (ad Ariele):
Libero! Cumm’a lu viento
de li mmuntagne46.
prospero:
Veloce cumm’a lu pensiero te voglio […]47.

Calibano è presentato dalle parole di Prospero come «lentigginuso


e curto, / cu na faccia pelosa / e ll’uocchie amare / de lu culore scuro
/ de la loja»48 e da quelle di Stefano come mostruosità da portare in
piazza, probabilmente nel luogo storico cittadino deputato all’esibizio-
ne delle ‘meraviglie’, dei cantastorie e dei ciarlatani, ossia il Largo del
Castello, e da rivendere al migliore offerente. Antonio sul finale lo de-
finisce «nu pesce ncruciato a lu scignone. / A Napule te serve cumm’a
guardapurtone»49, restituendo con un’immagine viva e popolare, di
immediata presa, l’inglese «one of them / Is a plain fish, and, no doubt,
marketable» (v.1.265-266).
Mentre la scena prima del secondo atto si apre con i ringraziamenti
a san Gennaro da parte di Gonzalo, ancora incredulo per la sua salvez-
za, con perfetta simmetria interna, la seconda si apre con l’invocazione
napoletana per antonomasia: «Oje sole mio!»50, pronunciata da Cali-
bano. Le due eterne divinità cittadine, quella cristiana e quella paga-
na, sono citate in contesti diversi e da personaggi opposti, il gentile e
aristocratico Gonzalo e il selvaggio schiavo di Prospero, definito con
un gioco comico di parole, che replica quello shakespeariano, «servo
mostro»51 al posto di «servo vostro» durante l’incontro con la coppia
buffonesca formata da Stefano e Trinculo.

45
  Ibid., p. 181.
46
  Ibid., p. 63.
47
  Ibid., p. 145.
48
  Ibid., pp. 39-40.
49
  Ibid., p. 177.
50
  Ibid., p. 90.
51
  Ibid., p. 115.
190 Teresa Megale

L’elenco degli improperi rivolti a quest’ultimo da parte del fido com-


pagno, elevato a rango di divinità da Calibano, ha un andamento ste-
reotipato, che ben sfrutta la resa mimica teatrale:

stefano: […] (Tira a Trinculo schiaffi e calci) Varvajanne, mamma-


lucco, sarchiapone! Sfratta, và fa’ lu schiattamuorto, và te rompe lu
cuollo! Mò si’ cuntento, baccalà spugnato? (Gli dà un ultimo calcio)
Pigliete chesto52.

Le canzoni sono originalissime. Spazio dell’invenzione incondizio-


nata dell’autore, diventano talvolta il luogo di uno sperimentato e tra-
dizionale lirismo, come nei versi di Ariele, nei quali emerge la grande
tradizione della cultura musicale napoletana:

ariele:
Rosa de maggio
e rose d’ogne mese,
appena torno cercarraggio
scuse
d’averve trascurato…
ma na bacchetta magica
me fece nu signale,
era na cosa seria
e me songo prestato…
Rose de maggio
e rose d’ogne mese,
sto stanco, da lu pietto
sceppateve li fronne
profumate:
preparate nu lietto,
tengo suonno53!

Le due strofe, che rimandano inevitabilmente all’atmosfera della


digiacomiana Era de maggio…, vengono compensate, altre volte, da
versi in rima baciata echeggianti nella loro struttura il teatro di rivista,
di cui pure l’attore-drammaturgo-traduttore aveva fatto ampia espe-
rienza in giovane età:

  Ibid., pp. 118-119.


52

  Ibid., p. 162.
53
191 «’O culore d’ ’e parole». Il napoletano di Eduardo per Shakespeare

calibano (canta):
Bano bano s’ha truvato
nu padrone affezionato,
Cali, ca, Calibano!
Bano bano l’ha lassàto
lu padrone svergognato!
Cali, ca, Calibano!
Bano bano fa li segne
nun trasporta cchiú li llegne,
Cali, ca, Calibano!
Bano bano fa li fatte:
mò nun lava cchiú li piatte.
Cali, ca, Calibano!
Bano bano nun vo’ ll’esca,
nun v0’ fare cchiù la pesca!
Cali, ca, Calibano!
Bano bano l’ha vuluto
p’ ’o patrone nu tavuto,
Cali, ca, Calibano!
Bano bano cu na funa
è arrivato ncopp’ ’a luna!
Cali, ca, Calibano
Cali, ca, Calibano
Cali, ca, Calibano54!

La più celebre ‘aria’ shakespeariana della Tempesta nella versione di


Eduardo suonò così:

prospero: […] Nuje simmo fatte cu la stoffa de li


suonne, e chesta vita piccerella nosta
da suonno è circondata, suonno eterno55.

Testamento di una vecchiaia di attore audace e innovativa, prece-


duta da un pensiero ancora una volta shakespeariano che Eduardo de-
dicò agli studenti romani, nel citare Jaques di Come vi piace: « Il mon-
do è in fondo un gran palcoscenico e la vita una commedia allegra o

  Ibid., pp. 103-104.


54

  Ibid., p. 145.
55
192 Teresa Megale

triste secondo i casi. Per vivere, gli uomini devono adattarsi a recitare
la commedia e debbono anche fingere di divertirsi»56.

Teresa Megale

  E. De Filippo, Lezioni di teatro all’Università di Roma «La Sapienza», a cura di P.


56

Quarenghi, Torino, Einaudi 1986, p. 134.


193 «’O culore d’ ’e parole». Il napoletano di Eduardo per Shakespeare
194 Teresa Megale
Dalla parola al palcoscenico:
le lingue di Chiti, Malpeli, Maraini,
Russo, Scimone, Tarantino*

1. Gli autori e le opere

Le lingue del teatro sono al centro di convegni e giornate di stu-


dio, vengono allestiti questionari all’interno di pagine web, sono
create occasioni d’incontro interdisciplinare. Le lingue dette, reci-
tate, declamate, urlate, raccontate sui palcoscenici d’Italia attirano
l’interesse di linguisti e storici della lingua, di semiologi e storici dello

* Un ringraziamento a Franco Quadri, per i suggerimenti che mi ha fornito nei mesi


che hanno preceduto e accompagnato la stesura dell’articolo; a Dacia Maraini, Rober-
to Menin, Luca Scarlini, Spiro Scimone e Stefania Stefanelli per la prontezza con cui
hanno saputo rispondere ai miei numerosi interrogativi. Questo contributo – apparso
in versione estesa nei «Quaderni del Laboratorio di Linguistica» della Scuola Norma-
le Superiore, V, 2004-2005 – riprende la griglia d’analisi e alcuni degli aspetti trattati
nel saggio Lingue da palcoscenico, in corso di stampa nei «Quaderni dell’Osservatorio
Linguistico».

  Ricordiamo gli incontri annuali sulla drammaturgia contemporanea Scrivere per il
teatro, organizzati a Bologna dal Teatro Nuova Edizione / Teatro delle Moline; il primo
portale dedicato alla drammaturgia italiana <www.dramma.it>; le stimolanti riflessio-
ni anche a carattere linguistico contenute nelle inchieste sullo stato della dramma-
turgia italiana in <www.centoteatri.com>; i contributi e le testimonianze raccolte in
Brandolin, Felice 2000; 2001 e in Binazzi, Calamai 2006.

  Una visione d’insieme sull’italiano teatrale è in Trifone 1994; 2000 e – per il
secondo Novecento – in Stefanelli 1982; 1987, e D’Achille 2001; il teatro in Italia
edito e/o rappresentato nell’anno 2002 è l’oggetto del contributo di La Forgia 2003.
Sul teatro dialettale (ma l’etichetta è senza dubbio riduttiva) si vedano Cortelazzo
2002, e D’Achille 2006 per un’introduzione generale; Farkas 2003 per il teatro ro-
manesco di Zanazzo e Petrolini; Giovanardi 2002 per la Napoli teatrale dopo Eduar-
do; Giovanardi 2006, per il teatro romanesco del XIX e XX secolo; Calamai 1998;
2004 per Ugo Chiti, e Binazzi, Calamai 2003 per un confronto tra Chiti e il teatro
vernacolare fiorentino.
196 Silvia Calamai

spettacolo: il teatro è un intrigante territorio di confine, il cui tes-


suto linguistico da un lato guarda all’oralità e dall’altro si richiama
a molteplici tradizioni scritte. Anche per questo è arduo rintracciare
una linea dominante nella drammaturgia del tempo presente, poiché
molte sono le tipologie di scrittura e diversi gli stili adottati. Di questa
pluralità vorrebbe rendere conto – per quanto possibile – il corpus all-
estito ai fini dell’analisi, con le opere di Ugo Chiti, Andrea Malpeli,
Dacia Maraini, Letizia Russo, Spiro Scimone, Antonio Tarantino.
Visto che il teatro, come molta poesia (la migliore?), si rivolge a
lingue ‘altre’ – minori, periferiche, marginali – oppure offre una rein-
venzione originale di un’oralità che sa ancora molto di dialetto o di
italiano regionale, la scelta si è orientata su copioni che fossero anche
rappresentativi di una specificità regionale, o che comunque fornissero
un quadro in grado di testimoniare alcuni aspetti legati alla cosiddetta
‘geografia del teatro italiano’ (la Sicilia italianizzata di Spiro Scimone,
la Roma di Dacia Maraini, la Toscana di Ugo Chiti, il nord che strizza
l’occhio al sud di Antonio Tarantino). Ma per non limitare il quadro
alle sole (parziali) coordinate geografiche, sono stati inseriti due testi
che non cercassero, nelle intenzioni, una coloritura regionale, Binario
Morto di Letizia Russo e Io ti guardo negli occhi di Andrea Malpeli.
Binario Morto è un testo ‘per adolescenti’ commissionato dal National
Theatre of Great Britain’s Shell Connections Programme: anche l’esotici-
tà dei nomi dei personaggi – Sirius, Spyrus, Kris, Kent, Reiko, Nimar,
Audrey, Doris, Kim – rende l’opera scarsamente connotata dal punto
di vista geografico (le didascalie sono pochissimo informative in tal
senso): le figure evocate potrebbero uscire da un cartone animato o da
un telefilm, naturalmente privo di lieto fine. In Io ti guardo negli occhi,
a dispetto dell’ambientazione e della tematica – un dialogo tra il padre
marocchino immigrato in Italia e la figlia rimasta in Marocco, alle
prese con un difficile rapporto con la madre – e a dispetto dei nomi dei
personaggi (Ahmed, Razeq, Nadir, Fatima, Faruk, Josef, Hella, Said),
non compare alcuna traccia di mimesi linguistica.
I testi scelti sono diseguali per tipologia e per numero di personaggi:
a una pièce per così dire ‘affollata’ e dall’architettura particolarmente


  Abbiamo volutamente escluso dall’analisi i testi appartenenti al teatro di poesia
e al cosiddetto ‘teatro di narrazione’.

  Letizia Russo è presente anche nel corpus di La Forgia 2003.

  Nel progetto si chiede la stesura di un atto unico, con i personaggi di età compre-
sa tra i 14 e i 18 anni.
197 Dalla parola al palcoscenico

complessa (I ragazzi di via della Scala di Ugo Chiti, con trentaquattro


personaggi e una cornice narrativa che racchiude cinque storie molto
differenti tra loro, microdrammi esse stesse), si affiancano pièces con
una decina di personaggi (Binario Morto di Letizia Russo, Io ti guardo ne-
gli occhi di Andrea Malpeli, Un tagliatore di teste a Villa Borghese di Dacia
Maraini) e pièces strutturalmente più semplici, con tre personaggi (La
casa di Ramallah di Antonio Tarantino, Il cortile di Spiro Scimone).
Il Cortile di Scimone è, dopo La festa, il secondo atto unico scritto
in italiano (un italiano che tradisce, talvolta, l’origine siciliana del-
l’autore). Atti unici sono anche Un tagliatore di teste a Villa Borghese di
Maraini e Binario morto di Russo, testo suddiviso in quattordici scene
e caratterizzato da battute spesso brevissime. La casa di Ramallah di Ta-
rantino è composto da quattordici scene e da due post-scriptum, sempre
accompagnati da un titolo; nell’opera compaiono tre personaggi, di
cui si precisano l’età e il legame parentale (il padre, «un vecchio di
cinquantadue o cinquantatré anni», la madre «una vecchia di qua-
rantatré o quarantaquattro anni», la figlia «una ragazza di forse dodici
anni»), oltre a una voce telefonica definita «contatto». La figlia – so-
litamente chiamata Bambina dai genitori – ha un nome, Miryam, a
partire dalla decima scena – nel momento in cui, proprio attraverso
la voce telefonica, si concretizza il contatto con il mondo «là fuori».
Nelle scene I-IX le battute coinvolgono tutti e tre i personaggi: fino
alla quinta sono molto lunghe, con un andamento monologante (la
prima e la terza sono occupate solo dalle parole del padre); diventano
più brevi a partire dalla sesta. Nelle scene XII-XIV e nei due post-
scriptum finali è presente solo la figlia, Miryam. Rispetto alla maggio-
ranza dei testi di Tarantino, non compare alcuna versificazione, men-
tre il tessuto linguistico è quello tipico dell’autore, «con interferenze
tra lingua standard, gerghi e dialetti di area settentrionale» (Ariani,
Taffon 2001, 281). È più tradizionale la struttura di Io ti guardo negli
occhi, testo costituito da tre atti suddivisi al loro interno in varie scene
di lunghezza variabile.
Infine, gli autori sono diversi anche da un punto di vista per così dire
‘anagrafico’: un’autrice giovanissima, Letizia Russo (nata nel 1980),
un autore giovane (Spiro Scimone) e autori affermati, sul piano nazio-
nale e internazionale.


  Colpisce nella didascalia l’uso di vecchio e vecchia in riferimento ai due genitori.

  Se si escludono due ricorrenze nella scena V e un fugace cenno nella scena VI.

  Sulla lingua di Tarantino cfr. almeno De Angeli 1997; Puppa 2001, 341.
198 Silvia Calamai

Non ci soffermeremo sui tratti dialettali dei due testi più connotati
in senso geografico (I ragazzi di via della Scala di Chiti e Un tagliatore
di teste a Villa Borghese di Maraini) ma ci concentreremo sui feno-
meni linguistici che rendono conto di scelte prossime al parlato tout
court. Del resto, più di una varietà di lingua è sfruttata nel testo di
Dacia Maraini: il protagonista e la moglie parlano in romanesco o in
un italiano regionale d’area romana, mentre personaggi ‘alti’ come
Napoleone, Gogol, Goethe, Leopardi utilizzano un italiano aulico e
forbito.
L’analisi qui proposta intende rilevare i fenomeni innovativi che ca-
ratterizzano il tessuto della lingua teatrale contemporanea, nel domi-
nio della morfologia e della morfosintassi (§ 2), della sintassi (§ 3), del
lessico e della semantica (§ 4), della retorica (§ 5), della grafia (§ 6),
della testualità (§ 7). Riportiamo di seguito l’elenco dei testi, ordinati
alfabeticamente per autore, con l’indicazione della prima rappresenta-
zione italiana e le rispettive sigle di citazione:

UC = Ugo Chiti, I ragazzi di via della Scala, in Id., La recita del popolo fan-
tastico (una trilogia), Milano, Ubulibri 2004, pp. 105-159. Prima rappresenta-
zione: Teatro Metastasio, Prato, 10.XII.2003;
AM = Andrea Malpeli, Io ti guardo negli occhi, in «Sipario», 657, marzo
2004, pp. 59-80. Prima rappresentazione: Teatro alle Tese, La Biennale di
Venezia, Venezia 1.X.2004;
DM = Dacia Maraini, Un tagliatore di teste a Villa Borghese, inedito. Prima
rappresentazione: Villa Borghese, Roma, I.VII.2003;
LR = Letizia Russo, Binario morto, in Intercity connections. Nuovi testi per
nuovi interpreti. Dieci testi teatrali per adolescenti, a cura di R. di Giammar-
co, B. Nativi, Roma, Editoria & Spettacolo 2004, pp. 321-364. Prima rap-
presentazione italiana: Teatro alle Tese – La Biennale di Venezia, Venezia
24.IX.2004;
SS = Spiro Scimone, Il cortile, Milano, Ubulibri 2004. Prima rappresenta-
zione: Orestiadi di Gibellina, Gibellina Nuova 6.IX.2003;
AT = Antonio Tarantino, La casa di Ramallah, in Id., La casa di Ramallah
e altre conversazioni, Milano, Ubulibri 2006, pp. 89-130. Prima rappresentazio-
ne: Teatro San Nicola, Benevento Città Spettacolo, Benevento 10.IX.2004.


  Nel caso di testi a stampa, l’opera è citata con il rinvio diretto alla pagina stampa-
ta, mentre non viene dato alcun rimando nel caso dei testi inediti. Per alleggerire l’ap-
parato delle citazioni, gli eventuali tagli sono indicati solo all’interno delle battute.
199 Dalla parola al palcoscenico

2. Morfologia e morfosintassi

Per quanto concerne la derivazione e la formazione delle parole,


sono molto vitali gli alterati, di vario tipo, mentre sono assenti forme
con affissi, prefissi, prefissoidi o suffissoidi. è ricchissima la serie dei di-
minutivi, in -ello (con sfumatura affettiva), in -etto, soprattutto in Un
tagliatore di teste a Villa Borghese, e in -ino10, più frequenti nei Ragazzi di
via della Scala, anche in riferimento a nomi propri11.
Sono più rari gli alterati in -uzzo, sempre con sfumatura affettiva
(tata le labbruzze strette strette [DM]; goethe sulle labbruzze rosa
[DM]); e quelli in -uccio (avaro questa vecchiuccia [UC: 155]). L’uni-
ca ricorrezza del suffisso -òlo è in figliolo, suffisso che nelle varietà to-
scane è generalmente privo di valore diminutivo: signora biagini
Chiamate il mi’ figliolo… Chiamate il mi’ figliolo… [UC: 123].
Compaiono talvolta più diminutivi insieme (tata co sta capoccetta
che tiene [DM]; kent ero cicciottello [LR: 340]), anche nei nomi pro-
pri (tata Giovanninella bella nun se lo scola… [DM]); ci sono infine
forme ‘ampliate’ di diminutivo, dal sapore dialettale, come ad esempio
strettolille (tata le labbra strettolille [DM]).
Tra gli alterati con valore peggiorativo compaiono -accio (avaro co-
deste manacce secche… [UC: 147]; avaro Qualche ragazzaccio [UC:
155]) e -astro (goethe dei giovinastri con il cappello coperto di fioc-
chi [DM]). Tra gli alterati con valore accrescitivo si registrano ricor-
renze del suffisso -one, soprattutto in UC, sia in alcune didascalie (Una
ragazzona con una testa di riccioli neri [UC: 126]; piantata sulle gambone

10
  Si vedano le seguenti attestazioni di -ello: tata ma che ho sposato una puparella?
[DM]; tata eri proprio bruttarella [DM]; tata Bella la sposa… ma un poco antipa-
tichella… [DM]; tata una certa famerella m’è venuta a trattà co sto pazzo [DM]; di
-etto: tata un poco schizzinosetto… [DM]; tata me parete un poco mollaccetto…
[DM]; flautista un uccelletto che si spaventa [DM]; kent Va beh una cannetta [LR:
329]; kris Manco un bacetto [LR: 359]; di -ino: kris calmino eh [LR: 352]; marcel-
lina Al circolino no… [UC: 113]; marcellina un calendarino con le donnine nude
[UC: 133]; principe bestia quelle manine… Quelle bambine… Quel visino delicato!
[UC: 133]; principe bestia una ciuchina, bellina [UC: 135]; giovannino Però, pre-
stino… [UC: 141]; ovidio gli spuntano un po’ di poppine [UC: 142].
11
  In UC, Giovannino e Maurino sono i nomi con cui vengono indicati i personaggi
anche nella didascalia che apre l’opera. Margheritina è in DM, ma per i nomi propri il
testo presenta più spesso forme apocopate, come è d’uso nei dialetti centro-meridio-
nali (v. § 6).
200 Silvia Calamai

larghe s’appoggia il ferro sul braccio [UC: 127]), sia nelle battute (avaro
Vieni qua, puzzona, laidona indecente [UC: 154]), e del suffisso -otto,
all’interno di una didascalia (Marcellina si alza per interpretare la nuova
sposa, una contadinotta greve [UC: 136]).
Nel corpus sono state reperite soltanto due ricorrenze di composti,
malocarattere (tata Ohi che malocarattere! [DM]) e, con valore di-
spregiativo, cispadano (tata Ma guarda sto cispadano qua, che testa
balorda… [DM]).
Sono più scarsi i fenomeni da osservare in relazione alla morfologia
flessiva nel sistema nominale. Per quanto concerne il plurale dei so-
stantivi, c’è una ricorrenza della forma invariata mano, legata proba-
bilmente al sostrato dialettale: suor agata Te ‘e sei lavate e mano?
[DM]; suor agata t’andasse a lavà le mano… [DM]. Si registra inoltre
l’uso di un singolare in luogo di un plurale: kent insieme alla prima
mutanda col sangue di mia sorella [LR: 330].
Nel sistema dei pronomi, in tutti i testi analizzati prevalgono le for-
me lei lui loro in funzione di soggetto:

la figlia Lei è una donna libera [AT: 95]; il padre lei era la sola coi capelli
sciolti [AT: 95]; la madre anche lui veniva a raccogliere i pomodori [AT:
116]; narratore Lei sapeva un po’ leggere [UC: 117]; ovidio Lui si doveva
risposare… [UC: 130]; voce uno loro non sopportano a quelli che gli danno
fastidio!… [SS: 22]; il padre loro ti ragionano come un Apache [AT: 97]; la
madre loro erano più risparmiatori di noi [AT: 101]; mamma Di famiglia, loro
sono piccini [UC: 117]; maurino Loro un poco ci si persero dietro [UC: 129];
nadir loro hanno detto qualcosa [AM: 64]; razeq loro hanno cominciato a
farmi tutte quelle domande [AM: 71].

C’è una sola ricorrenza di essi in luogo di loro, come probabile forma
di ipercorrettismo: tata O morivo io o morivano essi… [DM]; così
come compare una sola volta essa, in una battuta pronunciata da Goe-
the: goethe Se la Legge stabilisce che togliere la vita è un peccato
grave […], perché poi toglie essa stessa la vita? [DM].
Il pronome te in luogo di tu è molto frequente nella Casa di Ramallah
e nei Ragazzi di via della Scala12:

12
  Per interferenza con il sostrato dialettale in Chiti, e come tratto substandard,
anche geograficamente connotato, in Tarantino. Il pronome te non compare mai in
Binario morto (sirius Speravo che almeno tu mi riconoscevi [LR: 328]; spyrus Io ti
tiro la palla e tu me la ritiri [LR: 328]; kris Pure tu [LR: 329]).
201 Dalla parola al palcoscenico

il padre allora te il treno va a finire che lo perdi [AT: 94]; il padre che te ti
eri messa a piangere [AT: 98]; stefano Te non puoi cambiare le regole […]
Te rispetti le regole […] Te devi rispettare le regole! [UC: 114]; giuliano Te
non mi conosci [UC: 122]; renzo Perché te, così, credi di vivere? [UC: 131];
maurino Te non le racconti queste cose, capito? Te stai zitto, capito?! [UC:
158].

Per i pronomi obliqui, gli è forma dativale unica, in quasi tutte le


opere, sia in sostituzione del plurale:

voce uno loro non sopportano a quelli che gli danno fastidio! [SS: 22];
spyrus Appena gli dici il nome vero a quelli ti prendono [LR: 333]; ovidio
Sono così le donne… Più gli puzza e più te la fanno agognare! [UC: 142];
argia tutti quei nipotini… Se gli lascio qualcosa è solo a fin di bene! [UC:
149]; faruk i piccioni freschi […] in cui il sangue pulsa […] e fa pulsare il
cuore di chi gli spara [AM: 69];

sia in sostituzione del femminile, soprattutto nei Ragazzi di via della


Scala:

enrico Marcellina ha i capillari deboli, gli esce il sangue dal naso [UC: 115];
ovidio È sviluppata […] Poi gli spuntano un po’ di poppine [UC: 142]; avaro
Qualche ragazzaccio ha visto questa vecchiuccia […] Magari gl’ha preso la
borsa… [UC: 155].

Va in controtendenza AM, che nella maggior parte dei casi presenta


le: nadir Le ho rubato i soldi; nadir neanche se le mettono davanti
il piatto [AM: 60]13.
Nella Casa di Ramallah e in Un tagliatore di teste a Villa Borghese è
presente anche la forma ci in luogo di gli o le:

tata era il nonno di Suor Agata, che ogni tanto la veniva a trovare in con-
vento e ci portava qualche cesto di rape [DM]; il padre la prima casa […],
che noi avevamo comprato da quella donna che ci avevano uccisi i suoi quat-
tro o sei o dieci […] figli [AT: 97]; la madre a una Bambina […] ci può pure
venire fame [AT: 99]; il padre se qualcuno vuol ficcare il naso io ci pianto il
mio coltellino nella pancia [AT: 108].

  In UC si ha una sola ricorrenza di le: moglie A cosa le serve? [UC: 128].


13
202 Silvia Calamai

In tutti i testi analizzati sono molto frequenti i casi di ridondanza


pronominale (la frequenza è altissima in Binario morto, che presenta
strutture anche ardite di parlato substandard):

uno Anche a lui, un giorno, gli hanno detto che era vecchio [SS: 25]; tata
a lei nun gliela avrei mai tagliata la testa [DM]; tata Ma a voi ve piace
proprio… [DM]; il padre a noi ci basta il tempo che ci divide dal bivio [AT:
107]; la figlia Ma a te dei miei studi non te ne fregava niente [AT: 123]; si-
rius Io a te non ti conosco [LR: 328]; sirius Dammi un nome pure a me [LR:
328]; stefano A me non mi fa punto ridere… [UC: 123]; ovidio A te non
bisogna insegnarti nulla, vero? […] A Maurino, invece, gli ho insegnato tutto
io! [UC: 143]; renzo Al mi’ nonno un fulmine gl’ha mangiato un orecchio
[UC: 157].

Non sono pochi neppure i casi di dativo etico, soprattutto in DM,


AT e LR:

tata me credevo d’esse solo [DM]; suor agata si credono che fra le dita ci
devono crescere i funghi [DM]; tata nun è quer libro che quanno lo leggevi
te ridevi da sola… [DM]; il padre quando il treno ti arriva sparato da Ce-
sarea di Filippo [AT: 93]; la madre E magari il controllore ti avvisa quelli
dello Shin Beth [AT: 120]; kim Come ti credi che fanno negli altri posti [LR:
348]; sirius Che vi credevate. Che decidevate voi. […] Voi vi credevate che
ve l’eravate inventato voi. Vi credevate che potevate fare le cose anche di
nascosto [LR: 361].

Sono presenti anche alcuni casi di risalita del clitico:

tano perché lo vuoi uccidere? [SS: 41]; uno non la fare cadere!… [SS: 44];
uno Ma lo dovreste fare. [SS: 44]; tata Che me voi fà ubriacà? [DM]; tata
era il nonno di Suor Agata, che ogni tanto la veniva a trovare [DM]; tata
del caffè fresco, bono come lo sai fare tu… [DM]; sirius Mi sa che mi devo
cercare un altro [LR: 332]; kris E lui mezza strada non se la poteva fare [LR:
340]; reiko mi sei venuto a dire questa cosa [LR: 344]; kris Chi è questo che
lo stiamo a cercare [LR: 352]; kent Quello che lo stiamo andando a trovare
[LR: 352]; ovidio Non ti volevo offendere… [UC: 110]; giuliano Non lo
dovevi fare! [UC: 122]; renzo Te non lo devi pregare… [UC: 131]; avaro
vatti subito a confessare! [UC: 147].

In Un tagliatore di teste a Villa Borghese sono sporadicamente attesta-


ti casi del dimostrativo quello in posizione topicalizzata, in luogo del
203 Dalla parola al palcoscenico

pronome tonico lui, probabile influenza del sostrato dialettale: tata


Quello Napoleone ha sempre portato li stivali; tata Mi mojie quella
ce vede pure poco; tata la testa si stacca dal collo che quello il con-
dannato neanche se ne accorge…
Ancora in relazione ai dimostrativi, rileviamo che l’unica ricorrenza
del neutro ciò è in una battuta di Leopardi: leopardi si vedeva mani-
festamente che ciò non avveniva per modestia [DM].
Per gli aggettivi possessivi, i casi di posposizione rispetto al nome
non sono interpretabili come scelte marcate, visto che le ricorrenze si
concentrano in due autori di area romana:

tata Dimentica sempre il vino sta moglie mia [DM]; suor agata Io so che li
liquori mia fanno impazzì chi li beve… [DM]; kent A trovare un amico mio
[LR: 340]; kent È un amico mio [LR: 352]; sirius Solo io e l’amico mio [LR:
354]; kris è lui l’amico tuo [LR: 359].

Sono invece marcate in senso diafasico, come mimesi estrema di


parlato connotato anche geograficamente, le perifrasi con la preposi-
zione a in luogo del possessivo (cfr. anche infra): kent Va da mio padre
e gli fa Lo sapevo che era più figlio a me che a te [LR: 330].
I casi di desemantizzazione di questo e quello, con valore di articolo
determinativo, sono molto rari (ovidio Diglielo anche a quegli altri
[UC: 110]).
Le uniche attestazioni del dimostrativo codesto compaiono, prevedi-
bilmente, nel testo di provenienza toscana:

mamma Ma codeste voci, dimmi, ti parlano in latino? [UC: 120]; mamma


Codeste mettitele… [UC: 120]; principessa E codeste unghiacce? [UC: 136];
avaro Vai via, con codeste manacce secche… [UC: 147]; argia Ho visto
codesto mantello [UC: 147].

Per quanto concerne il pronome interrogativo, che è molto più fre-


quente di che cosa:

tano Che vuoi? [SS: 16]; peppe Che ti hanno detto? [SS: 24]; tata che ce
fate qui [DM]; tata che me ne faccio de li sordi? [DM]; ovidio Che ci fai lì
fermo? [UC: 109]; laura Che c’è, amore? [UC: 112]; renzo Che ti costa?
[UC: 131]; avaro Che volete?? [UC: 155]; renzo Che ti costa? [UC: 131];
kris La sai una cosa. kent Che. [LR: 351]; sirius Che ci ha. [LR: 357]; sirius
Che ci ha. [LR: 357].
204 Silvia Calamai

Anche cosa ha più attestazioni di che cosa14:

babbo Cosa c’è capitato? Cosa s’è fatto di male? Cosa? [UC: 120]; moglie
a Ora cosa se ne fa? A cosa le serve? [UC: 128]; tata E cosa conta? [DM];
tata lo sapete cosa è un emolumento? [DM]; il padre cosa si deve dire [AT:
114]; la madre cosa volevi insinuare? [AT: 121]; ahmed Cosa c’è? [AM: 60];
donna delle pulizie sa cos’ho fatto? [AM: 62].

Che cosa è attestato una sola volta nella Casa di Ramallah (il padre
e allora che cosa rompete le mie povere vecchie palle di quasi cin-
quantaquattro anni [AT: 107]), mentre ha diverse ricorrenze in Binario
morto15.
Ci sono poche attestazioni di che in luogo dell’aggettivo interrogati-
vo quale (tano Che invidia? [SS: 41]; stefano vorrei sapere che baco
tu c’hai nel capo! [UC: 124]; stefano Che segreto?! [UC: 143]).
Sono scarse anche le ricorrenze del relativo cui: non è mai attestato
in UC; in SS e in BM compare una o due volte, ma solo all’interno
delle didascalie; mentre in DM è presente soprattutto nei personaggi
più elevati:

faruk il coraggio di fare quello per cui abbiamo lavorato tanto [AM: 69]; la
figlia le formule con cui si giura [AT: 102]; il padre nel momento supremo
in cui compie l’atto [AT: 103]; gogol un male di cui godo… [DM]; goethe in
mezzo a cui si intravedeva il lucore [DM]; cortellazzo il giorno in cui sono
venuto [DM]; goethe nella piazzetta a cui si sfocia da quel vicolo [DM]; tata
se stabilisce er valore della giustizia, per cui er colpevole sa [DM]; leopardi le
parole […] su cui ho lavorato [DM].

Si rileva una estensione degli usi del pronome relativo che anche nei
casi obliqui, soprattutto in LR:

peppe Non sei l’unico che hanno detto così [SS: 24]; peppe Non è l’unico
che gli hanno detto così [SS: 25]; giovanna ha scritto […] un libro che ne
parlòrno tutto er monno… [DM]; tano quella che co’ l’amante ve sete messi

14
  Cosa è frequentissimo in AM (testo che, viceversa, non ha nessuna attestazione
di che), mentre non compare mai in LR.
15
  Ne riportiamo alcune: sirius Che cosa è questa [LR: 327]; sirius Che cosa è
giocare [LR: 328]; sirius Che cosa ci sta dentro [LR: 328]; sirius che cosa mi devi
dire [LR: 355].
205 Dalla parola al palcoscenico

d’accordo pe’ avvelenà er marito? [DM]; kent Nel posto che ci sono nato
[LR: 340]; kent Quello che gliel’ho chiesto prima mi ha detto di no [LR:
352]; sirius Un annuncio che […] ci facciamo sopra una settimana di festa
[LR: 358].

Per quanto concerne gli avverbi, non si registrano ricorrenze di vi, in


nessun testo. È molto diffuso l’uso del ci attualizzante con il verbo avere
(con diverse soluzioni grafiche16), specialmente in Binario morto (ove
l’avverbio è riportato nella forma non elisa), nei Ragazzi di via della
Scala (ove l’avverbio è trascritto con la forma elisa c’), in Un tagliatore
di teste a Villa Borghese (ove si preferiscono le forme con concrezione
ciò, cià, cianno, ma si usano anche varianti con l’avverbio eliso):

kris non ci hai il fiato che ti puzza […] non ci hai i brufoli [LR: 330]; sirius Ci
hai sonno [LR: 336]; laura ci avevo paura [LR: 337]; nimar sento quello che
ci hai da consigliarmi [LR: 343]; reiko Ci hai qualche problema? [LR: 347];
mamma C’aveva in mente una cattedrale… [UC: 117]; stefano che baco
tu c’hai nel capo! [UC: 124]; ovidio c’avevo sei anni… [UC: 130]; principe
bestia C’ho la febbre [UC: 135]; tata nun ciò niente da fare… [DM]; tata
Nun cià grilli per la testa [DM]; tata ciò sempre troppo da fa’ [DM]; agata
nun ciò più le mani bone… [DM]; tata Che testa che ciavete signor Goethe
[DM]; tata cianno ancora voglia de ballà [DM]; tata sta manaccia stupida
che c’hai [DM]; tata c’avete portato da bevere [DM].

In Binario morto, nella Casa di Ramallah, in Un tagliatore di teste a


Villa Borghese compare talvolta pure in luogo di anche, benché sia anche
l’avverbio più frequente, soprattutto nella scrittura di Antonio Taran-
tino (il che farebbe pensare, in ogni caso, a una condizione in qualche
modo più marcata per pure)17:

tata c’è pure ‘na giustizia che lo fa schiattà [DM]; tata pure voi, allora, pure
voi siete accidioso [DM]; leopardi pure io, pure io sono accidioso […] amico
di tutto e di tutti… pure di voi che siete accidioso [DM]; laura Mi serve pure
a me [LR: 338]; reiko Andiamo a letto insieme e sbadiglio pure [LR: 343];

16
  Un analogo problema di rappresentazione è posto dal pronome gli, che nei Ra-
gazzi di via della Scala spesso è eliso: renzo gl’ho fatto il tassello [UC: 156].
17
  Nel Cortile, ad esempio, c’è una solo ricorrenza di pure e molte ricorrenze di
anche: uno Qualche volta le hanno pure scambiate… [SS: 43]. Pure non compare
mai in UC.
206 Silvia Calamai

nimar me lo chiedo sempre pure io [LR: 346]; kent so pure chi sono io [LR:
354]; il padre t’imbarchi tu e tua moglie con tutta la sua mechouia e pure la
Bambina [AT: 94]; la figlia un professore di storia coranica che era pure del-
l’Organizzazione [AT: 102]; il padre il Profeta dirà pure che lo sguardo è tutto
[AT: 103]; la madre tu vorresti pure allungarti su una panca [AT: 120].

In Un tagliatore di teste a Villa Borghese si registrano due ricorrenze


della locuzione concessiva pure che ‘anche se’: tata cianno ancora
voglia de ballà pure che sono morti… [DM]; giovanna pure che sei
morta, a me me piaci lo stesso [DM].
Per quanto riguarda gli avverbi di negazione, mica non compare in
DM e in SS, ha poche ricorrenze in LR e in UC, è invece molto fre-
quente in AT: principessa quelle non erano mica unghie [UC: 136];
reiko a te non t’ho mica illuso [LR: 343]; la madre non ci bado mica
tanto [AT: 99]; la madre e dico i nostri figli, mica quelli dello Shin
Beth [AT: 100]. È rarissimo l’impiego di affatto, attestato – con una
sola ricorrenza – in DM e in AT: cortelazzo senza capelli affatto
[DM]; il padre non ci piove affatto [AT: 97]. In Binario morto, nella
Casa di Ramallah e in Un tagliatore di teste a Villa Borghese ci sono ricor-
renze di manco in luogo di nemmeno / neppure18:

tata manco fosse stata mi fijia… [DM]; giovanna manco sai fa’ un uovo al
tegamino [DM]; tata manco posso acchiappà l’ombrello [DM]; sirius Non si
sono messi manco messi a ridere manco un secondo [LR: 338]; kent Manco
io. [LR: 339]; kent manco un topo abbiamo preso [LR: 351]; il padre senza
manco un minuto di ritardo [AT: 94]; la madre a Nazareth non ferma e man-
co a Cana [AT: 106]; il padre non ci vado, manco morto [AT: 120].

Sono sporadiche le ricorrenze dell’avverbio con valore frasale sicuro


‘di sicuro’, ‘sicuramente’: reiko A me sicuro fra un po’ non me le darà
più [LR: 348]; kim Però sicuro fanno così [LR: 348]; avaro Sicuro!
[UC: 146].
In Binario morto è attestata una espansione degli usi relativi alla pre-
posizione a: spyrus Quello che non ti ricordi ti deve venire a te. [LR:
332]; nimar Mi credevo che eri più amico a me che agli altri [LR:
355]; con i verbi prendere e crescere si hanno due casi di accusativo pre-
posizionale: kris Ti potevi prendere a qualcun altro [LR: 360]; spirus

  Mentre in AT nemmeno / neppure sono largamente presenti, in DM hanno da


18

una (neppure) a tre ricorrenze (nemmeno), e in LR non compaiono mai.


207 Dalla parola al palcoscenico

Io a lui l’ho cresciuto [LR: 360]. Solo una ricorrenza è nel Cortile: voce
uno loro non sopportano a quelli che gli danno fastidio!… [SS: 22].
Per quanto riguarda il sistema verbale, ci sono ricorrenze dell’imper-
sonale si + terza persona, soprattutto in UC e in AT19:

la figlia se si va a ovest si va verso Masada e Gerusalemme […] Se si va


dall’altra parte si va verso la Cisgiordania [AT: 110]; il padre si piscia, si va
al cesso [AT: 122]; stefano per non litigare si mette la regola [UC: 113];
marcellina almeno si sta zitti e non si disturba nessuno [UC: 115]; mamma
Ora ci si mette a letto… [UC: 119]; babbo Cosa s’è fatto di male? [UC: 120];
renzo S’è detto che si usciva assieme e ora si esce [UC: 131]; renzo Ora ci
s’ha un po’ di problemi [UC: 132].

Talvolta compare la forma dice come impersonale, nel senso di ‘si


narra’: nimar Dice che sai tutto e vedi tutto. Dice che stai in ogni
posto [LR: 342].
Per quanto concerne i tempi verbali, si ha un solo caso di presente
pro futuro (sirius Secondo te un giorno me lo ricordo chi sono [LR:
332]).
Il perfetto è vitale in DM e in UC (soprattutto all’interno delle cin-
que storie):

tata quando venne a Roma Napoleone, stesero per terra un tappeto lungo da
qui a San Pietro, una cosa mai vista, e fecero un banchetto con cento portate
[DM]; marcellina Il babbo […] fino a tredici anni lo portò a cavalluccio sul
groppone [UC: 116]; marcellina Dopo quel fatto, per prima cosa, la mamma
smise di farsi ciancicare tanto i capelli, anche perché non c’era più “materia”,
e poi diventò più “pratica” nelle cose, fece ragionare più spesso Giuliano con
il babbo, che lo portò in bottega, gli fece vedere le sete, i damaschi, trattare
con i clienti… Insomma gli insegnò i trucchi del mestiere. Si può dire che per
tre anni Giuliano stette bene, finché un giorno… [UC: 118].

Nei modi verbali si registra una estensione dell’uso dell’indicativo


in luogo del congiuntivo, nelle completive rette dai verbi di dire e di
credere:

19
  Testi che, più raramente, presentano anche casi di forma impersonale preceduta
dal pronome noi: il padre Noi dopo la raccolta di pomodori […], si tornava a est [AT:
109]; danilo Noi non si aspetta nessuno? [UC: 129]; regina noi si dice che la sposina
è andata [UC: 135].
208 Silvia Calamai

suor agata si credono che fra le dita ci devono crescere i funghi [DM]; kris
Penso che non ci puoi fare niente [LR: 340]; spyrus Pensavo che non c’era
bisogno di dirlo [LR: 341]; spyrus Pensavo che ti piacevo [LR: 342]; kim
Come ti credi che fanno negli altri posti [LR: 348];

e anche nelle soggettive costruite con i verbi impersonali dell’appa-


renza:

tata pare che è figlio di un cardinale… [DM]; tata Me pare proprio che è lui
[DM]; tata Me pare che ce n’è rimasto ancora un fonno de bottijia… [DM];
nimar Pare che è tutto infinito [LR: 343]; doris & audrey A me non mi pare
giusto […] Che ci frusta [LR: 348];

così come in quelle costruite con i verbi che indicano un moto del-
l’animo (nimar Non mi piace che Spyrus ti corregge sempre [LR:
341]), oppure con i verbi che indicano una volizione o un’aspettativa
(spyrus Speriamo che adesso sei felice [LR: 342]; kent Preferivi che
te lo dicevo per lettera [LR: 359]), soprattutto in LR. L’indicativo è
documentato anche nella frase condizionale introdotta dalla locuzio-
ne basta che (il padre basta che sulla coppola ci metti le pale di un
Sikorsky [AT: 97]).
In LR compaiono molte attestazioni dell’indicativo imperfetto pro
condizionale:

sirius Non pensavo che ce la facevo. Pensavo che non mi dava retta nessuno
[LR: 338]; spyrus Pensavo che magari cambiavi [LR: 343]; sirius Che vi
credevate. Che decidevate voi. Che io stavo qua e vi facevo da dio […] Voi
vi credevate che ve l’eravate inventato voi. Vi credevate che potevate fare le
cose anche di nascosto di me. [LR: 361].

Più raramente, l’indicativo compare nella protasi e nell’apodosi del


periodo ipotetico dell’irrealtà (kris Se nascevo animale mi suicidavo
[LR: 338]; avaro Se ero demonio vi chiedevo di baciarmi il culo [UC:
148]; madre Se tornavate prima, mi aiutavate a lavare [AM: 66]); così
come è attestato una sola volta – come tratto dialettale centro-meri-
dionale – il congiuntivo pro condizionale (tata Io la testa gliela avessi
tajliata volentieri… [DM]).
In LR è molto vitale l’uso di stare (starci) in luogo di essere (esserci):

kris ci sta un giornaletto che si chiama così [LR: 330]; sirius Ci sta qualcosa
che non va? [LR: 328]; kris È che non ci stanno più i topi di una volta [LR:
209 Dalla parola al palcoscenico

338]; nimar a pensare che non ci sta via di scampo per me. Mi sento male
[LR: 343]; kent Questo quando me ne sono andato via. Non ci stava [LR:
356].

Il verbo stare fa la sua comparsa in DM e LR anche nelle perifrasi


aspettuali stare a + infinito:

tata Me stai a vizià… [DM]; giovanna sta a perde i capelli sto disgraziato…
[DM]; kris me lo potresti dire perché stiamo a andare là [LR: 340]; kent Qua-
si non stai a soffrire [LR: 360]; sirius Perché mi state a rinnegare [LR: 362].

Ci sono due sole ricorrenze del participio passato ito ‘andato’ (argia
la m’è ita bene [UC: 154]; tata dove s’è ito sto Napoleone della ma-
donna? [DM]).
Soltanto in DM e in UC viene usato il prefisso ri-, con valore ite-
rativo (cortellazzo ti rivolevo con me… [DM]; tata Ammazzala,
Giovà, che capelli che riavevi! [DM]; avaro ci si rispoglia [UC: 151])
o derivativo (giovanna Si s’è proprio rinscemito… [DM]).

3. Sintassi

In tutti i testi la paratassi predomina sull’ipotassi e le poche subordi-


nazioni sono solitamente limitate al primo grado:

fatima …Ha detto che chi non paga è come una scheggia […] che si infila
nella mano […] che se non paghiamo lui, lui non può pagare quelli del mer-
cato… che quelli del mercato non scherzano, che una volta uno che conosce-
va non aveva pagato, e quando è tornato il giorno dopo con i soldi […] loro
non lo ascoltavano neanche, e gli hanno preso i soldi e glieli hanno gettati
per terra perché di lui non ne volevano più sapere [AM: 66]

La scrittura di LR tende a segmentare la frase in brevissimi segmenti


testuali (cfr. § 6), con un procedimento di «triturazione sintattica»
(Mortara Garavelli 2004, 62) che richiama certe strategie in atto
soprattutto sulla prosa dei giornali.
Sono rare le congiunzioni subordinanti tipiche di uno stile formale
(pertanto e sicché non sono mai attestate). Finché manca in SS, AT,
DM; in LR è presente soltanto in una didascalia; compare in una bat-
tuta di AM (nadir finché io non mi sarò sposata con un altro, lui
non manterrà la promessa [AM: 79]) e in tre luoghi di UC, sempre
210 Silvia Calamai

all’interno delle leggende (marcellina per tre anni Giuliano stette


bene, finché un giorno… [UC: 118]; giuliano Non ho smesso finché
non sei sparita … Finché non è rimasto che l’ordito del tappeto! [UC:
121]; marcellina Finché era piccino mal di poco… [UC: 133]). Poi-
ché e affinché hanno una sola ricorrenza, in AT: contatto In quanto
nostri parenti tu li dovrai odiare, poiché il male che ti deriva dallo
straniero è un male necessario [AT: 119]; miryam Affinché una nazio-
ne abbia una sua terra, questa terra abbia i suoi uomini che la popola-
no e la lavorano [AT: 118].
Le frasi nominali (con strutture ellittiche di vario tipo) sono presen-
ti in tutti i testi analizzati:

avaro Se ero demonio vi chiedevo di baciarmi il culo… Invece, solo la mano!


Prima il rispetto e poi si ragiona! [UC: 148]; ovidio Tutti via… tutti giù per le
fogne… Bello i’ mondo voto! […] Sai dopo che pulito, che bellezza!… Che
respiro… Che aria! [UC: 157]; tata come ti rimena la cibaria lei, nessuno
al mondo [DM]; hella Quell’albero. Sempre lo stesso, quello di prima [AM:
61]; nadir tutto quello che c’è da sapere. Le cose importanti. […] Domani
alle 11, allora [AM: 79].

Gli enunciati nominali sono predominanti nel Cortile (peppe Nes-


suna parola in questi anni… (Pausa) Solo respiri… [SS: 15]), ove è
scarsissima la subordinazione. Questo carattere sincopato della pagina
di Scimone si accompagna, sul piano della scrittura scenica, a una
presenza insistita di didascalie che indicano il silenzio e la pausa (cfr.
§ 7)20:

peppe Il fioraio… (Pausa) Anche lui aveva delle belle gambe… Ma non come
le mie… (Pausa) Lui soffriva molto per questo… E, una volta, per non farlo
soffrire gli ho fatto vincere un premio minore… (Pausa) E da quella volta, lui,
mi ha sempre pagato da bere. (Pausa) Tano, hai qualcosa da bere? [SS: 17]

Come forme di ellissi potrebbero essere catalogate le espressioni


seguenti (le prime due sono sostitutive di una elencazione): e tutto
preceduto da sostantivo (la madre non ci piove che lui ha tradito
l’Organizzazione e tutto [AT: 101]; il padre se solo avesse avuto un ca-

20
  Cfr. De Matteis 2004, 210, ove si accenna al «tipico stile nominale di Scimone
in un alternarsi di interventi e repliche che disarticolano l’impalcatura sintattica della
lingua».
211 Dalla parola al palcoscenico

nale di comunicazione coi proprietari di tutta la piana di Thamma che


ovviamente, pomodori e tutto, non erano dei nostri ma erano dei loro
[AT: 96]; kent Sai le fiche e tutto [LR: 351]); e tutte le altre madonne
(il padre A Ramallah, con l’interregionale che viene giù da Cesarea
di Filippo, via Corozain, Bethsaida e tutte le altre madonne, si scende
a sinistra [AT: 113]); e allora ciao (se no ciao) seguito da sostantivo (la
figlia e allora ciao verginità [AT: 101]; il padre e allora ciao calma
e sangue freddo […] mi sono dovuto ingegnare a svitare con relativa
calma per non rompere la lama del coltellino se no ciao viti specchio
e pannello [AT: 107]).
Per quanto concerne i fenomeni di messa in rilievo, ci sono molti
esempi di topicalizzazione contrastiva:

tano I parenti, vogliono dal condominio le chiavi [SS: 20]; uno le hanno
detto, che non doveva più svegliarmi la mattina… […] L’unica cosa che fac-
cio la mattina, è pena… [SS: 24]; tata A me ‘sta parola boia, non mi è mai
piaciuta [DM]; mamma Di famiglia, loro sono piccini [UC: 117]; narratore
il babbo e la mamma di San Giuliano, smisero di fare tanto i ‘gestrosi’ [UC:
117]; nadir Razeq, ha preso il rossetto [AM: 62]; primo passante tirare fuori
un coltello, è pericoloso [AM: 76];

e diversi casi di ordine marcato della frase, con l’oggetto in prima po-
sizione:

gogol Un poco di silenzio si potrà avere [DM]; tata una certa famerella m’è
venuta a trattà co sto pazzo [DM]; avaro Un po’ di umiliazione non ha mai
fatto male a nessuno… [UC: 148]; razeq Solo il mio nome hanno battuto a
macchina [AM: 71].

Compaiono pochissime attestazioni di tema posposto:

peppe Puliscimi tu, le labbra! [SS: 18]; josef Oggi andrà a firmare il contratto
per un magazzino il signor Faruk [AM: 72]. Sono presenti alcuni anacoluti:
tata quello gli ho fatto ruzzolà la capoccia una decina d’anni fa [DM]; ahmed
Perché una donna sola su una nave è pericoloso [AM: 60]; fatima L’ultimo
viaggio che ho fatto stanotte, mi sono addormentata [AM: 72].

Sono numerose le frasi con dislocazione a sinistra:

tano I vecchi non li vogliono più in casa [SS: 20]; tata la madre nun ce l’ho
mai avuta [DM]; tata questi biscotti li ha fatti lei [DM]; il padre la casa di
212 Silvia Calamai

Bethsaida ce la siamo comprata [AT: 98]; la madre la Bambina la maionese


la mangia [AT: 121]; kris lui mezza strada non se la poteva fare [LR: 340];
kent Di questo ne parliamo [LR: 364]; mamma Te non l’hai conosciuto il
nonno… [UC: 117]; avaro La strada la sapete! [UC: 146]; hella la valigia,
non l’abbiamo ancora chiusa [AM: 61];

così come sono numerose quelle con dislocazione a destra21:

uno Me l’hanno tolta la casa. […] Me l’hanno tolto il sonno. [SS: 23]; tano
L’ho vista la sua faccia [SS: 30]; tata a lei nun gliela avrei mai tagliata la testa
[DM]; suor agata Te li sei lavati i piedi? [DM]; reiko Ti piacerebbe averceli
due culi [LR: 335]; nimar Me lo trattenevo il pensiero [LR: 342]; maurino
Oggi la disegno io la pista! [UC: 113]; renzo io ce la metto tutta la volontà
[UC: 131]; nadir tu li vedi i miei occhi [AM: 60]; ahmed dove li prendi quei
soldi? [AM: 68].

Ci sono alcune frasi scisse:

il padre è davvero lì che non ci piove [AT: 97]; il padre è in quella casa
che abbiamo fatto tutti i nostri figli [AT: 98]; il padre È con l’intercity che si
scende a destra [AT: 113]; peppe È da un po’ di tempo che non mangio qual-
cosa di caldo [SS: 39]; uno È da quando mi avete dato quel pezzo di pane, che
non mangio più [SS: 41]; kris Sono le prof che sono puttane [LR: 330].

Compaiono inoltre frasi introdotte da è che (non è che):

leopardi È che è difficile manovrare i remi e l’inchiostro e la carta nello stesso


tempo… [DM]; kris È che almeno me lo potresti dire [LR: 340]; nimar È che
dimenticarti. Non ce la faccio [LR: 342]; kent È che me l’ha insegnato mio
padre [LR: 351]; kris Ma non è che è stato lui a farti quelle cose [LR: 353].

Sono poche le ricorrenze della struttura (è) capace che ‘è possibile


che’ + indicativo (il padre il treno è capace pure che lo deviano da
Pella [AT: 103]; il padre magari è capace pure che noi stasera ci ritro-
viamo alla stazione di Bethsaida [AT: 103]; kris Capace che sono tutte
morte [LR: 330]).
In LR compaiono talvolta subordinate esplicite in luogo di subordi-

21
  Cfr. D’Achille 2001, 201, sulla maggiore frequenza di dislocazioni a destra nel
parlato teatrale.
213 Dalla parola al palcoscenico

nate implicite: nimar Te lo dico senza che ti faccio capire che sei tu
[LR: 343]; nimar Senza che gli faccio capire che sono io [LR: 344].
La presenza insistita del che polivalente (in tutta la sua polisemia)
è un tratto che potremmo definire costitutivo nell’opera di Antonio
Tarantino, opera la cui architettura sintattica pare sostenuta proprio
dall’accumularsi ossessivo di questa congiunzione. Si veda, a titolo
esemplificativo, la lunga battuta del Padre, in apertura di testo, dove
l’iterazione di che tiene insieme la logorrea del personaggio, il quale
– all’interno di un lunghissimo periodo ove il punto fermo compare
solo alla fine – subito offre le coordinate spazio-temporali, sociali e
ideologiche entro cui si muove la vicenda22:

il padre Che siamo partiti questa mattina con l’interregionale […] che è
sempre la solita storia che l’interregionale […] ha tutte le porte dico tutte
le porte dei cessi di seconda classe che non chiudono, che uno non si può
nemmeno abbassare un momento i pantaloni che subito ti arriva uno con
tanto di occhiali scuri da marine e con la scusa che i cessi di seconda classe
dell’interregionale […] non chiudono quello ti s’infila dentro che magari sarà
pure uno del Mossad o dello Shin Beth, e ti scruta dalla testa ai piedi prima
di chiederti scusa che tu magari sei lì nell’imbarazzante posizione di chi stia
per compiere l’atto igienico definitivo con tanto di rotolo di carta igienica in
mano, che qui la carta igienica ormai con questa storia dell’occupazione dei
Territori ce la dobbiamo portare da casa noi che magari lo Shin Beth e magari
il Mossad avrà dato lui l’ordine di togliere tutta la carta igienica dalle toelette
di seconda classe dell’interregionale e di tutti magari gli interregionali ma in
particolare dell’interregionale che tutte le mattine viene giù da Cesarea di
Filippo e dopo una breve sosta al primo binario che non c’è neanche il tempo
di prendersi un cavolo di tè verde al bar, che magari è un ordine dello Shin
Beth se non addirittura del Mossad [AT: 93].

Con maggiore o minore frequenza, il fenomeno attraversa tutti i


testi: compaiono nel corpus casi di che temporale (agnese ho inco-
minciato a professare che avevo dodici anni… [UC: 138]; maurino
le rare volte che Dino e Danilo facevano all’amore [UC: 128]; mauri-
no Una notte che tuonava [UC: 129]); di che esplicativo/consecutivo

22
  Con l’insistenza – a nostro avviso potentissima – sulla parola interregionale, che
rimanda a paesaggi e a personaggi molto italiani, a figure di immigrati di un qualche
sud diretti verso un qualche nord (si pensi a questo proposito alla voce di Stabat Ma-
ter).
214 Silvia Calamai

(la madre qui noi non possiamo dormire, che magari tu vorresti pure
allungarti su una panca della sala d’aspetto […], che poi ci arriva un
controllore e ci chiede i biglietti [AT: 120]; tata Venite più vicino
che vi aiuto a scenne… [DM]); di che causale (il padre ma non è
che voglia dirti, […], che nella piana di Thamma proprio non piova
mai, che ogni tanto è chiaro che sui pomodori della piana di Thamma
prima o poi ci piove; il padre ti ricordi di quando avevo comprato un
gallo, che a casa nostra non c’era nemmeno un orologio? [AT: 116]); di
che introduttore di completive pseudo-relative (miryam io vi parlai di
quella cosa che tu mamma mi rispondesti: il pinguino? [AT: 128]); di
che presentativo (kent Sto là che mi faccio una sega [LR: 330]).
Anche in autori che dal dialetto sono consapevolmente passati al-
l’italiano affiorano qua e là dialettalismi sintattici: in SC, ad esempio,
è l’ordine delle parole a tradire la sicilianità dell’autore (tano Io sem-
pre in silenzio leggo il giornale [SS: 19]; uno Ma tra un po’ anche la
voce si prenderanno [SS: 23]).

4. Lessico e semantica

Molte voci rimandano a un registro informale e familiare, tipico del-


l’oralità, come ad esempio fare ‘dire a qualcuno una certa cosa’:

tata Ma chi sei? mi fa quello co na barba che gli arriva ai piedi [DM]; tata
A Roma quando cammino si danno di gomito e fanno: quello è Tata degli
Angeli [DM]; kent Va da mio padre e gli fa Lo sapevo che era più figlio a me
che a te [LR: 330];

o – nel toscano Chiti – levare ‘togliere’23:

giuliano Levare il male dal mondo… [UC: 118]; mamma Levagli il martel-
lo! [UC: 118]; avaro Levatemi una curiosità… [UC: 146]; avaro Non mi
levate più niente… [UC: 152]; sconosciuto Levami le scarpe! [UC: 155];
enrico L’avaro levò una scarpa […] Levò anche quell’altra [UC: 156];

Nel corpus analizzato compaiono cascare per ‘cadere’ (tata me hai


fatto cascà la roba [DM]; ovidio voi ragazzi mi volete far cascare [UC:

  Anche nella locuzione levarsi di torno (tata levatevi di torno, cinghiale! [DM];
23

maurino Ti levi di torno, si sta giocando [UC: 113]).


215 Dalla parola al palcoscenico

110]; maurino casca e si spacca tutto! [UC: 123]); menare per ‘pic-
chiare’ (tano Me menavano daa mattina a sera [DM]); pisciarsi sotto
per ‘avere molta paura’ (tata questi qua se pisciano sotto da la paura
[DM]); raccattare per ‘raccogliere’, anche in bocca a Leopardi (leo-
pardi Aiutatemi a raccattare questi fogli… [DM]); moscio in luogo di
‘abbattuto’ (sirius state qua tutti mosci [LR: 334]); provarci per ‘fare
avances’ (spyrus Sei stata tu a provarci con me [LR: 343]); ripigliar-
si per ‘riaversi, riprendersi’ (reiko Quando arriva ci ripigliamo [LR:
346]); uscio per ‘porta’ (moglie a ha sbagliato uscio [UC: 129]); pigliare
in luogo di ‘prendere’ (principe bestia Piglia quello che ti pare [UC:
137]); poppe in luogo di ‘seno’ (marcellina Con un morso le squarciò
le poppe… [UC: 137]); capo per ‘testa’ (stefano vorrei sapere che
baco tu c’hai nel capo! [UC: 124]); insudiciare per ‘sporcare’ (avaro
tu me lo insudici [UC: 147]); montare per ‘salire’ (hella monta sulla
valigia [AM: 61]); ficcare per ‘infilare’ (faruk me l’hanno ficcato in
bocca [AM: 76]; la figlia i due merdosi dollari te li puoi ficcare su
per... [AT: 125]).
Ci sono voci espressive e popolari come schiattare ‘schiantare’ (tata
uno pure è schiattato per il troppo mangiare [DM]; tata c’è pure ‘na
giustizia che lo fa schiattà [DM]); cacarella, con valore aggettivale in
riferimento a persona paurosa (tata mi mojie […] è un poco caca-
rella [DM]); tirare ‘attirare sessualmente’ (tata la carne je tira e s’ar-
rangiano come ponno… [DM]); capoccia ‘testa’ (tata quello gli ho
fatto ruzzolà la capoccia [DM]; tata siete na bella capoccia signor
Goethe… [DM]); incroccarsi ‘arrabbiarsi’ (tata se te vede si incrocca
[DM]); sberluccicare ‘brillare’ (tata sberluccicavano come tante stel-
le… [DM]); stufarsi ‘irritarsi, seccarsi’ (tata me so stufato… [DM]);
beccare ‘sorprendere’ (il padre mi avevano beccato con un volanti-
no [AT: 96]); ceffo ‘viso brutto’ (il padre tutti quei ceffi del Mossad
[AT: 103]; miryam dietro un banco vidi due ceffi [AT: 126]); bollito
‘scemo, tardo di comprendonio’ (il padre sei bollita! […] la casa se
non sei completamente fusa era a Bethsaida […] la madre Io fusa?
Tu sarai bollito […] il padre vedi che sei cotta, hai il cervello bollito
[AT: 109]); pompata ‘esagerazione’ (il padre quante menzogne dirà
la televisione, o le pompate dei giornali [AT: 120]); crepare (kent Io
aspetto solo che crepa pure lui [LR: 339]; signorina gennari Se non
dormo un paio d’ore crepo prima io di lei… [UC: 114]); rompere ‘di-
sturbare’ (moglie b viene qui a rompere, per telefonare… [UC: 129];
il padre che cosa rompete le mie povere vecchie palle [AT: 107]);
fondelli nella locuzione prendere per i fondelli ‘prendere in giro’ (prete
Mi prendi per i fondelli? [UC: 139]); marchese ‘mestruo’ (ovidio Sento
216 Silvia Calamai

sempre quando una donna c’ha il marchese [UC: 142]); sciamannata


‘sciatta, disordinata’ (tata ne ha seminati la sciamannata… [DM]);
chiappa ‘natica’ (doris & audrey tanto di peli sulle chiappe ce n’avete
la stessa quantità [LR: 335]); fregare ‘ingannare’ (il padre noi sarem-
mo fregati, saremmo impanati e fritti [AT: 108]); fregarsene (fregarsi)
‘non preoccuparsi per nulla di qualcosa o di qualcuno’ (il padre dei
pantaloni chi se ne frega [AT: 96]; la figlia a te dei miei studi non te
ne fregava niente [AT: 123]; spyrus Sai che mi frega [LR: 347]; renzo
Chi se ne frega, se sentono! [UC: 131]); sostantivo + della madonna
(tata dove s’è ito sto Napoleone della madonna? [DM]); pisciare (la
figlia una ragazza va a pisciare [AT: 123]); spurgare ‘buttare liquido’
(tata gli occhi gli spurgano e nun cià fiato [DM]); venire ‘raggiungere
l’orgasmo’ (kent vengo in quel preciso momento [LR: 330]); piccino
(laura quando eri piccino ti piacevano i camion… [UC: 130]); segui-
tare ‘continuare’ (la figlia voi tra di voi seguitate a parlare di pomo-
dori [AT: 101]; renzo io seguito a venire [UC: 111])24.
Una parola chiave, in AT, è cesso: i personaggi non si stancano di
ripetere in maniera quasi ossessiva, in un clima di concitazione e quasi
di terrore (stanno preparando un attentato) che la porta del bagno
dell’interregionale non si chiude bene, così come non chiude bene la
porta del bagno della loro casa. Del resto, proprio nel bagno si prepara-
no azioni politiche e si consumano amplessi; in un paese dove (tutte)
le porte dei bagni non chiudono mai bene il cesso sbilenco è metafora
di un decadimento di ben altro tipo:

il padre l’interregionale che arriva da Cesarea di Filippo ha tutte le porte


dico tutte le porte dei cessi di seconda classe che non chiudono [AT: 93];
la madre i cessi di seconda classe non chiudono mai […] sai quanto me
ne può fregare se fuori da un cesso interregionale di seconda classe c’è uno
stronzo [AT: 99]; la madre venire […] voglia di andare al cesso, anche se è
una toeletta25 interregionale di seconda classe [AT: 99]; il padre chiuso in

24
  Tra le voci espressive che rinviano anche al sostrato romanesco segnaliamo
piagnere (tano Te ricordi come piagneva [DM]), magnare (tano si magnano lupini
[DM]). Per le voci espressive di area toscana presenti in UC il rimando è a Calamai
(2004).
25
  È da rilevare come nella battuta compaia anche il sinonimo più elevato toeletta,
che nel testo ha altre due ricorrenze: il padre avrà dato lui l’ordine di togliere tutta la
carta igienica dalle toelette di seconda classe dell’interregionale [AT: 93]; miryam ho
chiesto dov’era la toeletta [AT: 126].
217 Dalla parola al palcoscenico

un gabinetto26 di un merdoso interregionale con tutte le serrature dei cessi di


seconda scardinate [AT: 107]; il padre c’è un comodo intercity con tutte le
porte dei cessi che chiudono alla perfezione [AT: 121]; la figlia ha fatto finta
di sbagliare cesso […] da noi i cessi sono tutti per i maschi, che quando una
ragazza va a pisciare deve sprangare la porta con un manico di scopa se no si
trova nel cesso tutti gli studenti coranici [AT: 123-124].

Un cenno merita anche l’opposizione ora ~ adesso: adesso non ha


alcuna ricorrenza in UC, ove viene utilizzato ora anche nelle didasca-
lie (renzo Ora ci s’ha un po’ di problemi [UC: 132]; Ora il racconto è
parallelo all’azione, virata in una luce ‘sacrificale’ [UC: 120]; La mamma
e il babbo […] ora schizzano in avanti [UC: 121]); ha due sporadiche
attestazioni in DM (gogol adesso capisco che siete venuto a salvarmi
dall’accidia [DM]; cortellazzo Adesso, fatemi un favore caro padre,
sposateci… [DM]), mentre è molto presente in AT (ove alterna con
ora) e in LR, che non ha mai ricorrenze di ora. Ora compare pochissi-
me volte anche in SS, dove al contrario è più attestato adesso.
Hanno una certa frequenza voci appartenenti a un registro basso
e volgare, soprattutto in AT: cazzata (reiko Perché dici cazzate così
grosse [LR: 342]), cazzo (kris Testa di cazzo [LR: 359])27, insieme alle
forme eufemistiche cacchio (reiko Ma chi cacchio è [LR: 359]) e cavolo
(reiko quanta cellulite avete. Cavolo. Mi dispiace [LR: 334]); incaz-
zarsi (nimar Lo sai che si incazza [LR: 346]; maurino poi s’incazzaro-
no [UC: 129]); cazziare (la figlia È da quando hai posato il culo su
questo schifo di interregionale che stai cazziando mia madre [AT: 95]);
coglione (sirius mi devo cercare un altro coglione [LR: 332]; avaro
Che coglione! [UC: 152]); rompere i coglioni (renzo Te puoi rompere
i coglioni [UC: 111]); rincoglionito (nimar Sei sempre rincoglionita

26
  Compare qui il sinonimo leggermente più ‘elevato’ gabinetto, presente in poche
altre battute e in due didascalie (La Figlia entra nel gabinetto; Entrano nel gabinetto la
Madre e il Padre). Nelle didascalie peraltro il sostantivo cesso non figura mai.
27
  Molto frequente in AT (il padre prima […] della famosa risoluzione tre cinque
sette o quattro nove uno o quattrocentosettantanove, o che cazzo ne so [AT: 104];
la figlia e cercare ‘sto cazzo di supermercato [AT: 105]; il padre e poi Haifa San
Giovanni d’Acri e Naharyyia, che cazzo di nomi [AT: 121]; la madre all’università di
Khibet Sumak, o di Kafr Misser o di che cazzo ne so [AT: 100]), ove peraltro compare
anche la forma femminile la (una) cazza di seguita da sostantivo (il padre può pure
esserci stata una cazza di soffiata di uno dell’Organizzazione [AT: 94]; la figlia può
portare tutta la cazza di mechouia che vuole [AT: 95]).
218 Silvia Calamai

[LR: 362]); palla (avaro Palle… Baggianate! [UC: 153]28); figlio di una
mignotta (tata sto gran fijio de na mignotta [DM]); culo (spyrus quel-
la ci ha un bel culo [LR: 343]; avaro Se ero demonio vi chiedevo di
baciarmi il culo [UC: 148]; gogol brutto scimmione dal culo a pera…
[DM]; la figlia lungo la schiena, e poi sul culo, tra le natiche [AT:
123]); prendere (pigliare) per il culo (reiko Mi prendi per il culo [LR:
334]); fare il culo (a qualcuno) (la figlia se ti sentono ti fanno il culo
[AT: 95]); (avere qualcuno) al culo (il padre con quelli dello Shin Beth
al culo [AT: 107]); fottere (in AT anche nel titolo della scena XI Sare-
mo sempre fottuti; la madre noi due siamo bell’e che fottuti [AT: 120]);
affanculo (miryam vada affanculo anche la storia [AT: 126]).
Alcune voci, più sporadiche, rimandano a un lessico di carattere
coprolalico:

sirius La cacca l’altro giorno non lo so se se n’è andata [LR: 336]; nimar Se
era merda tua a me mi sta bene [LR: 336]; nimar In pratica ci ha solo un culo
in più. Così puoi scoreggiare da due parti [LR: 334]; la figlia si è messo a
litigare con un altro come lui, brutto come lui e stronzo uguale: e uno diceva
all’altro: «Sentimi bene pezzo di merda, i merdosi soldi di quella faccia di
merda li devi dividere con me, chiaro?» E l’altro gli ha risposto: «Sentimi
bene, pezzo di escremento in divisa, questi soldi sono miei, tutt’al più ti posso
dare due dollari...» «Due dollari a me? Senti schifezza umana, i due merdosi
dollari te li puoi ficcare su per ...» [AT: 125].

Compaiono poi termini che si riferiscono alla sfera sessuale: pinguino


e pisello ‘organo sessuale maschile’ (miryam vi ricordate quando vi dis-
si della mia storia col Professore? […] e io vi parlai di quella cosa che
tu mamma mi rispondesti: il pinguino? E tu papà esclamasti: aspetti
già un bambino? [AT: 128]; spyrus Pisello è quello che ci hai in mez-
zo alle gambe [LR: 332]); passera e cicala ‘organo sessuale femminile’
(marcellina La passera, la cicala, insomma: quella… [UC: 138]); tet-
te (kris infermiere colle tette enormi [LR: 330]; la figlia tette culo
cosce: c’è tutto papà [AT: 123]); scopare (kent Te ne devi scopare il
più possibile [LR: 339]); puttana (spyrus Sei una puttana [LR: 347];
agnese Sono stata puttana e puttana resto… [UC: 139, 140]; madre
brutta puttana… [AM: 75]); frocio (nimar lo so che tu sei dio e che
dio non è frocio però… [LR: 355]), insieme alla variante ‘toscana’ fi-
nocchio (maurino Piano, parla piano… Finocchio! [UC: 158]); zoccola
(kent le mie sono proprio zoccole [LR: 330]); (farsi una) sega e finirsi di

  Postillata, proprio dentro la battuta, dalla voce più toscana baggianata.


28
219 Dalla parola al palcoscenico

seghe (kent mi faccio una sega [LR: 330]; ovidio non ti finire di seghe
[UC: 142]); inculare (reiko Se ti inculano ci hai bisogno di incularti
un altro [LR: 343]); troia (miryam «Quella troia», dicevano, «sarà di
cinque mesi», e ridevano [AT: 123]; ovidio le donne diventano più
troie… [UC: 142]); pompino (nel titolo del II Poscritto in AT: La vera
storia del pompino. Ovvero la relazione che passa tra un favore sessuale che
una donna fa a un uomo e la guerra); fare la festa (a qualcuna) (la figlia
proprio a Sassa mi hanno fatto la festa [AT: 101]).
In LR sono numerose le voci del linguaggio giovanile, talvolta con
una sfumatura gergale: pornazzo ‘film porno’ (kent I pornazzi. […]
L’ultimo baluardo della libertà [LR: 339]); cannetta ‘(piccolo) spinello’
(kent Va beh una cannetta [LR: 329]); pippe ‘masturbazione maschile’
(kent mi faccio le pippe col Circolo Pickwick [LR: 330]); caga ‘fifa’
(kent per la caga vengo in quel preciso momento [LR: 330]); prof ‘pro-
fessore/professoressa’ (kris Sono le prof che sono puttane [LR: 330]);
fico ‘persona (o cosa) attraente’ (doris & audrey Però è più fico [LR:
362]) e fica ‘ragazza veramente bella’ (kent Sai le fiche e tutto [LR:
351]); roba ‘droga’ (reiko Chi ce l’ha la roba [LR: 335]); farsi (qualcuno)
‘avere rapporti sessuali’ (spyrus quasi quasi me la faccio [LR: 343]); far-
si ‘iniettarsi droga’ (kim Quando stiamo qua e ci facciamo [LR: 346]).
Compaiono inoltre voci che appartengono al lessico delle ingiurie
e delle offese: grullo (signora biagini Hai diciotto anni, grullo! [UC:
112]); imbecille (stefano Falla finita, imbecille! [UC: 142]); deficiente
(miryam quei deficienti dell’Organizzazione non si decidevano [AT:
126]; maurino deficiente, ritardato te non mi prendi per il culo [UC:
143]); cretino (leopardi maniacali, cannibali e cretini… [DM]); stron-
zo, molto frequente in AT (il padre questi stronzi dello Shin Beth; la
madre quegli stronzi dell’Organizzazione). In UC ricorre anche l’epi-
teto fumettona (nel testo è virgolettato):

narratore La mamma di Giuliano aveva la “fissa” delle grandi imprese…


Dappertutto vedeva tornei, cortei, guerre, assedi, battaglie… Lei sapeva un
po’ leggere e si raccontava le storie! Principessa… Una famiglia perseguita-
ta… Massacrata… Insomma, oggi si direbbe che era una “fumettona”, una
bugiarda nata sputata! [UC: 117].

Sono rarissime nel corpus le voci auliche e letterarie, come ad esem-


pio insoffribile ‘insopportabile’29 e lucore ‘lucentezza, splendore’ (leo-

  L’aggettivo è etichettato come ‘non comune’ dal DISC – ed è voce effettivamen-


29
220 Silvia Calamai

pardi Trovo i romani insoffribili… tata Pure io ve sembro insoffri-


bile? ve ho salvato la vita… [DM]; goethe si intravedeva il lucore
pallido delle statue [DM]).
Compaiono talvolta forestierismi, in DM e in UC nella forma adat-
tata: mesié ‘monsieur’ (tata Sentite, mesié Gogol [DM]), trumò ‘tru-
meau’ (argia a casa m’arriva un trumò [UC: 154]). In AT ci sono
molte ricorrenze di sostantivi arabi, soprattutto in riferimento al cibo
(mechouia, kebab, harissa, cous-cous30), sempre con un effetto di mar-
tellamento ossessivo, come ben mostra la prima battuta ad apertura
dell’opera, ove il padre rimprovera la moglie di essersi fissata appunto
con la mechouia, e il rimprovero è costruito proprio attraverso la ripe-
tizione del sostantivo:

il padre La mechouia la mechouia! Tiri fuori dal tuo borsone tutta ‘sta cazza
di mechouia, ma quanti barattoli ne hai portati di mechouia? Perché, hai
paura che la Bambina si debiliti se non mangia venti panini con la mechouia?
[AT: 93].

In alcuni casi il richiamo a questi particolari cibi veicola un rifles-


sione di carattere sociologico, visto che nei supermercati – come dice
il padre – «ormai non vendono neanche più la mechouia, o l’harissa
in tubetti, ma solo maionese», ed è proprio dall’assenza di mechouia,
cous-cous e kebab che si misura in qualche modo il progresso:

figlia Ti avevo detto di non metterli nella borsa col pane la mechouia e
la pietanziera del kebab, che pazienza il pane, […], ma tu sei o non sei in
grado di capire che un telefonino non può andare a finire né nel kebab né
nella mechouia, che pazienza il cous-cous che poi non capisco perché per un
viaggio di poche ore si debba per forza portare tutta quella roba da mangiare
[…] non capisci che il progresso si calcola anche dal consumo pro capite di
pane mechouia cous-cous e kebab, che più un popolo è evoluto e meno pane
mangia, per non parlare del kebab? [AT: 104]

L’insistenza sul lessico culinario produce effetti evidenti di comicità


quando nella preparazione dell’attentato salta fuori il cibo: il padre

te attestata in Leopardi, come ricaviamo dal GDLI (VIII: 127): «L’uomo col lungo
uso si può assuefare anche all’intera e perfetta noia, e trovarla molto meno insoffribile
che da principio».
30
  Con una diversa resa grafica, il sostantivo è presente anche in AM: nadir Vuoi
che vada a prenderti un piatto di cuscus all’angolo? [AM: 62].
221 Dalla parola al palcoscenico

(Alla madre) Prendi l’esplosivo. No, quella è la mechouia. la madre (Al


padre) Passami il nastro da imballo. No, quello è il kebab! [AT: 110].
In AT sono attestate anche le voci imam (il padre anche l’imam era
scandalizzato), shopping (myriam hanno detto […] «magari quella va
a fare shopping in un supermercato»), check point (la madre tu credi
che ci sia davvero un Check Point Kalandìa?), intercity (il padre È
con l’intercity che si scende a destra).
Ancora in AT sono presenti vocaboli appartenenti al lessico militare,
soprattutto in riferimento a nomi di macchine da guerra (Sikorski, Pat-
ton, Apache, Norton, torretta brandeggiabile tipo Boulton, carrarmato Wit-
ney e Pratt, etc.), vocaboli sempre insistentemente ripetuti dal Padre.
In AT e in UC compaiono inserti di frasi e di parole latine, con due
finalità differenti. In AT le parole latine (le «antiche parole») sono
commentate dalla Madre, la quale attinge alla sua logica spiccia e al
buon senso, scatenando effetti di comicità involontaria:

la madre lei ha anche detto delle parole che adesso io non ricordo tanto
bene, ma che sicuramente risalgono alla dominazione degli antichi signori del-
l’impero, quelli che dicevano... aspetta che ce l’ho scritto su un pezzo di carta,
quella dove ho avvolto il tubetto di harissa, dice: «si vis pacem para bellum»,
che la Bambina mi ha tradotto, dopo avermi detto che anche i signori della
guerra dell’impero di mezzo e quelli di quello attuale dicono la stessa cosa, che
a me mi sembra la cosa più insensata che ci sia, perché se io voglio per esempio
preparare il kebab mica mi metto a fare la mechouia, e allora se vuoi la pace
tu dovrai preparare la pace, non ti sembra? […] quello che non ho ben capito
sono quelle antiche parole che lei nel sonno ha detto, e che sicuramente ci ar-
rivano da quelli dell’antico impero, quello del parabellum, tipo cunnilinguum,
o cunnilinguus, e poi anche fellatio, che però io non le avevo mai sentito
pronunciare: saranno anche quelle parole imperialiste? [AT: 105-106].

In UC, le frasi in latino segnalano in un caso la morte di un perso-


naggio all’interno di una «storia scellerata» (marcellina Dopo un
minuto e mezzo di bacio appassionato non gli resse la respirazione.
Amen.. Ita… De profundis acclamano «inte domini» [UC: 135]); in
un altro caso la fine di una microstoria (marcellina Amen. Ito. De
profundis acclamano «inte domine» [UC: 141]).
Ancora in AT, compaiono molti toponimi, che scandiscono le fer-
mate dell’interregionale e che (ri)creano una possibile geografia:

il padre Ora penso solo a riprendere l’interregionale che da Ramallah mi


porterà nel cuore della notte su per Tel Aviv, Netanya Hadera Haifa, Acri
Tiberiade e Safed, ma prima di fare questo percorso deve scendere giù per
222 Silvia Calamai

Betlemme Ebron Arad Schen e Gaza, per poi risalire, e di nuovo Tel Aviv...
Sono stanco. Ma per la barba del Profeta: c’è un comodo intercity […] che fa
la linea diretta litoranea, Gaza Askelod Rishon Le Tzion Giaffa Tel Aviv... e
poi Haifa San Giovanni d’Acri e Naharyyia, che cazzo di nomi... [AT: 121].

Proforme sono presenti soprattutto in Binario Morto:

kris è stato lui a farti quelle cose [LR: 353]; sirius L’annuncio che vi devo
dire è una cosa seria [LR: 358]; kent Quello di coso lì. Dickens. [LR: 330];
faruk Ho inventato tutte quelle cose senza sapere se erano verità o bugie […]
non sapevo cosa pensare di tutte quelle cose [AM: 73].

Sono molto frequenti le interiezioni, da quelle più connotate in sen-


so geografico (aho, in DM), a quelle più comuni (in LR sono accom-
pagnate da allungamenti vocalici espressivi):

tata aho eri proprio bruttarella [DM]; renzo Oh io seguito a venire [UC:
111]; kris Mh [LR: 331]; kent ero cicciottello eh [LR: 340]; Nimar gode come
in un velocissimo orgasmo nimar Ah ah ah aaaaaah… ([…] Tutti lo guardano.
Lui si sente in imbarazzo.) Ehm… Aaaah… Che dolore… Uuuuuh [LR: 349];
sirius Mmmmmh [LR: 357]; nadir Oh ma io mi nasconderò [AM: 60]; hel-
la Uh, la valigia, non l’abbiamo ancora chiusa […] Uh, ma come si fa a non
sapere quanto si pesa [AM: 61]; nadir Non si dice divina, si dice “mmm-
mmm” [AM: 62]; fatima È strano parlarsi al telefono, eh? [AM: 72].

Almeno in quattro luoghi di Binario morto, all’interno della stessa


scena, lo scambio dialogico è costituito esclusivamente da interiezioni
(sempre oh e eh) che vanno avanti per quattro o cinque battute e che
imitano bene gli andamenti discorsivi del linguaggio giovanile (kris
Oh. kent (piano) Eh. kris (più forte) Oh. kent (più forte) Eh. kris
(forte) La sai una cosa. [LR: 351]): maniera efficace per rappresentare
– forse – il vuoto semantico e la coazione a ripetere di certi meccani-
smi dialogici che facilmente si autoriproducono.

5. Retorica

Le figure più rappresentate nel corpus sono quelle costruite per ag-
giunzione, attraverso la ripetizione o l’accumulazione di segmenti te-
stuali. Ci sono anafore:
223 Dalla parola al palcoscenico

tata Aveva un collo suor Agata, un collo possente […] un collo così nun ce
la fa nessuno a staccarlo [DM]; (in una struttura a climax) maurino Una che
ballava in un locale… Una che fumava in pubblico… Una che accavallava le
gambe quando si metteva a sedere… Una maleducata negli occhi… Spudora-
ta nella bocca… Insolente nel cuore [UC: 126]; sirius L’annuncio che vi devo
dire è una cosa seria. L’annuncio che vi devo dire è una cosa che mi riguarda a
me ma che riguarda pure qualcun altro. L’annuncio è questo [LR: 358];

epanalessi:

gogol se lo aveste visto ballare, era una trottola, una trottola, ma che solleti-
co, che pizzicore… se sapeste, se sapeste… una trottola, una trottola… [DM];
tata Nun riesco mai a parlarci, nun riesco mai a parlarci… [DM]; faruk Non
ti fidavi… non ti fidavi di me [AM: 73]; madre vieni qui, brutta puttana… vie-
ni qui… quale muro?… quale muro?… [AM: 75]; la madre tanto la tua Bam-
bina la conosci a memoria, la conosci [AT: 114]; il padre sui guadagni che io e
te […] abbiamo fatto […] è davvero lì che non ci piove, e non ci piove affatto
non ci piove [AT: 97]; il padre E chi ha detto niente, io strillare, ma io non ho
detto niente proprio, ma proprio niente, che tanto in questa situazione cosa si
deve dire, è chiaro, niente, proprio niente, ma niente niente [AT: 114];

anadiplosi tra due battute contigue (la madre noi due siamo bell’e
che fottuti. il padre Fottuti lo siamo comunque [AT: 120]); e infine
epanadiplosi (suor agata zozzo sei e zozzo rimarrai… [DM]).
Non sono rare neppure le battute ‘segmentate’, che si completano
all’interno del meccanismo dialogico:

nadir lei era sempre immobile papà, e stava…


ahmed Stava…
nadir Stava piangendo [AM: 64]

Dacia Maraini sfrutta il meccanismo della ripetizione nel passaggio


da una battuta all’altra, soprattutto nel finale dell’opera, creando quasi
una litania giocosa (del resto, Leopardi alla fine dell’opera è «un poco
brillo»):

tata e come sono i recanatesi di grazia?


leopardi Sono cortesi, affabili, disposti ad aiutare chi abbisogna di una mano,
sono pensierosi e amano il silenzio… ma a conoscerli bene possono anche ri-
velarsi accidiosi, biliosi, rabbiosi, maniacali, cannibali e cretini… […]
224 Silvia Calamai

tata Ah, perciò sono accidiosi, biliosi, rabbiosi, maniacali e cannibali e cre-
tini… pure voi, allora, pure voi siete accidioso, bilioso, rabbioso, maniacale,
cannibale e cretino…
leopardi Sì, lo confesso, pure io, pure io sono accidioso, bilioso, rabbioso,
maniacale, cannibale e cretino… ancora un poco di passito per carità… mi
sento così leggero, amico di tutto e di tutti… pure di voi che siete accidioso,
bilioso, rabbioso, maniacale, cannibale e cretino…. (si allontanano abbraccia-
ti, ripetendo fino alla nausea il ritornello “pure voi però, pure voi siete accidioso,
bilioso, rabbioso, maniacale, cannibale e cretino” […]).

La frequenza delle ripetizioni – di varia tipologia: morfologiche, sin-


tattiche (si pensi all’iterazione del che polivalente), lessicali – caratte-
rizza anche tutta la scrittura di Antonio Tarantino.
Compaiono talvolta casi di climax (nell’esempio, con iterazione del-
l’aggettivo dimostrativo): miryam In fondo, questa irragionevolezza,
questo rifiuto del senso comune, questa follia, non si chiama forse
STORIA? [AT: 130].
Colpisce la struttura dialogica dei testi di Spiro Scimone: nelle sue
opere (anche in quelle siciliane) il dialogo è nella maggior parte rap-
presentato da battute brevi, brevissime, dal ritmo martellante e osses-
sivo ottenuto, nelle strutture domanda-risposta, mediante la ripetizio-
ne della domanda in forma assertiva. Queste risposte, che potremmo
definire ‘risposte-eco’, sostituiscono nella maggior parte dei casi bat-
tute olofrastiche del tipo Sì / No (che pure ci sono, in alternativa, a
costituire una sapiente partitura):

peppe Fino in fondo?


tano Fino in fondo.
peppe Non ti hanno preso a bastonate sul più bello?
tano Non mi hanno preso a bastonate sul più bello. […]
peppe Non è proibito?
tano Non è proibito. [SS: 30 e 31]31

In altre risposte viene parzialmente riutilizzato il materiale lessicale


presente nelle domande (una sorta di ‘ripetizione differente’):

31
  ‘Risposte-eco’ sono anche nei Ragazzi di via della Scala, ma su un piano differente
(non la riproduzione di una sorta di grado zero del meccanismo dialogico, piuttosto
la sottolineatura enfatica del già detto): mamma Vedrai, passa… Passa… narratore
Passa! Passa! È una parola! [UC: 119].
225 Dalla parola al palcoscenico

peppe Hai bussato a qualcuno?


tano Ho bussato a tutti.

peppe E non ti hanno aperto la porta?


tano Qualcuno mi ha aperto la porta. [SS: 42]

L’abilità estrema nel confezionare dialoghi apparentemente semplici


è emblematica in questo scambio fulmineo, ove a partire da una do-
manda neutra, puramente referenziale, si giunge allo scatto finale:

peppe Hai qualcosa da bere?


tano Dell’acqua.
peppe Non hai qualcosa di forte?
tano Ho dell’acqua.
peppe Con le bolle?
tano Senza bolle.
peppe Fa digerire l’acqua con le bolle… Fa digerire tutto.
tano Io non voglio più digerire tutto!… [SS: 17]

I dialoghi di SS sfruttano molti meccanismi comici, come mostra


nell’esempio (beckettiano, anche per il rimando alla scarpe) la rispo-
sta finale, logica ma profondamente spiazzante:

uno Mi dovreste schiacciare la testa. (Pausa) tano Mi dispiace… non lo


possiamo fare! uno Ma lo dovreste fare. tano Non lo possiamo fare. Noi
non possiamo schiacciarti la testa. uno Perché? tano Non abbiamo le scarpe
adatte! [SS: 46]

In quasi tutti i testi sono presenti dialoghi ficti, facoltativamente in-


trodotti da verbi di dire o da fare. Spesso non compare un soggetto
esplicito, come mostra il monologo di Tata ad apertura di DM, mo-
nologo che ‘mette in scena’ un dialogo fatto di domande e di risposte
con un personaggio appena appena specificato, e che consente a Tata
una sorta di autopresentazione (peraltro dichiarata all’interno della
battuta stessa, come si rileva dal primo esempio):

tata Dice… ma ndó vai, di notte […] io vado, vado perché me piace annà…
de notte? Sì, de notte […] ma chi sei, mi fa quello co na barba che gli arrivava
ai piedi… lo vuoi proprio sapé? E io me presento subbito; tata Mi hanno
detto: ah Tà, […] tornatene a casa!… […] Dice: la città di Roma, per com-
penso, ti dà un emolumento di 400 scudi…; tata Ma chi sei? mi fa quello co
226 Silvia Calamai

na barba che gli arriva ai piedi; tata quando cammino si danno di gomito e
fanno: quello è Tata degli Angeli.

La presenza insistita del discorso diretto riportato in apertura della


pièce viene richiamata anche nel finale, nel momento topico in cui la
moglie di Tata svela al pubblico di essere ormai morta, come del resto
sono morti tutti gli altri personaggi:

giovanna m’ha detto… ah Giovà… pure che sei morta, a me me piaci lo


stesso… sta a perde i capelli sto disgraziato… ndó li hai cacciati tutti li ricci
che avevi? Mo se mori pure tu io che faccio? [DM]

Quando non è introdotto da verbi di dire, il discorso diretto ripor-


tato viene segnalato, più tradizionalmente, attraverso le doppie vir-
golette, oppure attraverso i due punti (è il caso di AT), o attraverso
l’iniziale maiuscola (è il caso di LR): miryam Eppure è così: sono gli
scherzi della storia, che poi aggiungesti: vada affanculo anche la storia
[AT: 126]; kent Va da mio padre e gli fa Lo sapevo che era più figlio
a me che a te [LR: 330]; spyrus Mi ha detto Mh quella ci ha un bel
culo [LR: 343]. A volte un ausilio viene fornito anche dalla didascalia,
come nell’esempio seguente, ove peraltro è da notare la frammentazio-
ne delle battute, con molti punti di sospensione:

avaro Se viene qualcuno, io non l’ho vista… Anzi, no. “Sì… è passata, m’ha
lasciato il secchio e la scopa…” (Entra sempre più nella pantomima dell’interroga-
torio) “Dove andava? Non me l’ha specificato… M’ha detto qualcosa… Mi pare
che andasse da un certo ebreo… […] Valla a sapere la verità…” [UC: 155]

In AM il discorso diretto riportato è sempre introdotto da verbi di


dire o da frasi nominali con l’esplicitazione del soggetto prima della
battuta riportata, con evidenti finalità disambiguanti:

nadir lei […] ha detto «E questo cos’è» e Razeq ha detto: «Non me lo metto
mica […]» E lei: «Non piacerà a Abdul […]», «Perché?» ho detto io, e lei: «Tu
stai zitta» [AM: 62]; nadir Ieri si è messa a letto… «Portala lontano Nadir»,
«Dove mamma?», «Non so Nadir, portala in un campo e lasciala mangiare
per tutto il pomeriggio» [AM: 68]; nadir «Razeq sarà un’ottima moglie» ho
detto io, e li mi ha chiesto: «E questo sarà stato solo un sogno? » «È stato tutto
così perfetto oggi!» ho detto io, e lui: «La perfezione non è completa […]» e
in quel momento è entrata Razeq, e ha detto che lo aspettavamo di là per una
fotografia, e lui ha detto: «Avrò pazienza, saprò aspettare» [AM: 79].
227 Dalla parola al palcoscenico

Soltanto in UC compaiono detti e rime, nel ragazzo apparentemen-


te più cattivo e insolente della pièce (maurino Sia lodato Gesù Cristo,
che è passato e non s’è visto […] Sant’Agnese con le pezze del mar-
chese lucidava i mobili… […] San Battista con la fava a pista… [UC:
123, 141, 142]).
Sono sporadiche le ricorrenze di onomatopee: tata e trac, calo la
mannaia [DM]; kent SBOM s’apre la porta [LR: 330]; marcellina
Contò: uno… due… tre… quattro e pum!! [UC: 141]; narratore il
babbo e la mamma di San Giuliano, smisero di fare tanto i ‘gestrosi’, i
‘ficosi’, gli ‘ucci, ucci… pissi, pissi ciucci, ciucci’ [UC: 117].

6. Grafia e momenti metalinguistici

Tra i fenomeni di allegro o di parlato veloce cui ricorrono molti te-


sti teatrali per riprodurre il parlato colloquiale e dare il senso di una
pronuncia più aderente alla realtà dello scambio dialogico, è da men-
zionare l’elisione vocalica, che acquista un carattere marcato quando i
timbri delle due vocali a contatto non sono coincidenti:

uno Me l’hanno tolti i miei figli [SS: 23]; tano Ti ricordi che t’avevo detto di
avere pazienza… [SS: 39]; tata Così m’ha insegnato mi madre… [DM]; gio-
vanna che t’ha detto? [DM]; la madre quando la Bambina s’era appisolata
[AT: 105]; il padre prim’ancora di entrare nella stazione [AT: 108]; kris M’ha
pure morso [LR: 339]; kim t’ho pure salvato [LR: 348]; kim E che ne so chi l’ha
mai visti [LR: 348]; ahmed non t’ha voluto dire il nome? [AM: 63]32.

La frequenza delle elisioni vocaliche è massima nella pièce di Chiti,


ove il fenomeno compare persino nelle didascalie (piantata sulle gam-
bone larghe s’appoggia il ferro sul braccio [UC: 127]).
Un’altra caratteristica riconducibile al parlato veloce – o, almeno,
al ‘parlato parlato’ (ma non priva di influenze dialettali) – potreb-
be essere la frequente abbreviazione di nomi propri e di sostantivi
come Giovà ‘Giovanna’, Tà ‘Tata’ in DM, o Ma’ per ‘mamma’ in AT:

32
  In DM compaiono anche casi di mancata elisione, ma solo in un personaggio
‘alto’ (leopardi Ve ho salvato la vita…). In AM i personaggi che presentano elisioni
hanno anche forme non elise (ahmed Se non ti ha voluto dire il nome [AM: 63]), a
segnalare forse – almeno in questo testo – una variazione pressoché libera tra presenza
/ assenza di elisioni vocaliche a confine di parola.
228 Silvia Calamai

il padre il segnale di via libera, vero Ma’? [AT: 111]; miryam Senti
Ma’ […] Ma’, non bisognerebbe mai dare nulla per scontato. Eppure
fosti tu, Ma’, a narrarmi per filo e per segno di Sabra e Chatila [AT:
129]. Ancora tra i fenomeni di parlato veloce, citiamo le molte for-
me aferetiche del dimostrativo, presenti in DM (anche per influenze
dialettali) e in AT:
tata dove s’è ito sto Napoleone della madonna? [DM]; tata ce fantasticavo
su sto padre [DM]; tata te la taglierei tanto volentieri sta manaccia [DM]; il
padre tutta ‘sta cazza di mechouia [AT: 93]; la figlia ‘sto cazzo di supermer-
cato [AT: 105]; il padre Quando riparte ‘sto interregionale? [AT: 112].

Sono pochissimi i casi di allungamenti vocalici, segnalati dalla ripe-


tizione della vocale: uno Aiutooo! [SS: 41]; tutti Sììììì [LR: 335]. In
Binario morto troviamo l’indicazione di pronuncia sillabata, scandita
e enfatica, attraverso l’inserimento del trattino: sirius Io. Sono di-o.
[…] Io sono. di-o. […] Io sono dio. […] Io. di-o. [LR: 363].
È attestato un caso di epitesi di -ne negli ossitoni (none ‘no’ [DM]);
e un caso di apocope vocalica (la figlia Si scende e bòn [AT: 113])33,
entrambi riconducibili a influenza del sostrato dialettale (centro-me-
ridionale per l’epitesi, settentrionale per l’apocope).
Per quanto concerne i segni paragrafematici, rileviamo un uso abba-
stanza frequente della maiuscola enfatica. In AT compaiono Bambina
e Ma’ (e la maiuscola di Bambina in bocca ai due genitori crea un effet-
to stridente con l’azione drammatica, visto che i due accompagnano
la figlia verso la morte suicida)34: il padre hai paura che la Bambina si
debiliti [AT: 93]. In AT Dio è sempre indicato con l’iniziale maiuscola
e solo nella chiusa il sostantivo è minuscolo: nel punto in cui si nega
la sua esistenza la parola diventa un nome comune:

la figlia vedo tutto e di tutto posso dar conto: e cioè che dio non esiste, che
pace e guerra sono destinate a inseguirsi nel cerchio rovente del tempo, come
s’inseguono amore e odio, salute e malattia, giorno e notte, sole e pioggia,

33
  In DM è molto frequente il troncamento dell’ultima sillaba degli infiniti, tratto
tipico delle varietà centro-meridionali. Ci sono casi di apocope sillabica per sono,
variamente trascritti (tata sò il boia Tata degli Angeli…; tata so’ rinomato; suor
agata In questo convento so tutti zozzi).
34
  In AT hanno l’iniziale maiuscola anche Territori e Organizzazione (il padre qui
la carta igienica ormai con questa storia dell’occupazione dei Territori ce la dobbiamo
portare da casa noi; il padre magari a Cafarnao c’è uno dell’Organizzazione).
229 Dalla parola al palcoscenico

padri e figli, noi e loro, la loro storia e la nostra: e nessuno ha ragione, com-
pletamente ragione, né completamente torto [AT: 127].

Il nome della divinità è in minuscolo in LR (spyrus E chi sei. sirius


dio [LR: 344]) e in AM (nadir dio non mi ascolta [AM: 61]).
In AT e UC compaiono anche parole scritte interamente in maiu-
scolo, indice di estrema enfasi:
Il Padre RAMALLAH! […] eravamo arrivati fino a RAMALLAH, che
Ramallah non era che un paesino35 […] il mare, Miryam, il MARE, che tu
mi avevi detto che avresti voluto una casa in riva al mare [AT: 104]; miryam
A parte il fatto che quelli — LORO — non sono che un esercito […] Cercai
di dominare, di cancellare l’inutile sentimento di pietà, pensando che anche
i bambini – QUEI BAMBINI — non sono che soldati in erba […] Già, non
furono LORO i macellai: furono i falangisti maroniti: dei cristiani. Pecca-
to però che gli accessi ai campi profughi fossero, allora, presidiati dai carri
Makerba: i LORO carri. […] In fondo, questa irragionevolezza, questo rifiuto
del senso comune, questa follia, non si chiama forse STORIA? [AT: 129-130];
marcellina San Giuliano sentiva LE VOCI. […] Ormai, LE VOCI, aveva-
no trovato il buco dell’orecchio [UC: 119].

In LR la maiuscola estesa a tutta la parola indica il rumore (kent Sto


là che mi faccio una sega tranquilla di quelle senza fretta a un certo
punto SBOM s’apre la porta [LR: 330]), oppure segnala la modalità
d’eloquio («voce urlata»), ma in quest’ultimo caso è coadiuvata dalla
didascalia (kent (urla subito) Eh? [LR: 352]).
La maiuscola compare infine in AT, in alcune abbreviazioni cifrate,
dalla forte allusione sessuale (Ca, Fi, Cu, Me), che peraltro vengono
ripetute dalla madre, come se fossero parole di un misterioso codice
politico, con effetto straniante e decisamente comico:

la figlia tu col tuo Ca dentro la mia Fi, e io con gli occhi nei tuoi occhi? […]
il professore mi spiegava che: «Se c’è Dio siamo a cavallo, ma se non c’è ce
l’abbiamo nel Cu per tutta l’eternità» [AT: 116-117]; la figlia quel profes-
sore infilava […] il suo Me nella mia Fi [AT: 102]; la madre ha pronunciato
nel sonno delle strane parole che non le avevo mai sentito dire: a parte il
Ca e la Fi oppure il Cu, che potrebbero anche essere parole misteriose che

  Come mostra l’esemplificazione, la parola Ramallah ricorre anche in caratteri


35

normali.
230 Silvia Calamai

l’Organizzazione imprime nel cervello dei suoi membri […] E lei dovrà magari
pronunciare delle parole senza senso, come Cu o Ca o Fi [AT: 105].

In relazione agli altri segni paragrafematici, in SS e in AM si rileva


un uso insistito dei punti di sospensione, accompagnati spesso dal pun-
to esclamativo o dal punto interrogativo (faruk Il cielo è scuro oggi
vero?… [AM: 80]; peppe Dammi un po’ d’acqua!… [SS: 32]). In SS
compaiono spesso doppi e tripli punti esclamativi: uno Mi uccidono a
bastonate!! Aiutatemi!!! Mi vogliono uccidere a bastonate!!! [SS: 41].
Solo in LR compare il simbolo ‘/’ a fine battuta, a segnalare la sovrap-
posizione dei turni dialogici, con evidente mimesi del ‘parlato parlato’:
«un segno nel testo come questo / indica che la battuta (o l’azione) che
segue deve sovrapporsi alla precedente» (dalla N.d.A. di p. 326):

laura Perché lo so che ci sei tu che sai tutto /


sirius Sono onnivoro /
spyrus Onnisciente [LR: 337].

Veniamo ora ai segni d’interpunzione. In AT compare un uso molto


esteso dei due punti, spesso dopo la congiunzione e, a segnalare in
qualche modo una pausa dal valore esplicativo: la madre le unghie
mi venivano via per colpa delle cassette che dovevo issare sul rimor-
chio del trattore e: dài oggi dài domani, le unghie chiaramente ti si
staccano [AT: 114]. I due punti vengono usati anche in sequenza, uno
dopo l’altro, con un effetto di accumulo e di giustapposizione che mu-
tatis mutandis richiama quello creato, sul versante sintattico, dalla serie
di che polivalenti posti l’uno di seguito all’altro:

miryam che ti devo dire: ma quale martire: se fossi riuscita ad aprire la porta
di quel cesso […] non andate a casa vostra stanotte: scendete dall’interregio-
nale alla fermata di Amatunte, poi di lì andate a Cafarnao, o a Tiberiade: ma
non andate a casa perché a quest’ora la vostra casa è stata fatta saltare con la
dinamite: tutto per aria, anche l’unica gallina che avevate [AT: 126].

Colpisce in LR un uso della punteggiatura particolarmente eccentri-


co: in primo luogo gli enunciati che – pragmaticamente – dovrebbero
essere domande non sono quasi mai accompagnate dal punto interro-
gativo ma dal punto fermo (spyrus Che fai. sirius Non lo so. […] si-
rius Perché non ti inchini. [LR: 327]); inoltre il punto fermo compare
anche dove ‘normalmente’ dovrebbe comparire una virgola, in molti
casi persino tra reggente e subordinata completiva:
231 Dalla parola al palcoscenico

sirius Io mi ricordo. Che qualcuno mi ha detto che la gente si deve inchinare


davanti a me [LR: 328]; spyrus Allora. Se a te ti sta bene. Ti chiamo Sirius va
bene [LR: 329]; sirius È che io mi ricordo. che mi hanno detto che gli altri si
devono inchinare [LR: 333]; nimar È che dimenticarti. Non ce la faccio [LR:
342]; nimar Però a pensare che non ci sta via di scampo per me. Mi sento
male [LR: 343].
Infine, non di rado il punto fermo divide il soggetto dal verbo (ni-
mar Pare che è tutto infinito e questo. Non mi sta bene [LR: 343]); o
addirittura isola singole parole, persino connettivi (sirius Ci sto bene
sopra a questa collina. Però. Mi vorrei ricordare chi sono [LR: 332]). Il
segno della virgola è quasi assente all’interno delle battute (compare
molto spesso nelle didascalie); nei luoghi in cui questa potrebbe (do-
vrebbe) essere inserita di solito non compare niente:

kent Va beh una cannetta due chiacchiere [LR: 329]; kent Sto là che mi
faccio una sega tranquilla di quelle senza fretta a un certo punto SBOM s’apre
la porta [LR: 330]; kent Sta zitta lo guarda sta zitta esce [LR: 330]; reiko Lo
sapevo che mi amava me l’ero sempre immaginato [LR: 343]; kent Non sai
fare niente non sai manco chi sei [LR: 354].

La limitazione dei segni di interpunzione e l’utilizzo – insistito – del


punto fermo producono un effetto di rallentamento e di dilatazione.
Sempre in LR, compaiono scambi dialogici spiccatamente metalin-
guistici:

sirius Dammi un nome pure a me.


spyrus Un nome.
sirius Sì. Io voglio vivere sopra a questa collina. Tu dammi un nome e inse-
gnami a fare le cose. Così io mi posso ricordare.
spyrus Allora. Se a te ti sta bene. Ti chiamo Sirius va bene.
sirius Va bene. Adesso. Insegnami. [LR: 328-9]
spyrus E amante è il contrario di /
sirius Gatto.
spyrus Mamma! Mamma! Amante è il contrario di mamma. […]
sirius Però i calci al neonato glieli so dare.
spyrus Pallone. Ti ho detto che si chiama pallone.
sirius Per una mostarda che sbaglio.
spyrus Parola! Si chiamano parole. [LR: 331]

Il personaggio di Sirius impara la lingua di Spyrus, e questo appren-


dimento avviene per via soprattutto lessicale (dare nomi / dire nomi).
232 Silvia Calamai

Ma il ricorso al metalinguaggio e una certa tendenza per così dire ‘no-


minalistica’ sono talvolta il pretesto per parlare di altro (per esempio
della morte):

spyrus è morto. Lo vado a seppellire. Poi vado a giocare.


sirius Che significa che è morto.
spyrus Che bisogna metterlo sotto alla terra e non chiamarlo più. Mi hanno
detto che è questo. [LR: 328]

In un deserto siffatto, dunque, la morte diventa una questione di


parole, quasi un ‘sentito dire’ (Mi hanno detto che è questo).

7. Testualità e conclusioni

Sui fenomeni deittici all’interno del corpus molto potremmo scri-


vere, vista la rilevanza della deissi all’interno del parlato teatrale. Ci
limitiamo a segnalare alcuni casi di deissi che rimandano all’hic et nunc
dell’azione drammatica – ai luoghi, ai tempi in cui si svolge l’azione,
alle persone presenti e assenti nello scambio dialogico, ovvero ai luo-
ghi e ai tempi e alle persone di un passato raccontato ed evocato – e
che risultano essere molto frequenti in AT:

il padre siamo partiti questa mattina con l’interregionale [AT: 93]; il padre
prima che un colpo di mortaio non ti riducesse in questo stato [AT: 98]; il pa-
dre circolano certe facce su questo treno [AT: 108]; la figlia Qual è il cesso
più sicuro? il padre Quello indietro. la madre No, quello avanti. la figlia
quello che si raggiunge nella direzione di marcia dell’interregionale, o quello
che sta nella direzione contraria? la madre Quello meno bucherellato dallo
Shin Beth [AT: 110]; la madre hai visto quei due ceffi? Guarda là, non guar-
dare in qua, ma non li vedi, quei due lì con quelle scarpacce da giocatori di
quel gioco che bisogna infilare la palla in una cesta, quella roba che guardavi
tu in televisione […] Quei due là, con quella tuta [AT: 112].

Ci sono inoltre espressioni deittiche che rinviano a gesti o ad azioni


dell’attore, accompagnati da una glossa anche verbale (tata lei ride-
va, così, chiudendosi la bocca co la mano [DM]). Ci sono infine casi
di deissi slegata:

tata Venite qua… de qua che è più asciutto… [DM]; tata So nato qui [DM];
il padre Prendi l’esplosivo. No, quella è la mechouia la madre È questo?
233 Dalla parola al palcoscenico

[…] Passami il nastro da imballo. No, quello è il kebab! il padre Eccotelo


[…] la madre Dammi quella roba. la figlia Non così Ma’: questo è plastico.
il padre Ma non così [AT: 110]36.

A volte compaiono allusioni semantiche veicolate quasi esclusiva-


mente dalla gestualità, come nell’esempio seguente: ovidio Ce n’è
una in Comune, dove lavoro io, che per quattro, cinque giorni… con
tutti (Gesti) [UC: 142].
I segnali discorsivi sono numerosi e ricorrono, con alcune differen-
ze, in tutte le opere del corpus. Tra i segnali più frequenti compaiono
insomma:

la madre dovrà cercare lì il soldato che è passato a loro […], quello che quan-
do era con noi ci faceva il doppio gioco contro, mentre adesso che è con loro
continua a fare il doppio gioco, ma per noi: quello lì insomma [AT: 105]; nar-
ratore La mamma di Giuliano aveva la “fissa” delle grandi imprese… Dap-
pertutto vedeva tornei, cortei, guerre, assedi, battaglie… […] Insomma, oggi si
direbbe che era una “fumettona”, una bugiarda nata sputata! [UC: 117];

e soprattutto allora, utilizzato spesso in funzione di presa di turno o con


valore conclusivo (‘dunque’, ‘insomma’):

renzo Allora? Insomma li vuoi o non li vuoi? [UC: 111]; renzo Allora, gio-
vanotto? [UC: 131]; principessa Te! E io, allora? [UC: 136]; maurino Al-
lora? Si gioca o non si gioca? [UC: 143]; signorina gennari Allora, volete
stare zitti? [UC: 144]; spyrus Allora non ci vieni a giocare […] Allora ciao
[LR: 327]; spyrus Allora. Se a te ti sta bene. Ti chiamo Sirius va bene [LR:
329]; sirius E allora. nimar No, è che ieri ti abbiamo leccato le scarpe a turno
fino alle tre e allora... [LR: 334]; reiko E allora? Ci hai qualche problema?
[LR: 347].

Ci sono ricorrenze di dai (enrico torna indietro, dai: tu sei fuori


dalla pista! [UC: 114]; laura Dai, Renzo, sali in casa… [UC: 157];
spyrus Dai. Te l’ho detto tante volte. [LR: 331]; reiko Dai tanto lo
so che facciamo pace. [LR: 347]), e ricorrenze di forza (stefano For-

  Tutta la scena sesta (La vestizione) è comunque piena di elementi deittici che
36

producono un effetto altamente comico, esplicitamente dichiarato dalla figlia con


una battuta che offre anche un gustoso spunto metateatrale: la figlia Dio mio che
commedia! [AT: 110].
234 Silvia Calamai

za… Torna indietro! [UC: 114]; avaro Forza, ci si rispoglia [UC: 151];
avaro Chiedete… forza! [UC: 153]; sconosciuta Forza prendetemi!
[UC: 153]).
Tra i segnali di tipo rafforzativo, eccome ha una sola ricorrenza in DM,
è relativamente frequente in AT, ma non compare mai negli altri testi:
goethe Avete sentito parlare di me? tata Eccome!… [DM]; il padre
alla fine sganciano, eccome se sganciano [AT: 97]; la madre nel mera-
viglioso paese Bethsaida dove tra l’altro ci piove eccome [AT: 99].
Sono più rari i segnali e sai (renzo E sai, gli è speciale… [UC: 157])
e che in prima posizione, come presa di turno (tata Che, me lo chiedi?
[DM]). Ben più numerose sono le ricorrenze del segnale beh:

spyrus Beh vergine… [LR: 337]; nimar Beh così. All’improvviso [LR: 363];
la madre Be’, mi sembra esagerato andarsela a prendere adesso proprio con
Ramallah [AT: 121]; miryam Be’, veramente li ho dovuti benedire io [AT:
118]; tata Beh, l’odore è bono…; tata beh, però che male c’è a fantasticare?
[DM]; leopardi Beh forse voi avete genitori venuti da altre parti d’Itaglia
[DM].

Varie attestazioni hanno anche il segnale vero, che chiede e anticipa


l’assenso dell’interlocutore:

tata li ha fatti lei, co le su mani…vero suor Agata? [DM]; spyrus Me la porti


via vero [LR: 358]; ovidio Hai messo una bicicletta in mezzo all’androne
vero? [UC: 110]; avaro Avete detto dieci ducati, vero? [UC: 150]; la figlia
non se ne accorgeranno, vero Pa’? [AT: 111];

e davvero:

tata Dite davvero? [DM]; goethe Davvero fate il boia?… [DM]; kent Che
ci sta un solo essere femminile per ogni uomo. […] Sembrano tante ma è una
sola e nasce per succhiarti il cervello via dalle orecchie. kris Davvero. [LR:
339]; angelo Davvero? Non mi pare… [UC: 122].

È molto frequente ecco, spesso accompagnato da avverbi (qua, qui)


o da pronomi personali (anche con valore di dativo etico), segnale
discorsivo di per sé molto teatrale, per il suo carattere fortemente deit-
tico. Ecco è presente in UC, AT, AM e in DM, mentre manca in LR
e SS:

hella Ecco, vedi che si chiude… Ecco [AM: 61]; mamma Ecco! Guarda come
staresti bene! [UC: 117]; babbo Eccomi… Eccomi… [UC: 120]; marcellina
235 Dalla parola al palcoscenico

Ecco, solo Giovannino si è commosso [UC: 141]; la madre Ecco che ritorna
[AT: 107]; la madre Eccolo il grande pescatore [AT: 114]; tata Eccola che
arriva [DM]; giovanna Ecco qua, ti ho portato un poco di castrato [DM];
tata ecco, io le avrei tagliato il collo [DM]; goethe Ma ecco d’improvviso si
ode uno squillo [DM].

Un’attenzione particolare deve essere riservata anche alla dida-


scalia, che costituisce nell’opera teatrale una sorta di testo parallelo,
formalmente più corretto o – se si preferisce – più ‘scritto’. Le pièces
analizzate presentano alcune differenze anche per questo aspetto: ci
sono didascalie molto narrative (come in UC e in DM, ad esempio) e
ci sono didascalie scarne, ridottissime (come in AT). Le didascalie che
indicano i vuoti sonori sono assenti in DM, in AT e in AM; compaio-
no a volte in UC (piccola pausa, pausa, silenzio); ricorrono spesso in LR
(breve pausa, pausa, lunga pausa, silenzio) e spessissimo in SS (pausa, si-
lenzio, lungo silenzio). L’unica caratteristica comune nella scrittura del-
le didascalie all’interno di tutto il corpus è la presenza di frasi nominali
e di enunciati indipendenti:

L’interno della casa di Faruk.


Una grande stanza vuota, piena di piccioni. Una fila di finestre. Alcune con
dei vetri rotti. Per terra cocci di vetri, qualche calcinaccio e mattoni rotti.
[AM: 65]
Spyrus e Sirius bambini. Sirius è immobile in mezzo al palcoscenico. Si è
perduto. Dopo un minuto arriva Spyrus. In una mano ha una palla. Nell’altra,
facendolo passare dietro la schiena, ha un sacco nero che sembra abbastanza
pesante. Vede Sirius. Gli si avvicina. [LR: 327]

In quasi tutti i testi l’ambientazione è descritta con precisione (soli-


tamente ad apertura dell’opera), così come sono analiticamente elen-
cati i movimenti e le azioni dei personaggi; soltanto in AT le didasca-
lie si limitano a segnalare soprattutto a chi è indirizzata la battuta del
personaggio (alla Madre; al Padre) e qualche sparuta azione.
Anche nella componente paratestuale e metatestuale, dunque, ogni
autore procede secondo la propria sensibilità, così come secondo la
propria peculiare sensibilità attinge dal grande serbatoio della lingua
parlata, selezionando – più o meno consapevolmente – certi fenomeni
e scartandone altri. È dunque possibile individuare, all’interno del cor-
pus, affinità e opposizioni: tra le affinità, segnaliamo una tendenza co-
mune a sfruttare sistematicamente gli alterati, la presenza dei pronomi
obliqui in funzione di pronomi soggetti, la ridondanza pronominale, i
numerosi fenomeni sintattici di messa in rilievo. Ma il testo di Letizia
236 Silvia Calamai

Russo, ad esempio, che pure presenta tratti di mimesi forte del parlato
(anche substandard), non utilizza mai te come soggetto; o ancora, la
pièce di Andrea Malpeli – che pure presenta numerosi casi di disloca-
zioni – non ricorre mai alla ridondanza pronominale.
Andrea Malpeli e Antonio Tarantino – che mettono in scena perso-
naggi ‘altri’, marocchini nel primo caso e palestinesi nel secondo – rap-
presentano due poetiche teatrali diametralmente opposte di fronte a
un problema drammaturgico comune (come rappresentare sulla scena
il parlato di stranieri): il carattere referenziale e poco espressivo del
tessuto linguistico di Io ti guardo negli occhi stride di fronte alla scrittura
espressionistica della Casa di Ramallah, in cui i tre personaggi palesti-
nesi parlano in un italiano vivo e popolare, a tratti fortemente sub-
standard. Ma le strade sono ancora molte: la scrittura di Spiro Scimone
guarda oltremanica, a Beckett e a Pinter, e tuttavia le movenze sintat-
tiche sono talvolta ancora siciliane. Dacia Maraini si confronta con il
romanesco e come tanto teatro usa il codice della lingua per differen-
ziare i personaggi: dialetto e italiano regionale per i personaggi bassi,
italiano standard con forme lessicali talvolta auliche per i personaggi
elevati (nella fattispecie elevatissimi poiché esponenti del mondo let-
terario essi stessi); così fa, mutatis mutandis, il Chiti surreale delle «cin-
que storie scellerate», riprodotte in bocca toscana, ma senza nessuna
concessione alla facile vernacolarità. Il teatro dunque offre ancora un
laboratorio linguistico in cui si può inventare, mescolare, pasticciare,
poiché proprio dentro il teatro «la parola vive di una doppia gloria»:

E perché? / Perché essa è, insieme, scritta e pronunciata. / È scritta, come la


parola di Omero, / ma insieme è pronunciata come le parole / che si scam-
biano tra loro due uomini al lavoro, / o una masnada di ragazzi, o le ragazze
al lavatoio, / o le donne al mercato – come le povere parole insomma / che si
dicono ogni giorno, e volano via con la vita,

come lucidamente ‘dettava’ l’ombra di Sofocle in Affabulazione.

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