Strumenti
Varietà dell'italiano
nel teatro
contemporaneo
a cura di
Stefania Stefanelli
© 2009 Scuola Normale Superiore Pisa
isbn 978-88-7642-363-5
Indice
Presentazione
Stefania Stefanelli vii
gua tra italiano e dialetti, che spesso viene a torto confinata nei secoli
anteriori al nostro mentre ancora oggi, sia pure in termini assai mutati,
ogni parlante avverte l’eredità della propria storia linguistica. Accen-
nando qui ai contributi presentati nella Giornata di studio – in rigoro-
so ordine di apparizione, come si conviene a un contesto spettacolare
– le approfondite analisi tematiche e linguistiche condotte da Gabriel-
la Alfieri su un grande della letteratura e del teatro, Giovanni Verga,
nel momento in cui affronta, mediante la scrittura drammaturgica,
la bipolarità culturale nord-sud, sono seguite dallo ‘scavo’ condotto
da Pietro Trifone sullo sperimentalismo linguistico, ma anche lettera-
rio, che caratterizza l’atto unico di Italo Svevo. Paolo D’Achille, con
l’acutezza che è sua, scandaglia il comico di parola in personaggi del
calibro di Ettore Petrolini, Achille Campanile, Franca Valeri; segue
il ritratto a tutto tondo, fatto da Anna Barsotti, di una giovanissima
autrice, Emma Dante, e del suo dialetto palermitano. Claudio Giova-
nardi dimostra con estrema efficacia come la poliedrica molteplicità
dei linguaggi rappresentati da Giuseppe Manfridi non possa ridursi
alla mera formula del ‘plurilinguismo’ e Franco Vazzoler si accosta a
un grande protagonista della scena novecentesca, Leo De Berardinis,
con una (ben nota) competenza critica e una sensibilità interpretativa
che gli consentono di delineare i complessi rapporti dell’attore-autore
con la Commedia dell’arte. Concludono questo volume il contribu-
to di Teresa Megale che ci restituisce con grande sapienza la ‘magia’
dell’ultima rappresentazione di Eduardo, La Tempesta di Shakespeare
trasposta nel dialetto e nella cultura napoletana; e il saggio di Silvia
Calamai che mette a fuoco con strumenti linguistici avanzati il par-
lato teatrale nella produzione più recente di Chiti, Malpeli, Maraini,
Russo, Scimone, Tarantino.
Stefania Stefanelli
Il corpo nella scrittura teatrale
e setti, ma puru chista n’a sintìa mai sunari… Pinsava: puru ‘sta sveglia non
funziona e nni comprava ‘n’autra…
Petru: Quantu svegli comprasti?
Nino: Assai! Dopu sei misi capìa chi non era ‘a sveglia ma era me’ mamma
chi si svigghiava deci minuti prima di setti e ‘a staccava. Allura ‘na sira pun-
tai ‘a sveglia ‘e sei e menza, ma puru dda vota me’ mamma si svigghiau deci
minuti prima. Allura puntai ‘a sveglia ‘e sei, ma puru dda vota me’ mamma si
svigghiau deci minuti prima...
Petru: Ma picchì to’ mamma si svigghiava sempri deci minuti prima da sve-
glia?
Nino: P’u cafè! Così mi puttava ‘nto lettu u cafè! (pausa)
Petru: Ma si ti voi svigghiari c’a sveglia basta chi chiudi a chiavi a stanza a
unni dommi tu, così to’ mamma non pò ‘ntràsiri.
Nino: Si chiudu a chiavi ‘a stanza a unni dommu jo, me’ mamma non
po’cchiù nésciri.
Petru: Da quantu tempu dommi cu’ to’ mamma?
Nino: Da picciriddu. (pausa.)
Anche nel dialogo tra la Madre e il figlio Gianni nel testo La festa,
troviamo conferma di quanto detto prima.
Spiro Scimone
Un foresto a Venezia.
Il mio teatro con Marco Paolini:
da Vajont a Porto Marghera
Buonasera.
Io credo di essere un perfetto rappresentante di quella schiera di
sconosciuti di cui parlava Claudio Giovanardi che mi ha preceduto.
Spezzo però una lancia, verso questa meravigliosa condizione di vivere
sconosciuti.
La vita di Marco Paolini è diventata enormemente faticosa dopo la
diretta del Vajont, ovvero dal 10 ottobre ’97. La mia ha continuato a
essere sufficientemente ricca e variegata professionalmente, ma mol-
to tranquilla. La condizione di oblio per me è fondamentale. E io mi
rendo conto che quando accade che per una serie di strani fenomeni
talvolta finisco, anche se molto collateralmente, sotto qualche pezzet-
tino di luce, non fa bene al mio lavoro, anche se capisco perfettamen-
te le motivazioni del professor Giovanardi e sono grato alle persone
che tentano di sottrarci a questo oblio. Però credo che sia davvero
importante: più riesco a tenermi fuori da tutto quello che è notorietà,
meglio posso lavorare.
Cosa faccio? Io credo di aver fatto di questa condizione di ‘foresto’ la
mia caratteristica. Evidentemente un foresto sta per forza nell’ombra.
Io sono in un certo senso un cartografo, un appassionato di mappe
come lo era il primo grande costruttore e disegnatore di mappamondi,
Vincenzo Coronelli. Per me fare una mappa è costruire qualche cosa
a metà strada tra la geografia e la storia. Credo che se c’è una cosa che
proprio mi interessa, mi piace da impazzire, è che in un certo senso sto
cercando di fare il mio piccolo mosaico della storia di un secolo, di un
paese e di un mondo – dato che con gli anni ho avuto la fortuna di oc-
cuparmi non solo di storia italiana, con Paolini e con altri. E dunque
cerco di trovare una collocazione a una serie di piccoli pezzi di questo
immenso mosaico, proprio come un bimbo – di fronte a un puzzle gi-
gantesco – prova a sistemare qualche casellina. Ogni volta che riesco
a trovarne una e metterla al posto giusto sono felice.
La cosa che complica da morire questo lavoro, ma che ne è anche la
grande bellezza, è che io sono costretto costantemente a lavorare non
10 Francesco Niccolini
cosa dei soldatini americani per tornare alla questione delle «ragioni
degli altri». È ovvio che per me è facile in questo momento tifare per
i sopravvissuti iracheni e non nego che se ho un desiderio è quello di
andare a festeggiare a Baghdad la liberazione, per una serie di motivi
che sarebbe troppo complicato ora raccontarvi. Però mi è capitato di
vedere un documento che mi ha molto provato. C’è una televisione
irachena che manda in onda ventiquattro ore su ventiquattro le ge-
sta di Juba, che è The Baghdad sniper (Il cecchino di Baghdad). Questo
signore incappucciato passa tutto il tempo con una telecamera che
riprende le sue gesta. E le sue gesta sono, ventiquattro ore su venti-
quattro, sparare sui soldati americani. Per cui sia su internet che su
questa tv satellitare gli iracheni possono gioire in tempo reale di questi
omicidi. Ecco, il mio obiettivo è – e così chiudo – avere la nausea non
per i morti che mi sono cari, i miei vicini, i miei genitori, i miei figli, i
miei fratelli, perché è ovvio che non vorremo che morissero. Io voglio
la nausea per quel soldatino usurpatore che è lì e che non ha capito
neanche perché è lì. Voglio la nausea per quel cadavere. E sperare che
si riesca a chiudere anche questa brutta storia.
Francesco Niccolini
Chi vuole fare la scioccante esperienza, sappia che la può fare, con uno di que-
sti link: http://dailymotion.alice.it/video/x2oz0w_iraq-bagdad-sniper_events, oppure
http://www.flurl.com/item/JUBA2_PART_1_u_196651 e http://www.flurl.com/item/
JUBA2_PART_1_u_196652, ma bisogna sapere che si sta aprendo la porta dell’in-
ferno.
«Scene popolari» verghiane
tra «commedia villereccia»
e «drammettino» suburbano:
lettura sinottica di Cavalleria rusticana
e In Portineria
Com’è ampiamente noto, il dramma rusticano fu rappresentato per la prima volta a
Torino, al Teatro Carignano, dalla compagnia di Cesare Rossi il 14 gennaio 1884. Il pre-
sente lavoro rielabora una tematica già affrontata in G. Alfieri, La sora e la comare: «scene
popolari» verghiane tra Vizzini e Milano, in Il teatro verista. Atti del Congresso (Catania, 24-26
novembre 2004), 2 voll., Catania, Biblioteca della Fondazione Verga 2007, I, pp. 71-156.
Cfr. G. Verga, Lettere sparse, a cura di G. Finocchiaro Chimirri, Roma, Bulzoni
1979, p. 170. Una compiuta ricostruzione del rapporto di consonanza estetica con
l’amico avvocato si deve a F. Branciforti, Verga dietro le quinte: dal carteggio Verga-
Paola, in Il teatro verista cit., pp. 297-319.
18 Gabriella Alfieri
Questo qui, come vedrai, è uno studio di carattere interamente opposto a quel-
lo del mio primo lavoro drammatico. L’ho voluto pensatamente apposta così,
con altre tinte, e disegno. Se tu ci troverai il carattere e l’indole milanese che
ho voluto dargli, sarò soddisfatto. Ma soprattutto bada a quel che ti pare del-
l’effetto drammatico, giacché in teatro, non bisogna dimenticarlo, è tutto lì.
Non voglio farmi illusioni, ma intendo riserbare il mio giudizio sinché non mi
sarò convinto del tutto che 800 o 1000 milanesi vedano meglio e più in là di
me e di qualcun altro in un’opera d’arte fatta con coscienza; non so tuttora se
mi deciderò a ritentare l’esperimento a Roma colla Duse – certo dopo il tuo
In G. Raya, Carteggio Verga Capuana, Roma, Edizioni Dell’Ateneo 1984, p. 233;
per la risposta del Capuana, datata 29 gennaio, (ibid., p. 234). Appena due settimane
prima delle euforiche lettere al Paola e al Capuana, Verga aveva scritto al «Carissimo
Luigi» in uno stato d’animo opposto: «Io sono molto malcontento di me e del mio
lavoro. Cambierà? Lo ignoro. Faccio una vita da eremita, chiuso in gabbia come una
bestia feroce, ma la cosa non viene» (Lettera da Milano, 27 dicembre 1884, ibid., p.
232).
Lettera al Capuana da Milano, 4 aprile 1885, ibid., p. 239.
Nel passo precedente a quello citato si legge: « Ho voluto appunto il poco rilievo
delle passioni, e la semplicità del disegno non tanto per far contrasto al quadro così
diverso della Cavalleria rusticana quanto per rendere schiettamente e sinceramente il
diverso ambiente che mi ero proposto di colorire».
19 «Scene popolari» verghiane
Lettera al Paola del giugno 1885, in Branciforti, Verga dietro le quinte cit., p.
306.
Cfr. G. Alfieri, Le «mezze tinte dei mezzi sentimenti» nel «Mastro-don Gesualdo» in
Il centenario del «Mastro-don Gesualdo», Atti del Congresso, Catania, Biblioteca della
Fondazione Verga 1992, pp. 433-516.
Cfr. U. Eco, Dire quasi la stessa cosa, Milano, Bompiani 2003, p. 11.
Lettera da Catania del 21/11/1904, in Verga, Lettere sparse cit., p. 365.
20 Gabriella Alfieri
10
Cfr. Verga, Lettere sparse cit., pp. 203-204.
11
Lettera da Catania del 12/9/1916, ibid., p. 406.
12
L’italiano a teatro, in Storia della lingua italiana. 2. Scritto e parlato, a cura di L.
Serianni, P. Trifone, Torino, Einaudi 1994, pp. 81-159, pp. 144-145.
21 «Scene popolari» verghiane
per i quadri cittadini del nord»13. A tacere del teatro verista, attivo nel
quindicennio 1885-1899, che si divideva tra la superficiale norvegizza-
zione degli epigoni di Ibsen, la mordente ironia di un Praga, l’energia
ideologica di un Rovente, il grigiore dimesso di un Giacosa e il teatro
dialettale popolareggiante di Bertolazzi, Gallina e Di Giacomo14.
L’opera del Verga narratore e drammaturgo si caratterizza proprio per
l’insopprimibile «ansia di verifica», scomponendosi «in corsi e ricorsi
tematici e ambientali, pur nell’unità del metodo acquisito»15. In questa
prospettiva anzi lo «scrivere per il palcoscenico, luogo che più del li-
bro e dell’appendice novellistica implica un rapporto ideologicamente
responsabile col pubblico e la società», consente di «meglio precisare
il segreto impasto, in Verga, di ideologia e concreta sperimentazione
stilistica»16. Basti pensare alla trilogia di drammi composta da Caval-
leria rusticana, In portineria e La commedia dell’amore, anch’essa pensata
come trasposizione teatrale della novella I drammi ignoti, poi confluita
nella raccolta Drammi intimi, coeva a Per le vie. O ancora, più in astrat-
to, al pervicace gusto verghiano delle sinossi narrative, per cui proprio
Per le vie – nato nel progetto editoriale come Vita d’officina – avrebbe
dovuto porsi «in una sorta di dittico novellistico»17, come il pendant
urbano di Vita dei campi, non a caso precedentemente intitolato Vita
di campagna, e risultante a sua volta dalla trascrizione rivissuta di testi
raccolti pei viottoli dei campi18. Utile la visualizzazione del programma
di scritture e riscritture, di cui in definitiva solo l’ultimo elemento
– qui asteriscato – rimase inattuato19:
13
S. Ferrone, Il teatro di Verga, Roma, Bulzoni 1972, p. 242.
14
Cfr. G. Oliva, Introduzione a L. Capuana, Teatro italiano, a cura di G. Oliva, L.
Pasquini, Palermo, Sellerio 1999, p. xxxi.
15
A. Barsotti, Verga drammaturgo tra commedia borghese e teatro verista siciliano,
Firenze, La Nuova Italia 1974, p. 72.
16
Ferrone, Il teatro cit., p. 10.
17
Cfr. G. Verga, Per le vie, edizione critica a cura di R. Morabito, Edizione Na-
zionale delle Opere di Giovanni Verga, Firenze, Banco di Sicilia-Le Monnier 2003,
Introduzione, p. xii.
18
Cfr G. Verga, Vita dei campi, edizione critica a cura di C. Riccardi, Edizione
Nazionale delle Opere di Giovanni Verga, Firenze, Banco di Sicilia Le Monnier 1987,
Introduzione, pp. lxxxvi-lxxxvii. Per l’allusione ai viottoli dei campi si veda la lettera
prefazione al Farina, ibid., p. 91.
19
La Commedia dell’amore, pensata come trasposizione teatrale della novella I
drammi ignoti, poi confluita nella raccolta Drammi intimi, coeva a Per le vie (se ne ve-
22 Gabriella Alfieri
NOVELLA DRAMMA
1) a: Cavalleria rusticana, «Fanfulla della
domenica» 14 marzo 1880
I) Cavalleria rusticana, Torino, Teatro
Vita dei campi, Milano, Treves, 1880
Carignano, 14 gennaio 1884
e 1881
b: Cavalleria rusticana ed altre novelle,
II) In portineria, 16 maggio 1885 al
Milano, Treves, 1892
Manzoni di Milano «Illustrazione
2) a: Il canarino del n.° 15, «Domenica
popolare», 7 giugno 1885
letteraria», 21-5-1883
b: Per le vie, Milano, Treves, 1883
dano gli abbozzi in G. Verga, Drammi intimi, a cura di G. Alfieri, Edizione Nazionale
delle Opere di Giovanni Verga, Firenze, Banco di Sicilia Le Monnier 1987).
20
Si veda ancora l’Introduzione di Morabito, a Verga, Per le vie cit., p. xviii, xxv.
21
Ferrone, Il teatro cit., p. 158.
22
Si veda l’Introduzione di N. Tedesco a G. Verga, Tutto il teatro, Milano, Monda-
dori 1980.
23 «Scene popolari» verghiane
23
L. Russo, Giovanni Verga, Bari, Laterza 1974, p. 344.
24
Ai fratelli Monleone, l’uno librettista e l’altro musicista del dramma lirico Il Mi-
stero, tratto dall’omonima novella delle Rusticane, il Verga raccomandava di ricercare
il reciproco e rispettivo accordo per «fare in tutto opera d’arte e non adattamento
scenico» (cfr. la lettera del 15 ottobre 1908, in Verga, Lettere sparse cit., p. 384).
25
Cfr. G. Oliva, Introduzione a G. Verga, Tutto il teatro con i libretti d’opera e le
sceneggiature, Milano, Garzanti 1990, p. lii.
26
Nel febbraio del 1880 Rosso Malpelo, già edito sul «Fanfulla della Domenica» del
2, 3, 4, 5 agosto 1879, veniva ripubblicato con il sopratitolo di Scene popolari «come
opuscolo n. 29 nella “Biblioteca dell’Artigiano”, edita dalla Lega Italiana del “Patto
24 Gabriella Alfieri
di Fratellanza”» (cfr. l’Introduzione della Riccardi a Verga, Vita dei campi cit., pp. xxx-
xxxi, e, per la stampa sul «Fanfulla», p. lxxxvi).
27
Così Verga si esprimeva a proposito di Malavita: «C’è tanta intensità di passione
e così sincera rappresentazione di vita vera nelle vostre scene popolari, che anche a
leggerle mi hanno dato quella schietta soddisfazione artistica, che devono produrre
alla recita» (cfr. la lettera a Salvatore Di Giacomo del 10/12/1889, in Verga, Lettere
sparse cit.,, p. 233; corsivo mio).
28
Cfr. Ferrone, Il teatro cit., p. 136.
29
Cfr. E. Scarfoglio, Palcoscenico, in Id., Il libro di don Chisciotte, a cura di C. A.
Madrignani, Napoli, Liguori 1990, pp. 184-205: 205.
30
All’amica del momento scriveva, a proposito delle prove della messa in scena
di Cavalleria, che Giacosa si dimostrava «contento della commediola – io assai meno
di lui» (Cfr. G. Verga, Lettere a Paolina, a cura di G. Raya, Roma, Edizioni Fermenti
1980, Lettera da Torino dell’11/1/1884, p. 92).
31
Cfr. la lettera a Sabatino Lopez da Catania 31/11902: «Voi avete fatto per quella
cosuccia più di quanto non si meriti. Giacché è proprio una cosuccia, né ho voluto
fare altro colle due caccie» (in Verga, Lettere sparse cit., p. 353).
32
Sempre alla sua compagna, che gli aveva sagacemente suggerito di collocare i
due testi, rusticano e meneghino, presso la Società Nazionale di autori teatrali, ri-
spondeva: «Certo seguirei i vostri consigli di vendere subito e in modo assoluto la
nuova commedia (ed anche la vecchia per non avere altre seccature) se fosse tornato
qualcuno dei proprietari della Nazionale» (cfr. la lettera da Roma del 19/11/1884, in
Verga, Lettere a Paolina cit., p. 99).
33
L’accenno riguardava La Commedia dell’amore che il Verga, avendo appena ter-
minato Il Mastro, ipotizzava di far rappresentare a Firenze con la stessa In portineria
(cfr. Lettera a Mariano Salluzzo del 25/12/1888, in Verga, Lettere sparse cit., p. 214).
34
A Georges Hérelle, traduttore francese al quale stava per inviare la Caccia al lupo
25 «Scene popolari» verghiane
e la Caccia alla volpe, scriveva da Milano il 30/10/1901: «La prego di accogliere i due
lavoretti scenici che le manderò fra breve»(Cfr. Verga, Lettere sparse cit., p. 353).
35
Cfr. Ferrone, Il teatro cit., p. 10.
26 Gabriella Alfieri
36
Cfr. ibid., p. 112, e i citati lavori di Tedesco, Barsotti, e di Gianni Oliva, in par-
ticolare la documentata Introduzione a Verga, Tutto il teatro con i libretti d’opera cit.
(pp. vii-lxxxii), e il saggio intitolato Capuana e il progetto teatrale verista (in Capuana,
Teatro italiano cit., pp. xiii-lii).
37
Si veda C. Musumarra, Il linguaggio del teatro verghiano, in «Quaderni di Filolo-
gia e Letteratura siciliana», V, 1978, pp. 19-26.
38
Cfr. L. Capuana, Pietro Cossa, in Id. Scritti critici, a cura di E. Scuderi, Catania,
Giannotta 1972, pp. 260-261, e, per la diffusione della metafora critica dello spolve-
ro nell’ambiente di Firenze capitale, R. Bigazzi, I colori del vero, Pisa, Nistri Lischi
1969, p. 231, laddove si accenna allo sconcerto di Salvatore Farina per l’ibridismo
linguistico degli scrittori coevi che mescolavano idiotismi toscani e stilemi dei gaz-
zettieri. Si tenga comunque presente, per l’uso capuaniano, anche il sic. Spruvulu
che il Macaluso Storaci, una delle fonti lessicografiche dialettali prediletta anche
da Verga, spiegava come «foglio nel quale è il disegno che si vuol ricavare, tutto
27 «Scene popolari» verghiane
bucherato con ispilletto, facendo per quei buchi passar la polvere dello spolverizzo:
Spolvero. Sacchetto a bottone entro cui è legata polvere di gesso o di carbone, per
uso di spolverizzare: Spolverizzo» (cfr. Vocabolario siciliano-italiano italiano-siciliano,
Siracusa, Norcia 1875, ripr. anast. Catania, Brancato Editore 1987, s.v.). Anche il
Mortillaro (Dizionario siciliano-italiano, Palermo, Stabilimento Tipografico Lao 1876,
ripr. anast. Palermo, Pietro Vittorietti Editore 1975, s.v.), riporta il termine, che
però sembra una retroversione del toscano Spolvero: «1. Termine di mugnai, Buona
macinatura. […] 2. La polvere di carbone od altro con cui si spolverizza […] 3.
Foglio bucherato con spilletto, nel quale è il disegno, che si vuole spolverizzando
ricavare, facendo per quei buchi passare la polvere dello spolverizzo […]. 4. Fig.
Sim. al Gettar polvere negli occhi. Colui ha un grande spolvero di parole, ma è pochino.
Spolvero d’erudizione, facile, tolta dai cataloghi e dagli indici. Cose di spolvero, di mera
apparenza, e che si spazzano. Cantante di spolvero. Spolvero teatrale» (N. Tommaseo-
G. Bellini, Dizionario della lingua italiana [1865-1879], presentazione di G. Folena,
Milano, Rizzoli 1977).
39
Cfr. Scarfoglio, Palcoscenico cit., p. 188.
40
Ibid., pp. 190 e 192. Unica eccezione, secondo il critico abruzzese – peraltro non
esente egli stesso, come si vede, da errori ortografici – il Martini.
41
Cfr. Trifone, L’italiano a teatro cit., p. 149.
42
Cfr. L. Serianni, Il teatro, in Id. Il secondo Ottocento, in Storia della lingua italiana,
a cura di F. Bruni, Bologna, Il Mulino 1990, p. 155-166, p. 157.
28 Gabriella Alfieri
negli stilemi, nei nessi sintattici, nei modi e nelle parole, significativi
del mondo in cui si muovevano i personaggi»43.
Sul piano metodologico poi facciamo nostra la definizione che Ste-
fania Stefanelli ha dato della lingua teatrale come «lingua partico-
lare», la cui «espressività non può essere misurata né sui parametri
di giudizio validi per la lingua poetica e narrativa, né su quelli validi
per il parlato spontaneo»44, ma, su un piano di oggettiva diacronia
stilistica, sulle possibilità offerte alla scrittura drammaturgica dalla lin-
gua storicamente determinata nella quale essa si esprime45. Nel nostro
caso si tratterà del repertorio dell’italiano postunitario, articolato in
toscano letterario, toscano parlato e dialetti (nel nostro caso siciliano
e milanese), tenendo sullo sfondo la produzione drammaturgica po-
stunitaria fra Otto e Novecento, divisa tra soluzioni postmanzoniane
e soluzioni veristiche46.
2 Spoglio linguistico-stilistico
43
Musumarra, Il linguaggio cit., pp. 21-23.
44
S. Stefanelli, Lingua e teatro oggi, in Ead., Va in scena l’italiano, Firenze, Cesati
2006, pp. 125-139: 132.
45
Cfr. Stefanelli, Come parla il teatro contemporaneo, ibid., pp. 141-155, p. 144.
46
Ibid., p. 141.
47
Per evitare un cumulo di note, si faranno seguire a ciascun esempio la voce o la
locuzione siciliana, toscana o milanese di volta in volta pertinenti, con eventuali rin-
vii alle fonti lessicografiche menzionate alla nota 32, che ci citeranno con le seguenti
sigle: TB = Tommaseo-Bellini; M = Mortillaro; MS = Macaluso-Storaci. Si adotteran-
no poi la sigla VS per G. Piccitto-G. Tropea, Vocabolario siciliano, Palermo, Centro
di Studi Filologici e Linguistici Siciliani 1977-2005, 4 voll.; RF per G. Rigutini-P.
Fanfani, Vocabolario italiano della lingua parlata. Nuovamente compilato da G. Rigutini,
Firenze, Barbera 1893; Cher per F. Cherubini, Vocabolario milanese-italiano, Milano,
29 «Scene popolari» verghiane
CR IP
Fattori diafasici: tratti allocutivi,
Fattori diafasici: tratti allocutivi, dati
socioculturali e socioetici, linguaggio settoriale dati socioculturali e socioetici,
linguaggio settoriale
dati idiomatici (sicilianismi; siculotoscanismi; dati idiomatici (milanesismi;
toscomilanesismi; toscanismi;
toscanismi; settentrionalismi; stereotipi settentrionalismi; stereotipi
“popolari”) “popolari”)
dati etnoculturali (locali e
dati etnoculturali (locali e delocalizzati) delocalizzati)
codice gestuale codice gestuale
linguaggio figurato (quasi
linguaggio figurato (regionale che assicura la assolutamente delocalizzato,
caratterizzazione locale, ma anche delocalizzato) assicura la medietà colloquiale del
testo)
linguaggio religioso linguaggio religioso
linguaggio formulare o connotato
linguaggio formulare o connotato etnicamente socialmente
tratti mimetici del parlato (sintassi
tratti mimetici del parlato (sintassi marcata; marcata; italiano dell’uso medio;
italiano dell’uso medio; parlato-parlato) parlato-parlato; metalinguaggio
fatico dei personaggi stessi)
strategie stilistico-retoriche strategie stilistico-retoriche
(ripetizioni, sottolineature fonico-ritmiche, (ripetizioni, sottolineature fonico-
ecc.) ritmiche,ecc.)
elementi scenici
elementi scenici (distribuzione degli spazi e ritmo
(distribuzione degli spazi e ritmo dell’azione) dell’azione)
stilemi intertestuali stilemi intertestuali
b) dati idiomatici
b1) dialettismi (lessicali, sintagmatici e sintattici)
sicilianismi Milanesismi
Zio Brasi. O compar Alfio, che potete pigliarlo Battista. Cara! S’è per la mia figliuola, non so
un viaggio per Militello? (I 212; cfr. sic. viaggiu che dire… E tratto io! A condizione che pago io
‘corsa, commissione per trasporto’) per tutti!... (II 268; cfr. mil. trattà ‘offrire’ Cher.)
sicilianismi allusi o sicilianismi semantici
Turiddu. Colpa tua: che ti sei messa in capo non
so che cosa; e vai a svergognarmi con questo e
con quello, e a spiare dei fatti miei.
Santuzza. No, non sono andata a domandare (II
218; sic. spiari ‘chiedere, domandare’)
costrutti sintagmatici
Compar Alfio. Non ha il berretto rosso di
bersagliere? (I 212)
Gnà Nunzia. Poi ci sono tanti che hanno il
berretto rosso di bersagliere (I 215; sic. di per
‘da’)
32 Gabriella Alfieri
b3) settentrionalismi
dinanzi la mia porta (I 215) cavandosi il berretto (I 240, didascalia d’autore)
palanche (I 211) Battista. Non sono mica di quelli che chiudono
pittima! (I 214; anche sic. MS; TB) gli occhi! (I 240)
bel moretto (VI 225; ma citazione del parlato Giuseppina. Vedi, la tua figliuola che non sta
delle donne di ‘fuorivia’) mica bene! (II 264)
b4) toscanismi
tratti fonosintattici tratti fonosintattici
troncamenti diffusi ma improbabili nel parlato troncamenti diffusi e congruenti col parlato
regionale regionale
Lessemi Lessemi
didascalie didascalie
uscio (I 209 e 216), l’uscio della casetta (I 211), Corte vs. cortile; uscio, porta (della portineria e
davanti all’uscio della gnà Lola (I 216); biancheria di un magazzino), usciale (I 236; II 253); porta
di bucato (I 209); bettola (I 209); viottola che di strada (I 246); paniere, bugia (I 237); secchia (I
si perde nei campi (I 209); tira via; leva il capo 246); sossopra (II 275); rifinita (II 253); gruccia
(I 210); con un paniere infilato nel braccio (I dell’uscio (II 253)
211); panchetto della verdura (I 213); deschetto toscanismo aulico: recato (I 238)
(dell’osteria; VII 227)
dialoghi dialoghi
Compar Alfio. […] Questo è il mio mestiere, badi (I 230); sucidume (I 237); tribolare (I 239);
comare Camilla. Il mio mestiere è di fare il leticare? (I 239); bazzica (I 241); bazzicare (I
vetturale e di andare sempre in viaggio di qua e 245); desinare (I 246; II 272); babbo (II 258)
di là (I 213). Màlia. […] E si stava chiacchierando tutti
Santuzza. L’hanno detto qui or ora, che vi insieme, colla mamma e la Gilda, quand’essa
hanno visto sull’uscio della gnà Lola (II 218). tornava dalla maestra (I 262, “sarta”; cfr. Màlia.
Santuzza. Lo so, che si affacciava ogni volta, Tanto da fare dalla sarta anche lei, povera
quando lo vedeva passare dinanzi la mia porta Gilda! II 235)
(I 215) Battista. E così, non si desina oggi? (I 239)
Santuzza. Non mi scacciate anche dalla porta (I Assunta […] Ora gliela faremo in barba a lui! (II
216) 266)
Carlini. […] Lo fo volentieri (II 269)
Origine Lessicografica Origine Lessicografica
Zio Brasi. Mi vuol sempre cimentare, quel didascalie
diavolo di mia moglie (I 210; sic. spruvari, venendo in corte dalla portineria, collo streghino
pruvari «fare prova, cimentare, esperimentare», acceso in mano; togliendole lo streghino di mano
M) (I 234, 235; RF).
Turiddu. qui ci abbado io (II 218; «Stari accura, Dialoghi
Teniri accura, stare attenti, badare», MS, abbadare, Assunta. Badi, badi! Eccolo qui! (I 230)
TB) Giuseppina. […] Tieni d’occhio la porta, e bada al
Santuzza. Voi andateci, che vi terrò d’occhio la desinare intanto (I 246)
bottega… (I 216)
Santuzza. Non sono ubriaca, compar Alfio, e
parlo da senno (V 223; «Diri ccu tuttu lu seriu.
Parlare, dire da senno» M)
34 Gabriella Alfieri
Costrutti Costrutti
Santuzza. Ero pazza, sì (I 215) Angiolino. Oh la bella compagnia! (I 245)
Turiddu. Intendo che sei una matta con questa Assunta. Con tanti sfaccendati che c’è intorno!...
gelosia senza motivo (II 220) (I 238)
Giuseppina. Con tanti rompicolli che c’è intorno!
(I 240)
Assunta. Ora è finita. Ci si è messa la sonnambula
(II 268)
Assunta. […] Un galantuomo però, la vede bene
(I 242)
Assunta. […] Vede, se l’è venuto in casa, ci è
venuto col buon fine! (I 245)
Carlini […] Non vede ch’è bell’e finita? (I 251)
Màlia. […] Veniva a leggere il giornale…
o portava qualche regaluccio… e si stava
chiacchierando tutti insieme, colla mamma e la
Gilda (II 262)
e) codice gestuale
Gesti di corteggiamento: galanteria di Gesti di corteggiamento: omaggi floreali del
Turiddu bersagliere Carlini a Gilda
gesti di sfida
(Si abbracciano e si baciano. Turiddu gli morde
lievemente l’orecchio)
Zio Brasi. Non hai visto, sciocca, quando gli ha
morsicato l’orecchio? Vuol dire, o io ammazzo voi,
o voi ammazzate me (IX 229)
gesti di vergogna
(Santuzza) imbacuccata nella mantellina (I 214)
gesti di spavalderia gesti di spavalderia
Compare Alfio. Mia moglie sa che la berretta la Giuseppina […]. Te’! Piglia!
porto a modo mio Battista. Io?, Io, piglio? Punto primo, la mia
battendo sulla tasca del petto figliuola sa il suo dovere! punto secondo, se
e qui ci porto il giudizio per mia moglie, e per gli non lo sa glielo insegno io! Colle cattive glielo
altri anche (I 213) insegno! Non sono mica di quelli che chiudono
gli occhi! I mosconi so scacciameli io di torno!...
colle cattive, intendi? (I 240)
35 «Scene popolari» verghiane
f1) metonimie
Metonimia ( > ) metafora
Compare Alfio. I miei interessi me li guardo io, Battista. Devo stare a covare le figliuole? Mi
da me, senza bisogno di quelli del pennacchio (I tocca fare il carabiniere anche?
213). Battista. No, non lo stare a fare il carabiniere (I
240).
36 Gabriella Alfieri
Compar Alfio battendo sulla tasca del petto Battista. Sono un povero diavolo, ma il mio
e qui ci porto il giudizio per mia moglie, e per gli onore non lo voglio toccato! (II 266)
altri anche (I 213) Carlini. Quando la gente se lo merita!...
Santuzza. Piangere non posso, compar Alfio, Bisognerebbe essere senza cuore a piantarli
e questi occhi non hanno pianto neppure quando nei guai.. E un po’ di quella roba in petto ce l’ho
hanno visto Turiddu Macca che m’ha tolto l’onore, anch’io!... Bene o male ce l’ho anch’io!... (II
andare dalla gnà Lola vostra moglie! (V 223) 273)
f2) metafore
Zio Brasi. Ah! […] Eccolo il merlo…(I 217)
Santuzza. E non mi sento qui dentro il fuoco per
voi che mi tradite? (I 219)
Santuzza. Me ne importa per voi che, mentre Battista. È una galera, tale e quale! (I 241)
girate il mondo a buscarvi il pane e a comprar Vede, vede se la sua ragazza è una perla! (I 243)
dei regali per vostra moglie, essa vi adorna la casa Niente… è la coda di quella lunga malattia (I
in altro modo! 244)
Compar Alfio. Cosa avete detto, comare Santa? Battista. Tante! Ne ho il cuore pieno (II 268).
Santuzza. Dico che mentre voi siete fuorivia,
all’acqua e al vento, per amor del guadagno,
comare Lola, vostra moglie, vi adorna la casa in
malo modo! (V 222; cfr. sic. Azzizzari la casa).
Compar Alfio. Ora, se vedete mia moglie che mi
cerca, ditele che vado a casa a pigliare il regalo
pel suo compare Turiddu (V 223)
Turiddu. Sentite, compar Alfio, come è vero Dio
so che ho torto, e mi lascerei scannare da voi
senza dir nulla. Ma ci ho un debito di coscienza
con comare Santa, ché son io che l’ho fatta
cadere nel precipizio (VII 228).
f3) iperboli
Compar Alfio. Scellerati son coloro che ci Battista. Foss’anche Domeneddio, intendi? Farò
mettono questo coltello nel cuore, a voi e a me. una cosa che la metteranno sui giornali! (I 240)
Che se gli si spaccasse il cuore davvero a tutti Carlini. Vorrei essere un signore, guardi! Vorrei
e due con un coltello avvelenato d’aglio, ancora essere un signore per pigliarmela così, com’è…
non sarebbe niente! (V 223) e mantenerla magari a medici e speziali! Glielo
dico qui in faccia! (I 245)
Assunta.Vengo! Vengo! Non ho le ali per volare!...
col paniere pieno, anche! (I 245)
Gilda. […] Ah, vi credevo tutti a spasso. In casa
non c’è una goccia d’acqua. (I 244)
f) linguaggio religioso
Gnà Lola. O Vergine Maria! (VII 218) Giuseppina. La Gilda? Oh Madonna! (I 233)
Giuseppina. Ah, Signore! (I 234)
37 «Scene popolari» verghiane
Santuzza. Gli dicevo che oggi è giornata Giuseppina. Ah, Signore! Cosa viene a
grande; e il Signore, di lassù, vede ogni cosa! (I dirmi!.... (I 234)
220) Giuseppina. Questa, vede, è un angioletto!
Santuzza. O compare Turiddu, perché mi Messa al mondo per portare la croce!
trattate in tal modo? Non mi vedete in faccia? Carlini. Lo so.
Non vedete che piglio morte e passione? (II Giuseppina. Lo sa. E per questo le ha piantato i
218) chiodi anche lei! (I 244)
Gnà Lola. Io ringrazio Iddio, e bacio in terra. Gilda. Tu sei una santa!... Perdonami!... (I
Si china a toccare il suolo colla punta delle dita 249)
che poscia si reca alle labbra Gilda.Vuoi sapere il perché?... No… non
Santuzza. Ringraziatela, gnà Lola, quand’è posso dirtelo, a te che sei una santa! (I 250)
così. Ché alle volte si dice: «Quello, nella Giuseppina […]. Va là! va là! che tu sei nata
terra su cui posa i piedi, non è degno di proprio per portare la croce! (I 251)
metterci il viso» (II 220-221) Angiolino. Sì, poveretta. Il Purgatorio l’ha
avuto qui, lei! (II 257)
parlato artefatto
Màlia. […] Pensa alla mamma, poveretta, che
ha avuto tanti dispiaceri!... Gliene ho dati tanti,
con questa grama salute!... (I 249)
parlato socialmente connotato
Assunta. O Dio! Signore! Preti e medici dicono
sempre così per farsi merito. Dieno retta a
me, invece! Qui ci vuole la sonnambula. Con
tre lire e una ciocchetta di capelli appena, la
sonnambula vi vede dentro e fuori come in uno
specchio, quello che avete e quello che non
avete, e vi spiattella subito il suo bravo consulto
in due parole (II 254)
i) strategie stilistico-retoriche
ripetizione ripetizione
Compar Alfio. Questo è il mio mestiere, Assunta. […] Un galantuomo però, la vede
comare Camilla. Il mio mestiere è di fare il bene.
vetturale (I 213) Assunta. La vede bene s’è un galantuomo! (I
242)
il duettare ritmico da melodramma tra Carlini. Mi tratta come un cane oggi, guardi!
Santuzza e Turiddu scandisce la passionalità Gilda. Sa, non ho voglia di fare le solite
esternata dai personaggi (II 217-220; scene, adesso!
ferrone, barsotti) Carlini. O cos’ha, infine? Me lo dica, cos’ha?
Gilda. Nulla, cosa mi vede?
Carlini (riscaldandosi). Vedo che mi tratta
come un cane! (I 247)
41 «Scene popolari» verghiane
l) elementi scenici
spazio pubblico (piazza, chiesa, osteria) spazio semipubblico (portineria) e privato
(mura domestiche)
azione corale azione di gruppi
dramma plateale dramma intimo
42 Gabriella Alfieri
I Malavoglia
Compare Alfio
Se voi mi volete ancora, comare Mena, disse
finalmente; io per me son qua. […]
- Se voi siete vecchia, anch’io sono vecchio,
ché avevo degli anni più di voi, quando
stavamo a chiacchierare dalla finestra, e mi
pare che sia stato ieri, tanto m’è rimasto in
cuore. Carlini. Si stava felici e contenti tutti… Si
[…] – e vi avrei detto di sì anche quando rammenta? (II 271).
avevamo la Provvidenza e la casa del nespolo,
se i miei parenti avessero voluto, che Dio sa
quel che ci avevo nel cuore quando ve ne Giuseppina. Ah, poveretta me! Che spina, che
siete andato alla Bicocca […] vi rammentate? crepacuore anche quell’altra! (II 260)
(cap. XV)
Compare Alfio. Vi rammentate quando sono
partito per Bicocca? […] Ora ogni cosa è
cambiata (cap. XV)
Santuzza. Lo so, che si affacciava ogni volta, quando lo vedeva passare dinanzi
la mia porta (I 215).
Santuzza. L’hanno detto qui or ora, che vi hanno visto sull’uscio della gnà
Lola (II 218).
Senza dirci niente comare Lola, che ve ne andate così, senza dirci niente! (VI
224).
Ora s’ha da berci su, come avete detto voi (VI 226; sic. aviri a ‘dovere’ + tosc.
si ha da ‘dobbiamo’).
50
L’acuta notazione, confermata dalla nostra analisi, si deve a Carmelo Musumarra
(Il linguaggio cit., p. 23), che segnalava la contiguità in CR di un efficace che poliva-
lente e delle forme lessicali toscane maniscalco e baio.
45 «Scene popolari» verghiane
Carlini (riscaldandosi) Vedo che mi tratta come un cane! Da un pezzo che non
è più quella di prima! Ed io, bestia, che le voglio sempre bene!... (I 247).
51
Si veda in proposito G. Alfieri, Ethnos rusticano ed etichetta mondana. La gestua-
lità nel narrato verghiano, in «Annali della Fondazione Verga», IV, 1987, pp. 7-77, e T.
Telmon, La gestualità narrativa verghiana. Un esercizio di lettura, in Vita dei campi (1880-
1897), in «Annali della Fondazione Verga», XVII, 2000, pp. 215-239.
52
Barsotti, Verga drammaturgo cit., p. 48.
46 Gabriella Alfieri
La zia Filomena s’affaccia sull’uscio della sua casetta colle mani sul ventre (I
211).
Tutti corrono verso il fondo vociando; la gnà Nunzia colle mani nei capelli,
fuori di sé. Due carabinieri attraversano correndo la scena (IX 229).
Zio Brasi. Ah, voi non andate neppure alle funzioni di Pasqua, comare Santa?
Volete che recitiamo insieme il santo rosario?
Santuzza. Lasciatemi stare.
Zio Brasi. Eh!... che non vi mangio, diavolo!... Come se non si sapesse… (I
217).
Compar Alfio. […] Ma se mentite, per l’anima dei miei morti! Vi giuro che
non vi lascerò gli occhi per piangere, a voi e a tutto il vostro infame parentado!
Santuzza. Piangere non posso, compar Alfio, e questi occhi non hanno pianto
neppure quando hanno visto Turiddu Macca che m’ha tolto l’onore, andare
dalla gnà Lola vostra moglie! (V 223).
Avete ragione di portarle dei regali […] perché mentre voi siete via vostra
moglie vi adorna la casa54!
Come tu dici In portineria è venuta così perché così l’ho voluta. E mi pare che
se ha ragione di essere lo deve in quella forma e in quella misura, o non essere
affatto. Ho voluto che il dramma fosse intimo rigorosamente, tutto a sfuma-
ture d’interpretazione, come succede realmente nella vita; ed era in questo
senso, un altro passo nella ricerca del vero. Ho voluto appunto il poco rilievo
delle passioni, e la semplicità del disegno non tanto per far contrasto al qua-
dro così diverso della Cavalleria rusticana quanto per rendere schiettamente e
sinceramente il diverso ambiente che mi ero proposto di colorire65.
65
In Raya, Carteggio cit, p. 242.
66
Ibid., p. 153.
67
Barsotti, Verga drammaturgo cit., p. 78.
52 Gabriella Alfieri
Parliamo spesso di lei con sua sorella e la sua mamma… (II 273-274).
Con toni sempre più accesi si passa alla rivelazione del pericolo che
incombe sulla Gilda, esposta alle lusinghe di corteggiatori non tutti
raccomandabili:
Come osserva pertinentemente Luca Serianni (Il Secondo Ottocento cit. p. 158).
68
Cfr. TB, s.v. Caro: «Caro Voi, modo di preghiera più o meno affettuosa, ma però,
69
Carlini (entrando gaiamente). Ehi, sora Màlia! San Giorgio anche per lei! […]
Le bella scampagnata eh, sora Luisina!
Luisina. Siamo stati proprio bene. Risotto, manzo a lesso, il fritto, un vino
sincero che andava bene… (II 267).
Assunta. O Dio! Signore! Preti e medici dicono sempre così… per farsi meri-
to… Dieno retta a me, invece! Qui ci vuole la sonnambula Con tre lire e una
ciocchetta di capelli appena, la sonnambula vi vede dentro e fuori come in
uno specchio, quello che avete e quello che non avete, e vi spiattella subito il
suo bravo consulto in due parole. […] Lasci che le tagli una ciocca di capelli,
e in due salti vado e torno colla risposta della sonnambula.
Giuseppina [fermandole le mani]. No, no, sora Assunta! Dicono che non è
bene tagliare i capelli agli ammalati.
Assunta. Eh, che diavolo!
Giuseppina. Sì… Dicono che la testa se ne va via dietro ai capelli… (II 254-
255).
70
Cfr. TB, s.v. Te: «Pronunziato coll’E larga e coll’apostrofo, secondo diligenti
grammatici, è la seconda persona dell’imperativo del verbo Tenere e vale Tieni. Ora
non si dice più Te’ così tronco, ma Tieni, tutto intero, o, in un modo più familiare,
To’, accourciatura di Togli, Prendi». Seguivano le attestazioni da Boccaccio in avanti,
soprattutto in testi di matrice religiosa.
55 «Scene popolari» verghiane
Battista. Alla larga! Gente che porta la jettatura! Non voglio che le portino
la jettatura alla mia figliuola! (II 263).
71
Barsotti, Verga drammaturgo cit., p. 181.
72
Ibid., pp. 95-97.
73
Oliva, Introduzione a Verga, Tutto il teatro con i libretti d’opera cit., p. xxxi.
74
Cfr. Alfieri, Ethnos rusticano cit.
75
Barsotti, Verga drammaturgo cit., p. 165.
56 Gabriella Alfieri
Da notare la ripresa del verbo che introduce il gesto nei due testi
(accorre dal fondo; accorrendo colle mani nei capelli).
Una differenza cospicua tra testo rusticano e testo popolare cittadi-
no è la confessione, significativamente allusa in CR, dove il peccato di
Lola è quello di Santuzza sono noti a tutti:
Ibid., p. 164.
76
Ibid.
77
57 «Scene popolari» verghiane
Bene, bene. Sta su allegra che Dio ti perdona, come io ti assolvo e benedico
(II 262).
Simmetrica, invece, la situazione dei due testi circa l’uso dei dati
paremiologici, attenuati anzi in CR rispetto all’omonima novella, e
intensificati in IP. Si va da proverbi veri e propri, di origine milanese,
più o meno intramati nel dialogo:
78
Si veda il proverbio milanese Chi ghe l’ha dent, che se le tegna, addotto dal Pitré
come corrispondente del sic. Cu’ havi (o – Di cui sunnu) li guai, si li chianci (Proverbi
siciliani cit., II, p. 21).
79
Cfr. sic. Saccu vacanti ‘un po’ stari ‘n pedi, Com’iddu è chinu nun si po’ curari, col
referente mil. El sacch voeuj se po’ minga fall stà in pee (Pitrè, Proverbi siciliani cit.,
IV, pp. 109-110).; e Lu sangu nun si po’ fari acqua, mil. El sangu el spòrg e nò l’è l’istess
de l’acqua (ibid., II, p. 219)
58 Gabriella Alfieri
Assunta. Cara lei, bisogna esser signori per fare ciò che accomoda meglio! Ma
che mi scherza? Un povero diavolo che campa a giornata!... Un galantuomo
però, le vuole bene! (I 242).
Giuseppina. Che vuole?... Sono mamma… sono come quello che non sa che
fare… di qua mi pungo, di là mi dolgo… (I 242).
80
Un’opportuna notazione in tal senso veniva anche dalla critica teatrale, secondo
la quale, proprio per caratterizzare la mentalità e il senso comune popolari, Verga
attingeva al «repertorio tradizionale di frasi, che in bocca al popolo, particolarmente
nella provincia toscana, acquistano sapore di sentenza» (Barsotti, Verga drammatur-
go cit., p. 75).
81
Ibid., p. 74. Per esemplificare simile tendenza la studiosa citava i termini quattrino
(I 3), leticare (I 4), babbo e giri di frase come O cosa le viene in mente adesso? (I 2), Un
pezzo che non si fa vedere, in casa! (I 2). I rinvii in parentesi si riferiscono all’atto e alla
scena della commedia, secondo il sistema di citazione della Barsotti.
59 «Scene popolari» verghiane
Tanto da fare dalla sarta anche lei, povera Gilda! (II 235).
Battista. Cara! S’è per la mia figliuola, non so che dire… E tratto io! A condi-
zione che pago io per tutti!... (II 268).
82
Né il TB, né il Petrocchi (Vocabolario dell’uso toscano, Firenze 1865), riportano
il lemma.
83
Basti pensare alle compagne più importanti della sua vita affettiva, Paolina
Greppi e Dina di Sordevolo, come testimonia, ad esempio, il carteggio con la prima,
in cui tuttavia i milanesismi sono sempre in corsivo e accompagnati dalla didascalia
«come dite voi» (Cfr. Verga, Lettere a Paolina cit.).
84
Per simile procedura, cfr. G. Alfieri, Innesti fraseologici siciliani nei «Malavoglia»,
in «Bollettino del Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani», XIV, 1980, pp.
3-77.
60 Gabriella Alfieri
Tu se’ un buon mobile! si dice ironicamente per dare ad uno del tristo; ed an-
che per proverbiarlo o di lordura o di bruttezza: Tu se’un bel mobile! (Fanf.) E
anche ass. Un buon mobile! cattivo soggetto). – Bel mobile! però dappoco.
Carlini (entrando gaiamente) Ehi, sora Màlia! San Giorgio anche per lei!
(Dandole delle arance) Prenda, prenda senza cerimonie… […]
Luisina (dando anche lei delle arance a Giuseppina). Aranci di Palermo, li abbia-
mo comprati apposta (II 266).
85
Cfr. Serianni, Il Secondo Ottocento cit., p. 158.
86
Cfr. Cher., s.v. Quietà.: «Quietare. Quiescere. […] Abbonacciare. Calmare. Rap-
paciare».
87
Il TB, s.v., riporta solo il femminile. Secondo il DELI, s.v. Arancia, il tipo ma-
schile è diffuso nel Settentrione e in tutta la Toscana, eccetto che a Firenze, dove,
come mi assicurano parlanti colti, prevale nettamente Arancia; simmetricamente tut-
t’oggi a Milano è più frequente il maschile Arancio.
61 «Scene popolari» verghiane
88
Cfr. Verga, Lettere sparse cit., p. 341.
89
Barsotti, Verga drammaturgo cit., p. 75.
90
Il giovane allude alla modella che sfacciatamente va in cerca del pittore suo
amante.
91
Secondo Musumarra in IP «certe battute hanno l’andamento narrativo dei dia-
loghi esemplari dei Malavoglia» (Il linguaggio cit., p. 24).
62 Gabriella Alfieri
No! Non sono di quelli che chiudono gli occhi! Sono un povero diavolo, ma
il mio onore non lo voglio toccato! (II 266).
Dottore […]. No. Dico perché so quel che succede poi: se campa, è la Madon-
na che ha fatto il miracolo; se muore, l’ha ammazzata il medico. Con queste
malattie di cuore non c’è da scherzare, da un momento all’altro. Io me ne
lavo le mani (II 254).
92
In particolare Serianni segnala il costrutto avercela con qualcuno (in IP I 246:
«Carlini. Ce l’ha con me adesso? Dica?») come tratto di distinzione del Verga rispetto
agli autori coevi, ancora fermi all’aulicizzante averla con qualcuno (cfr. Il Secondo Ot-
tocento cit., p. 158).
63 «Scene popolari» verghiane
Assunta […]. Ma quel bel mobile del suo spasimante ora la pianta col danno
e le beffe, per tornarsene al suo paese, e ben gli stia!.... Brutta sfacciata, che ne
ha tanto piacere, lei, quest’altra…. (restituendole la lettera). (I 238 239).
Sì, non lo dico perché è mia figlia; ma essa con uno straccetto di vestito figura
meglio di una principessa (I 238-239).
Luisina. Li ho visti vicino al ponte, che essa gli faceva una gran scena (I
234)
Battista. Farò una cosa che la metteranno sui giornali! (I 240)
Giuseppina. Quello è per la Màlia. Un pezzo che me ne sono accorta (I 241).
64 Gabriella Alfieri
Carlini. Vede, ho i miei fastidi!... Ciascuno ha i propri fastidi in capo. Non voglio
venire a seccar la gente anche!
Màlia. Oh, che dice mai!... […]
Carlini. […] Ma sua sorella cos’ha, dica?
Màlia. Ma… nulla… non saprei…
Carlini. Avrà i suoi fastidi anch’essa… Prima non era così… (II 235).
Ora, se vedete mia moglie che mi cerca, ditele che vado a casa a pigliare il
regalo pel suo compare Turiddu (V 223).
Santuzza (cadendo ginocchioni e mani giunte). Ah! compare Turiddu, come po-
tete dirlo?
Turiddu. Alzati, non mi fare la commedia! Alzati o me ne vado (II 219; cfr. sic.
fari a cumeddia ‘agire con teatralità’).
Turiddu. Finiamola! Me ne vado per troncare queste scenate! (IV 222).
93
Cfr. Trifone, L’italiano a teatro cit., p. 152.
94
Barsotti, Verga drammaturgo cit., p. 82.
95
Serianni, Il Secondo Ottocento cit., p. 158.
96
Si veda la lettera diretta da Catania il 20/2/1913 a Francesco De Felice con un
giudizio limitativo circa «l’interesse e lo svolgimento scenico di un’azione drammati-
ca», ma incoraggiante per la qualità stilistica, espressa nelle parole citate nel testo e
anticipata qualche riga prima: «Il suo bozzetto è scritto con garbo, e il dialogo procede
svelto e naturale» (in Verga, Lettere sparse cit., pp. 397-398).
97
Il giudizio si riferiva al bozzetto drammatico Come l’edera di Adelaide Bernardini
che Capuana gli aveva letto (cfr. la lettera da Catania dell’autunno 1904, in Raya,
Carteggio cit., p. 392).
98
Barsotti, Verga drammaturgo cit., p. 75.
67 «Scene popolari» verghiane
99
Musumarra, Il linguaggio cit., p. 25.
100
Barsotti, Verga drammaturgo cit., p. 74.
101
Cfr. Oliva, in Verga, Tutto il teatro con i libretti d’opera cit., p. xxxviii.
102
Musumarra, Il linguaggio cit., p. 23.
103
Cit. in Ferrone, Il teatro cit., p. 243.
68 Gabriella Alfieri
Santuzza. No, non si sbaglia compar Alfio. Era lui, Turiddu (I 215).
Dico che vostra moglie va attorno carica d’oro come la Madonna dell’altare, e
vi fa onore, compare Alfio! (V 223)
In chiesa ci ha da andare chi ha la coscienza netta, gnà Lola (III 220).
105
Lo faceva osservare pertinentemente Gianni Oliva (cfr. Verga, Tutto il teatro
con i libretti d’opera cit., p. lii).
106
Cfr. Verga, Drammi intimi cit., p. 47.
70 Gabriella Alfieri
La commedia mia deve essere così com’è o non essere affatto, e parmi debito
d’onestà, che se deve essere giudicata altrove lo sia nelle identiche condizioni
che lo fu qui, senza escamottage (sic), e parmi debito di rispetto a me stesso
che se ho affrontato a testa alta le conseguenze delle responsabilità che sape-
vo d’assumermi, e ne ho avuta la peggio, è ben giusto ora che il pubblico di
Milano assuma la sua parte di responsabilità nella storia letteraria, nel caso
che il suo giudizio fosse dichiarato puerile altrove111.
In ogni caso il Verga aveva la più totale e serena convinzione del-
l’importanza della propria ricerca artistica, confortata comunque dalla
lettura preventiva agli amici del «Fanfulla»:
107
Ferrone, Il teatro cit., p. 244.
108
Ibid., p. 164.
109
Il Verga alludeva a una possibile rappresentazione fiorentina di IP (cfr. Lettera a
Mariano Salluzzo del 25-12-1888, in Verga, Lettere sparse cit., p. 214).
110
A proposito della possibilità di far recitare IP a una promettente attrice di nome
Varini il Verga ammetteva di avere per la commedia milanese «viscere più che pater-
ne» (Lettera al Calandra del 1-3-1896, in Verga, Lettere sparse cit., p. 311).
111
Lettera al Paola del giugno 1885, in Branciforti, Verga dietro le quinte cit., p.
306.
112
All’amica milanese Verga aveva così riassunto le proprie idee sulla necessità di
rinvigorire la letteratura teatrale coeva (cfr. Verga, Lettere a Paolina cit., p. 84).
71 «Scene popolari» verghiane
Alla vigilia della messa in scena del suo secondo testo rusticano, no-
nostante il buon esito delle prove, l’ansietà si riaffacciava, con le stesse
motivazioni esternate in termini più che realistici allo stesso amico:
Ma vi confesso che ho una paura puttana, visto l’umore del pubblico – che ha
seppellito già due o tre lavori nuovi, e quello dei comici, in conseguenza – e
i precedenti che mi ha lasciati il successo morboso della Cavalleria, che mi è
rimasta sullo stomaco116.
E, con toni meno confidenziali, a Giuseppe Treves:
113
Citata in Ferrone, Il teatro cit., p. 167.
114
In Verga, Lettere sparse cit., p. 167.
115
Ibid., p. 244.
116
La lettera, datata Torino 16/1/1896, si trova ibid., p. 308. Si veda anche la lettera
al Paola del 15 gennaio 1896, in Branciforti, Verga dietro le quinte cit., pp. 316-317.
72 Gabriella Alfieri
Con somma letizia pei rifischiatori e per coloro i quali sul teatro non vorreb-
bero altro se non le mandolinate liriche ed i drammi a intreccio, ieri sera le
scene popolari di Verga In portineria fecero un gran fiasco […] Cosa volete?
La folla giudicò noiosi I Malavoglia ed insipida, ingenua, preadamitica In por-
117
La lettera è datata «gennaio 1896», ma sarà dello stesso giorno o di giorni con-
tigui a quella del 16 gennaio al Lopez appena citata (cfr. Verga, Lettere sparse cit., p.
244 e p. 309).
118
La lettera, datata Milano 17 luglio 1885, si legge in Raya, Carteggio cit., p. 245.
Ho corretto in inferma un incongruo informe risultante dalla cattiva lettura del Raya.
Per il gemellaggio tra In portineria e Piccolo archivio, si vedano le osservazioni di Oliva
in Verga, Tutto il teatro con i libretti d’opera cit., p. xxvii.
73 «Scene popolari» verghiane
tineria […]. Ritorniamo dunque ai trionfi della Partita a scacchi e del Padrone
delle ferriere119.
non voglio che si strascini qua e là in altri tentativi più o meno falliti prima
che io l’abbia riletta a mente fredda fra qualche mese per vedere se è pro-
prio da buttare nel fuoco, oppure se devo tentare un altro esperimento. […]
Una vera curée, caro Luigi, e ti assicuro che ci è voluto molto coraggio per
affrontarla a testa alta e lasciarla passare tranquillamente e senza aprir bocca.
Cotesto ti mostrerà anche quanto io sia convinto delle mie idee se me ne son
sentite dir tante senza batter ciglio. […] E qualche volta, passami la presun-
zione, è bene illuderci di scrivere pel 1899125.
119
Ferrone, Il teatro cit., p. 183.
120
Ibid., p. 171.
121
Numerosi accenni alla rappresentazione romana si trovano nelle lettere a Pao-
lina di quel periodo, ma se ne darà conto in altra sede.
122
Lo si desume dalla lettera al Capuana da Catania, il 24/9/1886: «La Duse mi ha
scritto che vuol riguardare In Portineria ed io dovrei partire verso la metà di ottobre»
(cfr. Raya, Carteggio cit., p. 261).
123
Musumarra, Il linguaggio cit., p. 22.
124
L’efficace notazione si deve a Gianni Oliva che la estendeva al progetto dram-
maturgico capuaniano (in Verga, Tutto il teatro con i libretti d’opera cit., p. xxvi).
125
La lettera, datata 5/6/1885, si legge in Raya, Carteggio cit., pp. 241-243.
74 Gabriella Alfieri
Io ti faccio i miei auguri per In portineria: ma se tu fossi nel caso, ti vorrei dare
un consiglio. Prima della ripresa di In portineria dai la commedia nuova. È una
malizia che potrebbe giovarti molto126.
126
Cfr. ibid., p. 263.
127
Lettera di Capuana al Verga da Milano, 28/12/1886, ibid., p. 266.
128
Mariani, Sapegno e, più recentemente, Natale Tedesco ribadiscono la superio-
rità del Verga narratore e sottovaluta la portata innovativa di In portineria. Bigazzi,
Ferrone, Barsotti e Oliva invece, in base a documentati spunti storiografici e testuali,
hanno cercato di valutare più obiettivamente l’esperienza del Verga drammaturgo.
75 «Scene popolari» verghiane
129
Barsotti, Verga drammaturgo cit., p. 74.
130
Ibid., p. 76.
131
Lettera al Capuana datata Milano, 5/6/1885, in Raya, Carteggio cit., p. 242 (cfr.
supra nota 57).
132
Cfr. la lettera al Del Balzo del 28 aprile 1881: «Se dovessi tornare a scrivere I
Malavoglia li scriverei allo stesso modo; tanto mi pare necessaria e inerente al soggetto
la forma» (Verga, Lettere sparse cit., p. 110).
76 Gabriella Alfieri
le sono gratissimo. Ma… Non le dirò che in principio io non ho visto di buon
occhio le riduzioni che si son fatte di altre mie cosucce teatrali dove ho cer-
cato di rendere il colore locale, ma a modo mio, e in un italiano intelligibile a
tutta Italia. Però In portineria ha un carattere così spiccatamente locale – mi-
lanese – che poco mi sembrerebbe adatto a un’interpretazione diversa. […]
È uno scrupolo artistico che Lei indovinerà, quello che lascia esitare dinanzi
alla domanda sua che tanto mi onora134.
Il mio repertorio è assai povero, e sta tutto in questa cartolina. Titoli delle mie
commedie: Cavalleria rusticana, In portineria, La Lupa, La Caccia alla volpe e
La Caccia al lupo, semplici scene135.
133
La lettera era datata Roma, 20/3/1887 (cfr. Verga, Lettere a Paolina cit., p. 125).
I corsivi sono dell’autore.
134
La lettera, datata 31/12/1918, si legge in Verga, Lettere sparse cit., p. 414. Il
diniego non era solo frutto di astratto scrupolo artistico, ma, come spiegava l’autore
al Di Giacomo, si basava anche sull’esperienza negativa di tentativi fatti «altrove» di
ritradurre IP in ambienti diversi da quello milanese. Nel 1903 un certo avv. Tommaso
Mauro, proprietario della Compagnia dialettale siciliana di Nino Martoglio, aveva
caldeggiato «la riduzione siciliana della Lupa, di In portineria e di Mastro-don Gesual-
do» (ce ne informa il Raya in nota alla lettera di Capuana a Verga del giugno 1903;
cfr. Carteggio cit., p. 391).
135
Seguivano le date delle prime rappresentazioni di CR e IP. Cfr. Verga, Lettere
77 «Scene popolari» verghiane
sparse cit., p. 435; corsivi miei. La cartolina non è datata, ma risale sicuramente agli
ultimi anni di vita dello scrittore. Proprio il Russo avrebbe notato come per CR non
fosse tanto questione «di influenza del genere letterario, mentre resta poi in pieno il
problema del rapporto artistico fra la novella e il dramma» (Giovanni Verga cit., p.
225).
136
Cfr. G. Verga, Lettere al suo traduttore, Introduzione e note di Giorgio Longo,
Catania, Fondazione Verga, 2004, p. 159.
78 Gabriella Alfieri
Che battaglia di tutti i giorni è questa con sé stesso e con tanti altri! E che
lotta d’interessi, di passioni! Per fortuna sono un animale a sangue bianco, e
non mi lascio scaldare né dagli attacchi, né dagli applausi. Vado avanti per
la mia strada, quella che credo buona, tranquillo e sicuro, e ho almeno la
coscienza di non aver fatto o detto cosa buona o cattiva per secondi fini o
altre basse passioni137.
Gabriella Alfieri
137
La lettera al Paola, datata 11 marzo 1884, è stata pubblicata da Brancifor-
ti, Verga dietro le quinte cit., p. 301. Lo scrittore concludeva:«Voglio soprattutto che
uomini come te sieno contenti di avermi dato la lor amicizia, e dicano che sono un
galantuomo».
Per farla breve. Lo sperimentalismo
linguistico dell’atto unico sveviano
A. Gareffi, Destino, analogia, trasgressione nel teatro di Italo Svevo, in Contributi
sveviani, presentazione di R. Scrivano, Trieste, LINT 1979, p. 87.
L. Veneziani Svevo, Vita di mio marito, prefazione di E. Montale, Milano, Dal-
l’Oglio 1976, p. 151.
80 Pietro Trifone
Lei sa bene come la tessitura di una comedia debba esser lucida, chiara per
quanto si sostenga su un pensiero complesso. Anch’io lo so, ma il male è che
quando ricerco questa lucidezza (ed è ben male il ricercarla) tutto s’immise-
risce nelle mie povere mani che tagliano, aggiungono sformando tutto eppur
non arrivano a mandare al lavoro quel raggio di luce che può rompersi nel
prisma ma in modo tale da poter essere riscostruito. È affare d’orecchio o di
mano? Io non lo so e probabilmente non arriverò a saperlo mai se Ella non
m’aiuta.
Epistolario, in I. Svevo, Opera omnia, a cura di B. Maier, 5 voll., Milano, Dal-
l’Oglio 1966-1969, I, p. 56.
81 Per farla breve. Lo sperimentalismo linguistico dell’atto unico sveviano
Arte e scienza, in L. Pirandello, Saggi e interventi, a cura e con un saggio introdut-
tivo di F. Taviani e una testimonianza di A. Pirandello, Milano, Mondadori 2006, p.
709. Va precisato che Pirandello riprende dichiaratamente tutte queste considerazioni
dal Dizionario estetico di Tommaseo; ma è senza dubbio significativo che le metta in
evidenza e le faccia proprie. Si tenga anche presente che il volume Arte e scienza,
uscito nel 1908, rifonde scritti già pubblicati con altri composti per l’occasione. La
fonte del passo qui citato, in particolare, è l’articolo dello stesso Pirandello Romanzo,
Racconto, Novella, apparso il 16 febbraio del 1897 nella rivista catanese «Le Grazie».
Si veda in proposito F. Rappazzo, Un articolo di Pirandello sulle forme narrative, in
«Allegoria», III, 8, 1991, pp. 155-160 (con la trascrizione del testo dell’articolo alle
pp. 158-160).
P. Szondi, Teoria del dramma moderno, Torino, Einaudi 1962, p. 76.
82 Pietro Trifone
Per la controversa cronologia della produzione drammatica sveviana, si rinvia
una volta per tutte alle note dell’Apparato genetico e commento di F. Bertoni, in I. Sve-
vo, Teatro e saggi, Edizione critica con apparato genetico e commento di F. Bertoni,
saggio introduttivo e cronologia di M. Lavagetto, Milano, Mondadori 2004.
83 Per farla breve. Lo sperimentalismo linguistico dell’atto unico sveviano
Inferiorità, in Svevo, Teatro e saggi cit., p. 467. Su Inferiorità si veda E. Saccone,
Il poeta travestito (otto scritti su Svevo), Pisa, Pacini 1977, in particolare il cap. v del
volume, dal titolo La trasgressione e la regola.
Svevo, Inferiorità cit., p. 447.
Ibid., pp. 453, 457.
84 Pietro Trifone
cratico: Buono per franchi duemila da pagarsi verso consegna del portafogli
del signor Alfredo Picchi contenente ventimila franchi10. Il servitore, che
dà dell’Ella al padrone e naturalmente ne è ricambiato con il più asim-
metrico dei tu, tende a un eloquio fin troppo cerimonioso: Sono certo
che il signor Picchi non avrebbe nulla in contrario che io offra loro – se loro
aggrada – un certo liquore ch’egli predilige11. Ma le cose cambiano nel-
l’ultimo concitato scambio di battute tra Giovanni e Alfredo, quando
il servitore oscilla continuamente tra il lei e il tu, con una trasgressione
del codice linguistico che prelude a quella immediatamente successiva
del codice penale:
10
Ibid., rispettivamente alle pp. 445 (didascalia), 452 e 451.
11
Ibid., pp. 445-446.
12
Ibid., pp. 465-466.
85 Per farla breve. Lo sperimentalismo linguistico dell’atto unico sveviano
13
Anche in precedenza, in seguito a uno svenimento del padrone minacciato da
Giovanni, dunque in una situazione analoga, il domestico aveva adottato il voi: «Ma
padrone mio! Non vedete che sono il vostro servo fedelissimo. Come potete credere
che io voglia farvi del male?», e così ancora per alcune battute (ibid., p. 461).
14
La documentazione completa delle varianti abbandonate si trova nell’apparato
genetico, ibid., pp. 1390-1403.
15
Ibid., p. 452.
86 Pietro Trifone
16
La coscienza di Zeno, in I. Svevo, Romanzi e «Continuazioni», Edizione critica
con apparato genetico e commento di N. Palmieri e F. Vittorini, saggio introduttivo e
cronologia di M. Lavagetto, Milano, Mondadori 2004, p. 1050.
17
P. Trifone, La lingua teatrale di Svevo, in corso di pubblicazione negli Atti del
Convegno ASLI Storia della lingua italiana e storia del teatro: l’italiano e i suoi dialetti in
scena (Bologna 12-14 ottobre 2006).
18
Svevo, Inferiorità cit., pp. 449, 450, 462.
19
Influenzato spesso dal sostrato dialettale, l’abuso della preposizione di da parte di
Svevo risente anche dell’interferenza del tedesco e del francese. Si veda in proposito F.
Catenazzi, L’italiano di Svevo. Tra scrittura pubblica e scrittura privata, Firenze, Olschki
1994, pp. 43-45 (con le precisazioni di G. Antonelli, in «Studi linguistici italiani»,
XXII, 1996, pp. 110-118: 116-17); P.V. Mengaldo, Il Novecento, Bologna, Il Mulino
1994, p. 137 (volume della collana Storia della lingua italiana, a cura di F. Bruni); L. Se-
rianni, La prosa, in Storia della lingua italiana, a cura di L. Serianni e P. Trifone, Torino,
Einaudi 1993-1994, I luoghi della codificazione, I, p. 573, nota 20.
20
Si veda ancora l’apparato genetico che correda I. Svevo, Inferiorità, cit., pp.
1390-1403. Segnalo qui due ulteriori correzioni sveviane riguardanti la preposizione
per: avviato per perdere → avviato a perdere; in procinto di nuovo per fuggire → in procinto
di nuovo di fuggire (didascalia).
87 Per farla breve. Lo sperimentalismo linguistico dell’atto unico sveviano
Pietro Trifone
21
Lettera di Svevo a Montale del 15 marzo 1926, cit. in A.L. Lepschy, Narrativa e
teatro fra due secoli. Verga, Invernizio, Svevo, Pirandello, Firenze, Olschki 1984, p. 89.
Varietà e registri dell’italiano in tre
autori comici del teatro novecentesco:
Ettore Petrolini, Achille Campanile,
Franca Valeri
il tale
In Italia, la rovina del teatro è l’usanza della prima rappresentazione, con
quel pubblico speciale, più o meno presuntoso, più o meno ignorante. Ergo,
aboliamo la «prima» e cominciamo dalla seconda.
l’altro
Ma così la seconda diventa la prima e siamo da capo.
il tale
Bene. Si cominci, allora, dalla terza rappresentazione.
Posso utilizzare questo gustoso testo campaniliano per dire subito che
il mio intervento potrebbe costituire il paradosso opposto, perché si
tratta – per così dire – di una ‘seconda prima’: ho infatti già parlato
di questi tre autori al Convegno di studi Le declinazioni del comico nel
Novecento, svoltosi a Roma nel maggio 2005, e nelle occasioni congres-
suali non dovrebbero essere ammesse ‘repliche’ e neppure ‘riprese’….
Lasciando da parte gli scherzi, cercherò di fornire qualche spunto
di riflessione e alcuni dati per caratterizzare sul piano linguistico tre
A. Campanile, Tragedie in due battute, Milano, Rizzoli 1978, p. 115. Avverto che
nella citazione ho omesso l’indicazione dei personaggi (un tale e un altro) e della
scena («Dove che sia, ai giorni nostri») e la didascalia finale (Sipario).
Segnalo doverosamente che ho tratto qualche dato su Campanile e sulla Valeri
da due tesi di laurea (del vecchio ordinamento) di cui sono stato relatore, discusse
presso l’Università degli Studi Roma Tre: M. Caramazza, La lingua del teatro di Achille
Campanile (a.a. 2002-2003), e F. Patti, Aspetti linguistici del teatro di Franca Valeri (a.a.
2005-2006).
90 Paolo D’Achille
H. Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico, Roma-Bari, Laterza 1982.
Qualche dubbio – come vedremo – si potrebbe avere per le tragedie di Campa-
nile, che però, nonostante certe obiettive difficoltà di allestimento, sono state spesso
rappresentate. Nel caso di Franca Valeri, la scena è a volte quella televisiva.
Sulla brevità come possibile categoria testuale cfr. i contributi raccolti in Testi
brevi. Atti del convegno internazionale (Roma, 8-10 giugno 2006), a cura di M. Dar-
dano, G. Frenguelli, E. De Roberto, Roma, Aracne 2008 [ma 2009].
Come tratti fonetici ‘non cittadini’ del romanesco della Sora Cecioni segnalo
almeno la mancata pronuncia intensa delle consonanti iniziali per raddoppiamento
sintattico o in parole come più o sedia e la tendenza a lenire le sorde postnasali (il
91 Varietà e registri dell’italiano in tre autori comici del teatro novecentesco
segnale di apertura pronto tende a prondo), che è un tratto alquanto stigmatizzato (cfr.
da ultimo P. D’Achille, A. Stefinlongo, La lenizione delle sorde a Roma tra diacronia
e sincronia, in L’Italia dei dialetti. Atti del convegno (Sappada\Plodn [Belluno], 27
giugno-1 luglio 2007), a cura di G. Marcato, Padova, Unipress 2008, pp. 183-196).
E. Petrolini, Il teatro, a cura di G. Antonucci, Roma, Newton Compton 1993;
Id., Facezie, autobiografie e memorie, a cura di G. Antonucci, Roma, Newton Compton
1993. Nelle citazioni successive indicherò questa edizione con la sigla P seguita dal
numero del volume (I per Il teatro e II per Facezie) e poi dal numero di pagina.
Campanile, Tragedie cit. (d’ora in avanti C, seguito dal numero di pagina).
F. Valeri, Tragedie da ridere, a cura di P. Zappa Mulas, Milano, La Tartaruga 2003
(d’ora in avanti V, seguito dal numero di pagina).
10
Una nuova edizione critica del teatro di Ettore Petrolini è stata recentemente
annunciata da Claudio Giovanardi: cfr. C. Giovanardi, La babele delle lingue nel teatro
di Petrolini, in Id., Lingua e dialetto a teatro. Sondaggi otto-novecenteschi, Roma, Editori
Riuniti 2007, pp. 50-61: 51.
11
E. De Filippo, Teatro, ed. critica e commentata a cura di N. De Blasi, P. Quaren-
ghi, 3 voll., Milano, A. Mondadori 2000-2007.
12
Cfr. M. Ariani, G. Taffon, Scritture per la scena. La letteratura drammatica nel
92 Paolo D’Achille
2. Come ho detto, la scelta sia degli autori sia dei testi punta a inda-
gare sulla comicità verbale, più che situazionale, promettente quindi a
priori per un’analisi di tipo linguistico. I nostri tre autori si prestano a
due possibili linee di indagine:
1) studiare la lingua che, per così dire, fa da sfondo alla loro comi-
cità: si tratta di un italiano standard? aulico? colloquiale? E sono
presenti tratti regionali o dialettali o popolari? E sono sfruttati
Novecento italiano, Roma, Carocci 2001, p. 119, che riportano come data delle Trage-
die in due battute il 1924, da riferirsi però solo ai testi più antichi.
13
Grande dizionario italiano dell’uso, ideato e diretto da T. De Mauro, 6 voll., Torino,
Utet 1999-2007 (consultato nella chiave USB allegata al vol. VIII).
14
W. Schweickard, Deonomasticon Italicum. Dizionario storico dei derivati da nomi
geografici e da nomi di persona, II, Derivati da nomi geografici: F-L, Tübingen, Niemeyer
2006, pp. 403-404.
15
Cfr. O. Castellani Pollidori, La lingua di plastica. Vezzi e malvezzi dell’italiano
contemporaneo, Napoli, Morano 1995, pp. 218-219.
93 Varietà e registri dell’italiano in tre autori comici del teatro novecentesco
16
Cfr. rispettivamente E. Paradisi, Il comico nella conversazione spontanea e spet-
tacolare, in Gli italiani parlati. Sondaggi sopra la lingua di oggi (Firenze, Palazzo Strozzi
29 marzo-31 maggio 1985), Firenze, Accademia della Crusca 1987, pp. 219-245; E.
Banfi, Il linguaggio comico: tra pragmatica e strategie linguistiche, in Sei lezioni sul linguag-
gio comico, a cura di E. Banfi, Trento, Dipartimento di Scienze Filologiche e Storiche
1995, pp. 17-69. Specificamente dedicato a Campanile è il saggio di C. Paletta,
Ma cos’è questo topic? Strategie del comico in Achille Campanile, in «Versus. Quaderni
di studi semiotici», XXXII, 1982, pp. 37-45. Sul comico in generale cfr. inoltre G.P.
Calasso, Ipotesi sulla natura del comico, Scandicci (Firenze), La Nuova Italia 1992.
17
Cfr. F. Orletti, La conversazione diseguale: potere e interazione, Roma, Carocci
2000, p. 33, che definisce la lingua dei personaggi di Campanile come «una varietà
formale irreggimentata in locuzioni quasi idiomatiche».
94 Paolo D’Achille
18
M.L. Altieri Biagi, Dal comico del «significato» al comico «del significante», in
Ead., La lingua in scena, Bologna, Zanichelli 1980, pp. 1-57: 39.
19
Cfr. P. Pancrazi, Petrolini, in Id., Scrittori d’oggi, Bari, Laterza 1946, pp. 44-46;
Id., Il riso scemo di Achille Campanile, in Id., Scrittori italiani del Novecento, Bari, Laterza
1939, pp. 209-213.
95 Varietà e registri dell’italiano in tre autori comici del teatro novecentesco
20
Cfr. A. Fabi, Appunti sul linguaggio snob, in «Lingua nostra», XIII, 1952, pp. 54-
55; cfr. inoltre T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, 2a ed., Bari, Laterza,
1970, pp. 178-179.
21
Cfr. G. Lauta, I ragazzi di via Monte Napoleone. Il linguaggio giovanile degli anni
Cinquanta nei reportages e nei romanzi di Renzo Barbieri, Milano, Franco Angeli 2006,
pp. 11-12. Sul linguaggio giovanile, in particolare su quello dei paninari, cfr. almeno Il
linguaggio giovanile degli anni Novanta. Regole, invenzioni, gioco, a cura di E. Banfi, A.A.
Sobrero, Roma-Bari, Laterza 1992.
22
Cfr. F. Rossi, La lingua in gioco. Da Totò a lezione di retorica, Roma, Bulzoni
2002.
23
Cfr. però ora Giovanardi, La babele delle lingue cit.
96 Paolo D’Achille
24
Giovanardi (ibid.) rileva: «Quando si usa il termine plurilinguismo a proposito
del teatro petroliniano, lo si deve intendere in un’accezione ampia» (p. 53); in prece-
denza, lo studioso afferma: «Certo la prima fase della produzione petroliniana, quella
delle macchiette, […] è la più creativa per quanto riguarda le trouvailles linguistiche»
(p. 52).
25
Ariani-Taffon, Scritture per la scena cit., p. 21.
26
Cfr. Banfi, Il linguaggio comico cit., p. 23.
27
Un altro brano delle Sciarade in cui compare scugnizzo, sempre in rapporto a
Viviani, è citato più oltre. Sulla voce cfr. da ultimo N. De Blasi, Testimonianze per
la storia di «scugnizzo», probabile neologismo di fine Ottocento, in «Lingua e stile», XLI,
2006, pp. 229-254.
97 Varietà e registri dell’italiano in tre autori comici del teatro novecentesco
Ecco che nel monologo della Traviata si citano ogni tanto versi del
libretto verdiano, per poi però modificare improvvisamente le frasi,
come dimostrano questi due passi:
28
Il libretto di F.M. Piave reca penato e non peccato (cfr. Tutti i libretti di Verdi, a cura
di L. Baldacci, Milano, Garzanti 1975, p. 319).
29
La ricorrenza dell’aggettivo intrepida non è certo casuale.
30
Sulla voce bullo, che deve la sua fortuna nazionale certamente a Petrolini, ma
che non è di origine romanesca, cfr. F. Albano Leoni, Gita lessicografica fuori Roma.
Breve storia della parola ‘bullo’, in «Il 996», IV, 2006, 2, pp. 73-93.
98 Paolo D’Achille
tutti i grandi uomini che hanno speso la metà della vita per l’indipen-
denza italiana vengono cacciati via. L’ho visto io, con i miei occhi,
31
Si noti che il punto di partenza è giusto, in quanto il nome Jolanda è etimologi-
camente legato al fiore della viola.
32
Cfr. Altieri Biagi, Dal comico cit., pp. 45 sgg.
99 Varietà e registri dell’italiano in tre autori comici del teatro novecentesco
scritto: Via Cavour, Via Garibaldi, Via Mazzini, Via Quintino Sella,
Via Giovanni Lanza. Bisogna scrivere Resta Cavour, Resta Mazzini,
Resta Quintino in Sella (P I, 33).
Sai perché si dice duello? Perché viene fatto con due persone. Perché se fosse
fatto con tre si direbbe triello; con quattro quattriello ecc. (P II, 38).
Per vari aspetti, già alcuni degli esempi citati rientrano anche nel-
la comicità del significante, della quale si possono portare molti altri
33
Sui cartelli e gli striscioni dei cortei cfr. ora A. Stefinlongo, Scrivendo e gridan-
do ti dico di no. I testi brevi del dissenso manifesto, in Ead., L’italiano che cambia. Scritti
linguistici, Roma, Aracne 2008, pp. 195-219.
100 Paolo D’Achille
Tra gli altri esempi che si potrebbero addurre, segnalo questo di Pag-
gio Fernando, in cui però contano anche il nonsense e la parodia pub-
blicitaria:
Mia madre? […] aveva il senso dell’economia sviluppato fino alla genialità
[…]. Figuratevi: io mi chiamo Gastone. Ebbene, lei mi chiamava semplice-
mente Tone per risparmiare il Gas (P I, 162),
Vivi il primiero
Ani il secondo
Scugnizzo l’intero.
Pasqua il primiero
Riello il secondo
Delizia l’intero (P II, 34).
35
Cfr. M. Catricalà, Studi per una grammatica dell’invenzione: l’italiano brevettato
delle origini (1860-1880), Firenze, Ed. Manent 1996.
102 Paolo D’Achille
36
Si noti l’uso dell’aggettivo romanesco riferito a persona, arcaico e comunque
raro.
37
Data l’impossibilità, al momento, di datare il testo, non escluderei del tutto che
il titolo possa alludere alla canzone Lui andava a cavallo, presentata al festival di San-
remo del 1962 dal comico Gino Bramieri e da Aurelio Fierro. Ma l’espressione andare
a cavallo ricorre anche in un’altra tragedia, In tram (C 128).
38
Per brevità mi astengo, tranne in casi particolari, da riferimenti alla lessicografia
romana o nazionale.
103 Varietà e registri dell’italiano in tre autori comici del teatro novecentesco
39
Cfr. G. Zanazzo, Tradizioni popolari romane. Usi, costumi e pregiudizi del popolo di
Roma, Torino-Roma, Sten 1908, II, p. 471.
40
Cfr. F. Chiappini, Vocabolario romanesco, ed. postuma delle schede a cura di B.
Migliorini, 2a ed. con aggiunte e postille di U. Rolandi, Roma, Leonardo da Vinci
1945, p. 360 della 3a ed., Roma, Chiappini 1967 (Rolandi parla di bottega uperta).
Un’attestazione fiorentina del 1890 è citata s.v. bottega nel deli (M. Cortelazzo,
P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, 5 voll., Bologna, Zanichelli 1979-
1988 [nuova ed. in un vol., col titolo Il nuovo etimologico, a cura di M. Cortelazzo,
M.A. Cortelazzo, Bologna, Zanichelli 1999]).
41
Cfr. la voce squagliare nel deli.
104 Paolo D’Achille
42
Cfr. Altieri Biagi, Dal comico cit.
43
Del resto, in L’immane fatica (C 84) la battuta detta da «Atlante curvo sotto il
peso del Mondo: Che rottura di spalle!» può essere considerata una ‘aggiunta iniziale’;
così, in Un dramma nella merceria (C 82), la frase finale del Nastro: «l’azione si svolge
ai giorni nastri», costituirebbe un ‘cambio di vocale’.
44
Cfr. U. Eco, Ma che cosa è questo Campanile, introduzione a A. Campanile, Se
la luna mi porta fortuna, Milano, Rizzoli 1975, pp. 5-13; Id., Il sorriso di Campanile,
introduzione a A. Campanile, Ma che cos’è quest’amore, Milano, Corbaccio 1992,
pp. i-xxxii.
105 Varietà e registri dell’italiano in tre autori comici del teatro novecentesco
45
Cfr. Banfi, Il linguaggio comico cit., p. 48, il quale ipotizza dunque lo sfruttamento
comico dell’opposizione tenue/intensa tra Lucio e l’uscio.
46
Cito tra queste Profittiamo della comodità (C 81), dove al Marito che dice «rin-
casando con un grosso involto: Ho portato le maschere antigas», la Moglie risponde:
«Benissimo. Allora stanotte possiamo lasciare il gas aperto».
47
Cfr. G. Nencioni, Parlato-parlato, parlato-scritto, parlato-recitato, in Id., Di scritto
e di parlato. Discorsi linguistici, Bologna, Zanichelli 1983, pp. 126-179: 169.
48
Come è noto, nel 1938 il regime vietò negli uffici pubblici l’uso del lei come allo-
cutivo di cortesia imponendo il voi, diffuso solo nei dialetti e nelle varietà meridionali:
cfr. S. Raffaelli, Un «lei» politico. Cronaca del bando fascista (gennaio-aprile 1938), in
Omaggio a Gianfranco Folena, Padova, Editoriale Programma 1993, pp. 2061-2073.
106 Paolo D’Achille
50
La stessa autoironia si coglie nella chiusura di alcune tragedie: in Una tragedia
evitata in tempo si legge che «tra le proteste degli spettatori cala rapidamente il (Si-
pario)» (C 7), mentre il già citato Un dramma nella merceria si conclude con Sipario
e fischi (C 82).
108 Paolo D’Achille
titolo, posto alla fine del testo, che è «Ad Angelo, mai» (C 96), con
abile sfruttamento della virgola. Questa tragedia si colloca anche nel
filone dei giochi linguistici di arieggiamento di titoli o locuzioni che
possono ricordare le parodie petroliniane, come Il callo della Checca (C
94), la cui comicità è data anche dall’ambientazione nell’alta società,
a cui l’ipocoristico (regionalmente connotato) non si addice troppo;
La viola del Panzeri (C 93), dove viola è uno strumento musicale, con-
trariamente alla viola del pensiero a cui il titolo allude51; «No, Caràpi
Gina, no» (C 95), che allude a una canzone del primo Novecento,
No, cara piccina, no. Possono richiamare Petrolini anche alcuni giochi
di parole basati sulla morfologia lessicale. Molto divertente, per esem-
pio, lo scambio tra le due amiche di Candore (C 19): quando la Prima
Amica dice: «Luisa si è fidanzata con un nullatenente», la Seconda
Amica replica: «Ahi, non mi fido dei militari» (accostando evidente-
mente il nullatenente a tenenti, sottotenenti, luogotenenti). Giustamente
famoso, infine, l’Incontro (C 89) tra il Signor Tale e il Signor Talaltro:
«Ciao, carissimo. Dove vai? – All’arcivescovado. E tu? – Dall’Arcive-
scovengo».
Sul piano strettamente linguistico, però, Campanile si colloca quasi
agli antipodi di Petrolini: la lingua è sostanzialmente lo standard tradi-
zionale, con una punta di libresco. La scommessa, quasi sempre vinta,
è quella di piegare questo italiano alle leggi della comicità.
Vorrei ora rispondere alla interessante letterina a firma “Mariuccia della Par-
tecipazione”… Vorrei però qualche consiglio sulla “partecipazione” che tanto
angustia una madre di famiglia ecc. ecc.
Il problema è appassionante, Mariuccia. Senza ricorrere alla partecipazione
a banda armata, un po’ troppo abusée, o alle deprimenti partecipazioni sta-
tali così mal frequentate per una signora […] ti consiglio la tradizionale e
sempre ottima partecipazione su cartoncino inglese possibilmente in rilievo
oppure la partecipazione a un buon programma-inchiesta della vecchia RAI
(V 48-49).
Pronto… soccorso.. sì, pronto soccorso… gl’ho fatto una pausa (C 45).
52
Cfr. Lauta, I ragazzi di via Monte Napoleone cit., p. 12. Sul troppo nel linguaggio
giovanile, considerato «probabile sardismo, piuttosto che anglismo», cfr. E. Banfi,
Conoscenza e uso di lessico giovanile a Milano e a Trento, in Il linguaggio giovanile cit., pp.
99-148: 101-102. Rilevo di passata che Lauta segnala la presenza nella Valeri anche
di non è che, la cui frequenza nel linguaggio giovanile è stata rilevata da E. Radtke,
Varietà giovanili, in Introduzione all’italiano contemporaneo. La variazione e gli usi, a cura
di A.A. Sobrero, Roma-Bari, Laterza 1993, pp. 191-235: p. 227.
110 Paolo D’Achille
53
Cfr. L. Renzi, Le tendenze dell’italiano contemporaneo. Note sul cambiamento linguisti-
co nel breve periodo, in «Studi di lessicografia italiana», XVII, 2000, pp. 279-319: 312.
54
Cfr. M.A. Cortelazzo, Parole che si dicono, in «Italiano & Oltre», XV, 2000, pp.
150-151. Sulla produttività del suffisso -ato cfr. U. Wandruszka, Aggettivi di relazione,
in La formazione delle parole, a cura di M. Grossmann, F. Rainer, Tübingen, Niemeyer
2004, pp. 382-402: 398-399.
55
In questo caso, nonne è riportato dopo avolesche tra parentesi, a mo’ di glossa.
56
Cfr. Lauta, I ragazzi di via Monte Napoleone cit., p. 54; Renzi, Le tendenze cit.,
p. 308.
57
Cfr. gradit, che marca la voce come sett[entrionale].
111 Varietà e registri dell’italiano in tre autori comici del teatro novecentesco
58
Cfr. Lauta, I ragazzi di via Monte Napoleone cit., p. 101.
59
Cfr. in particolare M. Medici, Fa fino, fa Capri, fa 38 parallelo, in «Lingua no-
stra», XII, 1951, pp. 90-96; A. Fabi, B. Migliorini, Ancora sul tipo «far Capri», ibid.,
XIII, 1952, pp. 15-16; Lauta, I ragazzi di via Monte Napoleone cit., p. 55.
60
Cfr. ibid., p. 38.
61
Si noti che «il ricorso a -ata – anche se usato in modo sgrammaticato o con fre-
quenza ibrida –» è registrato come tipico del linguaggio giovanile da Radtke, Varietà
giovanili cit., p. 224.
62
Segnalo che per Ariani-Taffon, Scritture per la scena cit., p. 207, «i monologhi
della “Sora Cecioni” trattano con espressione tagliente la condizione della donna
borghese, le sue manie, i suoi tic, la sua solitudine».
112 Paolo D’Achille
Sono una donna angosciata… Eh ben… vedono come sono? Ho subito no-
minato l’angoscia che è uno stato d’animo fuori moda, è superatissimo, roba
del ’68, ’69 al massimo… e allora? Non so definire, è questa la tragedia, che
mi vengon meno i termini… sono fuori di me… espongo il caso. Fino a poco
tempo fa ero una ragazza in gamba… Eh che espressione vecchia, Dio bono,
fa venire in mente Shirley Temple addirittura… non so mica più parlare sa…
appena mi esprimo dico delle cose antiquatissime… del mille… i nuraghi…
sarà perchè sono professoressa e son di casa con gli Etruschi… a me se mi di-
cono fondo oro, monocromo, manierismo per me come dire, Sandro, Giusep-
pe, Mariella e Caterina… che sono i miei nipoti… dei ragazzini infernali…
per dire che razza di dimestichezza ho con le tappe della storia dell’arte. Ma
insomma ero edotta anche sui contemporanei, mica solo quelli della storia
dell’arte, anche quelli che girano per le strade, l’uomo insomma. Ben, sì, l’uo-
mo! Che espressione idiota, mia nonna… io se registro quello che dico, come
parlo, mi prendo paura, dico certe cose da ammazzarmi… ieri a tavola ne ho
dette due o tre da museo… alla minestra ho detto «Il problema è di ordine
psicologico!» ben, l’Ottocento! Alla frutta sono arrivata a dire «Mariella vuoi
tacere quando parla tuo padre!» Sic! e i miei non fanno niente, mi lasciano
circolare, è colpevolezza! L’altro giorno è venuto un ragazzino a prendere la
Caterina, puzzava, gli ho detto «Lavati prima di venire in casa degli altri». Mi
ha fatto una pernacchia, trovo giusto, di fronte a una scena simile, una ma-
tusalemme disinibita. Adesso poi si deve essere spaventato anche il mio me-
dico, mi ha dato un sedativo dopo l’ultima che ho fatto. Stavo insegnando…
insomma ero a lezione… adesso non ci vado più, me lo proibisco da sola… mi
63
Cfr. P. D’Achille, Per una storia del concetto di giovane: aspetti e problemi linguistici,
in Giovani, lingue e dialetti. Atti del convegno (Sappada\Plodn [Belluno], 29 giugno-3
luglio 2005), a cura di G. Marcato, Padova, Unipress 2006, pp. 5-17: 15-16.
113 Varietà e registri dell’italiano in tre autori comici del teatro novecentesco
Paolo D'Achille
64
In qualche tragedia c’è un solo personaggio (Cristoforo Colombo, C 175; Ada-
mo, C 179, ecc.), in altre il secondo personaggio non parla; nel Dramma inconsistente
(C 192) che conclude la raccolta si dice solo che «nessuno tace»: quasi un approdo
all’afasia dopo tanti giochi di parole!
Donna di scena, donna di libro.
La lingua teatrale di Emma Dante
Rimando in merito al mio libro Eduardo, Fo e l’attore-autore del Novecento, Roma,
Bulzoni 2007.
116 Anna Barsotti
primo luogo, e non d’attori (altro che nella propria mente). Il rapporto
carnale fra lingua e dialetto, fra scrittura e oralità s’afferma special-
mente con Scaldati, Scimone, la Dante e Davide Enia, che nascono
come attori, e sulla propria pelle, sulle proprie corde vocali tentano
(in vari modi) l’innesto. Di generazioni diverse, soprattutto il primo,
tendono a rappresentare una stessa fascia sociale, nelle sue varietà po-
polari, ma affermano tutti di aver creato una lingua teatrale:
Io scrivo in dialetto palermitano, mia lingua madre [...], perché voglio pren-
dere spunto dalla realtà. Poi quello che scrivo è filtrato a seconda della propria
sensibilità […] Se qualcuno sente il mio dialetto è chiaro che coglie la sonori-
tà, coglie l’essenza, però si accorge che non è il dialetto parlato comunemen-
te. Acquista un’importanza e diviene lingua teatrale (Scaldati 2007);
Per osservazioni sulla lingua teatrale di Franco Scaldati e di Spiro Scimone cfr. A.
Sica, La drammaturgia degli emarginati nella recente scena siciliana, in Lingua e lingue nel
teatro italiano, a cura di P. Puppa, Roma, Bulzoni 2007, pp. 303-330; ma per il primo si
vedano almeno, di V. Valentini, Franco Scaldati, Soveria Mannelli (Ct), Rubbettino
1997, e Totò e Vice, a cura di V. Valentini, A. Di Salvo, Soveria Mannelli (Ct), Rub-
bettino 2003. Per la lingua teatrale di Davide Enia in Maggio ’43 («un italiano regio-
nale siciliano più complesso e ‘opaco’ del romanesco di Celestini») cfr. S. Stefanelli,
I linguaggi del teatro di narrazione, in Lingua e lingue nel teatro italiano cit., pp. 331-354.
F. Scaldati, Intervista, a cura di C. Bellofiore, Palermo, 27 marzo 2007, in Il teatro
siciliano sperimentale (Joppolo, Scaldati, Scimone, Dante, Enia), Tesi di Laurea Magistra-
le, Università degli Studi di Pisa, Relatrice Anna Barsotti, a.a. 2007/2008.
S. Scimone, Intervista, a cura di C. Bellofiore, Sesto Fiorentino (Fi), 9 marzo
2007, in Il teatro siciliano sperimentale cit.
D. Enia, Intervista, a cura di C. Bellofiore, Palermo, 7 gennaio 2007, ibid.
117 Donna di scena, donna di libro. La lingua teatrale di Emma Dante
C’è una sorta di esplosione nei miei spettacoli che per me è un po’ simile a
certi luoghi palermitani o siciliani in genere, perché non è solo Palermo, è il
sud del mondo ad essere una condizione dell’anima.
Questo teatro dell’impossibile, che fa di Palermo una sorta di rappresentazio-
ne simbolica dell’anima del mondo, incessantemente indaffarata e incessan-
temente morente, è la nostra commedia.
D. Enia, in Tradire la tradizione. Conversazione con Davide Enia, a cura di S. So-
riani, in «Il laboratorio del segnalibro», 23, 2005 (ora in <http://davideenia.org/in-
terv_laboratorio del segnalibro.htm>).
D. Enia, Come principiò il lavoro di “Maggio ’43”, testo su: i bombardamenti di Paler-
mo. La guerra, l’avere 12 anni e l’arte di arrangiarsi, <http://davideenia.org/come_princi-
pio.htm>; già citato in Stefanelli, I linguaggi del teatro di narrazione cit., p. 344.
I. Margarese, Entrevista a Emma Dante, in «Intramuros», n. 21, 2004-2005, p. 6.
E. Dante, Carnezzeria. Trilogia della famiglia siciliana, Prefazione di A. Camilleri,
Roma, Fazi 2007 (contiene: mPalermu, Carnezzeria, Vita mia), pp. 19-20.
10
Così risponde Scaldati ad una domanda sulla nuova generazione degli attori-autori
siciliani: «Gli unici che io ritengo miei epigoni e che rispetto moltissimo sono Ciprì e
Maresco. Gli altri sono bravi ragazzi, ma ancora devono crescere mentalmente. Emma
Dante è brava, come Pirrotta [Vincenzo] o Enia. Io per esperienza posso ammettere che
118 Anna Barsotti
solo dopo dieci o quindici anni ho cominciato a capire veramente me stesso» (Intervi-
sta, a cura di C. Bellofiore, in Il teatro siciliano sperimentale cit.); ancora più drastica la
Dante: «Non penso di avere una tradizione che si rifaccia ad un teatro come quello di
Scaldati. Con lui non c’entro niente!» (Intervista, a cura di C. Bellofiore, ibid.).
11
Cfr. ancora, per Scaldati, Sica, La drammaturgia degli emarginati nella recente scena
siciliana cit.; e, per la Dante, G. Fofi, Emma la vastasa, in Palermo dentro. Il teatro di
Emma Dante, a cura di A. Porcheddu, Civitella in Val di Chiana (Ar), Zona 2006,
pp. 139-141.
12
Sica, La drammaturgia degli emarginati nella recente scena siciliana cit., p. 306. Ri-
chiamandosi nel nome a quello di un’antica famiglia di buffoni creatori, nel 1718,
del Teatro dei Travaglini, Salvo Licata, con Luisa Fornaciari, Pietro De Giorgio, Enzo
Fontana, Giorgio Li Bassi e il pianista Ignazio Garcia avevano dato vita ad un gruppo
che realizzò nel marzo del 1967 uno spettacolo dedicato «all’ultimo guitto di strada
palermitano, Peppe Schiera», interpretato da Giorgio Li Bassi. I nuovi Travaglini si
sciolsero nel 1975, un anno dopo che Scaldati aveva debuttato sulla scena off del
teatro palermitano con la farsa Attore con la ‘o’ chiusa.
13
Mishelle di Sant’Oliva (2005), nato dalla commissione di Rodolfo Di Giammar-
co per la rassegna di teatro omosessuale Il garofano verde, drammaturgia e regia di
Emma Dante; con Giorgio Li Bassi, Francesco Guida; scene e costumi: Emma Dan-
te; luci: Irene Maccagnini; foto di scena: Alfredo D’Amato; direzione organizzativa:
Fanny Bouquerel; produzione: Sud Costa Occidentale; co-produttori: Festival delle
Colline Torinesi, Espace Malraux, Scène Nazionale de Chambéry et de la Savoie,
Drodesera>Centrale Fies; debutta nel giugno 2005, al Festival delle Colline Torinesi,
Cavallerizza Reale (Torino).
14
Per la definizione cfr. P. Puppa, Il teatro dei testi. La drammatugia italiana nel Nove-
cento, Torino, Utet 2003, pp. 200-209.
119 Donna di scena, donna di libro. La lingua teatrale di Emma Dante
15
E. De Michele, Il sangue sotto la finzione..., Intervista a Enzo De Michele, a cura di
P. Bologna, in Palermo dentro cit., pp. 183-185.
16
Renato Tomasino, in un articolo apparso in «Sipario», luglio-agosto 1995, dal
titolo Nuove drammaturgie in cerca d’attori, osservava come il «dopo-Rosso (il gran-
de, e ancora poco rappresentato autore nisseno [...] scomparso nel ’56)» non aves-
se ricevuto in Sicilia «lo stesso impatto del dopo-Eduardo a Napoli». La mancanza
nella parte occidentale dell’isola di una «tradizione attorale fortemente radicata e
codificata [...] al contempo capace di ricerche e innovazioni sperimentali» aveva im-
pedito di produrre quei risultati che invece s’erano dimostrati attraverso la tradizione
partenopea e campana. D’altra parte a Catania, capitale orientale del teatro isolano,
«la straordinaria tradizione attorale che s’era formata attorno alla drammaturgia di
Verga, Aniante, Martoglio e soprattutto» di Pirandello aveva finito per cristallizzarsi
nelle «grandi pratiche di Musco, dei Grasso [...] in una sorta di scuola autogenerata
sotto il segno del carisma di Turi Ferro» come ‘museo vivente’ (p. 40). Le sue consi-
derazioni non mutavano rivolgendo lo sguardo sull’isola del dopo-Joppolo (deceduto
nel ’63). In tale contesto – osservava ancora lo studioso – «la più che ventennale
esperienza drammaturgica e registica di Michele Perriera, maturata a partire dalle in-
novative strategie del Gruppo ’63 ma sostenuta dall’illusionistica metafora metetea-
trale manierista e barocca» è apparsa come «una fenomenologia isolata e insieme ca-
rismatica» (ibid.). Tanto più che «l’autore, dalla rielaborazione marlowiana di Morte
per vanto (1971) fino a Anticamera e oltre ha intriso tale itinerario sperimentale nella
temperie neobarocca di un pirandellismo vivificatore e in quella scenica-attorale di
altrettanto inusitato neo-espressionismo degli effetti sonori, gestuali, illuminotecni-
ci; e ciò grazie alla costituzione di un gruppo di lavoro compatto, carismaticamente
motivato, quale il Teatès (da anni anche scuola di teatro egualmente compatta e
tendenziosa)» (p. 41).
17
«[...] io venivo da una scuola e da dieci anni di tournée come attrice nel teatro di
regia, nel teatro ufficiale, di cui non mi importava niente. E quindi a un certo punto
ho deciso che questa storia doveva finire, e volevo invece incominciare a condivide-
re un percorso con delle persone» (E. Dante, Uno spettacolo è una denuncia archiviata,
conversazione con Emma Dante a cura di S. Bottiroli, Palermo, Addaura, 10 giugno
120 Anna Barsotti
20
Rimando ancora al mio libro Eduardo, Fo e l’attore-autore del Novecento cit.
21
Dante, Carnezzeria. Trilogia della famiglia siciliana cit.
22
Cfr. F. Taviani, Uomini di scena uomini di libro. Introduzione alla letteratura teatrale
italiana del Novecento, Bologna, Il Mulino 1995 (da cui traggo ispirazione anche per il
titolo di questo saggio).
23
E. Dante, mPalermu, Carnezzeria, in «Prove di Drammaturgia», IX, 1, 2003 (pp.
23-28 e pp. 28-33), con Emma Dante: Appunti sulla ricerca di un metodo (pp. 21-23) e
Presentazione di C. Meldolesi, G. Guccini (p. 20).
24
Ho potuto visionare le versioni inedite, del dicembre 2005, di mPalermu, Carnez-
zeria, Vita mia; a Silvia Bottiroli devo le versioni inedite dattiloscritte dei testi della
Dante, con l’autorizzazione dell’autrice, che ringrazio. Indicherò, in nota, i video a cui
faccio riferimento.
25
Vita mia (2004), drammaturgia e regia: Emma Dante; con Ersilia Lombardo, Enzo
Di Michele, Giacomo Guarneri, Alessio Piazza; luci: Cristian Zucaro; direzione orga-
nizzativa: Fanny Bouquerel; produzione Sud Costa Occidentale con Romaeuropa Fe-
stival, Scène Etrangères-La Rose des Vents (Lille), Festival Castel dei Mondi; debutto
122 Anna Barsotti
nell’ottobre 2004, Romaeuropa Festival – Villa Medici, Roma. DVD – ripresa video
effettuata nel Salone Grande di Villa Medici, Roma, a cura di C. Cappellani, 2004.
26
mPalermu, drammaturgia e regia: Emma Dante, con Monica Angrisani (poi Ersi-
lia Lombardo), Gaetano Bruno, Sabino Civilleri, Tania Garibba, Manuela Lo Sicco;
direzione tecnica e organizzativa: Daniela Lo Re [Cristian Zucaro]; foto: Oreste Bron-
do e Lia Ciuccio; produzione: Sud Costa Occidentale; debutta nel novembre 2001 al
Teatro delle Briciole – Teatro al Parco di Palermo. Vince il Premio Scenario nel 2001
con uno studio dei venti minuti, riceve il Premio UBU 2002. DVD – regia di Emma
Dante, regia televisiva di Marco Rossitti, con Gaetano Bruno, Sabino Civilleri, Tania
Garribba, Ersilia Lombardo, Manuela Lo Sicco; luci di Cristian Zucaro, 2006 (collana
Teatro Incivile dell’«Unità» 2006).
27
Da qui in avanti (per entrambi i drammi) citerò dalle diverse versioni usando
le seguenti abbreviazioni: ed. 2003, ined. 2005, ed. 2007, fra parentesi tonda, diret-
tamente nel testo, con l’indicazione delle pagine in numeri arabi, le didascalie in cor-
sivo. La numerazione delle pagine della versione inedita dattiloscritta è mia.
123 Donna di scena, donna di libro. La lingua teatrale di Emma Dante
28
«La schiera è un esercizio che ho appreso da Gabriele Vacis ed è molto impor-
tante perché permette di lavorare sul ritmo [...] si lavora con quei poveretti di attori,
tutti in schiera: e gli fai fare dodici passi avanti e indietro, per ore e ore, chiedendo
loro di non perdere mai il ritmo iniziale [...] di non uscire mai da quella ‘trappola’: di
stare lì dentro tutti mantenendo la concentrazione. [Ora] La faccio a modo mio [...].
La scena diventa una specie di griglia, di linee che si intersecano. [...] La schiera è
diventata una sorta di labirinto [anche] per far perdere l’orientamento agli attori [...],
pur mantenendo sempre la stessa automaticità [...]. C’è un caos ordinato» (Dante, La
strada scomoda del teatro cit., p. 36).
29
Carnezzeria, drammaturgia e regia: Emma Dante; con Gaetano Bruno, Sabino
Civilleri, Enzo Di Michele, Manuela Lo Sicco; direzione tecnica e luci: Tommaso
Rossi; scene: Fabrizio Lupo; foto di scena: Lia Ciuccio; produzione: Crt (Centro di
Ricerca per il Teatro) di Milano; debutta nel novembre 2002 al Crt-Teatro dell’Arte
di Milano. DVD – riprese video effettuate il 4 marzo 2007, a cura del CRT, dalla Sa-
letta Gramsci del Teatro di Pistoia.
124 Anna Barsotti
30
Per il concetto di «avvenimento» cfr. Ju.M. Lotman, La struttura del testo poeti-
co, trad. it., Mursia, Milano 1976 [ed. or. Mosca 1970].
125 Donna di scena, donna di libro. La lingua teatrale di Emma Dante
Sì, c’è il rischio, ma chi se ne frega! Io devo fare i conti, e i conti li posso
fare solo in dialetto. I conti li faccio in dialetto e li faccio con quel tipo di
personaggi, li faccio con i disgraziati, con i farabutti [...]: ci deve essere sempre
qualche conto che non torna... 32;
Sto cercando una lingua. Non è vero che non conosco il dialetto che scrivo,
altrimenti non lo potrei scrivere. Ma questo dialetto mi spiazza, mi sorprende,
perché è una lingua molto aperta alle contaminazioni e alle impurità, elastica
e viva, tanto che alcune parole sono intraducibili in italiano [...]. In questo
senso dico che non conosco il mio dialetto; cioè non lo conosco nella tradu-
zione in italiano33.
Per esempio la frase d’inizio di mPalermu, «chi fa, arapemo ’sta fine-
stra?»:
[...] quel «chi fa» in dialetto racchiude un sentimento molto preciso che è
«se non apriamo questa finestra è la fine, perché moriamo soffocati». Come
fai a tradurlo in italiano? [...] E soprattutto sto scoprendo che certe paro-
le stanno entrando nel mio vocabolario: sono parole rivedute e corrette,
rielaborate, che non esistono nel dialetto che si parla in città ... Quindi ci
sono delle parole che tornano sempre e che sono diventate ormai una cifra
stilistica34.
31
E. Dante, Il mio dialetto bastardo, in «Lo Straniero», 58, 2005, p. 93.
32
Dante, La strada scomoda del teatro cit., p. 58.
33
Ibid., pp. 66-67.
34
Ibid.
126 Anna Barsotti
Mimmo: Nonna Citta spostati! Ancora! Picchì chi hannu sti pantaluni?
Giammarco: Su curti!
Rosalia: Curti!
Mimmo: Cumu sunnu!
Giammarco: Stritti!
Rosalia: Stritti!
Mimmo: E a tia cu t’interpellò?
Giammarco: Sugnu so cugnatu!
Mimmo: E a mia cu mi rappresenti?
Giammarco: Ca sempre so cugnatu sugno è giusto?
Mimmo: Giustissimo, ma senti ’na cosa, e se io posu stu pasticcino, mi levu a
cinta e t’ha scrocchiu in testa, tu chi dici? (ed. 2003, p. 24).
35
«[Il dialetto di Emma Dante] non è filologico e poetico […], bensì imbastardito,
seminuovo, lesionato nella pronuncia da lingue giovani e impure, contaminato da
parlate gergali e dall’italiano» (E. Morreale, I ragazzi di Emma Dante, in «Lo Stra-
niero», 56, 2005, p. 103).
127 Donna di scena, donna di libro. La lingua teatrale di Emma Dante
Mimmo: [...] Nonna Citta, spostati n’anticchiédda! [...] Non mi vede ancora
bene Giammarco, nonna, spostati un altro pochettino! [...] Giammarco, ora
che mi puoi vedere a figura intera, dimmi: chi hannu sti pantaluni?
Giammarco: Curti!
Rosalia: Curti!
Mimmo: Comu sunnu? Non ho sentito bene! (ed. 2007, pp. 27-28).
Eppure, come già detto, il rapporto più stretto con il testo spetta-
colare si ritrova forse nella versione inedita, dove le didascalie ap-
paiono meno sintetiche della prima edizione a stampa, il linguaggio
s’assimila meglio alla lingua in scena. E proprio nel campo semantico
dell’‘evasione’ il confronto risulta importante, a partire dall’attacco
del primo quadro dopo la polifonia di voci non identificate di Il ri-
sveglio:
36
Ho segnalato in neretto sia i termini tradotti (’u vidi> Lo vedi; posu>poso; mi
levu>mi levo) sia le interpolazioni rispetto al passo corrispettivo dell’inedito citato
prima: «Se»; «e finalmente ho le mani libere»; «Devo aggiungere altro?».
128 Anna Barsotti
Nelle tre versioni (al di là della grafia diversa di alcuni termini dia-
lettali) permangono in italiano la prima battuta di Mimmo e il diniego
di Zia Lucia: la scelta è giustificata tematicamente, dal momento che
quest’ultima nota il fenomeno in un bisbiglio a Rosalia; d’altra parte
nella stampa in volume il dialogo s’allunga sottolineando, parzialmen-
te in dialetto, l’orgoglio ombroso e provocatorio di Mimmo. Perciò, la
variante più significativa riguarda il quadro-monologo di Lucia del sole,
che segue Il miracolo dell’acqua nella prima edizione affidato soltanto
alla didascalia, a soggetto. Qui l’appello ad uscire di Zia Lucia è anco-
ra svolto sostanzialmente in dialetto37, tranne tre battute: «mamma è
pronta!» (ed. 2003, p. 27), «Ma mi sentite? Io me ne vado!» (ibid.),
«[...] stiamo arrivando. A famiglia Carollo sta arrivando!!» (p. 28).
Invece nelle altre due versioni (pur con alcune differenze che osser-
veremo) la donna vuole ‘uscire in italiano’ sviluppando la conferma
iniziale di Mimmo («E certo che dobbiamo uscire!»), ed il rapporto
lingua-dialetto s’inverte come avviene nello spettacolo.
L’attacco è identico, nell’inedito e nella stampa in volume, tranne
37
«Zia Lucia: Sugnu pronta! Nisciemu! Rosalia? mamma è pronta! Mimmo? Mi?
Amunì! Giammarco? Pigghia a nonna Citta, ca sugno pronta! Fuori c’è u suli! È giallo
u suli! È bello! Ammunì! Giammarco? Ama a purtari nonna Citta a u mari, ca ci fa
bene ai carni! Giammarco? Amunì! Curri Rosalia, c’ama accattari i scarpi, russi, coi
tacchi, Rosalia! Amunì ca mi mettu puru u russetto! Ama a ghiri o mari, unnè lun-
tanu u mari! Accusì tutti bagnati, sì, che ce ne fotte, che ce ne fotte che ci stanno a
taliare, che taliassero, nui niscemu accussì comu simu! Ma mi sentite? Io me ne vado!
Amunì. Faciti presto ca io me ne vado! Chiuriti i porti, chiuriti i finestri. Uora ama
a nesciri, no rumamani! C’è u suli! È giallo u suli! Unnu u pirdimmu stu trenu! E voi
unni iti, aspettate, ca stamo arrivando. A famiglia Carollo sta arrivando!!! Niscemu
abballannu, accussì [...]» (ed. 2003, pp. 27-28).
129 Donna di scena, donna di libro. La lingua teatrale di Emma Dante
Zia Lucia
Sono pronta!
Usciamo.
Rosalia? La mamma è pronta! Sbrigati!
Mimmo? Mi?
Amunì, che sono pronta! Mi senti?
Giammarco, prendi la nonna Citta che la portiamo al mare.
[(Si fotte dalle risate)]
Mii Mimmo, ci ’ù [ciù] dissi in italiano!
Usciamo in italiano! (ined. 2003, p. 29; ed. 2007, p. 64).
Zia Lucia
Fuori c’è ’u suli! Ma non lo vedi come è bello questo sole?
È grande ’u suli! È giallo!
Amunì! Rosalia vieni subito qua!
Amunì, ca mi metto pure il rossetto, rosso!
[(Mimmo strizza la canottiera e se la rimette bagnata)].
Accussì[, Mimmo,] tutti bagnati, sì, che ce ne fotte che ci stanno a taliare
[taliàri], che taliassero [chi taliàssero], noi usciamo così come siamo, tutti
bagnati!
[(Rosalia si rimette le tappine)] Tanto fuori c’è ’u ventu chi ’n’asciuga! Mii [...]
ventu! Mimmo mi senti? Mii ventu! [Mii... vento!]
[(Zia Lucia si riveste velocemente ed esorta gli altri a fare lo stesso). Amunì, spic-
ciatevi, che il sole cala! A noi sta aspettando. Mi sentite?
(Agli spettatori) E voi non ve ne andate che stiamo arrivando.]
E voi aspettate che stiamo arrivando (ined. 2005, pp. 29-30; ed. 2007, pp.
64-65)38.
38
Continuo a segnalare, qui e dopo, fra parentesi quadra le varianti lessicali e gra-
fiche e le aggiunte di battute dell’edizione 2007.
130 Anna Barsotti
con l’allegro Leit-motiv rivolto agli spettatori: «La famiglia Carollo sta
arrivando!!! Ballando ballando: il mambo mambo!» (ined. 2003, p.
30; ed. 2007, p. 65).
Nel silenzio d’un urlo-sbadiglio all’impiedi – anche nella «morte in
dialetto» (ed. 2007, p. 70) di Nonna Citta – si chiuderà invece l’ope-
ra, nonostante l’emozionante scena collettiva dell’acqua che da un
tappo si trasforma in scialo, e da scialo in mare del Sud, mostrando
inavvertite analogie con Agua di Pina Bausch, «ritratto coloratissimo
e ammaliante del Brasile, quasi un musical onirico»41.
39
«Chi fa: a rapemu sta finestra?» (ed. 2003, p. 23); «Chi fa, ’a grapèmu sta fine-
stra?» (ed. 2007, p. 23)
40
Come già notato da Silvia Bottiroli, nel suo bel saggio I felici pochi di Emma
Dante. La grazia scomoda del teatro cit., nel testo pubblicato su «Prove di Dramma-
turgia» la frase «L’amu ’a lassari ’stu porto chino di navi di pietra» non compare, «a
dimostrazione di come la scrittura di Emma Dante intrattenga una relazione costante
con la scena, dalla quale viene modificata nel corso del tempo» (p. 23).
41
Cfr. L. Bentivoglio, Il mondo d’acqua di Pina Bausch, in «la Repubblica», 18
131 Donna di scena, donna di libro. La lingua teatrale di Emma Dante
Dalla famiglia allargata tipica del Sud, di mPalermu, con i suoi le-
gami interni insondabili ma qui priva della figura paterna, si passa al
nucleo ristretto, esclusivamente fraterno, di Carnezzeria. Il mare s’è
attraversato ma per celebrare una festa funebre, un matrimonio per
finta che culminerà in un suicidio alla rovescia.
Carnezzeria è il più traumatico dei drammi della Trilogia, il più grot-
tesco (nel senso di tragi-comico) a partire dalla figura della sposa-so-
rella, candida ma con la croce nera sulla pancia gonfia d’una vita desti-
nata a non nascere. All’origine di questa figura che oscilla fra catatonia
e frenesia c’è sicuramente – come è stato notato – la sposa meccanica
di Kantor42, ma se ne approfondiamo le radici drammaturgiche isola-
ne c’è anche la Bella addormentata di Rosso di San Secondo, il suo
espressionismo fantastico-regionale43. Manca qui, però, il brigantesco
ma cavalleresco Nero della Zolfara; le tre figure maschili che circonda-
no la pupa di carne sono appunto fraterne ma sadiche amanti: nessuna
salvezza è possibile per Nina, «’a scimunita», il cui sbadiglio iniziale
finirà soffocato.
Anche l’ultimo testo edito di Carnezzeria allunga molto la storia ri-
spetto al primo, le battute si moltiplicano e si distribuiscono, le scene
a soggetto descritte dalle didascalie si trasformano in azioni e parole.
Dal punto di vista linguistico il rapporto italiano-dialetto appare rove-
sciato rispetto a mPalermu: se nella prima commedia – nello spettacolo
anche per il ritmo concitato della recitazione – macchie di lingua, ed
in momenti pieni di senso, sporcavano il palermitano, qui, al contra-
rio, macchie dialettali sporcano una lingua molto parlata ma riela-
giugno 2007. Non balletto, ma Tanztheater, creato dalla coreografa nel 2001 e rappre-
sentato in prima italiana alla Fenice di Venezia dal 12 al 15 luglio del 2007.
42
«In Wielpole Wielpole, Helka, “la sposa vestita da sposa”, viene violentata dal sol-
dato e derisoriamente gettata per aria [...]. Il manichino di Helka e l’oggetto-Nina sono
inevitabilmente le due facce dello stesso segno scenico. La violenza della Storia segna
un popolo, così una terra o un singolo individuo: la Piccola Storia balla sempre con la
Grande Storia in una lotta feroce che è il teatro, come ricorda Eugenio Barba» (Glioz-
zi, Memorie in costruzione. Percorsi necessari nel teatro di Emma Dante cit., p. 120).
43
Rimando al mio libro, A. Barsotti, Pier Maria Rosso di San Secondo, Firenze, La
Nuova Italia 1978; ed in particolare al mio saggio Epicità de La bella addormentata
(di Rosso di San Secondo), in «Rivista Italiana di Drammaturgia», II, 3/4, 1977, pp.
131-167.
132 Anna Barsotti
44
Anche in questo caso la Dante mescola, coscientemente o inconsciamente, sug-
gestioni europee e radici drammaturgiche siciliane, di quegli autori però che, come
Rosso e come Joppolo, pur in tempi diversi mescolano l’Isola con l’Europa. Se è vero,
come afferma Melanie Gliozzi, che «le fotografie sono frammenti di vita morta, sot-
traggono la vita allo scorrere del tempo, cioè alla stessa cosa di cui conservano la
memoria. Un ossimoro che secondo Kantor era l’unico strumento per reintrodurre
il concetto di vita nel teatro, cioè attraverso l’assenza di vita, un segno registico che
popola tutte le creature di Emma Dante» (Gliozzi, Memorie in costruzione. Percorsi
necessari nel teatro di Emma Dante cit., p. 119), le fotografie dei morti costituiscono la
climax di Una visita di Beniamino Joppolo, che l’autore di Patti scrive nel 1943, sebbe-
ne il testo rimanga inedito fino al 1965 (pubblicato in «Ridotto»). E bisogna arrivare
al 1982 per la rappresentazione dell’atto unico, insieme a La Provvidenza, per la regia
di Gianni Scuto, a Piscador di Catania, con la Cooperativa 37° Parallelo. Si è parlato
a proposito dell’opera sia di «espressionismo caratteriale» sia di «espressionismo me-
diterraneo» (formula quest’ultima legata anche al teatro di Rosso di San Secondo);
eppure, rispetto alle precedenti, qui emergono tratti di surrealismo grottesco, che di-
venteranno predominanti nel lavoro forse più famoso di Joppolo: I soldati conquistatori,
primo titolo, nel ’45, di I carabinieri. Cfr. A. Barsotti, Da Patti a Parigi sulle tracce
di un’avanguardia mediterranea, in Beniamino Joppolo dalla Sicilia alla Francia: viaggio
nell’immaginario e nell’opera di un autore divergente, libretto edito a cura di La Città del
Teatro di Cascina, con scritti di E. Moscato, G. Rizzo, per il progetto di produzione
e ricerca Un grido d’allarme ideato e diretto da A. Alveario, A. Garzella, con la mia
consulenza drammaturgica (stagione teatrale 2005-2006).
45
«[...] ’Unn’a sannu tutti ’a verità?» (ined. 2005, p. 14).
133 Donna di scena, donna di libro. La lingua teatrale di Emma Dante
della fotografia tra i due fratelli minori, troncato dal maggiore dopo
la frase-schiaffo di Ignazio «Toruccio facciamo cavalluccio!»; scena
che svela il primo stupro famigliare, di Toruccio bambino da parte del
padre; lite violenta fra Ignazio e Toruccio, finché Paride non si rivolge
contro Nina, momentaneamente messa da parte ma colpevole d’es-
sersi impadronita delle foto; scena di violenza sadica dei tre ‘sacerdoti’
nei confronti del capro espiatorio; contorsioni di Nina, la cui pancia,
colpita dal calcio di Paride, improvvisamente si muove come corpo a
sé; danza delle pellicce per distrarre la donna dal parto intempestivo,
che si muta in stimolo d’eccitazione erotica per i maschi; la sorella in-
dossa una pelliccia e si trasforma in puttana; seconda e fondamentale
rivelazione nel monologo di Nina, che racconta candidamente d’aver
dormito con Paride, e a volte anche con Toruccio ed Ignazio; Nina
inchiodata al palco dal velo nuziale, lasciata sola dall’uscita, uno per
volta, dei fratelli, s’impicca all’incontrario.
Confrontando – ancora – l’edizione 2003 con l’inedito del 2005 e
con l’edizione del 2007 si nota subito come le due scene iniziali (al-
lestimento del palco con candelotti elettrificati e festoni di lucette,
risveglio di Nina) si amplino notevolmente nell’ultima stampa sia nei
riferimenti scenografici delle didascalie sia nelle battute (il gioco delle
coppole, la corsa della fantomatica motocicletta...); così come s’allun-
ga il monologo di Nina («Noi siamo di Roccapalumba») mentre lei
incomincia ad estrarre dalla fascia (che le protegge il pancione) le foto
che illustrano il passato della famiglia, ma divaga sul viaggio compiuto
in traghetto ed accenna per la prima volta ai gabbiani (di cui Paride
fa il verso). Nello sfogliare le fotografie, insieme ai fratelli, emerge
a partire dall’inedito qualche frase in dialetto: «Talè ccà!» (Paride,
a proposito della festa di carnevale); «Vincivi ’a coppa. T’u ricordi
Paride?» (Toruccio); «Se, ’u coppulone! [...] Vincisti ’u coppulone!!!»
(ined. 2003, p. 5; ed. 2007, p. 89).
Quando la risata sfottente di Toruccio introduce la foto fatale –
«Ignazio vestito da femmina!! Con il vestitino rosa e il fiocchetto!»
(ed. 2003, p. 29, ined. 2005, p. 6 e ed. 2007, pp. 91-92) – si scatena
una discussione fra i maschi: «È Graziella!» (Paride), «È Ignazio!» (To-
ruccio), finché non esplode, a specchio, la contro-risata di Ignazio: «È
Toruccio!» che smorza violentemente ogni allegria, mettendo il dito
nella piaga. Qui, mentre nella prima e nella seconda versione Paride
reagisce parzialmente in dialetto («Mezz’ora pi sparari sta minchiata»,
p. 29; «E tu ci metti mezz’ora pi sparari ’sta minchiata», p. 7), nell’ulti-
ma traduce «e dopo mezz’ora spari questa stratosferica minchiata» (ed.
2007, p. 93), colpendo in palermitano piuttosto la sorella («’unn’u sai
134 Anna Barsotti
fuori una tetta allatta il figlio non ancora nato» (ibid.). Nello spettacolo,
in realtà, Nina sullo sfondo solleva sulle cosce la gonna da sposa rit-
mando un processo-rito mastubatorio.
È anche il primo avvenimento del testo, che converte l’azione in
incubo memoriale, in flash-back stilizzato ma, ciononostante, di forte
impatto emotivo, trasformando il seguito della storia in una successio-
ne di violenze. Se la prima parte dello spettacolo ha un andamento rit-
mico a strappi, per i ripetuti tentativi d’abbandono dei tre uomini che
ogni volta (con meccanismo comico da diavolo a molla) Nina richia-
ma indietro o trattiene, lamentandosi come una bambina grottesca, il
ritmo ed il gusto della performance plurale di quei tre, che compiono
salti e buffonerie quasi circensi, cambia in seguito all’evento che viola
il tabù d’una mascolinità sicula, infranta (nel corpo e nell’anima) da
un torbido e violento incesto padre-figlio.
E nella sequenza di brevi e rapidissime battute pronunciata alterna-
tivamente dai tre maschi e dalla sorella si intrecciano lingua con poco
dialetto, come in una giaculatoria (comprensiva d’un atto di dolore
recitato in italiano) che culmina nella delirante sintesi, eppure lirica,
della vittima dello stupro. Qui si osserva un fenomeno misto rispetto
a quello generalmente individuato: più breve nella prima versione, e
perlopiù in lingua, il monologo plurivocale di Toruccio s’amplia nel-
l’inedito e nell’ultima stampa (che si corrispondono) per l’inserimento
di battute in italiano ma anche in dialetto: «“U vidi appena ’un ti levi
’vizio ’i chiànciri?”»; «“Beddu beddu beddu si’!”» (ed. 2007, p. 103),
virgolettate perché echi della voce paterna. Nello spettacolo Sabino
Civilleri simula con un movimento a scatti un atroce galoppo, perché
contiene mostruosamente gioco infantile e suo sfruttamento da parte
del padre-padrone.
L’incubo s’interrompe nelle tre versioni all’urlo di Toruccio («Paride
dopo tocca a te!»), ritornando di colpo l’azione alla scena preceden-
te: con la ripetizione dello scappellotto e della battuta del maggiore
(«Pigghiati ’a coppola!»). E s’accende sempre più la lite violenta fra i
minori che, a partire dall’inedito, si amplia con nuove battute anche
in dialetto, quelle particolarmente forti e oscene:
Ignazio: ’U capisti, ’infame chi [ca] ’un si’ avutru? Se ’un ti cuci ’a vucca, ti
fazzu addiventare l’orifizio d’u culu quantu n’a casa [cascia] e ’u fiatu t’u fazzu
nèsciri direttamente d’u stessu posto unni ti passa [nèsci] ’a merda... [...] Ti
scripèntu!
Toruccio: ’U sai, ’gnazianeddu, chi m’a puoi sucare! Niente miscatu cu nud-
du, sii [si’]! ’Un t’u dimenticare: «Suca! Suca! Suca!».
136 Anna Barsotti
Ignazio: ’Un ti bastava faritìlla sucare da papà, eh? [...] Picchì ’unn’è ’a veri-
tà, Paride? ’Unn’a sanno [sapèmu] tutti ’a verità? (ined. 2005, p. 14; ed. 2007,
pp. 105-106).
La lite sembra precipitare nelle ultime due battute scambiate dai fra-
telli minori, sostanzialmente in dialetto in tutte e tre le versioni (Ignazio:
«Dissi ’ca si’ un finocchio!»; Toruccio: «Chi mi dicisti?», ibid., p. 106)47;
ma Paride distrae l’attenzione per rivolgerla a Nina e colpirla, dopo aver
buttato a terra le foto dello scandalo. Anche questa scena, nella prima
edizione affidata alla didascalia48, s’amplia progressivamente dall’inedito
all’ultima edizione, dove appare articolata per momenti successivi. Nel
testo del 2005, inizialmente, è solo Paride a ritenere Nina «responsabile
dell’accaduto» e minaccia di colpirla proprio perché «se lei non avesse
portato con sé le foto facendo riaffiorare gli inquietanti ricordi d’infanzia, tutto
sarebbe andato liscio come l’olio», come recita la didascalia esplicita nella
versione inedita (p. 15). Poi immobilizza i due fratelli «acchiappandoli
dalla nuca come fanno i gatti con i cuccioli» e li costringe a cercare con
lui quella «buttana di fotografia» per dimostrare la propria «ragione»;
ma non la trovano e quindi «dopo una breve pausa» si accaniscono sulla
sorella. Nell’ultima edizione di ogni momento si scrivono le battute, sia
in italiano, sia in dialetto come quella rivolta da Paride a Nina:
47
«IGNAZIO: Dissi ca si un finocchio; TORUCCIO: Chi mi dicisti?» (ed. 2003,
p. 31); «IGNAZIO: Ti dissi ’ca sii un finocchio» (ined. 2005, p. 15).
48
«Paride va verso Nina e scaraventa a terra le foto. Nasce un violentissimo litigio fra i
tre. Nina, nel frattempo, riprende le foto e si nasconde dietro la sedia. I tre si fermano per
chiarire la questione della foto, ma non la trovano. Lo sguardo in cagnesco ricade su Nina. I
tre si avvicinano a Nina» (ed. 2003, p. 31).
137 Donna di scena, donna di libro. La lingua teatrale di Emma Dante
49
Nell’inedito variano soltanto le didascalie: la battuta di Ignazio è contrassegnata
da un «Preoccupato» e quella di Toruccio da un «Con finto sussiego».
138 Anna Barsotti
50
Anche quando Paride usa la pelliccia per coprire Nina dalla cintola in giù, e
invita gli altri ad imitarlo, si aggiungono delle battute tutto sommato riempitive: «To-
ruccio: Sì, io la copro, cazzo, ma se nasce che minchia ce ne facciamo?; Paride: Non
lo so, non lo so...; Ignazio: È troppo tardi! Prima ce ne dovevamo andare... tutta
colpa di quella buttana di Graziella!; Paride: Nina, non lo fare! Non lo fare!» (ed.
2007, p. 121).
139 Donna di scena, donna di libro. La lingua teatrale di Emma Dante
Questo bambino è buono! È già la terza volta che vuole uscire. Ma io lo trat-
tengo e lui va a dormire. «Non è ora», gli dico! «Non è ora! Zio Paride dice
che dobbiamo aspettare» (ed. 2007, p. 124).
Per il resto, nel passaggio dalla prima edizione all’inedito e poi al-
l’ultima stampa, ancora una volta il monologo candido e crudo della
protagonista (più crudo nella stampa iniziale, da cui è espunta la frase
«so usare la bocca, faccio i cerchi con la lingua», p. 32) si articola
includendo i movimenti e gli atteggiamenti dei fratelli, finché la stan-
chezza non fa crollare Nina sulla sedia-trono e la sua salma non viene
ricomposta con velo e fiori.
Il monologo s’allunga, per esempio, sviluppando in parole l’azio-
ne indicata soltanto dalla didascalia nella prima stampa, dove Nina
«prende le pellicce da terra e sprimacciandole le ridà ai fratelli aiutandoli a
rivestirisi» (p. 32); nel copione e nell’ultima stampa Nina dice: «Paride,
rivestiti, che si è fatto tardi! Avanti, Ignazio, mettiti la coppola, se non
ti si ghiaccia la testa. Toruccio, aggiustati la camicia [...] stamattina te
l’ho stirata» (ined. 2005, p. 26; ed. 2007, p. 126), anche se le battute
sono più brevi nello spettacolo. E nell’ultima edizione il monologo
comprende interpolazioni anche rispetto all’inedito, ora nelle parti di-
rette ai fratelli ora in quelle rivolte al pubblico, secondo una scansione
che solo questo testo prevede mediante appunto le aggiunte: quando
parla della casa che avrà, senza chiavi alle finestre e con le porte sem-
pre aperte (come quelle che avrebbero voluto spalancare i famigliari
di mPalermu), Nina continua: «A Natale e a Pasqua, io, mio marito e
il bambino vi veniamo a trovare. Mio marito la conosce la strada per
tornare al paese, vero Paride?», implicando la conferma del fratello
(«La sa a memoria»); così come addiziona le battute che palesano il
tema d’una preoccupazione e d’una premura quasi materne («Come
farete senza di me? Meschineddi! [...]») delineando la psicologia di un
personaggio ansiosamente proteso ad esaltare la necessità della propria
presenza per la paura dell’abbandono. Di qui la virata nei confronti
vengono a trovare e dormiamo tutti insieme» (ed. 2003, p. 32); «ci vengono a trovare.
Dormiamo tutti insieme» (ined. 2005, p. 25).
142 Anna Barsotti
dei suoi invitati nella battuta, anch’essa, aggiunta: «Ma chi si misero
in testa sti tre scansafatiche? Io grande sono. Se aspetto ancora, addi-
vento zitella» (ed. 2007, pp. 126-127). Ne emerge il motivo principale
– comune alle tre versioni – che incomincia con «Io so fare tutto [...]»
e termina con «Faccio tutto a comando» (ibid., p. 127); con il posludio
che accompagna il riallaccio della fascia – fatto fare da Toruccio – alle
parole: «Questa fascia ce l’ha data il prete. Perché questo bambino è
santo [...]», in tal modo creando con l’attacco della prima versione e
dell’intermedia un anello perfetto.
L’impressione è che l’attrice-autrice (anche se non interprete di
persona) nel diventare donna di libro abbia ceduto alla tentazione
di chiarire il personaggio, anche a livello, appunto, psicologico; lad-
dove nella prima versione a stampa (paradossalmente più simile ad
un canovaccio) e nel copione (l’inedito) la figura di Nina s’imprime
piuttosto attraverso folgorazioni successive: la premura affettuosa per
i suoi tre uomini nell’azione del loro rivestimento (con le poche pa-
role che l’accompagnano); il sogno d’una casa tutta porte e finestre
aperte e d’una quotidianità domestica priva di misteri inquietanti; la
rivendicazione d’una propria utilità, magari banalmente femminile ma
feconda, che (dopo la battuta sulla fascia) declina nell’in-coscienza
dell’automa («Faccio tutto a comando»). Il tutto – persino l’incesto
con i fratelli («Una notte ho fatto un sogno: ho sognato delle grandi
ali dorate [...]») – sacralizzato da una demenza che non può dirsi sol-
tanto tale, perché è quella dei piccoli-grandi visionari che rovesciano
le più meschine o atroci realtà.
Lo stesso processo d’ampliamento un po’ ridondante53 si riscontra
nell’ultimo quadro: come tornando all’immagine iniziale, ma restando
fissata al velo con cui s’impiccherà «da terra verso il cielo», la vergine
incinta – senza sapere di quale spirito – è via via abbandonata, unica
icona sulla scena. L’efficacia straordinaria di questo finale risiede an-
che nella sua rallentata brevità, nel silenzio cioè che scandisce ogni
patetica voglia di Nina (fragole, panna, carezza) e, di conseguenza,
ogni allontanamento, attraverso la sala, dei fratelli; l’aggiunta di bat-
tute nell’ultima edizione disturba questo silenzio − che contagia nello
spettacolo il pubblico − persino nel delirio dell’abbandonata, dopo
che Paride ha inchiodato il velo al palcoscenico:
53
Emma Dante conferma: «Anche Carnezzeria, che è in italiano, ha comunque in
sé il dialetto. Ora ho riscritto il testo di Carnezzeria, in vista della pubblicazione ed è
leggermente cambiato [...]» (Dante, La strada scomoda del teatro cit., p. 67).
143 Donna di scena, donna di libro. La lingua teatrale di Emma Dante
Mio marito è bello, perché I miei fratelli me l’hanno (Agli invitati) I miei fratelli
pure l’occhio vuole la sua parte, combinato questo matrimonio. me l’hanno combinato questo
non si dice così? I miei fratelli Loro ci pensano a me, vero! matrimonio. Loro ci pensano a
me l’hanno combinato questo Mio marito è bello, perché pure me, vero! Che farei io senza di
matrimonio, loro ci pensano l’occhio vuole la sua parte, non loro, eh?
a me, vero! Questo bambino si dice così, Ignazio? (A Paride) Mio marito è bello,
è santo. Mio marito è santo. PAUSA perché pure l’occhio vuole
Glielo ha detto a Paride! I Paride la guarda, sorpreso. la sua parte, non si dice così,
miei fratelli mi rispettano, per Questo bambino è santo. Mio Ignazio?
questo me li sono portati. Mii marito è santo. Glielo ha detto Pausa
quanti gabbiani! Sono tutti a Paride! Parla coi suoi fratelli come se li
morti... (Paride comincia ad I miei fratelli mi rispettano, per avesse ancora tutti accanto.
avviarsi verso l’uscita) Sii tu questo me li sono portati. Questo bambino è santo. Mio
Toruccio! È Graziella! Mii che Mii quanti gabbiani! marito è santo. Glielo ha detto
era tinta! Ma dove le hai prese Sono tutti morti. a Paride!
queste fotografie, Nina, erano Paride comincia ad avviarsi verso Toruccio è bravo, è già la terza
secoli che non le vedevamo! l’uscita. volta che vuole uscire.
Paride! Riportale a casa! Sii tu Toruccio! I miei fratelli mi rispettano, per
È Graziella! Mii che era tinta! questo me li sono portati.
Ma dove le hai prese queste Mii... quanti gabbiani!
fotografie, Nina, erano secoli Sono tutti morti.
che non le vedevamo! Paride, Paride, mani in tasca e sguardo
riportale a casa! basso, si avvia verso l’uscita.
Si’ tu Toruccio! He he he! Io
lo trattengo e lui va a dormire.
È Graziella! Mii... che era
tinta! Appena prendevi la
fascia nera dalla credenza:
Ppem! Ti faceva saltare la
pancia... Si muove, papà! Si
muove, papuzzo! Mio Dio mi
pento e mi dolgo con tutto il
cuore dei miei peccati, perché
peccando...
Ma dove le hai prese queste
fotografie, Nina, erano secoli
che non le vedevamo!
(Urlando) Paride!
(Paride si ferma) Riportale a
casa!
Ed. 2003, p. 33 Ined. 2005, p. 28 Ed. 2007, pp. 130-131
Rimasta sola, spaesata, illuminata, la pupa senza risvegliarsi comple-
54
G. Bruno, Forza e verità in scena. Intervista a Gaetano Bruno, a cura di P. Bolo-
gna, in Palermo dentro cit., p. 167. «Al termine del lavoro di improvvisazione, quando
abbiamo nelle mani una struttura chiara, [Emma] scrive il testo – anche per la regi-
strazione alla Siae –, mentre noi continuiamo a lavorare su un canovaccio che deriva
dalle nostre improvvisazioni e dai suoi suggerimenti».
55
Cfr. in proposito ancora Bottiroli, I felici pochi di Emma Dante. La grazia sco-
moda del teatro cit.
56
«Nel primo studio di mPalermu» – racconta la Dante – «dopo la piccola abbuf-
fata, Sabino recitava il testo di una bellissima canzone dei fratelli Mancuso [ma] tutto
145 Donna di scena, donna di libro. La lingua teatrale di Emma Dante
quello che accade durante la sua piccola abbuffata [...] è tremendo, spesso capita che
vomita in scena dopo essersi ingozzato [...] ho capito il suo desiderio. Era l’acqua la
sua poesia, la sete [...] Sabino dice con un filo di voce la battuta più significativa e più
necessaria di tutto lo spettacolo; la sintesi di Palermo: “Ho sete”» (Dante, Appunti
sulla ricerca di un metodo cit., p. 21).
57
«Per esempio in mPalermu, alla fine dello spettacolo, la zi’ Lucia pronuncia il suo
tormentone, “niscemu niscemu”, e non escono mai i personaggi. Ad un certo punto
dice “usciamo” in italiano, quasi esasperata. Così ho pensato: “proviamo a dirlo in
italiano, vediamo se ce la facciamo”. L’italiano diventa così un’alternativa, la lingua
diversa che viene ascoltata perché strana alle orecchie dei personaggi» (Dante, Inter-
vista, a cura di C. Bellofiore, in Il teatro siciliano sperimentale cit.).
58
Stefanelli, I linguaggi del teatro di narrazione cit., p. 348.
59
Cani di bancata, in «Hystrio», XX, 1, 2007, pp. 102-107.
60
Per la definizione di drammaturgia ‘consuntiva’ rimando a S. Ferrone, Non cala
il sipario. Lo stato del teatro, a cura di J. Jacobelli, Roma-Bari, Laterza 1992, pp. 97-102.
Ho usato molto il termine nei confronti di Eduardo, perciò rinvio alla mia Introduzio-
ne al volume della Cantata dei giorni pari (I) e ai volumi della Cantata dei giorni dispari
(I-II-III), dei quali ho curato la nuova edizione Einaudi, e che sono usciti rispettiva-
mente nel 1998 e nel 1995.
146 Anna Barsotti
nelle scene di violenza dei fratelli sulla sorella, quasi per supplire con
l’asprezza delle parole, delle ingiurie alla mancanza della visione – per
il lettore – di quella violenza. Si aggiunga la cura delle didascalie, qui
ampliate nella direzione del dettaglio psicologico ed interpretativo (da
parte della drammaturga). Anche se spunta – come ho detto all’ini-
zio – da queste didascalie in lingua qualche termine dialettale, a ricon-
fermare – a mio avviso – il piglio attoriale dell’autrice. Ripensiamo a
«’O vascio ’e donn’Amalia Jovine» in Napoli milionaria! di Eduardo
De Filippo: come una battuta dell’attore-autore che scappa fuori dal
testo scritto.
Anna Barsotti
Linguaggi e universi creativi
nel teatro di Giuseppe Manfridi
ti, senza nulla rischiare e senza nulla investire in idee innovative. Per
di più la disattenzione e l’incuria si estendono ai nostrani mezzi di co-
municazione di massa: scomparso dalla televisione (o relegato in orari
impossibili), il teatro vive tempi grami anche sulle pagine dei giornali,
dal momento che lo spazio per le recensioni degli spettacoli teatrali si
è progressivamente rattrappito, sin quasi al dileguo.
Colgo questa occasione congressuale per mettere a fuoco una serie
di considerazioni che mi è venuto di fare nelle diverse occasioni in cui
mi è capitato di occuparmi del teatro di Giuseppe Manfridi. Tenterò
di ricomporre le tessere di un mosaico complessivamente attendibile
in cui le diverse ‘anime’ che compongono il teatro manfridiano hanno
modo di manifestarsi e di interagire. D’altra parte la natura intrinseca-
mente ‘anarchica’ del fare teatro del nostro autore giustifica un’inter-
pretazione critica meno compassata del solito.
Si veda C. Giovanardi, Manfridi o il ‘teatro dell’anarchia’, in G. Manfridi, L.
Cenci, Palermo, Teatro Biondo Stabile 2001, pp. 8-12. Ma si veda ora anche Id., Lin-
gua e dialetto a teatro. Sondaggi otto-novecenteschi, Roma, Editori riuniti 2007, pp. 125-
139.
149 Linguaggi e universi creativi nel teatro di Giuseppe Manfridi
La commedia si può ora leggere in Manfridi, Teatro dell’Anarchia cit., pp. 127-
164.
La commedia si può ora leggere in Manfridi, Teatro dell’Anarchia cit., pp. 7-55.
La commedia è stata messa in scena nel 2002 nello stadio di San Siro con la regia
di Claudio Boccaccini.
Rispettivamente in Manfridi, Teatro dell’Anarchia cit., pp. 309-339 e 259-286.
Si veda il testo della commedia in Manfridi, Teatro dell’Anarchia cit., pp. 99-
126.
151 Linguaggi e universi creativi nel teatro di Giuseppe Manfridi
La commedia Ultrà è pubblicata in G. Manfridi, Teppisti! – Ultrà, Milano, Ri-
cordi 1996, pp. 69-82.
Questi due personaggi figurano in una recente opera narrativa di G. Manfridi,
Cronache dal paesaggio, Roma, Gremese 2006.
152 Claudio Giovanardi
Il calcio. Il calcio è uno dei mondi che con più insistenza si affaccia-
no nell’universo creativo di Manfridi. Testi come La partitella o Teppi-
sti!, o anche il più recente La riserva, sono innanzi tutto commoventi.
La commozione è un sentimento pre-scientifico, me ne rendo conto,
eppure meriterà almeno un tentativo di interpretazione. Il connubio
tra letteratura e sport, tra letteratura e calcio non è facile. Troppi i
rischi di banalità, di forzature, di inadeguatezza rispetto a una realtà
già di per sé tanto spettacolare. In genere, poi, la letteratura esalta gli
eroi, i protagonisti, i vincenti. Manfridi ha invece guardato al calcio
da un’angolatura diversa, quella dei perdenti. Sono perdenti i tifosi
sedotti e abbandonati dalla loro squadra, perdenti i giovani pieni di
belle speranze spazzati via dalla casualità più perfida, perdente il gioca-
10
La commedia è ora pubblicata in Manfridi, Teatro dell’Anarchia cit., pp. 195-
222.
11
Cfr. ibid., pp. 223-258.
154 Claudio Giovanardi
tore cui il campo ha negato la gloria che lo abbraccia solo dopo la sua
morte in un incidente automobilistico. Su tutto questo microcosmo di
sentimenti, di speranze e di disperazioni, domina la pietas dell’autore,
che mostra di ‘tifare’ a sua volta per questi antieroi, questi vinti, schie-
nati dalla vita. Storie forti, violente, mai indulgenti all’oleografia o al
santino. Per questo, credo, per quella parte di sconfitte e di cicatrici
che ognuno di noi si porta dietro, per la struggente nostalgia di ciò che
poteva essere e non sarà mai (e il più delle volte non sappiamo nem-
meno il perché), l’empatia con quelle storie è fortissima.
12
Cfr. M. Ariani, G. Taffon, Scritture per la scena. La letteratura teatrale nel Nove-
cento italiano, Roma, Carocci 2001, p. 278.
155 Linguaggi e universi creativi nel teatro di Giuseppe Manfridi
13
La si può leggere in G. Manfridi, Elettra – L. Cenci – La Sposa di Parigi, Milano,
Ricordi 1993, pp. 15-90.
14
Cfr. anche questa commedia ibid., pp. 191-275.
156 Claudio Giovanardi
Cfr. C. Segre, Teatro e romanzo. Due tipi di comunicazione letteraria, Torino, Ei-
15
naudi 1984.
157 Linguaggi e universi creativi nel teatro di Giuseppe Manfridi
Claudio Giovanardi
17
Si veda P. Zumthor, Introduction à la poésie orale (1983), trad. it. La presenza della
voce. Introduzione alla poesia orale, Bologna, Il Mulino 1984, in particolare a p. 61.
Il ritorno di Scaramouche di Jean
Baptiste Poquelin e Léon de Berardin
di Leo De Berardinis*
Non siamo in pochi a subire il fascino dell’attore comico, anche quando non
l’abbiamo mai visto, anche quando è scomparso da anni, da decenni. In un
momento della nostra vita, figlio della nostra malinconia, egli diventa una
delle tante incarnazioni di Yorick. Oggi è silenzio intorno all’attore napoleta-
no Tiberio Fiorilli, maestro di Molière e che fu famoso in Italia e nella Francia
del Seicento sotto il nome della sua maschera, Scaramuccia. Era, come Yori-
ck, persona d’infinita arguzia e di straordinaria agilità e fantasia.
Già un anonimo recensore aveva definito così The connection (citato in G. Man-
zella, La bellezza amara. Il teatro di Leo De Berardinis, Parma, Pratiche 1993, p. 117).
Qui utilizzo la definizione, ovviamente senza il segno negativo che aveva in quell’oc-
casione.
R. Guardenti, Leo, il corpo vivente dell’attore, in «Il castello di Elsinore», IX, 26,
1996, p. 141.
163 Il ritorno di Scaramouche
L. De Berardinis, Introduzione a Il ritorno di Scaramouche di Jean Baptiste Poque-
lin e Léon de Berardin, Bologna, fuori THEMA 1995 (libri ARENA), p. 6.
Cfr. Intervista con Leo De Berardinis, a cura di O. Ponte di Pino, pubblicata ori-
ginariamente in J. Gelber, La connection (con l’intervento di Leo De Berardinis),
Milano, Ubulibri 1983.
Manzella, La bellezza amara cit., p. 118. Sul libro di Manzella, oltre che sui
ricordi personali di spettatore, mi baserò essenzialmente per i richiami alla ‘storia’ di
164 Franco Vazzoler
Leo. Si tratta, infatti, di uno di quei rari saggi che sono in grado di restituire, nella
riflessione critica, la memoria partecipata dell’esperienza teatrale.
Il ritorno di Scaramouche: intervista a Leo De Berardinis, a cura di R. Guardenti,
in «Il castello di Elsinore», IX, 26, 1996, pp. 123-131.
E. Sanguineti, L’antiteatro di Leo e Perla, in «L’Unità», 6 marzo 1976, ora in Id.,
Giornalino secondo, Torino, Einaudi 1979, p. 31.
165 Il ritorno di Scaramouche
La compagnia corrisponde a quella della ripresa televisiva di Totò, con le sostitu-
zioni di Neiwiller e Bobette Levesque. È grosso modo la stessa anche dei Giganti, dove
oltre a Neiwiller c’era anche Servillo.
10
Ma un recensore esprimeva l’esigenza di un maggiore avvicinamento fra scena e
platea: «[...] quel palchetto (che avremmo preferito avere più vicino, o meglio ancora
trovarlo in una piazza e non nell’angusto spazio del Bellini) [...]» (N. Arrigoni, in
«Sipario», 557, giugno 1995, p. 87; il Bellini è il teatro di Casalbuttano).
11
G. Manzella, Leo: sfidare la storia con il teatro, in «Il Manifesto», 4 aprile 1995.
12
Intervista con Leo De Berardinis cit., p. 127.
166 Franco Vazzoler
E qui investe non solo i testi ‘alti’ (oltre a Molière, Joyce, dal mo-
nologo finale dell’Ulisse), ma anche quelli bassi: le canzonette e la
pubblicità degli anni Sessanta e Settanta (Tintarella di luna, Arrivano
i nostri, Nel continente nero), il cinema di Totò e Peppino, gli ‘stupida-
ri’ petroliniani, fino all’inserimento di «echi della cronaca»13, «spunti
anche spiccioli ricavati dalle cronache dei nostri giorni»14.
Si prenda come esempio il monologo di Scaramouche (pp. 32-33),
che sembra ispirato al saggio di Macchia che ho citato all’inizio, su cui
cresce poi l’invenzione dell’attore (la battuta sul parmigiano e il pe-
corino)15, fino a risolversi nella citazione di Guido Cavalcanti («Chi è
questa che vèn, ch’ogn’om la mira... ») e poi di Molière (da Le Sicilien:
«Le ciel c’est habillé ce soir en Scaramouche»), anch’essa suggerita da
Macchia.
Nell’intervista a Guardenti (e nell’introduzione alla pubblicazione
del testo) Leo ha chiarito il perché di Molière filtrato attraverso Fioril-
li e come a questo fosse legato il discorso sul potere e l’attualità:
13
Arrigoni, in «Sipario» cit.
14
A. Savioli, in «L’Unità», 23 novembre 1994; recensione ripubblicata in Il punto
di vista di Aggeo Savioli, in «Drammaturgia», Quaderno 1995, pp. 88-90 (da cui si cita,
p. 89).
15
«Anche un certo Mezzettino ha scritto un libriccino sulla mia vita che dice un
sacco di sciocchezze. Per esempio dice che io in punto di morte ho chiesto una zuppa
all’italiana, che sarebbero dei vermicelli con il parmiggiano. Figuriamoci se in punto
di morte... la morte è una cosa seria... chiedevo i vermicelli col parmiggiano: erano
col pecorino!»
16
Intervista con Leo De Berardinis cit., pp. 125-130.
167 Il ritorno di Scaramouche
Leo chiarisce anche il ruolo del testo («materiale verbale»), pur vi-
sto nell’ambito della centralità dell’attore:
Questo naturalmente non vuol dire scartare a priori il materiale verbale e tut-
ti gli altri elementi che concorrono a formare quell’organismo complesso che
è poi l’evento teatrale. [...] Come testo drammatico io posso considerare an-
che una poesia di Leopardi, al limite una barzelletta, cioè qualsiasi cosa, che
mi possa servire da materiale verbale, a seconda del ‘colore’ di cui ho bisogno
nell’evento teatrale. Per cui testo può diventare anche una battuta musicale.
[...] Io sostengo sempre che il teatro si può fare anche con i testi, però dire che
il testo è il teatro, che mettere in scena un testo significa far teatro, allora io
non sono più d’accordo, perché non credo che si tratti di questo17.
17
Ibid., pp. 126-27.
18
De Berardinis, Il ritorno di Scaramouche di Jean Baptiste Poquelin e Léon de
Berardin cit.
19
«Ho invitato anche gli attori a scrivere delle battute: molte sono state tolte,
alcune sono state corrette, altre sono rimaste tali e quali, ma ciò che è veramente
168 Franco Vazzoler
importante è che ci sia stato un coinvolgimento collettivo proprio sul piano della
scrittura» (Intervista con Leo De Berardinis cit., p. 128).
20
Sulla genesi dello spettacolo, soprattutto attraverso le testimonianze degli attori,
cfr. R. Anedda, Il teatro come una composizione: la drammaturgia musicale nel lavoro di
Leo De Berardinis, in «Culture teatrali», 2/3, primavera-autunno 2000, pp. 65-100.
21
Intervista con Leo De Berardinis cit., p. 128.
169 Il ritorno di Scaramouche
22
Cfr. P. Puppa, Il teatro dei testi. La drammaturgia italiana del Novecento, Torino,
Utet 2003, p. 178.
23
Cfr. Manzella, La bellezza amara cit., p. 78.
170 Franco Vazzoler
ca, al punto che può essere considerato la vera base ‘della lingua’ di
Leo – ricrea anche la memoria (mitologica) della commedia dell’arte,
come accadeva, ad esempio nei dialoghi fra Pulcinella e Colombina in
Avìta a murì24. La lingua delle maschere insomma costituisce il tessuto
linguistico di base.
Risalta, intanto, la particolare performatività della parola: tranne i
monologhi interamente rivolti al pubblico (quando Leo è Leo), che
costituiscono quasi una sospensione dello spettacolo, le battute sono
rivolte contemporaneamente agli altri attori (agli attori dietro il per-
sonaggio) e al pubblico.
Né si tratta di mera riproposizione, di recupero ‘filologico’ di fram-
menti delle scritture dei comici dell’arte (o della loro gestualità), se-
condo una ‘tradizione’.
Per ognuno dei personaggi-ruoli (e in alcuni casi con la collaborazio-
ne degli attori e grazie alle loro improvvisazioni) c’è un testo che li ca-
ratterizza linguisticamente, partendo dalla tradizione e appoggiandosi
alla loro creatività attoriale. Ruoli e non maschere (tranne Pantalone
e Pulci) che, rifiutando la stilizzazione settecentesca, rimandano indie-
tro, alla recitazione per contrasti della commedia dell’arte barocca.
Si prendano ad esempio il monologo di Pantalone (p. 25) e il suo
successivo dialogo con Tristano (pp. 26-30). Leo si rifà al repertorio
linguistico delle maschere: come il gioco di senso sulla vita (dopo una
partenza cabarettistico-canzonettistica alla Cochi e Renato o alla Jan-
nacci: «Che bela la vita, / che bela [...]»): «[...] s’è talmente bela /
che no convien viverla, / che se no se consuma»; il bisticcio «fagiol/
figliol»; le deformazioni delle parole («omeopaticopeico», «Castella-
mare ‘e scabbia», «alfabetico» per ‘analfabeta’). Se, da un lato, inseri-
sce battute tipiche della comicità cine-televisiva più attuale (che fun-
zionano come citazioni): «Me cojoni» (p. 27), dall’altro l’intercalare
«belo questo», con cui nel citato monologo Pantalone autocommenta
le proprie battute, costituisce un gioco metateatrale (quello dell’auto-
compiacimento) che rappresenta il momento in cui è denunciata la
consapevolezza di un operare su questo repertorio.
Ne deriva il particolare effetto provocato dalle ‘citazioni’ della
commedia dell’arte in questo spettacolo, così diverso dalla ‘nostalgia’
prodotta da tanti spettacoli sulla commedia dell’arte – in cui, direbbe
Georges Banu, la storia si presenta «temperata dalla memoria»25 – che,
Ibid., p. 82.
24
G. Banu, Memorie del teatro, Genova, Il melangolo 2005, pp. 83-90 (prima ed.
25
pochi anni prima (1990), era stata al centro del film di Scola con Troi-
si, tematicamente così vicino, di cui lo spettacolo di Leo sembra quasi
esserne il rovesciamento26.
Se la lingua è, dunque, il veicolo di una idea di commedia dell’ar-
te che si stacca da ogni immagine già acquisita dalla ‘memoria’ dello
spettatore, da ogni immagine abusata, allora la commedia dell’arte di
Leo è priva di quegli estetismi pseudo-simil-settecenteschi a cui il pub-
blico è abituato, e punta su una dimensione ‘poetica’, non nel senso
della ‘nostalgia’ per l’arte perduta, ma nel senso della ‘poesia dell’atto-
re’, in cui si scontrano alto e basso:
Il tema del contrasto è sempre stato una mia caratteristica: qui viene più
accentuato perché l’uso della mezza maschera comporta una separazione fra
i vari elementi, sia della voce che del corpo. Ma in tutti i miei lavori si ma-
nifesta la mia doppia anima, quella aristocratica che tende verso il sublime,
che va oltre il teatro, e quella invece plebea che era evidentissima in Totò
principe di Danimarca, già individuabile nel titolo. Totò era la felicità terre-
stre, la vitalità, la forza della natura; Amleto incarnava la forza di superare la
natura, di penetrarne il mistero, di superare anche la storia, arrivare al mondo
del silenzio, quindi oltre il teatro. Il teatro essendo una tecnica conoscitiva,
dovrebbe servire a questo, ad alimentare una tensione che porta ad un com-
pletamento dell’uomo27.
26
Lo notava, recensendo lo spettacolo, R. Nicolini, Ritorna Scaramouche e parla
veneziano, in «Primafila», 5, marzo 1995, p. 97: «Quello che un film come Il viaggio
di Capitan Fracassa di Ettore Scola edulcorava nella malinconia e sfumava in un
indefinito passato, è qui esposto senza reticenze. La solitudine e l’emarginazione del
teatro contro (ma senza nessuna velleità rivoluzionaria, solo voglia di sopravvivere)
il potere spietato, più irrappresentabile che invisibile». Nicolini era stato anche uno
degli interpreti del film di Scola. In realtà più che «indefinito» il «passato» del film
di Scola è un Seicento ‘fantastico’ ispirato alla pittura barocca (dai fiamminghi, a
Callot, a La Tour). Ma la recensione-confessione di Nicolini è interessante anche per
l’attenzione che pone alle citazioni jazzistiche della ‘colonna sonora’ dello spettacolo
di Leo.
27
Intervista con Leo De Berardinis cit., p. 129.
172 Franco Vazzoler
28
B. Besson, L’oiseau vert. D’après Carlo Gozzi, Lausanne, L’âge d’homme 1985, p.
106. In questa chiave Besson aveva messo per esteso le parti a soggetto.
29
Di particolare interesse sono a questo proposito le osservazioni di Claudia Con-
tin (un Arlecchino di oggi) in C. Contin, Viaggio d’un attore nella Commedia dell’arte,
in «Prove di Drammaturgia», I, 1/2, settembre 1995, p. 34.
30
Valga, a mo’ d’esempio, quanto dice Ferdinando Taviani in F. Taviani, Un vivo
contrasto. Seminario su attrici e attori della Commedia dell’arte, in «Teatro e Storia», I,
1996, pp. 25-75.
173 Il ritorno di Scaramouche
31
L’espressione ‘imperialismo’ è mia. Ma la necessità per l’attore, nell’ambito della
pratica odierna della commedia dell’arte, di avere «una libertà di re-interpretazione
e re-invenzione che certi irrigiditi stilemi contemporanei talora non consentono», è
chiaramente espressa da Contin, Viaggio d’un attore nella Commedia dell’arte cit., pp.
28-29.
32
Cfr. Taviani, Un vivo contrasto. Seminario su attrici e attori della Commedia dell’arte
cit., pp. 35-52.
33
Analogamente a quanto ricorda Sanguineti a proposito delle maschere che era-
no state utilizzate da Benno Besson nell’Edipo tiranno: «la maschera non fu impiegata
come segno di grecità; erano piuttosto maschere aninalesche o animaloidi» (Introdu-
zione a Teatro Antico. Traduzioni e ricordi, a cura di F. Condello, C. Longhi, Milano,
Rizzoli (Bur/Scrittori contemporanei) 2006, p. 10).
34
Un aspetto, questo, che nella edizione a stampa viene completamento assorbito
nel testo, divenendo quasi rigoroso vincolo testuale. Sull’improvvisazione – su cui è
174 Franco Vazzoler
[...] una riflessione molto bella e poetica sull’arte dell’attore che fa i conti con
il suo tempo e la sua storia, nata da una dupice suggestione, il teatro di Mo-
lière e la figura dello sregolato comico italiano Tiberio Fiorilli nella Francia
di Luigi XIV. Come dire l’incrocio fra scrittura e improvvisazione, e a far da
perno l’arte intrascrivibile dell’attore35.
Aprire un teatro è una cosa delicatissima, seppur lodevole: può far bene, ma
può anche far male.[...] Aprire un teatro, oggi, significa, o dovrebbe signi-
ficare, rifondarlo: cosa appunto delicatissima. Rifondare un teatro è come
rifondare una società democratica, basata sull’essere e non sull’apparenza,
sulla giustizia e non sulla rapina, sulla lealtà dei propositi e non sulla mistifi-
cazione, sull’uso corretto ed egualitario dei mezzi, e non sullo squilibrio, sulla
solidarietà concreta e disinteressata, e non parolaia o d’effimero consenso36.
Danza. Alla fine del brano tutti scendono dal palchetto e sale Leo con un violino.
Leo scende dal palchetto, poi avanza, insieme agli altri attori, in proscenio, come
all’inizio dello spettacolo.
Leo: ‘Stu mariuolo ‘stu mariuolo Mo c’arrobba pure ‘o sole.’ Stu mariuolo ‘stu
mariuolo Mo c’arrobba pure ‘o sole. A ballata d’e pezzienti E de chi nun tene
36
L. De Berardinis, Aprire un teatro, in Scritti d’intervento, in «Culture teatrali»,
2/3, primavera-autunno 2000, pp. 59-60 (intervento dell’aprile 1995, per l’apertura
del Teatro Laboratorio San Leonardo).
37
F. Quadri, in «La Repubblica», 1 dicembre 1994; ora in «Il Patalogo», 1995, p.
222.
176 Franco Vazzoler
Franco Vazzoler
«’O culore d’ ’e parole». Il napoletano
di Eduardo per Shakespeare*
E. De Filippo, ’E pparole, pubblicata in Le poesie di Eduardo, Torino, Einaudi 1975,
pp. 10-11. La poesia è datata 1971.
«Ho cercato di essere il più possibile fedele al testo, come, a mio parere, si do-
vrebbe essere nel tradurre, ma non sempre ci sono riuscito». E. De Filippo, Nota del
traduttore, in La tempesta di William Shakespeare nella traduzione in napoletano di Eduardo
De Filippo cit., p. 186.
179 «’O culore d’ ’e parole». Il napoletano di Eduardo per Shakespeare
Ibid., p. 187.
La circostanza è desumibile da quanto afferma Isabella Quarantotti De Filippo
durante l’intervista rilasciata a Paola Quarenghi, pubblicata in Lombardo, Eduardo e
Shakespeare cit., pp. 55-72: 63.
I luoghi e i rimandi di Eduardo a Shakespeare, a cominciare dall’atto unico La
parte di Amleto, scritto nel 1940, sono messi in evidenza da S. De Filippis, Shakespeare
e Eduardo: scrittura e riscrittura della Tempesta, in Shakespeare nel Novecento, a cura di
A. Lombardo, Roma, Bulzoni 2002, pp. 187-206. Il contributo supera con argomen-
tazioni condivisibili il giudizio negativo espresso da Wanda Monaco sulla traduzione
eduardiana (W. Monaco, La traduzione in napoletano di The Tempest, in «Anglistica»,
XXXI, 3, 1988, pp. 38 sgg.). Sui numerosi richiami shakesperiani nell’opera di Eduar-
do cfr. anche Lombardo, Eduardo e Shakespeare cit., pp. 15-51.
180 Teresa Megale
C. Meldolesi, La trinità di Eduardo: scrittura d’attore, mondo dialettale e teatro na-
zionale, in Id., Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni sprecate dal teatro italiano, Roma, Bulzoni
1987, pp. 72-73.
Su tale lavoro, condotto sull’edizione Penguin, cfr. l’intervista di Isabella Qua-
rantotti De Filippo raccolta da Paola Quarenghi, in Lombardo, Eduardo e Shakespeare
cit., pp. 55-72.
10
«Ho avuto tre mogli: la prima era inglese, cercava di parlare napoletano, io non
ho mai imparato una parola d’ inglese e non me ne importava niente […]». La testi-
monianza è raccolta da Pozzi, Parole mbrugliate. Parole vere per Eduardo cit., p. 344.
182 Teresa Megale
La tempesta aveva suscitato in lui il ricordo degli anni del suo ap-
prendistato teatrale, anni ‘magici’ non solo per la giovinezza quanto,
piuttosto, per l’esperienza vissuta su un palcoscenico che abilmente
metteva a frutto le risorse sceniche dell’irreale e del soprannaturale.
Il teatro fiabesco che conquistava vaste platee di pubblici ingenui con
trucchi semplici ed efficaci, facendo leva sullo stordimento provato
alla vista dell’inaudito, del meraviglioso, del fantastico. Oltre alla ve-
natura autobiografica, colorata del racconto di prodigi teatrali mozza-
fiato, esiti ultimi di una scenotecnica antica, l’opera shakespeariana
– a ben guardare – sottintendeva anche un narcisistico cimento in-
tellettuale per l’autore-attore-drammaturgo che, al culmine dei suoi
successi e della sua affermazione artistica, poteva dimostrare una volta
11
De Filippo, Nota del traduttore, in La tempesta di William Shakespeare nella tradu-
zione in napoletano di Eduardo De Filippo cit., pp. 185-186.
183 «’O culore d’ ’e parole». Il napoletano di Eduardo per Shakespeare
di più di poter competere con una delle opere somme della dramma-
turgia di tutti i tempi e di poter elevare la sua lingua d’origine all’altez-
za di Shakespeare, contribuendo per questa via a potenziare le risorse
espressive della sua cultura di appartenenza.
Nella sua scelta agiva forte, sebbene in modo inconsapevole, la tra-
dizione napoletana di tradurre i classici e di adattarli non tanto e non
solo alla propria lingua, quanto alla propria cultura, nel sottoporli ge-
neralmente ad un processo di appropriazione linguistica coincidente
con una piena assimilazione culturale. Non è un caso se, storicamente,
la traduzione e, insieme, il tradimento di numerosi ‘classici’ abbiano
alimentato la produzione drammaturgica e letteraria napoletana, tanto
quanto la sua straordinaria capacità parodica, spiegabile con una spic-
cata vocazione a trasformare in materiale teatrabile quanto di meglio,
o solo di più ‘adattabile’, veniva prodotto dalla cultura ufficiale. Si
pensi, a tal proposito, alla versione in lingua napoletana del Pastor fido
del Guarini compiuta da Domenico Basile; all’Eneide in ottava rima di
Nicola Stigliola; al Tasso napoletano di Gabriele Fasano, per limitare
gli esempi ai casi principali. A ciò si aggiunga, tra Otto e Novecento,
la diffusa pratica teatrale di tradurre soprattutto il repertorio comico
francese, adattato con molta frequenza tra gli altri proprio dal padre
di De Filippo, Edoardo Scarpetta, con una costante attenzione alle
reazioni del pubblico, piuttosto che agli scrupoli filologici. Complessi-
vamente, La Tempesta fu un originale esercizio di stile, condotto su un
doppio registro, culto e fantastico: da una parte il calco di una lingua
antica pre-ottocentesca, recuperata anche attraverso le commedie e i
libretti del notaio Pietro Trinchera, dall’altra le ‘invenzioni’ linguisti-
che nelle quali Eduardo segue la maniera creativa di Giovanni Testori
e di Dario Fo, entrambi rifacitori di un padano in senso teatrale.
Sotto il profilo drammaturgico il punto culminante della Tempesta
coincide con la scena di apertura, quando i flutti stanno per ingoiare
uomini e cose e cancellare per sempre la loro esistenza. La scena in-
cipitaria, dalla forza drammatica insuperata, è volutamente trauma-
tica, in quanto ‘spinge’ lo spettatore dentro il titolo e ce lo immerge
metaforicamente, insieme al veliero del re di Napoli di ritorno dalla
Tunisia. La ciurma che arriva di corsa fra il fragore del mare e dei tuoni
è formata da marinai che proclamano la loro napoletanità come forma
identitaria difensiva. Nell’invocare la Madonna della Catena, Nostro-
mo, che qui non a caso ha il nome di Nicola, il potente santo del
Mediterraneo, chiede l’aiuto di una effige veneratissima nella città,
alla cui protezione affida la disperata difesa della reale imbarcazione e
dei suoi uomini. Con un’assonanza che ricorda la poesia più celebre di
184 Teresa Megale
12
Ibid., pp. 6-7.
13
Ibid., p. 70.
14
Ibid., p. 10.
185 «’O culore d’ ’e parole». Il napoletano di Eduardo per Shakespeare
15
Ibid.
16
Ibid., p. 8.
17
Ibid., p. 165.
18
Ibid., p. 78.
186 Teresa Megale
19
Ibid.
20
Ibid., p. 85.
21
Ibid., p. 107.
22
Ibid., p. 65.
23
Ibid., p. 77.
24
Ibid., p. 117.
25
Ibid., p. 93.
26
Ibid., p. 179.
27
Ibid., pp. 21 e 55.
187 «’O culore d’ ’e parole». Il napoletano di Eduardo per Shakespeare
miranda […]
Nterra, pòsalo nterra chistu ramo.
Quanno lu purtarranno a lu fucone,
mentre mòre abbruciato,
chiagne!
Chiagne penzanno a quanto haje faticato35.
28
Ibid., p. 72.
29
Ibid., p. 154.
30
Ibid., p. 79.
31
Ibid., p. 56.
32
Ibid., p. 16.
33
Ibid., p. 18.
34
Ibid., p. 110.
35
Ibid., p. 107.
36
Ibid., p. 13.
188 Teresa Megale
evocativa. In una battuta costruita sulle rime baciate e sul loro potere
di catturare l’attenzione dell’ascoltatore, il saggio e vecchio Gonzalo
così prorompe ad apertura di scena:
adriano:
[…]
l’aria fina, delicata,
soave e fresca cumm’a na zetella,
nu zeffirello doce cumm’a na caramella44.
prospero:
[…] ve prometto
mare cumm’a na tavula,
37
Ibid., pp. 122-123.
38
Ibid., p. 18.
39
Ibid., p. 26.
40
Ibid., p. 28.
41
Ibid., p. 32.
42
Ibid., p. 34.
43
Ibid., pp. 54 e 62.
44
Ibid., p. 67.
189 «’O culore d’ ’e parole». Il napoletano di Eduardo per Shakespeare
45
Ibid., p. 181.
46
Ibid., p. 63.
47
Ibid., p. 145.
48
Ibid., pp. 39-40.
49
Ibid., p. 177.
50
Ibid., p. 90.
51
Ibid., p. 115.
190 Teresa Megale
ariele:
Rosa de maggio
e rose d’ogne mese,
appena torno cercarraggio
scuse
d’averve trascurato…
ma na bacchetta magica
me fece nu signale,
era na cosa seria
e me songo prestato…
Rose de maggio
e rose d’ogne mese,
sto stanco, da lu pietto
sceppateve li fronne
profumate:
preparate nu lietto,
tengo suonno53!
Ibid., p. 162.
53
191 «’O culore d’ ’e parole». Il napoletano di Eduardo per Shakespeare
calibano (canta):
Bano bano s’ha truvato
nu padrone affezionato,
Cali, ca, Calibano!
Bano bano l’ha lassàto
lu padrone svergognato!
Cali, ca, Calibano!
Bano bano fa li segne
nun trasporta cchiú li llegne,
Cali, ca, Calibano!
Bano bano fa li fatte:
mò nun lava cchiú li piatte.
Cali, ca, Calibano!
Bano bano nun vo’ ll’esca,
nun v0’ fare cchiù la pesca!
Cali, ca, Calibano!
Bano bano l’ha vuluto
p’ ’o patrone nu tavuto,
Cali, ca, Calibano!
Bano bano cu na funa
è arrivato ncopp’ ’a luna!
Cali, ca, Calibano
Cali, ca, Calibano
Cali, ca, Calibano54!
Ibid., p. 145.
55
192 Teresa Megale
triste secondo i casi. Per vivere, gli uomini devono adattarsi a recitare
la commedia e debbono anche fingere di divertirsi»56.
Teresa Megale
Abbiamo volutamente escluso dall’analisi i testi appartenenti al teatro di poesia
e al cosiddetto ‘teatro di narrazione’.
Letizia Russo è presente anche nel corpus di La Forgia 2003.
Nel progetto si chiede la stesura di un atto unico, con i personaggi di età compre-
sa tra i 14 e i 18 anni.
197 Dalla parola al palcoscenico
Colpisce nella didascalia l’uso di vecchio e vecchia in riferimento ai due genitori.
Se si escludono due ricorrenze nella scena V e un fugace cenno nella scena VI.
Sulla lingua di Tarantino cfr. almeno De Angeli 1997; Puppa 2001, 341.
198 Silvia Calamai
Non ci soffermeremo sui tratti dialettali dei due testi più connotati
in senso geografico (I ragazzi di via della Scala di Chiti e Un tagliatore
di teste a Villa Borghese di Maraini) ma ci concentreremo sui feno-
meni linguistici che rendono conto di scelte prossime al parlato tout
court. Del resto, più di una varietà di lingua è sfruttata nel testo di
Dacia Maraini: il protagonista e la moglie parlano in romanesco o in
un italiano regionale d’area romana, mentre personaggi ‘alti’ come
Napoleone, Gogol, Goethe, Leopardi utilizzano un italiano aulico e
forbito.
L’analisi qui proposta intende rilevare i fenomeni innovativi che ca-
ratterizzano il tessuto della lingua teatrale contemporanea, nel domi-
nio della morfologia e della morfosintassi (§ 2), della sintassi (§ 3), del
lessico e della semantica (§ 4), della retorica (§ 5), della grafia (§ 6),
della testualità (§ 7). Riportiamo di seguito l’elenco dei testi, ordinati
alfabeticamente per autore, con l’indicazione della prima rappresenta-
zione italiana e le rispettive sigle di citazione:
UC = Ugo Chiti, I ragazzi di via della Scala, in Id., La recita del popolo fan-
tastico (una trilogia), Milano, Ubulibri 2004, pp. 105-159. Prima rappresenta-
zione: Teatro Metastasio, Prato, 10.XII.2003;
AM = Andrea Malpeli, Io ti guardo negli occhi, in «Sipario», 657, marzo
2004, pp. 59-80. Prima rappresentazione: Teatro alle Tese, La Biennale di
Venezia, Venezia 1.X.2004;
DM = Dacia Maraini, Un tagliatore di teste a Villa Borghese, inedito. Prima
rappresentazione: Villa Borghese, Roma, I.VII.2003;
LR = Letizia Russo, Binario morto, in Intercity connections. Nuovi testi per
nuovi interpreti. Dieci testi teatrali per adolescenti, a cura di R. di Giammar-
co, B. Nativi, Roma, Editoria & Spettacolo 2004, pp. 321-364. Prima rap-
presentazione italiana: Teatro alle Tese – La Biennale di Venezia, Venezia
24.IX.2004;
SS = Spiro Scimone, Il cortile, Milano, Ubulibri 2004. Prima rappresenta-
zione: Orestiadi di Gibellina, Gibellina Nuova 6.IX.2003;
AT = Antonio Tarantino, La casa di Ramallah, in Id., La casa di Ramallah
e altre conversazioni, Milano, Ubulibri 2006, pp. 89-130. Prima rappresentazio-
ne: Teatro San Nicola, Benevento Città Spettacolo, Benevento 10.IX.2004.
Nel caso di testi a stampa, l’opera è citata con il rinvio diretto alla pagina stampa-
ta, mentre non viene dato alcun rimando nel caso dei testi inediti. Per alleggerire l’ap-
parato delle citazioni, gli eventuali tagli sono indicati solo all’interno delle battute.
199 Dalla parola al palcoscenico
2. Morfologia e morfosintassi
10
Si vedano le seguenti attestazioni di -ello: tata ma che ho sposato una puparella?
[DM]; tata eri proprio bruttarella [DM]; tata Bella la sposa… ma un poco antipa-
tichella… [DM]; tata una certa famerella m’è venuta a trattà co sto pazzo [DM]; di
-etto: tata un poco schizzinosetto… [DM]; tata me parete un poco mollaccetto…
[DM]; flautista un uccelletto che si spaventa [DM]; kent Va beh una cannetta [LR:
329]; kris Manco un bacetto [LR: 359]; di -ino: kris calmino eh [LR: 352]; marcel-
lina Al circolino no… [UC: 113]; marcellina un calendarino con le donnine nude
[UC: 133]; principe bestia quelle manine… Quelle bambine… Quel visino delicato!
[UC: 133]; principe bestia una ciuchina, bellina [UC: 135]; giovannino Però, pre-
stino… [UC: 141]; ovidio gli spuntano un po’ di poppine [UC: 142].
11
In UC, Giovannino e Maurino sono i nomi con cui vengono indicati i personaggi
anche nella didascalia che apre l’opera. Margheritina è in DM, ma per i nomi propri il
testo presenta più spesso forme apocopate, come è d’uso nei dialetti centro-meridio-
nali (v. § 6).
200 Silvia Calamai
larghe s’appoggia il ferro sul braccio [UC: 127]), sia nelle battute (avaro
Vieni qua, puzzona, laidona indecente [UC: 154]), e del suffisso -otto,
all’interno di una didascalia (Marcellina si alza per interpretare la nuova
sposa, una contadinotta greve [UC: 136]).
Nel corpus sono state reperite soltanto due ricorrenze di composti,
malocarattere (tata Ohi che malocarattere! [DM]) e, con valore di-
spregiativo, cispadano (tata Ma guarda sto cispadano qua, che testa
balorda… [DM]).
Sono più scarsi i fenomeni da osservare in relazione alla morfologia
flessiva nel sistema nominale. Per quanto concerne il plurale dei so-
stantivi, c’è una ricorrenza della forma invariata mano, legata proba-
bilmente al sostrato dialettale: suor agata Te ‘e sei lavate e mano?
[DM]; suor agata t’andasse a lavà le mano… [DM]. Si registra inoltre
l’uso di un singolare in luogo di un plurale: kent insieme alla prima
mutanda col sangue di mia sorella [LR: 330].
Nel sistema dei pronomi, in tutti i testi analizzati prevalgono le for-
me lei lui loro in funzione di soggetto:
la figlia Lei è una donna libera [AT: 95]; il padre lei era la sola coi capelli
sciolti [AT: 95]; la madre anche lui veniva a raccogliere i pomodori [AT:
116]; narratore Lei sapeva un po’ leggere [UC: 117]; ovidio Lui si doveva
risposare… [UC: 130]; voce uno loro non sopportano a quelli che gli danno
fastidio!… [SS: 22]; il padre loro ti ragionano come un Apache [AT: 97]; la
madre loro erano più risparmiatori di noi [AT: 101]; mamma Di famiglia, loro
sono piccini [UC: 117]; maurino Loro un poco ci si persero dietro [UC: 129];
nadir loro hanno detto qualcosa [AM: 64]; razeq loro hanno cominciato a
farmi tutte quelle domande [AM: 71].
C’è una sola ricorrenza di essi in luogo di loro, come probabile forma
di ipercorrettismo: tata O morivo io o morivano essi… [DM]; così
come compare una sola volta essa, in una battuta pronunciata da Goe-
the: goethe Se la Legge stabilisce che togliere la vita è un peccato
grave […], perché poi toglie essa stessa la vita? [DM].
Il pronome te in luogo di tu è molto frequente nella Casa di Ramallah
e nei Ragazzi di via della Scala12:
12
Per interferenza con il sostrato dialettale in Chiti, e come tratto substandard,
anche geograficamente connotato, in Tarantino. Il pronome te non compare mai in
Binario morto (sirius Speravo che almeno tu mi riconoscevi [LR: 328]; spyrus Io ti
tiro la palla e tu me la ritiri [LR: 328]; kris Pure tu [LR: 329]).
201 Dalla parola al palcoscenico
il padre allora te il treno va a finire che lo perdi [AT: 94]; il padre che te ti
eri messa a piangere [AT: 98]; stefano Te non puoi cambiare le regole […]
Te rispetti le regole […] Te devi rispettare le regole! [UC: 114]; giuliano Te
non mi conosci [UC: 122]; renzo Perché te, così, credi di vivere? [UC: 131];
maurino Te non le racconti queste cose, capito? Te stai zitto, capito?! [UC:
158].
voce uno loro non sopportano a quelli che gli danno fastidio! [SS: 22];
spyrus Appena gli dici il nome vero a quelli ti prendono [LR: 333]; ovidio
Sono così le donne… Più gli puzza e più te la fanno agognare! [UC: 142];
argia tutti quei nipotini… Se gli lascio qualcosa è solo a fin di bene! [UC:
149]; faruk i piccioni freschi […] in cui il sangue pulsa […] e fa pulsare il
cuore di chi gli spara [AM: 69];
enrico Marcellina ha i capillari deboli, gli esce il sangue dal naso [UC: 115];
ovidio È sviluppata […] Poi gli spuntano un po’ di poppine [UC: 142]; avaro
Qualche ragazzaccio ha visto questa vecchiuccia […] Magari gl’ha preso la
borsa… [UC: 155].
tata era il nonno di Suor Agata, che ogni tanto la veniva a trovare in con-
vento e ci portava qualche cesto di rape [DM]; il padre la prima casa […],
che noi avevamo comprato da quella donna che ci avevano uccisi i suoi quat-
tro o sei o dieci […] figli [AT: 97]; la madre a una Bambina […] ci può pure
venire fame [AT: 99]; il padre se qualcuno vuol ficcare il naso io ci pianto il
mio coltellino nella pancia [AT: 108].
uno Anche a lui, un giorno, gli hanno detto che era vecchio [SS: 25]; tata
a lei nun gliela avrei mai tagliata la testa [DM]; tata Ma a voi ve piace
proprio… [DM]; il padre a noi ci basta il tempo che ci divide dal bivio [AT:
107]; la figlia Ma a te dei miei studi non te ne fregava niente [AT: 123]; si-
rius Io a te non ti conosco [LR: 328]; sirius Dammi un nome pure a me [LR:
328]; stefano A me non mi fa punto ridere… [UC: 123]; ovidio A te non
bisogna insegnarti nulla, vero? […] A Maurino, invece, gli ho insegnato tutto
io! [UC: 143]; renzo Al mi’ nonno un fulmine gl’ha mangiato un orecchio
[UC: 157].
tata me credevo d’esse solo [DM]; suor agata si credono che fra le dita ci
devono crescere i funghi [DM]; tata nun è quer libro che quanno lo leggevi
te ridevi da sola… [DM]; il padre quando il treno ti arriva sparato da Ce-
sarea di Filippo [AT: 93]; la madre E magari il controllore ti avvisa quelli
dello Shin Beth [AT: 120]; kim Come ti credi che fanno negli altri posti [LR:
348]; sirius Che vi credevate. Che decidevate voi. […] Voi vi credevate che
ve l’eravate inventato voi. Vi credevate che potevate fare le cose anche di
nascosto [LR: 361].
tano perché lo vuoi uccidere? [SS: 41]; uno non la fare cadere!… [SS: 44];
uno Ma lo dovreste fare. [SS: 44]; tata Che me voi fà ubriacà? [DM]; tata
era il nonno di Suor Agata, che ogni tanto la veniva a trovare [DM]; tata
del caffè fresco, bono come lo sai fare tu… [DM]; sirius Mi sa che mi devo
cercare un altro [LR: 332]; kris E lui mezza strada non se la poteva fare [LR:
340]; reiko mi sei venuto a dire questa cosa [LR: 344]; kris Chi è questo che
lo stiamo a cercare [LR: 352]; kent Quello che lo stiamo andando a trovare
[LR: 352]; ovidio Non ti volevo offendere… [UC: 110]; giuliano Non lo
dovevi fare! [UC: 122]; renzo Te non lo devi pregare… [UC: 131]; avaro
vatti subito a confessare! [UC: 147].
tata Dimentica sempre il vino sta moglie mia [DM]; suor agata Io so che li
liquori mia fanno impazzì chi li beve… [DM]; kent A trovare un amico mio
[LR: 340]; kent È un amico mio [LR: 352]; sirius Solo io e l’amico mio [LR:
354]; kris è lui l’amico tuo [LR: 359].
tano Che vuoi? [SS: 16]; peppe Che ti hanno detto? [SS: 24]; tata che ce
fate qui [DM]; tata che me ne faccio de li sordi? [DM]; ovidio Che ci fai lì
fermo? [UC: 109]; laura Che c’è, amore? [UC: 112]; renzo Che ti costa?
[UC: 131]; avaro Che volete?? [UC: 155]; renzo Che ti costa? [UC: 131];
kris La sai una cosa. kent Che. [LR: 351]; sirius Che ci ha. [LR: 357]; sirius
Che ci ha. [LR: 357].
204 Silvia Calamai
babbo Cosa c’è capitato? Cosa s’è fatto di male? Cosa? [UC: 120]; moglie
a Ora cosa se ne fa? A cosa le serve? [UC: 128]; tata E cosa conta? [DM];
tata lo sapete cosa è un emolumento? [DM]; il padre cosa si deve dire [AT:
114]; la madre cosa volevi insinuare? [AT: 121]; ahmed Cosa c’è? [AM: 60];
donna delle pulizie sa cos’ho fatto? [AM: 62].
Che cosa è attestato una sola volta nella Casa di Ramallah (il padre
e allora che cosa rompete le mie povere vecchie palle di quasi cin-
quantaquattro anni [AT: 107]), mentre ha diverse ricorrenze in Binario
morto15.
Ci sono poche attestazioni di che in luogo dell’aggettivo interrogati-
vo quale (tano Che invidia? [SS: 41]; stefano vorrei sapere che baco
tu c’hai nel capo! [UC: 124]; stefano Che segreto?! [UC: 143]).
Sono scarse anche le ricorrenze del relativo cui: non è mai attestato
in UC; in SS e in BM compare una o due volte, ma solo all’interno
delle didascalie; mentre in DM è presente soprattutto nei personaggi
più elevati:
faruk il coraggio di fare quello per cui abbiamo lavorato tanto [AM: 69]; la
figlia le formule con cui si giura [AT: 102]; il padre nel momento supremo
in cui compie l’atto [AT: 103]; gogol un male di cui godo… [DM]; goethe in
mezzo a cui si intravedeva il lucore [DM]; cortellazzo il giorno in cui sono
venuto [DM]; goethe nella piazzetta a cui si sfocia da quel vicolo [DM]; tata
se stabilisce er valore della giustizia, per cui er colpevole sa [DM]; leopardi le
parole […] su cui ho lavorato [DM].
Si rileva una estensione degli usi del pronome relativo che anche nei
casi obliqui, soprattutto in LR:
peppe Non sei l’unico che hanno detto così [SS: 24]; peppe Non è l’unico
che gli hanno detto così [SS: 25]; giovanna ha scritto […] un libro che ne
parlòrno tutto er monno… [DM]; tano quella che co’ l’amante ve sete messi
14
Cosa è frequentissimo in AM (testo che, viceversa, non ha nessuna attestazione
di che), mentre non compare mai in LR.
15
Ne riportiamo alcune: sirius Che cosa è questa [LR: 327]; sirius Che cosa è
giocare [LR: 328]; sirius Che cosa ci sta dentro [LR: 328]; sirius che cosa mi devi
dire [LR: 355].
205 Dalla parola al palcoscenico
d’accordo pe’ avvelenà er marito? [DM]; kent Nel posto che ci sono nato
[LR: 340]; kent Quello che gliel’ho chiesto prima mi ha detto di no [LR:
352]; sirius Un annuncio che […] ci facciamo sopra una settimana di festa
[LR: 358].
kris non ci hai il fiato che ti puzza […] non ci hai i brufoli [LR: 330]; sirius Ci
hai sonno [LR: 336]; laura ci avevo paura [LR: 337]; nimar sento quello che
ci hai da consigliarmi [LR: 343]; reiko Ci hai qualche problema? [LR: 347];
mamma C’aveva in mente una cattedrale… [UC: 117]; stefano che baco
tu c’hai nel capo! [UC: 124]; ovidio c’avevo sei anni… [UC: 130]; principe
bestia C’ho la febbre [UC: 135]; tata nun ciò niente da fare… [DM]; tata
Nun cià grilli per la testa [DM]; tata ciò sempre troppo da fa’ [DM]; agata
nun ciò più le mani bone… [DM]; tata Che testa che ciavete signor Goethe
[DM]; tata cianno ancora voglia de ballà [DM]; tata sta manaccia stupida
che c’hai [DM]; tata c’avete portato da bevere [DM].
tata c’è pure ‘na giustizia che lo fa schiattà [DM]; tata pure voi, allora, pure
voi siete accidioso [DM]; leopardi pure io, pure io sono accidioso […] amico
di tutto e di tutti… pure di voi che siete accidioso [DM]; laura Mi serve pure
a me [LR: 338]; reiko Andiamo a letto insieme e sbadiglio pure [LR: 343];
16
Un analogo problema di rappresentazione è posto dal pronome gli, che nei Ra-
gazzi di via della Scala spesso è eliso: renzo gl’ho fatto il tassello [UC: 156].
17
Nel Cortile, ad esempio, c’è una solo ricorrenza di pure e molte ricorrenze di
anche: uno Qualche volta le hanno pure scambiate… [SS: 43]. Pure non compare
mai in UC.
206 Silvia Calamai
nimar me lo chiedo sempre pure io [LR: 346]; kent so pure chi sono io [LR:
354]; il padre t’imbarchi tu e tua moglie con tutta la sua mechouia e pure la
Bambina [AT: 94]; la figlia un professore di storia coranica che era pure del-
l’Organizzazione [AT: 102]; il padre il Profeta dirà pure che lo sguardo è tutto
[AT: 103]; la madre tu vorresti pure allungarti su una panca [AT: 120].
tata manco fosse stata mi fijia… [DM]; giovanna manco sai fa’ un uovo al
tegamino [DM]; tata manco posso acchiappà l’ombrello [DM]; sirius Non si
sono messi manco messi a ridere manco un secondo [LR: 338]; kent Manco
io. [LR: 339]; kent manco un topo abbiamo preso [LR: 351]; il padre senza
manco un minuto di ritardo [AT: 94]; la madre a Nazareth non ferma e man-
co a Cana [AT: 106]; il padre non ci vado, manco morto [AT: 120].
Io a lui l’ho cresciuto [LR: 360]. Solo una ricorrenza è nel Cortile: voce
uno loro non sopportano a quelli che gli danno fastidio!… [SS: 22].
Per quanto riguarda il sistema verbale, ci sono ricorrenze dell’imper-
sonale si + terza persona, soprattutto in UC e in AT19:
tata quando venne a Roma Napoleone, stesero per terra un tappeto lungo da
qui a San Pietro, una cosa mai vista, e fecero un banchetto con cento portate
[DM]; marcellina Il babbo […] fino a tredici anni lo portò a cavalluccio sul
groppone [UC: 116]; marcellina Dopo quel fatto, per prima cosa, la mamma
smise di farsi ciancicare tanto i capelli, anche perché non c’era più “materia”,
e poi diventò più “pratica” nelle cose, fece ragionare più spesso Giuliano con
il babbo, che lo portò in bottega, gli fece vedere le sete, i damaschi, trattare
con i clienti… Insomma gli insegnò i trucchi del mestiere. Si può dire che per
tre anni Giuliano stette bene, finché un giorno… [UC: 118].
19
Testi che, più raramente, presentano anche casi di forma impersonale preceduta
dal pronome noi: il padre Noi dopo la raccolta di pomodori […], si tornava a est [AT:
109]; danilo Noi non si aspetta nessuno? [UC: 129]; regina noi si dice che la sposina
è andata [UC: 135].
208 Silvia Calamai
suor agata si credono che fra le dita ci devono crescere i funghi [DM]; kris
Penso che non ci puoi fare niente [LR: 340]; spyrus Pensavo che non c’era
bisogno di dirlo [LR: 341]; spyrus Pensavo che ti piacevo [LR: 342]; kim
Come ti credi che fanno negli altri posti [LR: 348];
tata pare che è figlio di un cardinale… [DM]; tata Me pare proprio che è lui
[DM]; tata Me pare che ce n’è rimasto ancora un fonno de bottijia… [DM];
nimar Pare che è tutto infinito [LR: 343]; doris & audrey A me non mi pare
giusto […] Che ci frusta [LR: 348];
così come in quelle costruite con i verbi che indicano un moto del-
l’animo (nimar Non mi piace che Spyrus ti corregge sempre [LR:
341]), oppure con i verbi che indicano una volizione o un’aspettativa
(spyrus Speriamo che adesso sei felice [LR: 342]; kent Preferivi che
te lo dicevo per lettera [LR: 359]), soprattutto in LR. L’indicativo è
documentato anche nella frase condizionale introdotta dalla locuzio-
ne basta che (il padre basta che sulla coppola ci metti le pale di un
Sikorsky [AT: 97]).
In LR compaiono molte attestazioni dell’indicativo imperfetto pro
condizionale:
sirius Non pensavo che ce la facevo. Pensavo che non mi dava retta nessuno
[LR: 338]; spyrus Pensavo che magari cambiavi [LR: 343]; sirius Che vi
credevate. Che decidevate voi. Che io stavo qua e vi facevo da dio […] Voi
vi credevate che ve l’eravate inventato voi. Vi credevate che potevate fare le
cose anche di nascosto di me. [LR: 361].
kris ci sta un giornaletto che si chiama così [LR: 330]; sirius Ci sta qualcosa
che non va? [LR: 328]; kris È che non ci stanno più i topi di una volta [LR:
209 Dalla parola al palcoscenico
338]; nimar a pensare che non ci sta via di scampo per me. Mi sento male
[LR: 343]; kent Questo quando me ne sono andato via. Non ci stava [LR:
356].
tata Me stai a vizià… [DM]; giovanna sta a perde i capelli sto disgraziato…
[DM]; kris me lo potresti dire perché stiamo a andare là [LR: 340]; kent Qua-
si non stai a soffrire [LR: 360]; sirius Perché mi state a rinnegare [LR: 362].
Ci sono due sole ricorrenze del participio passato ito ‘andato’ (argia
la m’è ita bene [UC: 154]; tata dove s’è ito sto Napoleone della ma-
donna? [DM]).
Soltanto in DM e in UC viene usato il prefisso ri-, con valore ite-
rativo (cortellazzo ti rivolevo con me… [DM]; tata Ammazzala,
Giovà, che capelli che riavevi! [DM]; avaro ci si rispoglia [UC: 151])
o derivativo (giovanna Si s’è proprio rinscemito… [DM]).
3. Sintassi
fatima …Ha detto che chi non paga è come una scheggia […] che si infila
nella mano […] che se non paghiamo lui, lui non può pagare quelli del mer-
cato… che quelli del mercato non scherzano, che una volta uno che conosce-
va non aveva pagato, e quando è tornato il giorno dopo con i soldi […] loro
non lo ascoltavano neanche, e gli hanno preso i soldi e glieli hanno gettati
per terra perché di lui non ne volevano più sapere [AM: 66]
peppe Il fioraio… (Pausa) Anche lui aveva delle belle gambe… Ma non come
le mie… (Pausa) Lui soffriva molto per questo… E, una volta, per non farlo
soffrire gli ho fatto vincere un premio minore… (Pausa) E da quella volta, lui,
mi ha sempre pagato da bere. (Pausa) Tano, hai qualcosa da bere? [SS: 17]
20
Cfr. De Matteis 2004, 210, ove si accenna al «tipico stile nominale di Scimone
in un alternarsi di interventi e repliche che disarticolano l’impalcatura sintattica della
lingua».
211 Dalla parola al palcoscenico
tano I parenti, vogliono dal condominio le chiavi [SS: 20]; uno le hanno
detto, che non doveva più svegliarmi la mattina… […] L’unica cosa che fac-
cio la mattina, è pena… [SS: 24]; tata A me ‘sta parola boia, non mi è mai
piaciuta [DM]; mamma Di famiglia, loro sono piccini [UC: 117]; narratore
il babbo e la mamma di San Giuliano, smisero di fare tanto i ‘gestrosi’ [UC:
117]; nadir Razeq, ha preso il rossetto [AM: 62]; primo passante tirare fuori
un coltello, è pericoloso [AM: 76];
e diversi casi di ordine marcato della frase, con l’oggetto in prima po-
sizione:
gogol Un poco di silenzio si potrà avere [DM]; tata una certa famerella m’è
venuta a trattà co sto pazzo [DM]; avaro Un po’ di umiliazione non ha mai
fatto male a nessuno… [UC: 148]; razeq Solo il mio nome hanno battuto a
macchina [AM: 71].
peppe Puliscimi tu, le labbra! [SS: 18]; josef Oggi andrà a firmare il contratto
per un magazzino il signor Faruk [AM: 72]. Sono presenti alcuni anacoluti:
tata quello gli ho fatto ruzzolà la capoccia una decina d’anni fa [DM]; ahmed
Perché una donna sola su una nave è pericoloso [AM: 60]; fatima L’ultimo
viaggio che ho fatto stanotte, mi sono addormentata [AM: 72].
tano I vecchi non li vogliono più in casa [SS: 20]; tata la madre nun ce l’ho
mai avuta [DM]; tata questi biscotti li ha fatti lei [DM]; il padre la casa di
212 Silvia Calamai
uno Me l’hanno tolta la casa. […] Me l’hanno tolto il sonno. [SS: 23]; tano
L’ho vista la sua faccia [SS: 30]; tata a lei nun gliela avrei mai tagliata la testa
[DM]; suor agata Te li sei lavati i piedi? [DM]; reiko Ti piacerebbe averceli
due culi [LR: 335]; nimar Me lo trattenevo il pensiero [LR: 342]; maurino
Oggi la disegno io la pista! [UC: 113]; renzo io ce la metto tutta la volontà
[UC: 131]; nadir tu li vedi i miei occhi [AM: 60]; ahmed dove li prendi quei
soldi? [AM: 68].
il padre è davvero lì che non ci piove [AT: 97]; il padre è in quella casa
che abbiamo fatto tutti i nostri figli [AT: 98]; il padre È con l’intercity che si
scende a destra [AT: 113]; peppe È da un po’ di tempo che non mangio qual-
cosa di caldo [SS: 39]; uno È da quando mi avete dato quel pezzo di pane, che
non mangio più [SS: 41]; kris Sono le prof che sono puttane [LR: 330].
21
Cfr. D’Achille 2001, 201, sulla maggiore frequenza di dislocazioni a destra nel
parlato teatrale.
213 Dalla parola al palcoscenico
nate implicite: nimar Te lo dico senza che ti faccio capire che sei tu
[LR: 343]; nimar Senza che gli faccio capire che sono io [LR: 344].
La presenza insistita del che polivalente (in tutta la sua polisemia)
è un tratto che potremmo definire costitutivo nell’opera di Antonio
Tarantino, opera la cui architettura sintattica pare sostenuta proprio
dall’accumularsi ossessivo di questa congiunzione. Si veda, a titolo
esemplificativo, la lunga battuta del Padre, in apertura di testo, dove
l’iterazione di che tiene insieme la logorrea del personaggio, il quale
– all’interno di un lunghissimo periodo ove il punto fermo compare
solo alla fine – subito offre le coordinate spazio-temporali, sociali e
ideologiche entro cui si muove la vicenda22:
il padre Che siamo partiti questa mattina con l’interregionale […] che è
sempre la solita storia che l’interregionale […] ha tutte le porte dico tutte
le porte dei cessi di seconda classe che non chiudono, che uno non si può
nemmeno abbassare un momento i pantaloni che subito ti arriva uno con
tanto di occhiali scuri da marine e con la scusa che i cessi di seconda classe
dell’interregionale […] non chiudono quello ti s’infila dentro che magari sarà
pure uno del Mossad o dello Shin Beth, e ti scruta dalla testa ai piedi prima
di chiederti scusa che tu magari sei lì nell’imbarazzante posizione di chi stia
per compiere l’atto igienico definitivo con tanto di rotolo di carta igienica in
mano, che qui la carta igienica ormai con questa storia dell’occupazione dei
Territori ce la dobbiamo portare da casa noi che magari lo Shin Beth e magari
il Mossad avrà dato lui l’ordine di togliere tutta la carta igienica dalle toelette
di seconda classe dell’interregionale e di tutti magari gli interregionali ma in
particolare dell’interregionale che tutte le mattine viene giù da Cesarea di
Filippo e dopo una breve sosta al primo binario che non c’è neanche il tempo
di prendersi un cavolo di tè verde al bar, che magari è un ordine dello Shin
Beth se non addirittura del Mossad [AT: 93].
22
Con l’insistenza – a nostro avviso potentissima – sulla parola interregionale, che
rimanda a paesaggi e a personaggi molto italiani, a figure di immigrati di un qualche
sud diretti verso un qualche nord (si pensi a questo proposito alla voce di Stabat Ma-
ter).
214 Silvia Calamai
(la madre qui noi non possiamo dormire, che magari tu vorresti pure
allungarti su una panca della sala d’aspetto […], che poi ci arriva un
controllore e ci chiede i biglietti [AT: 120]; tata Venite più vicino
che vi aiuto a scenne… [DM]); di che causale (il padre ma non è
che voglia dirti, […], che nella piana di Thamma proprio non piova
mai, che ogni tanto è chiaro che sui pomodori della piana di Thamma
prima o poi ci piove; il padre ti ricordi di quando avevo comprato un
gallo, che a casa nostra non c’era nemmeno un orologio? [AT: 116]); di
che introduttore di completive pseudo-relative (miryam io vi parlai di
quella cosa che tu mamma mi rispondesti: il pinguino? [AT: 128]); di
che presentativo (kent Sto là che mi faccio una sega [LR: 330]).
Anche in autori che dal dialetto sono consapevolmente passati al-
l’italiano affiorano qua e là dialettalismi sintattici: in SC, ad esempio,
è l’ordine delle parole a tradire la sicilianità dell’autore (tano Io sem-
pre in silenzio leggo il giornale [SS: 19]; uno Ma tra un po’ anche la
voce si prenderanno [SS: 23]).
4. Lessico e semantica
tata Ma chi sei? mi fa quello co na barba che gli arriva ai piedi [DM]; tata
A Roma quando cammino si danno di gomito e fanno: quello è Tata degli
Angeli [DM]; kent Va da mio padre e gli fa Lo sapevo che era più figlio a me
che a te [LR: 330];
giuliano Levare il male dal mondo… [UC: 118]; mamma Levagli il martel-
lo! [UC: 118]; avaro Levatemi una curiosità… [UC: 146]; avaro Non mi
levate più niente… [UC: 152]; sconosciuto Levami le scarpe! [UC: 155];
enrico L’avaro levò una scarpa […] Levò anche quell’altra [UC: 156];
Anche nella locuzione levarsi di torno (tata levatevi di torno, cinghiale! [DM];
23
110]; maurino casca e si spacca tutto! [UC: 123]); menare per ‘pic-
chiare’ (tano Me menavano daa mattina a sera [DM]); pisciarsi sotto
per ‘avere molta paura’ (tata questi qua se pisciano sotto da la paura
[DM]); raccattare per ‘raccogliere’, anche in bocca a Leopardi (leo-
pardi Aiutatemi a raccattare questi fogli… [DM]); moscio in luogo di
‘abbattuto’ (sirius state qua tutti mosci [LR: 334]); provarci per ‘fare
avances’ (spyrus Sei stata tu a provarci con me [LR: 343]); ripigliar-
si per ‘riaversi, riprendersi’ (reiko Quando arriva ci ripigliamo [LR:
346]); uscio per ‘porta’ (moglie a ha sbagliato uscio [UC: 129]); pigliare
in luogo di ‘prendere’ (principe bestia Piglia quello che ti pare [UC:
137]); poppe in luogo di ‘seno’ (marcellina Con un morso le squarciò
le poppe… [UC: 137]); capo per ‘testa’ (stefano vorrei sapere che
baco tu c’hai nel capo! [UC: 124]); insudiciare per ‘sporcare’ (avaro
tu me lo insudici [UC: 147]); montare per ‘salire’ (hella monta sulla
valigia [AM: 61]); ficcare per ‘infilare’ (faruk me l’hanno ficcato in
bocca [AM: 76]; la figlia i due merdosi dollari te li puoi ficcare su
per... [AT: 125]).
Ci sono voci espressive e popolari come schiattare ‘schiantare’ (tata
uno pure è schiattato per il troppo mangiare [DM]; tata c’è pure ‘na
giustizia che lo fa schiattà [DM]); cacarella, con valore aggettivale in
riferimento a persona paurosa (tata mi mojie […] è un poco caca-
rella [DM]); tirare ‘attirare sessualmente’ (tata la carne je tira e s’ar-
rangiano come ponno… [DM]); capoccia ‘testa’ (tata quello gli ho
fatto ruzzolà la capoccia [DM]; tata siete na bella capoccia signor
Goethe… [DM]); incroccarsi ‘arrabbiarsi’ (tata se te vede si incrocca
[DM]); sberluccicare ‘brillare’ (tata sberluccicavano come tante stel-
le… [DM]); stufarsi ‘irritarsi, seccarsi’ (tata me so stufato… [DM]);
beccare ‘sorprendere’ (il padre mi avevano beccato con un volanti-
no [AT: 96]); ceffo ‘viso brutto’ (il padre tutti quei ceffi del Mossad
[AT: 103]; miryam dietro un banco vidi due ceffi [AT: 126]); bollito
‘scemo, tardo di comprendonio’ (il padre sei bollita! […] la casa se
non sei completamente fusa era a Bethsaida […] la madre Io fusa?
Tu sarai bollito […] il padre vedi che sei cotta, hai il cervello bollito
[AT: 109]); pompata ‘esagerazione’ (il padre quante menzogne dirà
la televisione, o le pompate dei giornali [AT: 120]); crepare (kent Io
aspetto solo che crepa pure lui [LR: 339]; signorina gennari Se non
dormo un paio d’ore crepo prima io di lei… [UC: 114]); rompere ‘di-
sturbare’ (moglie b viene qui a rompere, per telefonare… [UC: 129];
il padre che cosa rompete le mie povere vecchie palle [AT: 107]);
fondelli nella locuzione prendere per i fondelli ‘prendere in giro’ (prete
Mi prendi per i fondelli? [UC: 139]); marchese ‘mestruo’ (ovidio Sento
216 Silvia Calamai
24
Tra le voci espressive che rinviano anche al sostrato romanesco segnaliamo
piagnere (tano Te ricordi come piagneva [DM]), magnare (tano si magnano lupini
[DM]). Per le voci espressive di area toscana presenti in UC il rimando è a Calamai
(2004).
25
È da rilevare come nella battuta compaia anche il sinonimo più elevato toeletta,
che nel testo ha altre due ricorrenze: il padre avrà dato lui l’ordine di togliere tutta la
carta igienica dalle toelette di seconda classe dell’interregionale [AT: 93]; miryam ho
chiesto dov’era la toeletta [AT: 126].
217 Dalla parola al palcoscenico
26
Compare qui il sinonimo leggermente più ‘elevato’ gabinetto, presente in poche
altre battute e in due didascalie (La Figlia entra nel gabinetto; Entrano nel gabinetto la
Madre e il Padre). Nelle didascalie peraltro il sostantivo cesso non figura mai.
27
Molto frequente in AT (il padre prima […] della famosa risoluzione tre cinque
sette o quattro nove uno o quattrocentosettantanove, o che cazzo ne so [AT: 104];
la figlia e cercare ‘sto cazzo di supermercato [AT: 105]; il padre e poi Haifa San
Giovanni d’Acri e Naharyyia, che cazzo di nomi [AT: 121]; la madre all’università di
Khibet Sumak, o di Kafr Misser o di che cazzo ne so [AT: 100]), ove peraltro compare
anche la forma femminile la (una) cazza di seguita da sostantivo (il padre può pure
esserci stata una cazza di soffiata di uno dell’Organizzazione [AT: 94]; la figlia può
portare tutta la cazza di mechouia che vuole [AT: 95]).
218 Silvia Calamai
[LR: 362]); palla (avaro Palle… Baggianate! [UC: 153]28); figlio di una
mignotta (tata sto gran fijio de na mignotta [DM]); culo (spyrus quel-
la ci ha un bel culo [LR: 343]; avaro Se ero demonio vi chiedevo di
baciarmi il culo [UC: 148]; gogol brutto scimmione dal culo a pera…
[DM]; la figlia lungo la schiena, e poi sul culo, tra le natiche [AT:
123]); prendere (pigliare) per il culo (reiko Mi prendi per il culo [LR:
334]); fare il culo (a qualcuno) (la figlia se ti sentono ti fanno il culo
[AT: 95]); (avere qualcuno) al culo (il padre con quelli dello Shin Beth
al culo [AT: 107]); fottere (in AT anche nel titolo della scena XI Sare-
mo sempre fottuti; la madre noi due siamo bell’e che fottuti [AT: 120]);
affanculo (miryam vada affanculo anche la storia [AT: 126]).
Alcune voci, più sporadiche, rimandano a un lessico di carattere
coprolalico:
sirius La cacca l’altro giorno non lo so se se n’è andata [LR: 336]; nimar Se
era merda tua a me mi sta bene [LR: 336]; nimar In pratica ci ha solo un culo
in più. Così puoi scoreggiare da due parti [LR: 334]; la figlia si è messo a
litigare con un altro come lui, brutto come lui e stronzo uguale: e uno diceva
all’altro: «Sentimi bene pezzo di merda, i merdosi soldi di quella faccia di
merda li devi dividere con me, chiaro?» E l’altro gli ha risposto: «Sentimi
bene, pezzo di escremento in divisa, questi soldi sono miei, tutt’al più ti posso
dare due dollari...» «Due dollari a me? Senti schifezza umana, i due merdosi
dollari te li puoi ficcare su per ...» [AT: 125].
seghe (kent mi faccio una sega [LR: 330]; ovidio non ti finire di seghe
[UC: 142]); inculare (reiko Se ti inculano ci hai bisogno di incularti
un altro [LR: 343]); troia (miryam «Quella troia», dicevano, «sarà di
cinque mesi», e ridevano [AT: 123]; ovidio le donne diventano più
troie… [UC: 142]); pompino (nel titolo del II Poscritto in AT: La vera
storia del pompino. Ovvero la relazione che passa tra un favore sessuale che
una donna fa a un uomo e la guerra); fare la festa (a qualcuna) (la figlia
proprio a Sassa mi hanno fatto la festa [AT: 101]).
In LR sono numerose le voci del linguaggio giovanile, talvolta con
una sfumatura gergale: pornazzo ‘film porno’ (kent I pornazzi. […]
L’ultimo baluardo della libertà [LR: 339]); cannetta ‘(piccolo) spinello’
(kent Va beh una cannetta [LR: 329]); pippe ‘masturbazione maschile’
(kent mi faccio le pippe col Circolo Pickwick [LR: 330]); caga ‘fifa’
(kent per la caga vengo in quel preciso momento [LR: 330]); prof ‘pro-
fessore/professoressa’ (kris Sono le prof che sono puttane [LR: 330]);
fico ‘persona (o cosa) attraente’ (doris & audrey Però è più fico [LR:
362]) e fica ‘ragazza veramente bella’ (kent Sai le fiche e tutto [LR:
351]); roba ‘droga’ (reiko Chi ce l’ha la roba [LR: 335]); farsi (qualcuno)
‘avere rapporti sessuali’ (spyrus quasi quasi me la faccio [LR: 343]); far-
si ‘iniettarsi droga’ (kim Quando stiamo qua e ci facciamo [LR: 346]).
Compaiono inoltre voci che appartengono al lessico delle ingiurie
e delle offese: grullo (signora biagini Hai diciotto anni, grullo! [UC:
112]); imbecille (stefano Falla finita, imbecille! [UC: 142]); deficiente
(miryam quei deficienti dell’Organizzazione non si decidevano [AT:
126]; maurino deficiente, ritardato te non mi prendi per il culo [UC:
143]); cretino (leopardi maniacali, cannibali e cretini… [DM]); stron-
zo, molto frequente in AT (il padre questi stronzi dello Shin Beth; la
madre quegli stronzi dell’Organizzazione). In UC ricorre anche l’epi-
teto fumettona (nel testo è virgolettato):
il padre La mechouia la mechouia! Tiri fuori dal tuo borsone tutta ‘sta cazza
di mechouia, ma quanti barattoli ne hai portati di mechouia? Perché, hai
paura che la Bambina si debiliti se non mangia venti panini con la mechouia?
[AT: 93].
figlia Ti avevo detto di non metterli nella borsa col pane la mechouia e
la pietanziera del kebab, che pazienza il pane, […], ma tu sei o non sei in
grado di capire che un telefonino non può andare a finire né nel kebab né
nella mechouia, che pazienza il cous-cous che poi non capisco perché per un
viaggio di poche ore si debba per forza portare tutta quella roba da mangiare
[…] non capisci che il progresso si calcola anche dal consumo pro capite di
pane mechouia cous-cous e kebab, che più un popolo è evoluto e meno pane
mangia, per non parlare del kebab? [AT: 104]
te attestata in Leopardi, come ricaviamo dal GDLI (VIII: 127): «L’uomo col lungo
uso si può assuefare anche all’intera e perfetta noia, e trovarla molto meno insoffribile
che da principio».
30
Con una diversa resa grafica, il sostantivo è presente anche in AM: nadir Vuoi
che vada a prenderti un piatto di cuscus all’angolo? [AM: 62].
221 Dalla parola al palcoscenico
la madre lei ha anche detto delle parole che adesso io non ricordo tanto
bene, ma che sicuramente risalgono alla dominazione degli antichi signori del-
l’impero, quelli che dicevano... aspetta che ce l’ho scritto su un pezzo di carta,
quella dove ho avvolto il tubetto di harissa, dice: «si vis pacem para bellum»,
che la Bambina mi ha tradotto, dopo avermi detto che anche i signori della
guerra dell’impero di mezzo e quelli di quello attuale dicono la stessa cosa, che
a me mi sembra la cosa più insensata che ci sia, perché se io voglio per esempio
preparare il kebab mica mi metto a fare la mechouia, e allora se vuoi la pace
tu dovrai preparare la pace, non ti sembra? […] quello che non ho ben capito
sono quelle antiche parole che lei nel sonno ha detto, e che sicuramente ci ar-
rivano da quelli dell’antico impero, quello del parabellum, tipo cunnilinguum,
o cunnilinguus, e poi anche fellatio, che però io non le avevo mai sentito
pronunciare: saranno anche quelle parole imperialiste? [AT: 105-106].
Betlemme Ebron Arad Schen e Gaza, per poi risalire, e di nuovo Tel Aviv...
Sono stanco. Ma per la barba del Profeta: c’è un comodo intercity […] che fa
la linea diretta litoranea, Gaza Askelod Rishon Le Tzion Giaffa Tel Aviv... e
poi Haifa San Giovanni d’Acri e Naharyyia, che cazzo di nomi... [AT: 121].
kris è stato lui a farti quelle cose [LR: 353]; sirius L’annuncio che vi devo
dire è una cosa seria [LR: 358]; kent Quello di coso lì. Dickens. [LR: 330];
faruk Ho inventato tutte quelle cose senza sapere se erano verità o bugie […]
non sapevo cosa pensare di tutte quelle cose [AM: 73].
tata aho eri proprio bruttarella [DM]; renzo Oh io seguito a venire [UC:
111]; kris Mh [LR: 331]; kent ero cicciottello eh [LR: 340]; Nimar gode come
in un velocissimo orgasmo nimar Ah ah ah aaaaaah… ([…] Tutti lo guardano.
Lui si sente in imbarazzo.) Ehm… Aaaah… Che dolore… Uuuuuh [LR: 349];
sirius Mmmmmh [LR: 357]; nadir Oh ma io mi nasconderò [AM: 60]; hel-
la Uh, la valigia, non l’abbiamo ancora chiusa […] Uh, ma come si fa a non
sapere quanto si pesa [AM: 61]; nadir Non si dice divina, si dice “mmm-
mmm” [AM: 62]; fatima È strano parlarsi al telefono, eh? [AM: 72].
5. Retorica
Le figure più rappresentate nel corpus sono quelle costruite per ag-
giunzione, attraverso la ripetizione o l’accumulazione di segmenti te-
stuali. Ci sono anafore:
223 Dalla parola al palcoscenico
tata Aveva un collo suor Agata, un collo possente […] un collo così nun ce
la fa nessuno a staccarlo [DM]; (in una struttura a climax) maurino Una che
ballava in un locale… Una che fumava in pubblico… Una che accavallava le
gambe quando si metteva a sedere… Una maleducata negli occhi… Spudora-
ta nella bocca… Insolente nel cuore [UC: 126]; sirius L’annuncio che vi devo
dire è una cosa seria. L’annuncio che vi devo dire è una cosa che mi riguarda a
me ma che riguarda pure qualcun altro. L’annuncio è questo [LR: 358];
epanalessi:
gogol se lo aveste visto ballare, era una trottola, una trottola, ma che solleti-
co, che pizzicore… se sapeste, se sapeste… una trottola, una trottola… [DM];
tata Nun riesco mai a parlarci, nun riesco mai a parlarci… [DM]; faruk Non
ti fidavi… non ti fidavi di me [AM: 73]; madre vieni qui, brutta puttana… vie-
ni qui… quale muro?… quale muro?… [AM: 75]; la madre tanto la tua Bam-
bina la conosci a memoria, la conosci [AT: 114]; il padre sui guadagni che io e
te […] abbiamo fatto […] è davvero lì che non ci piove, e non ci piove affatto
non ci piove [AT: 97]; il padre E chi ha detto niente, io strillare, ma io non ho
detto niente proprio, ma proprio niente, che tanto in questa situazione cosa si
deve dire, è chiaro, niente, proprio niente, ma niente niente [AT: 114];
anadiplosi tra due battute contigue (la madre noi due siamo bell’e
che fottuti. il padre Fottuti lo siamo comunque [AT: 120]); e infine
epanadiplosi (suor agata zozzo sei e zozzo rimarrai… [DM]).
Non sono rare neppure le battute ‘segmentate’, che si completano
all’interno del meccanismo dialogico:
tata Ah, perciò sono accidiosi, biliosi, rabbiosi, maniacali e cannibali e cre-
tini… pure voi, allora, pure voi siete accidioso, bilioso, rabbioso, maniacale,
cannibale e cretino…
leopardi Sì, lo confesso, pure io, pure io sono accidioso, bilioso, rabbioso,
maniacale, cannibale e cretino… ancora un poco di passito per carità… mi
sento così leggero, amico di tutto e di tutti… pure di voi che siete accidioso,
bilioso, rabbioso, maniacale, cannibale e cretino…. (si allontanano abbraccia-
ti, ripetendo fino alla nausea il ritornello “pure voi però, pure voi siete accidioso,
bilioso, rabbioso, maniacale, cannibale e cretino” […]).
31
‘Risposte-eco’ sono anche nei Ragazzi di via della Scala, ma su un piano differente
(non la riproduzione di una sorta di grado zero del meccanismo dialogico, piuttosto
la sottolineatura enfatica del già detto): mamma Vedrai, passa… Passa… narratore
Passa! Passa! È una parola! [UC: 119].
225 Dalla parola al palcoscenico
tata Dice… ma ndó vai, di notte […] io vado, vado perché me piace annà…
de notte? Sì, de notte […] ma chi sei, mi fa quello co na barba che gli arrivava
ai piedi… lo vuoi proprio sapé? E io me presento subbito; tata Mi hanno
detto: ah Tà, […] tornatene a casa!… […] Dice: la città di Roma, per com-
penso, ti dà un emolumento di 400 scudi…; tata Ma chi sei? mi fa quello co
226 Silvia Calamai
na barba che gli arriva ai piedi; tata quando cammino si danno di gomito e
fanno: quello è Tata degli Angeli.
avaro Se viene qualcuno, io non l’ho vista… Anzi, no. “Sì… è passata, m’ha
lasciato il secchio e la scopa…” (Entra sempre più nella pantomima dell’interroga-
torio) “Dove andava? Non me l’ha specificato… M’ha detto qualcosa… Mi pare
che andasse da un certo ebreo… […] Valla a sapere la verità…” [UC: 155]
nadir lei […] ha detto «E questo cos’è» e Razeq ha detto: «Non me lo metto
mica […]» E lei: «Non piacerà a Abdul […]», «Perché?» ho detto io, e lei: «Tu
stai zitta» [AM: 62]; nadir Ieri si è messa a letto… «Portala lontano Nadir»,
«Dove mamma?», «Non so Nadir, portala in un campo e lasciala mangiare
per tutto il pomeriggio» [AM: 68]; nadir «Razeq sarà un’ottima moglie» ho
detto io, e li mi ha chiesto: «E questo sarà stato solo un sogno? » «È stato tutto
così perfetto oggi!» ho detto io, e lui: «La perfezione non è completa […]» e
in quel momento è entrata Razeq, e ha detto che lo aspettavamo di là per una
fotografia, e lui ha detto: «Avrò pazienza, saprò aspettare» [AM: 79].
227 Dalla parola al palcoscenico
uno Me l’hanno tolti i miei figli [SS: 23]; tano Ti ricordi che t’avevo detto di
avere pazienza… [SS: 39]; tata Così m’ha insegnato mi madre… [DM]; gio-
vanna che t’ha detto? [DM]; la madre quando la Bambina s’era appisolata
[AT: 105]; il padre prim’ancora di entrare nella stazione [AT: 108]; kris M’ha
pure morso [LR: 339]; kim t’ho pure salvato [LR: 348]; kim E che ne so chi l’ha
mai visti [LR: 348]; ahmed non t’ha voluto dire il nome? [AM: 63]32.
32
In DM compaiono anche casi di mancata elisione, ma solo in un personaggio
‘alto’ (leopardi Ve ho salvato la vita…). In AM i personaggi che presentano elisioni
hanno anche forme non elise (ahmed Se non ti ha voluto dire il nome [AM: 63]), a
segnalare forse – almeno in questo testo – una variazione pressoché libera tra presenza
/ assenza di elisioni vocaliche a confine di parola.
228 Silvia Calamai
il padre il segnale di via libera, vero Ma’? [AT: 111]; miryam Senti
Ma’ […] Ma’, non bisognerebbe mai dare nulla per scontato. Eppure
fosti tu, Ma’, a narrarmi per filo e per segno di Sabra e Chatila [AT:
129]. Ancora tra i fenomeni di parlato veloce, citiamo le molte for-
me aferetiche del dimostrativo, presenti in DM (anche per influenze
dialettali) e in AT:
tata dove s’è ito sto Napoleone della madonna? [DM]; tata ce fantasticavo
su sto padre [DM]; tata te la taglierei tanto volentieri sta manaccia [DM]; il
padre tutta ‘sta cazza di mechouia [AT: 93]; la figlia ‘sto cazzo di supermer-
cato [AT: 105]; il padre Quando riparte ‘sto interregionale? [AT: 112].
la figlia vedo tutto e di tutto posso dar conto: e cioè che dio non esiste, che
pace e guerra sono destinate a inseguirsi nel cerchio rovente del tempo, come
s’inseguono amore e odio, salute e malattia, giorno e notte, sole e pioggia,
33
In DM è molto frequente il troncamento dell’ultima sillaba degli infiniti, tratto
tipico delle varietà centro-meridionali. Ci sono casi di apocope sillabica per sono,
variamente trascritti (tata sò il boia Tata degli Angeli…; tata so’ rinomato; suor
agata In questo convento so tutti zozzi).
34
In AT hanno l’iniziale maiuscola anche Territori e Organizzazione (il padre qui
la carta igienica ormai con questa storia dell’occupazione dei Territori ce la dobbiamo
portare da casa noi; il padre magari a Cafarnao c’è uno dell’Organizzazione).
229 Dalla parola al palcoscenico
padri e figli, noi e loro, la loro storia e la nostra: e nessuno ha ragione, com-
pletamente ragione, né completamente torto [AT: 127].
la figlia tu col tuo Ca dentro la mia Fi, e io con gli occhi nei tuoi occhi? […]
il professore mi spiegava che: «Se c’è Dio siamo a cavallo, ma se non c’è ce
l’abbiamo nel Cu per tutta l’eternità» [AT: 116-117]; la figlia quel profes-
sore infilava […] il suo Me nella mia Fi [AT: 102]; la madre ha pronunciato
nel sonno delle strane parole che non le avevo mai sentito dire: a parte il
Ca e la Fi oppure il Cu, che potrebbero anche essere parole misteriose che
normali.
230 Silvia Calamai
l’Organizzazione imprime nel cervello dei suoi membri […] E lei dovrà magari
pronunciare delle parole senza senso, come Cu o Ca o Fi [AT: 105].
miryam che ti devo dire: ma quale martire: se fossi riuscita ad aprire la porta
di quel cesso […] non andate a casa vostra stanotte: scendete dall’interregio-
nale alla fermata di Amatunte, poi di lì andate a Cafarnao, o a Tiberiade: ma
non andate a casa perché a quest’ora la vostra casa è stata fatta saltare con la
dinamite: tutto per aria, anche l’unica gallina che avevate [AT: 126].
kent Va beh una cannetta due chiacchiere [LR: 329]; kent Sto là che mi
faccio una sega tranquilla di quelle senza fretta a un certo punto SBOM s’apre
la porta [LR: 330]; kent Sta zitta lo guarda sta zitta esce [LR: 330]; reiko Lo
sapevo che mi amava me l’ero sempre immaginato [LR: 343]; kent Non sai
fare niente non sai manco chi sei [LR: 354].
7. Testualità e conclusioni
il padre siamo partiti questa mattina con l’interregionale [AT: 93]; il padre
prima che un colpo di mortaio non ti riducesse in questo stato [AT: 98]; il pa-
dre circolano certe facce su questo treno [AT: 108]; la figlia Qual è il cesso
più sicuro? il padre Quello indietro. la madre No, quello avanti. la figlia
quello che si raggiunge nella direzione di marcia dell’interregionale, o quello
che sta nella direzione contraria? la madre Quello meno bucherellato dallo
Shin Beth [AT: 110]; la madre hai visto quei due ceffi? Guarda là, non guar-
dare in qua, ma non li vedi, quei due lì con quelle scarpacce da giocatori di
quel gioco che bisogna infilare la palla in una cesta, quella roba che guardavi
tu in televisione […] Quei due là, con quella tuta [AT: 112].
tata Venite qua… de qua che è più asciutto… [DM]; tata So nato qui [DM];
il padre Prendi l’esplosivo. No, quella è la mechouia la madre È questo?
233 Dalla parola al palcoscenico
la madre dovrà cercare lì il soldato che è passato a loro […], quello che quan-
do era con noi ci faceva il doppio gioco contro, mentre adesso che è con loro
continua a fare il doppio gioco, ma per noi: quello lì insomma [AT: 105]; nar-
ratore La mamma di Giuliano aveva la “fissa” delle grandi imprese… Dap-
pertutto vedeva tornei, cortei, guerre, assedi, battaglie… […] Insomma, oggi si
direbbe che era una “fumettona”, una bugiarda nata sputata! [UC: 117];
renzo Allora? Insomma li vuoi o non li vuoi? [UC: 111]; renzo Allora, gio-
vanotto? [UC: 131]; principessa Te! E io, allora? [UC: 136]; maurino Al-
lora? Si gioca o non si gioca? [UC: 143]; signorina gennari Allora, volete
stare zitti? [UC: 144]; spyrus Allora non ci vieni a giocare […] Allora ciao
[LR: 327]; spyrus Allora. Se a te ti sta bene. Ti chiamo Sirius va bene [LR:
329]; sirius E allora. nimar No, è che ieri ti abbiamo leccato le scarpe a turno
fino alle tre e allora... [LR: 334]; reiko E allora? Ci hai qualche problema?
[LR: 347].
Tutta la scena sesta (La vestizione) è comunque piena di elementi deittici che
36
za… Torna indietro! [UC: 114]; avaro Forza, ci si rispoglia [UC: 151];
avaro Chiedete… forza! [UC: 153]; sconosciuta Forza prendetemi!
[UC: 153]).
Tra i segnali di tipo rafforzativo, eccome ha una sola ricorrenza in DM,
è relativamente frequente in AT, ma non compare mai negli altri testi:
goethe Avete sentito parlare di me? tata Eccome!… [DM]; il padre
alla fine sganciano, eccome se sganciano [AT: 97]; la madre nel mera-
viglioso paese Bethsaida dove tra l’altro ci piove eccome [AT: 99].
Sono più rari i segnali e sai (renzo E sai, gli è speciale… [UC: 157])
e che in prima posizione, come presa di turno (tata Che, me lo chiedi?
[DM]). Ben più numerose sono le ricorrenze del segnale beh:
spyrus Beh vergine… [LR: 337]; nimar Beh così. All’improvviso [LR: 363];
la madre Be’, mi sembra esagerato andarsela a prendere adesso proprio con
Ramallah [AT: 121]; miryam Be’, veramente li ho dovuti benedire io [AT:
118]; tata Beh, l’odore è bono…; tata beh, però che male c’è a fantasticare?
[DM]; leopardi Beh forse voi avete genitori venuti da altre parti d’Itaglia
[DM].
e davvero:
tata Dite davvero? [DM]; goethe Davvero fate il boia?… [DM]; kent Che
ci sta un solo essere femminile per ogni uomo. […] Sembrano tante ma è una
sola e nasce per succhiarti il cervello via dalle orecchie. kris Davvero. [LR:
339]; angelo Davvero? Non mi pare… [UC: 122].
hella Ecco, vedi che si chiude… Ecco [AM: 61]; mamma Ecco! Guarda come
staresti bene! [UC: 117]; babbo Eccomi… Eccomi… [UC: 120]; marcellina
235 Dalla parola al palcoscenico
Ecco, solo Giovannino si è commosso [UC: 141]; la madre Ecco che ritorna
[AT: 107]; la madre Eccolo il grande pescatore [AT: 114]; tata Eccola che
arriva [DM]; giovanna Ecco qua, ti ho portato un poco di castrato [DM];
tata ecco, io le avrei tagliato il collo [DM]; goethe Ma ecco d’improvviso si
ode uno squillo [DM].
Russo, ad esempio, che pure presenta tratti di mimesi forte del parlato
(anche substandard), non utilizza mai te come soggetto; o ancora, la
pièce di Andrea Malpeli – che pure presenta numerosi casi di disloca-
zioni – non ricorre mai alla ridondanza pronominale.
Andrea Malpeli e Antonio Tarantino – che mettono in scena perso-
naggi ‘altri’, marocchini nel primo caso e palestinesi nel secondo – rap-
presentano due poetiche teatrali diametralmente opposte di fronte a
un problema drammaturgico comune (come rappresentare sulla scena
il parlato di stranieri): il carattere referenziale e poco espressivo del
tessuto linguistico di Io ti guardo negli occhi stride di fronte alla scrittura
espressionistica della Casa di Ramallah, in cui i tre personaggi palesti-
nesi parlano in un italiano vivo e popolare, a tratti fortemente sub-
standard. Ma le strade sono ancora molte: la scrittura di Spiro Scimone
guarda oltremanica, a Beckett e a Pinter, e tuttavia le movenze sintat-
tiche sono talvolta ancora siciliane. Dacia Maraini si confronta con il
romanesco e come tanto teatro usa il codice della lingua per differen-
ziare i personaggi: dialetto e italiano regionale per i personaggi bassi,
italiano standard con forme lessicali talvolta auliche per i personaggi
elevati (nella fattispecie elevatissimi poiché esponenti del mondo let-
terario essi stessi); così fa, mutatis mutandis, il Chiti surreale delle «cin-
que storie scellerate», riprodotte in bocca toscana, ma senza nessuna
concessione alla facile vernacolarità. Il teatro dunque offre ancora un
laboratorio linguistico in cui si può inventare, mescolare, pasticciare,
poiché proprio dentro il teatro «la parola vive di una doppia gloria»:
Bibliografia essenziale
Silvia Calamai